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Dipartimento di Impresa e Management Cattedra di Storia dell’Economia e dell’Impresa
L’importanza del commercio internazionale nell’era globalizzata
RELATORE Prof. Giuseppe Di Taranto
CANDIDATO Giulia Faranda
Matr. 184971
Anno Accademico 2016 / 2017
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L’IMPORTANZA DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE NELL’ERA GLOBALIZZATA INDICE Introduzione 3 1 CAPITOLO – La globalizzazione e l’E-commerce 7 1.1 Le teorie economiche 7 1.2 La globalizzazione e l’ICT 11 1.3 L’E-commerce 16 2 CAPITOLO - Le PMI in Italia e le esportazioni 25
1.4 Le PMI 25 1.5 Le esportazioni italiane 32 1.6 L’E-commerce in Italia 49 3 CAPITOLO – Prospettive future del commercio internazionale 69
1.7 Contesto europeo in generale 69 1.8 La Brexit 72 1.9 Dal TTIP al protezionismo di Trump 82 Conclusioni 93 Bibliografia 97 Sitografia 104
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INTRODUZIONE
La globalizzazione è un processo che si è implementato nell’ultimo
secolo, dapprima con la rivoluzione dei trasporti, poi con la progressiva
sostituzione delle infrastrutture materiali con le reti della connettività e
del web grazie all’avvento dell’ICT.
Da un lato ha incrementato le possibilità di mercato una nuova divisione
mondiale del lavoro, con l’outsourcing e la delocalizzazione, ha
incrementato le possibilità di mercato, dall’altro è stato accelerato il
meccanismo di propagazione delle crisi speculative finanziarie, come
quella americana del 2008 innescata dalla Lehman Brothers che ha
investito tutto il globo.
Grazie all’ICT e alle tecnologie Internet based, nel panorama post
capitalista odierno, caratterizzato da economie basate sul know-how,
sulla conoscenza e sull’innovazione, soprattutto per i servizi, sono
subentrati profondi mutamenti anche per quanto riguarda il modo di fare
acquisti, non più legato ad un concetto fisico, ma implementato da una
visione priva di spazio e di tempo come quella dell’E-commerce.
Il commercio elettronico, è un fenomeno che inesorabilmente farà
sempre più parte del quotidiano e delle esportazioni oltre i confini
nazionali, anche grazie alla sempre maggiore intuitività delle
metodologie di acquisto, coadiuvate dal crescente numero di persone che
posseggono, oltre che l’accesso ad Internet e un Personal Computer,
anche gli smartphone, che con le App, permettono la
commercializzazione di beni e servizi che vengono venduti o erogati
tramite le piattaforme web.
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L’E-commerce innova i rapporti commerciali che si possono instaurare,
essendoci la possibilità, oltre ai classici scambi tra aziende (Business to
business) o tra impresa e consumatore (Business to consumer), anche di
transazioni tra consumatori (Consumer to consumer) che interessano lo
scambio oltre che di beni e servizi, anche di informazioni tra clienti
finali e infine il c.d. Consumer to business (C2B), dove sono i
consumatori a stabilire il prezzo che sono disposti a pagare per avere un
determinato bene o servizio e contestualmente le imprese devono
decidere se accettare o meno.
Per l’Italia, le esportazioni di beni di consumo Made in Italy che
sfruttano l’E-commerce, hanno registrato un incremento del 24% tra il
2015 e il 2016, per un valore di 7,5 miliardi di euro, ma solo il 6% delle
aziende esportatrici online ha un sito italiano, solo i grandi marchi, come
Armani, Gucci, Fendi e Prada, mentre altre realtà, più piccole, sono
costrette ad appoggiarsi ai grandi retailer stranieri come Amazon, e
Zalando.
Le PMI, secondo l’Istat, rappresentano circa il 99% delle imprese
presenti sul territorio italiano, andandone a caratterizzare il tessuto
industriale, con un giro d’affari di più di 380 miliardi di euro, pari al
67,3% del PIL, di contro, le grandi imprese, nel 2015, rappresentavano
lo 0,1% delle imprese italiane, con il 19% degli addetti.
Il Bel Paese ha una struttura economico industriale profondamente
differente dagli altri stati europei, non per la presenza, ma per la densità
di piccole e medie imprese presenti sul territorio.
Per questo l’Italia deve implementare l’idea di un piano a livello centrale
che aiuti lo sviluppo commerciale di piccole realtà; queste sono spesso di
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nicchia e per espandersi, ma anche per sopravvivere, necessitano di
ingenti investimenti che non possono essere individuali, ma occorre che
siano condivisi con altre imprese, anche concorrenti.
Le PMI devono unirsi per essere competitive verso l’estero, in modo da
sfruttare i vantaggi che possono derivare da economie di scala per
quanto riguarda gli investimenti in innovazione.
Esiste, infatti, una correlazione diretta tra l’utilizzo che le imprese fanno
di Internet e il volume delle esportazioni; le attive (ossia le aziende che
oltre ad avere un sito web, gestiscono online la Supply Chain e vendono
o acquistano più dell’1% del volume via Internet), che rappresentano il
29% del totale, per quasi il 40% esportano oltre il 50% della produzione,
mentre il 37% delle imprese che sono definibili come assenti digitali,
non esportano affatto.
L’opera si articola in tre capitoli, volti ad avvalorare la tesi che nel
mondo odierno, in un contesto italiano, europeo e mondiale non è
possibile trascendere dall’idea di un mondo globalizzato, perché oggi
nessuna nazione riuscirebbe ad essere autosufficiente, nessun paese può
comportarsi da isola, ma occorre sfruttare al meglio le sinergie
dell’”arcipelago mondiale” in un mare sempre più connesso che per
sopravvivere ha bisogno di scambi non solo di natura commerciale.
Nel primo capitolo è affrontato il tema della globalizzazione e dell’E-
commerce, supportato dalle nuove tecnologie dell’ICT.
Nel secondo capitolo è trattato il tema centrale delle esportazioni italiane
verso i principali paesi europei e verso la Cina e il Giappone; è ripreso il
tema dell’E-commerce per quanto concerne il panorama italiano e vi è
6
una disamina sulle PMI, fondamentali per comprendere il tessuto
industriale italiano.
Nel terzo capitolo si espone l’attuale contesto europeo, in continua
evoluzione scosso dal recente fenomeno della Brexit; si approfondisce,
inoltre, la situazione americana che dalle negoziazioni del TTIP è
passata al protezionismo di Trump, che vorrebbe “American First”
grazie a dei dazi punitivi anche fino al 100% del valore su beni di
importazione che interessano in larga misura l’Italia, sia
nell’agroalimentare che nel settore auto e motociclistico.
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Capitolo 1 – La globalizzazione e l’E-commerce
1.1 Teorie economiche
La storia ci insegna che ogni forma di intervento statale (ad esempio
dazi, contingentamento delle importazioni o sovvenzioni alle imprese)
abbia sempre determinato un sistema di prezzi differente all’interno di
una nazione, rispetto a quello che si andrebbe a determinare con un
libero mercato di stampo concorrenziale.
Sia il mercantilismo che aveva come obiettivo quello di massimizzare le
riserve di metalli preziosi detenute in un paese, sia il Navigation Act del
1651, sono esempi storici di come politiche volte all’alterazione dei
prezzi, abbiano frenato la crescita industriale ed economica dei rispettivi
paesi.
Il colbertismo, invece, rappresenta l’esempio contrario, in quanto, nella
Francia del XV secolo, è riuscito ad avere un effetto positivo applicando
una sorta di protezionismo. È lo spartiacque tra la produzione per
l’autoconsumo tipica del feudalesimo e la produzione per il mercato che
sarà alla base del capitalismo. È una politica a sostegno delle manifatture
e dei commerci, grazie alla liberalizzazione delle importazioni delle
materie prime e alla tassazione delle importazioni di manufatti.
Sostenendo le manifatture, ostacolava il settore agricolo, riducendone la
redditività; il prezzo dei prodotti agricoli doveva essere il bon prix,
sufficiente a favorire i finanziamenti, oltre che a coprire i costi di
produzione, il problema principale era che il bon prix era creato
artificiosamente e non dal mercato, risultando così inefficiente, non
realizzandosi dall’incontro tra domanda e offerta.
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Il colbertismo appoggiò, quindi, le imprese manifatturiere nazionali con
dazi sulle esportazioni di materie prime e sulle importazioni di
manufatti.
Jean Baptiste Colbert (1619-1683) sostenne inoltre l’abolizione delle
barriere interne del commercio francese e le riforme fiscali, spingendo
verso una tassazione dei consumi che andasse a colpire più equamente le
diverse classi sociali (il clero e i nobili all’epoca erano esentati), ma su
questo punto Colbert non riuscì ad imporsi.
La Spagna è vista come un esempio negativo, avendo a disposizione un
fondo inesauribile di oro e argento dalle colonie, non riuscì mai ad
affermarsi come un paese industrializzato e produttivo, cosicché la
ricchezza della nazione non corrispondeva ad un reale aumento di quello
che oggi potremo definire welfare, infatti con una bilancia dei pagamenti
costantemente in attivo, vigevano gravi squilibri di disuguaglianze
interne e non vi era un aumento di produttività, di progresso o di
industrializzazione alcuno.
Vari teorici del pensiero economico sostengono che sia conveniente per
un paese importare le materie prime e i beni agricoli in cambio di
prodotti industriali o beni di lusso, in modo da sviluppare la ricchezza
nazionale, in quanto il valore aggiunto di un bene industriale è
sicuramente maggiore rispetto al valore di un bene agricolo che ha un
più basso contenuto di lavoro1.
L’America, invece, ha visto la Guerra Civile (1861-1865) nascere dalla
divergenza tra il Nord industriale favorevole al protezionismo e il Sud
agricolo contrario, con i partiti repubblicani di stampo protezionista fino 1 A. Roncaglia, La ricchezza delle idee. Storia del pensiero economico, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 51-52, 90, 111.
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alla Grande Depressione del 1933, poi la rivoluzione avvenne nel 1944
con gli accordi di Bretton Woods2 che furono il primo esempio al mondo
di mercato totalmente concordato per governare non le merci, bensì i
rapporti monetari delle diverse nazioni.
Il principio su cui si sono configurati gli accordi di Bretton Woods è
stato la fiducia comune in un sistema basato sul capitalismo, dopo la
seconda guerra mondiale, dopo che gli anni 20, i c.d. anni ruggenti in
America, avevano portato alla Grande Depressione, durante la quale i
governi avevano usato politiche di svalutazione per giocare sulle
fluttuazioni dei cambi facendo crescere le esportazioni a sfavore delle
importazioni per ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti,
provocando però l’aumento della disoccupazione e il complessivo
declino del commercio a livello internazionale.
Gli accordi di Bretton Woods si esaurirono all’inizio degli anni 70, a
seguito della guerra del Vietnam, degli shock petroliferi e della decisione
del presidente Nixon, il 15 agosto del 1971, di dichiarare
l’inconvertibilità del dollaro in oro, in quanto le riserve auree statunitensi
si andavano ad assottigliare e il dollaro si svalutava, anche per l’aumento
della spesa pubblica (causato per l’appunto dalla guerra in Vietnam).
Protezionismo è quindi un termine visto, il più delle volte, come
contrapposto alla parola globalizzazione, fondato principalmente su tre
aspetti a suo vantaggio: la protezione dell’occupazione interna, la
salvaguardia delle industrie nazionali e la rappresentazione del
contrappeso alle eventuali o presunte politiche occulte dei paesi stranieri.
2 Gli accordi di Bretton Woods si tennero nel luglio del 1944 nel New Hampshire e prevedevano il dollaro come moneta internazionale e unica moneta ad avere convertibilità aurea.
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Per Adam Smith (1723-1790) ogni restrizione artificiale degli scambi
porta vantaggi ai produttori del paese a spese dei consumatori; per David
Ricardo (1772-1823) si sarebbe dovuti ricorrere alla c.d. “teoria dei
vantaggi comparati” con rapporti regolati su base bilaterale, quindi tra
due paesi, limitandosi a due sole merci in modo che ad esempio il
Portogallo producesse solo il bene con la produttività in assoluto più
elevata, lasciando all’Inghilterra l’intera produzione di un altro bene,
anche se questo avesse avuto una produttività inferiore a quella
portoghese.
Ricardo ha sottolineato con il saggio “The Corn Question (Essay on the
Influence of a Low Price of Corn, 1815) che i forti dazi doganali
applicati ai cereali importati in Inghilterra andavano a colpire
doppiamente i consumatori, sia per il maggior costo dei generi alimentari
che per il rincaro dei beni industriali.
Anche l’inglese John Maynard Keynes (1883-1946) ha affrontato questa
tematica evidenziando come il mercantilismo non possa porre rimedio
alla disoccupazione, nella sua opera “Teoria generale dell’occupazione,
dell’interesse e della moneta” (1936).
Quindi, l’argomentazione del protezionismo a favore dell’occupazione
non può sussistere e ciò si può evincere da un esempio reale risalente al
2002, avvenuto negli Stati Uniti, quando l’amministrazione americana
decise di porre un dazio del 30% sulle importazioni di acciaio dal
Brasile, rendendo queste ultime più costose di quelle disponibili sul
mercato interno. Il problema fu che in questo modo il costo reale
dell’acciaio, per le industrie statunitensi, schizzò in avanti del 20%,
ponendole fuori mercato rispetto alle industrie giapponesi che ancora si
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rifornivano in Brasile. Sfruttando così il protezionismo, si andò a
concretizzare una reale crisi occupazionale con un saldo negativo che
dichiarò fallimentare l’iniziativa. Si calcola che per ogni posto salvato
dalla manovra, se ne siano persi otto nel sistema economico
d’oltreoceano.
Smith concepiva le barriere commerciali come un sistema per indurre gli
altri paesi a ridurre le proprie, mentre il caso Brasile-Stati Uniti ha
mostrato il paradosso di come il paese povero (Brasile) sovvenzioni il
paese ricco (Stati Uniti) a causa di costi nettamente inferiori del lavoro
che si riflettono nel prezzo finale del prodotto3.
Nel panorama odierno, globalizzato, non si può raggiungere
l’autosufficienza nazionale, perché, ogni giorno, risultiamo più
interconnessi e dipendenti dagli altri.
1.2 La globalizzazione e l’ICT
Il termine “globalizzazione” racchiude profondi mutamenti dei processi
produttivi e distributivi e anche del modo di lavorare e di vivere la
quotidianità4.
Per questo è stata necessaria una riorganizzazione dello spazio
economico mondiale in uno scenario che vede un’epoca “in cui i destini
dei popoli sono strettamente collegati tra loro e la democrazia deve
3 C. Scognamiglio Pasini, Economia Industriale, pp. 463-471, Luiss University Press, Roma, 2006. 4 Istituto della enciclopedia italiana, “Treccani 2000 - Eredità del Novecento”, “la rivoluzione della mobilità”, pp. 1035-1036.
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essere riplasmata e rafforzata sia entro i confini preesistenti che oltre
tali confini”5 creando il c.d. governo mondiale.
Già dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 si può affermare che il
mondo abbia implementato (ma non ancora terminato) il processo di
globalizzazione, basato sull’espansione del commercio internazionale
con la libera circolazione di capitale e di merci, ma soprattutto delle idee
e delle innovazioni, senza l’intervento dello Stato.
Con la globalizzazione le imprese e i capitali hanno superato i confini
nazionali muovendo dove vi è maggiore convenienza e condizioni più
vantaggiose per gli investimenti, per il lavoro e per le opportunità di
profitto6.
Grazie alla globalizzazione c’è stata una progressiva unificazione dei
mercati a livello mondiale e un’incentivazione della diffusione delle
innovazioni tecnologiche verso determinati modelli di produzione e
consumo che tendono a convergere e uniformarsi.
La formazione di canali di scambio di conoscenza e flussi informativi ha
abbattuto le distanze e i costi di transazione e ha indotto una risposta più
repentina alle fluttuazioni del mercato grazie all’ ICT (Information
Communications Technology).
La globalizzazione può essere vista come un mix contradditorio di
minacce e opportunità perché se da un lato abbatte i costi di transazione
favorendo i trasferimenti anche grazie a tecnologie internet based,
dall’altra parte i processi e i prodotti tendono a standardizzarsi con
imitazioni non solo di competenze e modelli produttivi, ma anche con
5 Cit. V. Held, 1995 riportata in “Treccani 200 – Eredità del Novecento”, op. cit. 6 Istituto della enciclopedia italiana, “Treccani 2000 – Eredità del Novecento”, op. cit., pp.35-37.
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una progressiva omogeneizzazione dei bisogni e delle abitudini dei
cittadini delle varie parti del mondo che prima si differenziavano per le
diverse tradizioni nei differenti paesi e regioni7.
Tuttavia in questo modo le imprese possono sfruttare in modo più
marcato le economie di scala a vari livelli, standardizzando processi e
prodotti e riuscendo a far leva su prezzi più competitivi penetrando un
maggior numero di mercati8, anche grazie alla divisione internazionale
del lavoro e alla riduzione dei prezzi con lo sfruttamento delle economie
di scala.
L’ICT non ha avviato la globalizzazione9 - che è un processo che si è
innescato in un’epoca precedente rispetto alla c.d. quarta rivoluzione
industriale, - ma oggi la globalizzazione ne è completamente
dipendente10.
L’ICT è, quindi, il fattore abilitante in un ambiente complesso e
turbolento come quello odierno in rapido divenire; riduce e abbatte le
distanze ed è una risorsa utile sia alle PMI (per quanto riguarda i
processi di de-verticalizzazione), sia ai potenziali nuovi entranti essendo
una risorsa mobile e replicabile.
Il mutamento industriale, si è mosso su due fronti: da una parte vi è la
rivoluzione tecnologica avvenuta in Europa e dall’altra la rivoluzione
7 C. Bargero e S. Occelli, XXVII conferenza italiana di scienze regionali dal distretto hard al distretto soft: un’analisi empirica per il Piemonte, IRES, Istituto di ricerche economico sociali del Piemonte, Torino, 2006. 8 “La piccola Treccani”, op. cit. 9 Il vocabolario Treccani definisce la globalizzazione come “unificazione dei mercati a livello mondiale, consentita dalla diffusione delle innovazioni della tecnologia informatica e dall’espansione delle multinazionali”. 10 S. Sassen, Globalizzazione? Un progetto tutto da creare; www. mediamente.rai.it, 5 gennaio 2001.
