l e poesie burlesche d i anton maria borga - ti.ch · alice b. toklas in una foto del 1944 scattata...

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Pietro Montorfani A scadenze più o meno regolari le Edi- zioni dello Stato del Cantone Ticino aggiungono un nuovo tassello alla be- nemerita collana dei «Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana». Sarà che siamo oramai giunti al tredi- cesimo titolo, sarà che il colore e la for- ma (in taluni casi anche il contenuto) ricordano quelli dei mattoni di cotto, ma l’impressione, davanti allo scaffale della libreria, è di una casa che si vada costruendo pian piano; con al centro, sfuggente e misteriosa, radicata nel- la geografia eppure fluida nel tempo, la nostra identità di abitanti e di lettori delle terre italofone della regione alpina. Dopo gli esametri latini del ble- niese Giacomo Genora, che avevano inaugurato la collana nel 2004, e a cui hanno fatto seguito gli scritti lingui- stici di Carlo Salvioni, alcune opere di Soave, Chiesa e Franscini, per non dire dei carteggi del Ciceri o di Giam- pietro Riva, è ora la volta di un oscuro scrittore di versi burleschi, originario di Rasa nelle Centovalli, che risponde al nome di Anton Maria Borga, nato e morto ben lontano dai perimetri estre- mi del secolo diciottesimo (1722-76). La cura del volume, dotato di introduzio- ni, note e apparati degni di tale nome, è di Tano Nunnari, un giovane studioso ticinese – è insegnante al Liceo di Men- drisio – che già si era segnalato per acu- me e competenza, alcuni anni or sono, con un lavoro certosino attorno alle fonti storiche dei Promessi sposi. Nunnari cambia secolo ma non ab- bandona la sua proverbiale acribia e pri- ma di entrare nel merito dell’opera let- teraria (in realtà «dopo», perché la nota biografica è inspiegabilmente in fondo al volume) si tuffa in una ricerca archi- vistica per ricostruire le tappe dell’in- tricata vicenda terrena di Borga: dai na- tali ticinesi all’infanzia trascorsa in Val Brembana, poi il seminario a Bergamo e i primi soggiorni milanesi, infine la vita sofferta e maledetta di «curato di mon- tagna», tra Zogno, Cavernago e Lepreno in Val Serina. Firenze, Roma, Milano e Venezia, i centri della cultura d’allora, sono lontani anni luce, eppure dalle sue parrocchie d’alta quota Borga riesce con la sola forza della volontà, e un pizzico di sfacciataggine, a inserirsi nella società letteraria e a dialogare quasi alla pari con i massimi scrittori ed eruditi del tempo: Parini, Baretti, Serassi, i fratelli Gozzi. Letti oggi, i suoi versi «piacevoli» (burleschi, leggeri, non impegnati) pa- gano il dazio di un continuo occhieg- giare a diatribe letterarie morte e sepol- te, invecchiate presto e circoscritte a un genere comunque minore. Restano una notevole perizia e inventiva metrica, che fu sempre un suo vanto (sonettesse, madrigalesse, capitolesse), e soprattut- to la descrizione caustica, al limite dello sberleffo, della vita di parrocchia nelle valli bergamasche: «La mia prebenda è vicina alla Luna, / ed ha montagne e monti d’ogni parte: / la greggia è tutta nera, non che bruna, / [...] / Infra le don- ne non ce n’è pur una, / che non facesse abassar l’arme a Marte: / se le vedessi ti farian paura» (p. 31). Tolto un passaggio a Rasa nel 1744, per la morte della madre, i contatti di Borga con il Ticino paiono limitarsi alle visite della tipografia Agnelli, con cui stampò i suoi Versi piacevoli nel 1760 sotto il falso luogo di Amsterdam. Nonostante la fittizia attestazione di amicizia con lo stampatore, la vera ra- gione della destinazione luganese del manoscritto, in una terra più libera da censure, sarà da ricercare nei versi non del tutto ortodossi, specie nelle insistite descrizioni stereotipe di cui sono vitti- ma alcuni ordini religiosi («Se tu, lettor, se’ frate, all’altrui spese / possa tu viver sempre allegramente», p. 21; «Tene- te un po’ le mani / sul breviale, o frati, e andate in coro, / e lasciate i prussian pe’ fatti loro», p. 56). Alla fine, conti alla mano, si potrebbe riprodurre insomma anche per Borga, con pochi ritocchi, il giudizio espresso a suo tempo da Gio- vanni Orelli per un altro poeta «tici- nese» del Settecento, Giuseppe Fossati (1759-1811): «morcotese di origine, ma veneto per tutto il resto». Se Borga è potuto entrare, prima che in una sto- ria della letteratura bergamasca, in una collana ticinese è perché per secoli non ci si è chiesti chi fossero i «nostri» e chi i «loro», pacificamente consapevoli di essere tutti aggrappati (con le unghie e con i denti, nel nostro caso) al grande fiume della letteratura e cultura di lin- gua italiana. Bibliografia Anton Maria Borga. Alcuni versi piacevoli. Edizioni dello Stato del Cantone Ticino 2016. 279 pagine. Le poesie burlesche di Anton Maria Borga Editoria Ristampata, a cura di Tano Nunnari, un’edizione Agnelli del 1760 Immagine del frontespizio: l’edizione Agnelli riporta Amsterdam come luogo di stampa. (Repubblica e Cantone Ticino)

