l'arcobaleno anno iii numero 7 marzo aprile 2010 "gli animali"

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l’ arcobaleno rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti Albrecht Dürer, (1471-1528) - Leprotto, 1502 - Acquerello su carta, Graphische Sammlung Albertina, Vienna. anno III, n° 7 marzo-aprile 2010 2 € animali

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A magazine for students, teachers and other thinking people...

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Page 1: l'arcobaleno anno III numero 7 marzo  aprile 2010  "Gli animali"

l’arcobaleno rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti

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anno III, n° 7 marzo-aprile 2010

2 €

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S iamo tutti sulla stessa barca, sembra si dicano i gabbia-ni; e sembra pure che ce lo suggeriscano. Ma noi siamo duri di comprendonio. Sì, lo sappiamo che questo mondo è uno, ed è pure stretto, ma invece di organizzarci per cercare di starci comodi tutti, consideriamo normale che chi arriva pri-ma, chi è più furbo, più forte, più criminale, prenda per sé tutto quello che può. Naturalmente, tutto questo accade invo-cando qualche sacrosanto principio, qualche legge divina, naturale o civile. Non è in base a quest e leggi che l’uomo ha, di volta in volta, affermato la superiorità del maschio sulla femmina, del bianco sul nero, sul rosso e sul giallo, dell’ariano sull’ebreo? E non è su questa legge che si fonda il dominio sugli animali? Chi, oggi, è così cattivo, o stupido, da continuare a sostenere, come troppo spesso si è fatto, posizio-ni razziste o sessiste? Se anche esistesse, un mentecatto simile utilizzerebbe i resti del suo cervello per considerare l’opportunità di starsene zitto. Sono invece troppo pochi , ma per fortuna stanno crescendo rapidamente, quelli che si inter-rogano sul presunto diritto che gli uomini avrebbero a domi-nare ed a sfruttare gli animali, quelli che pensano che lo spe-cismo non sia che una forma, ma estremamente più radicata, del razzismo. È da molto tempo, ormai, che è cessata la ne-cessità di uccidere per di fendersi, nutrirsi e vestirsi, ma il rapporto con gli animali non accenna a cambiare. Il consumo di carne, nonostante le concordi indicazioni negative dei nu-trizionisti, tende ad aumentare. Gli allevamenti intensivi, vere e proprie fabbriche di carne, non hanno più nulla a che sparti-re con un sia pur discutibile rapporto tra uomo e natura, che lasciava uno spiraglio persino per significati non alimentari. La logica di questo nostro sistema economico e politico, basa-to sull’accumulazione della ricchezza e sul dominio di chi è più debole, non perde alcuna occasione per s fruttare quanto

più è possibile gli animali, tutti gli animali. Sembra di essere davanti ad uno scenario schi zofrenico. Da una parte, infatti, aumenta in modo iperbolico il fatturato de-gli alimenti e dei prodotti per animali domestici. Sono sempre più floridi, infatti, gli affari di chi produce servizi per assiste-re e curare gli amici a quattro zampe “ umanizzati”, umanizza-ti al punto da richiedere non solo veterinari, toelette, pensioni e vestiti, ma anche appositi servizi psichiatrici ed onoranze funebri. Dall’altra non ci si fa alcun problema a s fruttarli eco-nomicamente in modo spietato. Ingozzati per 24 ore al giorno con mangimi ipercalorici, in gabbie in cui è impedito ogni movimento, appena giunti alla fine del brevissimo ciclo vitale vengono ammazzati a ritmo industriale senza nessun accorgi-mento per diminuirne lo stress ed il dolore. Bastonati e spella-ti per farne pellicce per bestie a due zampe; vivisezionati e torturati per sperimentazioni che si dicono scienti fiche, ridi-colizzati contro la loro natura per circhi e spettacoli. Per for-tuna, però, specialmente tra i giovani, cresce la sensibilità verso il mondo animale, di cui facciamo pienamente part e. Aumenta il numero di vegetariani, di vegani e di gente che è comunque attenta a considerare il rapporto tra ciò che mangia è ciò che è; aumenta il numero di chi rifiuta di indossare pelli o materiali derivanti da animali; cresce la consapevolezza che spinge a non utilizzare prodotti cosmetici testati su animali; si creano sempre più spettacoli, anche circensi, privi di animali; è sempre maggiore il numero di chi preferisce la sfacchinata di una passeggiata in una riserva naturale alla sveltina a paga-mento di uno zoo. Aumentano le pubblicazioni e le associa-zioni di ispirazione animalista. Aumenta l’interesse per gli animali. Questo numero dell’arcobaleno vuole esserne una modesta testimonianza. E ci auguriamo che possa essere an-che uno stimolo alla discussione tra studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti.

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siamo tutti sulla stessa barca

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Like a bird on the wire Like a drunk in a midnight choir I have tried in my way to be free. Like a worm on a hook Like a knight from some old-fashioned book I have saved all my ribbons for thee.

If I have been unkind I hope that you can just let it go by If I have been untrue, I hope you know it was never to you.

Like a baby stillborn Like a beast with his horn I have torn everyone who reached out for me. But I swear by this song And by all that I have done wrong I will make it all up to thee.

I saw a beggar leaning on his wooder crutch, He said to me, “ You must not ask for so much.” And a pretty woman leaning in her darkened door, She cried to me, “ Hey, why not ask for more?”

Like a bird on the wire Like a drunk in a midnight choir I have tried in my way to be free. (Leonard Cohen, Bird on a wire)

L eonard Cohen è nato a Montreal, nel 1934, da una famiglia ebraica immigrata nel Canada. Suo padre era di origini polacche e sua madre di origini lituane. E’ cantauto-re e poeta. Dal 1967 ad oggi ha pubblicato 15 album. Mol-te sue canzoni sono state riprese e tradotte in italiano da autori come De Andrè, De Gregori, Baccini. Ha scritto alcuni capolavori come Famous Blue Raincoat, The Partisan, Suzanne, Si-sters of Mercy, Hallelujah, e Bird on a Wire, di cui sotto è riportato il testo. Vi invitiamo a tradurlo e ad ascoltarne le canzoni. Ne vale veramente la pena!

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Tavola di Guglielmo Manenti

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In questo numero

Editoriale, p. 2

Leonard Cohen, Like a bird on a wire, p. 3

Guglielmo Manenti, Tavola di illustrazione, p. 4

Sommario, p. 5

Francesco Mancini, Confini, definizioni, gerarchie, pp. 6-7

Pietra Pomice, Un'insalata di polpo? Prima facciamoci un pensierino, pp. 8-9

Gianni Gamberini, Non si fa così, pp. 10-11

Giacomo Pisani, La diversità come fondamento di una nuova convivenza, p. 12

Dario D’Angelo, Tobia, p. 13

Antonio Squeo, Divinità, santi ed animali, pp. 14-6

Giuseppe Strazzulla, Il miglior amico del cane, p. 17

Stefania Lucia Zammataro, Simboli del regno animale nell’arte, pp. 18-19

A.L.D., Letteratura Bestiale, pp. 20-22

Anteo Quisono, Quando il cigno si mette a far politica, p. 23

Walkabout, Animal Lovers?, p. 24

Alessandra La Torre, Il problema non e’: "Possono ragionare?", né: "Possono parlare?"

ma: "Possono soffrire?", pp. 25-27

Vivina Iannelli, Se fosse un animale sarebbe…, pp. 28-29

Franco Paradiso, Requiem per “Zia Pina”, pp. 30-31

Giovanni Abbagnato, Animali: un business al quale non si vuole rinunciare, pp, 32-33

fabrizia, Un amore non corrisposto, p. 34

Guglielmo Manenti, Tavola di illustrazione, p. 35

Aldo Migliorisi, Sei per sette quarantadue (più due quarantaquattro), pp. 36-37

Katia Arcidiacono, Animali Vs Uomini, pp. 38-9

Mario Bongiorno, Sicilia, randagismo anno zero, pp. 40-43

Le foto, ove non diversamente indicato, sono di Antonio SqueoLe foto, ove non diversamente indicato, sono di Antonio SqueoLe foto, ove non diversamente indicato, sono di Antonio SqueoLe foto, ove non diversamente indicato, sono di Antonio Squeo

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Carel Fabritius, (1622-1654), Il cardellino, olio su legno, 1654,

Mauritshuis, The Hague

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S offermarsi a considerare cosa distingue gli uomini dagli animali e dalle piante e cosa, invece, li accomuni può apparire esercizio futile, in quanto rel ativo a faccende ovvie e notorie, se non banali. In ogni ordine di scuola, infatti, si insegna che gli animali hanno, in comune con gli uomini e le piante, una vita vegetativa e, a differenza delle piante, anche una vita sen-sitiva. Per vita vegetativa si intende l’insieme delle funzioni che riguardano l a vita organica (respirazione, circolazione, ecc.) e non la vita di relazione. La vita sensitiva si riferisce invece all’esercizio della capacità di conoscere, sentire e svol-gere altre attività tramite i sensi e le facoltà sensoriali. Gli uomini, oltre ad una vita vegetativa che li accomuna a tutti gli altri esseri viventi, hanno una vita sensitiva, analogamente agli animali, ed una intellettuale, che invece li contraddistin-guerebbe e per cui sarebbero per antonomasia “ animali razio-nali”. Insomma, è un concetto pressoché universalmente ac-quisito che gli uomini assommino in sé caratteristiche comuni a tutti gli altri esseri viventi sulla terra ed altre loro proprie ed esclusive, attinenti alla s fera dell’intelletto, della ragione, del sentimento, dello spirito, della trascendenza. Non ci sarebbero motivi per contestare seri amente queste distinzioni e classi fi-cazioni, che paiono all’apparenza godere del carattere dell’evidenza, se non fosse che le basi su cui si fondano e le conseguenze che comportano appaiano tutt’altro che tranquil-lamente condivisibili. Come molte delle attuali convinzioni umane, anche le conce-zioni relative alla vita ed alla natura hanno un fondamento ed un’origine nelle religio-ni. In particolare, la civiltà cristiana, unita-mente alle altre fondate su religioni mono-teistiche e sulla fede in testi ritenuti ispirati direttamente dalla divinità, ha preso sul serio ed alla lettera la parte della Bibbia che stabilisce il rapporto di dominio dell’uomo nei confronti degli animali: E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra

immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie sel vati-

che e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». … E Dio dis-se: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su

tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce se-me: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti

gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla ter-ra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». Gli uomini e i popoli credenti in uno o più libri hanno, storica-mente, perlopiù omesso di considerare che a scriverli sono stati degli altri uomini e che, quand’anche essi recassero la parola di Dio, comunque si baserebbero sulla memoria e l’interpretazione di quanti affermano di averla ascoltata. Si è, fra l’altro, ritenuto scontato e implicito che il dominio

dell’uomo comportasse non solo il pote-re di uso ed abuso su animali e vegetali, ma anche una gerarchia di valori, una superiorità nei confronti dei medesimi ed una sorta di esenzione dell’uomo dalla sottomissione alle leggi della natu-ra. Anziché una condotta ispirata alla prudenza, all’equilibrio ed all’umiltà, ha prevalso nell’uomo la tendenza a figurarsi, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, come sottratto alle leggi cicliche di eterno ritorno della

natura e destinato a fini e disegni divini trascendenti la vita terrena. Ciò ha riguardato in particolare la civiltà occidentale e soprattutto quella cristiana, che storicamente ha prevalso ed ha finito per affermarsi ed informare di sé l’intero pianeta, tramite la di ffusione delle proprie tecniche di produzione e delle istituzioni politiche, culturali, economiche e finanzi arie.

Confini, definizioni, gerarchie

Come molte delle attuali convinzioni umane, anche le concezioni relative alla vita ed alla natura hanno un fondamento ed una origine

nelle religioni

La considerazione che

l’uomo è al centro

dell’universo

non ha fondamento

scientifico

ma solo culturale.

Anonimo inglese, attivo verso il Quattrocento, studi di

animali, Pepys Library, Magdalene College, Cambridge

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L a vittoria della civiltà occidentale si è pienamente realiz-zata nel corso del XIX secolo, con il trionfo del sistema di produzione capitalistico e la colonizzazione, in pratica, di tutta la terra da part e degli stati europei e di quelli che ne hanno adottate le strutture economico-sociali. Tali orientamenti ed i conseguenti comport amenti, protrattisi quantomeno nell’arco di alcuni millenni, hanno tra l’altro comportato che si sia af-fermata la convinzione che ciò che pare rendere gli animali simili all’uomo sia frutto di istinto e non di sentimenti parago-nabili a quelli umani. Insomma, quale che si a il signi ficato attribuito alla parola istinto, agli animali è stata negata la pos-sibilità di essere capaci di dolore, gioia, rimorso, rimpianto, gioco, riso, pianto e simili, analoghi a quelli veri ficabili nell’esperienza umana. Eppure i motivi per andar cauti in que-sto genere di giudizi trancianti non mancano. Ad esempio, spesso i marinai hanno confessato l a loro incapacità o il loro turbamento, se incaricati dell’uccisione di un delfino catturato nelle loro reti, allorché si rendevano conto che l’animale era consapevole di ciò che stava per accadergli, tanto da scostarsi dalla lama che gli si avvicinava. Per altro verso, molti animali hanno dimostrato di essere perfettamente in grado di compiere operazioni aritmetiche, che sicuramente molti uomini scarsa-mente dotati hanno di ffi coltà a svolgere. Casi come quelli descritti rendono proble-matico negare che, se non tutti, almeno alcuni animali, magari quelli più evoluti, siano capaci di paura e dolore, oltre che di comprensione di ciò che sta per avvenire, e, perfino, di una intelligenza astratta, quale quella necessaria per eseguire opera-zioni aritmetiche, ancorché semplici, pe-raltro affinabile con un addestramento ad hoc. In particolare, la capacità di capire e prevedere e quella di risolvere problemi non appaiono facilmente liquidabili come effetti dell’istinto e dei riflessi condizionati. Inoltre, non solo i mammiferi più vicini all’uomo nella scala evolutiva, ma anche talune specie di uccelli e rettili dimostrano la capacità di crea-re strumenti e tecniche, per quanto semplici e rudimentali ri-spetto a quelli umani, idonei a risolvere problemi pratici della loro vita quotidiana. In tanti casi, accertati e documentati da etologi di tutto il mondo, non si può che ammettere che anche tanti animali sono in grado di creare capitale, ossia prodotti non immediatamente utilizzati per il soddisfacimento dei biso-gni ma applicati a nuova produzione, e di trasmettere l e tecni-che e le conoscenze acquisite ai loro simili e discendenti. In altri termini, analogamente all’uomo, essi producono, spesso tramite il coordinamento e l’organizzazione dell’azione di una pluralità di individui, beni la cui utilità consiste nel migliorare la qualità ed incrementare la quantità delle risorse atte a soddi-sfare i loro bisogni. Tutto ciò comporta la difficoltà di traccia-

re confini netti e certi, e non convenzionali o fittizi, tra gli uomini e gli animali. Ma anche i confini interni all’uomo, tra vita veget ativa, sensitiva e razional e, sono s fumati e vaghi. Non si vede come sia possibile escludere nell’uomo, anche nello svolgimento delle operazioni a più elevato livello di a-strazione, la componente istintuale e primordiale, comune agli animali, magari nelle motivazioni e nella scelta degli obiettivi, se non nell’elaborazione delle tecni che. Per la verità, è noto

che in ogni epoca storica dell’umanità e della civiltà occidentale non sono man-cate forme di dissenso e di ri fiuto dell’ aggressività nei confronti della natura e, in particolare, del mondo animale. Tali posizioni si sono tra l’altro espresse nel rifiuto di cibarsi di animali e nella prati-ca della alimentazione veget ariana, che, nella sua forma più radicale, si definisce vegana o veget aliana, costituita unica-

mente da cibi di origine vegetale, con esclusione anche di uo-va, latte e loro derivati. Al di là dei possibili inconvenienti per il venir meno di alimenti non adeguatamente sostituiti e com-pensati, si può provocatoriamente obiettare che anche i vege-tali sono esseri viventi e non c’è nulla che dimostri che non soffrano e non abbiano una sensibilità. In senso opposto vanno considerati, a proposito di confini tra uomini e animali, gli effetti derivati dal già richiamato trionfo dell’imperialismo occidental e, del capitalismo, del colonialismo e delle ideolo-gie che ne furono espressione, nel corso dell’Ottocento e nella prima part e del Novecento. L’uomo occidentale esprimeva la convinzione, in buona o cattiva fede, di stare in quel modo realizzando i disegni divini e di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di conseguenza, come affermò ironicamente l’economista Galbraith, Il dibattito del diciannovesimo secolo si svolgeva in un mondo che era piuttosto orgoglioso di ciò

che stava avvenendo. Si è detto che l’hybris dell’ uomo occi-dentale, ossia la sua arroganza e tracot anza nel credersi poten-te e invincibile ed espressione divina o pari agli dei, lo ha por-tato a s fidare la natura, a cercare di infrangerne le leggi, ad eliminare le civiltà ed i gruppi umani non omologabili o assi-milabili. I popoli sottomessi ed espropriati delle loro terre e dei loro beni e privati della loro cultura venivano considerati primitivi o mezzi uomini o assimilabili agli animali e come tali, implicitamente, indegni di sopravvivere. Non a caso il mito della superiorità della civiltà europea ed eurocentrica è il fondamento delle t eorie razziste, che nel periodo richiamato hanno prodotto perfino un dibattito sulla cont roversa questio-ne se ai neri ed alle donne fosse da attribuirsi la qualifica di appartenente alla specie umana o se andassero invece classi fi-cati come animali.

Francesco Mancini

Non a caso il mito della superiorità della civiltà europea ed eurocentrica è il fondamento

delle teorie razziste..

Federico Zuccaro, (1542 - 1609), Studi su di un levriero,

1563-64, Musées Royaux des Beaux-Arts, Brussels

Thomas Gainsborough (1727-1788), Sei studi su di un gatto, 1765-70, Rijksmuseum, Amsterdam

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N el famoso film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, c'è una sce-na iniziale che viene considerata da tutti un cult. È quella in cui la scimmia, per la prima volta, capisce che può utilizzare un osso come arma. In quel momento, nel momento in cui un osso viene visto come utensile, la scimmia comincia ad umanizzarsi. Il film di Kubrick è del 1968, e molte cose sono state ovviamen-te superate. Una di queste è, appunto, la considerazione che attribuiva alla specie umana l'esclusiva della capacità cogniti-

va e, di conseguenza, l'uso di strumenti adeguati. Si è scoperto, in seguito, che altri primati, altri mammiferi, ed anche uccelli, riuscivano ad avere, anche par-zialmente, questa capacità. Tuttavia, fino ad oggi, gli invertebrati erano stati generalmente considerati privi di capaci-tà cognitive applicabili in comportamen-ti evoluti. Non che non esistessero esem-pi di utensili tra gli invertebrati. Ad e-sempio, tra diverse specie di formiche, si registra l’uso di foglie o di palline di sabbia per immagazzinare cibo; ma que-sti comportamenti sono stati visti in mo-

do distinto rispetto all’uso di attrezzi in animali più evoluti, poiché si riferiscono solo a condizioni in cui ricorrono parti-colari stimoli esterni. Bisogna, però, precisare il concetto di utensile. La con-chiglia vuota, il rifugio che, ad esempio, utilizza il paguro, non può essere consi-derato un utensile, perché viene cost an-temente usata in base ad un normale comportamento. Mentre, invece, può esserlo un oggetto che non ha alcuna utilità fino a quando non viene impiega-to per uno specifi co scopo. Questa defi-nizione di utensile esclude la conchiglia

un'insalata di polpo?un'insalata di polpo?un'insalata di polpo?un'insalata di polpo? Prima facciamoci un pensierino.Prima facciamoci un pensierino.Prima facciamoci un pensierino.Prima facciamoci un pensierino.

Anche il polpo usa gli strumenti: mollusco, ma intelligente!

