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LO SPORT PER TUTTI COME POSSIBILE STRATEGIA DI INCLUSIONE SOCIALE Indagine condotta sulla Provincia di Torino Novembre 2003 A cura del Prof. Nicola Porro

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LO SPORT PER TUTTI COME POSSIBILE STRATEGIA

DI INCLUSIONE SOCIALE

Indagine condotta sulla Provincia di Torino

Novembre 2003

A cura del Prof. Nicola Porro

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Presentazione E' con riconoscenza e con soddisfazione che, in qualità di direttore del progetto di ricerca, presento questo rapporto conclusivo. Si tratta di un lavoro collettivo, dedicato a un’analisi non convenzionale del sistema sportivo territoriale come possibile protagonista di politiche di inclusione. L'indagine, commissionata dalla Provincia di Torino, è stata realizzata da un gruppo di ricerca afferente all'Università di Cassino. La nostra riconoscenza va quindi all'Amministrazione provinciale, e in particolare agli assessori competenti, dott.ssa Silvana Accossato e dott.ssa Maria Pia Brunato, che hanno voluto raccogliere l'idea di una rilevazione empirica sul fenomeno, la prima del genere prodotta nel nostro Paese, e permetterne la realizzazione attraverso un'indagine condotta sul campo, in stretto contatto con dirigenti, esperti e operatori del settore. La gratitudine del gruppo di lavoro si estende perciò, e non si tratta di un riconoscimento protocollare, ai diversi protagonisti dello sport sociale torinese che hanno messo il loro tempo, la loro pazienza e la loro sensibilità culturale a disposizione dei nostri ricercatori. Se questo lavoro si dimostrerà capace, come speriamo, di produrre esiti scientifici e magari di ispirare qualche possibile traduzione operativa, lo si dovrà principalmente alla loro collaborazione. Mentre solo nostra sarà, come è giusto, la responsabilità di un'inadeguata o imprecisa recezione degli input che hanno inteso trasmetterci. La soddisfazione che voglio esprimere riguarda invece l'approccio metodologico che con questa ricerca abbiamo cercato di inaugurare. Certo non spetta a noi giudicare la qualità del prodotto finale, ma mi sia consentito evidenziare il tratto innovativo del lavoro condotto. Esso è consistito principalmente nel tentativo di integrare e far interagire due diverse tradizioni di analisi. Da un lato, si è fatto ricorso agli strumenti della classica sociologia qualitativa - interviste focalizzate, focus group di valutazione, analisi della cosiddetta letteratura grigia -, cercando di sottrarre la rilevazione al puro assemblaggio dei pur necessari dati statistico-descrittivi. L'idea guida è quella, su cui si è fondata l'emancipazione della sociologia del Novecento dalle discipline strumentali come la statistica e la demografia, che "i dati non parlano da sé". I fatti emergenti dall'analisi descrittiva dei fenomeni, al contrario, vanno sistematicamente interrogati, attingendo a quella fonte primaria che è rappresentata dagli osservatori privilegiati. Dall'altro, si è provato ad applicare al fenomeno sportivo diffuso i metodi propri di quel filone di studi - ispirato alla scienza politica - che va sotto il nome di policy analyis. Con l'obiettivo di individuare, al crocevia fra spontanea espansione della cultura della pratica e dinamiche di riforma della Pubblica Amministrazione, un concreto punto di riferimento per possibili politiche di settore. Sforzandoci di tenere insieme l'interpretazione dei processi e la ricostruzione delle logiche di governo amministrativo - in una stagione di radicali trasformazioni del sistema gestionale pubblico - abbiamo così voluto sperimentare una metodologia assolutamente inedita in Italia.

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Il tentativo, niente affatto accessorio, di sollecitare una riflessione sul tema del governo della complessità e dei suoi strumenti operativi, va del resto molto al di là della specifica tematica sportiva. Ai ricercatori non compete interferire nelle opzioni dei decisori pubblici, del resto sempre più condizionate da costrittivi vincoli di bilancio. Stimolare una riflessione prospettica, segnalare esperienze e possibili percorsi per l'innovazione - consapevoli di non poter fornire altro che ipotesi di lavoro da sottoporre alle impietose verifiche delle compatibilità amministrative - è la sola ambizione della nostra indagine. Rinnovando a nome dell'intero staff di ricerca il ringraziamento e l'apprezzamento per il contributo di tutti gli osservatori privilegiati che abbiamo avuto il piacere di avvicinare, mi sia permesso conclusivamente ringraziare quanti hanno concorso, ciascuno per la propria parte, a realizzare il progetto. Le colleghe professoresse Gabriella Arena e Silvana Casmirri hanno concretamete sostenuto, per conto del mio Dipartimento universitario, il progetto loro sottoposto e le sue traduzioni operative, mettendo a disposizione il prezioso supporto amministrativo della responsabile del settore, dott.ssa Filomena Valente, nonché una indispensabile integrazione finanziaria al nostro budget. La professoressa Giovanna Gianturco, dell'Università di Roma La Sapienza, ha curato la strumentazione metodologica dell'indagine qualitativa e la realizzazione di non poche interviste focalizzate. A lei si deve anche la nota metodologica che presentiamo a corredo del lavoro. Le dottoresse Rosanna d'Iorio, Paola Pappalardo e Dascia Sagoni, con i dottori Eros Cosentino e Luigi Pietroluongo e con il supporto tecnico-scientifico del Cirsel (Centro Internazionale per le Ricerche sullo Sport E il Loisir), hanno concretamente realizzato buona parte del lavoro di raccolta dei materiali empirici e di elaborazione delle informazioni, nonché la presentazione grafica dei testi. Un sincero ringraziamento, infine, al personale della Provincia di Torino che ha fattivamente facilitato il nostro lavoro e accompagnato con simpatia e disponibilità il nostro tentativo di "immersione" nel contesto locale. Cassino novembre 2003

Nicola Porro

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Premessa Pensare o ripensare le strategie d’intervento dei poteri locali in materia di

inclusione sociale appare concettualmente difficile senza preventivamente affrontare la necessità di una ridefinizione del contesto di riferimento. In altre parole: possiamo ancora fare riferimento a nozioni come quelle di città metropolitana, di ente intermedio, di ambito subregionale e tutte le altre che hanno di volta in volta aggiornato il lessico amministrativo della politica? E possiamo ancora sforzarci di analizzare il rapporto fra istituzioni e cittadinanza al di fuori delle trasformazioni intervenute sul terreno della legislazione territoriale? Trasformazioni, va ricordato, che hanno interessato la stessa legge fondamentale dello Stato, con la modifica del titolo V della Carta costituzionale.

L’attenzione allo sport come nuovo, potenziale diritto di cittadinanza va d’altronde intesa come una concreta e innovativa strategia dell’inclusione. La quale si rivolge, appunto, a nuovi cittadini della pratica fisico-motoria, cioè a soggetti individuali e collettivi (anziani, immigrati, disabili, giovani a rischio e tutte quelle aree di popolazione esposte al pericolo della marginalità) non appartenenti al classico sistema della prestazione agonistica. Lo sport, cioè, può diventare, come spiega Silvana Accossato, assessore al turismo e allo sport della Provincia di Torino:

“…elemento di socialità e aggregazione delle diverse fasce di età e anche dei territori; delle

comunità, dei quartieri, attorno a polisportive, piuttosto che all’aperto. Possono nascere aggregazione sociale, interessi condivisi, volontà di partecipazione dei cittadini alla gestione che ovviamente, sono l’elemento di miglioramento”.

I due aspetti della questione - la ridefinizione del contesto e delle strategie di

azione dei poteri locali, da un lato, e la sperimentazione dello sport come strategia di inclusione sociale, dall’altro - appaiono necessariamente connessi e meritevoli di una preliminare riflessione.

Si tratta, insomma, di inserire a pieno titolo lo sport nella cornice delle politiche sociali e di definire più precisamente quale tipo di politiche sociali, orientate all’inclusione, possano rientrare nelle competenze e nel raggio d’azione dei poteri amministrativi locali. Tenendo d’occhio quella complessa dinamica sociologica che interessa non solo la dimensione burocratico e funzionale del problema, ma anche il silenzioso ridisegno dei suoi confini culturali e sociali.

Le conclusioni della ricerca che qui proponiamo non hanno, come è ovvio, la pretesa di fornire risposte esaustive e perentorie a questioni tanto delicate e persino controverse, sia sotto il profilo della teoria sociale sia dall’angolo visuale della politica istituzionale. L’ambizione è piuttosto quella di individuare, circoscrivere ed esplicitare, sulla base delle informazioni e delle testimonianze raccolte con complementari metodi di indagine sociologica, le domande che i poteri locali, nella loro autonoma responsabilità, potrebbero trovarsi di fronte in un breve volgere di tempo. Domande che richiedono strategie di risposta, flessibilità di analisi e costante attenzione ai mutamenti. È questo il possibile contributo che è lecito attendersi dal

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lavoro di ricercatori che non hanno, e non possono avere, la pretesa di sostituire le loro indicazioni alle legittime e sovrane ragioni delle responsabilità politiche. Lo scopo dell’indagine è piuttosto quello di fornire stimoli e strumenti scientificamente adeguati all’autonoma elaborazione delle strategie politiche degli attori istituzionali.

Si tratta ora, perciò, di elencare le questioni cruciali sulle quali soffermeremo la

nostra attenzione. 1. Entro quale contesto territoriale di riferimento una strategia pubblica di

inclusione attraverso lo sport può trovare senso e prospettiva? Le tradizionali unità amministrative (circoscrizioni, comuni, province, regioni ecc.) coincidono con gli spazi sociali entro i quali possono dispiegarsi efficaci esperienze di attività?

2. A quale configurazione socio-politica è possibile e utile assegnare la pratica sportiva non identificata nella tradizionale attività agonistica di tipo federale (discipline di prestazione assoluta, orientate al primato del risultato tecnico e a un target di potenziali “atleti”), o comunque non riducibile ad essa?

3. Quale rete di attori organizzativi – istituzioni, sistema dell’associazionismo, circuiti informali di varia natura, media – sono coinvolti in una politica di settore che aspiri a farsi sistema? Possiamo parlarne come di un terreno privilegiato di sperimentazione del Welfare Mix?

4. In una logica di regolazione a rete, quali dinamiche di governo partecipato (Governance) potrebbero e/o dovrebbero sostituire le tradizionali strategie di pura erogazione di benefici finanziari e strumentali (concessione di impianti, contributi ecc.), che rientrano nella categoria di Government? E quali competenze, risorse e poteri d’intervento sono oggi a disposizione degli amministratori chiamati a cimentarsi con la sfida del federalismo? Possiamo descrivere l’azione amministrativa rivolta allo sport come espressione di un nuovo approccio, orientato al risultato più che alle procedure, cioè come una delle possibili politiche di seconda generazione?

1. La dimensione sociale dei sistemi urbani e lo sport. Alcuni fra i più acuti analisti dei fenomeni urbani hanno da tempo richiamato

l’attenzione sulla rottura di quella che Magnier e Russo (2002) chiamano la filiera delle istituzioni di governo territoriali. Nella logica della politica e dell’amministrazione europee di matrice ottocentesca, sopravvissuta pur fra molti e non irrilevanti assestamenti sino all’ultimo ventennio del XX secolo, le istituzioni sovranazionali, lo Stato Nazione, le regioni (o le entità subnazionali loro corrispondenti), le province (o le entità subregionali loro corrispondenti) e le “città” si collocavano lungo una sequenza strutturale, che configurava di fatto una gerarchia politico-funzionale. Gerarchia non rigorosamente modellata sullo schema della piramide. Il vero vertice politico era infatti rappresentato dallo Stato Nazione, monopolista nella sfera legislativa e detentore non solo dei poteri materiali (la moneta, il fisco, la forza militare), ma anche delle risorse simboliche capaci di legittimare l’azione dei governi locali. Allo stesso tempo, però, sistema di relazioni

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strutturate e interdipendenti, capace di plasmare la stessa percezione dell’autorità da parte dei cittadini.

Con il tempo, e con un’accelerazione crescente a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quel paradigma si è incrinato sin quasi a spezzarsi. Importanti, al di là degli slogan, sono stati gli effetti del processo di globalizzazione, a cominciare dalla rivoluzione che ha investito il rapporto spazio-tempo con lo sviluppo e la diffusione di massa delle tecnologie della comunicazione. Conseguenze altrettanto rilevanti ha avuto lo stress organizzativo che ha colpito tutti i sistemi a elevata (e crescente) complessità in rapporto al diversificarsi e moltiplicarsi delle domande sociali. Il combinato disposto di simili dinamiche ha rapidamente destabilizzato quel profilo di ruoli, gerarchie e responsabilità che aveva seguito e caratterizzato, in Europa occidentale, l’avvento e il consolidamento dello Stato Nazione. Sopravvivendo vittoriosamente a due guerre mondiali, a impetuosi processi di democratizzazione, a trasformazioni significative dei valori e degli stili di vita a livello di massa. A quelle che, con altre parole, sono state definite le diverse e successive “ondate” della modernizzazione novecentesca. Scrivevano in proposito Ceri e Rossi (1987) alla fine degli anni Ottanta:

…le industrie e le attività produttive non hanno più bisogno di concentrarsi in determinati

luoghi: hanno soltanto bisogno di essere collegate, ma a ciò provvedono le vie di comunicazione e, in misura crescente, le reti informatiche. Anche il potere politico, pur rimanendo localizzato in istituzioni che hanno sede nelle capitali e nelle altre città, pur traendo da questa localizzazione parte del suo residuo significato simbolico, non riveste più un carattere specificamente urbano. I mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito il rapporto diretto tra la classe politica e il resto della popolazione, l’intervista televisiva ha preso il posto del comizio o dell’adunata; mentre l’informatica provvede alla raccolta e alla trasmissione dei dati necessari al funzionamento dell’apparato amministrativo. La città sta così cessando di essere il luogo del potere non già perché si sia trasferito altrove, ma perché il potere non richiede più un centro fisico in cui insediarsi e da cui espandersi …(pp. 580-581).

A questa rappresentazione del declino della funzione delle città – quella che

Leonardo Benevolo ha descritto, da urbanista, come entropia della metropoli (la città che non serve più a economizzare tempo concentrando entro uno spazio topograficamente delimitato i gangli delle attività economiche e del potere politico o spirituale, come la chiesa, il municipio e il mercato, bensì a disperderlo, causa la congestione e il collasso indotti dal traffico e dalla pressione antropica) – si accompagna la tendenza al traboccamento demografico. Nascono costellazioni urbane e semiurbane nell’hinterland, si smarrisce la distinzione città-campagna, le aree rurali non urbanizzate sono fagocitate dall’espansione di strutture metropolitane che, a loro volta, riproducono la campagna in forme artificiali. Trasformazioni che interessano da vicino, le une come le altre, le opportunità di pratica sportiva e fisico-motoria. Così come interessano la qualità della vita in senso lato, originando domande inedite di mobilità alternativa (le piste ciclabili), di pratica salutistica (i percorsi vita) o di animazione sociale (le domeniche ecologiche in tutte le loro possibili varianti con il loro contorno di eventi sportivi e parasportivi in ambiente urbano).

