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Caterina Cangià Lingue altre 1 Conoscerle e coltivarle

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Caterina Cangià

Lingue altre1

Conoscerle e coltivarle

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Da dove veniamo? È possibile tracciare retrospettivamente la linea ininterrotta del tempo che lega tutti gli uomini alla forma di vita pri-mitiva? È vero che solo i fossili sono i testimoni silenziosi degli eventi accaduti centinaia di milioni di anni fa? Perché è affascinante percor-rere il tempo a ritroso tentando di costruire la storia della vita sul pia-neta Terra e, con la storia della vita, la storia della comunicazione, del linguaggio, della cultura e delle lingue? La socializzazione è un prolun-gamento dell’evoluzione? È possibile che la teoria evolutiva si apra al Trascendente? A queste e ad altre domande del genere cerca di rispon-dere il capitolo: Le origini del linguaggio, della cultura e delle lingue, che lascia molte questioni aperte perché ogni scoperta paleontologica fa nascere dibattiti nel campo scientifico e nel campo filosofico-teologico metten-do in luce incertezze e forgiando nuove teorie. Obiettivo del capitolo è far percepire, nel viaggio a ritroso verso la storia dell’uomo e del pecu-liare dono del linguaggio, il fascino e lo stupore per la comunicazione, matrice del linguaggio, della cultura e di ogni lingua.

È alla paleoantropologia – scienza che studia i resti fossili dei tipi umani ormai estinti – che dobbiamo le conoscenze circa lo sviluppo dell’uomo:

«punto di arrivo di una serie di modificazioni avvenute su un ramo del tronco dei Primati e, nello stesso tempo, un punto di partenza per un nuovo corso evolutivo, soprattutto in forza di ciò che caratterizza e distingue l’uomo da ogni altro vivente: la cultura» (Facchini, 2006, p. 8).

Capitolo primo

Le origini del linguaggio,della cultura e delle lingue

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Capitolo primo - Le origini del linguaggio, della cultura e delle lingue

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Il termine ha origine greca (dal greco παλαiός, paleòs o vecchio, antico, ων, οντος forma del verbo essere, che è, e λόγος, lògos con il significato di verbo, parola, pensiero, discorso, perciò: “discorso sull’uomo del passato”) e designa quell’insieme di studi che si interessa di tre grandi ambiti: 1) del momento in cui la famiglia degli Ominidi ha iniziato a distinguersi dai non Ominidi; 2) dell’evoluzione degli Ominidi; 3) del-la comparsa dei tratti anatomici caratteristici dell’essere umano mo-derno. Per approfondire questi ambiti di ricerca la paleoantropologia si avvale anche delle scoperte che vengono fatte in altre discipline quali l’archeologia, la paleobotanica, la paleontologia, la paleodemo-grafia e la paleoecologia fra le principali. Ognuna di queste meritereb-be un approfondimento.

1. Il percorso evolutivo che ha portato a Homo sapiens sapiens

Il percorso dell’umanità che ha portato alle numerosissime produ-zioni linguistiche e culturali che oggi conosciamo è ricco di sorprese. La preparazione dell’ambiente fisico che avrebbe ospitato, molto tempo dopo, l’uomo, inizia almeno 17-20 milioni di anni fa, con il ponte che si stabilisce tra Africa e Asia in corrispondenza dell’Arabia con la forma-zione della valle del Rift1 africano, ovvero di quella grande spaccatura longitudinale che si è formata nelle regioni orientali collegandosi a una precedente spaccatura in senso Ovest-Est nel golfo di Aden. Qual è sta-ta la conseguenza di questi fenomeni? Lo scivolamento della cosiddet-ta piattaforma afro-arabica verso il continente eurasiatico con la felice conseguenza della formazione di un ponte di terra che ha consentito il passaggio di fauna dall’Africa all’Eurasia (Facchini, 2008).

1 La Rift Valley o Great Rift Valley o Grande Fossa Tettonica è una vasta formazione geografica e geologica che si estende per circa 6.400 km in direzione Nord-Sud della circonferenza terrestre, dal nord della Siria (Sud-Ovest dell’Asia) al centro del Mozam-bico (est dell’Africa). La valle varia in larghezza dai 30 ai 100 km e in profondità da qualche centinaio a migliaia di metri.

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Il percorso evolutivo che ha portato a Homo sapiens sapiens

La seconda tappa di questa lontana preparazione dell’ambiente fisico, che avrebbe ospitato forme primitive di Homo, risale a 6-7 milioni di anni fa. In quell’epoca, l’ambiente africano a ovest della valle del Rift era forestale mentre a est era aperto, di savana o prateria, a motivo delle minori precipitazioni (Coppens, 1988)2. Così, mentre a ovest l’ambiente forestale ha favorito l’evoluzione delle Antropomorfe che si potevano spostare per brachiazione nelle foreste, a est l’ambiente aperto è stato favorevole al bipedismo, modalità di locomozione degli Ominidi. Le condizioni per la comparsa del genere Homo sembrano dunque presenti. I mutamenti geologici avvenuti in questa zona, in-fatti, potrebbero aver determinato una divisione geografica tra “Omi-nidi” e “Panidi”, per cui i resti dei secondi si trovano solo a ovest della spaccatura, mentre i primi si riscontrano a est della stessa. Sarebbe avvenuta, cioè, una speciazione geografica: se i Panidi hanno visto il loro habitat mantenersi inalterato, per gli Ominidi l’area di sopravvi-venza muta repentinamente lasciando il posto alle aperte distese della savana (Facchini, 2008; Wood3, 2005; Coppens, 1988).

1.1. Gli Ominoidei vicini alla divergenza tra la linea delle Antropomorfee degli Ominidi

Sahelanthropus, Orrorin tugenensis e Ardipithecus kadabba sono gli Ominoidei più vicini alla divergenza tra la linea che ha portato alle Antropomorfe e quella degli Ominidi. I primi e i secondi risalgono a 6-7 milioni di anni fa mentre i terzi risalgono a 6 milioni di anni fa. A questo riguardo, non tutti gli autori sono dello stesso parere perché, mentre Facchini (2008) fa risalire Sahelanthropus e Orrorin tra

2 Si riporta l’anno dell’edizione italiana consultata, in quanto è una raccolta di tre articoli dell’Autore: Le cerveau des hommes fossiles; Hominoïdés et hommes; Évolution de l’homme. Tali contributi sono stati pubblicati in «Comptes rendus» de l’Académie des Sciences rispettivamente negli anni 1981; 1984; 1986 (cfr. bibliografia).

3 Si riporta l’anno dell’edizione italiana consultata, in quanto non vengono ripor-tati all’interno del testo consultato né il titolo né l’anno di pubblicazione dell’edizione originale (cfr. bibliografia).

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i 6 e i 7 milioni di anni fa, Wood (2005) colloca Orrorin a 6 milioni di anni fa e Ardipithecus kadabba tra i 4 e i 4,5 milioni di anni fa e colloca Ardipithecus ramidus nel gruppo facendolo risalire tra i 4 e i 4,5 milioni di anni fa. Infatti le controversie sull’appartenenza dei reperti trovati agli Ominoidei vicini alla divergenza sono molteplici poiché alcuni studiosi rintracciano nelle ossa le similitudini, mentre altri sottoli-neano le differenze. A partire dalle scoperte effettuate nel decennio 2000-2010 sembra, però, che tra i quattro contendenti, quelli che più probabilmente appartengono al clade degli Ominoidei siano Sahelan-thropus e Ardipithecus ramidus (Wood, 2005).

Anche se gli studi effettuati su questi resti fossili hanno messo in luce caratteristiche anatomiche e comportamentali che legano Ardi-pithecus molto più ai primati non umani che al genere Homo, emerge comunque una continuità filogenetica che rende questo Ominide un nostro diretto antenato. In particolare, Ardipithecus ramidus è stato og-getto di molte attenzioni dovute a un ritrovamento avvenuto nel 2009. A questa specie appartiene uno scheletro femminile scoperto nel 2009, ribattezzato “Ardi”, di cui è stata data notizia nel numero speciale del 2 ottobre della rivista Science che propone undici articoli sul ritrovamento. Ardi, alta 120 cm e con un peso di circa 50 Kg, è una nostra progeni-trice onnivora che si arrampicava sugli alberi, ma che aveva soprattutto già conquistato la stazione eretta, uno dei primi grandi cambiamenti che hanno determinato l’evoluzione che ha portato a Homo.

1.2. Le forme australopitecine

Australopithecus afarensis camminava, come Ardipithecus ramidus, in po-sizione eretta: lo sappiamo grazie al ritrovamento a Hadar, nella regione etiope di Afar, lungo la formazione geologica che si estende per circa 6.400 Km – la citata Rift Valley o Valle del Rift –, di alcuni resti fossili di individui appartenenti a questa specie. Particolarmente nota è la vicen-da che ha portato al ritrovamento dello scheletro di “Lucy”, esemplare adulto di donna che calpestava questa parte del suolo africano più o meno 3 milioni di anni fa. Alla fine del novembre del 1974, Donald Johanson, Yves Coppens, Maurice Taieb e Tom Gray hanno fatto tor-

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Il percorso evolutivo che ha portato a Homo sapiens sapiens

nare alla luce la struttura ossea di questo Ominide, completa per il 40%. Dall’analisi delle proporzioni corporee, ovvero della lunghezza degli arti e del tronco, emerge che questa nostra antenata era bipede, ma che aveva anche la possibilità di arrampicarsi sugli alberi con facilità (Fac-chini, 2008, 2006; Johanson - Edey, 1981). Hanno confermato questo dato anche le scoperte successive, tra cui spicca quella iniziata nel 2000 e portata avanti per alcuni anni e poi divulgata nel settembre 2006 sulla rivista Nature, che ha portato al ritrovamento di Selam, dall’aramaico “pace”, che alla sua morte aveva soli tre anni. È lo scheletro infantile più antico finora ritrovato. Selam è stata erroneamente ribattezzata la “figlia di Lucy”, ma le sue ossa rivelano che, in realtà, è vissuta ben pri-ma della sua “madre adottiva”, in un periodo che risale a 3,3 milioni di anni fa (Alemseged et al., 2006).

Gli Australopiteci sono vissuti per un lungo arco di tempo nella savana africana e si sono portati sia a ovest sia nell’Africa del Sud, ma si sono estinti intorno a 1,5 milioni di anni fa, periodo in cui si sono affermate le forme del genere Homo abilis, Homo rudolfensis e Homo ergaster.

Resta comunque da dire con Facchini (2008) che le Australopitecine sono paragonabili ai rami di un cespuglio con difficili connessioni da stabilire per almeno due motivi: il primo è costituito dalla frammenta-rietà dei reperti e il secondo dalla collocazione degli stessi in un arco di tempo di almeno 4 milioni di anni.

1.3. Il genere Homo

Altra grande tappa nel percorso evolutivo che ha portato alla com-parsa dell’uomo come lo conosciamo oggi, ovvero Homo sapiens sapiens, è rappresentata da Homo habilis, da Homo erectus e da Homo sapiens. Va detto, con Facchini (2008), che la successione nel tempo è solo a gran-di linee perché si notano differenze nei tre raggruppamenti nei diversi continenti che fanno supporre intersezioni e sovrapposizioni e va an-che chiarito, sempre secondo l’Autore citato, che è indispensabile molta cautela nell’uso della nomenclatura tassonomica perché «le differenze che si osservano nel tempo potrebbero corrispondere più a variazio-

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ni morfologiche o di grado che a vere specie» (Facchini, 2008, p. 31). Reperti di Homo abilis sono stati ritrovati nel 1963 a Olduvai, nella pia-nura di Serengeti, nel nord della Tanzania, insieme a ciottoli taglienti (choppers) realizzati mediante l’asportazione di alcune schegge da polie-dri, pezzi sferoidali e schegge ritoccate da un lato o da entrambi i lati Leakey - Tobias - Napier, 1964). Questa specie, vissuta più o meno fra 1,4 e 2 milioni di anni fa, poteva avere una vita sociale già strutturata, con gruppi formati da quindici-venti individui che vivevano in luoghi fissi per alcuni mesi prima di spostarsi. Erano forse già in grado di costruirsi dei piccoli ripari e, probabilmente, c’era già una differenzia-zione nelle attività svolte da uomini e donne: i primi probabilmente cacciavano, le seconde erano più dedite alla raccolta di piante e frutta (Facchini, 2008, 2006; Coppens4, 1988).

Homo ergaster è la forma più antica di erectus in Africa. Resti di ergaster sono stati scoperti nel Kenya settentrionale e risalgono a circa 2 mi-lioni di anni fa. Non tutti gli studiosi concordano nell’affermare che appartengano a questa specie e li ritengono piuttosto riconducibili a una forma arcaica di Homo erectus. La struttura anatomica di ergaster, con mandibola, mascella e denti più piccoli rispetto al corpo, in confronto fa pensare che seguisse una dieta diversa oppure che fosse in grado di ammorbidire il cibo con l’uso del fuoco. Non vi è la certezza che fosse in grado di accenderlo da solo, probabilmente aveva imparato a sfruttare le occasioni in cui esso si generava naturalmente. È probabile che alcuni adulti continuassero ancora ad arrampicarsi sugli alberi per raccogliere la frutta, ma è plausibile ritenere che ergaster avesse uno stile di vita legato al suolo, avendo gambe troppo lunghe e braccia troppo corte per spo-starsi agevolmente utilizzando i rami degli alberi (Wood, 2005).

È vissuto tra 1,3 e 1,8 milioni di anni fa, invece, erectus il cui primo ri-trovamento è avvenuto nel 1891, nell’isola di Giava, per opera di Eugè-ne Dubois (de Lumley5, 1985). Sembra che egli abbia sostanzialmente

4 Cfr. nota 2.5 Si riporta l’anno dell’edizione italiana consultata, in quanto non viene riportato, nel-

la seconda di copertina, l’anno di pubblicazione dell’edizione originale (cfr. bibliografia).