Foto A. Utilizzando due metà di guscio di noce di cocco, il polpo ha costruito un riparo. La foto è tratta dall’articolo apparso sulla rivista on line “Current Biology”: http://www.cell.com/current-biology/fulltext/S0960-9822%2809%2901914-9

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vuota usata dal paguro, ma comprende, ad esempio, l’uso delle spugne che i del fini adoperano durante le fasi di nu-trizione per evitare abrasioni o il caso di un oggetto che viene trasportato in modo non funzionale per essere utilizzato solo quando è necessario. Sono ben note le eccezionali capacità di trasformazione che i cefalopodi hanno sia nel colore che nella forma. Recenti osservazioni di comportamenti inaspettatamente flessi-bili riguardo alla capacità di manipolare l’ambiente, scavare e occultare covi, adattare gli organi di movimento, sugge-riscono che alcune specie, in particolare i polpi, hanno la capacità di maneggiare strumenti.

U na recente ri cerca, diretta da Julian K. Finn del Museum Victoria di Mel-bourne, e pubbli cata sulla rivist a “Current Biology”, (http://www.cell.com/current -biology/),

ha osservato comportamenti che testi-moniano l'uso di strumenti anche nei polpi. I polpi studiati, della specie Am-phioctopus marginatus, vivono in pros-simità delle coste delle isole di Sulawesi e di Bali. Durante le oltre 500 ore di osservazione subacquea, alla profondità di 18 metri, i ricercatori hanno filmato circa una ventina di esemplari, veri fican-do che i polpi raccoglievano le metà dei gusci delle noci di cocco buttate in mare dagli indigeni. A volte, addirittura, libe-ravano dalla sabbia del fondale i gusci parzialmente ricoperti. La cosa strabi-liante è che i gusci venivano poi traspor-tati e raccolti altrove: un'operazione molto pericolosa per il rischio di essere attaccati e molto dispendiosa dal punto di vista energetico. Ma, se accettano i costi di un'operazione così complessa, è perché si aspettano maggiori benefi ci. I polpi, infatti, come si vede nella foto A, utilizzano le metà dei gusci come coraz-ze o scudi protettivi. Per spostare uno o più gusci, il polpo prima sistema le ca-lotte in modo che la concavità sia rivolta in alto, poi stende alcuni tentacoli tutto intorno ed usa gli altri come piedi rigidi, come se camminasse sui trampoli (stilt walking - foto B). Con questa tecnica, in alcuni casi, si sono visti trasportare gu-sci per oltre 20 metri. Questo modo di spostarsi, singolare e mai descritto pri-ma, è chiaramente meno efficient e e si

presta più facilmente agli attacchi dei predatori. Il fatto che il guscio sia tra-sportato per un uso futuro differenzia questo comportamento da altri esempi di manipolazione di oggetti, come i sassi, che vengono utilizzati per barricare l'in-gresso delle tane. Un'altra prova che il trasporto delle calotte di noce di cocco sia un esempio di utensile proviene dal fatto che il polpo è capace di assemblare correttamente le parti separate. Prima di essere facilitato dalla grande disponibili-tà di gusci di noci di cocco puliti e leg-geri, scaricati in mare dalle comunità costiere, è probabile che tale comport a-mento si sia evoluto a partire dall'uso di grandi bivalvi. L'unica cosa certa è la presenza, in animali invertebrati, della capacità di utilizzare strumenti da adat-tare ad esigenze future. Questa capacità è strettamente legata alla capacità cogni-tiva, cioè quella che permette la cono-scenza. Dopo averci mostrato la sua grandissima capacità mimetica, la sua enorme versatilità ambientale, la de-strezza nello svitare barattoli per rag-giungere la preda (i video sono su you-tube), il polpo dimostra così di avere una certa forma di intelligenza. Un altro dubbio, che si aggiunge ai moltissimi altri sulla presunta superiorità umana sulle altre specie e sul suo presunto dirit-to a dominarle.

Pietra Pomice

Un altro dubbio, che si aggiunge ai moltissimi altri sulla presunta superiorità umana sulle altre specie e sul suo presunto diritto a dominarle.

Foto B. In questa foto il polpo trasporta la metà di un guscio di noce di cocco con la tecnica del “ stilt walking”.

La foto è tratta da “Current Biology”: http://www.cell.com/current-biology/ fulltext/S0960-9822%2809%2901914-9

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P overi cavalli e poveri noi… Non si fa così! Poche setti-mane prima di Natale, era quasi buio, pioveva dalla mattina e c’era quel vento freddo che gela le ossa. Ero sotto il portico della scuderia e mi vedo arrivare quattro cavalli, montati da altrettante figure umane, intabarrate e gocciolanti. Il primo aveva in mano una luce che gli rischiarava il volto. “Buona

sera”, mi dice, guardando nella luce che, con uno scampanel-lio, gli si spegne tra le mani. “Perfetto, il GPS mi ha portato

fin qui. Gamberini vero?... Peccato che non rispondesse al telefono, avevo anche il suo numero e volevo avvisarla che

abbiamo un problema”. Intanto restavano in sella sotto l’acqua e il tizio mi era diventato antipatico. “Quando sto con i cavalli spengo il telefono. Cosa posso fare?”.

“Veniamo da Follonica e si doveva arrivare a Monteriggio-

ni; poi abbiamo perso tempo a pranzo e ora cerchiamo un posto per fermare i cavalli questa notte”. Da Follonica a Monteriggioni ci sono quasi settanta chilometri; in inverno, con dieci ore di luce, o si è bravi bravi o diventa un massa-cro. Intanto continuava a piovere, i cavalli erano accaldati e il vapore saliva dal bordo dei sottosella; li avevano spremuti per le salite che vengono fin da me, erano tre uomini e una ragazza, con i cappelloni e gli impermeabili. Due cavalli erano bai e gli uomini che portavano sulla schiena erano ve-stiti come in Maremma un secolo fa. Il portavoce era il più massiccio dei quattro, stava in sella seduto come sul cesso, montava un’arabetto roano con una sella da endurance e un’infinità di borse, sacche e sacchetti che pendevano da tutte le parti. La ragazza e il suo pezzato sembravano usciti

da un giornalino di Tex: lei aveva tutto quello che c’è in un film western, tranne il cinturone con le pistole. Scarponcelli e stivali non erano infangati: gente che non scende mai di sella non ha nessun rispetto per il cavallo. “Ma vi si è incol-lato il culo alla sella, non potete scendere e mettervi al co-

perto?” “Se ci tiene i cavalli per la not-

te scendiamo, altrimenti,… altrimenti si continua; col gipiesse possiamo arriva-

re anche di notte, magari ci dà una tor-cia,… gliela compriamo”. Mentre lui parlava il suo cavallo aveva distanziato anteriori e posteriori e si era disposto come un boxer, mi aspettavo una piscia-ta…, invece niente. “Senti… tu, il tuo cavallo e il tuo gipiesse avete molto più

di un problema. Come faccio a man-darvi via? Il tuo cavallo ha mal di

schiena e anche gli altri mi sembrano cotti; da qui a Mon-teriggioni manca ancora una ventina di chilometri. Di not-

te, con questo tempo, ci vogliono tre o quattro ore e il tuo

cavallo non c’arriva”. Ci guardiamo in cagnesco. “Il mio cavallo è fresco come quando siamo partiti; è un fondista,

quest’anno ha già fatto due novanta chilometri”. “Lui sarà

anche un fondista, ma tu sei un brodo. Fidati della mia

barba bianca…. Smonta, dai, che ripartire è roba da de-

nuncia alla protezione animali”. Un giro di occhiate, il por-tavoce si è offeso e continuerebbe, la ragazza smonta e avan-za sotto il portico. “ Basta, ragazzi: io mi fermo, sono stanca, sono bagnata zuppa, e il mio cavallo marca”. “ Allora mi fer-mo anch’io”, dice uno dei finti butteri, forse il fidanzato. Naturalmente si sono fermati tutti, ma non siamo diventati

amici. È stato duro convincerli a passeggiare i cavalli sotto il portico per dissudarli; per loro sarebbero bast ate le coperte da sudore, (in ogni caso le mie), lasciate addosso ai cavalli fermi nel box. Duro convincerli che cavalli digiuni da dieci ore avrebbero avuto beneficio a mangiare almeno mezz’ora

di fieno, prima di farli abbuffare sul man-gime. Parlando, poi ho scoperto che per loro era un’avventura importante, un’impresa invernale da cui volevano ricavare un po’ di fama e un po’ di onore. Ora però volevano solo andare via in fret -ta, perché era arrivato a prenderli l’amico con la macchina: sognavano una doccia e dei vestiti asciutti. Per fare tutto come si deve, invece, c’è voluta un’ora e mezza, quasi due; alla fine i quattro dell’Ave Maria erano neri di bile, ma i cavalli era-

no asciutti, massaggiati e sereni, le selle in ordine e la roba bagnata era stesa ad asciugare. Quando poi ho detto, per cor-tesia, per non costringerli a fare un altro viaggio in macchina, che sarei sceso io a controllare i cavalli prima di andare a letto e loro mi hanno detto che non c’era motivo, allora mi sono incazzato, ma mi sono trattenuto, ho fatto la promessa

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La ragazza e il suo pezzato sembravano usciti da un giornalino di Tex:

lei aveva tutto quello che c’è in un film western, tranne il cinturone con le pistole.

La storia (triste) di quattro cavalli e di quattro cavalieri. Ma non è’ difficile capire chi sono le bestie.

Don Fermo e Wizz con il "loro uomo" Gianni. Foto G. Gamberini.

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che l’articolo sulla loro impresa l’avrei fatto io. Ma, insomma, venti anni fa sarebbe stato molto diffi cile trovare tanto poco saperci fare; siamo peggiorati, e so bene che il fatto va ben oltre il turismo equestre.

I n ogni caso, non si fa così! Più fre-quento luoghi e persone che hanno a che fare con i cavalli, più tempo passa e più mi vien da dire: “Non si fa così!!!”. Troppo facile continuare a parlare di un saperci fare che non c’è più, dei mestieri orfani del sapere e di tutti i nuovi e vecchi saperi confusi nella mente di tanta gente senza mestiere. Chi paga caro questo stato di cose sono in primo luogo i cavalli, poi ci siamo noi. In due generazioni abbiamo sperperato un patrimonio di conoscenza ed abilità; una cultura concreta della relazione tra uomini e cavalli bruciata per far caldo ad un agonismo commerciale. Chi oggi volesse intraprendere una carriera professionale nel mondo equestre, a chi si potrebbe rivolgere? Chi è depositario della cultura antica e delle nuove conoscenze? Chi sa insegna-re? Chi certifi ca le abilità? Quali sono gli esempi da seguire? Si pensi all’assurdo che per fare un concorsino di due minuti serve una pat ente e un’abilità certi ficat a; per strazi are un ca-vallo in viaggi da centinaia di chilometri basta avere il fegato di salire in sella e la forza per stare aggrappati alla sella e alle redini e magari un’assicurazione e un gipiesse. Insomma per tornare ai nostri “ eroi”, quelli che ho preso ad esempio del “non saperci più fare”, il mattino dopo si sono trovati due ca-valli non sellabili; l’arabo aveva la schiena intoccabile, e il pezzato un nodello gonfio e dolorante. La loro avventura in-

vernale è finita così, alla Casella: si sono riportati a casa i ca-vallucci col van e hanno voluto ringraziarmi dicendo che sicu-ramente ero stato utile ma anche scortese. Allora, per finire, ho

voluto raccontare una storia-ri cordo che li facesse ri flettere su quanto siamo di-ventati incapaci con i cavalli. Alla fine dell’Ottocento, un reparto di Cosacchi del Don era famoso per una marcia for-zata invernale, 260 chilometri, tra neve e ghiaccio, in tre giorni. Da decenni si ripeteva un’impresa: in quella situazione estrema, partivano in trecento e in tre-cento arrivavano. Preservare l’integrità di tutti i cavalli e di tutti gli uomini era il loro vanto, e la loro abilità aveva un riconoscimento internazional e. “ Voi siete partiti in quattro per fare cento

chilometri in due giorni; dopo quaranta chilometri eravate già dimezzati, per aiutarvi a non peggiorare la media c’è

voluto un rompipalle”. Non si fa così!!!

Gianni Gamberini

...per straziare un cavallo in viaggi da centinaia di

chilometri basta avere il fegato di salire in sella e la forza per stare aggrappati alla sella e

alle redini e magari un’assicurazione e un gipiesse.

Glossario dissudare - far asciugare il sudore baio - il colore del cavallo baio è dato da crini neri e pelo rossiccio o marrone roano - altro colore del mantello con peli di tre colori: bianco, nero, rossiccio pezzato - mantello a macchie ampie come i bovini arabetto-si dice di un cavallo di bassa statura e di linea araba nodello- parte bassa della zampa, vicino allo zoccolo.

Don Fermo e Wizz in un momento di relax colloquiale. Foto di Gianni Gamberini.

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D a sempre, l’umanità si è impegnata in un preciso lavoro di distinzione, nell’ambito dei comportamenti umani, fra quelli riconducibili ad un concetto di “vita animale” (ad esempio, il principio introdotto da Aristotele di “vita nutriti-va”) ed altri riconducibili ad un concetto di “ vita umana”. In questa concezione, l’esistenza dell’uomo deve emanciparsi dal suo presupposto biologico per speci-fi carsi nelle sue declinazioni “ logiche” e “intelligenti”, tipiche della natura umana. Per Cartesio, tutto ciò che sta al di sotto della soglia del pensiero e del linguaggio è interpretabile secondo le rigide catego-rie del meccanicismo. Gli animali sono solo macchine e tutta la vita fisiologica dell’uomo è spiegabile con la metafora della macchina. Secondo Kant, la digni-tà umana e la nostra capacità morale, font e della dignità, sono radicalmente separate dal mondo naturale. L’idea che noi siamo esseri essenzialmente divisi a metà, sia persone razionali che animali che abitano il mondo della natura, condi-ziona radicalmente le idee di Kant. L’impianto antropocentrico che fondava l’umanesimo tradizionale si basava sulla devalorizzazione del corpo rispetto alle componenti spirituali e stori che dell’esistenza umana e sulla superiorità della specie umana rispetto alle altre specie viventi. La crisi di tale sistema è riconducibile alla teoria darwiniana, che riconduce la “ natura umana” alla dimensione del bios, la quale appare addirittura il presupposto fondamentale

dell’evoluzione “ intellettiva” e culturale dell’umanità. Da questo momento si comincia a restituire dignità alla diversi-tà animale, concepita come un modo speci fico di rapportarsi all’ambiente, non inferiore a quello umano in quanto fon-dato sugli stessi presupposti biologici. La relazione dell’animale con l’ambiente avviene secondo modalità incommensu-rabili rispetto a quelle umane, e dunque analizzabili secondo parametri completa-mente diversi, che impediscono la for-mulazione di insensate “ gerarchie”. Co-me scrive Jakob von Uexkull nel 1909 in “ Ambiente e mondo interiore degli

animali”, ogni specie vivente sperimenta le proprie rel azioni con l’ambiente sulla base di un sistema spazio-temporale as-solutamente proprio e incomunicabile rispetto a quello di qualsiasi altra specie. Il mondo appare costituito da una infinita varietà di mondi percettivi, ognuno per-fetto ed esclusivo e, al contempo, parita-riamente indispensabile nella rete della vita, al di là di qualsiasi gerarchi a. Appa-re allora insensato interpretare i compor-tamenti animali secondo categorie rica-vate dall’esistenza umana, in quanto esse non governano l’“unità funzional e” tra animale e ambiente, che è però altrettan-to “degna” di essere vissuta. All’ interno della relazione dell’individuo con l’ambiente, infatti, si esprime la tensione del primo a soddisfare i propri bisogni, dando voce al proprio universo. Inscrive-

re la vita di un altro animale nei paradig-mi che favoriscono la vita umana, signi-fi ca soffocare il suo mondo, la sua vita.

Q uesta, infatti, resterebbe ingabbiata in una dimensione estranea, che blocca gli stimoli togliendo loro lo specifico oggetto a cui devono aderire. Giorgio Agamben proponeva di lasciar essere

l’animale così com’è, fuori dall’essere, sospeso nel suo ambiente e nell’ingorgo

velato in cui l’ambiente si offre ad esso. Troppo spesso, infatti, pur mossi da un autentico interesse o da una calda affetti-vità, si finisce con l’umanizzare l’ ani-male, attribuendogli caratteristiche rita-gliate su standard umani. Ma il mondo di ciascun animale esige un universo fami-liare, che risponda speci fi camente ad ogni suo stimolo, permettendogli di vive-re in ogni oggetto, azione, relazione. Quando le possibilità offerte dal mondo circostante uccidono quegli stimoli, ogni azione è costretta, e si allontana, quasi estranea, perdendosi in un mondo co-struito a misura d’uomo. L’uomo è misu-ra di tutte le cose recita l’assunto prota-

goreo. Esso, però, va riservato a quella relazione spazio-temporale che ha l’uomo come proprio soggetto. Univer-salizzare la proposizione, richiamandosi a motivi tipici dell’umanesimo, equivar-rebbe ad uccidere l’identità dell’animale, affibbiando a quest’ultimo un peso gran-dissimo, distruttivo: vivere la vita d’altri, vivere al modo d’altri. Portare un fardel-lo che sopprime la propria specificità, assumendo la funzione di un mezzo per scopi altrui, estranei, distanti. È necessa-rio impegnarsi nel riconoscimento dei sistemi di collegamento e relazione che, come ricorda Bateson, costruiscono la struttura che connette le infinite diversi-tà che popolano la Terra: l’anemone di mare con le foreste di sequoie, il gran-chio con l’aragosta, l’orchidea con la mente umana. Solo così è possibile co-minciare a ricomporre una visione inte-grata che ripensi l’uomo come soggetto vitalmente collegato alla natura, e che concepisca il mondo nelle continuità e nelle differenze che legano tutti gli esseri viventi. Per un mondo che ponga la vita, in tutte le sue forme, al centro del suo sistema. Giacomo Pisani

La diversità come fondamento

di una nuova convivenza

Leonardo da Vinci (1452-1519), Studio con cavalli -1513-15 - Royal Library, Windsor

Leonardo da Vinci (1452-1519), studio con

gatti, draghi ed altri animali -1513-15 Royal Library, Windsor

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T obia pari masculu dal nome però è una ca-gna. Furia in mezzo ai palazzi che tutti la cono-scono e ci danno da mangiare. Per lei e per i cuc-cioli anche pecchè Tobia è sempre incinta che le minne ormai sono come a palloncini sgonfiati ca pennuno fino quasi a strisciare nella strada e il corpo è magro come a quello degli affamati.

Tobia ha imparato a sopportare tutto e tutto ac-cetta. Le pietrate come le carezze. Lossa come alle bastonate. Io non lho mai sentita abbaiare solo ogni tanto tira fuori i denti quando uno capi-ta per sbaglio vicino a dove nasconde i picciriddi.

A Tobia sono assai i cani che ci hanno acchianato supra. Ci sono quelli tutti improfumati che stanno dentro alle case e che poi appena scinnunu con i loro padroni la cercano e quelli più selvaggi dei quartieri vicini che ogni tanto si passano lo s fizio di non dover combattere. Lei non si ribella che non lo sò se è listinto oppure che ha capito.

Tobia è una cagna innamorata anche ma siamo in pochi a saperlo che le persono sono distratte op-pure se ne fottono delle cose che non sono loro. Lui è Diuc. Un cagnazzu vecchio e azzoppato buono quasi solo per fare la guardi a alle machine posteggiate nello spiazzo sutta a me casa. Una cosa lari a che forse non ciarriniscissi nemmeno a campare se Tobia non ci puttassi ogni giorno qualcosa. Un pezzo di pane. Un osso loddu di terra.