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Al gruppo di ricerca che ha condotto questa indagine pare più corretto ed

euristicamente convincente assumere, in luogo di definizioni più tradizionali ma meno dotate di potenziale descrittivo (come città o provincia metropolitana), la nozione di sistema urbano in quanto contesto di riferimento analitico. Ciò soprattutto in rapporto a quella dimensione culturale e sociale, evidenziata dalla ricerca, che riguarda lo sport come espressione insieme di antichi bisogni di identità ed espressività (compreso il municipalismo delle tifoserie dei giochi di squadra più popolari) e di nuove esigenze, connesse alla diffusione massiccia della pratica e alle domande di senso – individuali e collettive – che ad essa si indirizza.

Parlare di sistemi urbani, a diversi livelli di interconnessione funzionale con la filiera istituzionale dei poteri (la regione, la provincia, il comune, le circoscrizioni) e a differenti livelli di complessità, consente di meglio cogliere e rappresentare i mutamenti intervenuti in quelle aree del più ampio sistema sociale che la sociologia classica, edificata sul modello ordinatore dello Stato Nazione, impietosamente e sbrigativamente liquidava come Periferia. Al punto che proprio sull’opposizione Centro-Periferia la Scienza politica degli anni Settanta aveva costruito una delle principali chiavi interpretative della nazionalizzazione (Rokkan, 1970).

Oggi è esattamente il nuovo protagonismo di variegati attori sociali urbani a rendere non più fungibile quel modello. La Periferia si è fatta Centro, rivendicando e spesso ottenendo poteri un tempo monopolizzati dallo Stato Nazione. Nello stesso tempo, però, lo Stato si è fatto Periferia nel contesto di più strutturate e inedite autorità sovranazionali. Se il governo della moneta e il controllo del fisco e della leva militare identificavano simbolicamente i poteri del vecchio Stato Nazione, l’Europa della moneta unica, dei vincoli di Maastricht e degli eserciti professionali, cioè un continente in via di integrazione, può davvero definirsi - secondo la felice formula coniata da Jürgen Habermas (1998) - una costellazione postnazionale. Ma nelle trasformazioni che sono intervenute nella sfera politica e istituzionale hanno giocato un ruolo decisivo i mutamenti del costume e della cultura. Nessuna Governance è in grado di sostituirsi efficacemente alle vecchie strutture di Government se la sua concreta strutturazione formale e operativa non intercetta bisogni diffusi e domande di rappresentanza. Se non si misura con il nuovo protagonismo di attori collettivi, i quali non sono necessariamente modellati sui classici paradigmi dell’azione istituzionale urbana. I cittadini che fanno sport e che, con diverse motivazioni, attitudini e disponibilità, danno vita a esperienze non solo di pratica, ma di aggregazione sociale (formale o informale), appartengono a questa tipologia di attori. Si devono a loro la proliferazione delle società, la consistente espansione – e con essa la prevedibile istituzionalizzazione – dell’offerta veicolata dalle reti associative, l’indubbia rilevanza che lo sport ha acquistato nell’agenda politica dei poteri locali, in Italia come in altri Paesi. In un contesto caratterizzato dal declino del ruolo ordinativo del sistema federale di prestazione, dal tracollo finanziario dei concorsi pronostici alla crisi di rappresentatività del Coni. Quelle che si sono modificate, in sostanza, sono le tradizionali modalità di offerta della pratica sportiva italiana. Le turbolenze che hanno interessato le serie maggiori del calcio professionistico alla vigilia dei

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campionati 2002/03 e 2003/04, al di là delle specifiche (e in sé poco edificanti) vicende che hanno evidenziato, costituiscono anche la dimostrazione del collasso di un ormai anacronistico sistema di organizzazione e gestione del “grande sport”. I cui effetti critici si riverberano sul sistema sportivo tout court, compreso appunto l’ambito della pratica amatoriale e dilettantistica.

Analizzare il caso torinese alla luce del sistema sportivo urbano significa perciò impegnarsi a far interagire attori e processi, così come ci sono consegnati (1) dalle testimonianze degli opinion leader locali, (2) dall’autoriflessione degli attori coinvolti, stimolata attraverso il ricorso ai focus group e (3) dall’esame della storia politico-amministrativa, la cosiddetta letteratura grigia che dovrebbe fare da sfondo a ogni indagine di questo genere.

Per certi aspetti, ricostruire la storia e le pratiche dello sport locale in un contesto

urbano così ricco di cronache e di memorie e insieme così esposto a dinamiche di trasformazioni, significa anche individuare un potenziale punto di osservazione per indagare le più complessive dinamiche socioculturali.

Il caso di Torino, ad esempio, è stato a lungo indagato dalle scienze sociali e dagli studi demografici come un caso di declino urbano, così come le ricerche degli anni Settanta e, più tardi, l’importante riflessione di Cheshire e Hay (1989) ce lo hanno descritto.

Secondo questo approccio, esiste in Europa occidentale una fascia di città di più antica industrializzazione che da Torino e Genova, procedendo verso nord, comprende la Francia nord-orientale, le regioni tedesche della Saar e della Ruhr e l’Inghilterra settentrionale, per spingersi sino a Glascow e Belfast. È quella che viene chiamata la striscia del malessere demografico, per quel crescente declino della natalità che, da circa trent’anni a questa parte, si accompagna alla contrazione del settore manifatturiero, non compensata dallo sviluppo del settore terziario. Torino e la sua provincia rappresentano però anche un caso che non è del tutto assimilabile a quello della maggior parte dei sistemi urbani sopra elencati. Perché a Torino è attiva, malgrado il declino demografico e il crescente ridimensionamento del settore manifatturiero, una dinamica che andrebbe più propriamente definita di conurbazione. Un sistema, cioè, in cui l’agglomerazione urbana possiede leggibili gerarchie interne, come dimostra il fatto che il centro capoluogo conservi un forte potere direzionale anche nella sofferta transizione a un’economia di servizi.

La città di Torino, in tal senso, assolve virtualmente un ruolo strategico di collegamento e di collaborazione nell’ambito della filiera istituzionale dei poteri territoriali. Un importante banco di prova è rappresentato, in tal senso, proprio dalla preparazione di un evento sportivo di prima grandezza e che interessa l’ambito provinciale: le Olimpiadi invernali del 2006.

Afferma Patrizia Alfano, presidente provinciale UISP Torino: “Torino, come dire, ha questa caratteristica di città di riferimento di tutta la regione non solo

della provincia, è come una regione che ha un’unica grande città e tanti paesi. Torino però è anche un grande punto di riferimento sia dal punto di vista lavorativo sia delle università; […] ogni

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mattina arrivano migliaia e migliaia di pendolari che la sera se ne ritornano. Le attività produttive sono concentrate prevalentemente nella città, quindi tutto quello che noi riusciamo a produrre a Torino a livello di progetti di visibilità d’immagine ha una ricaduta sulla provincia. Lo dimostra il fatto che in provincia ci siano dei comitati che lavorano capillarmente sul territorio”.

Se Torino non è più (se mai lo è stata) riducibile al puro paradigma della one

company town, l’area provinciale si configura come un’unità spaziale urbana gerarchizzata, ma anche potenzialmente aperta alla sperimentazione di un sistema reticolare. Ciò smentendo, almeno in parte, la tipologia dei sistemi urbani che - sulla base di un modello matematico elaborato nel 1991 dal Governo olandese (Ministero dell’Ambiente) collocava Torino nella “terza fascia” delle metropoli europee. Quella denominata delle eurocittà, il cui ruolo sulla scena internazionale sarebbe limitato ad alcune peculiari funzioni. (1)

La diffusione sociale dello sport negli ultimi venti-trent’anni e i mutamenti

culturali che l’hanno caratterizzata rispetto al vecchio paradigma, centrato sul primato dell’agonismo tradizionale, concorrono a disegnare il profilo di una relazione sociologicamente significativa fra metropoli e hinterland. Una relazione che presenta, però, caratteri problematici ancora in parte da approfondire. L’analisi delle politiche locali è uno strumento prezioso per ricostruire le dinamiche di mutamento che sono intervenute nel tempo in questo peculiare rapporto fra centro metropolitano e contesto urbanizzato a perimetro provinciale. Le politiche locali - non necessariamente e non esclusivamente quelle a sostegno della pratica sportiva - disegnano infatti il profilo e le gerarchie dell’attenzione che le istituzioni amministrative hanno, o non hanno, conferito al fenomeno nell’arco temporale che va, grosso modo, dalla metà degli anni Settanta a oggi. I soggetti organizzati che hanno cercato di interpretare e sviluppare strategie più o meno orientate alle nuove culture dello sport e della corporeità - dal circuito profit all’associazionismo di sport per tutti, sino alle strutture tradizionali afferenti alle istituzioni militari, religiose, aziendali o universitarie costituiscono attori niente affatto secondari delle trasformazioni sociali proprie dei nuovi sistemi urbani. È un aspetto che viene ormai sottolineato non solo dagli studiosi del fenomeno sportivo, ma dagli stessi ricercatori interessati ad aggiornare le categorie di analisi e le tipologie descrittive dei sistemi territoriali. Sotto il profilo politologico, si tratta di un’interazione fra mutamento socioculturale, politiche istituzionali e azione di soggetti specializzati che rinvia alla categoria di Welfare Mix. Cioè a quel fenomeno di progressiva strutturazione a rete di un sistema di relazioni politiche, sociali e istituzionali sempre più complesso, in cui le politiche pubbliche sviluppate a raggio locale divengono il prodotto a responsabilità e gestione condivisa di attori diversi. Riservando ai poteri amministrativi la funzione nevralgica, ordinamentale e di indirizzo, delle politiche, ma declinandola sempre più come il prodotto di una costante e flessibile azione di mediazione culturale.

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2. Le nuove tipologie della pratica. Lo sport è una politica di seconda generazione?

Prima di rapportarci alle indicazioni che emergono dagli allegati di ricerca, occorre

forse richiamare qualche dato complessivo sulla pratica sportiva e l’attività fisico-motoria in Italia. A evitare una lunga e complicata dissertazione sui controversi criteri e le metodologie di rilevazione della pratica sportiva diffusa, faremo riferimento soltanto ai dati più recenti e alla sola fonte ufficiale giudicata in qualche modo supra partes. Sono i dati ricavabili dall’indagine “I cittadini e il tempo libero”, realizzata dall’Istat nel dicembre 2000 (report on line, febbraio 2003) intervistando un campione rappresentativo di famiglie italiane, pari alla ragguardevole cifra di ventimila unità. L’interesse di tale indagine ai nostri fini consiste nel fatto che l’Istat ha deliberatamente escluso tutti i soggetti in qualche modo “professionali” - non solo gli atleti dello sport spettacolo, ma anche docenti e allenatori, tecnici e manager -, per concentrarsi esclusivamente sulla popolazione di età superiore ai tre anni e sulle eventuali modalità di esercizio-fruizione dell’attività sportiva e fisico-motoria. In senso generale, possiamo perciò considerare lo spaccato che l’Istat ci consegna come un primo, importante tentativo, di disegnare il perimetro sociale dello sport per tutti italiano.

Gli intervistati che dichiaravano di praticare qualche attività erano invitati ad autocollocarsi entro una delle due tipologie di pratica proposte: quella dei praticanti con continuità e quella dei praticanti saltuari.

È interessante sottolineare le implicazioni del metodo della autoclassificazione. Infatti, non fornendo alcun riferimento descrittivo ai concetti di continuità e saltuarietà, si è prodotta una radiografia implicita del significato che ciascun intervistato attribuisce alla propria idea di sport. Significato sociologico e psicologico che non necessariamente coincide con una definizione procedurale e formale, la quale è invece essenziale per una rappresentazione statistico-descrittiva. Oppure, viceversa, per monitorare le esigenze dello sport di prestazione ad alto contenuto tecnico in una prospettiva puramente empirico-strumentale.

Solo successivamente si chiedeva, infatti, quanti allenamenti a settimana venissero sostenuti, se l’intervistato prendesse abitualmente parte a competizioni di varia natura, se fosse affiliato a qualche società e altre informazioni utili come indicatori di partecipazione strutturata.

L’ipotesi di lavoro che qui si vorrebbe avanzare è che, in qualche modo, i dati percettivi - o meglio: autopercettivi - posseggano anche in questo caso una forte valenza ottativa. Registrino, cioè, non solo le soggettive rappresentazioni degli intervistati, ma anche l’aspirazione dei cittadini non atleti ad attribuire senso e valore all’impiego del tempo libero. E, con esso, al rapporto con il corpo, alla prassi della prevenzione sanitaria, alla ricerca del benessere e del relax, alla sperimentazione di forme originali di socialità. A tutto quello, insomma, che compone l’universo variegato delle domande collettive e delle aspettative individuali che allo sport per tutti si rivolgono nelle cosiddette società affluenti.

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Ciò pone sicuramente ai poteri locali, soggetto-oggetto delle strategie di conversione del Welfare, una sollecitazione a pensare le politiche per lo sport come vere e proprie politiche di seconda generazione. Formula di derivazione politologica con cui si indicano strategie orientate al risultato e frutto di una sistematica concertazione fra soggetti differenziati, come appunto nella filosofia del Welfare Mix cui sopra si è fatto cenno. Per questo ci pare importante il taglio conferito dall’Istat alla sua rilevazione. Indirettamente, essa ci disegna il panorama - insieme reale e virtuale - dello sport dell’inclusione (lo sport dei cittadini), differenziandolo concettualmente dallo sport della selezione. Quello, cioè, che si fonda sulla valorizzazione del talento naturale, sull’ottimizzazione ai fini del risultato delle risorse piscofisiche dell’atleta, sul primato delle esperienze di rendimento tecnicamente verificabile. Strategie connesse all’agonismo di livello, che non solo esprime e intercetta i bisogni individuali degli atleti, e con essi formidabili ed estese passioni popolari, ma che contiene una rispettabile valenza pedagogica. Esperienza, però, che non sembra più possedere alcuna significativa connessione con l’esperienza dello sport di prestazione relativa, che abbiamo convenzionalmente identificato come sport dell’inclusione.

Ai ricercatori dell’Istat l’universo sociale del Paese appare grosso modo diviso in

tre aree di dimensioni comparabili. Il 30,1% della popolazione italiana censita ai fini della ricerca (16.700.000 cittadini) si considera praticante, in forma continuativa o saltuaria. I continuativi da soli rappresentano il 20,3% dell’intero universo e i saltuari il 9,8%.