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Cultura e Spettacoli

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 maggio 2017 • N. 20

Una scrittrice a ParigiEditoria Torna in libreria Autobiografia di tutti, un diario in cui la scrittrice americana Gertrude Stein ritrae anche i famosi artisti che frequentavano il suo salotto

Mariarosa Mancuso

Per chi ha visto Midnight in Paris di Woody Allen, Gertrude Stein è la tozza signora con i capelli corti a cui Owen Wilson porta il manoscritto del suo romanzo, implorando una lettura e una perizia (l’attrice era Cathy Bates). Accadeva a Parigi, 27, Rue de Fleurus. Uno dei salotti letterari che sarebbe stato bello frequentare. Assieme al cir-colo londinese Bloomsbury, in Gordon Square: oltre a Virginia Woolf e a suo marito Leonard c’erano John Maynard Keynes con la ballerina russa sua mo-glie, Vanessa Bell, Lytton Strachey che scriverà Eminenti vittoriani (poi, con la mano sinistra, un raccontino scollac-ciato dal titolo Ermyntrude e Esmeral-da). Sarebbe stato bello passare qualche sera anche chez madame du Deffand, sempre a Parigi ma nel Settecento, tra gli ospiti anche Jean Jacques Rousseau (tra i due fu antipatia a prima vista, noi stiamo con la signora).

Prima di girare il film, Woody Al-len aveva scritto Memorie degli anni venti, riunito con altre piccole delizie in Saperla lunga. La vecchia tradu-zione era firmata Alberto Episcopi e Cathy Berberian, moglie di Luciano Berio; poi ha rifatto tutto il comico Daniele Luttazzi, ma noi restiamo af-fezionati alla prima versione, uscita quando Woody Allen non era famoso come oggi (lo scovò Umberto Eco, che nel 1973 lavorava alla Bompiani e fir-mò la prefazione).

In Midnight in Paris un cancello da varcarsi a mezzanotte conduce lo sce-neggiatore di Hollywood (in crisi e con ambizioni da romanziere, come tutti) negli anni venti della Lost Generation: americani espatriati, avanguardie ar-tistiche, tutti i sabati sera da Gertrude Stein. Lo pseudo-memoir alleniano – scritto da uno che potrebbe essere Fitzgerald, se non per il fatto di infila-

re i guantoni e fare a pugni con Ernest Hemingway che immancabilmente gli rompe il naso – si immagina in presa diretta. Come L’autobiografia di Alice Toklas, dove Gertrude Stein racconta la sua vita parigina nascondendosi dietro il nome dell’amante (e compagna, e se-gretaria, e musa, nonché editor e cuoca sopraffina: fecero conoscenza nel 1907, rimasero insieme quasi 40 anni, le ri-cette sono in I biscotti di Baudelaire, Bollati Boringhieri).