Ogni giorno Tobia arriva vicino a iddu come per caso e poi deposita la merce in qualche angolo più nascosto. Diuc sembra fare finta di niente e solo quando lei sta per andarsene savvicina per una ciaurat a al culo e una carezza con la funcia.

Tobia si ferma e su non fussi che è solo unanima-le putissi pinsari che sorride. E' questione di un attimo pecchè poi sparisce per ritornare solo il giorno dopo. Dario D’Angelo

Q uesto dipinto era in origine collocato al primo piano della Quinta del Sordo, la casa di Goya. Fa parte delle Pitture Nere, un ciclo di opere com-piute dopo una grave malattia, da vecchio. Rappresenta un cane che sta per essere sommerso dalla sabbia. Il cane occupa a malapena l’un per cento della superfici e pittorica. Il resto è colore privo di altri oggetti. In questo modo l’artista ad esprimere la sua ri flessione sulla morte e sulla solitudine. “ Quando si muore, si muore soli”, diceva Fabrizio De Andrè.

Francisco de Goya y Lucientes (1746-1828). Il cane, 1820-23, olio su tela da affresco staccato, Museo del Prado - Madrid.

Supplemento a Sicilia Libertaria n°293 - marzo

2010. Direttore responsabile: Giuseppe Gurrieri. Registra-zione Tribunale di Ragusa n° 1 del 1987. Fotocopiato presso Fast Service Digital Photo, via Antonino Longo n. 36/a – Catania. La Redazione, composta da volontari, si riunisce periodicamente in un Comitato di reLazione. Chiunque, condividendo i princìpi antifascisti, antirazzisti ed antisessisti propri di questo giornale, può proporsi come collaboratore o può inviare contributi all’indirizzo di posta elettronica: [email protected]. Sul sito htpp://rivistalarcobaleno.blogspot.com è possibi-le leggere e scaricare i numeri arretrati e gli approfondi-menti tematici.

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L a presenza di animali tra le divinità è largamente attestata in pressoché tutte le religioni politeiste. Per limitarci solo ad alcuni esempi tratti dall'antico Egitto, basti pensare che il bue, il fal co, il cobra, la mucca, l'anatra, il gatto, l'ariete, il babbui-no, lo scarabeo, il cane, rappresentano altrettanti Dei, utilizzati per impersonare fenomeni naturali o concetti astratti. Nell'O-limpo greco e romano le figure e le vicende degli Dei sono spesso strettamente intrecci ate ad animali: cavalli, tori, cigni, pantere, aquile, civette, lupi, serpenti e via dicendo. Anche nella tradizione cristiana gli animali vengono presi in conside-razione frequentemente, a partire dalla simbologia riferita a Cristo stesso. Così, nelle prime iscrizioni tombali, troviamo il pesce, espresso in greco dalla parola ichthýs, le cui lettere

formano le iniziali di Iēsoùs Christòs Theoù Yiòs Sōtèr, cioè

Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. L'agnello è certamente l'attributo più comune, simbolo di innocenza, semplicità e purezza, ed è l'immagine per eccellenza della vittima sacri fica-le. La tradizione medievale vi aggiunge quella del pellicano. Il Fisiologo, uno dei più noti “bestiari”, libri descrittivi di ani-mali reali ed immaginari, dice che il pellicano ama moltissimo i suoi figli: «quando ha generato i piccoli, questi, non appena

sono un po' cresciuti, colpiscono il volto dei genitori; i genito-ri allora li picchiano e li uccidono. In seguito però ne provano

compassione, e per tre giorni piangono i figli che hanno ucci-so. Il terzo giorno, la madre si percuote il fianco e il suo san-

gue effondendosi sui corpi morti dei piccoli li risuscita». In tal modo i teologi medievali lo identificano con Cristo, che si lascia croci figgere e dona il suo sangue per redimere l'umani-tà, oltre che come simbolo di resurrezione. Secondo una leg-genda, spesso ripresa nella pittura rinascimentale, il cardellino, il pettirosso ed il fringuello furono le uniche specie di uccelli che, spinte da compassione per Cristo in croce, cercarono di strappargli le spine. Durante il loro tentativo rimasero tutti feriti: il pettirosso e il fringuello nei loro pettorali rosso san-gue, il cardellino sulla testa col suo cappuccio rosso. Anche la colomba, rappresentando lo Spirito Santo, può essere aggiunta tra gli animali che più frequentemente compaiono nell'icono-grafia cattolica. È difficile considerarlo un animale, ma anima-le è, senza dubbio, il corallo, un celenterato che, per le sue rami ficazioni, spesso a forma di croce, e per il colore rosso, simboleggia la Passione di Cristo. Non è mai esistito, se non nella fant asia dei “ bestiari”, ma anche l'unicorno ha un posto nella simbologia cristiana. Nei Vangeli, riprendendo una ricca tradizione già presente nel vecchio Testamento, si fa ri feri-mento al “ corno di salvezza”. Secondo Le Bestiaire Divin, di Guillaume, chierico normanno del 13 secolo, “ L'unicorno rap-presenta Gesù Cristo... Il suo unico corno simboleggia il Van-

gelo di Verità”. Il culto dei santi fornisce innumerevoli esempi in cui compaiono animali, spesso come elementi di primaria importanza. E non è detto che debbano essere sempre reali. Il drago trafitto da san Giorgio, così come quello, che a volte assume sembianze demoniache, soggiogato dall'arcangelo Michele, fa rivivere, nell'epopea medievale, la lotta senza tem-po tra il bene ed il male. A combattere non ci sono solo virili guerrieri: santa Margherita d'Antiochia squarta la pancia del drago che l'aveva inghiottita, mentre santa Marta mette in fuga

Divinità, santi ed animali

Santa Marta e la Tarasca

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la Tarasca, invincibile mostro che teneva in ostaggio l'intera città provenzale di Tarascona. Generalmente, però, il mondo animale attinge dalla realtà. San Francesco è celebre per l'epi-sodio del lupo ammansito e per quello, celebrato da Giotto, della predica agli uccelli. Un altro santo francescano, Antonio da Padova (in realtà da Lisbona), per provare la vera fede con-tro un eretico, riesce a far inginocchiare una mula davanti all'eucarestia; e per non esser da meno di Francesco con gli uccelli, si cimenta con successo nella predica ai pesci. Parlare ai lupi, agli uccelli, ai pesci: nell'intento apologetico il mes-saggio è, evidentemente, quello di dimostrare la capacità di parlare a tutti e di non escludere alcuna possibilità di conqui-stare anime. Il cane, l'animale considerato simbolo stesso della fedeltà, è presente nell'iconografia di tre popolarissimi santi. Il primo, san Rocco, venerato come protettore dalla peste, è un pellegrino francese che, dopo essersi adoperato per assistere i malati di peste, ne viene contagiato. Gli uomini da lui guariti però lo scacciano come un cane. E sarà proprio un cane, facen-do le veci degli uomini, ad assisterlo ed a nutrirlo fino alla guarigione. San Vito, il secondo, fa parte dei quattordici santi ausiliatori del Medioevo, cioè di quel gruppo di santi che, a-vendo ciascuno uno speciale potere taumaturgico o di preser-vazione, svolgeva le funzioni di una vera e propria farmacia. San Vito è un ragazzino che protegge contro l’epilessia e la corea, una malattia nervosa che provoca movimenti incontrol-labili, detta per questo pure “ ballo di san Vito”. Viene invoca-to per i disturbi del sonno, ma soprattutto contro i morsi dei

cani rabbiosi. A tale proposito, una preghiera siciliana dice: "Santu Vitu Santu Vitu, iu tri voti vi lu dicu, vi lu dicu pi stu cani, ca mi voli muzzicari, attaccatici lu mussu, cu nu mucca-

turi russu, attaccatici lu sciancu, cu nu muccaturi iancu!". Nell'ultimo caso che qui si considera troviamo un cane, solita-mente bianco e nero, che stringe tra i denti una fiaccola. La fi accola è il simbolo della dottrina che sparge la sua luce a squarciare le tenebre dell'eresia attraverso la predicazione. Il santo, che è san Domenico (di Guzmàn) è infatti il fondatore dell'ordine dei Predicatori, il cui saio è appunto bianco e nero. I domenicani si distinguono nel combattere gli eretici, special-mente i catari, per l'affermazione dell'ortodossia. La loro fe-deltà a Roma è tale che il domenicano si compiace di autodefi-nirsi Domini canis, cioè cane del Signore. Il cane di san Do-menico è il materializzarsi di un gioco di parole. Come accade per la santa vergine e martire Agnese, sempre raffigurata con un agnello semplicemente a causa della somiglianza dei nomi. Per un altro san Domenico, di Sora, i serpenti sono invece del tutto veri. Come nei culti precristiani, il serpente ha molteplici significati, soprattutto nell'ambito medico, dove è ben cono-sciuta l'ambivalenza farmaco/veleno; ma non bisogna dimenti-care che nelle società tradizionali, strutturalmente agri cole, gli incontri con rettili ed insetti velenosi erano esperienza comu-ne, che necessitava di rimedi, naturali o soprannaturali. Il ser-pente, insieme alle tarantole, è associato anche al culto di san Paolo. Si riteneva infatti che il santo, guarito egli stesso dal veleno di un morso, fosse capace di proteggere e guarire gli avvelenati. Anche nell'iconografi a di san Giovanni Evangeli-

Sant’Antonio e il miracolo della mula

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sta ritroviamo un serpente che, curiosamente, spunta da una coppa. In questo caso, però, l'animale simboleggia una disputa teologica. Per lo stesso santo è più diffuso, invece, l'attributo dell'aquila, l'uccello più elevato nel cielo, perché la sua visione divina è la più diretta. San Luca, invece, si fregia del toro, animale sacri fical e, perché il suo vangelo inizia con il sacrificio del sacerdote Zac-caria. L'altro evangelista associato ad un animale (il quarto, san Matteo è rappre-sentato invece da un angelo), è san Mar-co, il cui leone, in passato associato alla gloria ed alla potenza di Venezia, è stato certamente uno dei simboli più conosciu-ti del passato, paragonabile a quello con-temporaneo delle stelle e strisce degli USA. Il leone politico e militare di san Marco oscura certamente la fama del leone di san Girolamo, uno dei più grandi intellettuali del Medioevo, nonché dotto-re della Chiesa. Anche perché questo leone non ha avuto altro merito che quello di essersi ferito ad una zampa e di aver cer-cato l'assistenza del santo, che in quel periodo viveva in solitu-dine eremitica. La leggenda riprende il tema, abbastanza di ffu-so nella favola antica, del rispetto degli uomini verso gli ani-mali, rispetto sempre abbondantemente ricambiato. Del resto, san Girolamo è accreditato come un vegetariano ante litteram. Sue sono le frasi seguenti, tratte dal trattato Adversus Iovinia-

num: “ Fino al diluvio non si conosceva il piacere dei pasti a base di carne ma dopo questo evento ci è stata riempita la

bocca di fibre e di secrezioni maleodoranti della carne degli animali […] Gesù Cristo, che venne quando fu compiuto il

tempo, ha collegato la fine con l’inizio. Pertanto ora non ci è più consentito di mangiare la carne degli animali”. Nell'ambi-to del monachesimo orientale di tipo eremitico, in ambienti selvaggi ed ostili, ritroviamo ancora due leoni, questa volta associati a San Paolo di Tebe, al quale fa quotidiana visita un corvo. Si racconta, infatti, che durante i sessant'anni di isola-

mento nel deserto, oltre che di frutti spontanei, si nutrisse del pane portatogli dal corvo. Questa trasparente allusione all'eu-carestia la ritroviamo, quasi perfettamente identica, nella vita leggendari a del santo profeta Elia, nutrito da una focaccia che un corvo gli porta con il becco. Anche san Giovanni il Battista aveva fatto l'esperienza del deserto, dove si era nutrito di locu-ste e di miele selvatico e si era vestito di peli di cammello. Il suo attributo iconografico è però l'agnello, in riferimento alla definizione che egli dà di Gesù. Il binomio santi-animali a volte è sorprendente: san Pacomio, dovendo attraversare il Nilo e non avendo nessuna imbarcazione, si vede offrire un passaggio da due coccodrilli prontamente accorsi. A sant'U-berto e a sant'Eustachio, a distanza di sei secoli e di centinaia di chilometri, accade l’identica ventura di imbattersi in un cervo che porta tra le corna una croce. Sant'Ambrogio e san Bernardo da Chiaravalle, entrambi dottissimi divulgatori della parola evangelica, sono contraddistinti dalle api, simbolo della laboriosità che produce dolci risultati. La rassegna potrebbe proseguire con molti altri esempi, ma non può concludersi senza un cenno a sant'Antonio abat e, patrono di tutti gli ani-mali. Fino a non molto tempo addietro era normale, il 17 gen-naio, assistere, sui sagrati di alcune chiese, alla benedizione degli animali. Questo santo eremita è però associato in parti-colare al maiale, che è immancabile ai suoi piedi in ogni e-spressione iconografi ca. C'è una malattia della pelle, di origine virale, che si chiama herpes zoster, che è meglio conosciuta come fuoco di sant'Antonio. Questo santo veniva ritenuto ca-pace di guarire questa malattia ed i monaci suoi seguaci costi-tuivano un ordine ospedaliero, che si prefiggeva la cura degli ammalati. La cura per il fuoco di sant'Antonio consisteva es-senzialmente in applicazioni di lardo. Da qui la necessità di allevare maiali che, muniti di un campanello di riconoscimen-to, potevano pascere liberamente tra i rifiuti della comunità,

senza il rischio, certissimo, di finire nella pentola di qualche affamato. Il maiale di sant'Antonio, una sorta di laboratorio farmaceutico, aveva quindi, per così dire, la possibilità di circolare liberamente e senza timore: la sua ap-partenenza all'ordine antoniano gli valeva come passaporto diplomatico. In questa specie di sacro zoo che abbia-mo delineato spiccano per la loro as-senza due animali molto comuni: il cavallo e il gatto. Il primo, simbolo della potenza sessuale maschile, viene a malapena tollerato nell’iconografi a

come necessaria cavalcatura per i santi di rango equestre. Il secondo, animale indipendente e che non riconosce gerarchie, sin dal medioevo era stato associato alla s fortuna, al male, alla femminilità, considerato tipico animale delle streghe. Al gatto

venivano riconosciuti pote-ri soprannaturali, tra cui quella di possedere nove vite. Nella notte di San Giovanni, nelle piazze, venivano bruciati vivi, rinchiusi in ceste, assieme alle donne accusate di stre-goneria. Non è un caso se il gatto, anziché sui santini, compare sulle riviste sov-versive, simbolo di rivolta e di insubordinazione. Antonio Squeo

Al gatto venivano riconosciuti poteri sopranaturali, tra cui quella di possedere nove vite. Nella notte di San Giovanni, nelle piazze, venivano bruciati vivi, rinchiusi in ceste, assieme alle donne accusate di stregoneria.

Sant’Antonio Abate, patrono degli animali

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S impatici bipedi dell’Arcobaleno, bau. Il mio fiuto mi dice che vi occupate di animali vari, finalmen-te non solo di voi stessi, e ho deciso di intervenire per parlarvi di quello più simpatico ed utile: l’uomo. Due zampe, discreta capacità di erigersi (qualche volta a giudice di astruse dispu-te), servizievole e in certi casi persino confort evole. Dovete sapere che uno dei vostri collaboratori esterni (li chiamate così?) mi ospita da quasi tre anni nel giardino della casa di campagna in cui abita con la sua femmina (lo deduco dalla maggiore sensibilità di lei), avendomi raccolto in cattivissime condizioni dalla strada, abbandonato da quel tipaccio d’un cacciatore che… insomma, perdonatemi se non riesco a rac-contarvi cosa ho passato, il pelo mi si rizza al solo pensarci. Ebbene, credetemi, c’è voluto poco per intenerirlo e tenerlo buono. Ancora oggi evito di chiedermi il perché di tanta dedi-zione, grazie alla quale risparmio la fatica di cercarmi il cibo, un posto dove dormire e la maniera di evitare le insidie del randagismo (del qual e peraltro mi prende a volte una qual che nostalgia). E’ bastato poco: ho mangiato sempre quel che mi dava, fosse il pane secco dei primi tempi o i teneri bocconcini di oggi; ho accettato carezze, strofinamenti, persino quegli odiosi abbracci umani; ho finto per amor di pace di non ac-corgermi che dentro il pasto c’erano le pillole per l a leishma-niosi… E ho risposto sin dall’inizio al suono (nome?) col quale lui mi chiama: Mico. Mi ha anche letto, nei primi tempi, i brani del David Copper-

field in cui compare ‘sto personaggio che gli ricorderei, l’amico povero ma dignitoso, il signor Micawber: anche in quel caso, che mi cost ava?, ho ascoltato con pazienza e mi sono prodotto in qualche improvvisato scodinzolamento di quelli che gli umani credono dovuti alla gioia per la confiden-za che ci danno. Ho evitato di fargli notare che, allora, poteva scegliere qualche brano più adatto, chessò, Elegia in morte di un cane di Miguel de Unamuno (1864 – 1936). Troppo triste, d’accordo. Ma l’ho sentito vantarsi di aver fatto il Classico, e non può non conoscere Omero: “ […] e un cane, sdraiato là, ri zzò muso e orecchie,/ Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno / lo nutrì di sua ma-no (ma non doveva goderne), prima che per Ilio sacra/ partis-se, e in passato lo conducevano i giovani/ a caccia di capre selvatiche, di cervi, di lepri […]” (Odissea, XVII – trad. di Rosa Calzecchi Onesti). Tutt’altra roba, eh? Oppure Torquato Tasso (1544 – 1595), Sopra un cagnolino: “Pargoletto animal, di spirto umano, Bianco come la fede onde sei pegno; Ch’in sì bel grembo di seder sei degno […]”, no, no, d’accordo, lasciamo perdere il seder, che il mio era proprio malridotto a causa della malattia e l’umano non si è certo risparmiato nel pulirmelo… E poi io sono bianco sì, ma con grandi chi azze nere. Al punto che lui, l’umano, cerca di

impedirmi solo una cosa, di stare sull’erba: dice che un bi an-conero sul prato verde non riesce mai a sopportarlo. Boh? Ma io sono un po’ romantico, sapete, e il mio preferito è lord George Gordon Byron (1788 – 1824): “ Accanto a questo luogo riposano i resti di un essere che possedeva la bellezza senza la vanità la forza senza l’insolenza il coraggio senza la ferocia e tutte le virtù dell’uomo senza i suoi vizi. Quest’elogio che sarebbe Una bassa adulazione Se fosse iscritto su ceneri umane Non è che un giusto tributo alla memoria di Boatswain, un cane nato a Terra-Nova nel maggio 1803 e morto a Newstead Abbey, il 18 novembre 1808.” (Botswain, un cane). Certo, mi sarebbe piaciuto un umano così sensibile, un umano capace di commuoversi per l’anima di un cane, un umano che cogliesse il senso profondo della caninità, ma che volete far-ci? Il posto è bello, si mangia tutte le sere, e tutto sommato far felice un povero umano che senza di me non saprebbe su chi riversare i suoi sensi di colpa rende un po’ felice anche me. E allora scodinzolo, prendo il biscottino al volo ogni san-to giorno per farlo contento, e mi consolo pensando che certo lui non sarebbe altrettanto ospitale con nessun immigrato, neanche se fosse nerazzurro. Con amicizia, bau bau Mico Strazzulla P.S.

Per quanto, in questi anni, abbia cercato di educarlo, so che l’amico di cui ho parlato, in quanto umano, a volte è inspiega-bilmente timido. Solo per questo, per il bene che gli voglio, vi dirò che si chiama Giuseppe.