Poco meno di un terzo del totale - per la precisione il 31,3%, pari a quasi 17.400.000 italiani -, pur non considerandosi praticanti “sportivi” in senso proprio, dichiarano di partecipare di una qualche forma di cultura del movimento. È il popolo di chi, quando può, preferisce una sana camminata all’uso dell’automobile. Il popolo dei ciclisti domenicali, degli appassionati delle settimane bianche o delle escursioni velistiche. Il popolo delle famiglie che praticano equitazione di campagna, dei subacquei o dei meno ambiziosi cercatori di funghi.

I sedentari irriducibili, vale a dire quanti per scelta o per necessità (età avanzata, forme di invalidità o altro) dichiarano di non praticare alcuna modalità di sport e alcuna forma di attività fisica, sono il 38.6% della popolazione. Corrispondente a 21.400.000 cittadini. Una cifra elevata, anzi fra le più elevate in Europa occidentale, ma pur sempre una minoranza rispetto all’universo degli attivi, che si avvicina ormai a rappresentare i due terzi della popolazione italiana. Va anche considerato che i picchi più alti di inattività si registrano, come prevedibile, fra i bambini di età compresa fra i tre e i cinque anni e fra gli ultrasessantacinquenni. Dato, quest’ultimo, che possiede un’incidenza significativa in presenza del continuo aumento dell’età media.

Interessante è la scomposizione dei dati per genere. I maschi continuano a prevalere fra gli sportivi in senso stretto. Circa il 37.8% della popolazione maschile complessiva dichiara di praticare continuativamente o saltuariamente uno o più sport.

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Le donne sportive, in questo ambito, non vanno oltre il 22,7% dell’intero universo femminile. (2)

Questa relazione, però, si rovescia se consideriamo non più gli sportivi, ma i semplicemente attivi. Si dichiarano attive il 33.6% delle donne e appena il 28.8% degli uomini. Cumulando sportivi e attivi, la distanza fra i generi appare enormemente ridotta rispetto a pochi decenni or sono. A due terzi di maschi corrisponde un non trascurabile 56.3% di donne in qualche modo attive, anche se le modalità appaiono differenziate: ancora più inclini i primi all’esperienza agonistica, che - per scelta o per necessità - coinvolge di meno le donne.

Altrettanto significativo è il divario territoriale: gli sportivi raggiungono il 38% nel Nord-est e il 34.2% nel Nord-ovest, per attestarsi al 30.7% nelle regioni centrali e precipitare al 23% di Sud e isole. Aggregando sportivi e attivi, il Nord-est sfiora i tre quarti della popolazione e il Nord-ovest raggiunge il 70% - valori del tutto paragonabili a quelli dei Paesi di più antica e diffusa sportivizzazione, come la Scandinavia -, mentre Sud e isole non superano la metà della popolazione complessiva.

Può essere utile osservare alcuni riferimenti statistici che riguardano da vicino la nostra ricerca. Il primo concerne l’area regionale piemontese e l’ampiezza della pratica sportiva (continuativa o saltuaria). Il valore censito dall’Istat colloca il Piemonte leggermente sopra la media nazionale: 33% di praticanti - contro il 30,1% della media nazionale -, ripartiti in un 21.1 di “continuativi” e in un 11,9 di “saltuari”. La popolazione genericamente attiva si situa anch’essa un po’ sopra la media nazionale: 33,4% contro 31,3. Ne risulta una minore consistenza percentuale dei sedentari (33.5% contro 38,6). Leggendo questi dati sinotticamente, colpisce la quasi perfetta distribuzione in tre aree di pari peso demografico. Il dato va però integrato con altre due osservazioni: (i) a fronte di una leggera sovrarappresentazione della popolazione complessivamente attiva rispetto alla media nazionale, l’area piemontese risulta leggermente più incline alla sedentarietà rispetto al comparto territoriale del Nord-ovest complessivamente considerato; (ii) comparando i dati relativi ai livelli di pratica fra quello che l’Istat definisce comune centro (nel caso in esame, Torino città) e la “periferia”, si manifesta, come ovunque in Italia, uno scarto non trascurabile a favore di quest’ultima.

Pur esulando dai confini della nostra indagine, anche i dati relativi alla pratica agonistica strutturata che l’inchiesta demoscopica Istat ci consegna meritano qualche breve riflessione d’insieme.

Si conferma, intanto, che la sportivizzazione degli italiani - attribuendo a questa definizione una latitudine sociologica diversa rispetto a quella, più riduttiva, offerta da storici e politologi (Porro, 2001) - prosegue a ritmi consistenti. In soli cinque anni, fra il 1995 e il 2000, i praticanti crescono di 3.4 punti percentuali, con un aumento più netto in quota di composizione dei praticanti continuativi rispetto ai saltuari e delle donne rispetto agli uomini. Altrettanto interessante è constatare come la maggiore propensione alla pratica riguardi indistintamente tutte le fasce d’età, con un picco di crescita particolarmente accentuato nella classe d’età compresa fra i 15 e i 17 anni (addirittura 9.5% in più nel quinquennio considerato). Ancora: la crescita nella

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popolazione maschile si concentra fra i più giovani e nella classe d’età compresa fra i 55 e i 59 anni. Fra le donne la tendenza è a una consistente anticipazione dell’accesso (bambine) e a un picco nella fascia d’età fra i 15 e i 19 anni. A livello territoriale, però, l’intero Nord-ovest registra valori di crescita assai inferiori al Nord-est (2% contro 5.5) e allo stesso Centro-sud (3.5%).

Da approfondire il profilo delle tipologie della pratica. Le attività meno impegnative (pratica saltuaria o del tempo libero) perdono peso rispetto a quelle più strutturate in senso agonistico. Disomogeneo risulta, invece, il profilo della sedentarietà, che nell’arco temporale osservato cresce fra gli uomini e diminuisce fra le donne. I sedentari aumentano, in particolare, nelle classi d’età centrali (18-54 anni), mentre diminuiscono fra i più giovani e i più anziani.

Osservando poi la frequenza delle attività, risultano essere complessivamente 23 milioni gli italiani che dichiarano di allenarsi, o comunque di esercitare con relativa continuità qualche attività fisico-motoria, almeno una volta a settimana. Essi costituiscono il 41.3% della popolazione di riferimento, vale a dire i due terzi del totale degli sportivi e degli “attivi”, con una persistente prevalenza maschile. Sono 12.330.000 i maschi impegnati (il 45.5% della popolazione maschile considerata) contro 10.670.000 donne (il 37.2% della popolazione femminile considerata). Il Piemonte presenta anche in questo caso un valore medio di pratica relativamente continuativa di poco superiore al dato nazionale (43.5% contro 41.3), ma abbastanza distante da quello relativo all’area forte del sistema, cioè il Nord-est (il Trentino Alto Adige si attesta su un valore di 64.6, il Veneto è al 53.2). (3)

Già questa radiografia pone all’agenda delle politiche locali una serie di possibili

priorità e alcuni interrogativi da sciogliere: 1. il minor tasso di pratica sportiva femminile, pur in presenza di una forte

espansione complessiva del tasso di generica attività fisica delle donne, risponde a una modalità culturale (per esempio una minore propensione per le specialità a più elevato contenuto agonistico) o non riflette, invece, un persistente svantaggio legato a condizioni oggettive? Per esempio, a esigenze di cura famigliare non sufficientemente supportate dalle strutture pubbliche o a un’organizzazione dell’offerta sportiva (orari e tipologie di funzionamento di impianti e simili) che continua a svantaggiare l’universo femminile? Spiega a tale proposito Massimo Sacco Presidente provinciale CSI Torino che: “Anche l’accesso allo sport riflette, insomma, i problemi più acuti del vivere civile. Penalizzando soprattutto quei soggetti, come le donne, che sperimentano di necessità una continua intersezione fra ruoli familiari e professionali”.

2. Come mai bambini e anziani italiani sono, in quota di composizione, meno rappresentati nel sistema sportivo di quanto non avvenga in altri Paesi sviluppati, mentre lo scarto fra l’Italia e le esperienze più evolute si è – almeno nelle regioni centro-settentrionali - quasi completamente annullato nelle classi centrali di età? È possibile che esistano ancora ragioni strutturali - legate alla quantità e qualità di

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un’offerta specializzata o comunque “dedicata” - cui magari si sommano, nelle fasce più anziane, eredità culturali non favorenti?

3. Si è posta sufficiente attenzione alla comparazione dei livelli di attività fra comune capoluogo e hinterland? In particolare, non varrebbe la pena di interrogarsi sul divario a favore della periferia fra pratica di prestazione relativa (sportivi saltuari) e attività fisica, da un lato, e totale sedentarietà, dall’altro? Ciò mentre i livelli della prestazione assoluta (sportivi continuativi) appaiono assolutamente sovrapponibili. Con il risultato di rappresentarci il sistema sportivo torinese metropolitano - esattamente come quello romano, milanese ecc. - molto più polarizzato ai due estremi dello sport di prestazione e della sedentarietà rispetto a quello dell’hinterland. Esiste forse un “problema metropolitano” legato alla tipologia di offerta, alle distanze e ai tempi di percorrenza?

4. I dati comparativi per aree territoriali e per fasce d’età segnalano come il Nord-ovest faccia registrare un minore incremento nei valori 2000 rispetto a quelli di cinque anni prima. Stimando in dettaglio la pratica continuativa (sia sportiva sia di puro loisir) abbiamo anche osservato come il Piemonte presenti tassi di pratica diffusa mediamente elevati, ma ancora lontani da quelli ormai consolidati nelle aree più sviluppate. Quanto influisce un fattore strutturale, come il declino demografico, che fa delle aree nord-occidentali del Paese quelle più interessate dagli effetti sociali dell’invecchiamento della popolazione? E quanto incide, se incide, una configurazione troppo tradizionale dell’offerta nei contesti regionali - come il Nord-ovest - che sono stati storicamente considerati i territori incubatrice della sportivizzazione nazionale? In ogni caso, si pone evidentemente un problema di adeguamento e forse di riorientamento dell’offerta di pratica.

In questa prospettiva, a Torino, un’associazione di sport per tutti come la UISP si sforza di ripensare se stessa come alternativa al privato sportivo. Patrizia Alfano, presidente del comitato provinciale, ci spiega che

“il fenomeno delle palestre private è principalmente rivolto agli adulti. Perché i giovani non le

frequentano sono pochissimi i giovani che vanno nelle palestre private […] le palestre di fitness hanno obiettivi puramente salutistici ed estetici che aggregano in modo abbastanza, come dire, superficiale. […] invece quello su cui noi lavoriamo da anni e che dà dei risultati è la continuità, cioè il creare un senso di appartenenza e di affezione alla pratica sportiva. […] Perché tu offri una serie di occasioni che creano la continuità il senso di appartenenza, la voglia di praticare sport e di non smettere mai. C’è un discorso di amore per l’attività […] c’è un gruppo di gente che si ritrova tutte le volte alla stessa ora allo stesso giorno, chiacchiera con l’istruttore e fa attività cioè proprio un’altra dimensione che io credo ancora assolutamente valida e importante”.

Un approccio, come si può constatare, che si colloca agli antipodi della filosofia

del personal training o dei programmi individualizzati da eseguire in perfetta solitudine, seguendo sul display della macchina le istruzioni contenute in una chiavetta informatizzata.

Bisogna però, contemporaneamente, tener d’occhio la scomposizione interna degli universi di riferimento. I maschi anziani sembrano più disponibili a cimentarsi con qualche forma di attività, ma non va dimenticato come fra le donne - che godono di

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una maggiore aspettativa di vita - siano proporzionalmente più incidenti le fasce d’età molto anziane (sopra gli ottant’anni). 5. Un’altra questione riguarda la valorizzazione, nel generale panorama dell’offerta, di soggetti organizzati la cui missione sia chiaramente e preferenzialmente connessa allo sviluppo e alla qualificazione della pratica nei settori sociali e nei contesti demografici ancora meno rappresentati. Le politiche locali di settore hanno mai provato a curvare in tale direzione le loro iniziative? A tale proposito, disponiamo di alcune testimonianze interessanti. Sostiene ancora, ad esempio, Patrizia Alfano:

“Negli anni è successo questo: lo sport è stato affidato a Torino per molti anni a un grande assessorato, con grandi risorse […] dove lo sport aveva un buon capitolo, aveva un buon budget e questo ci ha permesso di proporre tantissimi progetti e di vederli approvati e finanziati. Ad un certo punto della nostra storia lo sport è diventato una delega dell’assessore alla cultura che via via ha ridotto il suo budget. […] nel modificarsi di questa situazione noi abbiamo iniziato ad avere altri referenti per cui lavoriamo tantissimo con l’assessorato all’istruzione e al sistema educativo e con questo assessorato noi realizziamo la maggior parte dei nostri progetti. [Questi vengono finanziati] il primo anno [e consentono] di farlo partire dal secondo [si deve] trovare il sistema per autofinanziare il progetto senza il contributo dell’ente pubblico.

E ancora: esiste un ruolo dell’associazionismo di utenza e/o del sistema

commerciale? Nel case study di Torino emerge come ci possa essere una sovrapposizione tra questi ultimi due termini. Infatti, una parte delle realtà provinciali sul territorio piemontese presenta un’offerta sportiva simile a quella del sistema commerciale. Ciò accade grazie al fatto che il surplus di progetti sviluppati dalla UISP di Torino si riversa sui territori della provincia che, pur avendo le strutture, mancano di una qualsivoglia progettualità per il loro uso. In tal senso, alcuni dei progetti sviluppati a livello centrale nell’ambito di politiche sportive a carattere sociale si convertono in attività che rientrano a pieno titolo nell’offerta commerciale delle diverse realtà sportive locali. Come afferma la Alfano:

“il fatto che in provincia ci siano dei comitati che lavorano capillarmente sul territorio raccoglie

molti dei nostri progetti che vengono realizzati poi anche in provincia”.

3. Lo sport degli utenti e lo sport dei cittadini. Qual è l’origine del problema? Il possibile inserimento dello sport fra i temi oggetto di politiche di seconda

generazione non costituisce una questione soltanto accademica. Né rappresenta la risposta a un pur legittimo problema di adeguamento e aggiornamento delle tipologie di analisi delle politiche pubbliche. Ovunque, in Europa e nel mondo occidentale, è dagli anni Settanta che, con la crisi della vecchia sovranità statale e con l’emergere di una domanda di nuovo protagonismo da parte dei poteri locali, sono venuti prevalendo i cosiddetti sistemi a rete. In essi, espressione peculiare del cosiddetto Welfare locale, operano decisori pubblici e privati e convivono missioni istituzionali diverse e perciò bisognose di livelli di regolazione e integrazione.

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“Le associazioni diventano nodo di una rete che coinvolge i cittadini in tutte le opere di ristrutturazione li tiene informati li accompagna”, ci dice Patrizia Alfano.