Woody Allen l’ha rievocata nel suo racconto Memorie degli anni venti e nel suo bel film Midnight in Paris

Autobiografia di tutti è il seguito. Subito notiamo l’impegno della scrittrice mo-dernista – «una rosa, è una rosa, è una rosa» risulta fascinoso quanto ostico – nello scardinare le certezze dell’au-tobiografia (un altro passetto lo farà Jamaica Kincaid con Autobiografia di mia madre). Di solito al modernismo si accoppia il flusso di coscienza, o mo-nologo interiore. Qui il monologo tan-to interiore non è: le pagine hanno il ritmo sincopato della chiacchiera, che qualche volta rende difficile la lettura. È il paradosso numero uno, quando si cerca la naturalezza: a furia di imitare la realtà, il disegno diventa incompren-sibile (capita spesso con i film in 3D).

Tradotto da Fernanda Pivano e ora riproposto da Nottetempo, Autobiogra-fia di tutti alterna pettegolezzi e fissa-zioni (anche cosmiche) alla cronaca di un ritorno negli Stati Uniti per un giro di conferenze, e non mancano un paio di storie su ombrelli smarriti. Gertrude Stein – a cui il pittore più tardi farà un celebre ritratto – racconta anche di Pi-

casso che medita di scrivere versi. E poi troviamo Charlie Chaplin, Thornton Wilder, Dashiell Hammett.

«A cosa serve essere giovani se si pensa da vecchi», diceva Gertrude Stein, instancabile sostenitrice oltre che di Picasso anche di Matisse (i due però non si intendevano moltissimo, capita quando hai un salotto troppo pieno di celebrità). Picasso porta con sé un dibattito sul carattere nazionale degli spagnoli – preventivamente preso in giro da Woody Allen, che fa il verso alla «rosa che è una rosa che è una rosa» inanellando tautologie e banalità.

La vera Gertrude Stein invece ri-pensa alla sua infanzia, senza trovarci nulla di infelice, al punto da chieder-si: «A che cosa serve avere qualcosa di

infelice?» (il fratello Leo, collezionista d’arte che per primo arrivò a Pari-gi, è meno apodittico al riguardo). È una delle sue frasi da Maria Antoniet-ta – non hanno pane? mangino brio-ches – pronunciate senza rispetto per il principio di non contraddizione: ora celebra l’avarizia, ora le gioie dello spendere.

Quanto ai giornali, dice che esa-gerano sempre: «le cose non sono così drammatiche quando si vivono» (porta come esempio le inondazioni).

Era davvero un’atleta della diva-gazione, e in una divagazione riesce in qualche modo a teorizzarlo: «A furia di stare attenti – scrive – siamo così con-centrati che di sicuro finiamo per in-ciampare».

La Stein (a destra) con la compagna Alice B. Toklas in una foto del 1944 scattata nel sud della Francia. (Keystone)

Pietro Montorfani

A scadenze più o meno regolari le Edi-zioni dello Stato del Cantone Ticino aggiungono un nuovo tassello alla be-nemerita collana dei «Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana». Sarà che siamo oramai giunti al tredi-cesimo titolo, sarà che il colore e la for-ma (in taluni casi anche il contenuto) ricordano quelli dei mattoni di cotto, ma l’impressione, davanti allo scaffale della libreria, è di una casa che si vada costruendo pian piano; con al centro, sfuggente e misteriosa, radicata nel-la geografia eppure fluida nel tempo, la nostra identità di abitanti e di lettori delle terre italofone della regione alpina.