IL MIGLIOR AMICO DEL CANE

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N el primo libro della Bibbia, quello dedicato alla creazione, Adamo ed Eva trovano nell’Eden un mondo ricco di piante e popolato da numerose specie animali. Come amici fedeli, o come fon-te di sostentamento, gli animali sono sempre stati un elemento imprescindibi-le per l’esistenza umana. L’arte, forma espressiva dell’azione e del pensiero umano, ha quasi sempre riservato a mol-te specie animali uno spazio simbolico. Disegnare sulle pareti delle caverne fi-gure di animali, cacciati o conosciuti, è un gesto magico e propiziatorio, una mani fest azione tangibile del legame intercorso tra gli uomini primitivi e le bestie, in cui s’intrecciano amore, paura e dipendenza totale. Nell’antico Egitto l’arte e la religione sono specchio di queste relazioni profonde. Già nel 3.500 a.C. le divinità cominciano ad essere rappresentate in statue e dipinti con cor-po umano e testa di animale. La dea Bastet, dal corpo di donna e la test a di gatta, protegge la casa e la fertilità. La si adora ovunque, dalla Nubia al delta del Nilo, e nel recinto del suo tempio vivono liberi centinaia di gatti accuditi dai sa-cerdoti. Le loro statue sono numerose e non c'è uomo o donna che non abbia un amuleto della dea oltre allo scarabeo, animale portafortuna. Il dio Apis è im-personato dai buoi e, quando questi muoiono, vengono mummificati e tumu-lati in tombe speciali perché possano agire da intermediari tra uomini e dei. Il falco, che osserva le cose dall’alto, pren-de le sembianze del dio sole, Horus o Ra. Il serpente, in particolare la femmina del cobra, che dilata la parte posteriore della testa, dalla quale sputa il veleno, diviene il simbolo di Wadjet, l’occhio di

Ra. Questo simbolo viene posto come corona sulla fronte del faraone, colui che rappresenta Ra, per rammentare ai sud-diti ed ai nemici il suo potere distruttivo. In un contesto sociale e culturale di ffe-rente, nell’antica civiltà cretese, ritrovia-mo un clima di gioia e di esaltazione di un’esistenza che trae il suo sostentamen-to dal mare. Nella stanza della regina del palazzo di Cnosso vengono affrescati del fini armoniosi, oppure scene di tauro-machia (giochi con il toro), dove gli acrobati non temono il possente animale, ma ci danzano assieme. Nel 440 a.C lo scultore greco Fidia colloca sui frontoni triangolari del Partenone di Atene un intreccio di cavalli e di figure divine dall’aspetto umano. L'animale non è divini zzato, ma, essendo coinvolto nell’azione umana, ha assunto un posto d’onore. Più tardi, a Roma, al gesto tea-trale del braccio destro levato in avanti della statua di Marco Aurelio, risponde simmetricamente la zampa anteriore destra del cavallo che lo sostiene. Nella rappresentazione pittorica più diffusa dell’arte cristiana, quella della Natività, Gesù bambino viene rappresentato tra il bue e l’asinello. La presenza di questi due animali simboleggia l’umiltà e la povertà materiale, contrapposta alla ric-chezza spirituale del Cristo. È senz'altro vero che molte raffigurazioni di animali nascono da un immaginario collettivo,

ma la cosa più interessante sta nel fatto che, sotto nomi diversi, prescindendo da latitudini, contesti culturali ed epoche storiche, presentano caratteristiche sim-boliche affini. Gli artisti di tutti i tempi hanno continuamente tentato di esprime-re questi archetipi, segni profondi di una mentalità comune. Il ragno, ad esempio, ha sempre stimolato l’immaginario, co-me testimonia il mito di Aracne o le credenze nel tarantismo. Un’enorme rappresentazione di questo animale (45 metri) è stata ritrovata negli anni ’20 del secolo scorso sull’altopiano di Nazca, in Perù, sul luogo del gigantesco centro cerimoniale di Cahuachi. Questa figura archetipa, secondo gli archeologi, assu-meva una valenza positiva perché, espri-mendo pazienza e laboriosità, aiutava gli uomini a garantire gli approvvigiona-menti di acqua e la fertilità dei terreni. A volte il simbolismo è ambivalente. Il gatto, adorato dagli egizi e amato dai romani, nel medioevo diviene simbolo del demonio. Il Malleus Maleficarum, il più famoso dei manuali in uso agli in-quisitori, riporta che le streghe, messe s o t t o t o r t u r a, c o n fe s s a v a n o "spontaneamente" di essersi congiunte sessualmente con un grosso gatto nero, incarnazione di Belzebù. I capitelli delle chiese romaniche e gotiche cominciano ad essere ricoperti da bassorilievi e alto-rilievi raffiguranti animali mostruosi e antropomorfi, espressione di pietra di simboli e dottrine ad uso di un popolo del tutto illetterato. Nel medioevo nasco-no e si diffondono anche i bestiari, libri che raccolgono descrizioni di animali reali ed immaginari, accompagnate da spiegazioni moralizzanti e riferimenti tratti dalla Bibbia. In queste rappresenta-zioni appaiono animali immaginari co-

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L’arte, forma espressiva dell ’azione e del pensiero umano, ha quasi sempre riservato a molte specie

animali uno spazio simbolico.

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me l’unicorno, la sirena, l’ippogrifo, la chimera, le cui qualità divengono allego-rie di valori e profonde verità religiose.

Q ueste raffigurazioni formano un re-pertorio inesauribile, che pittori e sculto-ri interpretano secondo il loro gusto per-sonale. La letteratura medievale fornisce innumerevoli esempi di allegorie a scopo morale. Come dimenticare la lonza, il leone e la lupa del I canto dell’Inferno, quelle fiere che, per Dante, simboleggia-no lussuria, superbia e avarizia? Nell’Inferno dantesco compare anche il centauro, figura mitica della poesia e dell’arte greca, nel medioevo simbolo dell’uomo schiavo, tra lussuria, seduzio-ne e omosessualità, della perversione sessuale bestiale. Nel Quattrocento, con

l’Umanesimo, il corpo umano non è più scrigno di peccato, ma macchina perfet-tamente funzionante da indagare e stu-diare con interesse scienti fi co. Le specie animali suscitano l’interesse per lo studio anatomico di grandi artisti come Leonardo da Vinci e Albrecht Dü-rer. Gli animali, ormai non più allegoria del peccato, ritrovano le loro originarie connotazioni positive. Nel Rinascimento si riscopre la cultura classica greca; ritor-na così la figura archetipa dell’ape, che per la dolcezza del miele, la laboriosità e la pazienza, è assimilata a Cristo ed alla sua misericordia, mentre in alcuni dipinti viene associata a Cupido, dio dell’amore. Ritroviamo ancora l'ape come simbolo di Cristo nell’atmosfera teatrale del baroc-co. L’eccentrico architetto Borromini, nella chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma, struttura lo spazio su di uno sche-ma geometrico a forma di ape, mentre, sul palazzo della Sapienza, sculture de-corative a forma di ape celebrano il sim-bolo ed i fasti della potentissima famiglia Barberini. Nel Settecento, secolo dei Lumi e della ragione, gli animali si libe-rano del carattere simbolico per essere rappresentati, insieme all’uomo, nei co-siddetti quadri di genere, che si prefiggo-no di rappresentare lucidamente e razio-

nalmente la realtà. Esempio di questo

lucido realismo lo ritroviamo con il di-pinto La fiera di Poggio a Caiano di Giuseppe Maria Crespi, o La mostra del rinoceronte di Pietro Longhi. Anche nell’Ottocento è la realtà nuda e cruda a interessare gli artisti, ma in questo caso si parla di realismo sociale, volto a de-nunciare l e dure condizioni di vita dei contadini. Gli animali, adesso, appaiono

accomunati all’uomo nel condividere la fatica del lavoro. Da suggerire, per chi non li conosce ancora, i dipinti Caccia notturna agli uccelli di Jean-François Millet oppure Il carro rosso di Giovanni Fattori. Nel 1911 Vasilij Vasil'evič Kan-dinskij fonda il movimento Der Blau Reiter (il cavaliere azzurro). Secondo la poetica del movimento, forma e colore s’influenzano reciprocamente, creando una forza che agisce come stimolo psico-logico. L'artista, manipolando forma e colore, dà un significato personale al prodotto artistico, rifuggendo dal condi-zionamento sociale. Uno degli artisti del movimento, Franz Marc, dipinge solo animali, non per studiarne scientifica-mente le caratteristiche, ma perché il loro agire ha la libertà e la spontaneità ormai perdute dall’uomo. I suoi animali sono

rossi, gialli, blu, perché, appunto, i colori suscitano emozioni primitive che l’artista cerca in sé e vuole comunicare. Anche in Guernica, di Pablo Picasso, i colori e le forme sono segni comunicativi soggetti-vi. Qui la forma primitiva del “ terrore” è data dall’assenza di colore ed il nitrito straziante del cavallo ferito diventa sim-bolo dell’umanità e della civiltà distrutta dalla violenza ottusa, simboleggiata dal toro. Nelle avanguardie artistiche del dopoguerra, infine, la figura dell’animale perde ogni connotato reale o valenza simbolica per essere manipolata, insieme ad altri oggetti, per un’arte d’azione che non celebra e non rappresenta, ma crea suggestioni. In un’istallazione di Robert Rauschenberg, un assemblaggio di pittu-ra e oggetti, una gallina sopra una cassa di legno produce un effetto stridente e

Franz Marc, dipinge solo animali, non per studiarne

scientificamente le caratteristiche, ma perché il loro agire ha la libertà e la spontaneità ormai perdute

Le specie animali suscitano l ’interesse per lo studio

anatomico di grandi artisti come Leonardo da Vinci e Albrecht Dürer.

Franz Marc, Cavalli rossi e blu, 1912, Städtische Galerie im Lenbachhaus - Monaco

Robert Rauschenberg, Odalisca, 1955-8 installazione, Ludwig Museum, Colonia

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N el mondo animale, del tutto inno-cente, ci sono vari tipi di predatori: è la loro natura, non possono essere diffe-renti, sono a-morali, le categorie del bene e del male non possono essere applicate a loro. Ma nel mondo animale c’è un particolare tipo di predatore che si è posto in cima alla catena alimenta-re, auto-denominandosi umano e po-nendosi al di sopra di tutti gli altri, l’unico dotato di morale. Ai miei occhi gli umani, al contrario degli animali in senso umano, cioè tutti gli altri eccetto l’antropos, sono tutto meno che inno-centi: solo in teoria conoscono le cate-gorie di bene e male ma forse le usano in modo difficilmente comprensibile.

Nel senso del potere e non della respon-sabilità. Perché, per me, distinguere le due categorie comporta un’ovvia conse-guenza, il dovere di applicarle. Mi ha sempre sorpreso una stranezza, per e-

sempio. Il cacciatore di tigri è un uomo coraggioso, forte e bravo. Ogni tigre che abbatte, accresce la sua fama e lo rende più sicuro di sé, più conscio del proprio valore. Ma perché la tigre è un animale fero-ce? E perché viene odiata? Fa SOLO il suo mestiere di onesta tigre! Perché non è brava, coraggiosa e forte se uccide bipedi più deboli e quindi cibo? E per-ché gli squali, uccisi a migliaia anche per errore, sono considerati così catti-vi? Gli umani fanno mille cose terribili ad ogni tipo di animale. I cosiddetti cacciatori sono fieri di sé quando tra-sformano una creatura libera, bella e piena di capacità che noi non possedia-mo in un floscio mucchietto di piume sporche. E si sentono sportivi! In defi-nitiva, agli animali vengono addossati molti peccati che sono solo frutto di proiezioni: gli umani preferiscono con-siderare gli innocenti animali come personi ficazione del male, allontanan-dolo da sé. Ovviamente non dico che non dobbia-mo difenderci dalle tigri o dagli squali, dovremmo solo evitare di applicare categori e che non si addicono a quelli che consideriamo privi di anima e di sentimenti. Spesso, sulla carta, provia-mo a rappresentarli, a renderli protago-nisti, ma sempre umanizzandoli. Così gli animali vengono usati come meta-fore, come specchio, spesso deforman-te, dell’umano. Li priviamo anche della loro alterità, con quello strano fenome-no detto antropomorfismo. Certo, usarli in un perverso intreccio con la letteratu-ra non è la cosa peggiore che facciamo agli animali, è solo per dire che nulla viene trascurato nell’appropri azione totale di loro, nel loro uso. Nel tempo, la rappresentazione degli animali lette-rari è mutata: in passato gli animali erano davvero umani e cattivi, basta pensare alla metafora più radicata nel nostro immaginario, il Lupo Cattivo di

Cappuccetto Rosso. Che, naturalmente, viene sconfitto dal Cacciatore Buono. Ci sono gli animali moralisti, usati co-me monito per predicare agli umani. E qua non sempre funziona: ho sempre trovato odiosa la Formica, saggia e pre-vidente, e detestabile la sua meschinità nei confronti della povera Cical a. Non è un inno all’avarizia, alla mancanza di solidarietà? Non viene voglia di cancel-lare la Formica ed aprire i granai alla Cicala? E quella stupida volpe, incapa-ce di ammettere che l’uva è troppo alta per lei, non è troppo umana? E’ certa-mente una volpe maschio, non vi sem-bra? Poi avete presente Moby Dick? Il capitano Achab è un cacci atore di bale-ne e lo ritiene perfettamente giusto. Molte balene sono morte per sua mano perché lui è un bravissimo cacciatore. Ma un giorno ha un incidente e non se ne darà mai pace. Trascorrerà il resto della sua vita ad inseguire una balena colpevole di averlo privato di una gam-ba, che è solo un po’ più abile delle altre, che ri fiuta di farsi uccidere e si sottrae.

S olo alla fine sarà sconfitta. Posso dirvi che mi sembra giusto che trascini con sé anche il suo assassino? Non sono io a personalizzare la storia, è LUI! Che deve vendicarsi. Di una balena! Sì, ok, la balena rappresenta il Nemico, il Ma-

LETTERATURA

BESTIALE

I cosiddetti cacciatori sono fieri di sé quando trasformano una creatura libera, bella e piena di capacità che noi non possediamo in un floscio

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le, d’accordo. Ma Achab sarebbe il Be-ne? Se la balena bianca viene umanizza-ta, diventando colpevole, e quindi rien-trando in una cat egoria morale, che dire di tutte le balene uccise da Achab? Ne umanizziamo solo una, cattiva, e can-celliamo le altre? Io sono una ammira-trice di Greenpeace e NON sopporto il capitano Achab. Diciamo che noi uma-ni, insaziabili consumatori della mag-gior parte degli appartenenti al mondo animale, siamo animali senza scrupoli e non pensiamoci più! Ma ammettiamo-lo, almeno! Ok, non posso capire, come al solito. Un perfetto esempio, una pa-noramica di tutti i difetti e le meschini-tà umane è La fattoria degli animali, perfetta rappresentazione di un ideale positivo che si trasforma in un incubo: ma i poveri animali che c’entrano? Non è un sopruso rappresentarli così umani? Ma veniamo ad usi letterari differenti, che non vedono più gli animali in modo classico cioè in negativo. Ad un certo punto, infatti, alcuni scritto-ri tentano di uscire dalla loro condizione di umani e provano a guardare al mon-do dall’ottica degli animali. Il gioco

riserva non poche sorprese, finalmente. E’ la tecnica straniante dello sguardo alieno. Ci sono dei libri che vengono classi ficati come libri per ragazzi, ma sono ben altro: mi riferisco ai Viaggi di Gulliver, uno dei libri di un formidabile e distruttivo polemista, Jonathan Swift, quello della soluzione del problema della fame nel mondo, per intenderci, servire i bambini poveri alle tavole dei ricchi. Questa sua Modesta Proposta dà un’idea del personaggio. Ma tornando ai Viaggi, mi riferisco naturalmente al fantastico mondo degli Houyhnhnms, i cavalli saggi e non violenti che non

conoscono al cune cat egori e umane: vero/ falso, pace/guerra, ad esempio. Leggere questo libro ebbe una grande influenza su di me bambina. La descri-zione degli Houyhnhnnms (presumo che il loro nome sia così illeggibile per sot-tolineare la loro totale differenza, ma quanto è scomodo!) ed il loro giusto disprezzo nei confronti degli Yahoos, assolutamente condivisibile, mi fece cominciare a considerare in un altro modo il genere umano, appena capii che gli Yahoos erano gli uomini. Forse per-ché era la prima volta che mi trovavo vittima dello straniamento, ma ricordo che l’impressione profonda restò in me a lungo. E mi trovò del tutto d’accordo con il protagonista che, dopo aver cono-sciuto un mondo così diverso ed infini-tamente superiore al suo/nostro, non riesce a rassegnarsi al fatto di esserne stato esiliato in quanto yahoo e non accetta più di fare parte del proprio, andando a vivere in una stalla, auto-esiliato dal genere umano.

D a allora ho sempre cercato visioni alternative del nostro modo di essere,

La prima edizione dei Viaggi di Gulliver, Londra 1726.

Perché le nostre colpe nei confronti degli animali sono un elenco infinito, troppo lungo an-che solo a pensarci. Tanto da

ribaltare l ’accezione comune, positiva per umano e negativa per animalesco.

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visioni dall’esterno: il modo migliore, anzi l’unico, per guardarsi vedendosi è uscire dal proprio acquario, cioè dalla propria cultura e guardarsi dall’ ester-no. Ma gli animali letterari vengono usati soprattutto per parlare di sé. Ed anche insospettabili intellettuali posso-no abbandonarsi a questo gioco, riser-vandoci belle e gradevoli sorprese, scri-vendo libri di particolare levità. Avreste mai immaginato Alberto Asor Rosa, un serissimo intellettuale fortemente impe-gnato politicamente, occupato a descri-vere un ménage à quatre, cioè la vita familiare di una coppia di umani, un cane ed un gatto? Beh, in realtà sono gli animali che descrivono, con grande indulgenza, la stranezza degli umani con cui vivono. E come sia difficile che gli umani, ottusi in quanto tali, com-prendano i desideri dei veri protagoni-sti, il gatto ed il cane. Questo delizioso libretto contiene toni di una tale ironia e tenerezza da farmi continuare a con-trollare che realmente stessi leggendo un libro di Asor Rosa. Ah, sarà l’effetto positivo degli animali: ci rendono più …. come dire? Umani sembra fuori luogo, un’accezione positiva che non mi sembra di meritare in rapporto al mondo animale.

P erché le nostre colpe nei confronti

degli animali sono un elenco infinito, troppo lungo anche solo a pensarci. Tanto da ribaltare l’accezione comune, positiva per umano e negativa per ani-malesco. Certo che la razza umana non manca d’improntitudine! Usare i termi-ni bestiale, animalesco per descrivere i nostri peggiori difetti! Ma torniamo agli intellettuali in fase di levità. Che dire di Edmondo Berselli, che abbando-na le sue analisi politico-sociologiche per descriverci come la cagnetta Liù lo abbia sedotto, lui, persona che NON amava i cani e NON ne voleva in casa? Ed anche Sàndor Màrai, lo scrittore di rarefatt e atmosfere, incredibilmente suggestive che, a sorpresa, dedica un libro a Truciolo, bastardino dal caratte-re spiccatissimo, che diventa un altro dei suoi personaggi indimenticabili. I cani, i migliori amici degli uomini, evi-dentemente si prestano molto all’estro letterario. Virginia Woolf, attraverso la biografia di Flush, il cocker di Eliza-beth Barrett Browning, ci parla della vita della poetessa, sempre vista con gli occhi cockerini ed affettuosi, indulgenti come tutti gli animali letterari con le debolezze umane. Appare evidente che gli umani usino gli animali letterari sempre per dare un’immagine di sé, mai degli animali. E si vedono come vorreb-bero essere visti. Ancora una volta pec-

cando di antropomorfismo, negando la speci ficità del mondo animale, snatura-to a propria misura. L’ultimo arrivato (o forse il penultimo, non so) è Firmino, libro di inaspettato successo in cui Sam Savage descrive un specie di brutto anatroccolo, il topo più debole della nidiata che, per sopravvivere, comincia a mangiare libri, metafora dell’ introiet-tare, del divorare, e poi diventa un ap-passionato e coltissimo lettore. Perché i libri più belli sono anche i più buoni. Firmino scopre quello che i miei stu-denti s i ri fi ut avano di scoprire: l’identificazione con i grandi eroi della letteratura mondiale arricchisce anche la vita più banale e vuota, la illumina e la fa diventare più interessante. A.L.D.