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manageriale statunitense; insieme hanno segnato il passaggio da
un’economia di produzione ad un’economia di conoscenza, basata sulla
comunicazione. Per questo motivo, oggi, si può parlare di new economy,
basata su asset intangibili, grazie proprio alla diffusione di Internet e
dell’ICT, che hanno migliorato la performance dell’economia americana
rispetto a quella del vecchio continente, grazie ad una più costante ed
elevata spesa in materia di ricerca e sviluppo nell’innovazione, gettando
le basi per l’Internet economy.
La globalizzazione ha rivelato il proprio effetto di concatenazione tra le
nazioni durante e dopo il primo conflitto mondiale e successivamente nel
1929 con il crollo borsistico di Wall Street, propagando la crisi oltre i
confini americani in tutto il globo, sfatando il mito che il libero mercato
sia capace di autoregolare l’equilibrio tra domanda e offerta, senza
ricorrere al deficit spending; per questo nacquero organismi
sovranazionali come il FMI11 e la Banca Mondiale12.
Una delle principali voci critiche contro la globalizzazione è quella del
professore Dani Rodrik che ne “La globalizzazione intelligente”
11 Il Fondo monetario internazionale (International Monetary Fund) è un’organizzazione istituita il 27 dicembre 1945 da 29 Stati, ora composta dai governi nazionali di 189 paesi; insieme alla Banca Mondiale fa parte delle organizzazioni internazionali dette di Bretton Woods. Un suo fautore fu John Maynard Keynes, mentre fu criticato dal premio Nobel Joseph Stiglitz che contrariamente a Keynes non crede nella cooperazione del fondo per reagire a crisi globali, ma reputa la mission del FMI quella di dare ancora più potere ai paesi più ricchi a discapito dei poveri in una visione ottocentesca che vede come unica opportunità di progresso dei paesi del terzo mondo quella di essere dominati dal c.d. nord del mondo. 12 La Banca Mondiale è stata fondata nel 1945 come “Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo” in seguito agli accordi di Bretton Woods; è costituita dalla BIRS e dall’AID, fa parte delle istituzioni dell’ONU; opera per la lotta alla povertà e per l’organizzazione di aiuti e finanziamenti per gli stati in difficoltà.
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introduce il c.d. “Trilemma dell’economia mondiale”; questo auspica
l’impossibilità di perseguire contemporaneamente tre obiettivi:
democrazia, autodeterminazione nazionale e globalizzazione economica,
quindi, la possibilità per una nazione di avere contemporaneamente una
politica monetaria autonoma, il libero movimento di capitali e i tassi
fissi.
Per perseguire la via della globalizzazione economica, occorre dunque
rinunciare o allo Stato-nazione o alla democrazia politica; in altre parole,
per attuare uno dei tre obiettivi, bisogna rinunciare ad un altro della
triade, potendone sussistere solo due contemporaneamente13
La globalizzazione è considerata da Rodrik, per sua stessa natura, come
una forza distruttiva che, in quanto tale, determina vincitori e vinti.
Il paradosso è che la globalizzazione per funzionare ha bisogno che tutti
gli attori coinvolti rispettino le stesse regole con un governo
tecnocratico, ma nella realtà nessuna nazione vuole rinunciare alla
propria sovranità e alla libera gestione della propria economia (di
mercato).
In conclusione, Rodrik auspica non una globalizzazione estrema, ma una
globalizzazione intelligente in un contesto in cui democrazia e
autodeterminazione nazionale devono prevalere sull’iperglobalizzazione,
facendo di fatto soccombere le esigenze dell’economia globale,
lasciando ampi margini di manovra ai governi.
Di parere opposto è la professoressa Rosa Lastra, secondo la quale, “la
dicotomia tra mercati internazionali e leggi nazionali può essere meglio
affrontata proprio attraverso l’internazionalizzazione delle regole e 13 G. Di Taranto, La globalizzazione diacronica, Giappichelli Editore, Torino, 2013, pp.130-133, 136.
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delle istituzioni che governano i mercati mondiali. La risposta è quella
di più leggi internazionali e meno nazionali”; il cambiamento dovrebbe
essere gestito dal FMI che dovrebbe assumere il ruolo di “giudice” per
garantire la stabilità tra le parti14.
Tornando al discorso sull’ICT, è importante sottolineare che per la prima
volta, in Italia, nel report Istat del 2016, vengono considerate e quindi
rese disponibili, le stime e le rilevazioni sull’occupazione in professioni
basate sull’ICT, andando ad analizzare le tecnologie dell’informazione e
della comunicazione. Si sottolineano gli aumenti considerevoli del
numero di persone con accesso ad Internet tramite banda larga che
raggiunge, nel 2016, la quota del 67,4% e le imprese che, con almeno 10
dipendenti, per il 98%, hanno accesso a Internet (63,8% con la banda
larga mobile). L’utilizzo di Internet continua a crescere anche a livello
quantitativo per singolo soggetto, forte discriminante è l’età, aiutato
anche dalla presenza dei social network che implementano la
permanenza sulla piattaforma web. L’11% delle imprese vende ormai
stabilmente online sfruttando l’opportunità dell’E-commerce anche
grazie alla massiccia diffusione di sistemi cloud e di smartphone che
permettono una connessione permanente anche sul mobile15.
1.3 L’E-commerce
Il maggior utilizzo del web e delle tecnologie ICT ha contribuito
all’esplosione del fenomeno del commercio elettronico anche grazie allo
14 E. Marro, Il trilemma di Rodrik: puoi avere democrazia, globalizzazione e sovranità nazionale tutti insieme, «Il Sole 24 Ore», 7 aprile 2016. 15 Istat, Report: Cittadini, Imprese e ICT, anno 2016.
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sviluppo di tecnologie high-tech legate agli smartphone e alla creazione
di applicazioni (dette App), che permettono in modo più intuitivo la
fruizione di tale servizio. Il commercio elettronico, altresì detto E-
commerce, è tipicamente legato alla commercializzazione di beni e
servizi che vengono venduti o erogati attraverso delle piattaforme web.
Può essere sia business to consumer (B2C) se l’azienda vende ad un
privato, sia business to business (B2B) se l’azienda vende ad un’altra
azienda.
L’E-commerce ha un vantaggio temporale per il fatto di essere fruibile
per il consumatore sette giorni su sette e 24 ore al giorno, ma anche un
vantaggio a livello geografico in quanto vi si può accedere da ogni parte
del mondo. Si ha una riduzione dei costi grazie all’accorciamento della
filiera produttiva, in quanto con l’E-commerce si può saltare
l’intermediario della fase placement (distribuzione) riducendo i costi con
un duplice vantaggio: l’abbattimento dei costi di intermediazione per il
venditore e un aumento del potere di acquisto per il consumatore.
Il ridursi dei costi è, inoltre, determinato dall’assenza delle spese di
affitto, dalla riduzione del personale, dalla gestione del magazzino fisico
e delle scorte.
Una nuova frontiera è rappresentata dal dropshipping, un modello di
vendita dove il venditore vende il prodotto al consumatore finale, senza
però possederlo materialmente in magazzino. Il venditore dopo aver
effettuato la vendita, trasmetterà l’ordine al fornitore che spedirà il
prodotto direttamente all’utente finale. In questo modo si evita il
problema dell’invenduto e delle giacenze in magazzino. Il venditore
online assume, quindi, la figura del procacciatore di affari, procurando
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nella pratica il cliente e aggiungendo il proprio mark-up al prezzo
finale16.
L’E-commerce indiretto è costituito da quelle transizioni nelle quali la
cessione giuridica del bene e la conclusione del contratto tra venditore e
cliente si perfezionano per via telematica, mentre la consegna fisica del
bene avviene attraverso i canali tradizionali, per questo la cessione dei
beni nel commercio elettronico viene assimilata alla vendita per
corrispondenza e pertanto ai fini dell’imposizione dell’iva vengono
applicate le relative norme interne, comunitarie e internazionali.
Per l’E-commerce diretto, invece, dobbiamo fare riferimento ai beni
immateriali o digitalizzati che una volta acquistati attraverso la
piattaforma web vengono contestualmente consegnati per via telematica,
un classico esempio può essere Itunes17.
Come già accennato si possono distinguere diversi tipi di E-commerce a
seconda dei soggetti coinvolti.
Il business to business (B2B) è una transizione commerciale svolta tra
due imprese al fine di scambiarsi in tempo reale informazioni aggiornate
su prodotti e listini, ordinare beni e servizi pagando elettronicamente.
Alcune grandi imprese operano esclusivamente online sfruttando
vantaggi di costo in quanto il distributore può selezionare e ordinare i
prodotti tramite il catalogo online ottenendo prezzi più bassi grazie ai
minori costi di esercizio.
Nel business to consumer (B2C) la transizione commerciale è espletata
tra azienda e cliente finale che è in grado di poter scegliere e confrontare,
16 Shopify.Inc. 17 iTunes è un’applicazione sviluppata e distribuita da Apple Inc. per riprodurre e acquistare canzoni, video e film online.
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attraverso siti multimediali e interattivi, cataloghi e listini corredati da
informazioni sempre più dettagliate e aggiornate.
Oltre a queste due principali tipologie, possiamo oggi osservare sul
mercato anche il consumer to consumer (C2C) che tratta di scambi
online di beni, servizi e informazioni fra consumatori finali; le modalità
di transazione sono gestite contestualmente dal venditore e
dall’acquirente. Invece nel consumer to business (C2B) sono i
consumatori a stabilire il prezzo che sono disposti a pagare per un
determinato bene o servizio e allo stesso tempo le imprese devono
decidere se accettare o meno l’offerta.
Negli anni Novanta, la crisi non ha impattato su tutti i settori coinvolti
nell’E-commerce e nemmeno nello stesso modo; il B2B, che
rappresentava l’80-90% del commercio online totale, ha resistito
all’ondata negativa molto meglio rispetto al B2C, che invece ha retto
solo nelle realtà di nicchia.
Le principali motivazioni che spingono verso l’acquisto online sono
economiche (riflettendosi, la maggior parte delle volte, in un risparmio
sul prezzo), di assortimento (sul web c’è una più ampia gamma di scelta
a disposizione, non essendoci legami con un magazzino fisico di
dimensioni più ridotte come può essere quello di un negozio) e di
acquisto consapevole (dovuto alla possibilità di informarsi e confrontare
su diversi siti Internet i prodotti o servizi prima di fare una scelta). Di
contro, chi sceglie di non acquistare online è trattenuto dalla sfiducia nel
venditore che non si conosce personalmente e dall’impossibilità di
vedere il prodotto prima di comprarlo, oltre al tema centrale della
sicurezza dei propri dati e della propria carta di credito (il 63% dei
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clienti è disposto a rinunciare all’acquisto se non è pienamente convinto
che sia un sito sicuro per la propria carta di credito), anche per questo
negli ultimi anni hanno cominciato a diffondersi altri sistemi di
pagamento, come le PayPal e le carte prepagate18.
Il commercio elettronico non rappresenta una minaccia per le vendite nel
negozio fisico, in quanto si attesta che sia coadiuvante per soddisfare il
cliente nell’esperienza di acquisto, rinforzando la fedeltà dei clienti e
informandoli delle scorte disponibili; a volte può capitare che ci sia un
flusso di consumatori che si sposta dal web al negozio, con il 68% dei
clienti che vi si recano solo dopo avere effettuato ricerche online, per
altro il 53% dei possessori di smartphone, consulta il sito o la
piattaforma collegata dal negozio per cercare e confrontare le
informazioni relative al prezzo, ma anche alla qualità del prodotto.
Stessa cosa per il 41% dei clienti che si recano nei negozi per controllare
i prodotti che poi acquisteranno online. Inoltre alcuni negozi offrono la
possibilità di comprare online e ritirare in negozio, anche per
incrementare il traffico nello store, oltre che per abbattere i costi di
spedizione19.
Il commercio elettronico e il mondo digitale, hanno stravolto, non solo il
modo di fare impresa, di vendere e di controllare la catena del valore, ma
anche le c.d. “4P”.
Innanzitutto le 4P sono le leve decisionali del marketing mix, la cui
combinazione determina la strategia da implementare per raggiungere 18 Confcommercio, Il negozio nell’era di Internet, Roma 18 settembre 2014. 19 Nell’ambito delle spedizioni, in America, il Gruppo DHL ha annunciato un piano di investimento di 137 milioni di dollari per lo sfruttamento dell’E-commerce e della sua crescita a doppia cifra, essendo già leader nelle vendite oltreconfine, per incrementare le proprie capacità di servizio verso i partner che vendono all’estero.
21
degli obiettivi prefissati. Queste 4P sono “Product” (prodotto), “Price”
(prezzo), “Place” (punto vendita, luogo) e “Promotion” (promozione).
Il prodotto è il bene o servizio che si offre sul mercato per soddisfare i
bisogni del consumatore, nel caso del commercio elettronico, i prodotti
da scambiare si possono auto-generare direttamente dalle richieste dei
consumatori, grazie ai commenti postati sui social network (Facebook è
ritenuto il social media più efficace dalle aziende di commercio online
italiane, con un gradimento del 72%, seguito da Instagram con il 37% e
da Youtube con il 32%), alle recensioni sui siti internet e ai sistemi di
misurazione che leggono ed elaborano i dati nel contesto aziendale. Il
marketing si è evoluto rispetto al percorso classico che cercava, con
ricerche qualitative e quantitative, di rispondere ad un bisogno latente,
ora, in un mondo globalizzato e digitale, la domanda e l’offerta sono
velocissime e possono convogliare in molteplici posti, fisici o
digitalizzati, in cui la società può interfacciarsi direttamente con i clienti,
avendo la possibilità di cogliere nuove opportunità di business.
Anche il prezzo diventa più flessibile, nel digitale, per esempio, su
Amazon, può variare anche di una decina di centesimi di euro, a seconda
del numero di persone che visualizzano il prodotto o del luogo da cui mi
connetto con il mobile, grazie all’elaborazione di algoritmi sempre più
sofisticati.
Gli esempi di politiche di prezzo online possono essere molteplici: Apple
ha una configurazione che premia chi acquista negli Apple Store, con un
risparmio del 10%, ma online vi è maggiore possibilità di
personalizzazione del prodotto, pressoché infinita, anche perché non c’è
il limite fisico di un magazzino diversamente dai negozi e inoltre vi è
22
assistenza online e una spedizione veloce; al contrario Mediaword tende
a premiare, con prezzi inferiori, chi compra online, ma senza garantire
l’assistenza pre e post acquisto, senza il programma fedeltà garantito
dalle fedelity card e in più vi sono lunghi tempi di attesa per la consegna;
ancora diverso è l’approccio di Decathlon che, accorgendosi di avere dei
clienti molto informati, ha deciso di mantenere gli stessi identici prezzi
per tutti i prodotti sia nel punto vendita sia online, in quanto, in molti
cercano i prodotti desiderati sul sito web e sull’applicazione per poi
recarsi nel negozio più vicino (segnalato anche dalla geo-localizzazione
integrata) per l’acquisto di persona.
Il prezzo quindi, come già sottolineato nell’esempio della Apple, può
essere influenzato anche dalla logistica e da tutti quei servizi accessori
connessi alla vendita, dalla personalizzazione all’ampia gamma di scelta,
dalla velocità di consegna all’assicurazione, fino alla facilità di acquisto
tramite App sempre più intuitive; queste sono le determinanti che
possono far muovere la leva del “compro o non compro”.
La logistica, oltre ad essere un fattore critico di successo, può aiutare a
gestire i picchi stagionali, come le vendite di ottobre e novembre che, in
vista del Natale, sono più corpose -per questo deve essere una funzione
flessibile- e ha rilevanza strategica per quanto concerne l’impatto sui
costi e sul livello di servizio, determinando talvolta il successo o il
fallimento di iniziative commerciali per cui la logistica stessa è il punto
cruciale; può determinare l’ingresso di nuovi entranti o lo
scoraggiamento di questi a far parte del mercato.
La distribuzione, - che nel mondo offline avviene talvolta attraverso
degli intermediari commerciali che con i canali di distribuzione
23
avvicinano il prodotto al cliente finale - nell’ambito del commercio
telematico, si evolve dal concetto di posto al concetto di spazio: si può
vendere ovunque senza avere un sistema capillare, si vende a chi compra
da cellulare, da casa o dall’ufficio, sette giorni alla settimana, 24 ore al
giorno.
La promozione, non passa più dai soliti canali, ma si è implementata,
anche grazie al crescente utilizzo di smartphone (che in Italia ha una
percentuale maggiore rispetto al resto dell’Eurozona, con 109,42 telefoni
ogni 100 abitanti - si registra un numero pro capite maggiore solo ad
Hong Kong che mantiene il primato con 114,53- in Italia, con una
popolazione di circa 300 milioni di persone, si contano, infatti, 330
milioni di cellulari20).
Un fattore strategico per la promozione e la visibilità di un prodotto è la
presenza sui social network, che devono però essere visti solo come uno
strumento all’interno di una strategia di vendita, che deve essere
contestualizzato nel piano in cui opera per raggiungere degli obiettivi
oggettivamente misurabili, raggiungendo il maggior numero di persone.
I social media servono per incrementare la visibilità, aumentare il
dialogo e il confronto con i clienti, sia acquisiti che potenziali, creare una
“community” per sfruttare relazioni profittevoli, generare traffico verso
il negozio e migliorare la reputazione del negozio stesso, sia esso fisico o
digitale.
Il viaggio delle persone nell’etere è accelerato, vi è un aumento degli
acquisti online, ma è senza una logica, disordinato, le aziende devono
controllare una miriade di contenuti che prima non esistevano e che oggi 20 Dati da ITU, acronimo di “International Telecommunication Union” (Agenzia delle Nazioni Unite per le Telecomunicazioni), www.itu.it.
24
si evolvono di giorno in giorno, sempre più velocemente grazie alla
spinta tecnologica.
Con oltre un miliardo di siti web, il valore del commercio digitale
mondiale, nel 2016, è di 1.915 miliardi di dollari, con un incremento di
200 miliardi rispetto al 2015 (+23,7%); si stima un fatturato che supererà
i 4 mila miliardi di dollari nel 202021. La crescita delle vendite al
dettaglio sul web, nel 2016, ha superato il 10% anche in paesi già molto
sviluppati in questo settore, come l’America, l’Inghilterra e la
Germania22.
Il valore del commercio elettronico in Europa, nel 2016, ha toccato i 510
miliardi di euro, con una crescita del 13%.
Il primo mercato è quello inglese con una crescita nel B2C del 16% per
un valore di 115 miliardi di sterline nel 2015 e di 133 miliardi nel 2016.