Quelle che abbiamo definito politiche di seconda generazione, a ben vedere, altro

non sono che l’espressione di una nuova configurazione del classico Stato sociale. Meglio: esse esprimono logiche di azione e di produzione normativa che rimandano alla categoria di Welfare Mix, come è stata teorizzata, agli inizi degli anni Novanta, da autori come Everts e Wintersberger (1990). La crisi fiscale dello Stato e l’affermarsi di modelli di amministrazione pubblica ispirati alle competenze di settore anziché ai ruoli burocraticamente determinati costituiscono i principali, anche se non esclusivi, fattori di sviluppo del Welfare Mix.

Contrarre la spesa pubblica e superare la logica di gestione fondata sulla figura dei funzionari generalisti sono, del resto, due dei principali requisiti per il passaggio a un sistema a rete. Le politiche di seconda generazione sono il prodotto di questa trasformazione sia del Welfare sia dell’Amministrazione pubblica. Il Welfare Mix possiede come fondamentale requisito attuativo la presenza sullo scacchiere del sistema sociale urbano di attori organizzativi capaci non solo di soddisfare domande di committenza pubblica, ma anche di concorrere alla produzione delle politiche locali di settore. Questo significa operare nella logica del governo e/o della gestione ad hoc. Ovvero elaborare il significato, interpretare – e non solo organizzare con efficienza sul piano amministrativo, tecnico e gestionale - un complesso e ambizioso programma olimpico (Torino 2006), cioè un evento connotato per definizione in chiave agonistico-spettacolare. Ma significa, anche, sperimentare nell’azione quotidiana l’esercizio di diritti di cittadinanza che lo Stato sociale classico non aveva in passato mai compiutamente inserito nell’agenda politica. Lo sport per tutti appartiene a questo ambito di azione ed esige livelli di attenzione specifica da parte di attori plurimi: sedi amministrative deputate, organizzazioni di Terzo settore, associazionismo sportivo, movimenti di utenza. Ciò consente di prefigurare, per il governo e la valorizzazione della domanda di sport orientato alla prestazione relativa, l’adozione di strategie di azione e implementazione che si rifanno precisamente al paradigma e alle procedure delle politiche di seconda generazione.

Ancora la Alfano ricostruisce, nello specifico della UISP, la risposta di un’importante associazione di sport per tutti alla richiesta di collaborazione avanzata dalle istituzioni:

“…c’è stato un progetto [sull’intera provincia], realizzato dalla provincia per una cooperativa

della Uisp che era la Quadrifoglio, uno dei primi progetti che offriva un percorso formativo di eventi sportivi per i ragazzi del 2006. [Il progetto successivo] diviso in territori [Ivrea, Pinerolese, ecc.] [in questo progetto] abbiamo girato tutta le palestre della provincia, il palazzetto dello sport di Torino per fare un percorso formativo con questi ragazzi, che li ha visti poi protagonisti al Vivicittà. […] Hanno imparato come si fa una manifestazione come si organizza come si anima; per un po’ di mesi hanno lavorato a questo e il giorno di Vivicittà sono arrivati alle 4 del mattino con i nostri volontari si son divertiti da matti […] e qui noi abbiamo fatto la formazione dei ragazzi di Torino del 2006, altro sulle Olimpiadi a Torino – almeno in quella fase - non c’era.”

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Ma le pratiche e le strategie di Welfare Mix, con il loro corollario operativo – le politiche di seconda generazione – non vanno ridotte alla cooperazione, più o meno strutturata, che gli attori coinvolti istituiscono in occasione di eventi speciali, come le Olimpiadi. Anche sul terreno della prassi amministrativa corrente, ad esempio, si sviluppano – a partire dai primi anni Novanta – esperienze inedite per l’ordinamento amministrativo e la cultura gestionale dell’Amministrazione pubblica italiana. E’ il caso delle carte dei servizi, che cominciano a dare concretezza all’idea di passare da amministrazioni di regole – preoccupata di produrre leggi, norme e procedure – ad amministrazioni di risultato, chiamate a rispondere di qualità e costi del servizio erogato. È la filosofia che in quegli stessi anni, negli Usa, cerca di applicare l’amministrazione Clinton, il cui manifesto programmatico può essere contenuto nei dieci principi del governo imprenditoriale e nell’idea di “reinventare il governo” suggerita da Osborne e Gaebler (1992).

Alla base della filosofia dell’azione pubblica di Osborne e Gaebler c’è una radicale riformulazione della questione. Posti di fronte a un dilemma organizzativo o all’esigenza di far fronte a una situazione critica, non ci si chiede più “qual è il problema?” - questione di cui ci siamo occupati alla fine del precedente paragrafo - bensì “qual è la sua origine?”. Anche qui non si tratta di una pura innovazione teorico-metodologica. L’idea forza è che, nelle questioni connesse all’amministrazione della cosa pubblica, l’origine del problema consista sempre, inevitabilmente, nelle resistenze opposte all’innovazione da strutture o vincoli organizzativi propri della macchina burocratica. Non, cioè, nel consapevole boicottaggio dei funzionari o in carenze, limiti, errate interpretazioni dei ruoli o delle mansioni. E neppure principalmente nella ristrettezza delle risorse tecniche, finanziarie od organizzative. Tutti questi fattori, se presenti, possono concorrere a produrre la vischiosità del sistema e a compromettere il successo dei tentativi di cambiamento. Ma il vero nodo della questione sta, per Osborne e Gaebler, nell’intrinseca rappresentazione del ruolo sociale della sfera pubblica. Prima della lealtà e la professionalità degli operatori e dell’efficienza della macchina gestionale, viene l’esigenza di ripensare il sistema in quanto tale. Nella logica della burocrazia pubblica di Stato, questo sistema era stato ideato per contrastare, inibire o quantomeno depotenziare l’innovazione. In quanto titolare del potere amministrativo e soggetto monopolista delle politiche pubbliche, lo Stato Nazione di matrice ottocentesca si preoccupava di garantire l’imparzialità delle procedure, la stabilità degli equilibri istituzionali, la riproduzione nel tempo della “prassi consolidata”. La domanda di innovazione poteva intervenire solo da un ambiente esterno – si trattasse del mercato o dei movimenti sociali - e tradursi, attraverso le opportune mediazioni legislative e normative, in adeguamenti (quasi sempre tardivi e parziali) delle routine operative. L’adozione di una prassi ispirata alle politiche di seconda generazione sconvolge questo paradigma perché concepisce anche l’amministrazione pubblica come soggetto, oltre che come oggetto, di sperimentazione orientata all’innovazione. Di qui il prevedibile prodursi di tensioni, conflitti e stress organizzativo. Domandarsi quale sia l’origine del problema non significa altro, perciò, che trasferire nell’analisi dei singoli casi concreti – cioè sottoporre a un processo di contestualizzazione – il

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problema generale di una nuova missione e di un’inedita funzione dell’azione pubblica.

Si deve a questo punto cogliere l’azione distinta, ma strettamente intrecciata negli

effetti verificati, di due ordini di questioni. Da un lato, quelle che rinviano al peculiare caso torinese e alle trasformazioni che hanno interessato nel tempo la situazione della provincia. Dall’altro, quelle che, invece, rimandano agli effetti riflessi del mutamento e della crisi del sistema sportivo nazionale.

Sul terreno locale, è ancor più importante distinguere fra pratiche che hanno per obiettivo l’espansione e la qualificazione dell’offerta di pratica e strategie di inclusione orientate alla promozione sociale tramite lo sport.

Incrociando le informazioni di fonte pubblica (dati Istat, dati federali, nonché quelli messi a disposizione da enti di promozione sportiva e associazioni di sport per tutti) con le indicazioni emerse dalle interviste a testimoni privilegiati (quelle individuali e quella collettiva, realizzata con il focus group del 10 aprile 2003), è possibile evidenziare quelli che si possono ritenere gli aspetti nevralgici dell’indagine.

Il diritto allo sport come diritto di tutti e per tutti i cittadini incontra ancora ostacoli legati all’organizzazione del lavoro, alla gestione dei tempi quotidiani dell’esistenza, alla non ottimale distribuzione dell’offerta strutturale (impianti, competenze) e, soprattutto per il capoluogo metropolitano, a distanze e tempi di percorrenza. Non vanno neppure trascurati, però, i dati strutturali del problema. La provincia di Torino è una delle più grandi d’Italia, comprende qualcosa come 314 comuni (più di due volte e mezzo i comuni inclusi nella provincia di Roma), l’83% dei quali non raggiunge i 5.000 abitanti e quasi la metà non raggiunge i 3.000 abitanti. Spesso l’intervento della Provincia si configura come surrogato e supporto rispetto alle difficoltà denunciate dagli enti locali. Come spiega Massimo Sacco:

“[…] l’amministrazione torinese a un certo punto si è trovata ad avere una moltitudine di

impianti che non riusciva più a gestire, perché i costi erano decisamente alti; allora ha chiesto ad alcune associazioni di farsi carico di questa questione la scelta è stata anche voluta si è andati verso le associazioni e non verso il privato per esempio la scelta del Comune è stata questa non privatizzare gli impianti quindi trovare delle aziende che prendessero in gestione gli impianti e decidessero loro costi ristutturazioni ma tramite le associazioni per cui le tariffe sono gestite insieme al Comune i lavori li facciamo noi e siamo coordinati insieme al Comune questo per noi è stato un onere nel senso che noi siamo anche dovuti diventare anche gestori d’impianti che non era la nostra vocazione. La nostra vocazione era organizzare sport e siamo diventati anche gestori d’impianti e quindi sì adesso gestiamo una serie d’impianti che sono piscine a volte non da soli come ente ma ad esempio in collaborazione con altre associazioni […]”.

È anche possibile sostenere che proprio la precoce maturità del sistema sportivo

torinese abbia reso più rigido e meno dialettico di quanto non sia avvenuto in altre realtà del Paese il rapporto fra offerta tradizionale - orientata in prevalenza all’agonismo di prestazione - e nuove modalità di pratica. L’esistenza di un antico e robusto tessuto di società agonistiche - con la compresenza, ad esempio, di enti di promozione molto attivi, di organizzazioni aziendali e di prestigiosi gruppi sportivi

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militari - potrebbe aver esposto più che altrove il sistema sportivo locale ai contraccolpi prodotti dalla crisi del sistema federale nazionale. Nel corso degli ultimi anni, però, proprio lo sport di prestazione ha conosciuto un fenomeno di autentica diaspora dal centro urbano alle periferie metropolitane. Ciò non ha riguardato solo le discipline di squadra più spettacolari (esemplari il caso del basket e della pallavolo), ma anche specialità individuali a elevata componente tecnica, come l’atletica leggera.

Queste dinamiche, a prima vista contraddittorie ma in realtà coerenti con un processo di complessa ridefinizione del sistema sportivo territoriale, possono produrre nel breve periodo, e in parte già producono, esiti critici. Particolarmente esposte sono le esperienze legate al sistema della promozione sportiva e all’associazionismo amatoriale. Tutte lamentano la difficoltà di realizzare profili formativi adatti a produrre una nuova qualità dei dirigenti sportivi. Da un lato emerge una forte domanda di specializzazione, che tende a sollecitare una diversa e differenziata professionalizzazione, mirando a formare non solo “tecnici”, ma comunicatori, imprenditori, organizzatori di eventi ecc. Dall’altro, sono ricorrenti il richiamo ai valori solidaristici e la preoccupazione per un possibile declino del senso della missione. Si affaccia per questa via il timore di una possibile deriva dell’idea di sport dell’inclusione. Confinata a nobili e un po’ rituali pratiche solidaristiche o alla promozione di eventi caratterizzati da edificanti finalità sociali, ma in scarso e occasionale raccordo con la cultura e la pratica dello sport per tutti. Sommando così i limiti obiettivi dell’azione amministrativa - che non può surrogare da sola le carenze del sistema sportivo ufficiale - e gli effetti di ritorno del collasso organizzativo e del tracollo finanziario del Coni e delle federazioni. Poche illusioni vengono nutrite sull’effetto dinamizzante che l’evento olimpico potrebbe avere sul sistema sportivo territoriale. I vincoli finanziari e le priorità imposte dall’agenda agonistica rendono difficile prevedere una ricaduta significativa e prolungata nel tempo sul tessuto dello sport per tutti.

4. Sport e Welfare La nostra analisi presuppone un’idea delle politiche di Welfare locale come

espressione di una più ampia filosofia del Welfare. L’esperienza fisico-motoria e il diritto di accesso alla pratica - quindi non soltanto, e neppure principalmente, all’agonismo strettamente inteso - sono parte integrante di tale filosofia. Anzi: più che alla sfera della regolazione istituzionale (Welfare State) la domanda di sport per tutti si rivolge al sistema culturale e alla capacità di intercettarne nuove modalità espressive e nuovi bisogni (Welfare Society).

Silvana Accossato, Assessore al Turismo e allo Sport della Provincia di Torino, ci spiega:

“Comincerei con il dire che lo [sport può essere veicolo di promozione sociale] e non

necessariamente in quanto è sport. Ovviamente, lo può essere se pensiamo agli sport, alle attività motorie di vario genere anche viste in chiave più tipicamente sportiva. Allora può esserlo. Dipende dall’approccio, da come è gestito, dagli obiettivi che ci si dà. Non lo è necessariamente: può anche essere fonte di esclusione sociale, di dinamiche escludenti. C’è un po’ tutto. Lo può essere là dove

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ci siano degli obiettivi. Come elemento di socialità ed aggregazione delle diverse fasce di età. Ed anche dei territori […], delle comunità , dei quartieri…”.

Domande individuali di benessere, di riappacificazione con un corpo mortificato

dalla sedentarietà, di prevenzione sanitaria e persino di “felicità” soggettiva che erano state a lungo compresse. Non solo dall’urgenza dei bisogni primari, ma anche dall’incontrastata e protratta egemonia culturale dello sport di prestazione assoluta. Solo negli ultimi venti o trent’anni gli italiani hanno riscoperto il piacere del movimento e la sua capacità di conferire una soddisfazione non differita. Lo sport diventa un luogo non solo fisico, ma anche ideale, di comunicazione e socializzazione; in tal senso sembra interessante riportare quanto ci ha detto Massimo Sacco:

“Le palestre possono diventare dei veri centri di aggregazione, aperte tutto il giorno, in cui

convivano intere famiglie nelle loro attività sociali e sportive […]obiettivo del Csi è educare attraverso lo sport”.