Libri ed animali Hermann Melville - Moby Dick

George Orwell - La fattoria degli animali Jonathan Swift - I viaggi di Gulliver

Alberto Asor Rosa - Storia di animali e altri viventi Sandor Marai - Truciolo

Virginia Woolf - Flush, storia di un cane Sam Savage - Firmino

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D opo un lungo apprendistato in Olanda, il pittore Jan Asselyn soggiornò per un paio d'anni a Roma, dove entrò in contatto con i pittori cosiddetti Bam-boccianti e si speci alizzò in disegni ed acquerelli di vedute della Città. Il qua-dro sopra riprodotto, dal titolo Il cigno

minacciato, ha come soggetto un cigno a grandezza naturale (la tela misura 144x171 cm.) che difende il suo nido da un cane che si avvicina nuotando. L’angolo di ripresa è basso e ravvicina-to, tale da enfatizzare la sagoma dell’animale che si staglia contro un cielo minaccioso. Con le ali spiegate in tutta la loro estensione e le zampe ben piantate sul terreno, l’uccello occupa praticamente tutta la scena e sembra ergersi come una barri era protettiva.

Con il petto ed il collo protesi in avanti, il becco aperto, in atto di emettere suo-ni aggressivi, il cigno furioso difende vigorosamente il nido dall'attacco del cane. Le piume sparse, ancora in volo, producono un notevole effetto dinami-co. Un cane nero, seminascosto in ac-qua, tenta di aggredire un cigno bianco, che senza paura esce allo scoperto e lo affront a. Sicuramente in questo dipinto, oltre alla proverbiale maestria descritti-va fiamminga, c’è un intento morale, reso necessario ed attuale dall’ideologia calvinista. La cosa più interessante, però, è che di questo quadro è stato fatto un uso politico. Nel riquadro A, sotto il cigno, una mano ignota ha aggiunto De Raad-Pensionarie, il Grande Pensio-

nario; nel riquadro B, sopra il cane, de viand van de Staat, il nemico dello

Stato, mentre su una delle uova del nido, nel riquadro C, si legge Holland, Olanda. Quella di Grande Pensionario è la carica, equivalente a capo di Stato, attribuita a Johan de Witt, fautore di una politica di collaborazione con Francia e Inghilterra. Il cane nero è l’Inghilterra, che minacci a il nido, cioè l’Olanda. La politica estera, così, viene spiegata in modo diretto e didascalico. Il progetto di de Witt non bastò a fermare la coali-zione di Francia e Inghilterra che, nel 1672, attaccarono l’Olanda. Johan de Witt, assieme a suo fratello Cornelis, venne ucciso e squartato. Oltre che abile statista, Johan de Witt fu un giurista ed un matematico. A lui si devono studi sulle rendite vitalizie che sono alla base del moderno calcolo attuariale. Anteo Quisono

Jan Asselyn, (1610-1652), Il cigno minacciato, c. 1650. Olio su tela, Rijksmuseum, Amsterdam.

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I l cinema, soprattutto quello mainstream, ha spesso mostra-to le relazioni tra uomini e animali domestici in modo garbato e rassicurante: si pensi alle centinaia di volte in cui cani e gatti tengono compagnia ai prot agonisti, aspettandone il ritorno a casa. Ma non è frequente che un film faccia interrogare lo spetta-tore su quanto una relazione tra uomo e animale possa essere profonda e, in effetti, morbosa nel suo colmare vuoti affettivi e assenza di relazioni con altri esseri umani. Qualche caso nel cinema documentaristico però si trova; l'interessante esordio di Errol Morris (poi vincitore di un Oscar per The Fog of War), Gates of Heaven, narra gli even-ti legati alla realizzazione di un cimitero per animali. Malgrado Morris dimostri sin troppa empatia per i vari amanti degli animali, non manca, nel mostrarci numerosi membri della middle-class americana alle prese coi propri animali domesti-ci, di sottolinearne il ridicolo involontario. Ma quello che è forse il tentativo più efficace di sondare i rapporti uomo-animale rimane Tierische Liebe di Ulrich Seidl (1996), distri-buito al di fuori dell'Austria col titolo di Animal Love. Sebbe-ne il nome di Seidl resti per lo più legato alle rassegne cine-matografiche e ai circoli culturali, in Italia ha visto distribuito Canicola. Regista da sempre alle prese con le inclinazioni perverse che si nascondono nell'apparente normalità della vita borghese, in Animal Love Seidl ci costringe a fare i conti con la solitudine dell'uomo degli anni '90. Girato nelle periferie di Vienna con attori non professio-nisti, più che un film Animal Lo-

ve rappresenta due ore di fram-menti di vita separati l'uno dall'altro. Si spazia dall'uomo di mezz'et à che lotta col proprio cane ai mendicanti nella metro ed alla coppia scambista che l egge annunci sul giornale. Emblemati-ca la scena in cui una donna non più giovane rilegge le ardenti lettere d'amore del suo amante, riscaldata però dalla compa-gnia di un husky. Seidl, per sua stessa dichiarazione, è un voyeur che non risparmia allo spettatore bruttezze di ogni tipo: corpi che spaziano dal brutto all'orrido, che sudano, fan-no sesso, “ accarezzano” i propri animali in modo alquanto peculiare, li stringono a sé o li baciano.

T utto questo sottolinea lo stile da entomologo dell'autore, che non si ferma mai a suggerire un qualsivoglia giudizio ma, semplicemente, ci fa vedere la “ sua” Vienna, i cui sobborghi ci sbattono in faccia un'enorme dose di povertà materiale e

morale. Il tutto agevolato da uno stile asciuttissimo, pieno di campi fissi e contraddistinto da una fotografia sgranata e molto scura. Se, da un lato, durante la visione aleggia il continuo sospetto di un ben celato compiacimento, dall'al-tro è innegabile la potenza del prodotto di Seidl, che non la-scia scampo allo spettatore, il quale non può che tirare un sospiro di sollievo al termine della visione. Non a caso, in merito ad Animal Love Herzog

ha dichiarato: “ Al cinema, non ho mai visto l'inferno tanto vicino”. Perché, a prescindere da ciò che ci troviamo davanti agli occhi, la sensazione di profonda solitudine che ogni scena di del film porta con sé rimane e ci costringe a ri flettere su ciò che siamo diventati. E allora le chat, i social network e i gio-chi di ruolo erano ancora poco di ffusi o inesistenti. Eppure, durante e al termine della visione è più che lecito chiedersi: “ Quante persone che conosco somigliano a quelle che ho vi-sto? E quanto c'è di me in ogni uomo e donna qui mostrati?” L'affetto morboso nutrito nei confronti di animali domestici, che divengono gli unici punti di contatto con l'esterno, renderà

tanto diversa la loro vita ri-spetto a quella trascorsa in un gioco di ruolo o immersa nella pornografia di ogni tipo? Quello che è evidente, e che Seidl ci mostra in tutta la sua violenza, è l'enorme isolamento dell'uomo nella metropoli: non vediamo Vienna come una metropoli luminosa, trafficat a, viva e multiculturale, ma la vedia-mo dai sobborghi, abitata da tossici, mendicanti e orridi uomini obesi in canotta (un

elemento a dir poco ricorrente durante tutta la durata del film). In definitiva, un film tutt'altro che bello, dato che a livello estetico provoca per lo più nausea, ma memorabile: un piccolo excursus sulla condizione umana della fine del secolo scorso.

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Q uesta è la riflessione da cui partiva il filosofo Jeremy Bentham (1748– 1832) nella sua Introduzione ai principi delle morali e delle leggi e da cui vorrei partire anch'io. Come possiamo giustifi-care il nostro dominio sugli altri anima-li? Dobbiamo trovare delle differenze tra noi e loro, così come si è sempre fatto per affermare la supremazia di un sesso sull'altro o di una razza sull'altra. Ma allo stesso modo del sessismo e del razzismo, lo specismo, cioè l'afferma-zione della supremazia di una speci e (la nostra) sulle altre, non poggia su al cuna evidenza scientifica ma è il frutto di un pensiero filosofico (a volte infarcito di false prove scienti fiche), al servizio del potere e dell'economia, che doveva di f-fondersi per permettere al gruppo domi-nante (tale solo perchè dotato di mag-giore forza fisica o tecnologica) di s frut-tare un altro gruppo senza ricevere con-danne morali; così è stato per l'uomo sulla donna, i bianchi sui neri, l'essere umano sulle altre specie animali.

Si potrebbe obiettare che effettivamente l'intelligenza, il pensiero razionale, di una donna e di un uomo, di un afri cano e di un europeo sono uguali ed è evi-dente invece come la mente di un'altra specie animale non sia mai riuscita a partorire astruse formule matematiche, profonde speculazioni filosofiche, av-vincenti poemi epici. Ma, attenzione!

Qui sta la trappola in cui, per non cade-re, ci aggrappiamo ai quesiti di Ben-tham! Un gatto, quindi, non ha mai pre-so un nobel per la fisica o la letteratura. Bene. Verissimo. Ed un neonato? Un cerebroleso che non riesce nemmeno a parlare? Nemmeno. Questo ci rende forse padroni di fare dei loro corpi ciò che vogliamo? Fortunatamente no! Per-ché il non essere intelligenti quanto noi nulla toglie al loro diritto all'esistenza e al rispetto, in quanto esseri senzienti (cioè capaci di provare gioia e dolore) quanto noi. Ed io aspetto da sempre qualcuno che mi spieghi perché debba escludere il gatto da questi diritti. Giuro che nessuno mi ha mai saputo risponde-re. Ad eccezione dei cattolici, che, cre-dendo nel fatto che l'uomo abbia un'ani-ma, al contrario delle altre specie, ne affermano la superiorità. Ma sono dog-mi, ed in quanto tali non si possono dimostrare né con prove materi ali né con la discussione, per cui, paradossal-mente, vengono meno anche quelle altre due caratteristiche nominate da Ben-tham che dovrebbero essere proprie dell'essere umano, cioè il saper ragiona-re ed argomentare con la parol a. Per una povera agnostica (vedi Glossario) come me, le loro posizioni restano davvero un mistero della fede. Ancor più contrad-dittoria mi appare la faccenda ri fl etten-do sul fatto che le idee religiose, essen-do ispirate direttamente da Dio, dovreb-bero essere immutabili nel tempo e nel-lo spazio. Ma fino a pochissimi secoli fa non si credeva ancora che le donne ed i “selvaggi” uccisi dai conquistatori spa-gnoli non avessero un'anima? Allora? Non hanno ancora cambiato idea o la religione non esprime esattamente il pensiero eterno di Dio? Passando dalle religioni alla sedicente scienza, i para-dossi non vengono meno: analizziamo la vivisezione, praticata dal fior fiore di scienziati. Costoro sostengono di tortu-rare gli altri animali per portare dei be-nefici all'uomo, per esempio progressi

nel campo medico. Questo signi fica che i risultati che otterrò somministrando un nuovo farmaco ad un cane, un topo o un maiale saranno gli stessi che riscontrerò sull'essere umano. Ma questo significa che siamo uguali! E se siamo uguali, come possiamo giustificare moralmente le atroci sofferenze che infliggiamo loro nei laboratori di vivisezione? Forse allo-ra siamo diversi!

Ma quale validità scientifica ha un espe-rimento su una specie in cui induciamo arti ficialmente una malattia, se quella molecola è destinata a curare una malat-tia sorta spontaneamente in un'altra spe-cie? E difatti:

• in undici anni solo in Italia sono stati ritirati, per inidoneità o perché pericolosi oltre 25000 pro-dotti farmaceutici la cui validità era stata garantita dalla sperimentazio-ne animale • il dietilstilbestrolo, sommini-strato come antiabortivo alle ge-stanti e "garantito" dalla sperimen-tazione su animali, ha poi rivelato la caratteristica di provocare cancro alla mammella nella madre, tumori ai testicoli nei figli, cancro vaginale o uterino nel 95% delle figlie. • nel 1978, 30.000 persone, ac-cecate o paralizzate dal cliochinolo, urlarono la loro disperazione per le vie di Tokyo. Al processo intentato contro la casa farmaceutica, il dot-tor Olle Hansson depose come peri-

Il problema non è:

"possono ragionare?", né:

"possono parlare?" ma:

"possono soffrire?"

...allo stesso modo del sessismo e del razzismo, lo specismo, cioè l'affermazione della supremazia di una specie (la nostra) sulle altre, non poggia su alcuna evi-denza scientifica bensì è il frutto di un pensiero filosofico-...

Ma fino a pochissimi secoli fa non si credeva ancora che le donne ed i “selvaggi” uccisi dai conquistatori spagnoli non avessero un'anima?

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to legale e affermò che il cliochinolo era neurotossico per i gatti; gli espe-rimenti effettuati dalla società, che si stava difendendo, indicavano che prove su ratti, cani beagle e conigli non avevano rivelato alcuna prova che il cliochinolo fosse neurotossi-co. (Mondofarmaco, Li Rosi - Monte-magno, FCE edizioni)

N on vi annoio con gli altri 10.000 esempi che potrei riportarvi. Quindi, in poche parole, gli animali geneticamente a noi più lontani, come i ratti, sarebbe moralmente -in un’ottica antropocentri-ca (vedi Glossario)- più accettabile che venissero utilizzati come cavie ma meno accettabile scienti ficamente; viceversa

sperimentare su animali come i bonobo (lo scimpanzé col DNA più simile a quello umano) potrebbe avere maggiore validità scientifica (senza però che i ri-sultati siano attendibili al 100%) ma sa-rebbe eticamente inaccettabile, in quanto questi scimpanzé hanno una intelligenza pari a quella di un bambino di 7 anni. Alla domanda quindi perché noi esseri umani torturiamo un bonobo o un ratto e non un bambino abbiamo una sola rispo-sta: il bambino è della nostra specie, la scimmia no. Sarebbe un po' come dire: perché preferisci torturare una femmina e non un maschio? Perché non è del mio stesso sesso! Perché uccidi un francese e non un italiano? Perché non è della mia stessa nazione! Vi rendete conto di quan-to siano ridicole queste risposte dato che la capacità di soffrire di una donna, di un

uomo, di un francese, di un italiano, di un bambino, di una scimmia è la stessa identica? Anzi, se differenza c' è nella capacità di ragionare e quindi nella con-sapevolezza di cosa porti dolore e di cosa porti benessere ad un gruppo più debole intellettivamente di noi, ciò dovrà obbli-garci ad avere più doveri nei loro con-fronti, non certo diritti di sfruttamento. Per questo gli adulti tutelano i bambini e per questo l'essere umano dovrebbe tute-lare le altre specie e non approfittare della loro debolezza, della loro incapaci-tà di difendersi. La non oggettività che sta dietro allo specismo si evidenzia an-che andando ad analizzare come il nostro rapporto con le diverse specie animali vari notevolmente da una cultura all'al-tra, facendo cioè ingiustificabili differen-ze non solo tra noi e loro ma anche tra una specie e l'altra, con comportamenti incoerenti se non schizofreni ci.

Un aneddoto personale: avevo 8 anni, stavo mangiando un panino col prosciut-to con una mia amichetta, a casa mi a-spettavano i miei adorati cani. Passò davanti a noi un camioncino che traspor-tava agnellini incatenati che url avano. La mia amica esclamò: “ Poverini! Li staran-no portando al macello...”. Io mi sentii confusa; vero è che anch'io provavo pietà e tenerezza per quegli animali però stavo mangiando contemporaneamente un loro cugino, il maiale, e i cani venivano trat-tati dalla mia famiglia come dei figli. Dovevo liberarmi da quel senso di incoe-renza e di ipocrisia (davanti al muso: “povero, tenero agnellino...”, alle spal-le :“...che sei buono con le patate!”) che mi facevano sentire davvero un po' schi-zofrenica. Urgeva una decisione: cane-agnello-maiale, un unico corpo, un'unica capacità di soffrire e di gioire, per cui dovevo rispettarli tutti nella stessa ma-niera o avere la capacità di mangiarli, e quindi ucciderli, senza fare distinzioni. Quel giorno decisi che sarei diventata vegetari ana. Nella mia vita ci fu poi un'e-voluzione, dopo 15 anni di vegetarismo (escludere dalla propria dieta carne e

“ Adesso posso guardarti negli occhi. Non ti mangio più. " Franz Kafka Nella foto di Alessandra La Torre: Mira

...cane-agne llo-maiale, un unico corpo, un'unica capacità di soffrire e di gioire, per cui dovevo rispettarli tutti nella stessa maniera o avere la capa-cità di mangiarli, e quindi

ucciderli, senza fare distinzioni.

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pesce) eliminai anche latte, uova e deri-vati, cioè divenni vegana. E se ormai dichiararsi vegetariana non suscita più scalpore, quando spieghi che sei vegan e cosa significa ti guardano come un ufo o come una squilibrata estremista. Eppure trovo che sia un passaggio logico e coe-rente, se si parte da una visione etica antispecista. La prima obiezione che ti fanno di solito è che gli animali non devono essere uccisi per poter prendere latte e uova. E sicuramente l'immagine che visualizzano mentre parlano è quel-la della mucca Milka che passeggia sui pascoli d'alta montagna e la gallina che razzola col lombrico nel becco appena scovato sulla terra. Questa realtà riguar-da circa l'1% degli animali allevati, gli altri trascorrono una vita non degna di essere vissuta, tras formati in pezzi di una catena di montaggio industriale, chiusi in capannoni, legati o dentro gab-bie, senza mai vedere la luce del sole, un filo d'erba, un insetto che vola. Im-bottiti di antibiotici ed antinfiammatori, senza i quali non potrebbero sopravvi-vere, sono spremuti come limoni ed infine, ancora giovani ma stremati dalle condizioni cui sono sottoposti, comun-que uccisi perchè “ cala la produzione”. Altra obiezione è che l'uomo “per natu-ra” mangia carne e altri prodotti anima-li. E lì guardo perplessa la persona che dice a me che dovrei vivere secondo natura mentre sta seduta su un motorino, ascolta l'i-pod e chatta con gli amici usando un palmare. Che devo dirgli? Mah… Gli faccio notare l'assurdità di questo suo elogio della vita primitiva e magari anche il fatto che ci provasse a

cacciare un cinghiale a corpo e mani nude come fa il leone con la gazzella. In realtà noi riusciamo a cacciare solo da quando usiamo degli strumenti, perchè non abbiamo degli arti, degli artigli e dei denti idonei ad inseguire ed uccidere prede grandi come un bovino o un maia-le selvatico. Prima eravamo ghiotti solo di larve. Leggi culturali quindi, non naturali. Poi ci sono le giustificazioni temporali: da sempre l'uomo sfrutta gli altri animali quindi sarà giusto così. Beh, da sempre ci sono anche le guerre e gli stupri… Infine vorrei farvi notare che uso sempre la parola altri quando indico gli animali escluso l'uomo e que-sto perchè la mia visione ecologica ed evoluzionistica della vita non mi fa scordare mai che noi siamo animali co-me tutti gli altri, frutto di quella evolu-

zione che per noi non ha fatto regole particolari. Dire che l'uomo è “la massi-ma espressione” dell'evoluzione è un grave errore concettual e. I processi evo-lutivi non tendono ad un fine, non esiste una specie superiore ed una specie infe-riore. Bisogna tutto contestualizzare in funzione di un adattamento a condizioni che variano nello spazio e nel tempo. É frutto del caso e della necessità, non è un merito!, se ad un certo punto della storia geologica la nostra specie ha svi-luppato maggiormente il cervello come organo per sopravvivere alle condizioni ambientali, mentre altri sviluppavano più la vista o un tipo di pelliccia. Siamo tutti ugualmente adattati al nostro am-biente: una spugna marina non sa scri-vere ma sa vivere a 6000 metri di pro-fondità oceanica. Noi non siamo in gra-do di farlo e le spugne potrebbero pen-sare che siamo poco evoluti.