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Il percorso evolutivo che ha portato a Homo sapiens sapiens

mantenuto le abitudini di vita già riscontrate in Homo abilis e che la sua esistenza fosse di tipo nomade: la necessità di sfamare i gruppi, formati da un numero discreto d’individui, richiedeva di seguire gli spostamenti delle prede o di cercare regioni di caccia in cui non ci fosse troppa competizione. Homo erectus ha iniziato a colonizzare il mondo anche al di fuori dell’Africa. Sono stati ritrovati i suoi resti in numerosi siti sia dell’Europa che dell’Asia (Facchini, 2008). Il volume della cavità cra-nica di erectus varia da circa 730 cm3 fino a 1.250 cm3 e l’Homo doveva essere dotato di una buona abilità manuale, data la capacità di costruire asce (Wood, 2005). Infatti andrebbe analizzata la presenza di erectus in Asia, in Africa e in Europa (Facchini, 2008, pp. 34-44).

Homo heidelbergensis prende il nome da Heidelberg, in Germania, luogo di ritrovamento, nel 1908, di una mandibola appartenente a fossili umani presenti sulla Terra da più o meno 600 mila anni. Altri fossili sono stati rin-venuti in Africa e gli studiosi sono riusciti a stabilire che l’Ominide dovesse avere un volume cranico che si aggirava intorno ai 1200 cm3 (Wood, 2005).

Tra 30 mila e 100 mila anni fa (Wood, 2005) o 35.000 e 13.000 secon-do Facchini (2008) compare Homo neanderthalensis, i cui resti sono stati ritrovati nel 1856 da Johann Fuhlrott (Johanson - Edey, 1981) nella valle di Neander, in Germania. L’uomo di Neanderthal sembra comparire in Eu-ropa a partire da forme di vita umana precedenti (Homo sapiens arcaico). La sua capacità cranica oscilla tra i 1.300 cm3 e i 1.625 cm3, ha la fronte sfuggente e presenta una fusione completa delle arcate sopracciliari e sopraorbitarie (Facchini, 2008, 2006). Il motivo per cui sono arrivati fino a noi molteplici fossili appartenenti a questa specie è che era diffusa all’interno della società dei neanderthalensis la pratica di seppellire i morti e di celebrare riti funerari. Sia Homo heidelbergensis che Homo neanderthalensis vengono ritenuti da alcuni studiosi paleosottospecie dei sapiens, mentre altri non le ritengono tali.

1.4. L’umanità moderna

Le radici di Homo sapiens sapiens si trovano in Homo erectus, precisamen-te in Africa. Difatti, caratteristiche delle ossa della faccia e della fronte sembrano annunciare Homo sapiens in resti trovati in Rhodesia e risalenti

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a circa 200.000 anni fa. Da circa 160.000 anni a questa parte, si ricono-scono aspetti ormai moderni: a Hidaltu, in Etiopia; nella valle del fiume Omo e a Laetoli, in Tanzania (100.000-120.000 anni fa); a Border Cave, tra il Sudafrica e lo Swaziland (40.000-100.000 anni fa); fino ai resti tro-vati a Djebel Irhound nel Maghreb, a nord del Sahara (40.000 anni fa) (Facchini, 2008).

È da notare che intorno ai 100.000-150.000 anni fa, rappresentanti di questa umanità si sono spostati in Eurasia dove sono stati trovati re-perti di Homo sapiens sapiens arcaico in varie località, vicino a Nazaret e sul Monte Carmelo. Accanto ai resti di questo Homo, sono stati trovati reperti che testimoniano la presenza di una rudimentale tecnologia e simbolismo. Dal Medio Oriente Homo sapiens si diffonde a ovest nelle regioni orientali dell’Europa e poi in tutto il territorio europeo e, a est, nelle regioni dell’Asia. Molti reperti, dislocati nei diversi continenti, rac-contano della migrazione che ha portato Homo sapiens in tutte le regioni della terra, attraverso diverse ondate migratorie. In Europa si conoscono l’Uomo di Cro-Magnon, l’Uomo di Combe Capelle e l’Uomo di Chan-cedale che sono variabilità all’interno della stessa specie (Facchini, 2008).

Le caratteristiche anatomiche rivelano una capacità cranica attestata intorno ai 1.400 cm3, il frontale è elevato e la volta cranica alta, con la mandibola dotata di mento (McDougall - Brown - Fleagle, 2005). Esi-stono due ipotesi principali sull’evoluzione dell’essere umano: la prima, detta ipotesi dell’evoluzione africana recente, vede il continente africano come la culla in cui si sono formati gli uomini e le donne moderni. Da qui sarebbe poi seguita una migrazione che avrebbe coinvolto tutto il mondo. La seconda, detta ipotesi multiregionale, sostiene che l’evoluzione abbia avuto luogo a partire da popolazioni indipendenti. È la genetica a consigliare di propendere per la prima delle due ipotesi, grazie alle ricerche eseguite sul dna mitocondriale. A differenza del dna presen-te nel nucleo della cellula, quello del mitocondrio – organulo situato nel citoplasma delle cellule – viene trasmesso solo attraverso gli ovuli femminili. A partire dagli individui che popolano il pianeta oggi, i gene-tisti “storici” sono riusciti a risalire, attraverso la linea delle “mamme” ai nostri antenati comuni (Pakendorf - Stoneking, 2005; Cann - Stone-king - Wilson, 1987). La tesi dell’evoluzione africana recente è oggi nota con il nome di teoria dell’Eva africana o Eva micotocondriale, a indicare quel

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primo gruppo di popolazione umana – compresa probabilmente tra i 10.000 e i 50.000 individui – che ha fatto la sua apparizione sulla terra tra 155.000 e 188.000 anni fa (Anolli, 2004). Recenti studi condotti sul cromosoma Y hanno confermato i dati già emersi durante l’analisi del dna mitocondriale: su 27 varianti del cromosoma Y, 21 si sono originate in Africa (Wood, 2005). Lungo e tortuoso il cammino dell’umanità, di cui conosciamo solo parte della storia. Facchini riporta gli autori e le ipo-tesi da loro formulate, nel suo testo del 2008. La sequenza filogenetica degli Ominidi non trova ancora consenso fra gli specialisti. Quali sono le conquiste evolutive che hanno permesso all’uomo di sviluppare quelle caratteristiche peculiari che lo rendono tanto complesso e intelligente?

Figura 1 - Quale antenato per Homo sapiens?

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2. Le conquiste che hanno consentito l’evoluzione

L’evoluzione che ha portato all’uomo è avvenuta grazie alla conquista di alcune caratteristiche fisiologiche che hanno determinato anche un cambiamento nello stile di vita e nell’organizzazione sociale. Il primo a proporre una teoria basata sul concetto di evoluzione è stato Charles Darwin, che ebbe modo di condurre numerosi studi sul campo durante i suoi viaggi sul Beagle. Il naturalista inglese notò come all’interno di una stessa specie gli individui fossero dotati di caratteristiche peculiari che potevano favorire od ostacolare l’adattamento ambientale. Una sfuma-tura di colore, una forma leggermente diversa del becco: qualsiasi indi-viduo ha in sé un cambiamento che lo rende in minima parte differente dagli altri. Se queste piccole mutazioni sono positive ai fini dell’adatta-mento al proprio habitat, allora determinano una percentuale più elevata di sopravvivenza negli individui che le possiedono rispetto a quelli che ne sono sprovvisti. È quella che viene definita legge della selezione naturale, che agisce in modo da favorire la diffusione dei caratteri che preservano la specie dall’estinzione. Gli individui che hanno determinate caratteristi-che non solo vivono più a lungo, ma hanno anche maggiori possibilità di riprodursi e, quindi, di trasmettere i propri tratti “vincenti” (Darwin - Co-sta, 2009). Quali sono, allora, i cambiamenti evolutivi che hanno portato all’uomo così come è oggi?

2.1. La conquista della stazione eretta

Molteplici i vantaggi derivanti dall’essere bipedi: muoversi più velo-cemente nella savana avendo la possibilità di tenere sotto controllo gli eventuali pericoli, ma anche poter trasportare il cibo raccolto o i pro-pri piccoli. Questo cambiamento, però, non è da considerarsi semplice. Sembra che, a partire dall’Ardipithecus descritto, fino a Homo sapiens, ci sia voluto molto tempo per assumere la stazione eretta. Stare in piedi sugli arti inferiori senza appoggio, non in modo occasionale e transitorio, ma abituale e persistente è stato un punto d’arrivo. Se pensiamo a quanto sia ridotta la superficie della pianta del piede rispetto a quella dell’intero cor-po e a quanto lo stare eretti vada contro la forza di gravità, ci rendiamo

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Le conquiste che hanno consentito l’evoluzione

conto di quanto sforzo evolutivo ci sia dietro tale conquista. La caratte-rizzazione del bipedismo suppone una bozza di “progetto superiore”?

A livello fisiologico, lo stare in piedi determina anche una specializ-zazione degli arti stessi: il piede diventa efficace per la marcia, le mani divengono abili nella presa e nell’esecuzione di azioni tecniche. La stessa capacità di fabbricare utensili è legata alla libertà acquisita dalla mano che non deve più essere veicolo di locomozione, ma si può dedicare ad altro, ed è soprattutto legata a un’altra grande conquista: l’opponibilità del polli-ce rispetto alle restanti dita della mano e al palmo. L’uomo ora non è solo capace di afferrare con forza, ma anche di attuare prese di precisione.

2.2. L’aumento del quoziente di encefalizzazione e la crescita delle funzionidel cervello

Il quoziente di encefalizzazione è il rapporto tra le dimensioni del cer-vello dell’uomo rispetto a quelle di un animale (ad esempio la scimmia) che abbia il medesimo peso. Se esso era, per le forme ancestrali di evolu-zione di specie del genere Homo, pari a 3,1, per l’uomo contemporaneo esso raggiunge il valore di 5,8. Non è importante solo il fatto che il volu-me del cervello si sia accresciuto fino a raggiungere i 1.400 cm3, quanto, piuttosto, l’accrescimento della superficie neocorticale che occupa, nel nostro cervello, circa il 70%-80% del totale. Ciò che conta è la “parte residuale” del cervello che, rispetto alle dimensioni del corpo, può essere “dedicata” allo sviluppo delle funzioni mentali superiori. Questo sviluppo esponen-ziale dell’encefalo ha avuto inizio circa 150.000 anni fa (Facchini, 2008, 2006) quindi, probabilmente dalla comparsa di Homo sapiens.

2.3. L’ovulazione nascosta

Alcuni Autori presentano, fra le conquiste che hanno consentito l’evoluzione, l’ovulazione nascosta e la perdita dell’estro nella femmina. Di questo però è impossibile avere prove, si opera solo per confronto con primati viventi. Si suppone però che sia avvenuta. La mancanza di certezza è data dall’assenza di dati fisiologici, mentre per gli studi paleo-antropologici ci si basa su reperti scheletrici. È vero però che la conqui-

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sta della stazione eretta potrebbe essere collegata all’ovulazione nascosta nella femmina, o non evidente per il partner di sesso opposto. Alcuni studi (Wagener, 2006) tendono a rivalutare questa tesi e a distinguere tra ovulazione nascosta e perdita dell’estro. La scomparsa del richiamo ses-suale esplicito, trasmesso attraverso comportamenti evidenti come odori e modificazioni corporee, è stata determinante perché fossero poste le basi per legami familiari più stabili. Questo adattamento evolutivo de-termina la scomparsa di quella pratica che vede l’infanticidio da parte del maschio dominante per assicurarsi che la prole sia effettivamente la propria; infatti nella specie umana scompare la “certezza” della paternità (teoria dei molti padri). D’altro canto, si viene in questo modo a determinare una condizione di attrazione che va oltre il semplice atto riproduttivo. I legami di coppia divengono più saldi e l’uomo viene coinvolto nell’alleva-mento dei figli. Da uno studio condotto su 68 specie di primati è emerso che la mancanza dei segnali di ovulazione è un fattore importante affin-ché emerga la monogamia (Diamond, 1997).

2.4. I cambiamenti dell’apparato vocale

C’è stato poi un altro cambiamento – epocale – che avrebbe potuto avere effetti disastrosi sulla specie, ma che ha determinato, invece, la nascita del linguaggio. Viene fatto riferimento, qui, ai mutamenti di cui è stato protagonista il nostro apparato respiratorio superiore, in parti-colare la posizione della laringe che influisce in modo determinante sul modo in cui respiriamo, deglutiamo e comunichiamo. C’è una configu-razione anatomica che Laitman (1993, 1985) e, recentemente, Laitman e Reidenberg (2009) definiscono fondamentale perché è caratteristica di tutti i mammiferi a tutti gli stadi di sviluppo e c’è, poi, quella con-formazione che è tipica delle persone adulte. Negli animali, la laringe si trova nella parte alta del collo: questo le consente di chiudere il ri-nofaringe e di sovrapporsi al palato molle con l’epiglottide. Grazie al citato meccanismo, gli animali sono in grado di respirare e deglutire contemporaneamente, ma la gamma di suoni che possono produrre è estremamente ridotta. Ciò avviene perché la posizione della laringe influisce sulle dimensioni della faringe che si trova poco sopra: è la fa-

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Le conquiste che hanno consentito l’evoluzione

ringe che ha il compito di modulare i suoni e negli animali la sua esten-sione è ridotta. Cosa accade, invece, negli umani? Dipende dall’età. Per i neonati e i bambini fino a 18-24 mesi, le analogie con l’apparato re-spiratorio degli altri mammiferi sono sorprendenti. Dal secondo anno di vita circa, la laringe inizia a scendere e il modo in cui il bambino respira, deglutisce e produce suoni cambia completamente. Ecco allora che nell’uomo adulto la laringe viene a trovarsi più in basso rispetto a quanto avviene negli altri mammiferi. L’epiglottide, a questo punto, non può più arrivare a chiudere la parte posteriore della cavità nasale e i canali digerente e respiratorio non sono più separati. Per questo mo-tivo, tale cambiamento poteva non essere vantaggioso per la specie: a ogni boccone l’uomo rischiava di soffocare; ma lo spazio che la laringe lascia alla faringe sopra le corde vocali è più ampio e fa di quest’ultima un ottimo strumento di modulazione dei suoni che la faringe emette. Ecco perché siamo in grado di produrre suoni complessi e articolati che chiamiamo “linguaggio”.