Questa visione dello sport, che nelle parole di Sacco acquista un’esplicita valenza

sociale e pedagogica, si è sviluppata in una cornice di profonde trasformazioni del tempo e del significato del lavoro. In un secolo non si è solo fortemente accresciuta la durata media della vita. Il tempo che, nel corso dell’anno, un individuo dedicava al lavoro è sceso da più di duemila ore nei primi anni del Novecento a meno di milletrecento di un secolo dopo, mentre si è abbreviata la durata della vita lavorativa dei singoli. Contemporaneamente, per l’effetto congiunto della crescita delle aspettative, del prolungamento dei percorsi formativi e dell’innovazione tecnologica, è cresciuta la quota di giovani in condizione non lavorativa. Ciò è avvenuto in tutti i Paesi industrializzati maturi, ma con particolare ampiezza in Italia, dove persisteva e persiste una debolezza strutturale del mercato del lavoro. Il tempo “liberato” si confonde e si cumula, soprattutto presso la popolazione giovanile, con il tempo vuoto del lavoro che non c’è.

Diverso è il profilo culturale che interessa le altre classi d’età, con alcuni corollari divenuti oggetto di una critica di costume a buon mercato: le smanie salutistiche, l’ossessione compulsiva legata agli imperativi del “non ingrassare, non invecchiare”, l’ansia da prestazione diffusa anche fra i praticanti amatoriali, l’emergere di una ideologia del rischio gratuito e del titanismo nelle cosiddette pratiche estreme.

La diffusione, in tutte le società industriali avanzate, della cultura e della pratica dello sport per tutti ha però favorito - ed è questo l’aspetto davvero rilevante su cui concentrarci - l’accesso nella cittadella recintata del tradizionale sport agonistico di nuovi soggetti: le donne, protagoniste sin dagli anni Ottanta della rivoluzione dell’aerobica e delle ginnastiche dolci; gli anziani, incoraggiati a scoprire nella pratica motoria una risposta attiva, non ipocondriaca e farmacologica, all’invecchiamento; i disabili, per i quali l’attività fisica rappresenta l’occasione per istituire più ricche relazioni sociali, oltre che un prezioso strumento terapeutico; i ceti medi colti, spesso permeati di sensibilità ambientalistiche e suggestionati da una

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filosofia del tempo libero e della riappropriazione della corporeità che ha antecedenti nella tradizione dello sport per tutti nord-europeo.

In breve, lo sport si è concretamente inserito nel novero dei nuovi diritti di cittadinanza e ha potentemente contribuito a dilatare il perimetro della più ampia cittadinanza sociale. Utilizziamo il verbo “ampliare”, in quanto non si possono comunque escludere le altre sfere del welfare, come mette in luce Annalisa Tribisonna, Presidente del Comitato Provinciale PGS (Polisportive Giovanili Salesiane):

“L’inclusione sociale non è facile: chi è nato in una determinata zona di Torino ha difficoltà

estrema ad inserirsi nel mondo normale. Lo sport comunque può incidere [a volte] in modo trascurabile, dovrebbe essere coordinato con altre strutture”.

E’ nei percorsi di accesso, non sempre facili e lineari, a questo “mondo normale”

che si situa, insomma, una delle possibili funzioni sociali dello sport (non necessariamente, in questo caso, di quello che abbiamo classificato come sport per tutti) in un contesto metropolitano maturo, quello torinese, descritto dalla Tribisonna. E’ allora il momento di sottoporre alcune questioni, ricorrenti nelle interviste, a un’osservazione ravvicinata.

La prima riguarda l’offerta sportiva, sia quella propriamente commerciale sia quella orientata dalle politiche federali e dalla stessa promozione sportiva. Una questione che concerne la capacità di soddisfare efficacemente i sempre più differenziati e variegati bisogni individuali che alla pratica sportiva e fisico-motoria si indirizzano. La seconda questione, davvero sostanziale, rinvia alla tensione che si può generare, entro un perimetro sociale ampio e strutturato, fra sport della selezione - basato sul talento naturale, sul sacrificio necessario a coltivarlo e sulle doti fisiche del singolo atleta - e sport dell’inclusione, che per definizione non può escludere nessuno dal diritto di accesso alla pratica. E che, coerentemente, deve saper generare e adattare modalità di offerta specializzate e tendenzialmente personalizzate. Connessa a questa problematica è quella del riconoscimento dello sport fra i diritti sostenuti dai pubblici poteri e come strumento di socializzazione e di integrazione delle fasce di popolazione a rischio di esclusione. Ovvero quello sport sociale, che - pur distinguendosi concettualmente dallo sport per tutti - promuove campagne di utilità pubblica e di solidarietà, sperimenta percorsi di comunicazione fra culture (immigrati), propone opportunità anche ai soggetti emarginati (si pensi, per fare un esempio, alla tematica dello sport nelle carceri). Come spiega Massimo Sacco:

“questa città è proprio cambiata da dieci anni a questa parte; quindi c’è un ingresso maggiore di

extracomunitari, quindi aumentano anche le attività rivolte a loro e c’è all’interno dei quartieri un’attenzione maggiore. Torino ormai è cosmopolita, noi abbiamo sia società sportive già composte ad esempio totalmente da comunità extracomunitarie: due tre squadre peruviane piuttosto che la squadra dei magrebini, ecco. Poi d’altra parte invece abbiamo molti ragazzi che si sono avvicinati alle nostre società sportive e adesso giocano in quella squadra; sono iscritti da noi come tesserati come atleti. E in più abbiamo avuto anche un progetto che facemmo col comune di Torino ad hoc l’inserimento di ragazzi magrebini all’interno di una nostra società sportiva […] facevamo un pochino da accoglienza temporanea ovviamente”.

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L’immediato corollario di questa riflessione, come ci hanno suggerito Osborne e

Gaebler, riguarda l’origine del problema, cioè l’imperfetta localizzazione degli attori potenzialmente protagonisti delle politiche pubbliche di settore. Si tratta, insomma, di affrontare le questioni spinose della legittimazione, della titolarità e dei criteri di redistribuzione delle risorse. La cittadinanza attiva che lo sport può candidarsi a promuovere non è riducibile alla pura richiesta di benefici economici o di pratiche redistributive. Ai poteri pubblici si chiede di più: di farsi promotori di un sistema di opportunità, di costruire reti sociali aperte allo sport come diritto e come pratica di inclusione, di condividere responsabilità di governo del sistema sportivo territoriale con nuovi soggetti sociali. Rispetto a queste dinamiche l’Assessore Brunato, titolare delle Politiche sociali della Provincia di Torino, fa notare che:

“Abbiamo due strumenti da usare in modo produttivo: innanzitutto i tavoli di concertazione tra

Enti Locali, scuole e istituzioni [si fa riferimento ai piani di zona], poi i centri servizi per il volontariato”.

E l’Assessore Accostato, dal canto suo, precisa quali siano i potenziali soggetti di

queste “reti sociali”: “Nella rete ci sono essenzialmente il mondo sportivo variegato, che va da quello federale, il

Coni, agli enti di promozione sportiva a nome un po’ di tutto il sistema associativo. E poi tutto il sistema degli Enti Locali con qualche approccio nella scuola, un po’ più faticoso con l’educazione fisica abbastanza, si fanno alcune cose insieme, con qualche realtà scolastica, è chiaro che l’entrata in vigore dell’autonomia, che per certi aspetti condivido anche, ha reso più faticoso questo approccio”.

Alcuni di questi soggetti, quindi, poco o nulla hanno a che fare con le tradizionali

istituzioni sportive e neppure con i classici protagonisti della negoziazione, come imprese e sindacati. Nelle esperienze più avanzate riveste semmai un ruolo strategico il cosiddetto Terzo settore, cioè un attore sociale ed economico appunto “terzo”, cioè distinto e autonomo rispetto allo Stato e al Mercato.

D’altronde, anche nella ricognizione effettuata sulla mappa delle attività presenti nel comprensorio torinese, un dato balza agli occhi. Fatta eccezione per i grandi club professionistici del calcio o di altri sport spettacolari, la quasi totalità delle società sportive - comprese quelle orientate principalmente al risultato tecnico - appartengono al sistema non profit.

Non si tratta né di imprese lucrative, come nella logica del mercato e nella regolazione legale dei club professionistici, trasformati alla fine dei Novanta in società per azioni, né di strutture dipendenti da un’autorità pubblica che ne orienta la missione, come nelle esperienze dello sport di regime nei Paesi totalitari. Si tratta, al contrario, di autentici attori non profit che, come sostiene Amartya Sen (1992), sono destinati a occupare crescenti spazi sociali sia dove lo Stato ha una tradizione interventista (Scandinavia), sia dove prevale una filosofia pubblica di tipo liberista, come negli Usa. Il comparto non profit, infatti, non svolge funzioni di pura supplenza nei confronti delle politiche pubbliche, per esempio offrendo servizi che lo Stato non

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garantisce o che il Mercato fornisce a costi non accessibili a tutti i cittadini. Al contrario, il Terzo settore trae legittimazione soprattutto dal fatto di rappresentare uno strumento più duttile, e quindi in grado di intercettare prima e meglio domande legate a nuovi bisogni e a domande non (ancora) pienamente riconosciute nella sfera delle politiche sociali o giudicate poco redditizie dal Mercato. In questo senso, i movimenti e le associazioni di volontariato garantiscono una duplice funzione. Da un lato, soddisfano concretamente bisogni emergenti: nel caso della pratica sportiva amatoriale, l’assistenza sanitaria, le coperture assicurative, le informazioni utili a un’attività priva di rischi o di controindicazioni per la salute, ma anche campagne di orientamento a favore di uno stile di vita attivo, contro i rischi della sedentarietà, del fumo, della diffusione del doping. Dall’altro, rappresentano sempre più movimenti di advocacy, chiamati a esercitare una pressione sulle istituzioni, sui media, sul sistema commerciale, perché lo sviluppo della pratica fisico-motoria venga legittimato come una componente strategica del ben-essere (O’Brien e Penna, 1998). Una condizione letteralmente intesa come il soggettivo e concreto “star bene” con se stessi e la propria corporeità, dando così tangibile e aggiornata attuazione alla stessa missione universalistica del Welfare tradizionale.

Ciò esige la promozione di un tipo qualitativamente nuovo di politiche pubbliche, le quali - per il fatto di rivolgersi a un sistema fondato, in larga prevalenza, sul volontariato e sulla filosofia della gratuità - non possono avere un’impronta dirigistica e centralistica. Politiche, insomma, che possono correttamente essere definite di seconda generazione, sviluppandosi al crocevia fra la libera ricerca espressiva del singolo praticante e la definizione di un minimo di garanzie universalistiche. Fra gli obiettivi di queste politiche c’è quello di facilitare l’accesso e contrastare la defezione (Hirschman, 1978) alla pratica, soprattutto intervenendo nei processi formativi e sostenendoli con strumenti specializzati. E ancora: si dovranno promuovere strategie di incentivazione e di benefici selettivi, ad esempio attuando programmi di concessione di benefici e di convenzioni agevolate a favore di società comprese, come previsto dalle recenti innovazioni legislative (Finanziaria 2003), negli albi del dilettantismo. Si tratta, in concreto, di fare i conti con l’eredità della storia e della politica, che ha disegnato sia il profilo dei singoli Welfare - a scala tanto nazionale quanto locale - sia quello dei sistemi sportivi estensivamente intesi. Per richiamare il caso italiano, non c’è dubbio che lo Stato sociale abbia conservato a lungo tratti assistenzialistici - e implicazioni clientelari e corporative - che derivavano dalla sua difficile gestazione politica, dal compromesso storico fra Stato e Chiesa dopo il lungo conflitto risorgimentale, dall’accezione autoritaria e statalistica conferita all’intervento pubblico dal regime fascista e dalla combinazione di pratiche clientelari e di concertazione consociativa che ha caratterizzato, almeno sino agli anni Ottanta-Novanta, le politiche sociali (Zincone, 1992; Fedele, 1998). Così come è difficile, per un osservatore straniero, comprendere le ragioni di sopravvivenza nel tempo di un anomalo Comitato olimpico, che ha esercitato di fatto poteri di plenipotenziario sull’intero sistema sportivo, occupandosi - con risultati assai inferiori a quelli conseguiti per l’alto livello - non solo di prestazione assoluta e di

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preparazione olimpica, ma di sport per tutti, di sport sociale e di tutto quanto poteva latamente attenere alle attività fisico-motorie, comprese quelle non agonistiche.

In questo senso Pierpaolo Maza, responsabile dell’organizzazione delle Olimpiadi 2006 per la Provincia dei Torino, esprime una forte e argomentata critica verso un Coni che, se da un lato ha fornito mezzi, seppur minimi, allo sport, dall’altro ha viziato tale sistema che attualmente trova difficoltà nell’adeguarsi al nuovo contesto. Egli spiega:

“Lo sport è un po’ indietro devo dire francamente perché in questo momento lo sport è affidato,

a mani vecchie, in genere, salvo qualche caso raro e quindi lo sport non è ancora entrato in pieno in questo discorso […] manca allo sport la cultura per sapersi oggi muovere in un certo contesto […] questo ombrello del Coni che in qualche misura dava a tutti più o meno uno o due soldi per poter vivere… Oggi non è più così, nello sport, lo sport così detto sociale, dovrebbe rendersi più conto di questa cosa e provare, anche lo sport non riesce a far sistema politico cioè … soprattutto il sistema sportivo del volontariato del terzo settore non riesce a farsi sistema manco morto, litigano!”

Nelle parole di Maza, l’eredità di un sistema federale sovraccarico di competenze,

ma incapace o disinteressato a esercitarle è un dato tangibile, che riverbera effetti critici su tutto il sistema. Senza che possa, però, divenire un alibi per altre responsabilità, ivi comprese quelle di un movimento del Terzo settore che ancora fatica a inserire lo sport dei cittadini fra le proprie priorità. E che, come abbiamo annotato, non garantisce governabilità e unità di intenti al pur esteso sistema del volontariato sportivo. Anzi: il rischio è che proprio la dilatazione della domanda e la diversificazione potenzialmente conseguente dell’offerta, invece di favorire cooperazione e sinergie, si traducano in ragione di conflittualità competitiva permanente. Una questione che sollecita una conversione del paradigma culturale, vale a dire esattamente quelle strategie di nuova formazione dei dirigenti da più voci evocate. Con la consapevolezza che investimenti strategici di tale natura impattano anche nello sport con una contraddizione strutturale del sistema amatoriale, perennemente posto in tensione dalle spinte opposte verso la professionalizzazione dei quadri e la rivendicazione del ruolo dirigente dei volontari.

Torino e la sua provincia riflettono, insomma, a uno stadio maturo, tutte le dinamiche di crisi e di difficile ridefinizione del modello sportivo che interessano il Paese nel suo insieme. Ponendo notevoli ostacoli non solo all’ipotesi di una radicale trasformazione del sistema sportivo, ma anche ai più dimessi tentativi di conferire maggiore ordine, razionalità ed efficienza al sistema sic stantibus rebus e in presenza di un obiettivo affievolimento delle spinte innovatrici emerse a cavallo fra gli anni Novanta e i primi Duemila. Anche qui, si tratta di ricostruire l’origine del problema, dando per acquisita una diagnosi sociale che rinvia, per un verso, alla sopravvivenza – resa peraltro obsoleta dal declino visibile dell’istituzione dei suoi poteri ordinativi – di un Coni Leviatano dello sport nazionale e, per l’altro, all’ancora incompiuto riconoscimento dello sport dei cittadini entro la cornice del Terzo settore. Queste eredità della storia nazionale (Porro, 1995) condizionano anche la riscrittura del patto sociale che dovrebbe dar vita al nuovo Welfare, così come la tormentata gestazione di un più efficiente e democratico sistema sportivo.