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Per approfondire vi consiglio i seguenti links, ricchi anche di video e mostre fotografiche: www.agireora.org www.equivita.it www.oltrelaspeci e.org

Alessandra La Torre.

Bonobi

Glossario: Antropocentrismo = l'antropocentrismo (dal greco άνθρωπος, anthropos, "uomo, essere umano", κέν τρον, kent ron, "centro") è la tendenza a considerare l'uomo e tutto ciò che gli è proprio, co-me centrale nell'Universo. Agnosticismo = atteggiamento o dottri-na di chi sostiene l'inconoscibilità di tutto ciò che non è verificabile speri-mentalmente.

La scimmietta Britches liberata dai laboratori dell'Università della Californi a dall'Animal Liberation Front (A.L.F.). Nell'ambito di esperimenti sulla vista, a questa scimmia erano stat e cucite le palpebre e innestato sulla testa un dispositivo sonar che avrebbe dovuto sostituire gli occhi. Foto provenienti dalla associazione

americana P.E.T.A.

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N ella letteratura classica, la fauna ha spesso avuto un posto preminente. Al di là di cani, gatti, volpi, leoni, asini, ecce-tera, eccetera, visti come animali in sé, è interessante quello che spesso alcuni tipi di animali hanno rappresentato fin dall’antichità: delle “ maschere” umaniz-zate con caratteristiche ben precise, dei simboli che rimandavano ad altro. Non è un mistero che dire: Sei una volpe, signi-fi chi sei astuto come una volpe; sei un’oca valga sei stupida come un’oca; sei un rospo valga sei brutto come un rospo e tanti altri modi di dire. Tanto per fare qualche esempio e per “ nobilitare” l’argomento… Andando per ordine cro-nologico, il favolista greco Esopo (VI secolo a.C.), nella favola La volpe e

l’uva, ha scritto: “ Una volpe affamata vide dei grappoli d’uva che pendevano

da un pergolato e tentò d’afferrarli. Ma non ci riuscì. “Robaccia acerba!”, disse

allora fra sé e sé; e se ne andò. Così, anche tra gli uomini, c’è chi, non riu-

scendo, per incapacità, a raggiungere il suo intento, ne dà la colpa alle circo-

stanze”. Più che astuta, in questo caso, la volpe si mostra molto presuntuosa. In un’altra favola, una volpe, ad una pante-ra che si vantava della sua bellezza est e-riore, ribatte: “Quanto sono più bella io che queste doti le ho, non nel corpo, ma

nella mente!”. Fabula docet: gli orna-menti dello spirito valgono più della bellezza fisica. Il poeta lirico latino O-razio, (I secolo a.C.), in alcune sue sati-re – fiabe, introduce degli esempi di virtù o vizi attraverso storie che hanno per protagonisti degli animali. In Sermo-nes, I, 1, 33-38, ad esempio, cita la for-mica, s imbolo di previden za, “animaletto di grandi fatiche, che trasci-

na con la bocca tutto quello che può e l’aggiunge al mucchio che sta accumu-

lando, perché non è imprevidente e pen-sa al futuro. Lei, però non appena

l’Acquario fa cupo il volger dell’anno, non s’arrampica più fuori da nessuna

parte e si nutre delle cose che, saggia, si è procurata prima (…)”. In Sermones, II, 3, 314-320, Orazio si autoaccusa del

vizio di emulare Mecenate e pone questa critica in bocca a Damasippo, il suo in-terlocutore. Questi gli porta ad esempio una rana che, tornando dai suoi ranoc-chi, li trova, ad eccezione di uno, schiac-ciati e ormai morti. Il sopravvissuto le racconta che sono stati schiacciati dal piede di un vitello. “ E quella a chiedere: “Quanto grande? Forse – e si gonfiava

– era grande così?” “Più grande di una

metà”.“Di tanto così?” Siccome si gon-

fiava ogni volta di più, “Neanche se scoppierai – le disse il figlio – potrai

esserle pari”. Nell’età imperiale, il fa-moso autore di fiabe, Fedro, l’Esopo

romano, vissuto a cavallo tra il I secolo a.C e il I secolo d.C., nella sua raccolta di Fabulae, tra le tante, ne scrisse una (I, 61) in cui critica chi invidia “l’erba del vicino” perché “ è sempre più verde” ed invita ad accontentarsi di ciò che si è: Venne il pavone da Giunone, offeso per-ché lui non aveva avuto il dono del can-

to, come invece l’usignolo, che se canta-va tutti l’ammiravano: lui se apriva la

bocca lo irridevano. La Dea per conso-larlo gli diceva: “Ma tu sei più avvenen-

te, sei più grande, il tuo collo ha una luce di smeraldo, piume multicolori nel-

la coda se l’apri, s’incastonano di gem-me”. “Ma la bellezza è muta: che mi

serve se basta un suono a vincermi?” diceva. “Il destino ad ognuno dà il suo

ruolo. Tu hai la bellezza, l’aquila la forza, dell’usignolo è la melodia, il cor-

vo ha il dono della profezia, la cornac-chia conosce i tristi indizi, e ogni anima-

le è pago del suo dono. Non aspirare a quello che non hai, ne saresti deluso ed

infelice”. Un secolo dopo circa, Apuleio scrisse un romanzo: Metamorphoseon

libri, Le Metamorfos i, conosciuto nell’antichità anche con il titolo Asinus

aureus, L’asino d’oro. In quest’opera, il protagonista, Lucio, a causa della sua curiosità, finisce per mettersi nei guai: chiede ad una serva di essere trasforma-to in un uccello ma, per errore, viene mutato in un asino, e ciò che è peggio, in un asino che ragiona come un uomo: “ Poi agitando le braccia su e giù mi

misi a fare l’uccello, ma niente: penne non ne spuntavano e nemmeno piume;

piuttosto i peli cominciarono a diventare ispidi come setole, la pelle, delicata

com’era, a farsi dura come il cuoio, alle estremità degli arti le dita si confusero,

riunendosi in una sola unghia e in fondo alla colonna vertebrale spuntò una gran

coda. Poi eccomi con una faccia enor-me, una bocca allungata, le narici spa-

lancate, le labbra penzoloni, mentre

Se fosse un animale, sarebbeº

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smisuratamente pelose mi erano cre-

sciute le orecchie. (…) Guardandomi tutte le parti del corpo e vedendomi di-

ventato asino e non uccello sentii d’essere rovinato. (…) Così ella (la ser-

va Fotide) si disperava ed io, benché asino perfetto, un quadrupede al posto

di Lucio, conservavo la sensibilità uma-na”.

I n questa nuova veste, il personaggio affront erà numerose peripezi e e, solo dopo un lungo percorso di espiazione, riuscirà a riprendere le sembianze uma-ne. Il contrappasso è evidente: essere tras formato fisicamente nel più stupido degli animali ma conservando un intel-letto umano. Gli animali come allegorie dei vizi umani sono quelli che Dante

Alighieri incontra nel suo immaginario viaggio nell’Inferno (I canto): la lonza, il leone e la lupa, fiere terribili e temibi-li. Secondo alcuni rappresentavano tre peccati di cui si macchiavano tre classi sociali del tempo, rispettivamente: la lussuria (popolo), la superbia (nobiltà) e l’avarizia (mercanti); secondo altri, in-vece, equivalevano a quelle che Dante definisce nel canto XI, al verso 81: le tre

disposizion che ‘l ciel non vole, e cioè: incontinenza, violenza e frode. Nello stesso canto Dante parla di un veltro, un cane da caccia antagonista della lupa, che sarà provvidenziale poiché la cacce-rà via da ogni luogo e riporterà sulla terra la giustizia e la pace. Dietro la fi-gura del veltro si celerebbe un Salvatore in carne ed ossa, sulla cui identità si è molto discusso. In questa sede non han-no importanza le varie interpretazioni, bensì il fatto che finalmente ci troviamo davanti ad un simbolo che rimanda a qualcosa di positivo. Sulla stessa linea, più tardi, Ludovico Ariosto, nella Sati-ra I, vv. 247-265, per giustificare la scelta di non seguire il suo signore, Ip-polito I, in Ungheria, e per rimarcare la sua dignità e la sua indipendenza di pen-siero, racconta un apologo, di ispirazio-ne oraziana: Uno asino fu già, ch'ogni osso e nervomostrava di magrezza, e

entrò, pel rotto del muro, ove di grano era uno acervo; e tanto ne mangiò, che

l'epa sotto si fece più d'una botte grossa, fin che fu sazio, e non però di botto.

Temendo poi che gli sien péste l'ossa si sforza di tornar dove entrato era,

ma par che 'l buco più capir nol possa. Mentre s'affanna, e uscire indarno spe-

ra, gli disse un topolino: - Se vuoi quinci uscir, tràtti, compar, quella panciera:

a vomi tar bisogna che cominci ciò ch'hai nel corpo, e che ritorni ma-

cro, altrimenti quel buco mai non vinci.— Or, conchiudendo, dico che, se 'l sa-

cro Cardinal comperato avermi stima

con li suoi doni, non mi è acerbo et acro renderli, e tòr la libertà mia prima.

Sempre Ariosto, nella Satira III, defini-rà, ad un certo punto, i poeti cortigiani: corvi e avoltori (avvoltoi), che sanno imitare l’asino e ‘l ciacco (il maiale), per criticare l’ipocrisia e l’opportunismo a quel tempo dilaganti nelle corti, diffe-rentemente dai poeti cigni, ossia quei poeti rari che, con la loro arte, possono immortalare il loro signore e sottrarlo all’oblio. Per cambiare genere, non pos-so tralasciare di citare Niccolò Machia-velli, secretario della Repubblica fioren-tina al tempo della cacciat a della signo-ria dei Medici da Firenze. Nel suo tratta-to, il Principe, al XVIII capitolo, cita due animali: golpe e lione, (volpe e leo-ne), come metafore e simboli di due qualità che il principe ideale, secondo

lui, doveva necessari amente possedere, ossia la furbizi a, propria della volpe, e la forza, tipica del leone. Il paragone con due animali e l’idea che il principe do-vesse possedere anche un lato bestiale fu un concetto rivoluzionario per quei tem-pi. Oggi, invece, non desterebbe più scandalo, come del resto quasi più nien-te. Di altri esempi sull’argomento ce ne sarebbero a bizzeffe… Concludo con il mio personale “ fabula docet”: a ciascun

vizio o virtù il suo animale! Vivina Iannelli

Le illustrazioni sono tratte da un’edizione quadrilingue

(tedesco, francese, italiano e latino) stampata a Vienna nel 1806.

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«No!!!... Non posso mangiarti!»… Tutti ti chiamavano «zia Pina». Io non ho mai saputo il perché. D’altra part e, non ho mai fatto indagini per appurare il motivo di questo nomi-gnolo. È evidente che si trattava di un nomignolo. Ma mi sono sempre chiesto perché proprio «zia Pina», anziché, po-niamo, «zia Concetta», oppure, per e-sempio, «zia Mafalda», o, ancora, sem-pre a titolo di esempio, e per così dire, «zia Francesca». Certo, una ragione ben plausibile ci sarà stat a, nella scelta pro-prio di «Pina» o, per essere più precisi, di «zia Pina». Quasi sicuramente avrà contribuito, nella individuazione di un possibile democratico nomignolo, il criterio della brevità e della più o meno facilità di pronuncia da part e di vecchi e di bambi-ni, di giovani e di meno giovani, di alfa-betizzati e di anal fabeti: «zia Pina» è

appellativo breve e si memorizza subito, velocemente, e, soprattutto, non contie-ne la «r», che può esser croce, cruccio, tormento, corruccio, angoscia di donne e di uomini, di giovani e di vecchi, di sinistrorsi e di destrorsi. Immaginate, poi, una «sorella Pina», o, peggio, una «cognata Pina», anziché il subitaneo e affettuoso «zia Pina»? Certo, «mamma Pina» sarebbe potuto risultare forse più funzionale di «zia Pina», con tutto il carico di affettività che la mamma po-trebbe contenere in più rispetto alla zi a. Non dimentichiamo, però, che la mam-ma potrebbe essere amata così come, se non proprio odiata, disprezzata. Disprezzata tanto dalle donne (come vorrebbe Freud), quanto dagli uomini. Ebbene, «zia Pina», dicevano tutti. E nel chiamarti proprio esattamente e pre-cisamente e non altrimenti che così, ognuno forse pensava alla zia che pa-

ziente, rassegnata, comprensiva e senza alcuna mostra di irritazione, ti sta ad ascoltare, accetta gli scherzi, finge di credere alle bugie e, al clou della libidi-ne, giammai ti riprende, ti critica, ti rimprovera, ti offende, ti fa sentire un verme, ti pone in castigo, ti maledice, ti sculacci a. Sì, proprio così, esattamente «zia Pina», e non altrimenti, si sarebbe potuto chiamare quell’ essere supino e acquiescente che tutti, a seconda di quel che ci frullava per la mente, ora accudi-vamo amorevolmente, ora prendevamo per zimbello, poiché nient’altro di me-glio, di più divertente e di più costrutti-vo riuscivamo a trovar da fare. Ricordo che una volta tutti, all’unisono, ti abbiamo acclamata l’eroina del gior-no: al coro si sono uniti anche quelli che malvolentieri ti sopportavano e che a-vrebbero voluto vederti svanire nel nul-la, come per incanto.

REQUIEM PER

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Francisco de Goya y Lucientes, (1746-1828), Banco di macellaio, 1810-12, Olio su tela, Parigi, Museo del Louvre

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F u quella volta che te ne andavi per i fatti tuoi, come al solito, raminga e soli-taria, con quella tua enorme bocca pe-rennemente indaffarata a masticare len-tamente, quasi con fare indolente, quan-do ti trovasti proprio lungo la traiettoria del piccolo Giovanni che, catapultato dalla bicicletta in corsa, fermata da un masso, si sarebbe irrimediabilmente sfracellato contro il tronco della grande quercia, se il tuo corpo non avesse fatto da scudo, trovandosi casualmente tra la testa del piccolo e il grande legno albe-rato.

Anche quella volta, in mezzo alle grida dei presenti, al corri corri delle donne, alle bestemmie degli uomini, e poi alle giuste esultanze per lo scampato perico-lo, l’indifferenza per tutto e per tutti fece tutt’uno con la tua persona: un pic-colo, sommesso lamento per la botta, uno sguardo breve con quei tuoi occhi tristi e spenti e, ancora, via, raminga e solitaria. Quando, poi, i bimbi, amici e cuginetti del piccolo Giovanni, corsero verso di te e ti fecero fest a e ti diedero delle piccole pacche, non un sorriso di contentezza si delineò sul tuo volto: gli occhi restarono spenti e malinconici, a segno di un tuo probabile pensiero che andava e vagava lontano, oltre l e squal-lide vicende quotidiane che assillano i comuni mortali. C’era chi nei tuoi occhi assenti leggeva un tuo profondo filosofare, volto e vota-to all’accettazione supina di tutto il ma-le e di tutto il dolore di questo mondo e dell’universo intero: una speci e di Leo-pardi al femminile. E c’era chi, molto prosaicamente, nel tuo sguardo vuoto ravvisava né più né meno che una sorta di ebetismo. A me tu sembravi abulica, indifferent e, apatica, inespressiva, nella misura in cui la tua espressione ti era appiccicata sul volto come una perenne maschera sempre uguale a se stessa. Anche quando ti sottrassero e ti portaro-no via i tuoi figli rimanesti impassibile, quasi la faccenda non ti riguardasse, o come se neanche ti fossi resa conto di quel che accadeva. Tuttavia, quella sera, quando ti accom-

pagnarono a casa tua, qualcosa di diver-so mostravano i tuoi occhi: sembravano più spenti del solito. E la notte, poi, udimmo i tuoi sommessi e sporadici lamenti. Ma quelli che ti volevano meno bene al mattino dissero che avevi avuto qualche fastidio nella digestione. Caro-gne! Pessimi osservatori! Non so chi altri abbia potuto notare la tua contentezza, il tuo grande sollievo, allorquando nella tenuta di zio Pasquale giunse il trattore rosso fi ammante, nuo-vo di zecca, appena comperato, che avrebbe alleviato le tue fatiche. Certo, non ti mettesti a saltare – non avresti neanche potuto farlo – e neanche cominciasti a trotterellare. Men che mai ti sarebbe potuto passare per la mente di congratularti a viva voce con zio Pa-squale! Pure, un tuo incedere legger-mente meno mogio e più dondolante davano il segno, a chi sapeva osservarti e comprenderti, che tu, sotto sotto, gon-golavi. Ma da buona furbacchiona non lo davi a vedere a tutti. Eri molto parca nell’elargire i tuoi senti-menti a chicchessia. Qualcosa di tuo lasciavi trasparire solo a quei pochi inti-mi che ti conoscevano da sempre, a quelli che ti accudivano, e anche a quel-li che ti stavano tra i piedi, infastidendo-ti ed essi st essi infastiditi dalla tua pre-senza. Quando, poi, qualche estraneo capitato nella tenuta ti si avvicinava, attratto dalla tua faccia impreziosita da quella paglietta giallastra da cui spunta-va la tua rada frangetta, che i piccolini sovente si divertivano a fi ccarti in testa, tu ti allontanavi disdegnosamente, e se poi costui s’incaponiva a inseguirti, allora sì che mostravi di potere e di sa-pere anche trotterellare.

Adesso che so per certo, per informa-zioni avute dallo zio Pasquale, quando esattamente ti han portata via dalla te-nuta, da sola, senza alcuna tua compa-gna che abbia potuto condividere il tuo destino, per una coincidenza di date afferenti la tua dipartita e un articolo del giornale locale, congetturo che col ei di cui si parla nell’articolo sia proprio tu. E che, dunque, sia st ata proprio tu a puntare i piedi con tutta la forza che ti ritrovavi in corpo, con lo sguardo spa-ventosamente feroce, e ad emanare non

un muggito, ma quasi un ruggito, men-tre dimenavi la testa fino a rompere le maglie della catena per poi scaraventare a terra con una t estata il tuo carnefice, pronto con la pistola puntata sulla tua fronte. E se così è stato, zia Pina, ti sei riscatta-ta, e nessuno più potrà giammai pensare che il tuo fosse lo sguardo della stupidi-tà e dell’ebetismo. Adesso sei qui, da me. Non puoi che essere tu. Si combinano le date e l’indicazione della provenienza: la dat a della tua par-tenza precede immediatamente la data dell’abbattimento che trovo sulla confe-zione, che riporta anche la provenienza dall’azienda dello zio Pasquale.

Dopo aver fornito latte a grandi e a pic-cini, a uomini e a donne, a industriali e ad operai, t’han ridotta in carne e ti han-no cellofanata, per poi condurti al su-permercato, al reparto carni, settore bovini, donde sei tornata da me, per una strana coincidenza del destino. Non sono vegetariano, e neanche vegetalia-no. Ma proprio non posso mangiarti, zia Pina, perché mangiandoti mi sentirei presso a poco un cannibale!

Franco Paradiso

...t ’han ridotta in carne e ti hanno cellofanata, per poi condurti al supermercato, al reparto carni, settore bovini, donde sei tornata da me, per una strana coincidenza ...

E se così è stato, zia Pina, ti sei riscattata, e nessuno più potrà giammai pensare che il tuo fosse lo sguardo della stupidità e dell ’ebetismo.

