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L’AFFRESCO FANTASMA DI ERCOLANO preceduto dalla storia di un amore di Aniello Langella Salvatore Argenziano Vincenzo Marasco Armando Polito

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L’AFFRESCO FANTASMA

DI ERCOLANO preceduto dalla storia di un amore

di Aniello Langella Salvatore Argenziano

Vincenzo Marasco Armando Polito

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Tutto cominciò un anno fa quando Armando Polito (e chi è?) decise di partecipa-

re al forum di dialettando.com rendendo in un certo senso pubblica una sua anti-

ca passione, quella per la filologia in generale e per i dialetti in particolare, che,

fino al momento di andare in pensione, aveva avuto occasione di esprimersi gior-

nalmente solo con i suoi allievi (così dice lui…) nel corso delle sue modeste

(questo è certo) lezioni di modestissimo (questo è più che certo) insegnante di

liceo. Sul forum citato ebbe occasione di fare la conoscenza, sia pure solo virtua-

le, di altri animati dalla sua stessa passione e fu un’occasione di arricchimento,

dopo quello, irripetibile, di cui era stato debitore ai suoi allievi, nessuno escluso.

Poi lo scontro con la saccenza di alcuni partecipanti al forum e l’inerzia del suo

responsabile decretarono il suo abbandono di quel luogo di incontro, al quale, co-munque, resta grato per avergli consentito di mantenere inalterati, anzi di ap-

profondire e amplificare alcuni rapporti nati in quel sito e che, dopo la rottura,

hanno avuto in Vesuvioweb l’approdo ideale (così dice sempre lui). E fu proprio

una colonna (questo è più che certo) di Vesuvioweb, Salvatore Argenziano a fare

il nome di Armando al suo (del sito…) direttore, Aniello Langella che aveva biso-

gno della traduzione di un’epigrafe in latino. Nacque così per caso, come spesso

succede, un’amicizia sorretta da reciproca stima e da profonda condivisione degli

stessi valori e iniziò pure una collaborazione più intensa, scandita da lavori soli-

tari o di gruppo, il cui pregio, se ne hanno uno, è quello di essere ispirati solo dal

vero spirito di collaborazione che non conosce rivalità o gelosie.

Armando, pugliese, era già un estimatore della cultura napoletana, ma, sapien-

temente guidato da Salvatore, da Aniello e da Vincenzo Marasco (abbiamo mes-so in coda Vincenzo per motivi non di ordine alfabetico o di importanza o anagra-

fici, ma solo cronologici, nel senso che è stato l’ultimo a conoscere il pugliese; il

che spiega l’aggiunta del cognome, non avendolo nominato prima), ha preso

un’autentica cotta per questa terra della quale il Vesuvio simboleggia l’anima con

le sue molteplici umane contraddizioni…

Così, dopo aver fatto il primo assaggio con le epigrafi di Portici e di Torre del

Greco, con i campioni di varia umanità (dagli osti ai gladiatori, ai poeti o presunti

tali) che i graffiti di Pompei hanno fatto uscire dall’anonimato, abbiamo pensato

(l’appetito viene o non viene mangiando?) ad un progetto più ambizioso, forse

troppo grande per noi: raccogliere e commentare tutte le fonti, letterarie e non,

riguardanti il Vesuvio.

Ora che il lavoro è a buon punto e che i fatti nostri sono stati sufficientemente

sbandierati seguendo la moda televisiva e non solo quella, si offre qui al lettore, come antipasto un secondo, breve estratto, con adattamenti, di una delle tanti

questioni affrontate. Buon appetito e, soprattutto, felice digestione!

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Ci occuperemo di una delle presunte immagini del Vesuvio che gli scavi ci avreb-

bero restituito e che poi l’incuria (più probabilmente la rapacità degli uomini…)

avrebbero fatto scomparire.

L’immagine sovrastante è contenuta in Le antichità di Ercolano esposte, Stamperia

regia, Napoli, 1779, vol. VII, tavola LXXVII.

Essa è stata presa in considerazione più volte nel corso del tempo come una pos-

sibile rappresentazione (perduta) del Vesuvio. Sostengono questa tesi: E. Cocchia,

La forma del Vesuvio nelle pitture e descrizioni antiche in Atti Reale Accademia Ar-

cheologia, Letteratura e Belle Arti di Napoli, XXI (1900-1901), pag. 17; G. B. Alfa-

no-I. Friedlaender in La storia del Vesuvio illustrata dai documenti coevi, Ulm,

1929, pag. 35; P. Preusse, in Ein Wort zur Vesuvgestalt und Vesuvtätigkeit im Al-

tertum in Klio, XXVII (1934), pag. 302; A. Scherillo in Plinio e il Vesuvio, in Plinio

il Vecchio (Atti dei Convegni Lincei, 53), Roma, 1983, pag. 29; M. Frederiksen in Campania, British School a Rome, 1984, pag. 8.

Gli autori citati, probabilmente condizionati da un’attribuzione frettolosa e data per

scontata, si sono prodigati solo a precisare il punto di osservazione che è da po-

nente per Alfano-Friedlaender, da Napoli per Scherillo, dai dintorni di Resina per

Cocchia e sulla conformazione del monte che è monocipite per Cocchia e Alfano-

Friedlaender, bicipite per Preusse.