Secondo player è la Germania con un fatturato, per Amazon, pari a 12,8
miliardi di euro, con una crescita del 20%, rappresentando il 10,4% del
fatturato della società di Seattle. Altri paesi a forte crescita in questo
campo sono la Romania, con un fatturato di 1,8 miliardi (+30% dal
2015) e lazxm Slovenia con un incremento del 37%23.
21 I paesi dominanti continuano ad essere la Cina (fatturato online di 890 miliardi di dollari nel 2016, quasi il 50% del commercio online mondiale) e Stati Uniti (fatturato di 423 miliardi, in crescita rispetto al 2015, del 15,6%, grazie ad Amazon ed eBay). 22 Lo spazio dedicato al retail in America è di 6 volte superiore a quello europeo o giapponese; molti negozi sia multibrand che monomarca hanno chiuso alcuni dei punti vendita, altri ancora hanno chiuso tutti gli store, abbandonando il commercio tradizionale per dedicarsi solo all’E-commerce. Walmart, con i pickup discount permette ai propri clienti di fare la spesa online e ritirarla in negozio con un immediato sconto. 23 Fonte: Ecommerce News, 2017, www.ecommercenews.ue.
25
Capitolo 2 - Le PMI e le esportazioni in Italia
2.1 Le PMI
La conformazione del tessuto industriale italiano è caratterizzata dalla
forte densità di PMI nel territorio. Anche gli altri paesi europei mostrano
la presenza di PMI, ma la particolarità italiana è l’elevata percentuale
che si attesta, secondo l’ISTAT, vicina al 99%.
La definizione della dimensione di un’impresa è data dal numero dei
dipendenti, dal fatturato e dall’attivo.
Per la microimpresa il numero di dipendenti deve essere inferiore a 10 e
il fatturato o l’attivo deve essere inferiore ai 2 milioni di euro; si
definisce piccola impresa, l’azienda con meno di 50 dipendenti e un
fatturato o bilancio inferiore ai 10 milioni di euro; la media impresa ha
meno di 250 addetti e un fatturato annuo inferiore ai 50 milioni di euro o
un attivo inferiore ai 43 milioni di euro; altrimenti si parla di una grande
impresa24.
Dipendenti Fatturato Attivo
Grande impresa ≥ 250 oppure > 50 mln oppure > 43 mln
Media impresa < 250 e ≤ 50 mln e ≤ 43 mln
Piccola impresa < 50 e ≤ 10 mln e ≤ 10 mln
Microimpresa <10 e ≤ 2 mln e ≤ 2 mln
Fonte: Rielaborazione personale su dati tratti dal Rapporto Cerved 2015
24 Commissione Europea (2003), Raccomandazioni della Commissione:”Definizione delle microimprese, piccole e medie imprese”, GU L 124 del 20 maggio 2003.
26
Fonte: Elaborazioni Ufficio Studi Confcommercio su dati Istat
Le PMI, in Italia, realizzano un volume di affari di 383 miliardi di euro,
pari al 12% del PIL. Secondo l’ISTAT, nel 2015, 4,2 miliardi di imprese
con meno di 10 addetti potevano essere definite come microimprese,
mentre il 95% delle società erano classificabili come piccole e
piccolissime con un totale di addetti pari a 7,8 milioni (pari al 47%
dell’occupazione, contro il 29% di media europea).
27
Le grandi società, invece, rappresentavano, nel 2015, lo 0,1% delle
imprese con il 19% degli addetti italiani25.
Le PMI, nel complesso, contribuiscono a formare il 67,3% del PIL, con
la percentuale più alta d’Europa, ma registrando un costo nel ritardo del
digitale stimabile in 2 punti del PIL; solo il 6,5% delle PMI, infatti, nel
2014, vendeva online, contro una media europea del 16%; secondo
Confindustria ciò ha portato alla mancata creazione di 700 mila posti di
lavoro.
Nel 2015 il fatturato delle PMI è cresciuto del 1,5% (nell’industria è
stato registrato un incremento del 3,1%), con una diminuzione delle
procedure concorsuali e delle liquidazioni volontarie, nel 2014 pari a -
10,8% e nel 2015 pari a -12,2%; questo è quanto emerge dal rapporto
Cerved del 2015, con il monitoraggio di 100 mila PMI che hanno
migliorato la situazione riguardo il ritardo dei pagamenti.
Si è assodato che molte società sono passate da microimprese a PMI
(2.968 nel 2015), dimostrando una maggiore solidità finanziaria e
produttiva, diversamente dalle aziende che hanno attuato il processo
inverso (1.029 nel 2015), altre 46 mila, invece, nel 2014, si sono avvalse
dell’introduzione delle S.r.l. semplificate, con la possibilità di istituire
una società con un capitale sociale inferiore ai 5.000 euro.
La differenza di produttività tra le PMI e le grandi imprese si può
evincere anche dal ROE che nelle PMI, nel 2015, è cresciuto dal 5,9% al
7,1% (con risultati particolarmente soddisfacenti per le PMI
manifatturiere), invece, quello delle grandi imprese è sceso dal 6,8% al
6,4%.
25 Dati Istat 2015.
28
I dati Eurostat, sottolineano che, nel 2015, 120 mila imprese italiane
classificabili come PMI (avendo meno di 250 dipendenti), abbiano
esportato il 50% del valore della produzione all’estero; questo fenomeno
fa comprendere come le dimensioni di un’impresa non debbano
necessariamente essere una barriera per le esportazioni, in quanto molti
beni del Made in Italy, derivano da produzioni artigianali e
contemporaneamente fa capire come si sia incrementato il numero di
transizioni online per quanto concerne l’E-commerce, in quanto, il
numero di acquirenti online è cresciuto dal 2014 al 2016 del 26%, con un
incremento del valore di mercato dell’E-commerce che nello stesso
periodo è aumentato di oltre un terzo. I settori, una volta considerati di
nicchia nel commercio telematico (come abbigliamento e accessori per
la persona) hanno migliorato la performance del 30%. I prodotti ad alta
tecnologia rivestono un ruolo trainante con un incremento del 28% e nei
prodotti alimentari il 25% delle catene attive nell’E-commerce offre la
possibilità di prenotare online i prodotti e ritirare gli acquisti presso il
punto vendita.
Il B2C in Italia ha registrato, nel 2016, una crescita intorno al 20%,
raggiungendo i 23,4 miliardi di valore, con un aumento sia del numero di
acquirenti (con un incremento pari al 25%, 16 dei 21 milioni di
acquirenti online attivi in Italia sono da considerarsi clienti abituali), che
della frequenza che dello scontrino medio.
Per Alessandro Perego, direttore degli Osservatori Digital Innovation del
Politecnico di Milano “se continua a crescere con questi tassi, l’E-
29
commerce B2C varrà entro 3 anni il 10% del totale degli acquisti
retail”26.
Un caso tipico italiano nel mondo si deve ad Oscar Farinetti con la
creazione di Eataly che con oltre 300 milioni di fatturato distribuisce a
livello globale prodotti tipici locali, suddivisi a loro volta su base
regionale27.
Eataly ha all’attivo 17 negozi in Italia e 4 in America. È presente anche
in Brasile, Germania, Danimarca, Turchia, Giappone, Corea del Sud,
Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita; intende quotarsi in Borsa
entro il 2018 dopo lo sbarco in Francia.
La filosofia di Eataly vuole che si sfrutti un’ottica di sinergia tra il
mondo digitale e i negozi fisici; ciò ha portato già nel 2015 a 60 mila
ordini con 300 mila utenti al mese in Italia e a 25 mila ordini e 10
milioni di visite negli Stati Uniti per quanto concerne la piattaforma
online, con un fatturato di 5 milioni di euro.
È stata lanciata anche un’applicazione per gli smartphone disponibile da
subito in tre lingue (italiano, inglese e tedesco) e sono stati avviati i
primi test per la vendita di prodotti freschi online; l’applicazione
propone oltre 3.500 prodotti spedibili in tutta Europa, Stati Uniti e
Giappone28.
26 E. Netti, Accelera il mercato dell’E-commerce in Italia, «Il Sole 24 Ore», 27 febbraio 2017. 27 G. Corò, S. Micelli, G. Toschi, Piccole imprese globali crescono. Nuovo manifatturiero, tecnologie di rete e E-commerce a sostegno del made in Italy. Rapporto Ice, 2015. 28 E. Scarci, Eataly net: 5 milioni di fatturato per l’E-commerce di Farinetti, «Il Sole 24 Ore», 22 aprile 2015.
30
Per l’Italia, paese caratterizzato dalla forte presenza di PMI,
occorrerebbe dare vita ad una piattaforma online che permetta di trovare
visibilità su Internet a quelle imprese a forte connotazione artigianale.
Nel 2015, il 42% delle società di capitali italiane realizzava più del 10%
dei ricavi grazie alle esportazioni, aumentando al 47% per le imprese di
grandi dimensioni che esportano più del 50% del fatturato; queste
percentuali ovviamente variano da settore a settore, anche per fattori
critici strutturali, con il sistema moda come leader e l’agroalimentare in
coda con solo il 10% delle imprese che esporta più della metà del
fatturato.
Il profilo tecnologico dell’impresa va a configurare la propensione all’E-
commerce e alle esportazioni dell’azienda.
Le imprese sono, così, divisibili in tre macro gruppi:
• Le aziende che hanno un sito web e che vendono o acquistano più
dell’1% del volume via Internet o gestiscono le Supply Chain
attraverso la rete; queste “attive digitali” rappresentano il 29% del
totale (32% nell’agroalimentare e 42,6% nelle imprese
manifatturiere di media dimensione).
• Imprese che hanno un sito web, ma non gestiscono la Supply
Chain in rete, né effettuano acquisto o vendite tramite Internet
rappresentano più o meno la metà; il passaggio all’E-commerce
richiederebbe un grande sforzo organizzativo con costi maggiori
da sopportare sia di natura tecnologica che di formazione.
• Meno di un quarto del totale delle aziende, sono le c.d. assenti
digitali, in quanto non hanno ancora un sito web e non sono
presenti in nessun modo su Internet.
31
Tavola 3 – Imprese per tipologia di utilizzo del web per settore e
dimensione
SETTORE E DIMENSIONE ATTIVE MODERATI ASSENTI
agroalimentare 32,7% 43,0% 24,3%
meccanica 29,7% 50,0% 20,3%
mobili 26,8% 57,4% 15,8%
moda 24,0% 42,4% 33,6%
micro -meno di un milione 27,4% 40,8% 31,8%
mini -tra 1 e 2 milioni 24,3% 53,5% 22,2%
piccola -da 2 a 10 milioni 31,5% 52,9% 15,6%
media -da 10 a 50 milioni 42,6% 52,7% 4,7%
grande -più di 50 milioni 42,2% 57,8% 0,0%
Fonte: Rielaborazione personale su dati della Fondazione Nord Est 2015
Si può evidenziare elaborando questi dati che sussiste una relazione tra
la presenza sul web e i ricavi all’estero, in quanto tra le imprese con più
della metà del fatturato all’estero, il 40% è identificabile come attivo
digitale, mentre il 37% delle imprese che non esportano sono le c.d.
assenti digitali29.
29 G. Corò, S. Micelli, G. Toschi, op. cit.
32
Tavola 4 – Imprese per tipologia di utilizzo del web per settore e
dimensione
ESPORTAZIONI (rispetto ai ricavi totali) ATTIVE MODERATI ASSENTI
oltre il 50% 39,8% 45,5% 14,7%
da 11 a 50% 34,7% 56,4% 8,9%
da 1 a 10% 33,1% 49,5% 17,4%
non esporta 19,2% 43,7% 37,1%
Fonte: Rielaborazione personale su dati della Fondazione Nord Est 2015
2.2 Le esportazioni italiane
L’Italia ha da sempre il vantaggio della posizione geografica, al centro
del Mediterraneo, che ha contribuito a rendere il Paese un nodo centrale
del commercio, essendo al centro delle principali rotte commerciali;
anche oggi il Made in Italy, in particolar modo l’agroalimentare, investe
nello “strategico” mare nostrum, che sommando i diversi settori arriva a
rappresentare 6 miliardi di euro di vendite.
Il paese principale per le esportazioni italiane rimane la Francia, con un
incremento del 3,2% (assieme a Germania e Regno Unito), ma non è da
trascurare nemmeno la Spagna che, con un incremento del 6,5%, sfiora il
miliardo, e nell’anno venturo è destinato a crescere.
Fattori strategici che contribuiscono a implementare questa
interconnessione fra paesi neolatini sono sicuramente le affinità
enogastronomiche, ma anche un paese come la Grecia, nel 2016, ha visto
un aumento delle importazioni di prodotti italiani pari a 450 milioni, con
un incremento di quasi il 9%.
33
Altri mercati da non trascurare sono il libico e l’israeliano con
rispettivamente 162 milioni e 186 milioni di esportazioni e un
incremento del 39% e dell’11,5%; invece si ha avuta una contrazione dei
consumi in Turchia (-10,3% per 147 milioni) e in Libano (-7,7% per 65
milioni).
L’incremento complessivo dell’export di prodotti alimentari italiani nel
2015 verso i 28 paesi dell’Unione Europea è cresciuto del 7,4% rispetto
al 2104; nel 2015, l’Italia ha esportato in Egitto 100 milioni in beni
alimentari, acquistandone però 160 milioni, non essendo l’Italia un paese
autosufficiente nel settore alimentare, sia per politiche restrittive europee
che per la diminuzione progressiva delle terre dedicate al settore
primario; riesce così ad assicurarsi solo il 40% del proprio fabbisogno,
ad esempio nel settore ittico, dove si vede costretta a importare il resto
soprattutto da Spagna, Grecia e Francia. Anche per quanto riguarda
l’olio di oliva, nel 2016, la produzione si è fermata a 315mila tonnellate,
le esportazioni sono state di 354mila tonnellate e le importazioni di
530mila tonnellate, ciò è stato causato anche dai mancati investimenti
per la meccanizzazione della raccolta delle olive che ha fatto scendere la
produzione del 37,4% e per questo le importazioni si sono incrementate
vertiginosamente del 168%30.
30 L. Cavestri, Bacino del Mediterraneo strategico per l’export, «Il Sole 24 Ore», 19 aprile 2017.
34
Fonte: Il Sole 24 Ore
Storicamente la bilancia commerciale francese, grazie soprattutto alle
esportazioni del settore agro-alimentare, è sempre risultata positiva, ma
nel 1998, le importazioni hanno registrato un continuo aumento,
contrariamente al valore dei beni esportati che è diminuito; nel 2000,
l’abbattimento delle esportazioni si è acuito anche grazie al fenomeno
della “mucca pazza” che ha fatto diminuire maggiormente il saldo
commerciale31.
L’export francese interessa per primi i paesi dell’Unione Europea, con
un occhio di riguardo verso la Germania e la Gran Bretagna, il quarto
mercato di sbocco è l’Italia, che rappresenta anche il secondo paese
fornitore per la Francia.
31 Dati da www.france.it.
35
Nel 2014, le esportazioni francesi erano aumentate del 13,7% rispetto al
2010 per un valore di 581,5 miliardi di dollari totali. Il FMI attesta che,
sempre nel 2014, le esportazioni rappresentavano per i francesi, il 22,5%
della produzione totale del paese.
Per l’Italia, la Francia, rappresenta il primo mercato per le esportazioni,
con un Made in Italy, nel 2014, in crescita del 3,3% rispetto all’anno
precedente, per un incremento di 2,4 miliardi.
Nel 2016, con l’export in caduta libera che registra, a livello mondiale,
una diminuzione del 6,8%, l’Italia regge e mantiene le vendite verso
Francia e Germania, clienti tradizionali del Bel Paese32.
La Germania, nel 2016, ha registrato un record sia per le importazioni,
sia per le esportazioni; a settembre dello scorso anno, il surplus del saldo
commerciale era di 21,3 miliardi di euro, nonostante il calo della
produzione industriale che ha registrato una flessione dell’1,8% rispetto
ad agosto; questa flessione si è riflessa in tutti i settori, dalla produzione
di beni strumentali (-2,4%) ai beni di consumo (-1,9%) fino al settore
energetico che ha perso il 3,1%, sempre rispetto ad agosto 201633.
Nonostante il terzo anno consecutivo positivo per la bilancia dei
pagamenti (nel 2016 si è registrato un incremento dell’1,2% rispetto al
2015 con un giro d’affari di 252,9 milioni di euro e merci esportate per
1207,5 miliardi) il paese della cancelliera Merkel dovrà fare i conti con
gli altri paesi dell’Unione Europea, non avendo, la Germania per prima,
rispettato i parametri, non dovendo superare il 6% del surplus
commerciale, nel 2016, ha raggiunto il 10%, questo dato potrà essere
32 E. Secchi, Export, la Francia è il primo mercato europeo per l’Italia, www.italie-france.com, 20 febbraio 2015. 33 Dati Destatis (Istat tedesco), www.destatis.de.
36
usato nelle rinegoziazioni degli squilibri finanziari di paesi come
l’Italia34.
La Spagna assieme all’Italia (ma più velocemente) per riprendersi dalla
crisi si è aggrappata alle esportazioni sia in Europa che oltre i confini del
vecchio continente.
Nel 2016, le esportazioni si sono incrementate del 1,7% con 254,5
miliardi di euro, contribuendo a far crescere l’economia spagnola del 3%
l’anno, percentuale maggiore rispetto alla media degli altri paesi europei.
La Spagna è un paese strategico per le esportazioni italiane, in quanto,
assorbe un volume maggiore rispetto ai paesi emergenti, senza dover
sopportare oscillazioni del tasso di cambio o il rischio di improvvise
variazioni negative, essendo un mercato maturo e sicuro.
La quota dell’Italia incide del 6,6% sul totale delle importazioni
spagnole, collocandosi al quarto posto, preceduta da Germania, Francia e
Cina; per le esportazioni spagnole, invece, l’Italia è preceduta solo da
Francia e Germania, incidendo sul totale dell’8%.
Per quanto concerne il settore alimentare, le esportazioni italiane sul
suolo spagnolo hanno mantenuto un trend positivo del 7,8% nel 2016
rispetto all’anno precedente, per un valore di 1,4 miliardi di euro, anche
se, a causa dello squilibrio della bilancia commerciale complessiva
dell’Italia, il saldo del comparto alimentare è favorevole alla Spagna;
nonostante produzioni similari in questo settore, lo scontro aperto a
livello commerciale per la conquista di quote di mercato non gioverebbe
a nessuno e indebolirebbe entrambe le nazioni, senza tralasciare che il
34 S. A., Germania: bilancia commerciale al top e nel 2016 l’export vola a 1.207 miliardi, «La Repubblica», 9 febbraio 2017.