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N on ci si deve sorprendere se uno studio molto attendibile come quello dell’Osservatorio zoomafia - animali e criminalità della LAV (Lega contro la vivisezione), relativo a dati del 2008, presentati all’inizio del 2009, conferma un interesse crescente delle mafi e per il mondo animale. Non si tratta certo delle tenere passioni domestiche di boss fol-kloristici di certa produzione cinemato-grafi ca, ma dell’unico fondamentale motivo che rappresenta il vero motore delle attività illecite delle varie organiz-zazioni criminali di stampo mafioso, ossia l’accumulazione economica. Un boss ammiccante di qualche serie t elevi-siva direbbe : “nulla di personale, è solo business”. In questo caso, al di là delle concessioni alla teatralità dei dialoghi da film, la battuta rende la vera motivazio-ne che spinge le cosche a conquistare il controllo delle attività che girano attorno agli animali , con tutt i i mezzi dell’accumulazione illegale, dalla corru-zione all’uso della violenza. E’ solo una questione di soldi che girano in gran quantità nel mondo assai variegato dello sfruttamento degli animali. D’altra parte, le organizzazioni mafiose hanno sempre mostrato una notevole capacità di adat-tamento alle condizioni presenti nel tes-suto socio-economico e un fiuto partico-lare nella previsione di occasioni per inserirsi in settori dai quali è possibile drenare ricchezze, facendo valere la propria potenza economico-finanziaria e il proprio potere intimidatorio. Inoltre, la suddetta capacità adattiva ha consentito alla mafi a di aggiornare i metodi e i campi della propri a influenza sul territo-rio e sulle attività socio-economiche che in esso si svolgono, purtroppo spesso anticipando le analisi e le rilevazioni di studiosi interessati a comprendere il fenomeno criminale e di organi inqui-renti preposti a prevenirlo per combat-terlo. Nella Sicilia post-unitaria e fino a ben oltre il secondo dopo guerra, il so-stanziale controllo dell’abigeato nei feu-di siciliani, anche se esercitato diretta-

mente da bande di briganti, era t enuto in debito conto dalle cosche mafiose. Esse, grazie ad un profilo criminale di più sofisticat a intelligenza, riuscivano a ge-stire sia i vantaggi economici del reato che l’allarme sociale e la richiesta di sicurezza che derivava dall’esercizio del furto di animali, prevalentemente da produzione come mucche, pecore e ca-pre.

In altri termini, i gabelloti mafiosi rap-presentavano il vero potere costituito nei feudi, nonostante nominalmente fossero dipendenti dei latifondisti, assunti per fermare, con l’autorità derivante dal loro riconosciuto profilo criminale, le riven-dicazioni sociali e per garantire la “sicurezza” nei feudi dall’assalto dei

malavitosi. Troppo spesso questi malvi-venti erano individuati in briganti alla macchia, che attentavano all’integrità della proprietà con reati come l’abigeato o l’estorsione, esercitata anche con la violenza sugli animali. I gabelloti, grazie alla sostanziale assenza delle Istituzioni e all’impunità garantita dal notabilato politico-economico, riuscivano a con-durre un ruolo piuttosto “ vischioso” e molto ambiguo che li rendeva insieme difensori e aguzzini del proprietario, anche grazie al controllo sostanziale, spesso perpetrato con l’inganno, delle numerose bande che infestavano le cam-pagne siciliane, molto pericolose ma facilmente manovrabili perché prive di un’organizzazione strat egica. Com’è finita questa storia è noto: le bande di briganti furono tutte sterminate, spesso con forme legali, ma, con i buoni auspici di cosa nostra, i gabellotti in tanti casi si sostituirono, anche sul piano patrimo-niale, ai vecchi propri etari. Ormai da tanti anni l’abigeato non è più una delle attività in cui le mafie, anche quelle del-le altre regioni del Meridione d’Italia, molto attente al variare dei cicli econo-mici, investono il massimo del loro po-tenziale economico e militare. Tuttavia le stime dell’Osservatorio parlano di 200 mila animali ancora interessati dal reato del furto di bestiame che pericolosamen-te alimenta, tra l’altro, il mondo della

ANIMALI: UN BUSINESS ANIMALI: UN BUSINESS ANIMALI: UN BUSINESS ANIMALI: UN BUSINESS AL QUALE NON SI AL QUALE NON SI AL QUALE NON SI AL QUALE NON SI VUOLE RINUNCIAREVUOLE RINUNCIAREVUOLE RINUNCIAREVUOLE RINUNCIARE

...le stime dell ’Osservatorio parlano di 200 mila animali ancora interessati dal reato del furto di bestiame che

pericolosamente alimenta, tra l ’altro, il mondo della macellazione clandestina e

delle sofisticazioni alimentari...

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macellazione clandestina e delle sofisti-cazioni alimentari.

A nche se rimangono margini di attività tradizionali, cosa nostra sicilia-na, la ‘ndrangheta calabrese, la camorra campana e la sacra corona unita puglie-se, sull’esempio dei cugini d’America e di altre parti del mondo occidentale, nel tempo hanno pensato in grande, spin-gendosi sempre di più nel controllo dei cosiddetti vizi, che non attengono solo alla vendita del sesso e di sostanze stu-pefacenti, ma anche al mondo delle scommesse sugli animali, spesso tanto pieno di adrenalina quanto di traffici illeciti. Il primo esempio che viene in mente è quello delle corse dei cavalli.

Dal rapporto Zoomafia si apprende che muoverebbe più di un miliardo di euro, purtroppo non solo attorno al mondo delle corse clandestine ma anche in quello formalmente legale. Proprio le corse clandestine rappresentano non solo un enorme giro economico, ma anche un cont rollo del territorio impres-sionante, se si pensa che in grandi e piccoli centri abitati del Meridione, ma non solo, le organizzazioni criminali sono capaci di bloccare intere peri ferie cittadine o strade extracomunali per consentire lo svolgimento di corse cl an-destine di cavalli o di cani. A proposito di cani, solo i casi di cronaca particolar-mente efferati, come quelli che riguar-dano persone, spesso bambini, sbranati da cani, fanno assurgere all’attenzione dei media il mondo sordido delle scom-messe sui combattimenti dei cani, attor-no ai quali girerebbero circa 750 milioni di euro. A questa pratica terribile e peri-colosa da qualche tempo si è aggiunta la criminale importazione dall’estero di randagi (l’Osservatorio ne stima circa 500 mila l’anno) per lucrare su conven-zioni fatte con Enti pubblici per la ge-stione di canili, tenuti in condizioni infernali. Significativa, inoltre, la vendi-ta illegale di animali imbalsamati e di

fauna esotica protetta, che arriverebbe ad un terzo di quella legale, e non tra-scurabili anche in termini economici sono i proventi del bracconaggio per cui, recentemente, sono state scoperte centrali di vendita di volatili nei famosi mercati storici di Ballarò a Palermo e di Sant’Erasmo a Napoli. Il rapporto dell’Osservatorio Zoomafia della LAV è ricchissimo di dati e di spunti di rifles-sione, ma questo rapido viaggio fatto dentro le cifre e le informazioni, che testimoniano la presenza della crimina-lità mafiosa nello s fruttamento degli animali, non ha finora considerato il punto di vista degli animali stessi, vitti-me di questo sfruttamento. Non è stata una dimenticanza o un deficit di sensi-bilità, ma la volontà di evidenziare, di-stante da ogni altra considerazione an-che importante, la sofferenza di chi non ha comunque voce, nonos t ant e l’impegno generoso di pochi volontari che si battono a loro favore per il diritto naturale e sacrosanto di ogni animale ad essere rispettato come essere vivente. Sono tantissimi gli esempi di sofferenze indicibili inflitte agli animali, ma ne elenchiamo solo alcuni, i più noti. I

cavalli dopati o costretti a correre in tracci ati per loro dolorosissimi; i cani da combattimento violentati nei modi più efferati per alzare il loro livello di ag-gressività o quelli costretti in canili in condizioni infernali; le mucche o le galline costrette a pratiche innaturali e dolorose per stimolare le loro produzio-ni; gli uccellini accecati per il piacere insano di sentirli cantare più a lungo; i sistemi terribili di abbattimento degli animali da carne, come le cavi e utilizza-te nella ricerca sci enti fica senza porre alcun limite alla loro sopportazione del dolore e, talvolta, senza alcuna necessi-tà. Questo terribile campionario di vio-lenze indicibili può avere solo in parte la motivazione di fare girare un sistema economico criminale di tipo mafioso. Siamo certi, infatti, che, al di là dei con-testi diversi, le ragioni profonde che giustificano e rendono possibili questi terribili massacri non siano anche den-tro ognuno di noi? Non sarà un caso se un celebre scienziato, interrogato su quale fosse la belva più feroce al mon-do, senza manifestare il minimo dubbio rispondeva: l’uomo. Giovanni Abbagnato

Ma siamo certi che, al di là dei contesti diversi, le ragioni profonde che giustificano e rendono possibili questi

terribili massacri non siano anche dentro ognuno di noi?

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Q uesta storia, accaduta realmente ad uno dei miei gatti, è scritta per tutti co-loro che non amano e non capiscono i gatti, che si rifiutano di accettare che i gatti, pur avendo i difetti degli umani, hanno più pregi, dovuti ad una natura gentile che agli umani è stata negata. Un gattino molto piccolo, uno tra i tanti senza padrone, fu accolto in una casa di campagna, dove già viveva una gatta adulta. Era una bella gattina bianca e nera, mamma da poco, un po’ triste per-ché i suoi piccoli, ormai svezzati, erano stati regalati e quindi erano usciti dalla sua vita. Ben presto il gattino scoprì che nella nuova casa c’era un’altra mamma che lo vezzeggiava, lo accarezzava, gli serbava i bocconcini migliori, talvolta gli dava anche un po’ di latte. I suoi primi passi incerti nel giardino nuovo erano guidati dall’esperienza della mamma-gatta, che era anche una compagna per i giochi più sfrenati, per le corse nell’erba alta, per lotte e capi-tomboli. Anche la gatta sembrava felice e gioche-rellona, quasi fosse tornata una gattina di pochi mesi. Una vita bella, perfetta, che sembrava non dovesse finire mai, ma il piccolo

cresceva velocemente e, quasi improv-visamente, si rese conto che la dolce mamma, l’allegra compagna era una femmina. La natura implacabile continua il suo cammino e nessuno può sottrarsi alle sue leggi: la conservazione della specie è un fine troppo importante perché qual-cuno possa vivere solo di sogni e sot-trarsi al suo compito. L’ormai giovane gatto era sconcertato da questa scoperta, nei suoi giochi era più malizioso, nei suoi atteggiamenti più dolce: era chiaro che il passaggio da compagna di giochi a compagna in amo-re gli sembrasse quanto mai ovvio e naturale. Ma non sembrò ovvio alla gatta, la qua-le, puntualmente, nella stagione degli amori, ricominciò ad incontrarsi con il suo partner di sempre, un gattone tigra-to, selvatico, potente, troppo potente per un giovane gatto alle prime esperienze. Il gattone si materializzava di sera nel buio del giardino, simile ad una statua marmorea, con gli occhi che a tratti bril-lavano nel buio. La gatta, in silenzio, si alzava e si allontanava, sparendo nel buio. Appena il giovane gatto fiutava nell’aria l’odore del suo nemico, rizzava il pelo e, con aria minacciosa, tentava di sbarrarle il passo. Ma neanche un gatto

può fermare un altro gatto, se questo ha deciso di fare qualcosa: la gatta trovava sempre il momento in cui, con un abile salto, aggirava lo sbarramento e trotte-rellava via, senza più degnarlo di uno sguardo. Orgoglio e paura fermavano il giovane gatto: non poteva, non poteva battersi, sapeva come sarebbe andata a finire, l’istinto di conservazione lo bloccava. Era una tragedia! Come spesso sogliono fare gli uomini disperati, il mio gatto divenne sempre più cupo, sempre più solo; la sua natura s’inasprì e non fu più possibile cogliere nei suoi occhi d’oro uno sguardo dolce. Un giorno la gatta non tornò più: una donnola, un cacciatore, una macchina? Non si seppe mai. Quello che so è che persi anche il mio gatto, che non fu mai più amico di nessuno. Rimase fuori di casa sempre più a lungo, tornando solo per mangiare un boccone, simile ad un fantasma, sempre più selvaggio. E finì i suoi giorni da vecchio solitario, inavvicinabile, sempre con quello sguar-do da folle con cui sembrava chiederti aiuto, per poi voltarsi e allontanarsi, ondeggiando la folta coda. fabrizia

Un amore

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Tavola di Guglielmo Manenti

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L ’altro giorno, dopo che per strada: 1. un moscerino mi era entrato in un occhio; 2. ero stato morso da una zan-zara; 3. avevo calpestato la cacca di un cavallo; 4. mi aveva inseguito un branco di cani; sono tornato a casa un po’ nervoso. Davanti al portone c’era un uccellino con degli occhialoni scuri e un impermeabile che, appena mi vede arrivare, si avvicina con fare circospetto.

- Buongiorno - mi fa – avrei una parolina da dirle all’orecchio: il prossimo numero dell’Arcobaleno sarà dedicato agli animali.

- Grazie, terrò presente. Potrebbe riferire ai suoi mandanti che, considerato il livello culturale della redazio-ne, più che di animali sarebbe stato più corretto parlare di asini? - ho risposto educatamente.

- Riferirò con piacere - mi ha risposto allontanandosi frettolosamente. - Presto, un lanciafiamme - ho detto appena sono entrato in casa - avrei una cosina da dire a quelli

dell’Arcobaleno. Dall’altra stanza è arrivato un ragliare di asini con, in sottofondo, un’orchestra.

- Abbiamo ospiti? - Macché, è la gatta che sta vedendo il festival - mi ha risposto la primula. - Sanremo? - ho chiesto. - Sì, bello. Quella è capace di tutto.

Sono entrato nella stanza e con un tono molto calmo ed garbato ho chiesto alla gatta: -Scusa, dov’è il lanciafiam-me che vorrei dare un’aggiustatina ai colori della tv?

- Lascia stare, l’ha preso in prestito il vicino che doveva intervenire alla riunione di condominio – ha detto. - Chi sono quegli animali ?– ho chiesto, mentre i cantanti in tv stavano intonando il ritornello. - Scusa, in che senso animali? Quelli sono il principe, il nano e il tenore. E guarda che tutti e tre apparten-

gono al genere umano. Il tuo – ha risposto la gatta gelida. - Scusa, non volevo offendere. Dicevo animali nel senso che cantano come bestie - ho risposto ancora scos-

so dal ritornello della canzone. - Io, veramente, non ho mai sentito un animale cantare come una bestia – si è intromessa la primula. - Gli

uomini invece sì. Vuoi che ti ricanti il ritornello del trio? - Grazie, preferirei di no: ho lo stomaco ancora sottosopra. Ora, però, scusatemi: non è che potreste smette-

re di respirare, fare silenzio, andare tutti a quel paese, che io debbo lavorare al mio saggio sull’uso della punteggiatura nel Settecento inglese?

- Dopo- ha risposto la micia spegnendo la tv. - Ora siediti, t i debbo parlare. Come sai, sono sempre stata scettica sull’Arcobaleno. Un’accozzaglia di fieri nemici della grammatica e del sapone che, invece di dedicarsi più proficuamente alla zappa o alla collezione di santini, da qualche tempo si è intestardita a sprecare carta ed inchiostro. Ora, però, debbo dirti che ho avuto modo di ricredermi. Finalmente quelli dell’Arcobaleno hanno avuto una buona idea.

- Quale, quella di chiudere? – ho chiesto speranzoso. - Non fare lo spiritoso. Un uccellino mi ha detto che il prossimo numero sarà dedicato agli animali.

Lo sguardo mi è caduto su un paio di occhialoni scuri, degli ossicini e delle piume che ancora svolazzavano. - Un uccellino chi? - ho chiesto, guardando sconvolto la primula. - Lascia perdere, bello – mi ha detto lei sottovoce.- Almeno non dovrai cucinare per cena. - Prima di questa stupida interruzione - ha ripreso la micia infastidita - stavo dicendo che questa

dell’Arcobaleno è una scelta redazionale molto importante, che fa onore al giornale e che richiede un tuo

sei per sette quarantadue

(piu’ due quarantaquattro)

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intervento serio, ben scritto e sopratutto comprensibile. Impresa per te difficilissima, me ne rendo conto. Spero che tu possa essere all’altezza.

- Ne ero già stato informato. Comunque, mi dispiace: non posso. Non ho tempo. Fra l’altro non capisco cosa c’entrino gli animali con la musica, a parte i ragli che abbiamo appena ascoltato.

Era proprio vero: all’Arcobaleno non sapevano più cosa inventarsi, ho pensato. Quelli sarebbero capaci di fare un numero che avesse come tema, che ne so, anche i muri.

- Bello, guarda che hanno fatto un’offerta che non puoi rifiutare – è intervenuta la primula. - E sarebbe? - Sarebbe che inseriscono sul tuo profilo di Facebook che hai aderito al gruppo menomalechesilvioc’è. - No, questo mai. - Bene – ha fatto la micia. – Allora, al lavoro. Possiamo anche saltare la cena, io non ho tanta fame. Come

puoi immaginare, ci sarebbero tante cose da dire sulla figura del gatto, l’animale più bello, intelligente no-bile e perfetto che esista, e la sua rappresentazione in musica. A questo proposito, t i ho preparato degli ap-punti. Eccoli: “Domenico Scarlatti in pieno '700 scrive una famosa Fuga del gatto, per clavicembalo: l'a-

nimale passeggia indebitamente sulla tastiera da cui escono note del tutto casuali che il musicista elabora

in forma compiuta. Igor Stravinskij compone nel '900 una produzione felina, Il gufo e la gattina. Ne La bella addormentata nel bosco di Petr Ilic Chaikowski, il dialogo tra un gatto bianco e un gatto nero è ese-

guito dall'orchestra in pseudomiagolii melodici”. - Per non parlare, poi, di Rossini – ha aggiunto la gatta. - Rossini chi, quello che è metà spumante e metà succo di pesca? - Quello è il Bellini. E’ un cocktail, non c’entra con la musica- si è intromessa la primula. - Eppure mi sembrava di sì – ho fatto io- Mi ricorda qualcosa... - …Tipo gli spaghetti alla Norma? - Per favore, ora basta con le battute sceme. Qua l’unico autorizzato a farle sono io – ho replicato con tono

nervoso. - Lascia perdere, bello – ha detto la primula. - Piuttosto, perché non scrivi dei Kiss, che hanno il batterista

che si trucca da gatto?

Non ho mai sopportato le primule appassionate di pupazzo-rock americano, figuriamoci poi quelle che ripetono sempre “bello”.

- Io, per me, preferisco quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due – ho risposto con tono sgarbato. - O, al limite, Volevo un gatto nero, nero, nero. Sappi che lo Zecchino d’oro è una delle pagine più importan-ti del novecento musicale italiano. Altro che i tuoi Kiss per adolescenti disturbati.

Dura la convivenza con gatti parlanti e primule tamarre. Avevo proprio bisogno di quel lanciafiamme. Assoluta-mente.

- Gioacchino Rossini - ha ripreso con sussiego la gatta - scrive il celebre Duetto buffo di due gatti: un'arietta composta da un solo verso, "Miao". Un divertissement ancora oggi molto eseguito e che diverte molto il pubblico, anche per le smorfie che sono costretti a fare le due cantanti.

- Scusa, ma questo Rossini non aveva qualche paroliere bravo sottomano? Che ne so, magari uno tipo Mo-gol, quello che ha scritto “Maledetto di un gatto”? – ho chiesto io.

- Me lo dovevo immaginare che sotto sotto ti piaceva Battisti – ha sibilato sprezzante la primula- Sei proprio bollito, bello. E io che perdo tempo a parlarti dei mitici Kiss.

- Basta con i battibecchi – ha ripreso la gatta.- Torniamo a noi: oltretutto io credo che gli animali con la mu-sica c’entrino molto. Prendi ad esempio, il canto degli uccelli, dei delfini, delle balene…

- Anche i ragli degli asini – ho tagliato corto. - Quelli li trovi più facilmente in Parlamento, bello – ha precisato la primula. - Scusa, cosa c’entrano i nostri parlamentari con gli asini? – ho chiesto perplesso. - Poi te lo spiego – ha fatto la primula. - Non è il caso, grazie. Ho ancora lo stomaco in subbuglio – ho tagliato corto.