Dopo gli esametri latini del ble-niese Giacomo Genora, che avevano inaugurato la collana nel 2004, e a cui hanno fatto seguito gli scritti lingui-stici di Carlo Salvioni, alcune opere di Soave, Chiesa e Franscini, per non dire dei carteggi del Ciceri o di Giam-pietro Riva, è ora la volta di un oscuro scrittore di versi burleschi, originario di Rasa nelle Centovalli, che risponde al nome di Anton Maria Borga, nato e morto ben lontano dai perimetri estre-mi del secolo diciottesimo (1722-76). La cura del volume, dotato di introduzio-ni, note e apparati degni di tale nome, è di Tano Nunnari, un giovane studioso ticinese – è insegnante al Liceo di Men-drisio – che già si era segnalato per acu-

me e competenza, alcuni anni or sono, con un lavoro certosino attorno alle fonti storiche dei Promessi sposi.

Nunnari cambia secolo ma non ab-bandona la sua proverbiale acribia e pri-ma di entrare nel merito dell’opera let-teraria (in realtà «dopo», perché la nota biografica è inspiegabilmente in fondo al volume) si tuffa in una ricerca archi-vistica per ricostruire le tappe dell’in-tricata vicenda terrena di Borga: dai na-tali ticinesi all’infanzia trascorsa in Val

Brembana, poi il seminario a Bergamo e i primi soggiorni milanesi, infine la vita sofferta e maledetta di «curato di mon-tagna», tra Zogno, Cavernago e Lepreno in Val Serina. Firenze, Roma, Milano e Venezia, i centri della cultura d’allora, sono lontani anni luce, eppure dalle sue parrocchie d’alta quota Borga riesce con la sola forza della volontà, e un pizzico di sfacciataggine, a inserirsi nella società letteraria e a dialogare quasi alla pari con i massimi scrittori ed eruditi del tempo: Parini, Baretti, Serassi, i fratelli Gozzi.

Letti oggi, i suoi versi «piacevoli» (burleschi, leggeri, non impegnati) pa-gano il dazio di un continuo occhieg-giare a diatribe letterarie morte e sepol-te, invecchiate presto e circoscritte a un genere comunque minore. Restano una notevole perizia e inventiva metrica, che fu sempre un suo vanto (sonettesse, madrigalesse, capitolesse), e soprattut-to la descrizione caustica, al limite dello sberleffo, della vita di parrocchia nelle valli bergamasche: «La mia prebenda è vicina alla Luna, / ed ha montagne e monti d’ogni parte: / la greggia è tutta nera, non che bruna, / [...] / Infra le don-ne non ce n’è pur una, / che non facesse abassar l’arme a Marte: / se le vedessi ti farian paura» (p. 31).

Tolto un passaggio a Rasa nel 1744, per la morte della madre, i contatti di Borga con il Ticino paiono limitarsi alle visite della tipografia Agnelli, con cui stampò i suoi Versi piacevoli nel

1760 sotto il falso luogo di Amsterdam. Nonostante la fittizia attestazione di amicizia con lo stampatore, la vera ra-gione della destinazione luganese del manoscritto, in una terra più libera da censure, sarà da ricercare nei versi non del tutto ortodossi, specie nelle insistite descrizioni stereotipe di cui sono vitti-ma alcuni ordini religiosi («Se tu, lettor, se’ frate, all’altrui spese / possa tu viver sempre allegramente», p. 21; «Tene-te un po’ le mani / sul breviale, o frati, e andate in coro, / e lasciate i prussian pe’ fatti loro», p. 56). Alla fine, conti alla mano, si potrebbe riprodurre insomma anche per Borga, con pochi ritocchi, il giudizio espresso a suo tempo da Gio-vanni Orelli per un altro poeta «tici-nese» del Settecento, Giuseppe Fossati (1759-1811): «morcotese di origine, ma veneto per tutto il resto». Se Borga è potuto entrare, prima che in una sto-ria della letteratura bergamasca, in una collana ticinese è perché per secoli non ci si è chiesti chi fossero i «nostri» e chi i «loro», pacificamente consapevoli di essere tutti aggrappati (con le unghie e con i denti, nel nostro caso) al grande fiume della letteratura e cultura di lin-gua italiana.