Dagli studi dei fossili si è giunti a ritenere che, probabilmente, il primo a subire un abbassamento della laringe sia stato Homo erectus, anche se la sua conformazione anatomica, pur consentendo una comunicazione più articolata, non era paragonabile a quella dell’uomo contemporaneo. Per questo dobbiamo aspettare che Homo sapiens faccia il suo ingresso nel mondo (Laitman, 1993, 1985).

Figura 2 - Sezione sagittale della testa e del collo di scimpanzè(a sinistra) e di uomo adulto (a destra)

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3. Quando e come si è evoluto il linguaggio?

Nello studio sulle origini del linguaggio c’è una certa concordanza tra gli studiosi nello stabilire il terminus ante quem rispetto al suo uso da parte di Homo sapiens. Gli aborigeni australiani sono emigrati dall’Asia verso l’Australia circa 40-60.000 anni fa e sono vissuti isolati da quel momento fino ai nostri giorni: questa popolazione possiede una pro-pria lingua, quindi, possiamo dedurre che intorno ai 40-60.000 anni fa il linguaggio fosse già sviluppato. Più complesso, invece, è definire da quando l’essere umano ha iniziato a utilizzare il linguaggio, ovvero il terminus post quem (Anolli, 2006).

Come si è già osservato attraverso l’analisi dell’apparato respiratorio umano, le prime modifiche si verificano al tempo di Homo erectus, ma non sono tali da consentire una comunicazione basata sul linguaggio vero e proprio. Homo neanderthalensis, d’altro canto, sembra allontanarsi dalla nostra configurazione (Laitman, 1993, 1985). Come attesta Fac-chini (2008, 2006), probabilmente solo con la forma moderna di Homo sapiens sapiens si può parlare di linguaggio vero e proprio nell’uomo per-ché l’apparato fonatorio, a questo stadio dell’evoluzione, ha assunto la configurazione più moderna e si è verificata la concomitanza di tre condizioni: la prima riguarda lo sviluppo delle strutture anatomiche per la fonazione, la seconda lo sviluppo dei centri nervosi per regolare i suoni e la terza riguarda lo sviluppo dei centri nervosi per operare l’integrazione fra suoni e simboli. Facchini mette in guardia perché le osservazioni da fare non sono state sempre possibili dato che i reperti di Homo abilis sono mancanti della base cranica:

«Il calco endocranico di Homo abilis rivelerebbe un certo sviluppo delle aree di Broca e di Wernicke relative al linguaggio articolato. La prima, deputata ai muscoli necessari alla fonazione, la seconda alla comprensione dei suoni e delle parole. Con ciò non si può dimostrare che Homo abilis parlasse, ma si può ritenere che avesse le basi neurologiche del linguaggio (secondo Tobias)» (Facchini, 2006, p. 146).

Se Anolli (2006) fa risalire la presenza del linguaggio a 150.000 anni fa, Facchini (2006), riportando studi di Toth e Schick del 1993, mostra

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come una correlazione tra lo sviluppo dell’area di Broca situata nell’emi-sfero cerebrale sinistro e l’abilità di costruire strumenti con la mano de-stra si suppone già in Homo abilis e Homo erectus e come analisi fatte su in-dustrie dell’Olduvaiano evoluto, che potrebbero risalire a 1,4-1,9 milioni di anni fa, indicano l’uso preferenziale della mano destra.

Ma com’è nato il linguaggio? I tentativi di rispondere a questo interro-gativo hanno determinato lo sviluppo di diverse teorie6 che vengono qui presentate in sintesi. Prima di ogni teoria, dato che il simbolismo non na-sce con Homo sapiens – difatti già con i Neandertaliani si notano manifesta-zioni di simbolismo quali denti perforati, collane, ecc. – e data soprattutto la presenza di espressioni culturali come i choppers e gli affreschi sulle pareti delle grotte, si può affermare che una qualche forma di linguaggio sia antica quanto l’uomo (Facchini, 2008). Un linguaggio senz’altro semplicis-simo, fatto di fonemi e accompagnato da gesti, ma comunicativo proprio per il significato con valore simbolico che avevano i suoni e i gesti. Un significato con forza propulsiva per trasmettere cultura e per progredire.

3.1. Teoria della discontinuità

Secondo Chomsky (1988) l’essere umano è dotato di una specializza-zione cognitiva detta grammatica universale (gu). È grazie a questo “disposi-tivo” che il bambino sarebbe in grado di apprendere la lingua in maniera efficace. La gu sarebbe distinta dal resto delle abilità cognitive e sarebbe codificata nei geni che attendono alla formazione della struttura nervosa del nostro cervello. Per spiegare il linguaggio dobbiamo, quindi, andare a cercare nella fisiologia e nella chimica dell’organismo umano e non spa-ziare in possibili evoluzioni da sistemi di comunicazione precedenti. Al massimo, è possibile accettare che la selezione naturale abbia influito su una serie scollegata di elementi e abbia determinato in maniera del tutto accidentale la formazione della gu. Il linguaggio, quindi, sarebbe apparso all’improvviso, attraverso un cambiamento genetico unico.

6 Viene ripresa, in questo contesto, la sistematizzazione di Anolli (2006), con ar-ricchimenti e approfondimenti.

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Capitolo primo - Le origini del linguaggio, della cultura e delle lingue

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Negli ultimi anni si è riacceso il dibattito circa la consistenza della teoria chomskiana in seguito alla scoperta del cosiddetto “gene del linguaggio”. Il suo nome tecnico è foxp2 (Forkhead box protein P2) e la sua correlazione con la capacità tutta umana di parlare è stata messa in evidenza dalla grave patologia linguistica che può determinare una sua mutazione. Sembra tuttavia precoce parlare di un unico gene che attende alle capacità linguistiche: il gene foxp2, locato nel cromosoma 7 è, infatti, solo un regolatore della quantità di proteine necessaria per far sì che i diversi tessuti umani si specializzino sia a livello struttu-rale che funzionale7. Esso interviene durante il periodo di embrioge-nesi delle cellule cerebrali e codifica programmi di trascrizione non solo per le cellule che contribuiranno a determinare le competenze di articolazione della parola, ma anche quelle di cuore, polmoni e intestino. La ragione per cui la mutazione agisce solo a livello del linguaggio deve ricercarsi nel fatto che essa colpisce solo una copia8 del foxp2, che mantiene inalterate le altre funzioni vitali, ma determi-na difficoltà nella corretta articolazione delle parole in chi è affetto da tale patologia. Va d’altro canto osservato che il gene foxp2, pur non essendo una prerogativa solo umana – si trova, infatti, sia negli scimpanzé quanto nei topi – presenta negli esseri umani una struttura amminoacidica differente da tutti gli altri esseri viventi: esso, cioè, si è evoluto nel tempo. Il foxp2 sembra giocare, quindi, un ruolo im-portante all’interno della formazione delle strutture che sottendono all’articolazione del linguaggio. Sembra però eccessivo parlare di gene del linguaggio, sia perché i geni interagiscono tra di loro, sia perché quello che accade dalla formazione delle strutture alla stabilizzazione delle funzioni cerebrali di tipo cognitivo non ha nulla a che fare con i geni (Falzone, 2006).

7 Cfr. G.F. Marcus - S.E. Fisher, foxp2 in focus: what can genes tell us about speech and language?, in «Trends in Cognitive Sciences», 7 (2003), 6, pp. 257-262; D. Richmond - G. Perrella, foxp2 e la parola, 2007, pp. 1-11; A. Pennisi - P. Perconti, Le scienze cognitive del linguaggio, il Mulino, Bologna 2006.

8 Il nostro corredo cromosomico ha natura diploide, cioè possediamo due copie per ogni gene (Falzone, 2006).

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3.2. Ipotesi del protolinguaggio

I lavori di Bickerton sostengono l’ipotesi del bioprogramma del lin-guaggio che afferma come la creolizzazione del pidgin operata dai bam-bini avvenga sulla base di un programma innato, a conforto delle teorie chomskiane. Bickerton (Bickerton, 2009; Bickerton - Calvin, 2000) pro-pone la teoria del protolinguaggio, in cui tenta di mettere d’accordo la visione chomskiana con quella darwiniana. Come funziona il passaggio linguistico dal pidgin, o protoliguaggio di contatto, al creolo, o sviluppo spontaneo, che sfocia in una lingua molto potente? Perché le diverse lin-gue creole nate da pidgin diversi hanno omogeneità strutturale? Bickerton risponde: esiste nell’uomo una predisposizione biologicamente determi-nata che fornisce a una lingua la sua forma e la sua struttura. Le forme primitive di linguaggio possedute da Homo erectus sarebbero consistite in poche parole comprensibili solo grazie al contesto di riferimento, in cui non si poteva rintracciare un’organizzazione grammaticale vera e pro-pria. A un certo punto, nel periodo dei Sapiens, grazie a una mutazio-ne genetica, si sarebbero determinate una riorganizzazione del cervello, una nuova conformazione dell’apparato fonatorio e la sintassi. Quindi, la capacità di articolare il linguaggio sarebbe comparsa improvvisamen-te e avrebbe determinato tutta la riorganizzazione cerebrale. Bickerton, quindi, aderirebbe a quella che è nota come teoria del grande salto in avanti. Questa ipotesi è stata oggetto di numerose osservazioni: sembra poco convincente che il protolinguaggio sia rimasto sostanzialmente invariato e fisso per lungo tempo per poi progredire tutto in una volta in seguito a una mutazione genica.

3.3. Il linguaggio come istinto

Anche Pinker (1994) tenta di conciliare le teorie di Darwin con la visio-ne di Chomsky. Sceglie, però, una strada completamente diversa da quella di Bickerton. Vede il linguaggio come un istinto piuttosto che come un prodotto culturale. Questo istinto è specie-specifico e dovrebbe risiedere nell’encefalo e, forse, nel genoma. Pur riconoscendo l’innatismo promosso da Chomsky, Pinker lo ritiene il prodotto di un’evoluzione soggetta alle leggi della selezione naturale: la sua formazione è, quindi, graduale.

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Seppur affascinante, questa teoria ha sollevato alcune critiche soprat-tutto per l’introduzione del termine “istinto”. Le ricerche neurologiche e neurofisiologiche hanno da tempo messo in luce come per il linguaggio non esista una sede unica e come esso sia riconducibile, piuttosto, a varie aree cerebrali. A questo va aggiunto che rendere il linguaggio un istinto lo impoverisce di quella componente relazionale che è, invece, determinante affinché si impari a parlare correttamente.

3.4. Teoria della continuità

Jackendoff (2002) ritiene che nella formazione del linguaggio vi sia una continuità evolutiva: il linguaggio sarebbe articolato in sottosistemi che si sono evoluti progressivamente e in maniera parallela riuscendo a raggiungere livelli di efficienza più elevati. Tutto avrebbe avuto inizio, quindi, da singoli simboli che avrebbero determinato la capacità di saper condividere dei significati all’interno del clan. A questo si sarebbe uni-ta la convenzionalizzazione delle vocalizzazioni: si sarebbe determinato, quindi, un sistema, un codice di riferimento fonologico tramite il quale i membri del clan potevano comunicare. Da questo sistema fonologico si sarebbero originate combinazioni di suoni da cui si poteva formare un numero di parole pressoché illimitato.

Sulla stessa linea di pensiero era già Carstairs-McCarthy (1999) che ab-bracciava la concezione gradualistica: gli uomini primitivi avrebbero svi-luppato una notevole varietà di sistemi di richiamo, rendendo quindi più abbondanti e più complessi i richiami che si possono riscontrare nei prima-ti. Il cambiamento dell’apparato fonatorio avrebbe determinato la forma-zione delle sillabe, le quali, a loro volta, avrebbero influito sulla creazione di una struttura sintattica all’interno del sistema di richiami: da qui avrebbe avuto origine il linguaggio.

3.5. Il “grooming” e il pettegolezzo

Dunbar (20005) propone un’origine del linguaggio di natura sociale con lo svolgimento della stessa funzione che all’interno del gruppo dei primati svolge il grooming. Quest’ultimo consiste nelle operazioni di pulizia che i

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membri del gruppo si fanno a vicenda: ben il 20% della loro giornata è de-dicata a questi gesti! Queste operazioni non hanno importanza solo ai fini dell’igiene, bensì sono indispensabili per rinsaldare i legami sociali, sentire la vicinanza e per favorire la cooperazione nel gruppo. Il linguaggio, allora, sarebbe un’evoluzione del grooming. Lo sviluppo del cervello umano, in-fatti, sembra essere conseguente alla necessità di elaborare scambi sociali, piuttosto che attendere alle informazioni fisiche; esisterebbe, quindi, una correlazione tra il numero d’individui che fanno parte del gruppo e la crescita neocorticale. Secondo Dunbar, la neocorteccia umana sarebbe in grado di elaborare e gestire interazioni e informazioni che provengono da gruppi formati da 148 membri (con variazioni individuali che oscillano da un minimo di 90 a un massimo di 120 componenti). La neocorteccia delle scimmie, invece, può dedicarsi a un massimo di 50-55 unità. Quindi, l’at-tività del grooming che è appropriata in un contesto di così pochi individui, richiederebbe una quantità di tempo eccessiva se si trattasse di un gruppo più ampio: per questo la selezione naturale avrebbe agito determinando la sostituzione delle “pulizie” con il linguaggio. A livello cerebrale, infat-ti, sia il grooming che le chiacchiere stimolano la produzione di endorfine. Dunbar si concentra anche sull’importanza che il pettegolezzo, inteso come l’interesse che mostriamo verso gli altri (come stanno, cosa fanno, cosa stanno provando), ha all’interno delle società umane: è un modo che serve per creare, stringere e confermare i legami sociali. Le osservazioni che vengono fatte circa questa teoria vertono su due aspetti principali: in primo luogo l’essere umano è in grado di parlare e svolgere nello stesso tempo altre attività; inoltre, la conversazione può svolgersi tra più persone, mentre il grooming è un’attività che coinvolge due individui alla volta.