37
punto di forza italiano è il settore dei macchinari, essendo l’Italia il
primo fornitore, per la Spagna, di macchinari per il vino.
L’interscambio commerciale tra Italia e Spagna è stato positivo fino al
2010 (nel 2007 +8,3 miliardi di euro, nel 2008 +6,6 miliardi, nel 2009
+1,8 miliardi, nel 2010 +400 milioni) per poi diventare negativo nel
2011 con -200 milioni (poi nel 2012 -700 milioni, nel 2013 -1,5 miliardi
e nel 2016 -2,2 miliardi di euro). Gli investimenti italiani in Spagna, in
questo periodo temporale, si attestano sempre nettamente superiori35.
Per quanto riguarda i rapporti commerciali extraeuropei, la domanda
cinese di fashion e abbigliamento Made in Italy - sempre visto come una
garanzia di qualità - è cresciuta e si prevede che raddoppi nei prossimi
dieci anni, sia per la top gamma che per la fascia medio-alta; prendendo
come riferimento i primi mesi del 2015, l’export per la moda donna è
cresciuto del 30,4% verso la Cina e del 30,8% verso Hong Kong anche
per via dei tagli ai dazi cinesi scesi dal 14-23% al 7-10%36.
Oggi infatti si può vedere come il mercato delle esportazioni verso la
Cina risponda sempre più ai bisogni della nuova classe emergente di
consumatori cinesi che in un orizzonte temporale da oggi a dieci anni
vedrà il giro d’affari passare da 300 a 600 milioni di consumatori cinesi
per quanto concerne la moda italiana.
I prodotti italiani saranno venduti sia al dettaglio che all’ingrosso da 300
distributori cinesi selezionati da IFF (International Fine Fashion Group)
che funzioneranno come il punto centrale dell’acquisto online grazie ad
una piattaforma predisposta per l’E-commerce37.
35 L. Veronese, Spagna e Italia unite nell’export, «Il Sole 24 Ore», 11 aprile 2017. 36 Dati Istat. 37 Dati ICE.
38
L’export cinese è cresciuto del 16,4% a marzo 2017, rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente e le importazioni del 20,3%, generando un
surplus pari a 23,93 miliardi di dollari. Il surplus con gli Stati Uniti è
stato di 49,6 miliardi nel primo trimestre del 2017 (leggermente inferiore
a quello dello stesso periodo nel 2016); il rallentamento delle
importazioni è dovuto alla svalutazione dello yuan38.
La crescita del PIL cinese non è una questione centrale secondo Xu, è
più importante capire la capacità di adattarsi al cambiamento delle
abitudini dei consumatori che precedentemente erano state sottovalutate,
infatti, i cinesi di età compresa tra i 30 e i 40 anni, sono meno avversi al
ricorrere al debito e sono propensi maggiormente all’acquisto online,
quindi se da un lato lo yuan è sottovalutato dal surplus commerciale, gli
asset cinesi sono fortemente sopravvalutati.
Se la Cina vorrà continuare ad investire all’estero, dovrà applicare nel
proprio mercato il principio di reciprocità degli scambi soprattutto con
l’Europa, ora che incombe la minaccia protezionistica tariffaria di
Trump. L’Italia è chiamata ad essere moderna ed efficiente per vincere il
confronto con gli altri paesi39.
Le esportazioni italiane in Cina sono cresciute del 14,6% tra settembre e
novembre del 2016, in Giappone del 13,1% e negli Stati Uniti dell’8%.
38 R. Fatiguso, In marzo le vendite all’estero hanno registrato un balzo del 16,4%: il surplus a 24 miliardi, «Il Sole 24 Ore», 14 aprile 2017. 39 G. Di Donfrancesco, Il nuovo ruolo del gigante asiatico nel seminario STS Deloitte - Fondazione Italia-Cina, «Il Sole 24 Ore», 5 aprile 2017.
39
Tavola 5 – Esportazioni Italiane
PAESE ESPORTAZIONI PAESE ESPORTAZIONI
Giappone 9,8% Germania 3,3%
Rep. Ceca 6,5% Francia 2,6%
Spagna 5,9% Austria 2,4%
Cina 5% Paesi Bassi 2,2%
Fonte: Rielaborazione personale su dati N. Ricci, Export made in Italy:
boom in Oriente e USA, 27 gennaio 2017 40
Non solo il settore alimentare in generale sta spingendo sulle
esportazioni (+9% di esportazioni di prodotti alimentari, miglior risultato
nel 2015 anche per la vetrina di Expo Milano che ha portato
l’agroalimentare del Made in Italy a 36 miliardi di euro con un
incremento del 7%)41, ma anche le singole aziende.
Il gruppo Barilla si è prefissato come obiettivo un incremento
nell’espansione internazionale della propria presenza, per diventare
leader nel sesto mercato della pasta per valore a livello mondiale,
passando dal 3% al 20%, grazie al raddoppio delle spese di marketing e
per la prima volta, dopo 20 anni di presenza sul territorio giapponese,
l’azienda nostrana si rivolgerà direttamente ai consumatori, grazie
proprio all’esperienza ventennale che le ha permesso di conoscere il
40 N. Ricci, Export Made in Italy: boom in Oriente e USA, in crescita secondo le rilevazioni di Confartigianato l’export Made in Italy, soprattutto in Cina, Giappone e USA, www.PMI.it, 27 gennaio 2017. 41 Dati Coldiretti, www.coldiretti.it.
40
mercato, come ha già fatto negli Stati Uniti con oltre il 30% di quota di
mercato nella pasta.
La strategia in Giappone non sarà orientata al prezzo, ma all’educazione
alla qualità e alla varietà per i nuovi segmenti “salutisti” che ancora
devono prendere piede. Ovviamente il mercato giapponese della pasta è
meno saturo e penetrato rispetto al mercato italiano con un consumo
medio pro capite di 2,4 kg rispetto ai 22,6 kg italiani42.
In Italia è mutato il mercato della pasta: la pasta di semola rappresenta il
90% delle vendite, la pasta di semola secca perde l’1,3% del volume, in
controtendenza le paste di farro, kamut e integrali che hanno
incrementato le vendite del 20%, la pasta senza glutine ha realizzato un
aumento del 14%, aiutata dal consumo anche di chi non è celiaco.
Nell’ambito della GDO, il 50,6% della pasta secca è ripartito tra Barilla,
De Cecco e Garofalo, mentre la pasta secca commercializzata con il
marchio del distributore si attesta al 14,3%. La pasta ripiena vede un
aumento sia del consumo (+3,7%) che del valore (+3,5%, a 416 milioni).
Ogni anno, in Italia, vengono prodotte 3,5 tonnellate di pasta con un
consumo medio pro capite compreso tra i 22 e i 24 kg.
42 S. Carrer, Barilla rilancia sul Giappone. Per la prima volta il gruppo si rivolgerà direttamente ai consumatori attraverso campagne pubblicitarie televisive, «Il Sole 24 Ore», 5 aprile 2017.
41
Tavola 6 – Consumo Pro Capite di Pasta
PAESE CONSUMO PAESE CONSUMO
Italia 24 kg Svizzera 9,2 kg
Tunisia 16 kg Stati Uniti e Argentina 8,8 kg
Venezuela 12 kg Iran e Cile 8,5 kg
Grecia 11,5 kg Russia 7,8 kg
Fonte: Dati Aidepi
Nel 2016, l’Italia, ha esportato oltre 2 milioni di tonnellate di pasta,
incrementando le esportazioni del settore del 3,4%, riscontrando però
una perdita del valore di 2,3 miliardi, pari al 2%; nel mondo, negli
ultimi 18 anni, l’aumento della produzione della pasta si attesta al 57%,
passando da 9,1 a 14,3 tonnellate43.
Oltre a Barilla, de Cecco e Garofalo, ci sono anche altre realtà di minori
dimensioni, ma fortemente presenti sul mercato, come la Rummo, che
nonostante le difficoltà strutturali dovute all’alluvione che nel 2015 ha
colpito lo stabilimento di Benevento, con una chiusura del bilancio in
deficit di 45 milioni, oggi ha recuperato il 70% della operatività a tempo
di record, esternalizzando, inizialmente, la produzione in altri
stabilimenti, ma continuando a impiegare le proprie risorse (personale,
semole e tecnologie), è riuscita, nel 2016, a chiudere con un fatturato di
64 milioni, esportando il 40% del volume all’estero. Il volume annuo di
43 E. Scarci, La pasta cresce purché di kamut, farro o integrale, «Il Sole 24 Ore», 19 aprile 2017.
42
produzione è pari a 70mila tonnellate e si auspica una crescita del
fatturato da 66,3 milioni previsti nel 2017 ad 80 milioni nel 202044.
Pe quanto concerne il settore vinicolo, dai dati raccolti da Pambianco,
dopo l’analisi di 171 bilanci di aziende a campione che nel 2015 hanno
quantificato un fatturato di 6,2 miliardi, attestando il vino come primo
settore dell’alimentare con 5,5 miliardi di esportazioni all’attivo, risulta
che il business del vino in Italia sia performante.
La crescita media dei ricavi è stata pari al 5,2% e delle 171 aziende
considerate (48 di alta gamma), nel 2015 il fatturato è stato di 1,25
miliardi con una crescita del 7,8%.
Nella fascia media, con 123 imprese, il fatturato del 2015 si attesta a
4,96 miliardi di euro con una crescita del 4,6%. Fuori dalle medie è il
marchio Sassicaia con un fatturato di 27 milioni e un utile di 10 (con
l’EBITDA45 più alto in assoluto pari ad oltre il 55%, contro l’EBITDA
dell’alta fascia al +10,4%)46.
Anche il 2016 è stato un anno positivo per le esportazioni delle case
vinicole con 5,6 miliardi di fatturato e un incremento di un punto
percentuale per le vendite della GDO (grande distribuzione organizzata)
44 V.Viola, Pasta Rummo riparte dopo l’alluvione del 2015, «Il Sole 24 Ore», 26 aprile 2017. 45 EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization) è il margine operativo lordo, detto anche MOL, che indica la redditività di un’impresa basandosi esclusivamente sulla sua gestione operativa quindi senza considerare la gestione finanziaria (interessi), la gestione fiscale (imposte), il deprezzamento dei beni e gli ammortamenti. Molto usato per attuare dei confronti tra diverse aziende di uno stesso settore, essendo una buona approssimazione dei flussi di cassa prodotti da un’impresa. 46 E. Scarci, Analisi Pambianco sui bilanci delle aziende: redditività maggiore nella fascia più elevata. Vino boom per l’alto di gamma. In un mercato ipercompetitivo la qualità è la vera discriminante, «Il Sole 24 Ore», 30 marzo 2017.
43
e questo ha contribuito al ridursi del livello di rischiosità delle case
vinicole stesse, con tassi di default delle aziende italiane molto al di sotto
della media, sia per quanto riguarda le sofferenze bancarie (2,8% con
Basilea e past due a 90 giorni) sia per le procedure concorsuali o
pregiudizievoli (0,5%), entrambe le percentuali sono inferiori anche a
quelle del settore alimentare (food al 3,6% e beverage al 0,7%).
Sicuramente un contributo importante si deve ai finanziamenti SACE47
sia per le esportazioni in Europa che per quelle nei paesi extra
comunitari48.
Le esportazioni dovrebbero incrementarsi grazie al vino italiano a
Denominazione, registrando un aumento del 10,5% pari a 3,3 miliardi di
euro (+7% del volume, corrispondente a 8 milioni di ettolitri)
confermando la tendenza dei consumatori ad orientarsi verso i prodotti di
qualità.
Gli Stati Uniti sono il principale fruitore dell’export del vino con un
incremento delle esportazioni pari al 5,5% per un valore di 1,35 miliardi
di euro e un aumento del volume pari al 3,2% per 3,3 milioni di ettolitri.
Al secondo posto troviamo la Germania con un aumento del 1,7% (977
milioni di euro) con un +0,5% del volume pari a 5,56 milioni di ettolitri
nel 2016.
47 SACE: dal 1977, con sede a Roma e presente successivamente in tutta Italia e nei principali mercati internazionali, è una società per azioni del gruppo italiano Cassa depositi e prestiti, specializzata nel settore assicurativo finanziario. Il gruppo assicura i rischi a cui le imprese italiane sono esposte nelle loro transazioni internazionali e negli investimenti all’estero, riducendo o trasferendo il rischio di insolvenza verso terzi; opera in 190 paesi. 48 Dati Ansa, www.ansa.it.
44
La Francia con un milione di ettolitri ha registrato un incremento del
volume del 15,2% con un giro di affari per l’Italia pari a 155 milioni di
euro (+8,8%), mentre l’export dalla Francia alla Cina fa girare
complessivamente 612 milioni di euro (+9,94% rispetto all’anno
precedente) con un volume di 1,79 milioni di ettolitri (+8,89%).
Il Regno Unito importa dall’Italia 764 milioni di euro di vino con un
incremento del 2,3% rispetto all’anno precedente, ma con un’inflessione
del volume pari al -7,4% (corrispondente a 3 milioni di ettolitri)
sottolineando di puntare più alla qualità che alla quantità, preferendo
pagare maggiormente una bottiglia, ma consumando un minor
quantitativo pro capite.
La Cina ha aumentato le importazioni raggiungendo un incremento pari
al 13,8% (101 milioni di euro) e un aumento del volume del 11,4%, pari
a 299 mila ettolitri.
La Russia ha incrementato le importazioni del 10% (78 milioni di euro)
con un aumento del volume pari al 15% (335 mila ettolitri)49.
49 Dati da www.bereilvino.it.
45
Tavola 7 – Esportazioni italiane del vino, 2015 e 2016 per migliaia di euro e variazione
percentuale
2015 2016 Var.%
Stati Uniti 1.280.222 1.350.732 5,5%
Germania 961.704 977.942 1,7%
Regno Unito 746.513 763.807 2,3%
Svizzera 323.580 338.591 4,6%
Canada 299.011 305.575 2,2%
Francia 142.950 155.489 8,8%
Svezia 150.341 154.375 2,7%
Giappone 157.713 150.780 -4,4%
Danimarca 145.292 147.082 1,2%
Paesi Bassi 128.989 140.036 8,6%
Belgio 107.362 111.682 4,0%
Austria 91.285 101.349 11,0%
Cina 88.942 101.177 13,8%
Norvegia 94.985 94.208 -0,8%
Russia 71.088 78.172 10,0%
Polonia 37.651 47.823 27,0%
Australia 40.602 46.160 13,7%
Spagna 40.979 41.085 0,3%
Rep. Ceca 33.789 40.580 20,1%
Irlanda 31.983 31.464 -1,6%
Finlandia 26.964 30.634 13,6%
Messico 25.078 29.452 17,4%
Altri 338.166 357.084 5,6%
Mondo 5.391.554 5.622.532 4,3%
Fonte: Elaborazioni Ismea su dati Ista
46
Tavola 8 – Esportazioni italiane del vino, 2015 e 2016 per ettolitri e variazione
percentuale
2015 2016 Var.%
Stati Uniti 3.188.054 3.290.839 3,2%
Germania 5.536.920 5.563.923 0,5%
Regno Unito 3.231.210 2.991.928 -7,4%
Svizzera 692.836 723.822 4,5%
Canada 698.709 729.402 4,4%
Francia 886.110 1.020.962 15,2%
Svezia 465.929 482.017 3,5%
Giappone 433.295 401.888 -7,2%
Danimarca 404.524 398.833 -1,4%
Paesi Bassi 435.033 437.851 0,6%
Belgio 306.091 311.440 1,7%
Austria 454.833 524.468 15,3%
Cina 268.912 299.628 11,4%
Norvegia 243.958 240.728 -1,3%
Russia 292.088 335.068 14,7%
Polonia 159.439 228.940 43,6%
Australia 96.011 105.712 10,1%
Spagna 226.609 246.718 8,9%
Rep. Ceca 271.372 355.210 30,9%
Irlanda 124.915 113.094 -9,5%
Finlandia 76.863 83.623 8,8%
Messico 91.364 114.509 25,3%
Altri 1.410.329 1.537.089 9,0%
Mondo 20.077.910 20.636.174 2,8%
Fonte: Elaborazioni Ismea su dati Istat
47
Ad aprile 2017, in occasione del Vinitaly, si è evidenziata una flessione
delle esportazioni di vini fermi che è rovesciata solo grazie allo
straordinario incremento delle esportazioni del prosecco che assieme a
grandi etichette come Barolo e Amarone non conosce crisi.
L’Amarone, nel 2016, ha visto incrementare la propria quota di acquisti
del 9% sul totale rispetto al 2% dell’anno precedente.
Il Gavi, con una produzione di 13 milioni di bottiglie, il cui 85% venduto
in 70 paesi esteri, ha visto fruttare circa 50 milioni di euro; anche il
Lugana, venduto per il 40% in Germania, ha attivato un giro d’affari di
150 milioni di euro, considerando che due anni fa il suo prezzo era di
2,50 euro al litro, oggi si attesta a 4€/l per il Lugana sfuso, un prezzo
record per un vino bianco.
La D.O.C. Sicilia, nel 2016, ha prodotto 27,8 milioni di bottiglie e nel
primo trimestre del 2017, gli imbottigliamenti, sono aumentati del 10%,
inoltre, da quest’anno le varietà di Grillo e Nero d’Avola dovranno
essere vendute con il marchio D.O.C e non più I.G.T.50.
Con il record del 2016 con 410 milioni di bottiglie prodotte in Italia, il
prosecco D.O.C. ha esportato il 75% della produzione (208 milioni di
bottiglie); il 52% del volume viene trattato dalla Grande Distribuzione, il
40% dall’Horeca e il restante ad altri canali.
L’inflessione del prosecco D.O.C. è nell’ambito della GDO, vede il suo
posizionamento al decimo posto della classifica dei più venduti, con la
peggior performance dei vini Top 15, avendo perso l’11% del volume e
il 5,5% del valore (30,2 milioni di euro); questo declino deriva
50 G. Dell’Orefice, La rassegna veneta si chiude con meno visitatori ma con una crescita di operatori professionali e compratori esteri, «Il Sole 24 Ore», 13 aprile 2017.
48
probabilmente dall’aumento del prezzo medio del 6% (+4,65€ a
bottiglia).
I vini più venduti si attestano essere il Lambrusco (con un
incremento del valore del 3,1%), il Chianti (+5,3%) e il
Montepulciano (+4,4%).