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Le politiche pubbliche dello sport, se questo viene tematizzato come bene collettivo e diritto di cittadinanza, richiedono invece un decisivo salto di qualità, restituendo alle istituzioni e agli attori sociali funzioni ancora anacronisticamente delegate al sistema olimpico. Sistema che solo in Italia ha assorbito compiti impropri di Ministero dello sport, sviluppando persino, in base a una delega mai legalmente conferita, vere e proprie politiche pubbliche di settore. È importante sottolineare, alla luce della riforma del titolo V della Carta costituzionale, che una possibile trasformazione del sistema sportivo non può che avere come perno il ruolo delle amministrazioni locali. Luogo sociale di un possibile e più intraprendete Welfare Mix e, insieme, garanzia di un approccio universalistico alla tematica dello sport come diritto. È perciò decisivo che le amministrazioni si dotino di strumenti, come i piani di zona, che possono configurarsi come veri e propri “piani regolatori del sociale” e che lo sport dei cittadini venga incluso in questo orizzonte dell’azione amministrativa. È però anche necessario elaborare una mappa più aggiornata dei possibili attori e interlocutori di una pratica amministrativa che si ispiri ai principi della rete. Cominciando forse dal ripensare le competenze di strutture che, con il tempo, si sono rappresentate prevalentemente come erogatrici di risorse distributive (si pensi ai centri di servizio al volontariato), al di fuori di una configurazione sistemica degli interventi. Con il rischio, sempre presente in questi casi, di generare più pratiche di lobby che esperienze di servizi funzionali.

5. Una mappa del sistema sportivo territoriale. Il gruppo di ricerca ha cercato, nei limiti delle informazioni che era possibile

raccogliere - persistendo in Italia gravi carenze di documentazione organica e attendibile sul sistema sportivo e le sue trasformazioni - di disegnare una mappa del sistema sportivo locale. (4)

Per consentire una rappresentazione più semplice ed efficace del sistema sportivo torinese e delle sue ubicazioni socioculturali, si è fatto ricorso a un modello teorico già sperimentato e che è stato qui graficamente “operazionalizzato” nella configurazione geometrica oggetto della figura 1.

Il modello impiegato è ispirato, con gli opportuni adattamenti, a quello proposto da Ibsen e Ottesen (2000) e da Engelhardt e Heinemann (2000). Esso mira a disegnare una mappa sinottica della collocazione dello sport all’interno del sistema sociale e delle sue reti istituzionali. Questi studiosi danesi e tedeschi, che intrattengono da anni una proficua e intensa collaborazione con il nostro gruppo di ricerca, fanno a loro volta ricorso al cosiddetto triangolo di Everts e Wintersberger (1990, cit.), che rappresenta lo spazio sociale degli attori del Welfare. Il modello consente, pertanto, di localizzare tutte le possibili dislocazioni di un fenomeno socialmente rilevante - nella fattispecie lo sport come pratica diversificata e diffusa - entro il reticolo delle più vaste relazioni collettive. I vertici dell’immaginario triangolo sono rappresentati dallo Stato, dal Mercato e dalla Comunità. Quest’ultima va intesa come la trama delle relazioni primarie, di tipo informale, fondate sulla sfera privata della famiglia, dei gruppi amicali e dei circuiti di solidarietà.

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Il perimetro del triangolo comprende perciò tutti quelle esperienze, strutturalmente organizzate - come società, club, circoli, federazioni, enti di promozione - o del tutto informali (come gruppi di amici che svolgono a puro titolo amatoriale attività fisico-motorie estranee a qualunque codificazione formale), che comunque interpretano domande indirizzate alla pratica sportiva. Domande individuali, di gruppo o formalmente strutturate, le quali inducono, a vario titolo, relazioni con le istituzioni sociali, politiche ed economiche locali. Interagendo per questa via con tutti i possibili attori istituzionali, associativi o commerciali attivi nel perimetro considerato.

Come è chiaramente desumibile dal grafico, l’immaginario triangolo può essere scomposto in quattro triangoli più piccoli, prodotti dall’intersezione di tre bisettrici. La prima, collocata orizzontalmente, separa pubblico e privato. La seconda, perpendicolare all’asse che congiunge Stato e Mercato, distingue diagonalmente fra profit e non profit. Analogamente, la terza bisettrice, perpendicolare all’asse Stato / Comunità, separa l’ambito della comunità (rete di relazioni primarie) da quello della società (sistema di relazioni proprio di una struttura sociale complessa). L’esito grafico della scomposizione così descritta è un triangolo formato da quattro sub-triangoli di pari superficie. I quattro convenzionali triangoli permettono di descrivere e localizzare le quattro aree tipologiche giudicate significative ai fini dell’indagine. Ogni ambito ospita differenti soggetti collettivi – istituzioni, imprese, associazioni non profit, gruppi di amici e quant’altro -, che siano dotati o meno di una configurazione organizzativa e di una legittimazione istituzionale. I diversi soggetti si collocano a maggiore o minore distanza dagli assi di riferimento (pubblico/privato, profit/non profit, reti primarie/strutture societarie) che consentono la partizione dell’immaginario triangolo.

La prima area localizzata all’interno del triangolo ha per vertici lo Stato e i due

punti di intersezione perpendicolari alle bisettrici profit / non profit e Stato / comunità. E’ il settore eminentemente pubblico, non profit e societario, in cui operano - fra gli altri possibili attori - la Pubblica Amministrazione, la scuola di Stato, il sistema sanitario nazionale, la maggior parte delle istituzioni universitarie, e tutte quelle attività orientate all’assistenza, alla previdenza, al servizio sociale che siano direttamente gestite dalle istituzioni centrali o dai poteri locali.

In astratto, la configurazione degli attori organizzativi operanti in questo ambito dello sport è abbastanza facile. È l’area delle società sportive militari, delle attività scolastiche e dell’offerta direttamente gestita dalla mano pubblica. Talvolta questo genere di attività si dirige consapevolmente a soggetti a rischio di esclusione sociale. In questi casi è frequente che si realizzino esperienze di Welfare Mix, con l’intervento di reti associazionistiche specializzate, di gruppi di utenza o di concessionari pubblici. Ciò significa, in concreto, che la nitidezza tassonomica del modello può lasciare il passo a combinazioni più articolate e generare possibili conflitti di competenza o, quanto meno, indurre l’esigenza di politiche a elevato tasso di flessibilità. L’esperienza della Provincia di Torino viene sintetizzata dalle parole dell’Assessore Accossato:

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“Noi […] anche se non abbiamo privilegiato, comunque [abbiamo avuto] avuto tra i nostri elementi di attenzione lo sport come elemento di socialità. Non solo perché poi c’è grande attenzione ai grandi eventi, alle grandi manifestazioni, agli sport di risultato, però questo sì dando un po’ per scontato il tessuto, dando per scontato gli attori, e quindi il mondo sportivo ma variegato, quello federale, quello associativo, gli enti locali ed il territorio come riferimento come interlocutori con cui costruire, con cui progettare. A volte in modo anche un po’ troppo ottimistico, nel senso che la crisi dello sport sta segnando una crisi della partecipazione, della voglia, perché poi la mancanza di risorse diventa un problema. […] Ma sicuramente il nostro obiettivo è stato di fare partecipare, di coinvolgere, non avendo noi tanti obiettivi di investimenti e avendo poche risorse. […] Certo il contributo, l’aiuto […], questa messa a disposizione di competenze per lavorare insieme [un esempio è stato la manifestazione di] Passport […] momento di promozione dello sport in cui tutti si mettono a disposizione, aprono i loro impianti. [Una seconda iniziativa interessante è stata lo Sportello unico per lo sport] è un gradino un po’ diverso: perché è un servizio al mondo sportivo. Viene pensato come sostegno, in un’ottica di accompagnamento del mondo sportivo. I due filoni su cui abbiamo lavorato sono essenzialmente questi: quello dello sport per tutti, dell’avvicinamento allo sport, del rendere evidenti, promuovere anche sport meno tradizionali garantendo un minimo di pari opportunità tra le discipline; e quello più strutturato, del sostegno puntuale, competente, informato, sugli aspetti gestionali, programmatori, progettuali”.

Ma è Pierpaolo Maza che mette in evidenza come sia stata la nuova

amministrazione provinciale, anche attraverso impegni e scelte onerose che non erano di sua stretta competenza, a dare un diverso impulso a questo modello di rete. Pierpaolo Maza, che tra l’altro ha dato un diretto contributo alla costituzione dello Sportello di cui parlava la Accossato, ci spiega che:

“l’attuale assessore e l’attuale amministrazione, quindi anche se la Provincia come sapete non ha

competenze particolarmente strutturate sulla vicenda è più una scelta diciamo di un diritto politico più che una competenza strutturata per ruolo e quindi si è cercato di fare due cose: […] la prima quella di occuparsi di dare degli indirizzi più chiari agli Enti locali; la Provincia ha un compito di coordinamento degli Enti locali e, quindi, ha ritenuto opportuno fare un lavoro che desse le informazioni, facesse crescere la competenza e la conoscenza nelle amministrazioni locali, proprio per occuparsi di sport con un minimo di pianificazione o di qualificazione. […] i Comuni […] hanno anche loro un numero di competenze, alla fine poi si arrabattano a inventarsi cose all’interno di impianti a volte in modo abbastanza squinternato, la Provincia ha costituito uno Sportello dello sport, che ho inventato io, che in qualche modo - con il concorso di esperti di vario tipo - […] dà gli indirizzi agli Enti locali fa una consulenza e aiuta i Comuni a non fare troppi errori in ordine al tipo di progettazione perché […] abbiamo assistito per anni anche nel nostro territorio a qualche, stupidaggine cioè palazzetti costruiti in posti dove non c’era nessuno che li utilizzava o non fare niente in posti dove invece magari sarebbe stato utile farlo. Questo lavoro la Provincia ha cominciato a farlo e quindi questo mi sembra un orientamento importante, soprattutto per dare un po’ una logica di come poi gestire gli impianti facendo in modo che anche l’idea di darlo in gestione al cosiddetto Terzo settore avvenisse con un minimo di criterio, cioè che si cominciasse a scegliere una linea per affidare gli impianti a una gestione anche privata, ma di privato sociale, che in qualche misura fosse anche un po’ rispettoso anche di quanto il territorio è capace di esprimere; quindi, preparando anche schemi relativi […] convenzioni quadro, secondo la logica della gestione partecipata dell’impiantistica che vede il territorio attivo sia nel fare emergere il fabbisogno di impianti, ma che poi deve farsene anche un po’ carico. Questo per quanto riguarda […] l’impiantistica, poi ci siamo occupati di fare quello che mette più in difficoltà, [cioè] ragionare sul concetto di promozione dello sport facendo in modo che ogni anno la Provincia [organizzi] una

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conferenza programmatica, dedicando […] un minimo di approfondimento rivolto soprattutto agli Enti locali di pensare al rapporto fra sport e scuola”.

Una seconda area ha per vertice il mercato e quel sistema lucrativo che include

imprese, istituti di credito, compagnie assicurative, aziende commerciali e in genere tutte le società che, a prescindere dalla loro ragione giuridica, operano sul terreno profit. Questo spazio sociale si colloca, ovviamente, nell’area dell’azione di tipo privato e societario. Nel sistema sportivo territoriale, così come è stato radiografato dall’indagine, è possibile ubicare qui i centri di fitness (comprese le grandi catene commerciali, i McDonald’s del fitness, che, sull’esempio nordamericano, stanno invadendo le principali aree urbane europee e ora anche italiane), le palestre private, le scuole di danza, ma anche i club professionistici ed estensivamente tutte le attività che abbiano per finalità dichiarata e primaria il conseguimento del profitto. Anche qui occorre procedere con relativa prudenza. Se è vero, infatti, che stiamo osservando il territorio proprio del mercato e del profitto, non è sempre facile tracciare una mappa delle congruenze fra ragione sociale e finalità dichiarate. Gli stessi club del calcio professionistico, ad esempio, alimentano - tramite i vivai - forme di reclutamento allo sport che rientrano nella categoria della promozione ed estensivamente dello sport per tutti. Molti soggetti profit, inoltre, producono attività di supporto al sistema scolastico o sanitario in regime di convenzione con enti pubblici. Nell’ordinamento sportivo italiano, inoltre, i club professionistici continuano formalmente ad appartenere al circuito istituzionale dello sport federale e del comitato olimpico.

La terza area - il cui vertice è costituito dalla Comunità - rappresenta il settore

informale, di natura privata, comunitaria e non profit, in cui agiscono strutture familiari, reti di vicinato, gruppi amicali, aggregazioni locali di varia natura. Le attività individuali o di piccolo gruppo legate alla gestione informale del tempo libero - dal jogging all’equitazione di campagna al cicloturismo, dall’escursionismo ad attività agonistiche praticate con maggiore o minore sistematicità, ma al di fuori di circuiti codificati (tennis, calcetto ecc.) - appartengono a questo ambito che, come abbiamo acquisito dai dati Istat, risulta essere quello più fortemente in crescita nei favori dei cittadini italiani “attivi”. Siamo in presenza della galassia, empiricamente sfuggente, degli sportivi “fai da te”. Un universo di praticanti dalle dimensioni demografiche imponenti, che più di ogni altro attore istituzionale ha silenziosamente contribuito a rivoluzionare il nostro sistema sportivo. I dati relativi alla realtà torinese non si discostano signficativamente, in questo, da quelli medi nazionali. Se non per la diffusa e prevedibile preferenza accordata, dagli sportivi del week end, alle attività sciistiche e della montagna. Si sbaglierebbe, però, a ritenere questo settore estraneo alle ragioni e alle esigenze di politiche pubbliche. Anzi. Il caso italiano è definibile come quello di un Paese dove la pratica sportiva è ormai ampiamente diffusa, ma insufficientemente tutelata. Le carenze in materia di informazione sanitaria (si pensi al drammatico problema del doping, ma non solo), di copertura assicurativa, di efficace monitoraggio del rischio, di sicurezza nei percorsi open air, di professionalità degli operatori nelle palestre private, persino di garanzie igieniche e di

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corretta manutenzione di molte strutture, determinano con inquietante frequenza autentiche emergenze. A riprova che la pratica sportiva - e soprattutto, come è intuitivo, quella del praticante “fai da te” - continua a essere insufficientemente tematizata, in primis dallo Stato e dai ministeri competenti, come oggetto di politiche pubbliche orientate all’utenza.