3.6. La teoria motoria

Secondo questa teoria, proposta per la prima volta da Étienne Bonnot de Condillac (1746) il linguaggio si sarebbe evoluto a partire dalla gestualità e dalla mimica con cui gli Ominidi comunicavano tra di loro: venivano uti-lizzati segni convenzionali che prendevano forma iconica o spaziale:

«[…] avendo questi uomini acquisito l’abitudine di legare alcune idee a segni arbitrari, modellarono il nuovo linguaggio sulle esclamazioni naturali. Artico-

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larono nuovi suoni e, ripetendoli più volte e accompagnandoli con qualche gesto che indicava gli oggetti che volevano far notare, si abituarono a dare nomi alle cose. […] Il linguaggio dei suoni articolati, nella misura in cui diven-ne più ricco, riuscì a esercitare l’organo della voce e a conservare la primitiva flessibilità. Sembrò allora comodo quanto il linguaggio d’azione e ci si servì ugualmente dell’uno e dell’altro, finché l’uso dei suoni articolati diventò così facile che prevalse» (de Condillac, 1746, tr. it. pp. 211-212).

L’emisfero sinistro, infatti, era inizialmente specializzato per attendere ai compiti manuali connessi alla creazione di utensili. A esso appartengo-no, tra l’altro, i circuiti nervosi deputati al controllo della motilità delle dita, della mano e delle braccia, nonché al controllo di laringe, bocca e labbra. Tale teoria è stata recentemente “rispolverata” anche alla luce della recente scoperta dei neuroni specchio o mirror neurons9 – che ci sarà modo di ap-profondire in seguito – nell’area visuo-motoria della corteccia. Sono state, infatti, rivisitate le ipotesi avanzate da Paget (1930) secondo cui i movimen-ti di bocca, labbra e lingua riproducevano i gesti eseguiti con le mani e con le altre parti del corpo: proprio dalla connessione tra gesti pantomimici e suoni ha avuto origine il linguaggio. Per esempio la vocale “A” avrebbe in-dicato qualcosa di grande e ampio, mentre la “I” avrebbe designato oggetti più piccoli. Allo stesso tempo questa teoria si è soffermata sullo studio del linguaggio dei segni, ricco nel lessico e strutturato a livello di sintassi:

«le lingue segnate possono essere più facili da apprendere di quelle vocali, specialmente nei primi stadi dell’acquisizione, quando i bambini iniziano a capire la relazione tra oggetti e azioni da una parte e le loro rappresentazioni linguistiche dall’altra. Eppure le lingue parlate, una volta apprese, possono trasmettere messaggi più accurati, poiché le parole sono meglio calibrate per minimizzare le ambiguità» (Corballis, 2002, tr. it. pp. 257-258).

La vocalizzazione sarebbe quindi comparsa in un momento succes-sivo, per consentire che la conversazione potesse avvenire anche in as-

9 Cfr. G. Rizzolatti - C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.

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senza di visione. L’autonomia che il linguaggio ha acquisito rispetto al gesto ha permesso un progresso “tecnologico” poiché ha reso possibile tramandare informazioni anche molto complesse da una generazione all’altra (Corballis, 2002). Il punto di vista di Corballis è che il linguag-gio dipenda sicuramente da un adattamento biologico determinato dal-la selezione naturale che comprenderebbe però anche altre abilità come la capacità di capire le prospettive mentali dell’altro. Eppure la biologia non sarebbe l’unico fattore a contribuire a questo cambiamento epo-cale. La forma di comunicazione orale sarebbe in qualche modo stata “inventata” dall’uomo e trasmessa socialmente: le mani, libere dal com-pito di conversare con gli altri, hanno reso possibile lo svolgimento di più attività contemporaneamente. Forse più che d’invenzione – che, come precisa Corballis, è stata molto lunga nel tempo – potremmo parlare di una “scelta” da parte dell’essere umano di alcuni meccanismi di comunicazione rispetto ad altri, che sono stati comunque favoriti da conformazioni fisiologiche in mutamento.

3.7. Linguaggio e cultura

La capacità di verbalizzare è stata fondamentale per costruire map-pe territoriali e temporali che hanno influito sul successo del gruppo. Questa comunicazione simbolica ha, probabilmente, modificato l’ar-chitettura dei sistemi cerebrali i quali, a loro volta, hanno consentito un’ulteriore evoluzione del sistema linguistico. Il linguaggio, infatti, essendo un sistema di riferimento in absentia (Mithen, 2002, p. 19) per-mette una comunicazione che non è solo referenziale – cioè legata alla presenza dell’oggetto – ma di tipo astratto o simbolico. Grazie al lin-guaggio, la comunicazione supera i limiti del tempo e dello spazio e le conoscenze possono essere tramandate all’infinito.

Con la comparsa del linguaggio simbolico viene anche “inventata” la cultura. Come si esprime Facchini (2008, 2006): sia lo sviluppo della tecnologia che lo sviluppo della vita sociale, così come la trasmissione della cultura, sono stati possibili grazie al linguaggio articolato e alla comunicazione simbolica. Caratteristiche della cultura sono la proget-tualità e il simbolismo. Dal verbo “colere”, coltivare, la cultura esprime,

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nella concezione antropologica, quel ricco insieme di sapere, arte, mo-rale, diritto, costume che caratterizzano l’uomo in quanto membro di una società. E nella concezione paleoantropologica? La lentezza che ha caratterizzato la cultura per alcune centinaia di migliaia di anni si è tra-sformata poi in rapida corsa negli ultimi 40.000 anni. Corsa costellata da innovazioni sorprendenti (Facchini, 2008). Ciò che colpisce, a que-sto proposito, è la capacità innovativa nella fabbricazione di strumenti; c’è creazione e innovazione, perciò riflessione sulla propria azione. Il progresso nella fabbricazione sistematica di utensili è tipico dell’uomo. E tutta la straripante produzione culturale che l’umanità ha conosciuto e continua a conoscere, inizia da qui. Il bouquet fatto di composizioni musicali, creazioni pittoriche, espressioni poetiche e coreografiche ini-zia dagli umili choppers. Così tutte le caratteristiche che hanno connotato e connotano ogni più piccolo gruppo sociale sono nate con la fabbri-cazione di strumenti per spezzare, tagliare, incidere, scuoiare e scavare.

3.8. Una valutazione

Corballis, oltre a rivendicare la natura protolinguistica della mime-sis, trova una conferma empirica nella scoperta dei neuroni-specchio, precisamente nella scoperta dell’omologia funzionale tra l’area F5 del cervello in cui risiede il sistema mirror dei macachi e l’area di Broca. Per Corballis (2010) l’area 44 di Brodman, peraltro scoperta all’inizio del secolo scorso, oltre a essere coinvolta nella produzione linguistica, è coinvolta pure in funzioni motorie complesse come l’articolazione della mano e l’apprendimento senso-motorio. Così la concezione gestuale del linguaggio avvalora i costituenti più semplici della cognizione umana. Questa conferma è un punto d’arrivo, per Ferretti (2010), nella conside-razione dell’origine del linguaggio. Ma già Facchini (2006, pp. 146-147), basandosi su autori di spicco degli anni Settanta, affermava che Homo habilis e Homo erectus, utilizzando tecnologie via via più complesse per la lavorazione di manufatti, necessitavano di comunicazione verbale per la trasmissione delle stesse. Così l’organizzazione sociale esigeva rapporti di comunicazione che si realizzavano, oltre che con il linguaggio gestua-le, anche con quello verbale. Una correlazione tra lo sviluppo dell’area di

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Broca e l’abilità di costruire strumenti con la mano destra si suppone già in Homo habilis e Homo erectus. Sempre secondo Facchini, non va dimenti-cato che l’evoluzione del linguaggio, messa anche in rapporto con l’evo-luzione tecnologica, è molto complessa. È difficile se non impossibile ricostruirla. Va pensata più come un’evoluzione della lingua che come un’evoluzione della capacità del pensiero simbolico. Si può perciò par-lare di comunicazione prima di parlare di linguaggio perché, se l’espres-sione simbolica è in relazione a un soggetto che pensa e poi esprime ciò che ha pensato, nel fare questo si può servire di vari mezzi come la mimica, la gestualità, i suoni e i segni (Facchini, 2008). Il linguaggio è as-solutamente in rapporto con la coscienza di sé che resta essenzialmente un evento, più che un processo, impossibile da ricostruire con gli stru-menti di cui si dispone negli studi preistorici. Infatti, il linguaggio è una delle manifestazioni di una potenzialità cognitiva generale che permette di mettere insieme più informazioni.

Allora, quale Homo ha iniziato a usare il linguaggio? Secondo Fac-chini (2008, p. 67):

«vi sono anche evidenze archeologiche indirette sul linguaggio umano, costi-tuite dalle industrie litiche e dalla documentazione sulla vita sociale. Lo svilup-po tecnologico e le forme di organizzazione sociale che si hanno a partire da Homo abilis si accordano con una forma di comunicazione e di trasmissione attraverso il linguaggio e non solo con l’imitazione».

Nello scorrere dei millenni, il linguaggio si è declinato nella vario-pinta molteplicità delle lingue rendendo ragione della straordinaria adattabilità dell’uomo al suo ambiente, oltre che della sua creatività.

Una volta portato a perfezione da Sapiens sapiens, il linguaggio è di-ventato il ponte indispensabile per raggiungere l’Altro. E da allora si è declinato in miliardi di “testi” parlati, scritti e multimediali. La sofistica-tezza delle clausole di un contratto, la precisione di una dimostrazione geometrica, la sistematicità di un’argomentazione filosofica utilizzano il linguaggio. Così come i milioni di lettere d’amore, di discorsi, di poesie e di preghiere. «L’uomo non è che una canna pensante, la più debole della natura, ma una canna pensante» (Pascal, Pensiero n° 347). Pensiamo e siamo coscienti di pensare e con noi la materia tutta si fa pensante.

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Capitolo primo - Le origini del linguaggio, della cultura e delle lingue

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Qualcuno avrà previsto questo nostro punto d’arrivo e avrà agito perché diventasse realtà? Dietro a quest’apoteosi dell’evoluzione – l’umanità tut-ta – c’è un Disegno Intelligente? A questo proposito, Facchini (2009) af-ferma che non si devono mescolare indebitamente i piani della scienza e della fede come si sostiene con la teoria dell’Intelligent Design. Difatti, non è possibile operare una «estrapolazione di un modello empirico di lettura della storia della vita sulla terra a una visione filosofica della realtà, in cui si va oltre gli aspetti scientifici» (Facchini 2008, p. 96). Sarebbe meglio parlare di una causalità esterna che agisce attraverso le cause seconde, i fattori della natura. Non si possono mettere in alternativa evoluzione e creazione, ma visione di un mondo in evoluzione, dipendente da un Dio creatore pieno d’amore per l’uomo e visione di un mondo che si crea e si trasforma da sé, così, per fatti puramente casuali. Il discorso meriterebbe uno spazio maggiore e un tempo prolungato. Si rimanda il lettore ad altri contesti (Facchini, 2008)10. Nella volontà di chiudere con la formulazione di una considerazione antropologica, va detto che tra le specie precedenti e il Sapiens sapiens c’è una differenza, sostanzialmente di carattere qualitativo e non meramente quantitativo, differenza che – dal punto di vista filosofico – richiede una causa proporzionata che non può essere identificata esclusivamente nelle potenzialità della materia stessa, sia pure neurobiologica11. Come afferma Martínez (2008, p. 147):

«Anche i grandi creatori del neodarwinismo, come Theodosius Dobzhanski o Francisco Ayala, mettono in evidenza questo paradosso: anche se l’uomo si dà in

10 Il volume è un’eccellente presentazione dell’esplosione della vita sulla Terra, circa 570 milioni di anni fa. Si suddivide in tre parti di cui la prima tratta della linea evolutiva che ha portato al genere Homo sapiens sapiens preceduto dal genere habilis e poi erectus; la seconda sottolinea l’evoluzione che la vita ha avuto sulla Terra; nella terza si tratta più particolarmente del binomio creazione-evoluzione e nella quarta viene trat-teggiata la figura Homo, essere dotato di un’attività cognitiva di tipo astrattivo con idee, pensiero, emozioni che non sono riconducibili all’attività elettrica del cervello che le accompagna, ma sono dovute all’attività spirituale che sfugge alla scienza.

11 Cfr. M. Mantovani, Discipline in dialogo. Un esercizio di “razionalità allargata”, in M. Mantovani - M. Amerise (a cura di), Fede, Cultura e Scienza. Discipline in dialogo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008b, pp. 29-79.

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La comunicazione del patrimonio culturale dell’umanità

una continuità biologica con il resto delle specie animali, esso manifesta dal punto di vista culturale un comportamento che non è più “meramente biologico”».

4. La comunicazione del patrimonio culturale dell’umanità

Impossibile raccogliere e illustrare in modo esaustivo le migliaia di produzioni culturali che fanno parte di quello che, comunemente, viene raggruppato nell’insieme infinito dello scibile umano. Ci si limita qui a ripercorrere le tre rivoluzioni che hanno segnato la storia della trasmissione della cultura: la rivoluzione della scrittura, della stampa ed elettrica-elettronica. In questo modo si privilegiano gli aspetti più vicini all’ambito della comunicazione e del linguaggio.