Per quanto concerne l’estero, il prosecco D.O.C. è consumato all’interno
dell’Unione Europea per il 73%, soprattutto nel Regno Unito, il 21%
viene esportato negli Stati Uniti, il 3% tra Russia e Asia e il restante 2%
tra Australia e Africa.
La Brexit può rappresentare una minaccia sia per il prosecco che per tutti
gli altri vini italiani, considerando che probabilmente Australia, Sud
Africa e Nuova Zelanda firmeranno trattati bilaterali con gli inglesi ora
che questi sono usciti dal mercato unico europeo. Una soluzione
potrebbe essere per l’Unione, consentire al Regno Unito, per un periodo
di tempo che potrebbe essere decennale, di condividere gli stessi oneri
doganali del resto dell’eurozona e negoziare per un trattato di libero
scambio commerciale51.
Tra etichette D.O.C. e D.O.C.G. si producono 500 milioni di bottiglie di
prosecco, ma oggi la sfida di due imprese, Astoria e Isir Vigneti, è quella
di puntare sul Prosecco “alcol free” che con 800mila bottiglie è
commercializzato per il 50% all’estero, aprendo a nuovi mercati proprio
grazie all’assenza di alcol o al contenuto ridotto, soprattutto nei Paesi
arabi che non lo comprerebbero se fosse alcolico; per questo tipo di
prosecco (in realtà la denominazione è errata, in quanto alla base della
51 E. Scarci, Dopo i risultati record del 2016 il primo trimestre chiude con un +6% Primi segni di rallentamento per la corsa del Prosecco D.O.C., «Il Sole 24 Ore», 12 aprile 2017.
49
definizione del prosecco ci deve essere un contenuto minimo di alcol di
10 gradi, mentre in questo caso è al di sotto o del tutto assente) il
mercato più difficile resta proprio l’Italia dove vige una netta
separazione tra ciò che è alcolico e il mondo delle bibite52.
Questa onda lunga, secondo le proiezioni, spingerà la domanda a livello
mondiale almeno fino al 2020, con un incremento dei consumi globali
del 4,3% con paesi trainanti, quali Cina (+21,6%), Russia (+6,1%) e
Stati Uniti (+5,7%), con un’Italia dinamica, capace di aumentare il
valore delle vendite del 10%, risultando migliore di Francia e Cile
(6,1%), Stati Uniti (4,3%) e Spagna (3,6%) con un mercato interno
stabile al 0,9%. Tra il 2014 e il 2016, l’Italia è cresciuta del 20% rispetto
al 9% del biennio 2011-2013 della Francia, principale competitor.
Occorre sempre ricordarsi di quanto sia strategico il mercato cinese53.
2.3 L’E-commerce in Italia
L’origine dell’E-commerce in Italia, si può ricondurre ai primi anni
Settanta con l’Electronic Data Interchange (EDI), sistema che consente il
trasferimento di informazioni e documenti commerciali in un formato
elettronico, creato e utilizzato dalle imprese di trasporto che venne
sfruttato dalle industrie caratterizzate da elevati livelli di scorte per
automatizzare gli acquisti.
52G. Dell’Orefice, Ai Paesi arabi piace il Prosecco senza alcol, «Il Sole 24 Ore», 19 aprile 2017. 53 E. Scarci, Il balzo dei consumi in Asia e Nord America spingerà la domanda mondiale almeno fino al 2020, «Il Sole 24 Ore», 12 aprile 2017.
50
L’EDI nell’ambito del B2B aveva delle indubbie potenzialità, ma era
ancora un sistema troppo oneroso e poco fruibile a causa della scarsa
dinamicità che non consentiva l’interazione tra diversi database
aziendali.
La data fondamentale nel B2C è, piuttosto, rappresentata dal 2 febbraio
1996, quando l’Olivetti Telemedia annunciò l’apertura di Cybermercato,
il primo negozio virtuale italiano ed uno dei primi in tutta Europa.
All’indirizzo www.mercato.it era possibile acquistare prodotti come
libri, computer e prodotti multimediali54.
Nell’ultima decade dello scorso secolo, l’utilizzo di Internet non era
ancora supportato da una grande fetta della popolazione, nel 1999, solo
l’11% degli italiani con più di 14 anni aveva utilizzato Internet
attivamente nel corso dell’anno, con un possesso di personal computer
del 19,2% contro una media europea del 27,7%.
Con il passare degli anni, questi numeri sono cambiati, così come è
cambiato il modo in cui le persone si interfacciano con il web e in
generale con il mondo digitale.
Nel 2009, le famiglie composte solo da soggetti che hanno più di 65 anni
sono quasi del tutto escluse dall’accesso ad Internet, in quanto solo il
7,7% possiede un personal computer e il 5,9% ha l’accesso a Internet;
situazione diametralmente opposta è quella del nucleo familiare con
almeno un minorenne dove il possesso di un personal computer è al 79%
con un accesso internet del 68,1%. Vi è, inoltre, un divario tra il Nord e
il Sud del Paese che tuttavia tra il 2008 e il 2009 si è leggermente
54 A. Verzelloni, Breve storia dell’E-commerce, www.hyperlabs.net.
51
appiattito (il possesso di personal computer al Nord è pari al 55%, al Sud
49,7%, l’accesso a Internet al Nord è del 48%, al Sud del 42,3%).
Occorre, comunque, considerare che la diffusione delle ICT presso le
famiglie italiane è al di sotto della media europea, piazzando il Bel Paese
al ventunesimo posto con un tasso di penetrazione del 53%, rispetto alla
media europea del 65% (l’Olanda supera l’83%).
Più di un quarto degli utenti di Internet acquista beni o servizi online a
partire dai 14 anni di età, con maggior frequenza nelle persone comprese
tra i 20 e i 54 anni, soprattutto nel Centro-nord.
Ad oggi i motivi per cui non si effettuano acquisti online sono
principalmente la mancanza di abitudine, il desiderio di vedere il
prodotto di persona (53,8%) e la preoccupazione di fornire gli estremi
della carta di credito (20%), assieme alla sfiducia per la consegna e la
politica dei resi (15%); invece, è del tutto marginale il mancato possesso
di una carta di credito (8,8%) e l’incapacità di effettuare acquisti online
(7%)55.
La fetta maggiore dell’E-commerce è rappresentata dalle spese di servizi
(viaggi e pernottamenti), libri, giornali e articoli di abbigliamento, oltre a
film e musica digitalizzati (vedere tavola 9)56.
La commissione Ue con l’indice Desi (Digital Economy and Society
Index) ha posizionato l’Italia al venticinquesimo posto su 28, meglio
solo di Grecia, Bulgaria e Romania, per il basso livello di utilizzo dei
servizi di e-government in Europa, con la scarsa crescita della banda
larga che si ferma al 2% e uno dei più bassi livelli di accesso alle risorse
della Pubblica Amministrazione; in compenso l’Italia ha ottenuto un 55 Istat, op. cit., Cittadini e nuove tecnologie, 2009, p. 20. 56 Istat, Cittadini e nuove tecnologie, 2009, pp.16-18.
52
ottimo risultato per quanto riguarda la diffusione delle reti di ultima
generazione (NGA) che si attestano vicine al 72% con una media
europea del 76%.
Quello che emerge da questo indicatore sintetico è un Paese in
movimento, ma che ha una velocità insufficiente a colmare il gap tra i
vari paesi in corsa57.
Dei trentuno milioni di italiani che, nel 2016, accedono al web almeno
una volta a settimana, l’83,6% (quasi 26 milioni di individui) ha
comprato almeno una volta online e di questi il 51,6% (16 milioni di
persone; nel triennio 2012-2015 sono passate da 9 a 16 milioni) sono
clienti abituali, anche grazie all’utilizzo degli smartphone58.
57 A. Biondi, Gli indicatori Ue. Nella classifica Desi confermato il 25° posto continentale del 2016. L’Italia resta in coda nell’Europa digitale, «Il Sole 24 Ore», 4 marzo 2017. 58 S. Mangiaterra, E-commerce, perché in Italia nei negozi non decolla, «Il Sole 24 Ore», 3 maggio 2017.
53
59 59 Fonte: Istat, Cittadini e nuove tecnologie, 2009, p. 17.
54
Nel commercio B2C europeo la dimensione complessiva dell’E-
commerce raggiunge i 600 miliardi di euro, con il risultato italiano pari
al 3,6%.
Emerge come l’utilizzo dell’E-commerce sia sfruttato maggiormente
dalle imprese di dimensioni maggiori, in quanto spinte dallo stimolo di
domanda interna al paese, mentre le imprese di dimensioni medio-
piccole vi si affaccino con un peso meno preponderante. L’incremento
dell’E-commerce nelle grandi aziende italiane porterebbe ad assumere ed
investire maggiormente rendendo i lavoratori più produttivi, cosicché
tutti ne sarebbero avvantaggiati, i redditi delle famiglie crescerebbero
alimentando il consumo e il costo del lavoro più elevato sarebbe
compensato dalla produttività crescente 60.
60 C. Milani, E-commerce, questo sconosciuto (in Italia), «Il Sole 24 Ore», 28 dicembre 2016.
55
Fonte: Rielaborazione personale su dati C. Milani, E-commerce, questo
sconosciuto (in Italia), «Il Sole 24 Ore», 28 dicembre 2016
Si stima che nel 2016 l’E-commerce abbia avuto un fatturato
complessivo di 575 milioni di euro, con un incremento pari al 30%
rispetto all’anno precedente. Nonostante questi dati, però, il settore
agroalimentare in valore assoluto incide solo del 3% sul totale dell’E-
commerce B2C con quasi 20 miliardi di euro. L’enogastronomia
(cresciuta del 17%) vale 240 milioni ed è il 47% del valore
dell’alimentare online e 188 milioni (incremento del 40%) sono dovuti al
servizio online dei supermercati tradizionali che consegnano a domicilio.
resto UE 18%
Olanda 3% Italia 3% Svezia 5%
Francia 6%
Spagna 7%
Germania 17%
UK 41%
E-‐commerce in Europa nel 2016 Figura 2
56
L’enogastronomia rappresenta il 90% del mercato del Food&Grocery
con un giro di affari di 519 milioni (+27% rispetto al 2015), con il 90%
di food e il 10% di wine; il food a sua volta è diviso in 60% di prodotti
secchi (confezionati e caffè), 31% di freschi, 7% di bevande e 2% di
surgelati61.
Gli acquisti via smartphone nel settore sono raddoppiati e hanno
raggiunto quota 100 milioni di euro, pari al 17% del totale E-commerce
del comparto, si raggiunge il 25% se si aggiungono gli acquisti via
tablet. L’incidenza degli acquisti online sul totale Retail è pari allo
0,35% nel 201662.
Nello scenario odierno (che nel 2016 vede un fatturato complessivo
nell’agroalimentare di 20 miliardi di euro - di cui 3,3 miliardi da mobile
con una crescita del 60% rispetto al 2015 - con un incremento del 17-
18% rispetto all’anno precedente), il commercio digitale non registra
perdite dal 2010, ma è in continua espansione, essendo passato da 8
miliardi a quasi 20 (19,6 miliardi) in sei anni.
L’E-commerce, nel 2013, ha registrato un fatturato di 12,6 miliardi
(valore ottenuto considerando gli acquisti degli italiani da siti sia
nazionali che stranieri), con un incremento del 15% rispetto al 2012, in
Italia, ha avuto un fatturato di 9,62 miliardi di euro, con un incremento
nel volume di affari del 18% rispetto al 2011 63, una cifra record
considerando la contemporanea contrazione dei ricavi dei negozi
tradizionali del 2%; i settori trainanti sono stati il turismo (4,4 miliardi 61 L’E-commerce del food&grocery in Italia vale 575 milioni di euro, foodweb.it, 5 dicembre 2016. 62 Ansa, L’E-commerce del cibo fa boom, +30% nel 2016, vale 575 mln, Roma 1 dicembre 2016. 63 Dati si riferiscono ad acquisti espletati dagli italiani.
57
che rappresenta il 46%), l’abbigliamento (1,05 miliardi, pari all’11%),
l’informatica e l’elettronica (1 miliardo, pari al 10,5%) e infine l’editoria
e la musica con quasi un miliardo di euro, pari al 10,2% del totale64.
Tabella 10 - Crescita del fatturato E-commerce in Italia tra il 2005 e
il 201665
ANNO FATTURATO VAR.% ANNO FATTURATO VAR.%
2005 2,1 +29% 2011 19 +32%
2006 3,3 +55% 2012 21,1 +12%
2007 4,9 +48% 2013 22,3 +6%
2008 6,4 +31% 2014 24,2 +8%
2009 10 +58% 2015 28,8 +19%
2010 14,4 +43% 2016 31,7 +10%
Fonte: Rielaborazione personale su dati Casaleggio Associati 201766
Dal 2006 al 2014, il commercio elettronico, nel mondo, è cresciuto ad un
ritmo del 20% annuo all’incirca, tranne nel biennio 2008-2009 a causa
della crisi innescata dalla Lehman Brothers, periodo nel quale si è
comunque mantenuto costante. Le PMI che hanno fatto ricorso a questa
tipologia di vendita, sono cresciute annualmente dell’1,3% nel triennio
2008-2010 al contrario delle altre PMI non digitalizzate che hanno
dovuto far fronte ad una perdita del 4,5% o del 2,4% (nel caso avessero o
64 Fonte: Politecnico di Milano, www.polimi.it. 65 Dati espressi in miliardi di euro, nel 2004 il fatturato è stato di 1.645.683.000 euro, cosicché la variazione, tra il 2004 e il 2005, si attesta al +29%. 66 Dati si riferiscono alle aziende italiane.
58
meno visibilità sul web, senza però offrire la possibilità di completare
transazioni online).
Anche per questo molti grandi retailer, come i loro competitors esteri,
stanno portando avanti uno sperimento su come integrare il negozio
fisico e il negozio digitale, facendo ricorso, per esempio, alla consegna
nello store, aumentando il mercato dell’E-commerce, supportato dalla
diffusione di nuove tecnologie mobili; alcune realtà stanno così
trainando il mercato contribuendo alla diffusione di nuove modalità e
tecniche di acquisto.
Oggi si deve presidiare ogni punto di contatto con i clienti per acquisti
sempre più veloci e caotici; è vero che l’Italia è ancora indietro rispetto
ad altri paesi, anche vicini, ma ha una potente crescita, che
accompagnata da investimenti tecnologici, può colmare il gap con gli
altri paesi, dell’Eurozona e non.
Occorre tenere conto che il 27% dei siti internet che vendono prodotti
italiani, sia in Italia che all’estero, sono in realtà provider stranieri,
quindi le possibilità di crescita sono molteplici e devono essere sfruttate.
L’E-commerce, come altre realtà commerciali, deve essere sempre
supportato da una visione di insieme che ha bisogno di un business plan
serio, con magari dei tempi di esecuzione più veloci anche per quanto
riguarda le 4P, ma che ha comunque bisogno del suo tempo, solitamente
il pareggio di bilancio di una start-up ha bisogno di 3-4 anni per essere
raggiunto.
L’Italia sta cercando di migliorare le infrastrutture di cui il commercio
telematico necessita, ha abbattuto il muro della connettività e del
servizio dei pagamenti, due colonne portanti per il sistema di vendita che
59
adesso si sta evolvendo, con proporzioni in cambiamento e in
controtendenza rispetto ai consumi del mondo offline, infatti, la maggior
parte del commercio telematico è sempre stato rappresentato da servizi,
in primis, per quanto concerne il turismo (soprattutto nell’ambito di voli
aerei, treni e infine alberghi) e le assicurazioni, mentre adesso le
percentuali della vendita dei beni si stanno avvicinando a quelle dei
servizi, nei settori più disparati (i prodotti vengono acquistati
maggiormente da piattaforme mobili rispetto ai servizi).
Nel 2017, si dovrebbe arrivare alla parità di acquisti su Internet tra beni e
servizi, infatti, questi ultimi hanno sempre fatto la parte del leone sul
web con il 44% dei servizi rappresentato da voli aerei (per le tratte aeree
le percentuali superano l’85%), tratte ferroviarie e alberghi, mentre il
mercato dei prodotti, prima poco penetrato, ora è diventato più
consapevole, soprattutto nell’ambito dell’elettronica di consumo e
dell’abbigliamento (nonostante sia paradossale, in quanto è più
difficoltoso acquistare un capo di abbigliamento a distanza, senza poterlo
provare, ma questo è possibile anche grazie alle politiche dei resi e a dei
provider che ancora non sono esplosi, ma che permetteranno con una
webcam di “provare” il capo grazie ad un avatar).
Ricordando che il settore del commercio telematico ha un tasso di
crescita del 20%, in Italia, solo il 5% della spesa delle famiglie è
dedicata al commercio online, questo sta a significare che su 100 euro di
spesa, solo 5 euro sono spesi online, contro una media europea di 10
euro e una statunitense che oscilla tra i 15 e i 18 euro; il ritardo rispetto
agli altri mercati è dovuto ad un tasso di penetrazione del 5% (totale
acquistato online dalle famiglie italiane diviso totale acquistato dalle
60
famiglie italiane), trainato soprattutto dalle vendite dei servizi, che non
risulta soddisfacente; per i prodotti la penetrazione di mercato è del 3%,
mentre per i servizi è del 9%.
La mancata offerta ha determinato un basso ricorso all’E-commerce
negli ultimi anni, infatti, bisogna considerare che la spesa relativa al
grocery è molto importante, pesa molto sul reddito e sul paniere di
consumo, ma in Italia, i player non si sono ancora mossi massicciamente,
cosicché il mercato, nel 2016, aveva un valore di 575 milioni con un
incremento del 30%, rappresentando il 17% dell’E-commerce totale, ma
ancora lontano dai risultati che si potrebbero raggiungere.
Le esportazioni di beni di consumo Made in Italy, attraverso il
commercio elettronico, sono in crescita, con un incremento del 24% nel
biennio 2015-2016, ma il valore complessivo è di 7,5 miliardi di euro
con meno del 6% delle aziende italiane esportatrici grazie ad un proprio
sito internet, di queste, sono soprattutto i grandi marchi a fare da
padroni, riuscendo a non utilizzare i grandi retailer online come Yoox,
Zalando o Amazon67.
Infatti, nonostante il Food&Grocery, oggi rappresenti una delle
principali voci di spesa per gli italiani, la sua diffusione online è ancora,
di fatto limitata, con un’incidenza dello 0,35% sul totale degli acquisti
retail, diversamente da Francia, Regno Unito e Germania, che hanno
percentuali comprese tra il 2 e l’8% per lo stesso settore.