Esiste, infine, un’area topograficamente centrale, appartenente alla sfera privata,

societaria e non profit. Essa è descritta dai vertici costituiti dalle tre intersezioni delle bisettrici con i lati del triangolo. E’ dunque contigua a tutti e tre gli altri sottosistemi, dai quali è più o meno influenzata. Si collocano qui le istituzioni educative private, le organizzazioni non profit e le associazioni volontarie in genere. È anche questo probabilmente - per quanto emerge dalle indicazioni della ricerca- il settore che più direttamente interessa possibili strategie di Welfare Mix e politiche di seconda generazione.

L’associazionismo sportivo è infatti un caso addirittura esemplare della convivenza di forme e profili sociali privi di linee di demarcazione nitide e persistenti nel tempo. La fluidità, complessità e variabilità - aspetti propri della differenziazione sociale delle associazioni - costituiscono tratti essenziali per comprenderne il ruolo e le peculiarità. La variegata galassia delle associazioni volontarie costituisce, così, un settore distinto sia da quello privato - ispirato alla razionalità economica del mercato e dei suoi meccanismi più o meno spontanei di regolazione (interesse, profitto, responsabilità individuale, utilitarismo) - sia da quello pubblico. Quest’ultimo è retto da logiche di azione politica e da obbligazioni di tipo universalistico e tendenzialmente solidaristico, ma che implicano un certo grado di controllo, di legittimazione e di potere sanzionatorio. Anche la comunità opera con proprie logiche di azione. Esse derivano principalmente dai legami che si istituiscono fra i membri, dal grado di autonomia del gruppo, dalle relazioni di reciproca responsabilità, dalla capacità di tutelare bisogni e interessi immediati.

Il settore volontario combina, invece, logiche e razionalità proprie di tutti e tre gli altri sistemi. Come le imprese for profit e il settore pubblico presenta obiettivi definiti e regole formali. In comune con l’ambito for profit e il settore informale (comunità) ha la natura privata e l’autonomia legale rispetto alla sfera pubblica. Del settore pubblico e della comunità condivide il carattere non profit, princìpi non distributivi e finalità collettive. Etica collettiva, principalmente ma non necessariamente di tipo solidaristico, e azione volontaria, ne costituiscono i tratti distintivi.

La mappa che l’indagine ci ha consentito di costruire possiede, come si può

constatare, una forte valenza tassonomica. In maniera nitida e relativamente semplice permette di collegare e correlare sistema sportivo e sistema sociale, di situare entro i perimetri del triangolo concrete esperienze di azione organizzativa, di rappresentare panoramicamente un universo a elevato livello di complessità.

Come tutte le rappresentazioni grafiche presenta però due limiti.

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Per un verso, operando su piani cartesiani di tipo unidimensionale, schiaccia le collocazioni di frontiera e rischia di farci smarrire le aree di indeterminatezza che appartengono a molte delle esperienze censite.

In altre parole: gli attori organizzativi - club, società, strutture commerciali, enti di promozione, federazioni, gruppi e movimenti spontanei - vengono ubicati sulla mappa secondo la loro identità prevalente. Con il rischio di rinunciare a cogliere dimensioni e dinamiche refrattarie a una collocazione troppo rigida. È quello che si è lamentato segnalando come quasi tutti i protagonisti individuati del sistema sportivo torinese dichiarino di operare lungo linee di azione e attraverso l’attivazione di risorse che non sono banalmente e linearmente riconducibili alle categorie pure del mercato, dello Stato o della comunità. Il modello, nella sua linearità tassonomica, non consente, insomma, di cogliere le dinamiche di scambio, gli scarti e le sovrapposizioni che concorrono a comporre il quadro reale delle esperienze.

Per un altro aspetto, in coerenza con quanto si è appena osservato, manca al modello la capacità di cogliere le trasformazioni intervenute nel tempo. Manca, cioè, il necessario approccio diacronico, che pure il lavoro di ricostruzione del contesto storico e le testimonianze verbali raccolte permettono quanto meno di abbozzare. Esemplare in diverse testimonianze è, ad esempio, la questione del tendenziale declino dell’altruismo e della gratuità nell’esperienza del volontariato sportivo. Una questione per nulla astratta o moralistica, perché in essa consiste la principale ragione di crisi del sistema amatoriale, cioè il progressivo venir meno della disponibilità al lavoro volontario. Tale declino motivazionale si sovrappone, peraltro, all’esigenza del sistema non profit di una più elevata qualità e specializzazione dei propri operatori, cioè nella richiesta crescente di volontari “formati”, dotati di competenze e non solo di buona volontà. Un esempio molto concreto è avanzato dall’Assessore Accostato, che richiama gli effetti dell’aumento delle regolamentazioni normative e fiscali che interessano il sistema:

“l’aumentata logica: la regolamentazione, il rispetto di norme fiscali di sicurezza eccetera, fa sì

che poi diventi più difficile per dei volontari rispettarle ed esserne responsabili. Non si può chiedere ai volontari di essere anche dei fiscalisti!”

E Annalisa Tribisonna mette ancor più in chiaro quali siano le attuali esigenze nel

mondo del volontariato quando dice: “Il problema è che chi fa sport un buon 70% è al livello di volontariato […] Abbiamo [quindi]

una base sulla quale iniziare e fare politiche all’interno dello stato, ma tutto passa per la formazione, senza la formazione non siamo in grado di andare avanti”.

La Provincia, rispetto alla necessità da tutti avvertita di promuovere una nuova

figura di volontario, più aderente alle nuove esigenze, si è già mossa, come spiega la Accossato:

“…si sta definendo un nuovo tipo di volontariato […] di territorio, che non esisteva in questo

senso perché noi eravamo legati al volontariato più sociale […] quello sportivo, e poi un po’ di

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volontariato culturale, legato ai monumenti. Quello che viene fuori invece [con il progetto “Ragazzi 2006”] è un gruppo di ragazzi con una competenza più vasta, che va dalla conoscenza del proprio territorio, alla capacità di seguire e gestite eventi, ma sempre appunto in chiave volontaristica e non di sostituzione alla forza lavoro”.

E Maza aggiunge, in relazione al progetto “Ragazzi 2006”, che: “…noi ci siamo fatti carico di favorire questo progetto ragazzi 2006, soprattutto nella logica di

costruire un percorso di cittadinanza attiva, di muovere una disponibilità di una fascia particolare della collettività a interessarsi non solo per i Giochi, ma anche dopo e prima di quello che nel territorio avviene: cioè costruire una leva di persone che tendono a farsi carico un po’ dello sviluppo del territorio, delle esigenze, della sua coesione […] noi siamo un territorio con un radicato volontariato socioassistenziale, noi siamo la terra dei salesiani, del volontariato laico, eccetera; pensiamo che sia anche giusto cominciare a generare un percorso di disponibilità volontaria più civile […] questo tipo di disponibilità volontaria a promuovere l’immagine, la tenuta, la vitalità, la convivenza nel territorio…”

E’ molto importante, ci sembra, questo richiamo esplicito alla cittadinanza attiva e

la connessione che viene istituita con una storia locale ricca, più che altrove, di diffuse e diversificate esperienze solidaristiche. Mentre ci interroghiamo sul declino dell’altruismo e sui suoi possibili effetti, essa viene a costituire l’essenziale sfondo diacronico per passare da una rappresentazione del sistema puramente morfologica e descrittiva a una più articolata e attenta agli svolgimenti storico-culturali. Allo scopo, però, occorre allora tentare due operazioni.

La prima, più impegnativa, si fonda su una lettura che incroci la rappresentazione morfologica, generata dall’autoclassificazione degli attori intervistati nel sistema graficamente proposto, con i processi di azione amministrativa a livello locale. Solo in questo modo si può tentare il passaggio dalla mera descrizione del sistema sportivo torinese alla ricostruzione delle politiche pubbliche che ne hanno sorretto la persistenza nel tempo e le trasformazioni intervenute o in fase di sviluppo. La seconda esigenza che dobbiamo soddisfare, e che possiamo invece affrontare subito, riguarda il ridisegno in prospettiva diacronica del modello. Come è illustrato nella figura 2, il mutamento nel mix organizzativo che caratterizza - almeno sin dagli anni Sessanta - il sistema sportivo locale, ha conosciuto negli ultimi dieci anni un’accelerazione. Nella rappresentazione da noi elaborata, si nota anzitutto come il sistema si sia quantitativamente esteso. La ristretta superficie dell’ovale che abbiamo collocato a cavallo dell’asse pubblico/privato, si è nel tempo dilatata nel grossolano quadrangolo che abbraccia asimmetricamente tutti e quattro i sub-triangoli descritti dal modello matrice. Ciò a significare, oltre alla dilatazione quantitativa del sistema, una sua metamorfosi qualitativa nel segno dell’articolazione, della differenziazione e della complessità.

Articolazione, perché si sono moltiplicati e diversamente dislocati più attori organizzativi. Differenziazione, perché l’offerta di attività si è diversificata per intercettare tutte le possibili domande di un “mercato” massicciamente cresciuto, generando ibridi organizzativi ed esperienze totalmente inedite. Maggiore complessità, infine, perché è anche cresciuta l’interazione con attori organizzativi,

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istituzioni e soggetti di varia natura sociale non tutti e non necessariamente appartenenti alla tradizionale “società sportiva”. (5)

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IL TRIANGOLO DEL WELFARE (FIG.1) STATO

PROFIT NON PROFIT RETI SOCIALI RETI DI TIPO COMPLESSE PRIMARIO SETTORE PUBBLICO PUBBLICO PRIVATO AREA DEL VOLONTARIATO SETTORE SETTORE FOR PROFIT INFORMALE

MERCATO COMUNITA’

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I CAMBIAMENTI NEL MIX ORGANIZZATIVO DELLO SPORT (FIG.2)

STATO

PROFIT NON PROFIT RETI SOCIALI RETI DI TIPO COMPLESSE PRIMARIO

ANNI PUBBLICO 60 PRIVATO

ANNI 2000

MERCATO COMUNITA’

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La configurazione del triangolo e dei suoi quattro sub-triangoli va perciò integrata dalla constatazione che il sistema, dilatandosi e ridefinendosi, ha prodotto differenti dislocazioni tipologiche. L’area che in origine insisteva soprattutto sul triangolo apicale - quello della sfera pubblica - appare fortemente ridimensionata in quota di composizione, pur essendosi anch’essa estesa rispetto al passato. Una porzione del sistema si è saldamente dislocata nel sistema del mercato. E’ modesta rispetto al numero teorico dei praticanti e degli operatori coinvolti - in pratica, gli atleti professionisti e gli attori commerciali -, ma largamente dominante in termini di fatturato economico. Un’altra, certo più consistente sul piano demografico, ha, per così dire, “colonizzato” una sezione non trascurabile dell’area del privato comunitario, quella in cui proliferano gli sportivi “fai da te”. Ma il dato di gran lunga più significativo, a nostro parere, è offerto dalla massiccia espansione dell’area del non profit, che fra gli anni Sessanta e i Novanta ha trasferito nel sistema sociale torinese tutte le complesse (e talvolta contraddittorie) istanze di crescita del Terzo settore italiano tout court. E’ anche in forza di questa constatazione che i processi di trasformazione interni al sistema non profit - la sua parziale istituzionalizzazione, il declino delle motivazioni altruistiche, le crescenti esigenze di professionalizzazione degli operatori, gli effetti indotti dalla concorrenza commerciale - acquistano una rilevanza del tutto particolare ai fini della nostra ricostruzione.

La figura cerca, insomma, di illustrare convenzionalmente - senza pretese di

scientifica oggettivazione - tanto il mutamento intervenuto nel disegno del sistema sportivo locale, quanto le trasformazioni che hanno interessato le sue relazioni con il più ampio sistema sociale.

La rappresentazione grafica assume pertanto a premessa che il sistema, cresciuto a partire dalla fine degli anni Sessanta-primi Settanta sulla base di una domanda, diffusa nelle società industriali mature, di riappropriazione della corporeità, di ricerca del benessere, nonché di prevenzione sanitaria e di risposta – individuale e collettiva – alla routinizzazione della vita quotidiana, si sia man mano venuta dislocando prevalentemente entro i confini di quella che in sociologia è definita azione volontaria e, con linguaggio giuridico-economistico, privato societario non profit. Nei suoi svolgimenti diacronici, però, il sistema ha incluso esperienze profit - si pensi ai club professionistici del calcio, la cui costituzione in società per azioni (1997) segna, anche in Italia, un vero passaggio d’epoca rispetto al modello tradizionale dell’associazionismo sportivo volontario – ed esperienze a basso tasso di strutturazione: attività informali, fitness, turismo sportivo, pratiche non competitive open air, ginnastica per anziani ecc.

La commercializzazione del settore sportivo (for profit) è alla base della crisi di ruolo dei comitati olimpici nazionali, accusati ormai - soprattutto dai grandi club professionistici - di contrastare lo sviluppo mercantile dello sport spettacolo. E’ addirittura paradigmatica, se esaminata in questa ottica, la vicenda che oppone club, Coni e Figc alla vigilia del campionato di calcio 2003/04.

Quanto alle esperienze informali, dislocate in territori di confine dove lo sport acquista una fisionomia strumentale, in relazione a domande di socialità e di

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integrazione comunitaria, ovvero in rapporto a bisogni personali (la riabilitazione psicomotoria, la prevenzione sanitaria di alcune patologie), esse sfuggono a una rigorosa classificazione di modello e trovano ovvie difficoltà nel costituirsi come soggetti di rappresentanza, spesso anche in relazione alle forti difficoltà economiche. Nel merito l’Assessore Accostato ricorda i tentativi e anche gli insuccessi patiti nella prospettiva di assegnare al sottosistema dell’associazionismo ruoli più impegnativi:

“L’associazionismo ha reagito con fatica, [eppure] è stato coinvolto fin da subito […] abbiamo

affidato [loro] una prima indagine conoscitiva sulle disponibilità, ma devo dire, anche in termini di una certa delusione, che [l’associazionismo] ha fatto fatica a stare in questo meccanismo e soprattutto l’ha visto solo in chiave utilitaristica. […] Questo perché la fame di soldi del volontariato è micidiale è comprensibile, però si è andati poco oltre, tant’è che pensavamo di fare un ulteriore passo con loro, anche [in termini] di gestione […], ma non siamo riusciti a trovare un accordo, una soluzione […] si trattava d’insegnare le lingue straniere ai ragazzi o di insegnare l’informatica o la cultura del territorio, qualcuno di loro sta partecipando, li stiamo un po’ recuperando soprattutto sulle partite che riguardano la parte sportiva o le partite socio-sanitarie, stanno un po’ rientrando, ma quello che pensavamo: una colonna un po’ nell’organizzazione in chiave di messa a disposizione non c’è stata!”.