4.1. Dalla protocultura alla rivoluzione chirografica

Ritroviamo prime forme di produzione culturale già in Homo habilis. Circa due milioni e mezzo di anni fa, si serviva di utensili – i choppers – fatti di litio e ricavati dalla lavorazione di una delle facce della pietra (in-dustria litica olduvaiana). Essi erano utilizzati per poter operare più age-volmente nell’ambiente; tali manufatti erano taglienti e servivano per squarciare, forare, rompere e raschiare. Questi utensili furono prodotti per circa un milione di anni, fino a che non si giunse alla lavorazione su entrambe le facce della pietra, che si riscontra nei manufatti con la forma ad “amigdala” (industria litica acheuleana). Ancora, tra i 50.000 e i 250.000 anni fa compaiono raschiatoi, punteruoli, lance per la caccia (industria musteriana), mentre tra i 20.000 e i 50.000 anni fa vengono prodotte spatole, aghi, scavatori, lamette, anche di altri materiali come l’avorio (industria aurignaziana).

«L’attività tecnologica che troviamo già in Homo habilis manifesta un’apertura verso operazioni future, che dovrà realizzare in modo consapevole e libero. Inoltre, proprio per la sua capacità progettuale, lo strumento stesso acquista un significato proprio nel contesto personale e sociale. Troviamo persone seppelli-te con i loro strumenti e le loro armi. Lo strumento quindi non è più qualcosa di accessorio ma diventa necessario per la sopravvivenza» (Martínez, 2008, p. 146).

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Capitolo primo - Le origini del linguaggio, della cultura e delle lingue

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È di questo periodo, che vede sulla scena del mondo Homo erectus, che risale una scoperta che tanto ha influenzato la vita umana succes-siva: il fuoco.

Il lungo arco di tempo appena descritto, seppur ricco di manufatti e utensili, è caratterizzato da una sostanziale “stasi culturale” (Martini, 2008) di Homo habilis e di Homo erectus, poiché le tecniche di scheggiatu-ra non progrediscono di molto e non ci sono sostanziali cambiamenti nel tipo di prodotti creati. È proprio per questa mancanza di progresso e innovazione che le produzioni dei primi Ominidi vengono conside-rate espressioni di una protocultura. Dobbiamo attendere la comparsa di Homo sapiens per avere cambiamenti sostanziali nella produzione cul-turale. Le prime forme di comunicazione e di espressione “artistica”, quindi scevre di utilità pratica, si riscontrano nell’arte parietale e in quel-la mobiliare. La prima si riferisce a quei disegni che vengono realizzati prima sui massi e poi con dei graffiti sulle pareti delle grotte e che rappresentano mammiferi come bisonti e cavalli. Uno degli esempi più stupefacenti è quello delle pitture preistoriche della grotta di Altamira, nella Spagna settentrionale. Risalgono al Paleolitico superiore (10.000-15.000 a.C.) e rappresentano figure di animali e oggetti stilizzati. I più antichi dipinti sembrano essere stati scoperti nella grotta di Fumane, vi-cino Verona, e risalgono a un periodo che va tra i 32.000 e i 36.500 anni fa (Balter, 2000). L’arte mobiliare, invece, si caratterizza per la creazione di piccole statue, le cosiddette “Veneri”, legate al culto della fecondità. Tra queste spicca quella di Willendorf, probabilmente realizzata fra il 19.000 e il 23.000 a.C. Queste prime rappresentazioni artistiche pos-sono essere derivate anche dalla conseguente libertà che l’espressione vocale ha conferito alla mano, ma possono rappresentare un primo tassello nel percorso che porterà alla nascita della scrittura. Da semplici segni sui muri, tali disegni potrebbero essere diventati pittogrammi, ov-vero forme espressive standardizzate (Corballis, 2002).

Le prime comunità hanno uno stile di vita legato alla caccia e alla raccolta di piante e, quindi, sostanzialmente nomade. La reperibilità del cibo è incerta e la crescita demografica delle prime comunità è limitata. È verso i 10.000 anni fa – nel Neolitico – che si sviluppano i primi insediamenti e le prime attività legate all’agricoltura e all’allevamento (Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza, 1995).

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La comunicazione del patrimonio culturale dell’umanità

Ancora una volta è l’ambiente a provocare tale svolta: accanto a un aumento della popolazione – che va depauperando sempre più le risor-se presenti naturalmente nei territori in cui vive Homo habilis – si verifica un periodo di rigidità climatica, con conseguente cambiamento della tipologia di flora e fauna. Questo ha determinato una crisi alimentare a cui la forte capacità umana di adattamento risponde con l’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento. La vita, da nomade, diventa sedenta-ria. Si deve, probabilmente, all’opera delle donne la prima domesticazione delle piante. È attribuita infatti alle donne la pratica di piantare vegetali vicino agli accampamenti, per non essere costrette a percorrere lunghe distanze ogni giorno (Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza, 1995).

Quello dell’agricoltura è un fenomeno che si manifesta, indipen-dentemente, in più luoghi nel mondo e ogni luogo sviluppa la coltura dei prodotti naturalmente presenti in quell’area geografica. Grazie a questo cambiamento di abitudini, il cibo diventa sempre reperibile, la difesa dall’ambiente esterno diventa più efficace e inizia ad aumentare la popolazione mondiale: da pochi milioni dei 10.000 anni fa si arriva ai 6.829.361.000 circa12, registrati all’inizio di luglio del 2009.

Con lo strutturarsi dell’agricoltura e dell’allevamento iniziano a formar-si anche i centri abitati: la prima cittadina neolitica si trova in Turchia. Çatal Hüyük è collocata su una collinetta artificiale, che è il risultato di strati so-vrapposti di insediamenti precedenti sulle cui rovine veniva eretto il nuovo centro abitato. Le strade sono assenti, poiché si accedeva alle case dall’alto.

La diffusione dell’agricoltura porta con sé la costruzione di nuovi oggetti che facilitano il lavoro nei campi: inizialmente solo roncole e falci, in seguito anche aratri. La litotecnica si evolve e viene introdotta la levigatura; si inizia a utilizzare anche una nuova pietra, l’ossidiana, che, non solo è resistente, ma ha altresì il pregio di poter essere lavorata facilmente. Tale materia prima si trova, però, in poche regioni: è pro-prio dallo sfruttamento sistematico di queste cave che avranno inizio le prime forme di commercio (Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza, 1995).

12 Cfr. United Nations. Department of Economic & Social Affairs. Population Division, World Population Prospects. The 2008 Revision, New York (NY) 2009.

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Le nuove condizioni economico-sociali si affermano rapidamente e consentono una nuova svolta per l’umanità: nasce la scrittura.

4.2. Le origini della scrittura

La nascita del linguaggio ha reso possibile la trasmissione della cul-tura e l’estensione grafica del linguaggio, ovvero la scrittura, ha reso le popolazioni in grado di trasmettere conoscenze fra i contemporanei (trasmissione orizzontale) e di tramandarle alle generazioni successive (trasmissione verticale). È opinione diffusa che la scrittura si sia svi-luppata in ambiente mesopotamico intorno al 3.100-3.200 a.C. e che in questo luogo avessero avuto origine le prime grandi civiltà. In realtà sono stati rinvenuti testi egizi che risalgono al 3.200-3.400 a.C. e cera-miche di Harappa – nella valle dell’Indo – con iscrizioni datate intorno al 3.500 a.C. Eppure le più antiche forme di scrittura scoperte fino a oggi ci conducevano in Europa, presso la civiltà dei Vinča, nella peni-sola balcanica.

Attualmente si sta configurando un nuovo quadro secondo cui l’invenzione della scrittura sarebbe stata anticipata di ben un millen-nio, dalla civiltà degli Harappa: sono state rinvenute, infatti, nella valle dell’Indo, ceramiche con iscrizioni che vanno dal 2.600 al 3.500 a.C. Ancora, sono stati rinvenuti testi egizi che risalgono al 3.200-3.400 a.C., nonché terrecotte della civiltà Vinča, stabilitasi attorno al corso del Da-nubio, la cui scrittura risalirebbe a un periodo compreso tra il 4.000 e il 5.400 a.C.; sembra, inoltre, che nelle varie culture la scrittura si sia sviluppata per motivazioni varie: se per gli Egizi, la civiltà degli Harap-pa e quella della valle dell’Indo, la scrittura era utilizzata nell’ambito del culto e dei rituali religiosi, in Mesopotamia essa era legata al commercio e alla contabilità (Haarmann, 2002).

Come accennato, a partire dal 3.500 a.C. la lingua di terra tra i fiu-mi Tigri ed Eufrate fu abitata prima dai Sumeri, poi dai Babilonesi e, infine, dagli Assiri, nonché da altre civiltà di cui si hanno però meno in-formazioni. A queste popolazioni dobbiamo alcuni dei primi esempi di scrittura, quella cuneiforme. Usando uno stilo si eseguivano sull’argilla piccole incisioni di tipo piramidale (i glifi) che ricordano dei chiodi o

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dei cunei. Tutto nasce a partire da quelli che Schmandt-Besserat (1992) definisce tokens, ovvero contrassegni di argilla che rappresentavano un bene o una quantità di un certo bene e che avevano varie forme legate alla tipologia di oggetto che doveva essere rappresentato.

Compaiono poi, nel iv secolo a.C., accanto a questi strumenti per la contabilità, anche le cretule, ossia dei certificati che stabilivano il nume-ro di contrassegni che venivano realizzati su involucri sferici. Su di essi potevano essere riportati sia i contrassegni stessi che una loro riprodu-zione attraverso uno stilo. La dissociazione tra il bene e la sua quantità, ora rappresentata da un numero astratto, ha permesso di utilizzare il segno pittografico che serviva a designare l’oggetto anche per scopi diversi dalla contabilità. Dobbiamo molto, in termini di scrittura, anche alla fiorente civiltà degli Egizi, sorta sulle sponde del fiume Nilo intor-no al 3.300 a.C., la cui lingua scritta era formata da un sistema di segni pittorici che prendono il nome di geroglifici e che venivano realizzati su un particolare tipo di “carta” ricavata da una pianta molto diffusa sulle sponde del Nilo, il papiro. Il percorso effettuato dalla scrittura in queste regioni sembra passare dai pittogrammi, che, come si è visto, sembrano essere stati un’evoluzione delle primitive forme di espressione pittorica e rappresentavano oggetti o concetti elementari; dai pittogrammi, poi, si sarebbe giunti agli ideogrammi, che rappresentavano anche idee astrat-te oltre che concrete, fino a giungere ai logogrammi, che costituivano le unità di significato e che rendevano il linguaggio scritto molto simile a quello parlato (Corballis, 2002).

La scrittura degli Egizi e dei popoli della Mesopotamia è un sistema che ha carattere prevalentemente sillabico: al segno grafico, cioè, corri-spondono suoni di una o più consonanti e una vocale. Nella scrittura alfabetica, invece, ogni segno corrisponde a un suono singolo e la sua invenzione si deve al rivoluzionario lavoro di “traduzione” svolto nelle regioni di Canaan e nel Sinai da persone che parlavano lingue semitiche. Le sperimentazioni hanno avuto inizio intorno al 1.700 a.C. e il pro-cedimento utilizzato è stato tanto semplice quando geniale: sono state attribuite ai pittogrammi della scrittura egizia – allora tra i sistemi di scrittura più affermati – le iniziali delle parole semitiche corrispondenti. Al pittogramma di una casa venne, quindi, associata la “B”, perché in lingua semitica “casa” si diceva “bētu” (Healey, 2002). Un approfondi-

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mento sulla storia della scrittura si può leggere nei contributi curati da Bocchi e Ceruti (2002) e nel volume di Bordas (2010).

Inizialmente le vocali non erano scritte, ma solo lette ed era per-ciò necessario uno spazio che delimitasse l’inizio e la fine dei singoli termini. L’alfabeto definitivo nasce, invece, per opera dei greci, nel 730 a.C. circa. Presero in prestito dai Fenici i segni consonantici: ad alcuni attribuirono lo stesso valore e lo stesso nome, mentre ne modificarono altri trasformandoli in vocali, dallo ’aleph nascerà l’alpha “A”, dallo hé la epsilon “E” e così via. Secondo Herrenschmidt (2002) è probabile che nella scelta dei segni da associare alle vocali i greci abbiano scelto delle rappresentazioni grafiche che richiamassero quanto veniva agito con il corpo nel pronunciare quel determinato suono. Il segno “O” imiterebbe, allora, la bocca nell’atto di emettere il tipico suono, mentre la omikron “Ω” indicherebbe la “O” un po’ più aperta. La iota, “I”, na-scerebbe, invece, dall’allungamento orizzontale delle labbra quando la si pronuncia e sarebbe stata poi ruotata di 90° come spesso è avvenuto nella storia della scrittura. I segni consonantici sembrano essere privi di questo peso figurativo, mentre le vocali sono «rappresentazioni [vi-sibili] del corpo parlante» sia a livello esterno, delle labbra, che a livello interno, di articolazione di suoni (Herrenschmidt, 2002, p. 108).

Nella marea montante di produzioni culturali che si sono succe-dute nei secoli e tra le file degli “operatori della cultura” si è scelto di soffermarsi sugli amanuensi, silenziosi professionisti della trasmissione culturale, media viventi di una preziosa eredità.

4.3. Il ruolo degli amanuensi nella trasmissione della cultura

Il termine amanuense deriva dal latino servus a mano: era con que-sto appellativo che i romani, infatti, si rivolgevano agli scribi. Que-sti ultimi erano degli schiavi a cui spettava il compito di trascrivere le opere più importanti affinché potesse esserci più di una copia in circolazione. Dopo le invasioni barbariche, questo importantis-simo compito viene raccolto e continuato dai monaci, soprattutto Benedettini. Nelle abbazie, all’interno dello scriptorium, questi reli-giosi hanno svolto un lavoro unico di trasmissione della cultura.