L’alimentare è acquistato per l’11% online e per l’89% nei punti vendita;
contrariamente agli altri settori, nel food, occorre che siano i player
tradizionali a cimentarsi in questa nuova sfida del B2C online, infatti, 67 M. Cappellini, La banda stretta dell’export online, «Il Sole 24 Ore», 24 aprile 2017.
61
oggi, proprio questi sono gli attori che detengono il 67% delle vendite
dell’E-commerce di questo settore, con un tasso di concentrazione delle
prime cinque società che sfiora il 68% delle vendite online68.
Nel panorama contemporaneo, la sfida per le aziende è di passare
dall’essere internet company (società che si occupano di tutti gli aspetti
inerenti a Internet e ai canali online) a mobile company, per correre
incontro ad un futuro che non è più legato al computer, ma è sempre più
in movimento, è sempre più fruibile grazie agli smartphone, che
permettono di “avere il mondo in una mano”; in Italia, nel 2015, le
imprese digitalizzate erano 30 milioni, contro una media europea di 745
mila, tenendo conto che un miliardo e 100 milioni di consumatori
potrebbero acquistare italiano, se si riuscisse ad aggredire maggiormente
il canale di vendita online, che riesce a connettere tutte le parti del
mondo, si potrebbero avere enormi potenziali di crescita in termini di
vendite.
Il servizio distributivo per quanto riguarda il contatto diretto con i
consumatori, in Italia, ha un peso non indifferente ed è diversificato sia
per numero di forme che può assumere, sia per quanto riguarda le
modalità di erogazione dei beni e dei servizi, per l’appunto in continua
evoluzione, negli ultimi anni, grazie ai salti tecnologici e a causa del
mutamento dei consumi dovuto anche alla crisi del 2007-2008 che ha
colpito tutti i settori in tutto il mondo, ormai globalizzato.
Alla fine del 2013, c’è stato un incremento di 11 mila unità rispetto al
2007, per quanto riguarda il commercio al dettaglio, ma per quanto
riguarda le realtà più piccole, complementari alla Grande Distribuzione,
68 Fonte: Politecnico di Milano, 1 dicembre 2016.
62
si è registrato un decremento di più di 15 mila unità rispetto al 2007; la
GD, invece, nonostante la crisi, non ha arrestato la propria crescita
passando dalle 16.636 unità del 2007, alle 20.118 unità nel 2013, anche
se c’è stato un rallentamento rispetto al passato.
Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio su dati Osservatorio
Nazionale del Commercio69
Oggi, il mondo del commercio elettronico, continua ad essere in
fermento e in continua evoluzione, Amazon, ad esempio, sta
sperimentando un nuovo tipo di magazzino, che presto arriverà anche a
Roma, in cui non saranno più gli operatori a doversi muovere alla ricerca
della merce, ma saranno gli scaffali a spostarsi fino all’addetto, a cui non
rimarrà che estrarre il prodotto e inserirlo nel pacco da spedire. 69 Tavola 3, tratta da Il negozio nell’era di Internet, Confcommercio, Roma, 18 settembre 2014.
63
Questo sistema, già presente in Europa (cinque centri: tre in Inghilterra,
uno in Polonia e uno in Spagna) e in America (20% dei magazzini sfrutta
l’assistenza robotica), avrà bisogno di un investimento di 150 milioni -
solo per il magazzino che aprirà a Roma-, aumentando l’efficienza, con
un incremento del 15% del volume, a parità di superficie. Questo sistema
non dovrebbe fare perdere posti di lavoro, ma cambiarne la compagine
interna, con meno magazzinieri “puri” e più tecnici che controlleranno il
funzionamento dei robot70.
Per il commercio online, occorre sempre considerare che, non si tratta
solo di transazioni che hanno come finalità la vendita di un bene
materiale o immateriale come quello offerto dalle App degli smartphone,
ma un sito di E-commerce può coinvolgere anche dei nuovi sistemi di
pagamento, in modo da non far passare il denaro tramite il sistema
bancario, ma direttamente dal sito. Un esempio è il caso Alibaba71, il sito
di commercio telematico cinese più noto a livello internazionale, che ha
creato un sistema di acquisti che si chiama Alipay, nel quale i
consumatori (era nato come B2B per imprese e imprenditori, oggi è
anche B2C) possono depositare i soldi per pagare gli acquisti fatti
online; oggi Alipay controlla più della metà delle transazioni sul mercato
online, con più di 400 milioni di utenti attivi.
Alibaba è una specie di piattaforma dove vengono convogliati tutti i
prodotti da stoccare e immagazzinare, come se fosse una trade zone, poi
questi prodotti vengono venduti attraverso una società del gruppo, la
70 A. Biondi, Amazon, a Roma in arrivo magazzini 4.0, «Il Sole 24 Ore», 28 aprile 2017. 71 Alibaba, nel 2016, ha raccolto il 40% della spesa pubblicitaria cinese, negli Stati Uniti il 58% è raccolto fa Google e Facebook.
64
Tmall, ed è proprio la presenza di prodotti su questa piattaforma a
determinare le esportazioni con la Cina, non a caso il vino comprato dai
cinesi è più francese che italiano, proprio per gli accordi stretti tra
venditori francesi e cinesi; in Italia, l’unica iniziativa degna di nota in
questo campo è stata varata nel 2016 da vari player tra cui Intesa e
Unicredit che hanno fondato e-Marco Polo, negozio online per il B2C, a
seguito dell’accordo Memorandum of Understanding, siglato dal gruppo
Alibaba con il Governo italiano, per la promozione del commercio
online del Made in Italy.
Questo dimostra come la rivoluzione digitale, tecnologica e dell’ICT,
abbia trasformato anche il modo di fare banca, in particolare in Cina,
dove le banche tradizionali si devono modificare, lanciando propri siti E-
commerce nei quali vendere insieme ai prodotti bancari, anche altri beni
di consumo, ma questo può accadere con il pieno supporto delle imprese
ad alta tecnologia per le attività di business da parte del governo centrale
coadiuvate dalla disponibilità di più del 70% della popolazione, in
questo caso dell’immensa Cina, ad aprire un conto in una banca
digitale72.
L’incremento dei vari mercati, mostrato dalla distribuzione dei fatturati,
si può dedurre dalle seguenti tavole, che evidenziano come in tutti i
settori ci sia stato un incremento, più o meno performante, ma comunque
positivo nell’ambito dell’E-commerce tra il 2015 e il 2016, che fa ben
sperare per gli anni futuri.
72 www.alibaba.com.
65
Tavola 12 - Dati di settore per i prodotti dell’E-commerce in Italia
nel biennio 2015-2016
SETTORE 2015 2016 VAR.% VAR.% 2017
(Prospettica)
Elettronica 2.298 2.932 +28% +4%
Abbigliamento 1.490 1.898 +27% +28%
Editoria 562 687 +16% +18%
Arredamento 439 652 +48% +29%
Alimentare 441 573 +30% +38%
Altri prodotti 1.601 2.312 +44% -
Fonte: Rielaborazione personale su dati del Politecnico di Milano e
Casaleggio Associati, 2017
Tavola 13 - Dati di settore per i servizi dell’E-commerce in Italia nel
biennio 2015-2016
SETTORE 2015 2016 VAR.% VAR.% 2017 (Prospettica)
Turismo 7.803 8.561 +10% +9%
Assicurazioni 1.225 1.225 0% +9%
Altri servizi 767 807 +10% -
Fonte: Rielaborazione personale su dati del Politecnico di Milano e
Casaleggio Associati, 2017
66
67
Tavola 14 – Valore degli acquisti online dei consumatori italiani tra
il 2010 e il 2016, dati espressi in milioni di euro
ANNO VALORE VAR. %
2010 8.012 -
2011 9.343 +17%
2012 11.002 +18%
2013 12.648 +15%
2014 14.374 +14%
2015 16.657 +16%
2016 19.649 +18%
Fonte: Rielaborazione personale su dati del Politecnico di Milano
In Italia, il commercio telematico è entrato in una fase di consolidamento
e maturazione, ma gli investimenti in questo settore difficilmente
superano i 5 milioni, contrariamente a paesi, quali Germania, Francia e
Inghilterra, che ricevono finanziamenti di centinaia di milioni di euro e
anche per questo, il settore dell’E-commerce, è più sviluppato.
Tavola 15 - Presenza delle aziende italiane sui mercati esteri PAESE PERCENTUALE PAESE PERCENTUALE
Francia 20% Svizzera 8%
Germania 18% Altri paesi asiatici 4%
Regno Unito 15% America Latina 3%
Spagna 11% Giappone e Cina 2%
Europa del Nord 10% Russia 1%
Stati Uniti 10% Africa 1%
Fonte: Rielaborazione personale basata su dati di Casaleggio Associati, 2017
68
La presenza di aziende italiane sui mercati esteri, in termini di vendita, si
attesta al 20% in Francia, seguita dal 18% tedesco, il 15% inglese e
l’11% in Spagna; al di fuori dell’Europa la percentuale più importante è
quella statunitense del 10%.
69
Capitolo 3 – Prospettive future del commercio internazionale
3.1 Il contesto Europeo in generale
La prima forma di cooperazione economica europea, si è avuta nel 1957
con i Trattati di Roma e la nascita della CEE (Comunità Economia
Europea) con l’obiettivo, nel secondo dopo guerra, non solo di
promuovere la cooperazione economica, ma soprattutto di scoraggiare
nuovi conflitti.
In realtà, il primo passo era già stato fatto nel 1951 con la CECA
(Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), ma solo nel 1992 si è
giunti ad un’Unione oltre che economica (mercato unico che permette la
libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali) anche monetaria,
con l’introduzione dell’Euro con la stipula del Trattato di Maastricht73.
Il Trattato di Maastricht delineava i criteri di convergenza74 dei diversi
paesi per l’adozione della moneta unica, tra cui il rapporto deficit e PIL
73 Il Trattato di Maastricht, all’articolo 2 dichiara che la “Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’istaurazione di un mercato comune e di una unione monetaria, (…) uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche, (…) una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”. Per questo l’Unione Europea deve seguire un principio di sussidiarietà e intervenire solo se un’azione a livello comunitario risulti essere più efficace di un’azione promossa a livello nazionale o regionale. 74 In Europa vi è il paradosso della “convergenza divergente” perché dovrebbero convergere le diverse nazioni, ma è statisticamente provata una divergenza tra i diversi paesi, sia a livello nazionale che regionale. Solitamente esiste un centro convergente e una periferia divergente, tranne nel caso italiano con il Paese diviso tra il Nord e il Sud, le cui differenze non sono state dissipate dal Trattato di Maastricht.
70
non superiore al 3%, il rapporto debito pubblico e PIL non superiore al
60% e un’inflazione inferiore, ma vicina al 2% per mantenere stabili i
prezzi.
In questo modo, i paesi esportatoti, tra cui l’Italia, non hanno più potuto
godere del vantaggio della svalutazione della propria moneta, per
favorire le esportazioni e migliorare il proprio saldo commerciale, ma al
contrario, sono dovuti sottostare a direttive comunitarie restrittive con la
c.d. politica dell’austerità, che vede l’adozione di misure limitative che
frenano non solo la crescita economica in sé, ma anche la possibilità di
attuare investimenti, rientrando questi nel conteggio dei parametri del
3% e del 60%.
La scelta dei criteri di convergenza è stata arbitraria, in quanto la
struttura dei paesi membri è differente e cosi dovrebbero essere adottati
criteri diversi, mentre sono stati scelti gli stessi parametri in modo
arbitrario, per lo più per salvaguardare determinante nazioni rispetto ad
altre. Ad esempio, l’Italia ha un elevato debito pubblico, ma se il
parametro prescelto fosse stata la ricchezza privata, il Bel Paese sarebbe
tra le prime nazioni europee.
Anche la fissazione numerica dei parametri è del tutto arbitraria, ad
esempio, il criterio del 3% fu determinato da Guy Abeille, senza alcuna
riflessione né teorica, né economica, ma per essere un numero semplice
da imporre ai politici che volevano sfondare il tetto del rapporto
Questo ha vietato l’intervento dello Stato nell’economia, non ha ridotto le disparità economiche regionali, ma eliminando la Cassa del Mezzogiorno non ha finanziato le infrastrutture del Meridione, contribuendo indirettamente alla non riduzione del gap strutturale e minando il processo di integrazione europea, non contribuendo a creare un percorso coeso per quanto concerne il benessere dei propri cittadini che sopportano forti disparità interregionali.
71
deficit/PIL; una delle spiegazioni per la scelta di questo numero deriva
addirittura dal richiamo religioso e storico della S. Trinità, ma rimane
economicamente difficile da spiegare
Dal 2013 vige il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance
nell’unione economica e monetaria, altresì detto Fiscal Compact75, che è
stato sottoscritto da 25 dei 28 paesi facenti parte dell’Unione Europea, ad
esclusione di Croazia, Repubblica Ceca e dell’uscente Regno Unito, che
oltre a non dover rispettare questi stringenti vincoli, ha deciso di non
adottare la moneta dell’Unione76.
Il problema europeo non è la moneta unica, ormai irrinunciabile, ma il
dover sottostare degli Stati a parametri, tutti uguali, che non sono stati
adattati alle singole strutture nazionali e con la Banking Union anche la
vigilanza sul sistema bancario, prima della giurisdizione delle banche
centrali nazionali (la Banca d’Italia ad esempio), è passata alla BCE che
così ha implementato il proprio potere di controllo della politica
monetaria, cancellando la sovranità monetaria delle diverse nazioni,
essendo al contempo responsabile dell’emissione di carta moneta77.
75 A seguito del Fiscal Compact, è stata modificata la Costituzione per inserirvi il pareggio di bilancio e oggi la maggior parte delle leggi approvate in Parlamento non sono altro che ratifiche di regolamenti europei che si devono applicare. 76 G. Di Taranto, L’Europa tradita, Luiss University Press, Roma, 2014. 77 A. Saunders, M. Millon Cornett, M. Anolli, B. Alemanni, Economia degli intermediari finanziari, Mc Graw-Hill Education, Quarta Edizione, Milano, 2015.
72
3.2 La Brexit
Un altro fattore politico che andrà ad interessare le importazioni e le
esportazioni sia italiane che europee, è sicuramente il fenomeno della
Brexit.
Il pronostico è che sia un divorzio senza muri e che nulla o poco cambi
rispetto ai rapporti commerciali attuali, permettendo ad entrambe le parti
(Paesi membri dell’Unione e Regno Unito) di non perdere quei benefici
derivanti dal mercato unico. Il mercato britannico, per altro, rappresenta
il quarto mercato di sbocco per l’Italia e da solo corrisponde a 22,5
miliardi di euro a livello di export, valendo quanto Cina e Russia
insieme.
Il 2016 non è stato un anno particolarmente propizio per le esportazioni
italiane, con un incremento del solo 0,5%, anche se a dicembre c’è stato
un aumento del 4,6%, seguito dal picco di gennaio 2017 al 7,5%,
comunque le esportazioni oltremanica hanno portato l’Italia ad un
massimo storico di 7,6 miliardi in più rispetto al 2009, spingendo il
nostro paese ad un avanzo commerciale a quota 11,5 miliardi.
Diversamente dalla situazione americana, in questo caso l’ipotesi dei
dazi è piuttosto improbabile, anche se tutto dipenderà dai negoziati di
altri ambiti economici, comunque il Regno Unito difficilmente potrebbe
permettersi degli strappi commerciali tanto netti, vista anche la
svalutazione della sterlina, già scesa del 20% in poco più di un anno
rispetto all’euro, ma il resto dell’Unione non appare particolarmente
preoccupata; ora i prodotti italiani risultano più cari e vendere è più
complicato, ma Londra rimane un cliente imprescindibile per quanto
73
concerne il vino e il prosecco che verso la capitale del Regno indirizza il
36% delle proprie vendite. Il rischio per l’Italia può essere la perdita di
quote di mercato se si andranno a ridisegnare a vantaggio di altri paesi,
anche se ancora non si è avuto riscontro del fenomeno78.
Vista la situazione, una delle vie di uscita per i britannici potrebbe
essere quella di ristabilire l’adesione autonoma al Wto79 con gli stessi,
oppure molto vicini, margini sul commercio di beni che dovrebbero
coincidere o comunque avvicinarsi molto a quelli dell’Unione Europea.
La scelta inglese di poter avere campo libero negli accordi con paesi
terzi complica la situazione, perché le controparti preesistenti potrebbero
cogliere l’occasione per sottoscrivere nuovamente gli accordi presi,
rinegoziandone le condizioni, avvantaggiati anche dal fatto di avere
libertà decisionale per quanto concerne le regolamentazioni sulle origini
dei prodotti, la presenza degli OGM e gli altri adeguamenti previsti dagli
standard europei; altro obiettivo dei britannici potrebbe essere quello di
arrivare ad intese con Stati Uniti, India e Giappone prima che questi
paesi riescano a concludere le intese con l’Unione Europea80.
Occorrerà concentrarsi su quelle che saranno le relazioni tra l’Unione
Europea e l’Inghilterra, sia per quanto concerne l’uscita dall’Unione sia 78 L. Orlando, Le imprese italiane. Improbabili al momento le barriere commerciali rilevanti. Rischio-dazi per ora remoto, ma preoccupa la sterlina, «Il Sole 24 Ore», 30 marzo 2017. 79 Wto “organizzazione mondiale del commercio”, è un’organizzazione internazionale che dal 1995 (sostituendo la funzione del GATT) ha lo scopo di supervisionare gli accordi commerciali tra gli stati membri. Vi sono iscritti 164 Paesi con una copertura di oltre il 95% del commercio mondiale di beni e servizi; ha sede a Ginevra, in Svizzera. 80 L. Maisano, Scambi con la Ue in calo fino al 30%. L’uscita dal mercato unica sarà pesante se Londra non otterrà condizioni di favore, «Il Sole 24 Ore», 30 marzo 2017.
74
per gli accordi di tipo commerciale che potranno essere negoziati solo
una volta che i primi siano conclusi, tuttavia le decisioni di entrambi i
trattati sono interdipendenti.
Il nodo centrale è la partecipazione al mercato unico europeo che
permette agli Stati che ne fanno parte di avere rapporti commerciali
come se fossero parte di un unico grande Stato; quando il Regno Unito
porterà a compimento l’iter per uscire dall’Unione perderà questo
privilegio, anche se ci sono dei casi di alcuni paesi esteri che godono di
particolari benefici partecipando al mercato unico, la soluzione potrebbe
essere la medesima per l’Inghilterra, anche se ci sono in gioco interessi
politici, economici, di rispetto di volontà popolare inglese e di credibilità
internazionale dell’Unione Europea che potrebbero portare alla decisione
di intraprendere altre strade, anche per il rischio di emulazione da parte
di altri paesi che porterebbe ad un’instabilità generale politica,
economica e monetaria (ad esempio si è parlato della possibilità per la
Francia di attuare un referendum per la Frexit).