BibliografiaAnton Maria Borga. Alcuni versi piacevoli. Edizioni dello Stato del Cantone Ticino 2016. 279 pagine.

Le poesie burlesche di Anton Maria BorgaEditoria Ristampata, a cura di Tano Nunnari, un’edizione Agnelli del 1760

Immagine del frontespizio: l’edizione Agnelli riporta Amsterdam come luogo di stampa. (Repubblica e Cantone Ticino)

Giorgio Thoeni

«Era una notte buia e tempestosa…» È l’incipit dei romanzi battuti a macchina sul tetto della cuccia di Snoopy, il bra-chetto delle strisce di Charles M. Schulz. E l’atmosfera che Monica Guerritore ha creato per rileggere la commedia Mariti e mogli di Woody Allen in un certo sen-so sembra uscire dalle strisce di Peanuts. Con un umorismo tagliente, talvolta ci-nico, l’adattamento e la regia dell’attrice, anche protagonista in scena, rispolvera la pellicola di Allen del 1992, realizzata – manco a farlo apposta – nel pieno della crisi che avrebbe decretato la fine del suo matrimonio con Mia Farrow.

La trama ruota attorno a Jack e Sally che annunciano agli amici Judy e Gabe la decisione di separarsi. Con loro ci sono altri amici, comparse riunite nella sala di un ristorante dismesso che si trasforma in balera per accogliere le confessioni di coppie in crisi e amanti frettolosi mentre fuori infuria il tempo-rale. Emergono frustrazioni, sogni im-possibili, illusioni e ipocrisie con, ovvia-mente, quella dose di sesso subliminale che accompagna le ossessioni dell’au-tore di Io & Annie. E c’è anche musica, con gustosi momenti di danza colletti-va, numeri di swing e fox-trot sulle voci di Louis Armstrong e Etta James, come per esorcizzare la tragedia e ritrovare un improbabile affiatamento.

L’atmosfera che si respira è quel-la degli amati Strindberg e Bergman, i modelli fra cinema e teatro a cui Allen fa spesso riferimento per un suo «giro-

tondo» in bilico fra un piano d’ascolto nordico, schnitzleriano e mitteleuro-peo, e primi piani dai toni cechovia-ni. Con l’aggiunta, indispensabile, di dialoghi serrati, molto «americani». Il pregio dell’invenzione della Guerritore è anche quello di farci credere che tutto sia parte di un copione scritto per sor-prenderci, giocato su equilibri precari in cerca di lieto fine. Ma contrariamente ai Mariti e mogli in celluloide, con que-sta trasposizione teatrale si sorride di più. Con le intoccabili citazioni di Allen dei suoi «guru». Oltre agli autori già ci-tati ritroviamo Dostojevskij, Simone de Beauvoir, Yeats, Shelley, Kurosawa, Shakespeare… tutti all’ombra di Freud.

La danza delle tipologie di coppia e dei difficili rapporti coniugali è co-rollario per lo spegnimento di passioni e di ritrovate unioni: Jack e Sally ritro-veranno l’amore mentre a separarsi sa-ranno proprio Gabe e Judy. Molto bravi gli attori in scena e applauditi nelle due serate in cartellone al LAC. Con Moni-ca Guerritore (Sally) un’ottima Fran-cesca Reggiani (Judy), uscita dal cliché televisivo. Altrettanto bravi ed efficaci i comprimari Pietro Bontempo (Jack) e Antonio Zavattieri (Gabe). Completano il cast Alice Spisa, Enzo Curcurù, Lucil-la Mininno e Angelo Zampieri.

Una brava Guerritore in un triplo ruoloTeatro Il matrimonio sotto la lente di Woody Allen

Monica Guerritore e Pietro Bontempo.