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Esistevano, infatti, anche amanuensi casuali o studiosi che copia-vano i manoscritti, ma le riproduzioni erano spesso poco fedeli all’originale o trasformate secondo la sensibilità interpretativa di chi copiava. Tra il xiv e il xv secolo l’attività degli amanuensi aveva raggiunto il suo culmine, tanto che si sarebbe potuta definire or-mai un’arte. Si diffonde, però, anche la necessità di far controllare il lavoro svolto, dai correctores, i quali si dovevano accertare della correttezza grammaticale degli scritti; sembra, infatti, che il sala-rio degli amanuensi fosse tanto buono da attirare anche persone che erano, in realtà, semianalfabete. Dopo essere stato trascritto, il testo passava nelle mani del miniatore, che si occupava di realiz-zare un’immagine decorativa per il manoscritto. Con il tempo, le illustrazioni divennero di taglio sempre più piccolo e a oggi, con il termine “miniatura” si suole indicare proprio un’icona di piccole dimensioni. A volte il lavoro era svolto da più persone insieme: le grandi e lussuose opere potevano richiedere una grande quantità di tempo per essere trascritte e venivano affidate a due amanuensi. L’opera di questi trascrittori è inestimabile, perché è grazie a loro che abbiamo avuto la possibilità di conoscere testi che sarebbero andati, altrimenti, persi.

Le opere trascritte dai monaci erano soprattutto in lingua latina, ma nel periodo del Medioevo inizia a delinearsi un altro grande fenomeno che avrà un’importante influenza sulla formazione delle lingue come le conosciamo oggi, soprattutto in Europa: nasce, infatti, il volgare. Con questo termine si indica la lingua parlata dal popolo, ovvero dal volgo, che non solo si era distaccata molto dal latino classico, ma si era an-che differenziata geograficamente. È da queste “distorsioni” locali che nasceranno poi le diverse lingue romanze: italiano, francese, spagnolo, portoghese e rumeno. Non possiamo riscontrare una data ufficiale di inizio della diffusione del volgare, poiché tale “inquinamento” linguisti-co è un processo che è avvenuto gradualmente. Tra i primi documenti che possiamo rintracciare vi è l’indovinello veronese risalente all’anno 800 e i Placiti cassinesi datati intorno al 960. Il Giuramento di Strasburgo è, invece, dell’842 e testimonia l’unione del volgare francese con quello tedesco. Dobbiamo aspettare il xiii secolo perché il volgare diventi una lingua con cui stilare testi letterari “maturi”. In italiano spiccano gli apporti

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di Francesco d’Assisi e del siciliano Cielo d’Alcamo13 a cui è attribui-ta una delle espressioni più conosciute della poesia volgare di matrice giullaresca: Rosa fresca aulentissima. Il xiv secolo vede la promozione del volgare che trova le sue forme più alte e auliche nelle opere di Dante, del Petrarca e del Boccaccio. L’italiano avrà origine proprio dalla lingua volgare che si sviluppa in Toscana. Eppure, in altre parti d’Italia, il vol-gare non trova ancora un grande riscontro da parte dell’élite intellettuale che, invece, riscopre i grandi classici in lingua latina: vediamo allora coesistere due anime e chi s’interessa di letteratura è, spesso, bilingue, tanto che alcuni testi mostrano sia la versione in latino che quella in lingua volgare. Allo stesso tempo il latino è utilizzato per le produzioni che sono destinate ai soli intellettuali, mentre il volgare viene sistema-ticamente introdotto nei componimenti di carattere più popolare che dovevano essere compresi da tutti. Per avere una più ampia diffusione della lingua volgare dobbiamo attendere la comparsa sulla scena del mondo di una delle rivoluzioni che ha modificato radicalmente il modo di comunicare degli uomini: la stampa a caratteri mobili (Cavallo, 2002; Lepschy - Lepschy, 1999).

4.4. La rivoluzione tipografica

Sempre nel solco profondo della trasmissione della cultura e dei media a disposizione per farlo, trova collocazione la storia della stampa che, stando ai fatti, non inizia in Europa. Per risalire alle sue origini dobbiamo, infatti, spostarci in Cina dove sui fogli di carta14 venivano impresse delle immagini precedentemente intagliate su blocchi di legno (stampa con blocchi di legno). Il più antico reperto ritrovato è un’iscrizione buddhista datata intorno al 684-705. Buddhista sarebbe anche il primo

13 Sembra che il nome “Cielo” non fosse il nome originale, bensì il risultato prima di una storpiatura grottesca: “Ciullo”, tipica in ambito giullaresco, e poi di una rilettura in ambito toscano.

14 La fabbricazione della carta da pezzi di corteccia, stracci e reti da pesca è stata descritta per la prima volta in Cina nell’anno 105 da Ts’ai Lun e il più antico pezzo di carta ritrovato – ottenuto dalla lavorazione di stracci – risale al 150 (Bordas, 2010).

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testo stampato di cui abbiamo notizia, risalente al 750-751. È a un me-moriale del 1023 che dobbiamo informazioni circa l’introduzione di un altro materiale per la stampa: il rame. Esso veniva utilizzato sotto for-ma di lastra per stampare delle banconote e sotto forma di blocchi per imprimere su di esse i numeri. Cinese sembra anche il primo tentativo di stampa con caratteri mobili, risalente al 1041. Bi Sheng – questo il nome dell’inventore del nuovo modo di stampare – utilizzò, però, ca-ratteri di argilla che erano però troppo fragili. Nel 1298 tale tecnica fu migliorata attraverso l’introduzione del legno come supporto e tramite un sistema di tavole girevoli. In seguito furono realizzati anche blocchi in metallo (Bordas, 2010). Ma cosa accadeva, nel frattempo, in Europa?

La stampa con blocchi di legno venne introdotta anche nel vecchio continente, tanto che dal 1300 si diffuse la moda di stampare immagini sui tessuti degli abiti. Sappiamo anche che quando la carta divenne di più facile reperimento iniziarono a essere abitualmente stampate le car-te da gioco. È nel 1440, però, che la stampa diventa uno strumento più economico per gli europei, grazie alla tecnica dei caratteri mobili intro-dotta dal tedesco Johannes Gutenberg. Non sappiamo se fosse giunta in Europa, forse attraverso gli scambi commerciali, anche la stampa a caratteri mobili che era stata introdotta in Cina, ma è certo che il modo di stampare di Gutenberg ha rivoluzionato questa tecnica, per-mettendo una diffusione più rapida dei testi. Sappiamo, d’altro canto, che quando nel xix secolo le tecniche di Gutenberg furono introdotte in Cina, soppiantarono completamente i metodi di stampa locale, che erano basati su un grande lavoro manuale. In primo luogo Gutenberg sostituì gli inchiostri a base acquosa con quelli a olio: erano più resi-stenti e duraturi. Ai supporti in legno, argilla e rame preferì una lega fatta di piombo, stagno e antimonio, da cui si potevano ottenere ca-ratteri durevoli che permettevano stampe di alta qualità. Realizzò, poi, una pressa per la stampa che sarebbe stata determinante per la futura produzione di libri. Dalla Germania questo nuovo modo di stampare si diffuse rapidamente.

La stampa rivoluziona la comunicazione poiché rende il messaggio riproducibile in grandi quantità: il pubblico che ne può usufruire diventa sempre più vasto. Con l’avvento della parola stampata si passa alla produ-zione di mezzi quali i libri e i periodici, che sono così messi alla portata

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di tutti, anche se l’interazione comunicativa rimane sempre univoca. Da quando un messaggio può essere trasmesso a più destinatari contem-poraneamente si entra nell’era dei mass media o mezzi di comunicazione di massa.

4.5. La rivoluzione elettrica e i mezzi di comunicazione di massa

La locuzione mass media deriva dal latino, dove media è da intendersi come il plurale di medium, ma il suo significato non ha nulla a che vedere con l’origine del vocabolo. Le due parole definiscono, infatti, i “mez-zi di comunicazione di massa”, laddove nella voce latina alla parola medium non appare nessuna accezione corrispondente a “mezzo, stru-mento”. Questo accade perché, pur derivando dal latino, la parola è da intendersi con il valore attribuitole dalla lingua che l’ha coniata, ovvero quella anglosassone (Bracchi, 2002). Termine inizialmente avvolto da un alone negativo – veniva soprattutto posto l’accento sulla fruizione passiva da parte di un’enorme massa di persone che si limitavano a consumare i prodotti promossi dalla propaganda pubblicitaria – oggi indica due concetti: o si intendono quegli strumenti in cui la tecnologia gioca un ruolo fondamentale nell’ambito della distribuzione, oppure tutti quei canali di comunicazione in cui la fruizione è sostanzialmente istantanea, collettiva e passiva (Colombo, 2002).

Figura 3 - La tipologia comunicativa “Uno-Molti” della cultura

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La comunicazione del patrimonio culturale dell’umanità

Senza soffermarci troppo sulle definizioni e sulle categorie, è im-portante rilevare, quando si parla di media, come essi rappresentano una possibilità in più per la comunicazione umana e per la trasmissione del-la cultura. Per tutta l’età moderna15 il mezzo di comunicazione di massa più utilizzato è stato la Stampa, seguito, lungo i secoli, dal Cinema, dalla Radio e dalla Televisione. Quanta cultura è passata e continua a passare attraverso queste straordinarie invenzioni. Nell’ultimo scorcio del millennio sono state sviluppate nuove tecnologie e si è giunti alla creazione e all’uso di nuovi mezzi di comunicazione: siamo alla rivo-luzione digitale. Ed ecco allora che, con l’entrata in campo dei media bidirezionali i destinatari dei messaggi aumentano vertiginosamente: si moltiplicano i vari mittenti e destinatari che hanno feedback immediati e che si alternano nei ruoli, come nel caso della telefonata o del rapporto epistolare online.

Figura 4 - La tipologia comunicativa “Uno-Uno” della cultura

Ma la storia dei media non finisce qui: con l’avvento delle nuove tecnologie la comunicazione della cultura fa ulteriori e decisivi passi in avanti (Cangià, 2001).

15 L’inizio dell’età moderna viene fatto solitamente coincidere con la fine del xv secolo. Per quanto concerne la sua fine ci sono diverse interpretazioni storiografiche, che la fanno oscillare tra la fine del xviii secolo e la metà del xix secolo.

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4.6. La rivoluzione digitale e i nuovi media

La possibilità di trasmettere cultura, grazie alle tecnologie digitali, è ora senza confini. Con l’entrata in campo dei media reticolari o circolari ogni singolo utente può comunicare con un numero infinito d’interlo-cutori: l’interazione potrebbe diventare, quindi, collettiva come nelle reti sociali online.

Figura 5 - La tipologia comunicativa “Molti-Molti” della cultura

Viene fatto qui riferimento a strumenti come il computer, ge-store della multimedialità interattiva, mosaico di numerosi media che offrono testo, grafica, animazione, immagine fissa e cinetica, au-dio e tridimensionalità e che soprattutto collegano tra loro nodi di informazioni e conoscenza (Cangià, 2002b). Questo passaggio è stato reso possibile dalla trasformazione del medium da strumento per l’attribuzione di significato a strumento che rappresenta diret-tamente ciò che si desidera trasmettere. Le nuove tecnologie, oltre a consentire la veicolazione rapida e massiccia della cultura, hanno influenzato fortemente la comunicazione interpersonale.

Partendo dai choppers siamo arrivati agli avamposti della cultura identificati forse nel 3D e nella spettacolare grafica dei mondi virtuali e dei videogiochi. Altro vedranno l’umanità e le singole culture domani. Ora, contrariamente a quanto afferma Dawkins

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Dal linguaggio e dalla cultura alle lingue

(2006) circa l’esistenza dei “memi” o unità di informazioni che re-golano le manifestazioni culturali e che caratterizzano la cultura e la società, e confortati dalla chiarezza con la quale Facchini (2008) afferma che l’eredità culturale è frutto dell’attività creativa dell’uo-mo, rileggiamo Teilhard de Chardin (1956). L’Autore e scienziato è convinto che ciò che noi chiamiamo “amore” esiste già a livel-lo delle più semplici molecole. Infatti, se non fosse già presente nelle forme più semplici dell’universo non potrebbe manifestarsi nemmeno ai suoi livelli più alti. È l’amore la forza gravitazionale che attrae – per i credenti – nel “centro dei centri” che è Cristo. La specie biologica umana, dopo aver raggiunto la tappa dell’omi-nizzazione, entra nella fase dell’umanizzazione e, con i “doni” del pensiero, del linguaggio e della cultura, si organizza in “umanità” per raggiungere un punto vertice che, per i credenti, si chiama Dio. La “grande visione” di Teilhard de Chardin, fondata su una cosmologia evoluzionistica, ma non materialistica, è caratterizzata dalla comunicazione. Per questa ragione l’avvenire dell’evoluzione umana è quello di una maggiore socializzazione perché l’essenza dell’uomo sta nella sua natura relazionale. Quale ruolo avranno le tecnologie digitali in tal senso?

5. Dal linguaggio e dalla cultura alle lingue

Se è vero che la produzione scritta ha determinato un grande cam-biamento all’interno della comunicazione umana e della trasmissione della cultura, è anche vero che la prima forma d’interazione linguisti-ca, l’oralità, non è mai stata abbandonata. Anzi, dalle prime forme di linguaggio dei Sapiens, il linguaggio ha assunto sfumature differenti e si è declinato in tanti idiomi diversi. Com’è avvenuta questa evoluzio-ne? Grazie alle ripetute migrazioni che l’uomo ha vissuto in luoghi e tempi della sua storia. L’espansione umana potrebbe aver seguito due percorsi differenti: da un lato potrebbero esserci state frequen-ti migrazioni; dall’altro, individui provenienti dall’Africa potrebbero essersi incrociati con altri gruppi stanziati in regioni adiacenti. A loro volta, questi ultimi potrebbero essersi mescolati con popolazioni un

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po’ più distanti dal continente africano. Questa seconda ipotesi, defi-nita dell’ondata di diffusione (diffusion wave hypothesis), sembrerebbe in linea con i dati emersi da uno studio sui resti di uomo anatomicamente moderno: la distanza genetica sembrerebbe correlata a quella percorsa in termini di chilometri nei brevi tragitti sulla terraferma che sono stati effettuati dai nostri primi antenati (Wood, 2005).