Occorre immaginare in questo panorama, anche se non vi è certezza, gli
impatti economici sia sul Regno Unito sia sul resto dei Paesi coinvolti.
Varie statistiche sono state effettuate, prima del referendum, dall’
OCSE81 e dal FMI che hanno cercato di fare delle previsioni proiettate su
diversi scenari, uno più stabile, uno negativo e uno fortemente negativo e
avverso all’uscita dall’Unione.
81 L’OCSE, Organizzazione per la cooperazione e per lo sviluppo economico, è un’organizzazione internazionale che si occupa di studi economici per i paesi membri (35 attualmente) e i paesi sviluppati di stampo democratico con un’economia di mercato, come il FMI è nata dall’esigenza di un piano comune di cooperazione tra diversi paesi nell’immediato secondo dopoguerra; ha sede a Parigi.
75
Nonostante entrambi gli Organismi Internazionali abbiano concordato
sugli effetti negativi che avrebbe comportato la Brexit molto prima della
corsa alle urne, il popolo inglese ha decretato la fine del rapporto con
l’Unione, forse con una decisione presa alla leggera, visto che Google
attesta che il picco di ricerche su “Unione Europea” in Inghilterra si sia
registrato solo dopo l’uscita dei risultati, come se i diretti interessati non
sapessero effettivamente su cosa erano stati chiamati ad esprimere il
proprio voto.
È stato aspettato il 2017 per iniziare l’iter del divorzio per non
influenzare le votazioni alle urne di altri Paesi, come ad esempio la
Francia, che nelle elezioni di maggio ha visto vincere l’europeista
Macron con il 66,1% di preferenze sulla rivale Le Pen, riuscendo a non
fare spostare consensi verso il partito euroscettico, nonostante i recenti
attentati di Parigi82.
Una soluzione per gli inglesi potrebbe essere la c.d. ipotesi Norvegia, in
quanto l’impatto economico negativo sarebbe per lo più arginato. Questa
ipotesi consentirebbe anche all’Inghilterra, come già accade alla
Norvegia, di non essere un Paese dell’Unione, ma di continuare a fare
parte del SEE (Spazio Economico Europeo).
Il SEE è una sigla coniata per rappresentare il Mercato Unico Europeo
che comprende oltre ai paesi membri, anche i paesi facenti parte
dell’EFTA (Norvegia, Islanda e Liechtenstein).
La Norvegia può quindi partecipare al libero scambio commerciale con
l’Europa senza sopportare il Fiscal Compact, il Fondo europeo Salva-
Stati e il dover adottare la moneta unica (per altro il Regno Unito non ha 82 In riferimento alla sparatoria agli Champs Elysées del 20 aprile 2017 rivendicata dall’ISIS.
76
mai abbandonato l’uso della sterlina in favore dell’euro); non è stabilita
una tariffa doganale esterna comune non essendoci un’unione doganale,
ma la Norvegia, con tutti i Paesi del SEE, ha accettato le quattro libertà
fondamentali con le relative politiche in materia di trasporti,
concorrenza, energia e cooperazione economica e monetaria.
Se il Regno Unito seguisse questa opzione manterrebbe quello che oggi
è il suo mercato, ma senza avere vincoli su tutti i settori previsti dai
trattati dell’Europa, avendo maggiore libertà in materia di: politiche
agricole e ittiche, unione doganale, economica e monetaria, politica
commerciale comune, politica estera, giustizia, affari interni e infine
politica estera e sicurezza comune; i sostenitori della manovra reputano
che questa soluzione sia conveniente, in quanto la competenza
dell’Unione Europea sarebbe ancora vincolata ai singoli settori del
mercato interno.
Il reale problema per l’applicazione dell’”ipotesi Norvegia” per il Regno
Unito, con maggiore potere contrattuale rispetto alla Norvegia stessa
avendo un ‘economia più forte, è il fatto di non potere più avere diritto di
voto e di veto per quanto riguarda qualsiasi procedimento legislativo
all’interno del Consiglio Europeo.
Il mercato unico per gli inglesi risulta essere la soluzione migliore; qui si
vanno a sommare e a confluire le economie dei diversi Stati che devono
sottostare a degli standard normativi e qualitativi comuni, anche per
quanto riguarda i contratti di lavoro, in modo che non vi sia una
concorrenza sleale o falsata, ma che tutto sia a parità di condizioni,
essendo questo punto direttamente correlato al rischio di migrazione che
può accendere un flusso tra paesi poveri e paesi ricchi facenti parte dello
77
stesso mercato comune; inoltre queste stringenti normative non
permettono l’esportazione in un paese membro di un prodotto che non
rispetti gli standard di sicurezza o in cui vi sia presenza di OGM. Al
contrario non si possono discriminare prodotti provenienti da altri Stati
membri perché sottostanno, sin dal principio, alle stesse normative.
Nel libero mercato, invece, potrebbero circolare tranquillamente
prodotti, per esempio americani, modificati geneticamente o che non
rispettino in generale una delle normative europee; situazione che si
sarebbe creata se l’Unione Europea si fosse accordata con gli Stati Uniti
sul TTIP, armonizzando le normative verso omologazione e
standardizzazione, abbattendo dazi doganali e barriere tariffarie per
integrare i mercati.
Diverso è il discorso per la Svizzera che ha concordato con l’Unione una
serie di accordi separati, ben 120 accordi bilaterali redatti e siglati in
tempi successivi; l’accordo non è per un mercato unico, bensì per il
libero scambio, volendo standardizzare norme di aspetti complementari
come imballaggi e standard di sicurezza per facilitare gli scambi, senza
abbattere barriere non tariffarie o dazi.
Il Regno Unito continua a crescere più della media dei paesi
dell’eurozona, grazie al fatto di non essere ancorato al vincolo di
bilancio derivante dall’adozione della moneta unica. Se sarà rispettata la
volontà del popolo inglese, l’Inghilterra dovrà necessariamente uscire
dal mercato unico, seguendo il modello svizzero, che dovrà essere
adattato e avrà bisogno di lunghi tempi di gestazione per essere
applicato, rispetto al modello norvegese, ma farà si che gli inglesi non
debbano più sottostare alle normative imposte da Bruxelles.
78
L’Inghilterra tra il 2013 e il 2015 si era ripresa bene dalla crisi
economica mondiale, riuscendo a crescere, secondo il FMI, nel 2013 del
1,7%, nel 2014 del 3% e nel 2015 del 2,5%, ma occorre considerare che
il PIL è aumentato solo grazie ai consumi delle famiglie che si sono
dovute indebitare per sostenere il proprio standard di vita, facendo
lievitare il debito privato fino al 125% del PIL, senza avere il supporto
degli investimenti interni o delle esportazioni con una bilancia
commerciale in perdita costante che fa temere addirittura una possibile
bolla speculativa nel settore immobiliare e il possibile
ridimensionamento del rating anglosassone che potrebbe togliere una A
sui titoli della City.
A questo proposito l’OCSE, il FMI e la Banca d’Inghilterra hanno
cercato di concepire dei possibili scenari.
L’OCSE, per il 2016, segnalava una crescita dell’1,7% del PIL e del 2%
per il 2017, dando per scontato, come i sondaggi, che l’Inghilterra non
avrebbe deciso di abbandonare l’Unione Europea, ma la proiezione nel
caso contrario dava un calo del 0,5% del PIL del 2017 e del 2018,
mentre quello del 2019 sarebbe sceso dell’1,5%, fino ad arrivare nel
2020 a -3,3%, con un costo di 2.200£ a famiglia, mentre nel 2030
sarebbe sceso in maniera ancora più catastrofica. In una visione più
ottimistica, il potere d’acquisto sarebbe dovuto scendere del 2,7% (costo
di 1.500£ a famiglia); in una prospettiva mediana, invece, la perdita del
PIL sarebbe circa del 5,1% con un costo familiare di 3.200£; la
prospettiva peggiore invece attestava una perdita del 7,7% del PIL con
un costo per famiglia di 5.000£.
79
Contestualmente il commercio internazionale dovrebbe diminuire, a
seconda degli scenari, rispettivamente del 10, 15 e 20%, sarebbe
impattante maggiormente nel breve periodo, con un calo dell’8,1% se si
dovesse ricorrere alla clausola della nazione preferita.
Nell’Agosto del 2016 però è stata registrata una ripresa dei consumi,
dopo il calo di Giugno dello 0,9%, a Luglio i consumi erano risaliti
dell’1,5% con le previsioni che stimavano lo 0,2%; questo fenomeno
però è da considerarsi solo temporaneo, in quanto il boom delle vendite è
stato effettuato grazie al periodo di vacanza degli stranieri con una
maggiore concentrazione di turisti avvantaggiati dal cambio favorevole
della sterlina, sia rispetto all’euro che al dollaro e questo si può evincere
anche dall’aumento delle vendite in determinati settori, come quello dei
gioielli.
Secondo l’OCSE, nel 2018, la Brexit, dovrebbe impattare sugli altri
paesi europei dell’-1,1% (per l’Inghilterra -1,3%), ma nel 2020 le
proporzioni aumenterebbero, costando ai paesi dell’Unione -0,9% contro
la perdita della Gran Bretagna al -3,3%, per poi diminuire intorno al
2023, con una perdita europea media del -0,8% contro un calo inglese
del -2,5%, evidenziando come gli inglesi staranno peggio, ma la perdita
si rifletterà anche sulle altre nazioni coinvolte, essendo il Regno Unito
uno dei maggiori mercati di sbocco per gli altri paesi membri,
conseguentemente se la sua economia e di riflesso la sua domanda
dovesse subire un forte calo, gli effetti non tarderebbero a manifestarsi
nei paesi esportatori.
Altri economisti sostengono invece che la Brexit costerà meno di queste
previsioni, perché se la perdita del PIL fosse tra il 2 e il 3% e l’iter di
80
uscita dal mercato unico dovesse durare una decade, il costo reale
sarebbe in media solo dello 0,2-0,3% annuo e in compenso la sterlina
svalutata farebbe aumentare le esportazioni soprattutto verso paesi extra-
europei che valgono ad oggi il 7% (Paesi europei solo il 5%).
Oltre all’OCSE, anche il Fondo monetario internazionale (FMI) ha fatto
delle previsioni che vedevano nel futuro dell’Inghilterra la permanenza
in Europa, con un PIL inglese che, secondo questi dati, si sarebbe
incrementato dell’1,9% nel 2016, del 2,2% nel 2017 e nel 2018, per poi
incrementarsi dell’2,1% fino al 2021. Aveva previsto in caso di Brexit,
due scenari, uno positivo con una crescita rallentata, ma positiva e uno
scenario molto nefasto, con una crescita del prodotto interno lordo
dell’1,1% per il 2016 e un’inflessione dell’-0,8% nel 2017, con una
piccola ripresa dal 2018 con +0,6% (nel 2019 +1,7%, nel 2020 +2,6%,
nel 2021 +2,9%). Il FMI ha quantificato una perdita di PIL che varia tra -
1,5% e -5,6% per il 2019, ma a differenza dell’OCSE, ha cercato di
configurare nel modo più attendibile possibile il ruolo e il peso della
Gran Bretagna in rapporto all’Unione Europea, con essa o senza di essa.
Con il contributo del Regno Unito, l’Europa avrebbe potuto ambire ad
essere un territorio ricco quasi come l’America, mentre l’Inghilterra in
solitaria faticherà a competere con potenze che, anche a livello si
espansione territoriale, sono molto più grandi. L’elaborazione di questi
dati è una delle missioni principali del FMI, in quanto, questo organismo
sovranazionale è nato per indirizzare e influenzare le politiche
economiche delle grandi potenze mondiali, grazie alla raccolta e alla
distribuzione di dati reali dell’economia globale tutta e alla successiva
rielaborazione di questi in un’ottica proiezionista che serva a supportare
81
le scelte economiche, riducendo l’incertezza dei mercati, anche per
incentivare una maggiore cooperazione mondiale e dare una spinta agli
investimenti di ricerca e sviluppo per sostenere una crescita non solo
meramente economica; nel caso della Brexit, questi dati sarebbero dovuti
servire a veicolare anche l’opinione pubblica.
Altro nodo cruciale per il dopo Brexit, secondo l’OCSE, sarà il tema
dell’immigrazione che rappresenta uno dei motivi che ha spinto gli
inglesi ad uscire dalla comunità europea, ma che potrebbe avere gravi
ripercussioni sulla produttività del paese, avendo, in realtà, come effetto
collaterale, proprio un aumento della disoccupazione dei nativi, cosa che
invece si voleva scongiurare proprio arginando il fenomeno migratorio.
Sono infatti le competenze dei lavoratori stranieri ad incrementare la
produttività inglese, se questa dovesse perdere terreno, ci sarebbe un
peggioramento generale delle condizioni economiche del Paese, che da
solo spingerebbe gli Europei a non recarsi più oltremanica, anche perché
sono gli alti stipendi a spingere in quella direzione la c.d. fuga di
cervelli, venuto meno questo principio, non arriverebbe più il personale
altamente competente, ma ci sarebbe un numero maggiore di lavoratori
meno qualificati che porterebbe ad una sbilanciamento del tessuto
lavorativo, con una riduzione progressiva delle competenze e degli
stipendi e di conseguenza della qualità del management che non
godrebbe più degli investimenti attuali.
Ad aprile 2017, raccolti i dati, si vedono i primi contraccolpi sul PIL che
per la prima volta in Inghilterra rallenta, registrando solo un incremento
dello 0,3% nel primo trimestre, con un tasso di crescita annuale del 2,1%
rispetto al 2,2% previsto; il calo dei consumi (dovuto al rallentamento
82
dell’occupazione che con un tiepido aumento degli stipendi rimane
inferiore rispetto alla crescita dell’inflazione), delle vendite al dettaglio
(con una flessione dell’1,4% a marzo, la peggiore degli ultimi 7 anni) e
delle vendite nel settore automobilistico, sono la causa principale del
rallentamento del PIL, che ha registrato la prima contrazione dal 2012
per quanto riguarda gli alberghi e i ristoranti83.
3.3 Dal TTIP al protezionismo di Trump
Ttip, acronimo di “Translatlantic trade and investiment partnership”84,
sarebbe dovuto essere un accordo commerciale di libero scambio tra
Stati Uniti e Unione Europea. La negoziazione, iniziata nel 2013, adesso
è da considerarsi conclusa, in quanto il 14esimo negoziato è fallito e
sotto la presidenza di Trump probabilmente non ci sarà un altro step.
L’obiettivo dichiarato era quello di integrare i mercati, riducendo i dazi
doganali e le barriere non tariffarie ossia le norme e le regolamentazioni
di omologazione e standardizzazione dei prodotti. I promotori del trattato
sostenevano che lo stesso, oltre all’integrazione del mercato americano
con quello europeo (due mercati profondamenti diversi sia per struttura
che per regolamenti tecnici) avrebbe condotto ad una crescita economica
per i paesi partecipanti, mentre i critici di contro vedevano una
standardizzazione che avrebbe portato ad una carenza di trasparenza. La
mancanza di tutela dei diritti dei consumatori è stata sostenuta dal
83 N. Degli Innocenti, Brexit, primi contraccolpi sul PIL, «Il Sole 24 Ore», 29 aprile 2017. 84 Il TTIP è il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti.
83
premio Nobel Joseph Stiglitz soprattutto nell’ambito dell’agroalimentare
e del farmaceutico.
Per l’amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghinozzi, invece, i
benefici potenziali del Ttip sarebbero stati soprattutto per le PMI, però
questo trattato non sarebbe bastato perché si sarebbero dovute fare prima
di tutto delle riforme a livello strutturale in Europa per dare, anche
all’America, un segnale di maggiore integrazione politica essendo il
nostro continente troppo sbilanciato sui singoli Stati.
Il concetto alla base del Ttip vuole l’integrazione dei mercati globali con
un’armonizzazione delle regole, vista come essenziale, ma che di fatto
viene esercitata dagli Stati Uniti che avrebbero dettato legge su standard
comuni di emissioni, lavoro e in materia di proprietà intellettuale85.
Così l’Unione Europea non è rimasta passiva rispetto alle decisioni
dell’amministrazione americana, che si è per altro andata a scontrare con
l’opinione pubblica statunitense che vedeva il Ttip come una minaccia
per la working class americana, per altro sia in Germania86 che in
Francia, l’opinione pubblica si era a sua volta schierata contro il trattato
per tutelare l’ambiente e per la paura dell’introduzione di OGM
(organismi geneticamente modificati), oltre che per la salvaguardia dei
posti di lavoro87.
Trump ha reputato il TTIP come un trattato che sarebbe stato un duro
colpo per l’industria americana, in quanto, secondo il neopresidente, la
85 G. Barba Navaretti, L’Europa chiuda il Ttip per non essere spiazzata«Il Sole 24 Ore», 14 ottobre 2015. 86 La Germania, si è schierata contro il trattato sia dal lato istituzionale che dal lato dell’opinione pubblica. 87 An. Man. Ttip, negoziati falliti: salta il trattato di libero scambio Usa-Ue, «Il Sole 24 Ore», 28 agosto 2016.
84
mondializzazione ha annientato la classe media, inoltre, ha accusato la
Clinton, di avere cambiato idea sul TTIP all’inizio della campagna
elettorale, mentre l’aveva sostenuto durante il suo mandato di Segretaria
di Stato nell’amministrazione di Obama.
La Camera americana di commercio, solitamente vicina ai repubblicani,
si è dichiarata contraria al TTIP, sostenendo che avrebbe comportato un
aumento dei prezzi, della disoccupazione e in generale un indebolimento
dell’economia con un pericolo di recessione; i sondaggi hanno mostrato
che il 57% degli americani è contrario a questi accordi, percentuale che
arriva al 69% tra i sostenitori di Trump, al 60% tra i repubblicani in
generale e al 49% tra i democratici88.
Un altro nodo del trattato è stato il riconoscimento delle denominazioni
europee (ed in particolar modo italiane) negli Stati Uniti. Infatti, in
America le denominazioni sono rappresentate da marchi e imprese,
mentre in Europa vige il regolamento 1151/2012 art. 49 che riconosce le
denominazioni D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta), D.O.C.