Solo che, arrivati a quel punto, avevo capito una cosa: dovevo farmi restituire al più presto il lanciafiamme dal vici-no. Poi, con l’attrezzo in mano, dare una riassettata a casa - gatta e primula comprese – e, alla fine, fare una visitina a quelli dell’Arcobaleno. Ecco cosa dovevo fare, altro che perdere tempo con questa stupido articolo.

di Aldo Migliorisi (http://aldomigliorisi.blogspot.com)

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D ai tempi di Fedro e di Esopo, grandi favolisti del mondo latino e greco, gli animali sono protagonisti delle ambienta-zioni fiabesche. Vi assumono spesso tratti antropomorfi, dan-do corpo a virtù, debolezze e vizi del genere umano. Essi pensano e ri fl ettono, evidenziano i comport amenti morali e sociali degli individui, si fanno espressione dei tratti positivi dell’essere umano, quelli da elogiare, ma anche degli aspetti negativi, da condannare e colpire. Animali parlanti sono pre-senti nella favola moderna di Luis Sepùlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. In questo esile ma profondo libro, l’autore spinge gli animali a riflette-re sulla attualissima questione dell’inquinamento dei mari ed a giudicare dal loro punto di vista il mondo degli uomini. Fra uomo e animale si può riuscire ad instaurare un rapporto affettivo e profondo, così come avviene nelle fiabe dei fratel-li Grimm, dove è ricorrente la presenza di animali parlanti e di protagonisti umani che si adoperano per comprenderne il linguaggio. Addirittura, il mondo degli animali è cantato in versi da Ar-cangelo Mafrici in Gli animali raccontano. Ma la convivenza tra le due specie non è sempre così idilliaca. Già nel 1905 lo scrittore giapponese Natsume Soseki, nel romanzo Io sono un

gatto, evidenziava come gli animali, nella fattispecie il gatto protagonista, percepiscono come strane e curiose le creature appartenenti alla razza umana, alla specie considerata perver-sa. Antonio Tabucchi, nel brano Una balena vede gli uomini, tratto dal romanzo Donna di Porto Pim, introduce il punto di vista di un narratore insolito, un cetaceo che guarda gli uomi-ni, il loro fisico, il loro incomprensibile linguaggio e, in una macrosequenza descrittiva, li analizza e li confronta con i propri simili. Questa incomunicabilità è evidente in vari romanzi e raccon-ti, nei quali gli animali si ribellano all’uomo ed insorgono vittoriosamente. Il caso più eclatante è quello del romanzo di George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair) La fattoria degli animali, del 1945, ma possiamo ricordare anche Dino Buzzati, Italo Calvino ed altri autori, italiani e stranieri. Nel romanzo di Orwell, la rivoluzione degli animali contro gli uomini ha lo scopo di instaurare una società fondata sull’uguaglianza, ma si scoprirà che anche gli animali, so-

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Hatc & Co. 218 Broadway, Herald Building, New York, ca 1899

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prattutto i maiali, che hanno fama di essere più intelligenti di tutte le altre bestie della fattoria, badano solo al potere e ad assumere il controllo della comunità. Pertanto, a metà fra il comico ed il grottesco, le similitudini tra razza umana ed ani-male sono sotto gli occhi di tutti, così come è evidente, nell’opera, la matrice politica e l’attacco violento dell’autore contro l’Unione Sovietica di Stalin.

S ulla falsariga del romanzo orwelliano si snodano il rac-conto I topi, tratto da Boutique del mistero e la fiaba La famo-

sa invasione degli orsi in Sicilia, entrambi di Buzzati. Nel primo, dentro una vecchia villa, si nasconde un esercito di topi enormi, neri, voraci, insaziabili, che invadono l’abitazione, uccidono i due gatti soriani e i due anziani genitori dei padroni di casa e, infine, riducono in schiavitù l’intera famiglia, diven-tando essi stessi padroni della villa. Nella fiaba La famosa invasione degli orsi in Sicilia si raccon-ta, invece, di quando gli orsi erano buoni e guidati da un re saggio. In seguito alla loro discesa in pianura e alla contamina-zione con gli uomini, gli orsi hanno assunto le cattive abitudi-ni proprie della natura umana: giocano, si ubriacano, rubano ed entrano in guerra con gli uomini, insediandosi al loro posto. Fino a quando il saggio re Leonzio, in punto di morte, esorta gli orsi a ritornare sulle montagne: ...lasciate questa città dove

avete trovato la ricchezza, ma non la pace dell’animo. To-glietevi di dosso quei ridicoli vestiti. Gettate i cannoni, i fucili

e tutte le altre diavolerie che gli uomini vi hanno insegnato. Tornate quelli che eravate prima. Come si viveva felici in

quelle enormi spelonche aperte ai venti, altro che in questi

malinconici palazzi pieni di scarafaggi e di polvere! I roditori e gli orsi, così come i maiali di Orwell, hanno un’intelligenza superiore, a tratti diabolica, e agiscono al solo scopo di schiacciare ed umiliare il genere umano, sostituendo-si ad esso. Nel Bestiario di Buzzati molti racconti sono dedicati agli ani-mali, considerati come creature simboliche e privilegiate. An-che nella storia fiabesca narrata ne La formica argentina di Calvino, del 1952, le formiche argentine infestano la Riviera di Ponente ed occupano la casa di una famiglia derelitta. Esse sono particolarmente ostinate, aggressive e proli fiche. I diversi personaggi si attivano per combatterle e risolvere il problema, ma non riescono a sconfiggerl e e si rassegnano a convivere con tali insetti fastidiosi. Ma, nel confronto tra uomo e natura, non si può fare a meno di citare la sfida primordiale, nobile, e allo stesso tempo tragica, tra il vecchio pescatore Santiago ed il maestoso marlin, rac-contata nel celeberrimo romanzo di Hemingway Il vecchio e

il mare. Al largo dell’isola di Cuba si consuma una lotta alla pari, ter-ribile e dolorosa, fra l’orgoglio dell’uomo e l’agonia del pesce, fra due avversari che si rispettano. Basteranno le parole di Santiago ad annullare la competizione tra genere umano e razza animale e a ripristinare un senso di fratellanza fra le cre-ature: «mi stai uccidendo, pesce, ma hai il diritto di farlo. Non ho mai visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te,

fratello. Vieni ad uccidermi. Non m’importa chi sarà ad ucci-dere l’altro». Katia Arcidiacono

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I l 1991 è un anno particolare per la storia di tutti gli animalisti italiani: vie-ne emanata la legge 281 in materia di

cani, gatti ed animali d’affezione. Questa legge, da anni invocata da tutta la galassia delle associazioni animaliste, ma fortemente sentita anche da tutti i cittadini italiani, introduce una serie di novità legislative di grande portata: 1. viene bandito l'abbattimento dei

cani randagi accalappiati (nell'ex regolamento di polizia veterina-ria per la profilassi antirabbica dovevano essere abbattuti dopo tre giorni);

2. si introduce la pratica della pre-venzione del concepimento di

cani e gatti come strumento di lotta al fenomeno del randagismo(si badi bene che nella legge vie-ne utilizzata la parola prevenzio-ne del concepimento e non steri-lizzazione);

3. si introducono pesanti sanzioni contro il maltrattamento e l'ucci-sione di animali (ex art. 727 del Codice Penale);

4. si introduce l’obbligatorietà dell’ anagrafe canina;

5. i comuni e le USL vengono dele-gat i a compiti ben precisi nell’attuazione della legge. I Comuni con il compito di custo-dire e mantenere in vita cani e gatti randagi, recuperati dalla

strada, in rifugi pubblici o con-venzionati con associazioni ani-maliste o privati. Le USL con il compito di catturare, curare e provvedere alla prevenzione del concepimento, secondo quanto il progresso scienti fico consente di attuare. Insomma, si investono i servizi veterinari di compiti sani-tari, sia a tutela del benessere animale, che a prevenzione di malattie trasmissibili all’uomo;

6. viene stanziato un fondo nazio-nale di 5 miliardi delle vecchie lire, per le regioni italiane, a so-stegno dell'attuazione della leg-ge, da utilizzarsi nel quinquennio 1991- 1996.

SPECIALE

RANDAGISMO

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A l di là delle novità legislative, si comprende subito come la legge dia dignità giuridica a tutti gli animali d'af-fezione, che non sono considerati più oggetti visti solamente in funzione del mantenimento della salute e del benes-sere dell’uomo. Per la prima volta la legge rimanda alle regioni, entro sei mesi, l'emanazione di norme attuative per l'istituzione dell'anagrafe canina e di quanto da essa disposto. A questo punto sembrerebbe che il fenomeno randagi-smo abbia i mesi contati in Italia, ma per molte regioni così non sarà. E men-tre Toscana, Lazio ed Emilia Romagna si attivano nei tempi giusti per emanare le proprie leggi attuative, per altre il tempo si dilata all’infinito, e la Sicilia diventa la pecora nera di questa legge. Dopo nove anni viene partorita la legge regionale 15/2000, che, purtroppo, al di là dei nove anni trascorsi per la sua e-manazione, non solamente propone un testo farraginoso, ma rimanda alla costi-tuzione di un’apposita Commissione la stesura del Regolamento d’attuazione della medesima legge. La Commissione viene istituita nel 2005, mentre il Rego-lamento d’attuazione viene emanato con Decreto del Presidente della Regione n°7 del 2007. Cosicché ci sono voluti ben sedici anni dall’entrata in vigore della legge 281 per avere in Sicilia una legge sul randagismo! Tutto risolto? Per nien-te! Il mitico Decreto Pres. Reg. Sicilia n°7/2007 è frutto di una serie di com-promessi, che modificano buona part e di quanto emerso dai lavori della commis-sione. In definitiva, viene partorito un miscuglio di norme, anche di natura tecnica, di incerta interpretazione e sotto molti aspetti diffi cilmente applicabili, in particolar riguardo quelle che attengono ai canili sanitari, che devono essere do-

tati di sala operatoria, microscopio, fri-go, celle frigori fere, gabbie di ricovero, ricoveri a temperatura controllata etc. Si tratta di dotazioni estremamente co-stose, delle quali, in provincia di Cata-

nia, fino ad oggi non ne è stat a realizza-ta alcuna a norma; né mi risulta che in tutta la Sicilia la situazione sia diversa. Come dire, armiamoci e partite, visto che né la Regione, né i Comuni, né le

Asl, hanno investito un euro per realiz-zare tali strutture; e visto che tutto è demandato ai canili privati che dovreb-bero investire grandi risorse economiche e, di fatto, sostituirsi agli Enti Locali. Nel frattempo non si sa dove dovrebbe-ro essere ricoverati i cani e gatti malati, feriti e morsicati recuperati dalla strada, e tutto questo dopo che sono trascorsi ben due anni dall’emanazione del fami-gerato Decreto Pres. 7/2007! I recenti fatti di cronaca siciliana ci segnalano bambini sbranati da cani, cani ammaz-zati dal veleno e dalle pallottole dei cit-tadini e dei poliziotti urban-cowboy. Si sente parlare di sindaci che, dopo anni di colpevole inerzi a, ordinano di sparare a vista sui cani randagi, sui cani di quar-tiere, che prima vengono istituzionaliz-zati dalla legge regionale 15, e che poi nessuno tutela dalle macchine che li investono, dai cittadini zoointolleranti che li avvelenano, dagli altri randagi in branco che li sbranano. Insomma, rap-presentano l'emblema delle contraddi-zioni di una legge che cerca di mediare tra la scarsità di risorse, gli animalisti che vorrebbero tutti i cani per strada e tutti i canili rasi al suolo, e la visione ipocrita di chi pensa che con qualche ciotola di cibo distribuita per strada e con qualche sterilizzazione a macchia di leopardo si garantisce la soluzione del randagismo. Un altro aspetto critico della legge 15/2000 sta nell'aver attri-buito ai comuni la competenza, che in precedenza era regionale, di accalappia-re i cani. Ciò ha comportato un aggravio notevole sulle casse comunali, non com-pensato da alcun tras ferimento di risorse agli stessi enti. Per cui i comuni, che, in

bambini sbranati da cani, cani ammazzati dal veleno e dalle pallottole dei cittadini e dei poliziotti urban-cowboy

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verità, dai tempi del dopoguerra non hanno mai avuto la propensione ad inve-stire quattrini per il randagismo, si sono trovati a mal partito nel dover fronteg-giare il problema di cani e gatti randagi da catturare, custodire e mantenere in vita. Alcuni hanno risolto la cosa facen-do orecchio da mercante, non stipulando convenzioni con privati o associazioni e provvedendo alle emergenze con ordi-nanze sindacali. Magari chiudendo un occhio se qualcuno che vive da solo si riempie la casa o meglio ancora la villa, di cani e gatti feriti o malati raccolti per strada per pietà, sino a quando qualcun altro non lo denuncia per il venir meno di condizioni igieniche, per il fastidioso abbaiare, o perché qualcuno dei cani custoditi sbrana qualche bambino di passaggio come ritengo sia accaduto a Scicli.

A questo punto i sindaci, di fronte all'emergenza, emanano ordinanze tap-pabuchi, cercano di stipulare convenzio-ni con canili privati, si ricordano che esiste anche il problema randagismo e magari ricorrono all’attivismo delle numerosissime associazioni sorte negli ultimi anni a difesa dei diritti degli ani-mali. Queste ultime, tra le maglie dei vuoti legislativi e dell’inettitudine dei comuni, cercano di risolvere i problemi e le emergenze dei poveri animali come meglio si può, fornendo la loro collabo-razione per diversi servizi previsti dalla legge 15, nella speranza di riuscire ad espletare tali servizi con pochi soldi, visto che si tratta di associazioni che si avvalgono spesso di volontari. Alcuni comuni sono stati virtuosi e han-no bandito gare d'appalto per il servizio di cattura, custodia e mantenimento in vita dei cani randagi. Hanno attivato i

servizi, ma tale virtuosismo è stato va-nificato dai comuni viciniori inerti, i cui cani randagi migrano continuamente.

In alcuni comuni si dà vita alle consulte animaliste nelle quali, puntualmente, finiscono per litigare le varie anime del movimento animalista, ognuno con le proprie verità imprescindibili ed ognuno che cerca di avere dall’assessore di tur-no la propria visibilità. Magari sotto forma di qualche convegno sul randagi-smo, sponsorizzato direttamente dal comune o indirettamente incentivato sotto forma di qualche contributo per l'impegno profuso nella lotta al randagi-

smo, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Insomma, nei 16 anni trascorsi dall'entrata in vigore della leg-ge 281, i soggetti coinvolti (la Regione Sicilia, i Comuni, le Asl, le associazioni animaliste) si sono mossi in ordine spar-so, con il risultato di molti soldi spesi male, mentre le strade sono piene di randagi malati, maltrattati, pericolosi. Moltissimi cani di proprietà non sono microchippati né anagrafati e possono essere abbandonati in qualsivoglia mo-mento. Si può dire che in Sicilia, oggi, siamo all'anno zero del randagismo. Come si può ovviare a tutto ciò? Quale potrebbe essere l a soluzione? Innanzitutto parten-do dal presupposto che ognuno deve fare la propria parte. La Regione Sicilia dovrebbe ri formare urgentemente leggi e decreti pasticciati e inapplicabili, ma-gari evitando di creare Commissioni infarcite di componenti delle varie lobby: Ordini professionali, Animalisti, Veterinari, Asl, Università, ma affidan-dosi a pochi esperti che non debbono mediare tra opinioni ed interessi diver-genti. Dovrebbe inoltre, finalmente, mettere mano alla cassa, perché 50 anni di disinteresse amministrativo hanno reso la Sicilia la pecora nera del randa-gismo italiano, e sicuramente una situa-zione così grave non può essere risolta senza la creazione di strutture efficienti e di risorse umane preparate professio-nalmente. I Comuni, che non possono pensare di governare singolarmente un problema così dilagante e complesso, dovrebbero provvedere a consorziarsi per approntare piani provinciali di lotta al randagismo. Ancora oggi, chi è in grado di rispondere alle domande: quan-ti sono i cani e gatti randagi presenti sul territorio siciliano? e quanti sono i cani di proprietà che dovrebbero essere i-scritti all'anagrafe?

Si può dire che in Sicilia, oggi, siamo all'anno zero del randagismo

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S e di tal e fenomeno non si conosco-no le dimensioni, come si può affrontare e risolvere, e quali risorse occorrono? Le Ausl, con i servizi veterinari, sono in grado di operare su tutto il territorio siciliano per il pronto soccorso degli animali randagi feriti? per l a prevenzio-ne del concepimento dei cani e gatti randagi? per la gestione degli archivi dell’anagrafe canina? Credo che di ffi cil-mente l’uomo della strada potrebbe ri-spondere affermativamente, e chi opera nel settore conosce le gravi di ffi coltà che i veterinari Ausl incontrano giornal-mente per la carenza di strutture. Le Ausl oggi debbono riorganizzare i pro-pri servizi veterinari creando unità ope-rative effi cienti e devono dotarsi di ca-nili sanitari dove esperire tutte le princi-pali attività previste dalla legge 281 e dalla vigente normativa regionale. Infi-ne le associazioni animaliste, spesso coinvolte dalle amministrazioni locali nell'espletamento di mansioni che ri-chiedono mezzi e professionalità di cui esse non sono dotate, dovrebbero valo-rizzare la loro conoscenza del territorio per support are le attività dei servizi ve-terinari, ovvero dovrebbero divenire l’asse portante di un processo culturale che possa incentivare l'adozione dei cani randagi, che possa prevenire l'ab-bandono di cani e gatti di proprietà. Le associazioni dovrebbero promuovere un processo di formazione cultural e e di

informazione sul rispetto dei diritti degli animali a partire dalle scuole pubbliche e all'interno delle famiglie siciliane, supportando poi coloro che sono in di f-

fi coltà nella gestione di cani e gatti e che, senza adeguato supporto psicologi-co, spesso risolvono il problema con

abbandonando l'animale. Dal 10 genna-io 2010 la Provincia Regional e di Cata-nia, con 32 comuni, ha avviato un pro-getto sperimentale per la lotta al feno-meno del randagismo, con l’ obbiettivo di azzerare il randagismo entro 6-7 anni. Il progetto prevede l'attivazione di tutta la filiera prevista dalla legge 281: ana-grafe dei cani di proprietà, piani di steri-lizzazione dei cani randagi nei quartieri, adozioni dei randagi, recupero dei cani feriti e morsicatori e loro custodia pres-so canili convenzionati. La riuscita di tale progetto, di per sé innovativo, non foss’altro perché affronta in modo orga-nico tutta la problematica randagismo e mette sotto un'unica cabina di regi a i vari partner istituzionali (comuni, regio-ne, associazioni, Ausl, canili convenzio-nati), è legat a ad un elemento fonda-mentale: la dotazione economica che la Regione Sicilia darà al progetto. Se que-sta dotazione sarà congrua, il progetto potrà decollare, in caso contrario tutto ritornerà al caos degli ultimi anni. Chiudo questo contributo sul randagi-smo in Sicilia con un ricordo della ca-gnetta Stella, cane di quartiere a Cata-nia, microchippata, sterilizzata, coccola-ta da troppi cittadini che non sono riu-sciti a darle una casa e ad evitare che venisse schiacciata da un'auto, anch'essa di quartiere; guidata da qualcuno cono-sciuto da tanti, che, dopo averla investi-ta, pare fosse molto preoccupato per i danni subiti dalla sua auto. La sua mort e e l a grande quantità di risorse impiegate per catturare, micro-chippare, st erilizzare cani quartiere me-ritano una profonda ri flessione e forse qualche ripensamento.

Mario Bongiorno

Medico veterinario già componente della Commissione

regionale per i diritti degli animali

Le Ausl oggi debbono riorganizzare i propri servizi

veterinari creando unità operative efficienti

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Addestramento di cani, Litografia Courier, New York, circa 1899.