5.1. Per terra e per mare

Dopo essersi affermato in Africa, Homo sapiens sapiens inizia a co-lonizzare la Terra tutta, spostandosi attorno alle coste, ma approfit-tando anche dell’aumento delle terre emerse a causa delle glaciazioni. Intorno ai 55.000-60.000 anni fa dovrebbe essere avvenuta una del-le prime migrazioni dall’Africa: sono stati ritrovati reperti risalenti a quest’epoca in Cina, Nuova Guinea e Australia. Verso i 35.000-40.000 anni fa inizia a essere popolata l’Europa, probabilmente a partire da Oriente. Più tardi vengono colonizzate le zone fredde dell’Asia, e tra i 15.000 e i 35.000 anni fa deve essere avvenuta, proprio da questa parte del mondo, la migrazione verso le Americhe. Insieme alla di-versificazione dei caratteri esterni, che si sono “adattati” ai vari am-bienti colonizzati, si assiste alla maturazione di lingue diverse. Luca e Francesco Cavalli-Sforza e chi, con Paolo Menozzi e Alberto Piazza (Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza, 1995) ha ipotizzato una relazione tra genetica e linguistica, ha sovrapposto le famiglie linguistiche con l’al-bero genetico delle popolazioni del mondo, riscontrando una straor-dinaria corrispondenza di dati. A pagina 50 ne viene presentata una rielaborazione grafica basata sui dati di Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza (1995, p. 287).

Naturalmente, la storia successiva delle popolazioni ha giocato un ruolo fondamentale nella caratterizzazione di determinate popolazio-ni creando anche dissonanze tra patrimonio genetico e linguistico. È il caso degli Etiopi che hanno un patrimonio genetico per il 60% africano e per il 40% di origine caucasoide e che, dal punto di vista linguistico, sono riconducibili agli Arabi, poiché le loro lingue fanno parte della famiglia afroasiatica (Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza, 1995).

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Dal linguaggio e dalla cultura alle lingue

5.2. Lingue del mondo e lingue nel mondo

6.909. Questo il numero di lingue parlate nel mondo secondo quan-to stabilito nella sedicesima edizione del catalogo Ethnologue (Lewis, 2009). Alcune abbracciano grandi fette della popolazione mondiale, altre sono tramandate da pochissimi parlanti e rischiano di scomparire. Inoltre, proprio perché la cultura ha, di rado, confini precisi, spesso le lingue si sono mescolate e hanno dato vita a idiomi nuovi, particolari, forse parlati solo in piccoli spicchi di terra. Sarebbe riduttivo, allora, dire che in Italia si parla l’italiano. Perché sono molteplici i “codici” che utilizziamo per esprimerci, anche se riconducibili alla comune matrice indoeuropea. Ecco, allora, che per classificare, in inglese internazionale, la lingua in cui è scritto questo libro verrà usata la dicitura: Indo-Eu-ropean/Italic, Romance/Italo-Western/Italo-Dalmatian16. Come si fa con i file del computer, risaliamo alla cartella principale attraverso varie sottocartelle. Va sottolineato che i modi di classificare una lingua sono molteplici. Tra i più significativi dal punto di vista scientifico troviamo i seguenti, elencati da Gobber e Morani (2010):

– classificazione genealogica: il criterio che segue è l’appartenenza di alcune lingue a un ceppo comune. Alcune lingue, infatti, mostrano una somiglianza tra le parole sia a livello di significante che di significato, tale da far ritenere che siano “imparentate” tra loro. Ecco che la parola italiana “sole” si dice sol in portoghese e in spagnolo, soleil in francese e soare in rumeno. Per “mare” abbiamo mar in portoghese e in spagnolo, mer in francese e mare in rumeno. Allo stesso modo le lingue germani-che vengono individuate per la somiglianza formale e semantica. La pa-rola inglese land (terra) si scrive nello stesso identico modo in olandese, in svedese, in gotico e in tedesco. Nell’ultimo caso è necessario scrivere in maiuscolo la prima lettera della parola.

– classificazione tipologica: raggruppa le lingue seguendo criteri ar-bitrari o prestando attenzione all’ordine basico delle parole. Nel primo

16 Per approfondimenti sul profilo linguistico dell’Italia si può consultare la pagina web di Ethnologue (2009) all’indirizzo: http://www.ethnologue.com/show_language.asp?code=ita.

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caso, le lingue vengono classificate seguendo differenti impostazioni: presenza/assenza di alcuni fonemi (numero di vocali presenti in una lingua); particolarità nella prosodia (si fa attenzione al tipo di accento presente in una determinata lingua); morfologia (esistenza di declina-zioni o di participi all’interno della lingua esaminata; si distinguono solitamente: lingue isolanti = non esistono né declinazioni, né deri-vazioni, come nella lingua cinese; lingue agglutinanti = si aggiungono dei morfemi per indicare la funzione della parola come nel caso della lingua turca; lingue flessive = ogni forma contiene in sé un insieme di significati e funzioni a seconda della desinenza che si aggiunge, come nel caso dell’italiano). L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Recentemente tale tipo di classificazione si è concentrata piuttosto sull’ordine basico delle parole, ovvero sulla sequenza, all’interno della frase, dei suoi elementi costitutivi: Soggetto (s), Verbo (v) e Oggetto (o). Il 95% delle lingue utilizza le seguenti tre combinazioni svo, sov, vso. Alcuni esempi sono forniti dalle lingue italiana, persiana e ebraica (Gobber - Morani, 2010, p. 174):

svo → Italiano → Il bambino legge il librosov → Persiano → Mard asb-râ dîd (lett. Uomo il cavallo ha visto)vso → Ebraico → Yada‘ šôr qônêhu (lett. Conosce il bue il suo padrone)– classificazione areale: organizza le lingue partendo da un’ottica

storica diversa da quella genealogica. Un esempio: la lingua inglese è ri-conducibile al ceppo delle lingue germaniche. D’altro canto le influenze successive dovute alle conquiste dei romani in territorio britannico han-no “colorato” l’idioma di partenza che oggi consta di vocaboli di deriva-zione latina pari al 50% del lessico totale (Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza, 1995). Questo avvicina molto la lingua inglese alle lingue romanze17.

Risaliamo, attraverso queste classificazioni, ad alcune famiglie prin-cipali di lingue. Greenberg, la cui sistematizzazione è universalmente accettata, e il suo allievo Ruhlen (cit. in Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza,

17 Va precisato che sia i criteri di classificazione che il numero di famiglie lingui-stiche esistenti sono oggetto di dibattiti e confronti continui tra gli studiosi che sono spesso in disaccordo fra loro.

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Dal linguaggio e dalla cultura alle lingue

1995) ne hanno individuate circa 17, di cui quattro sono rintraccia-bili in Africa, tre in America, due in Europa, una in Australia, una in Nuova Guinea e le restanti nel continente asiatico. Gli studi attuali si stanno portando verso una diminuzione delle famiglie linguistiche con la relativa creazione di raggruppamenti più numerosi per famiglia. Per un aggiornamento costante sullo stato delle lingue nel mondo, la rivi-sta Ethnologue. Languages of the World 18, oltre a pubblicare una versione cartacea, mette a disposizione, all’url www.ethnologue.com, un’ampia documentazione arricchita di grafici, statistiche, tabelle e testi esplica-tivi che illustrano la localizzazione geografica delle 6.909 lingue censite nel 2009. L’aggiornamento del sito è costante.

Ricostruire l’albero genealogico delle lingue non è compito sem-plice, anche perché difficile, utilizzando il metodo della glottocronolo-gia – che permette di datare, anche se in modo approssimativo e con margini di errore, le lingue, nonché di ripercorrere i passi che hanno portato a separazioni e distinzioni – raggiungere parentele che siano precedenti ai 6.000 anni fa. Andando più indietro nel tempo, infatti, le parole comuni rintracciabili sono ridotte al 10% e l’errore statisti-co diventa troppo grande. Avvalendosi di diversi approcci si possono però raggiungere epoche precedenti e si può valutare la possibilità di riunire alcune grandi famiglie di lingue in una “superfamiglia”, quella “Eurasiatica”, ad esempio, che per i russi prende il nome di “Nostrati-co”. Tale classificazione è stata proposta separatamente da Greenberg e da alcuni studiosi russi (cit. in Cavalli-Sforza - Cavalli-Sforza, 1995), con alcune differenze nelle famiglie di lingue inserite all’interno della superfamiglia. Resta da chiedersi se sia possibile risalire a un’unica lin-gua comune, ancestrale. È di nuovo Greenberg (1966), sulla scia di altri pionieri come Trombetti (1905) a dare il via alle danze, risalendo a una matrice che sembra riscontrabile in tutte le lingue, l’etimo “tik”. Beng-tson e Ruhlen (1994) forniscono un elenco dettagliato delle possibili etimologie comuni tra le lingue.

18 La casa editrice si trova nel Texas, precisamente a Dallas.

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Figura 6 - Sovrapposizione delle famiglie linguistiche con l’albero genetico delle popolazioni del mondo19

5.3. Lingue in movimento

Accanto a fattori che accomunano le lingue ce ne sono molti che le rendono peculiari. Tali distinzioni non si registrano solo tra una lingua e l’altra, ma di frequente all’interno della stessa lingua dove si possono notare delle varietà che vengono enucleate a partire dalla sistematizzazione proposta da Gobber e Morani (2010):

– varietà diacroniche: le lingue non sono statiche, ma variano e si modificano nel tempo;

– varietà diatopiche: all’interno di uno stesso territorio si registra-no espressioni diverse della stessa lingua (non si prendono in con-

19 Elaborazione grafica basata sui dati di Cavalli-Sforza e Cavalli-Sforza (1995, p. 287).

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siderazione qui i dialetti, che vanno ritenuti varietà a sé stanti);– varietà diastratiche: a seconda dell’appartenenza socio-culturale di

chi parla o del contesto sociale in cui è utilizzata, la lingua assume sfumature diverse;

– varietà diafasiche: una stessa lingua è dipendente dallo scopo della comunicazione che sta avendo luogo. In un contesto lavorativo verrà utilizzato un modo di esprimersi più formale rispetto a quello utiliz-zato in contesti familiari;

– varietà diamesiche: le differenze, in una stessa lingua, sono legate al mezzo di comunicazione che si sta utilizzando. Parlare alla radio sarà diverso dal colloquiare con un amico prendendo il caffè.

Lingue che si mescolano, che si differenziano, che rivendicano un’iden-tità culturale propria, come il caso delle lingue friulana e sarda che, in se-guito alla legge n. 482 del 199920 sono state considerate realtà linguistiche da tutelare e da insegnare nelle scuole, accanto all’italiano. Interessante poi notare come la diffusione di alcune lingue abbia superato i confini geografici in cui si erano originariamente formate. È il caso dello spagno-lo e dell’inglese che, durante i periodi di colonizzazione di terre lontane dall’Europa, hanno “contaminato” le lingue locali, oppure si sono len-tamente imposte come lingue ufficiali. Più attuale, invece, la diffusione della lingua inglese come strumento “universale” per dialogare: non solo la sua conoscenza è richiesta sui luoghi di lavoro, ma essa si è introdotta anche all’interno delle nostre abitazioni attraverso le nuove tecnologie che parlano inglese. Sempre più espressioni lessicali della lingua inglese sono entrate a far parte del nostro vocabolario: personal computer, week-end, cocktail sono solo alcuni esempi (Severgnini, 2010; Crystal, 2000).

Spesso, dall’incontro non banale tra più lingue sono nati idiomi nuovi: così è accaduto per le popolazioni che sono state colonizzate e i cui membri hanno acquisito vocaboli di un’altra lingua assorbendoli nella propria in un atto creativo che ha generato una lingua unica,

20 Cfr. Italia. Camera dei Deputati, Senato della Repubblica e Presidente della Re-pubblica, Legge 15 dicembre 1999 n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze lingui-stiche storiche, in «Gazzetta Ufficiale» Serie Generale (20-12-1999) 297.

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funzionale agli scambi con i colonizzatori. Questo primo abbozzo di lingua è noto come pidgin. Nel xix secolo, dall’incontro tra la lingua dei colonizzatori europei e quelle degli indigeni locali, si sono sviluppate forme di pidgin in tre zone principali: quella caraibica, quella melane-siana e il Sud-Est asiatico. Dal cantonese e dall’inglese si è formato il chinglish. Il lessico è il risultato della commistione tra le due lingue, la sintassi è elementare e molto semplificata, spesso ci sono spiccati adattamenti fonetici. Con il passare del tempo il pidgin può assumere una certa stabilità e affermarsi come lingua madre delle generazioni successive: tale fenomeno prende il nome di creolizzazione e la lingua che emerge viene detta creola (Gobber - Morani, 2010). Oltre a crearsi e a modificarsi, le lingue rischiano anche di “morire” e di “estinguersi”.

5.4. Lingue in estinzione

Se invece di prendere in esame la sedicesima edizione di Ethnolo-gue (Lewis, 2009) avessimo avuto in mano la quindicesima (Gordon, 2005), sarebbe subito saltato agli occhi che le lingue parlate erano 6.912, ovvero tre in più rispetto a quelle attuali. Quelle tre lingue in più sono semplicemente scomparse. Come può una lingua “morire” da un giorno all’altro? Questo accade quando non ci sono più indi-vidui che la parlano. Molte, oggi, sono le lingue che si stanno avvici-nando alla fine perché è rimasta solo una manciata di persone a farne uso. In Africa stanno per scomparire 46 lingue. Nelle Americhe 182. 84 fra le lingue asiatiche, mentre quelle europee in via di estinzione sono, fortunatamente, solo 9. Il numero sale drasticamente a 152 se ci accostiamo alle lingue del Pacifico che comprendono anche alcune aree del Sud dell’Asia e il Madagascar (Lewis, 2009). Il mondo sarà, purtroppo, depauperato di ben 473 lingue-culture. Ma quali sono le ragioni per cui si arriva al decadimento completo di una lingua?