(Denominazione di Origine Controllata), D.O.C.G. (Denominazione di
Origine Controllata e Garantita), I.G.P. (Indicazione Geografica
Protetta), I.G.T. (Indicazione Geografica Tipica), S.T.G. (Specialità
Tradizionale Garantita), P.A.T. (Prodotto Agroalimentare Tradizionale)
e infine BIO (Biologico), che sono difficilmente armonizzabili con
quelle americane.
Per quanto concerne il latte e i suoi derivati in generale, invece, dovrà
essere indicata l’origine delle materie prime in modo che sia “chiara,
visibile e facilmente leggibile”, questo, secondo il ministro Martina 88Dati da Brookings Institution, un centro di ricerca no-profit, fondato nel 1916 con sede a Washington.
85
porterà ad un rapporto più sicuro e trasparente tra consumatori,
produttori e allevatori, ma è solo un primo passo, perché in un prossimo
futuro l’obbligo sarà esteso ad altre categorie di prodotti, a partire da
pasta, riso e grano (come annunciato l’8 maggio) 89, tranne per i prodotti
D.O.P. e I.G.P. che sono già disciplinati da una propria normativa per
quanto concerne la tracciabilità delle materie prime90.
Anche l’etichettatura è profondamente differente, infatti in America e in
Australia si vorrebbe avviare una campagna di sensibilizzazione contro il
vino e gli alcolici con delle diciture simili a quelle che in Europa si
riscontrano sui pacchetti di sigarette e tabacchi, mentre in Paesi, come
l’Italia o la Francia, questa preoccupazione non ha alcun riscontro91.
Proprio il fallimento delle trattative sul Ttip ha fornito
all’amministrazione americana l’occasione per riaprire il fascicolo sui
dazi da imporre al vecchio continente.
Dopo il fallimento del Ttip, Trump, al grido di “America First” (prima
l’America) ha deciso di continuare la guerra commerciale americana nei
confronti dell’Europa, infatti l’amministrazione americana starebbe
studiando una serie di dazi punitivi fino al 100% del valore di alcuni
prodotti europei, una ritorsione contro i paesi comunitari per avere
ridotto le importazioni dagli Stati Uniti di carni bovine trattate con gli
ormoni, lo attesta il “the Wall Street Journal” che cita tra i prodotti nel
89 R. Iotti, Annuncio del ministro Martina all’apertura di Tuttofood: si ampliano le tutele per le produzioni «Made in Italy, «Il Sole 24 Ore», 9 maggio 2017 90 R.I.T., Da domani nell’etichetta l’origine di latte e formaggi, «Il Sole 24 Ore», 18 aprile 2017 91 G. Dell’Orefice, Ttip, troppo peso alla tutela D.O.C., ed. 9/16, Tabloid n. 35 p.6.
86
mirino la Vespa della Piaggio e l’acqua San Pellegrino 92 (azienda
italiana nata a Bergamo, ma ora controllata dalla svizzera Nestlé).
Inoltre, i dazi di Trump coinvolgerebbero i prosciutti crudi e questo
andrebbe a colpire pesantemente le piccole e medie imprese del nord e
centro Italia.
Trump avrebbe colto così l’occasione per dare un segnale forte agli
allevatori statunitensi che si lamentano di un mercato europeo chiuso nei
confronti dei loro prodotti sin dagli anni Novanta.
Le esportazioni italiane verso gli Stati Uniti ogni anno sfiorano il valore
di 37 miliardi di euro (36,927 miliardi nel 2016, in crescita del 2,6%
rispetto ai 35,9 miliardi del 2015, mentre nel 2014 avevano sfiorato i 30
miliardi con un incremento del 10% rispetto al 2013. Gli Stati Uniti
invece esportano in Italia beni per 13,9 miliardi93) con:
• auto per 3,9 miliardi (con 2 milioni di FCA, la Ferrari ha esportato
2141 pezzi e la Maserati 1380);
• agroalimentare per 3,8 miliardi;
• macchinari per 2,4 miliardi;
• navi e imbarcazioni per 1,9 miliardi94 ;
92 San Pellegrino ha chiuso il bilancio 2016 con 3,7 miliardi di bottiglie prodotte per un fatturato di 895 milioni, che per oltre il 50% è dato dai mercati esteri; ha registrato un lieve calo rispetto al 2015 (anche perché due anni fa c’è stata l’esperienza Expo che ha confermato la leadership nel settore della ristorazione) crescendo comunque del 6,9% nel 2016. Il mercato di San Pellegrino si affida molto alle esportazioni internazionali, nel 2016, è cresciuto nel Regno Unito del 10,7%, in Francia del 10,6%, negli Stati Uniti dell’8,2% e in Germania del 5%. 93 L. Cavestri, A rischio il 13% del food esportato. Nel mirino circa 700 milioni di made in Italy (alimentare e moto) venduto negli Usa, «Il Sole 24 Ore», 31 marzo 2017. 94 Fonte ICE, www.ice.gov.it.
87
Nel mirino di Trump c’è l’iconica Vespa della Piaggio che vende negli
Stati Uniti circa 5.000 scooter ogni anno, ma la notizia dei dazi non
preoccupa l’azienda, infatti, per il Gruppo il mercato americano degli
scooter e dei 150 corrisponde a meno del 5% del fatturato; più
preoccupato è invece Vittore Beretta, presidente dell’omonimo gruppo
degli insaccati, che incassa il 20% del proprio fatturato proprio dagli
Stati Uniti, con 100 milioni di euro di salumi a rischio dazio; per altro le
specialità italiane (dal prosciutto di Parma al San Daniele) devono,
88
essendo prodotti a denominazione, essere prodotti necessariamente in
Italia95.
Secondo Coldiretti le esportazioni italiane negli Stati Uniti rappresentano
il 10% dell’export agroalimentare italiano nel mondo, il vino è tra i
prodotti più gettonati con un valore di 1,35 miliardi, davanti ad olio (499
milioni), formaggi (289 milioni) e pasta (271 milioni).
Secondo il Consorzio Tutela, il Bel Paese ha esportato 225 mila forme di
parmigiano reggiano nel 2016 con un incremento del 34% rispetto al
2014 nonostante gli infiniti tentativi di imitazione, questo il vero rischio
secondo Coldiretti. Con la chiusura delle frontiere in America
aumenterebbero in maniera esponenziale i prodotti contraffatti del Made
in Italy e un forte impulso deriverebbe anche da quelle aziende che in
rete vendono polveri miracolose che dicono capaci di riprodurre i sapori
e gli aromi delle nostre etichette di vini più prestigiose; ma la lista
sarebbe troppo lunga perché purtroppo la contraffazione a stelle e strisce
dei prodotti italiani continua a incrementarsi e colpisce tutti i comparti
delle esportazioni.
95 E. Scarci, Le specialità a denominazione d’origine non possono essere lavorate negli stabilimenti americani. “I Prodotti D.O.P. sono i più colpiti”, «Il Sole 24 Ore», 31 marzo 2017.
89
Durante i giorni dell’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti,
alcuni analisti ipotizzavano il possibile impatto delle esportazioni
italiane verso gli Stati Uniti, che sono il terzo paese di destinazione dopo
Germania e Francia. Aumentando le tariffe al livello per esempio di
trent’anni fa, l’aggravio per le imprese nostrane sarebbe di 800 milioni di
euro, il 2% circa. Problema maggiore potrebbe essere la riforma fiscale
che dovrebbe prevedere una tassazione del 20% su tutto quello che entra
nei confini americani (con un impatto interno per gli americani, calcolato
con una spesa media di 500 dollari a famiglia, che in Stati come
Michigan e Texas salirebbe a 2.288 dollari e 1.836 dollari, con una
border tax nelle automobili complessiva di 60 miliardi, 3.300 dollari per
veicolo96).
96 M.Valsania, Si temono aumento dei prezzi, anche attraverso la componentistica e ritorsioni sulle esportazioni. Imprese Usa contro i dazi di Trump; dal settore agricolo all’automotive, cresce la protesta dei produttori americani, «Il Sole 24 Ore», 2 aprile 2017.
90
Si tratterà, quindi, di capire se si muoverà prodotto per prodotto come
sembra dalle prime dichiarazioni, oppure se si coinvolgeranno tutte le
categorie di merci e servizi, ma potrebbe anche essere semplificato
brandendo l’arma delle sanzioni a rotazione che nel tempo andranno a
colpire gruppi diversi di prodotti.
Se questo accadesse, con il trionfo del protezionismo e del
mercantilismo americano, a protezione della penetrazione del mercato da
parte di manufatti soprattutto di origine asiatica, iniziata negli anni
Novanta, Trump non farebbe altro che mettere in moto uno dei tre
pilastri del suo programma che erano appunto le barriere doganali, la
riduzione delle tasse e la costruzione delle infrastrutture. È un tema di
misura. Se l’amministrazione americana mettesse delle barriere doganali
fino al 10% non dovrebbe essere un grave problema, se le pone al di
sopra del 30-40% si scatenerebbe una guerra commerciale più che una
politica fiscale, tale da modificare il profilo del commercio
internazionale, allora il mondo post-Trump potrebbe addirittura trovarsi
in una condizione post-globalizzazione, anche se è troppo presto per fare
una congettura così netta.
Dobbiamo sempre ricordare che queste ideologie sono presenti sin dai
tempi del presidente Bush e che la democrazia americana è forte e salda,
capace di mettere a freno alcune delle idee radicali del suo presidente e
che il soggetto economico particolarmente protezionista nei confronti
dell’agricoltura è l’Unione Europea, che ha un’agricoltura frammentata
con la presenza di eccellenze, ma in linea di massima inefficiente.
Il settore primario è stato protetto per anni e assorbe gran parte dei
sussidi, ma bisogna aspettare a tirare le somme, avendo l’Unione
91
Europea, a ragione, contrastato la presenza di ormoni nella carne bovina
ad esempio, ma forse esagerato per quanto concerne la normativa sugli
OGM, forse a volte proprio per coprire il protezionismo.
Il centro studi di Confindustria, a proposito del protezionismo ha
evidenziato come questo sia stato implementato dai paesi facenti parte
del G20 nel periodo dal 2008 al 2016, con più di 4 mila misure,
aumentandole di più del 50% secondo il rapporto redatto dal Global
Trade Alert; in questo modo i paesi del G20 sono responsabili dell’80%
di queste restrizioni, andando così di conseguenza, a frenare, negli ultimi
5 anni, la crescita del commercio a livello globale e questa
decelerazione, oltre che al protezionismo, è dovuta a fattori strutturali,
aggravati da barriere e dazi97.
Confindustria conferma che il G7 di Taormina sarà, quindi, un vertice
decisivo per discutere di questa minaccia americana protezionistica
senza precedenti, perché non è possibile tornare al passato, rimuovendo
l’innovazione. Sarebbe un errore rispondere con la chiusura dei mercati,
perché senza un libero mercato non c’è alcuna possibilità di sviluppo e di
crescita; occorre quindi scommettere sul più grande motore di prosperità
della storia, la libertà economica, di mercato e di commercio.
Il libero mercato oltre a sostenere l’economia, sostiene i nostri valori:
democrazia, diritti umani, dialogo, contrasto al cambiamento climatico e
lotta comune al terrorismo. Non è questa l’epoca in cui le nazioni del
G20 possano pensare solo al proprio interesse e tornaconto personale,
per tenere il passo nelle trasformazioni e ridurre al massimo le disparità
sociali, occorre puntare sul welfare e sull’educazione. 97 N. Picchio, Verso il B7. Imprese a confronto in vista del vertice di Taormina. Dazi e tariffe non doganali zavorrano il commercio, «Il Sole 24 Ore», 30 marzo 2017.
92
Ciò detto, il vero problema americano è in realtà di origine fiscale e non
commerciale, perché Trump per abbassare le imposte vuole ridurre le
tasse corporate per finanziare gli investimenti in infrastrutture, facendo
rientrare la massa monetaria delle imprese americane, soprattutto quelle
high-tech, (forse grazie ad uno scudo fiscale) che hanno tenuto all’estero
i profitti in attesa di tempi migliori; con questi si dovrebbe innescare un
circolo virtuoso, con un ciclo di investimenti importanti.
93
CONCLUSIONI
Il protezionismo, alterando artificiosamente i prezzi, non porta ad
un’allocazione efficiente delle risorse per l’economia interna di un paese,
né dal lato occupazionale, né dal lato dei costi, in quanto, il paese
protezionista non può beneficiare, per esempio, di prezzi più vantaggiosi
di altri paesi, creando, a volte, il paradosso del paese povero che
sovvenziona il paese ricco. Ad esempio, nel 2002, gli Stati Uniti hanno
imposto un dazio del 30% sulle importazioni di acciaio brasiliano,
rendendolo più costoso di quello disponibile sul mercato interno; ciò ha
causato un inasprimento del prezzo del 20%, in questo modo le industrie
americane subivano uno svantaggio di partenza rispetto a quelle
giapponesi che continuavano a fornirsi in Brasile. Tale manovra, quindi,
sfatò il mito che il protezionismo fosse a salvaguardia dell’occupazione
statunitense, infatti, si conta che per ogni posto salvato dalla manovra,
se ne siano persi otto nel sistema economico98.
Per questi motivi non si può raggiungere l’autosufficienza nazionale in
un mondo globalizzato come quello odierno, nel quale i paesi risultano
sempre più interconnessi e si ha il dovere di sfruttare le sinergie, quando
profittevoli.
La globalizzazione, favorita dall’ICT, non si può dire che sia un
processo concluso; da un lato abbatte i costi di transazione, favorendo i
trasferimenti grazie alle nuove tecnologie Internet based, ma al
contempo porta a un appiattimento di competenze, bisogni e tradizioni,
che in precedenza hanno caratterizzato i diversi paesi e le diverse
regioni. 98 C. Scognamiglio Pasini, Op Cit., pp. 463-471.
94
La globalizzazione ha portato a una progressiva unificazione dei mercati,
permettendo un commercio a livello internazionale, basato sulla libera
circolazione di capitale e di merci, ma soprattutto di idee e di
innovazioni che superando i confini nazionali, si sono mosse verso i
paesi che attirano più investimenti e di conseguenza opportunità di
profitto. Nella sua accezione negativa la globalizzazione è vista come un
progressivo appiattimento delle differenze che rendevano unici i paesi,
uniformando prodotti, modelli, ma anche abitudini dei cittadini del
mondo, mentre nella sua accezione positiva rappresenta un’opportunità
per lo sfruttamento delle economie di scala, sia per la standardizzazione
dei processi, sia per la divisione internazionale del lavoro.
Un settore favorito dalla globalizzazione, grazie al sempre maggior
utilizzo del web e delle tecnologie ICT, oltre che alla crescente
diffusione degli smartphone, è il commercio elettronico che, anche in
periodi di crisi, sia nel Nuovo che nel Vecchio continente, è cresciuto
con tassi a doppia cifra, sia grazie alla riduzione dei costi, sia per i
vantaggi dovuti all’assenza di uno spazio fisico, oltre che per la fruibilità
del servizio ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette.
Il settore dell’E-commerce è sostenuto non solo da fattori economici, ma
anche di assortimento e acquisto consapevole, il tema della sicurezza,
prima controproducente – con il 63% dei clienti detrattori- oggi è da
considerarsi sorpassato grazie alla diffusione di nuovi servizi di
pagamento come le carte prepagate e le Paypal; inoltre, il commercio
digitale, se ben sfruttato, può essere coadiuvante per le vendite nei
negozi fisici.
95
L’Italia è ancora lontana dai livelli dei maggiori paesi europei e
dall’America, anche a causa degli scarsi investimenti, che, difficilmente
superano i 5 milioni diversamente dalle centinaia di milioni investiti
nelle altre nazioni; inoltre, una voce preponderante nei consumi degli
italiani è il Food&Grocery che nel mondo digitale ha una diffusione
piuttosto limitata, incidendo dello 0,35% sul totale degli acquisti retail,
diversamente da Francia, Inghilterra e Germania che hanno percentuali
comprese tra il 2% e l’8% per lo stesso settore.
Il Food&Grocery rappresenta il 90% degli introiti del settore
enogastronomico, con un incremento del 27% rispetto al 2015, per un
valore di quasi 520 milioni. Su questa scia, che accompagna non soltanto
l’E-commerce, ma anche le esportazioni in generale, si reputa che
soprattutto grazie alla reputazione e alla qualità riconosciuta a livello
internazionale, i prodotti Made in Italy, possano essere sempre più
esportati all’estero, dove purtroppo, complici i dazi e le barriere di natura
non tariffaria, persistono e aumentano, negli anni della crisi soprattutto,
sempre più le contraffazioni, sia nel settore enogastronomico, sia nel
settore moda, rendendo per i consumatori difficile distinguere i prodotti
italiani originali, dalle imitazioni. Ne è causa anche il commercio online,
soprattutto negli Stati Uniti, dove il fenomeno della contraffazione
cresce in maniera esponenziale (anche per la chiusura delle frontiere
voluta dal neopresidente protezionista) portando ad un aumento dei
prezzi per i consumatori americani che non riescono a distinguere le
etichette.
Per quanto concerne le prospettive per il futuro, l’auspicio è che in
generale, le esportazioni italiane, anche supportate dall’E-commerce, si
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mantengano positive, sia verso gli altri paesi europei, in particolar modo
verso l’uscente Regno Unito -quarto mercato di sbocco per l’Italia- (in
modo da non perdere quote di mercato che altrimenti andrebbero a
ridisegnarsi a favore di nazioni extraeuropee), sia verso l’America che è
passata dalle trattative per il TTIP alle idee protezionistiche di Trump
che vorrebbe imporre dei dazi punitivi, anche fino al 100% del valore,
colpendo beni italiani, come l’iconica Vespa della Piaggio.
Un’altra realtà di cui tenere conto, sono paesi come Cina e Giappone,
interessati soprattutto da settori, quali moda e agroalimentare
(quest’ultimo sia per la pasta con Barilla, sia per il prosecco anche “alcol
free”, esportato soprattutto nei paesi arabi) che sono i consumatori del
futuro.
La Cina e il Giappone hanno grandi opportunità di crescita grazie alle
rispettive curve demografiche che confermano un aumento della
popolazione sempre più importante, che insieme allo sfruttamento di
economie di scala e alle favorevoli condizioni di costo del lavoro –
dovute anche alle quantità di manodopera disponibile – potranno
importare sempre più prodotti. In particolare potrebbero aumentare
considerevolmente percentuali di importazioni di prodotti italiani, grazie
alla reputazione del Made in Italy, che soprattutto all’estero sono
sinonimo di qualità.
L’aumento delle importazioni per i cinesi e i giapponesi è supportato
dalla svalutazione delle rispettive monete: lo yuan cinese e lo yen
giapponese.
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