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Noi nutriamo qualche dubbio e riteniamo che addirittura l’immagine in questione

potrebbe non essere la rappresentazione di un affresco realmente esistito.

Tale dubbio è sorto considerando la struttura iconografica e testuale del reperto-

rio. Cominciamo dalle prime tre pagine dedicate alla prefazione.

E’ perfino banale far notare come le

immagini riportate non sono certo la

riproduzione di affreschi antichi. Il lo-

ro inserimento appare giustificato

proprio dal fatto che esse compaiono

nella prefazione, ragion per cui non

possono essere considerate come del-

le intruse, ma rappresentano, a parer

nostro, un precedente importante per

le osservazioni che seguiranno.

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Qui delle quattro immagini solo l’ultima corrisponde alla tavola I e solo alla let-

tura di questa si riferisce il testo. La seconda immagine in cui è inglobata la I

ha secondo noi solo una funzione ornamentale, quella stessa delle miniature dei

testi antichi. L’ultima immagine è la tavola vera e propria cui si riferisce il testo.

Si direbbe che la prima (un paesaggio) e la penultima siano delle intruse.

Un’ultima osservazione: la dicitura TAVOLA II in calce alla quarta pagina è un

vezzo tipografico di anticipazione, ricorrente, come vedremo più avanti.

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Qui le intruse sembrano essere

la prima (ancora un paesaggio)

e la seconda (una vignetta),

mentre il testo si riferisce solo

all’ultima. Non manca il vezzo

di anticipazione tipografica pri-

ma evidenziato.

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Qui siamo passati alle pagine che riguardano l’affresco in questione, ma la struttu-

ra fin qui delineata è una costante per tutte le precedenti e per tutte le successive.

In testa il solito, in questo caso il nostro, paesaggio, poi la vignetta, infine la tavo-

la vera e propria cui si riferisce il testo. Questa volta la tavola comprende, oltre

all’aquila ed ai fregi, anche un paesaggio e la dicitura TAVOLA LXXVIII non compa-

re, probabilmente per ragioni di composizione tipografica, in calce. Tornando un

attimo al “nostro” paesaggio (prima immagine) in calce ad esso si nota (primo in-

grandimento in basso) le diciture v.c. e Sec.(la c ha un segno sovrastante simile

alla tilde, ne parleremo in seguito) Deangelis f. Per v.c. probabilmente si tratta

della sigla del disegnatore dal momento che il nome dello stesso (anche se abi-

tualmente per esteso è collocato in quella posizione), Deangelis sarà il cognome dell’incisore (di regola lì collocato), per cui il Sec che lo precede dovrebbe essere

abbreviazione di sector=intagliatore (come mostra la stessa sigla apposta dalla

stessa mano sul consueto paesaggio che accompagna la tavola successiva (nella

pagina seguente, mentre per f riteniamo che sia una abbreviazione di filius (figlio)

più che di fecit (fece), il che sarebbe un fatto inconsueto.

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É giunto il momento di trarre le conclusioni, anche se esse si risolvono in due

piuttosto pilateschi dilemmi emergenti dalle osservazioni, per noi incontroverti-

bili, fatte sulla struttura dell’opera:

a) Dobbiamo ritenere che tutte le immagini non commentate nel testo siano

un semplice supplemento di ornamento sia pure in tema, che trae, cioè, la

sua ispirazione da affreschi autentici? Se è così l’immagine qui oggetto del

nostro interesse è un “falso”.

a) Tutte le immagini sono la riproduzione di opere reali? E, nel nostro caso, la

nostra potrebbe trovare giustificazione del suo inserimento nella diversa “lettura” data dal De Angelis dello stesso originale che nella seconda com-

posizione della tavola ufficiale reca (vedi nella pagina successiva) le firme di

Giov(anni) Morghen Reg(io) dis(egnatore) e di Gius(eppe) Aloya P(adre?)

Inc(isore)?

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In tal caso dobbiamo attribuire al De Angelis (dal momento che il Morghen era un

nome) una vista piuttosto scadente o un eccesso di fantasia o di libertà interpre-

tativa? Oppure dobbiamo pensare che l’originale fosse così malridotto se nelle

due ricostruzioni gli unici elementi in qualche modo sovrapponibili risultano esse-

re la barca a destra con i due passeggeri e, invertito di 180°, il pescatore? Oppu-

re Deangelis si riferiva ad un altro affresco?

È irrilevante, poi, il fatto che, nonostante le indagini fatte in tal senso, neppure

una delle immagini di paesaggio collocate in testa alle tavole vere e proprie ri-

sulta corrispondere ad un affresco sopravvissuto, anche se bisogna fare i conti con la rapacità degli uomini che all’inizio abbiamo ricordato?. I troppi interrogati-

vi ci spingono a privilegiare l’ipotesi a, anche se, sinceramente, vorremmo aver

torto per non rendere traballante questo tassello fin qui, forse troppo frettolosa-

mente come abbiamo detto, ritenuto fermo.