Come evidenzia Crystal (2000), ci sono tre fasi nella “morte” di una lingua: la prima prevede un momento in cui una lingua s’impone su un’altra. Può trattarsi di un processo dall’alto verso il basso o pro-cesso d’imposizione di una lingua sull’altra, o, al contrario, possono essere le esigenze sociali a imporsi, per decisione di una minoranza

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linguistica o semplicemente per ragioni di moda. Oppure il meccani-smo può essere poco definito e determinarsi ugualmente. Nella se-conda fase abbiamo una sorta di bilinguismo dei parlanti, in cui le lingue sono padroneggiate in ugual modo. Infine, nella terza fase, la seconda lingua soppianta la prima e restano sempre meno parlanti a conoscere e utilizzare la lingua originaria.

5.5. Lingue artificiali e immaginarie e linguaggi di programmazione

Da una parte la creatività umana, dall’altra impellenti esigenze di comunicazione, hanno avviato la produzione di lingue artificiali o im-maginarie scritte e parlate o solo parlate (Albani - Buonarroti, 1994). La sigla lai, che sta per Lingue Ausiliarie Internazionali, raggruppa un buon numero di lingue tra le quali la più conosciuta è l’esperanto, sviluppata tra il 1872 e il 1887 da Ludwik Lejzer Zamenhof. Questa Lingvo Internacia è stata creata con lo scopo di far dialogare fra loro i diversi popoli per creare pace e comprensione. L’esperanto ha vo-luto appartenere e continua a voler appartenere all’umanità e non a un popolo (Macrì, 2010). L’esperanto ha conosciuto un progetto di riforma nel 1937, per opera di René de Saussure.

Il fascino esercitato dalle lingue ha portato alla creazione di lingue universali nei film di animazione o nei racconti fantasy. J.R.R. Tolkien cita ben 25 lingue nei suoi libri, tra cui il Hobbitish. Il Basic galattico è la lingua franca nell’universo di Guerre Stellari (Lucas, 1977-2005). Lin-gue vere, semplificate, sono anch’essere Basic come il Basic English, fra altre, una versione semplificata dell’inglese creata da Ogden (1937).

I linguaggi di programmazione, in informatica, sono linguaggi formali dotati, come un qualsiasi altro linguaggio naturale, di sin-tassi, di lessico e di semantica, chiaramente definiti, che vengono utilizzati per controllare una macchina formale o una sua implemen-tazione. Dal linguaggio Plankalkül di Konrad Zuse, mai utilizzato, ai linguaggi imperativi, strutturati, orientati a oggetti, funzionali, logici, esoterici, paralleli e di scripting, l’informatica mostra una creatività sempre in azione. Ben prima dei linguaggi formali dell’informatica è stata ed è presente la logica formale.

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6. Un ritorno alle origini che si proietta nel futuro della didattica dellelingue altre

Come spendere quanto illustrato fin qui nella quotidianità dell’inse-gnare e acquisire lingue altre? Bisogna davvero tornare indietro agli al-bori della storia dell’uomo e all’origine del linguaggio per insegnare una lingua altra? È necessario conoscere in che modo si è evoluta la cultura e capire come siamo passati dal colore del linguaggio alla tavolozza di lin-gue oggi a nostra disposizione? Non è solo importante. È fondamentale. Sapere come si sono sviluppate le nostre abilità linguistiche permette di utilizzare mezzi e tecniche più efficaci ai fini dell’apprendimento, come ad esempio l’uso della gestualità, della mimica e della manualità. Quanto detto sul rapporto tra gesto e linguaggio suggerisce alcune condotte fondamentali per la didattica. Partire dall’azione, dalla manipolazione, dalla concretezza di una comunicazione che si basa anche sui gesti per-mette di facilitare l’acquisizione di una lingua altra. Lo fanno general-mente i genitori che stimolano le prime parole del bambino indicando gli oggetti, facendo movimenti o sottolineando con un gesto. Se vie-ne naturale e spontaneo nell’acquisizione della prima lingua, potrebbe essere un passaggio essenziale anche nell’apprendimento di una lingua altra. Più i mezzi che utilizziamo sono vicini a ciò che naturalmente fa un bambino che impara la propria lingua materna e più la trasmissione di un altro patrimonio linguistico potrebbe essere efficace. Questo ci è stato anticipato dall’excursus sull’origine del linguaggio che ha visto nel gesto il precursore della parola. Le ricerche nel campo delle neuroscien-ze, che saranno esposte nel capitolo terzo, sembrano andare nella stessa direzione. Il gesto diventa un potente alleato per comprendere meglio il modo di esprimersi linguisticamente. Soprattutto perché nel passaggio dall’azione al linguaggio sono state rese possibili alcune conquiste che hanno determinato numerosi cambiamenti nella vita dell’umanità.

E cosa dire dell’approfondimento sulla pluralità linguistica e sulla somiglianza genetica? Temi di sconcertante attualità all’interno dei no-stri crocicchi sempre più multiculturali. Attraverso le lingue possiamo veicolare informazioni reciproche sulle culture di appartenenza. Fare approfondimenti su modi di dire, su espressioni tipiche, su frasi idio-matiche, evidenziare similitudini e differenze tra le lingue parlate: ecco

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Un ritorno alle origini che si proietta nel futuro della didattica delle lingue altre

che la lingua diventa lo strumento per far nascere una vivace e rispettosa curiosità per l’altro e per la sua cultura. Nella cornice di un’antropologia della reciprocità si trova il luogo più autentico per la fondazione della relazione interculturale perché, oggi, la nozione tradizionale di cultura ci chiede di essere dei “tu” inculturati e acculturati.

La cultura, complesso di beni o di valori che altri prima di noi hanno accumulato e trasmesso e che noi, con un tocco in più, trasmettiamo ad altri dopo di noi, è caratterizzata dal tempo storico e dallo spazio geografico. È viva, malleabile e dinamica: avvengono cambiamenti al suo interno e fra culture.

Una delle principali suddivisioni dell’antropologia, collegata con lo stu-dio della cultura in tutti i suoi aspetti, e che usa i metodi, i concetti e i dati dell’archeologia, dell’etnografia, dell’etnologia e della linguistica nelle sue descrizioni e analisi dei vari popoli del mondo, è iniziata in maniera sospet-tosa quando l’Europa, tecnologicamente avanzata, si è messa in contatto con varie culture “tradizionali”, maldestramente denominate “selvagge” o “primitive”. Ha percorso poi periodi di genuino interesse per le origini delle diverse culture, popoli e lingue del mondo, ha superato non pochi pregiudizi e si è finalmente aperta a una visione pluralistica per la qua-le ogni cultura umana, prodotto unico dell’ambiente e dei contatti, è un valore. L’impegno dell’antropologia culturale consiste nel capire i gruppi umani come creature del loro ambiente e come creatrici dei loro valori, at-traverso la complessità e dinamicità proprie della persona, sempre capace di riscoprire e ri-creare se stessa all’interno dei confini della sua cultura.

Una scienza, l’etnologia, che tratta in profondità della cultura. Nel lessico anglosassone, una duplice definizione la caratterizza. È la scienza che tratta delle origini, distribuzione, relazioni, caratteristiche e suddivi-sione degli esseri umani in razze ed è anche lo studio comparativo e ana-litico delle culture. Buber suggerisce che i nuclei di linguaggio dei popoli che sono rimasti poveri di oggetti e la cui vita si svolge attorno a un esi-guo numero di azioni, sempre centrate sul presente, indicano per lo più la totalità di una relazione. In essi non si colgono i prodotti dell’analisi e della riflessione, ma la relazione vissuta. Che senso ha – scrive Buber – il saluto Heil, legato all’attribuzione di potere, se viene confrontato con il saluto dei Cafri, fresco e corporeo come “Ti vedo!” o alla sua variante americana “Annusami!”? (Buber, 1993, p. 72).

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Anche la comprensione etnica avviene grazie all’apprendimento delle lingue. Dalla ricerca empirica emerge che l’acquisizione di un co-dice linguistico differente sembra essere un mezzo capace di ridurre i vincoli culturali e preparare la strada per una comprensione reciproca. Com’è il rapporto tra lingua e cultura? È stretto e nasce dal fatto che la lingua fa parte di un sistema culturale. Lo straordinario mezzo di trasmissione del pensare, del sentire e dell’agire che è il linguaggio è strettamente legato ai modelli culturali e sociali di comportamento. Di conseguenza, il contatto tra le lingue produce il contatto tra le culture. La lingua si rapporta con la cultura del popolo che la parla, è la chiave di accesso alla comprensione della cultura e, viceversa, la cultura spie-ga molte strutture della lingua.

Prendere il tè a una certa ora del pomeriggio con un particolare rituale; mangiare cinese o indiano; avvolgere in una foglia di lattuga un boccone scelto e porgerlo all’ospite di riguardo e migliaia di altre particolarità culturali si chiamano “educazione linguistica”. Le diffe-renze nel preparare i cibi indicano maniere diverse di vedere il mondo e particolari stili di vita. Sono “testi” culturali ricchissimi.

Lingua e cultura sono due entità così interrelate e interdipendenti da non potersi scomporre. Se attraverso la lingua passano i valori del-la comunità che la parla, la lingua è la concretizzazione della società che rappresenta. L’apprendimento di una lingua diversa dalla lingua madre è l’occasione per scoprire un’altra maniera di sentire, percepire e comprendere. Pensare e sentire in una lingua altra significa aderire completamente a un altro sistema semantico. Ne usciamo arricchiti.

Di fronte alle numerose e ricorrenti difficoltà che oggi si incontra-no negli ambiziosi progetti di “educazione all’Europa”, di “educazione alla mondialità” e di “educazione interculturale”, le proposte buberia-ne appaiono sfide, certamente difficili, ma luminose come lo sono le utopie. Educazione linguistica è anche educare a sciogliere le formule linguistiche anonime nel loro nocciolo culturale, è operare revisioni dei cliché costituiti, è aprire continuamente il ciclo dei confronti, non per interpretare e valutare le culture in riferimento alla nostra, ma per ap-prezzarle e appassionarvisi. Accostare bambini, ragazzi e giovani a più lingue, e perciò a più culture, significa immergerli in contesti vivi, intrisi dei comportamenti socio-affettivi specifici di altri universi culturali in-

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Risultati dell’apprendimento espressi mediante i descrittori di Dublino

tessuti con le lingue apprese. Non serve un semplice condizionamento verbale e cognitivo, è indispensabile un’immedesimazione empatica, un legame vitale tra lingua e cultura. I viaggi reali e virtuali potrebbero fa-cilitare questa immedesimazione per la compresenza dei tre modelli di trasmissione della cultura: uno-molti, uno-uno e molti-molti. La strada verso la piena umanizzazione passa per la com-prensione – che diventa passione – per l’Altro nella sua cultura e nella sua lingua. Si potrebbe levare allora un coro di sei miliardi di voci che cantano insieme: And I think to myself: what a wonderful world? Chissà.

Per gli studenti di facoltà universitarie

7. Risultati dell’apprendimento espressi mediante i descrittori di Dublino

Conoscenza e capacità di comprensione

Il lettore/lo studente dimostra di conoscere/saper spiegare: le tappe principali dell’evolu-zione umana con particolare riferimento allo sviluppo delle abilità linguistiche; le teorie più importanti riguardo le origini del linguaggio; le tappe fondamentali nella produzione cul-turale-linguistica che ha caratterizzato la sto-ria dell’umanità; la diffusione delle lingue nel mondo e i fenomeni che attualmente le stanno interessando.

Conoscenza e capacità di comprensione applicate

Il lettore/lo studente è in grado di estrapo-lare dagli argomenti teorici trattati elemen-ti adeguati e di realizzare semplici unità di apprendimento per sensibilizzare gli alunni,dalla scuola primaria alla scuola secondaria superiore, circa: l’evoluzione del linguaggio,le tappe principali nello sviluppo della cultura umana, la diffusione delle lingue nel mondo.

Autonomia di giudizio Il lettore/lo studente è in grado di presentare i vari punti di vista che emergono dai temi trat-tati all’interno del capitolo e le teorie circa la nascita del linguaggio e di illustrare, dandone le motivazioni, quale fra essi trova più convin-cente. Per la difesa del proprio punto di vista si può servire di approfondimenti personali fatti su altri materiali e supporti.

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Capitolo primo - Le origini del linguaggio, della cultura e delle lingue

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8. Guida allo studio e all’approfondimento

1. L’evoluzione umana e le tappe principali che l’hanno caratterizzata.2. Le conquiste che hanno permesso l’evoluzione dell’uomo.3. Le principali teorie sulla nascita del linguaggio.4. Come il linguaggio ha favorito la nascita della cultura.5. La protocultura.6. Il contesto all’interno del quale si sono evolute le prime forme di scrittura.7. Il ruolo degli amanuensi all’interno dei contesti culturali medioevali.8. I cambiamenti avvenuti dopo l’invenzione della stampa.9. La comunicazione influenzata dai media.10. I tipi di classificazione linguistica più adottati.11. Le varietà linguistiche.12. Il pidgin e la creolizzazione.13. Le fasi dell’estinzione linguistica individuate da Crystal.14. Le lingue artificiali.15. La teoria evolutiva al di là di evoluzionismo e creazionismo.

Comunicazione Il lettore/lo studente è in grado di spiegare con chiarezza i temi affrontati, argomentando in maniera ricca e approfondita quanto acqui-sito. Ad esempio, sa enucleare tutti i fattori che hanno contribuito all’evoluzione umana.

Capacità di apprendere Il lettore/lo studente dimostra di padroneg-giare metodologie di apprendimento renden-do in forma schematica e immediata i vari argomenti trattati. A questo scopo utilizza mappe mentali che realizza usando program-mi quali Visio di Microsoft o MindMeisterdi MeisterLabs Inc. o iMindMap di Tony Bu-zan. Commenta la timeline (linea del tempo) e legge le cartine geografiche che mostrano dove sono avvenuti i ritrovamenti di fossili e alcune fra le più importanti migrazioni.