D’altro canto, non si possono trascurare esigenze esogene - in quanto non

comprese nella missione dello sport per tutti -, che sono però intrinseche al sistema sportivo, come nel caso dell’avviamento dei giovani atleti alle attività di prestazione di alto livello. Una funzione che, almeno in Italia, ha costituito per decenni l’unica ragione sociale formalmente riconosciuta dell’associazionismo sportivo, condannando i cosiddetti enti di promozione sportiva - in cambio di modesti e precari benefici finanziari e normativi - a una condizione ancillare rispetto al sistema della prestazione assoluta e al regime Coni.

Se dunque le associazioni di sport per tutti, le piccole società e le attività specializzate rivolte a soci-utenti (anziani, disabili ecc.) sono sicuramente insediate nello spazio dell’azione volontaria, un dato saliente è rappresentato, un po’ in tutta l’Europa continentale, dalla crescita speculare dell’intervento pubblico, da un lato, e del profit, dall’altro. I centri privati di fitness - sempre più strutturati in grandi reti commerciali - e l’arcipelago delle scuole di danza o di ginnastiche dolci, i club professionistici, rappresentano il consolidamento di un’area profit in costante espansione. Viceversa, la tematizzazione dello sport come strategia di integrazione sociale ha indotto in molte realtà nazionali, Italia compresa, un’iniziativa dei poteri pubblici rivolta allo sport scolastico, alla salute, alla gestione di impianti a fini sociali. L’attenzione dei poteri locali alle potenzialità dello sport come pratica di inclusione sociale non rappresenta, dunque, una concessione alle pressioni di attori organizzati dotati di un loro piccolo potere di influenza (federazioni, centri di sport commerciale, enti di promozione) né una generica rincorsa a una domanda sociale in evidente espansione. Rappresenta, al contrario, una risposta, per molti versi obbligata, ai mutamenti che stanno interessando l’intero sistema di Welfare. Al punto che non è azzardato affermare che la riforma dello sport e una sua più pronunciata configurazione federalistica costituiscono un pezzo non trascurabile della riforma complessiva del Welfare. Spiega, infatti, Petito dell’Associazione “Centro Campo”:

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“secondo me la vera inclusione è quella che passa per il territorio, con interventi capillari, che

coinvolgano tutte le realtà, ognuna con le proprie caratteristiche. Ciò che conta di più e che sarà la forza dell’associazionismo sportivo è la differenziazione dell’offerta”.

Sul versante comunitario, la crescita dei gruppi amatoriali per pratiche a basso

tasso di competitività (dal jogging al trekking, dall’equitazione di campagna alla rivisitazione dell’alpinismo e dell’escursionismo, ecc.) costituisce un fenomeno imponente. In breve, l’espansione quantitativa della pratica ha indotto insieme diversificazione dell’offerta e moltiplicazione degli attori sociali ed economici coinvolti. Questo processo ha interessato, in momenti diversi, tutte le principali realtà nazionali dell’Occidente europeo. Lo sport, tutto lo sport, si è insediato sempre più nel sistema dell’azione volontaria di massa. È intuitivo, ad esempio, che lo stesso associazionismo a base volontaria è un luogo di mediazione e di negoziazione fra istituzioni pubbliche, imprese e cittadini (Selznick, 1957) e fra centro e periferia (Shils, 1975). I problemi che si pongono, però, sono anche in termini di capacità e di mediazione interna. Per diventare un punto di raccordo e concertazione delle attività tra Stato e mercato, infatti, il mondo dell’associazionismo, secondo Maza:

“dovrebbe meglio organizzarsi meglio consociarsi meglio rappresentarsi […] quindi [questa

carenza di coordinamento li] rende molto più deboli […] gli attori che se ne occupano sono poco attrezzati per la sfida, vivono molto nell’autoreferenzialità nel cercare di risolvere i loro problemini, ma non hanno nessuna capacità di guardare al sistema [perché sono tutti molto presi] dalla sopravvivenza”.

Il Terzo settore, cui appartiene la grande maggioranza delle società sportive

dilettantistiche, si colloca, in questa rappresentazione, al crocevia di interessi e di logiche d’azione propri dei due attori dominanti: lo Stato e il Mercato, appunto. In questo spazio si muovono soggetti eterogenei, che combinano differentemente le tre fondamentali caratteristiche dell’azione collettiva individuate da Touraine (1994, 1998): la tutela di interessi, la volontà di essere parte attiva nella produzione del mutamento sociale, la capacità di elaborare autonomi modelli culturali. Si comprende, così, perché Everts e Wintersberger, analizzando la configurazione dei sistemi di Stato sociale, abbiano coniato la formula Welfare Mix. Una configurazione sociale che sfugge tanto all’egemonia degli apparati pubblici quanto a quella del puro sistema di mercato del capitalismo classico, dando vita a esperienze di gestione dei servizi e a forme organizzative quanto mai composite.

Il sistema associazionistico, nel suo insieme, occupa dunque un’area che sta dentro il perimetro Stato-Mercato-Terzo settore, senza però automaticamente e completamente collocarsi nell’ambito di uno o dell’altro dei soggetti dominanti.

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6. La crisi e la trasformazione delle istituzioni sportive italiane. Chi paga lo sport?

Si può ora affrontare il nodo del cambiamento in quanto effetto della

contemporanea e interagente trasformazione delle istituzioni sportive pubbliche e delle amministrazioni. Con lo scopo di consegnare alla riflessione dei decisori e degli operatori anche qualche ipotesi utile al loro delicato lavoro.

Prima di affrontare questa problematica, bisogna però rapidamente fornire alcuni elementi di riferimento, relativi alle politiche di sostegno centrale / locale alla pratica sportiva, che sono necessari per meglio comprendere caratteri e dimensioni della questione, nonché il ruolo delle amministrazioni locali.

Va allora preliminarmente ricordato come, a differenziare l’Italia dalla maggior parte delle altre principali esperienze europee, stanno due caratteristiche. Entrambe discendono dalla forma peculiare della sportivizzazione italiana. Da un lato, l’egemonia esercitata sull’intero sistema sportivo da un ente specializzato (Coni) che non solo ha goduto di una larghissima autonomia di ruolo e di competenze rispetto allo Stato, ma che - in assenza di un ministero dello sport e nella latitanza di politiche pubbliche di settore - ha a lungo surrogato poteri e funzioni che sono ovunque propri delle istituzioni di governo.

Dall’altro, quel singolarmente affollato panorama di associazioni sportive volontarie, operanti a scala nazionale, che deriva dalla storia organizzativa degli enti di promozione.

Il Coni è un ente il cui profilo giuridico-amministrativo è stato ed è oggetto di non poche controversie. Estensivamente, possiamo definirlo come un’agenzia semipubblica che - malgrado i vincoli posti nel 1999 dal decreto Melandri sul riassetto dell’ente - conserva responsabilità, risorse e compiti di controllo sull’intera rete superiori a quelli assegnati in qualsiasi altro contesto nazionale a organismi corrispondenti. Gli enti di promozione, a loro volta, vivono una condizione di transizione. Nati come espressione di una cultura del collateralismo politico e religioso, che riproduceva anche nello sport i compiti di supplenza istituzionale esercitati dai partiti, dalla Chiesa o da istituzioni specializzate (come l’università e le imprese), essi hanno a lungo mantenuto, quasi interiorizzandola, un’identità subalterna rispetto all’ente sportivo ufficiale. Accontentandosi, per l’appunto, di promuovere talenti per la pratica agonistica di alto livello e riproducendo persino le forme organizzative del modello ufficiale, in una perfetta esemplificazione della teoria dell’isomorfismo istituzionale (Di Maggio e Powell, 1983). Questa rappresentazione vivaistica dello sport per tutti appare superata nei fatti sin dagli anni Ottanta, quando esplode anche in Italia, sull’onda di un mutamento culturale che andava investendo tutti i Paesi sviluppati dell’Occidente, la pratica sportiva diffusa. Gli enti maggiori, più socialmente rappresentativi, culturalmente più attrezzati e più influenzati dal grande movimento nord-europeo dello sport per tutti, hanno da tempo maturato una identità abbastanza emancipata dai vincoli di sudditanza e dalla divisione del lavoro loro imposta dal regime di scambio politico fra burocrazie Coni e partiti della Prima repubblica. Sin dalla fine degli anni Ottanta, ad esempio, l’Uisp

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(Unione italiana sport per tutti) ha operato la propria svolta identitaria e simbolica, trasformandosi da ente di promozione ad associazione di sport per tutti, rinunciando alla anacronistica dizione di sport popolare e rivendicando una chiara autonomia politico-organizzativa dalle originarie forze sociali di riferimento. In forme peculiari, proprie di una diversa tradizione associativa, anche le maggiori organizzazioni sportive del mondo cattolico – a cominciare dal Csi (Centro sportivo italiano), dall’UsAcli e dalle Pgs (Polisportive giovanili salesiane) - hanno maturato significative trasformazioni del paradigma originario (6). Nelle parole di Massimo Sacco del Csi di Torino si trova una parte di quanto sintetizzato sinora del rapporto tra Coni e associazionismo, quando egli stesso afferma:

“per noi la crisi economica adesso comincia a farsi proprio sentire. [Una crisi] economica e di

riconoscimento politico, cosa che gli enti non hanno; fermo restando che poi l’ultima cosa che abbiamo chiesto al Coni rispetto al discorso degli enti di promozione sportiva è il maggiore controllo. Cioè noi abbiamo chiesto la definizione di chi sono i soggetti quali caratteristiche e che cosa devono fare nel senso che sui contributi il Coni dà dei soldi in base a una consistenza. Io dico però controllate anche quello che si fa! Cioè controllate chi fa realmente sport e chi dice che lo fa e invece non lo fa! E quindi anche per noi un maggiore controllo perché noi enti di promozione sportiva […] abbiamo 12mila società sportive, abbiamo i campionati dove giocano a pallone, allora dateci i soldi per quelli che giocano a pallone. Ma […] non a chi ha le discoteche fra gli affiliati e dice che fa lo sport perché ha tanti tesserati, ma perché ha affiliato quattro discoteche, anche lì persone allora non so se sudano corrono hanno i calzoncini corrono dietro al pallone questo è un vanto nel senso che sono pochi gli enti credo il Pgs, la Uisp noi del Csi…”

L’espansione sociale della pratica pone anche, inevitabilmente, questioni legate

alla sopravvivenza di un modello di relazioni centro-periferia che - fondandosi su un regime di delega a un ente fortemente centralizzato come il Coni - crea acuti conflitti con le autonomie locali e non favorisce l’inserimento del sistema sportivo nella riforma federalistica dello Stato.

Gli aspetti strutturali più distintivi del caso italiano, infatti, consistono (i) nella forte e persistente propensione alla spesa per attività fisico-motorie da parte delle famiglie; (ii) in una quota di finanziamento pubblico non molto lontana da quella di altri Paesi europei, la quale però (iii) risulta assai più concentrata nelle erogazioni dal centro (tramite la longa manus del Coni, oggi convertito in spa, e delle federazioni agonistiche) che negli interventi della periferia (autonomie locali). Secondo stime dell’Università di Limoges, alla fine degli anni Novanta in Italia il 42.8% dei contributi pubblici proveniva dal centro e il 57.2 dal sistema delle autonomie, orientate alla produzione del Welfare locale (in Germania il 2% dal centro e il 98 dalla “periferia”). Nella Ue solo il Portogallo presentava un esempio di gestione delle risorse finanziarie pubbliche più centralizzato dell’Italia (TABELLA 1).

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Tabella 1. Il sostegno pubblico alle attività sportive in nove Paesi UE (1996). Dallo

Stato (milioni $)

% Dai poteri locali

(milioni $)

% Totale (milioni $)

A

Popolaz. (milioni $)

B

A:B ($)

PNLpro capite

($)

GERMANIA 70.5 2.0 3392.9 98.0 3463.4 81.59 42.4 20370FRANCIA 784.1 23.5 2549.7 76.5 3333.8 57.98 57.5 19955G.B. 77.7 5.0 1462.8 95.0 1540.5 58.26 26.4 18360ITALIA 627.1 42.8 836.3 57.2 1463.4 57.19 25.6 19536SPAGNA 181.9 23.8 584.1 76.2 766.0 39.62 19.3 14216BELGIO 147.7 31.8 317.0 68.2 464.7 10.11 46.0 20852FINLANDIA 44.8 15.0 254.5 85.0 299.3 5.11 58.6 17188SVEZIA 27.6 9.9 250.5 90.1 278.1 8.78 31.7 18201PORTOGALL

O 112.4 46.0 131.9 54.0 244.3 9.82 24.9 12841

Fonti: Università di Limoges e World Bank Report (1996) L’esito concreto di questo regime è ben esemplificato dal valore statistico

individuato dalla penultima colonna della tabella. L’Italia non è soltanto, dopo il Portogallo, il Paese in cui il sistema sportivo, nel suo insieme, è più dipendente dal centro. E’ anche la realtà nazionale in cui, dopo Spagna e Portogallo, le istituzioni investono meno per sostenere le attività agonistiche e fisico-motorie. Viceversa, solo in Finlandia le famiglie spendono direttamente per la pratica sportiva più che in Italia.

Questi dati dimostrano che dove il sistema sportivo è più esteso, dove maggiore è il numero degli attori organizzativi coinvolti, dove lo sport per tutti è riconosciuto come soggetto di pari dignità e le istituzioni ne riconoscono e incoraggiano la missione sociale, crescono anche le risorse per lo sport di alta prestazione.

7. Azione e strumenti. Le politiche di seconda generazione e l’azione

amministrativa nella riforma del Welfare. Lo scenario che è stato descritto e che discende dall’osservazione comparativa

prodotta da ricercatori stranieri, e perciò non sospetti di qualche forma di partigianeria, consente di individuare i possibili contenuti e le priorità per possibili politiche di scopo a livello territoriale.

Si pone, infatti, una questione vitale e urgente di riforma del complessivo sistema sportivo. Il federalismo amministrativo e l’adozione contestuale del principio di sussidiarietà rappresentano opportunità irripetibili per investire il sistema sportivo

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nazionale e le sue articolate espressioni locali di un radicale processo di riforma. Questione che non può riguardare le singole amministrazioni, bensì l’azione parlamentare, le associazioni rappresentative di secondo livello (Anci, Upi, Conferenza Stato-regioni), ma anche la Lega delle Autonomie e altri soggetti operanti nei vari sottosistemi interessati o organi di indirizzo costituzionale, come il Cnel.

Contemporaneamente, si manifesta un’esigenza di efficace razionalizzazione degli interventi, capace di ottimizzare risorse scarse - specie in considerazione dei reiterati tagli imposti alle autonomie locali dalle Finanziarie degli ultimi anni -, ma anche di ripensare il tradizionale approccio strategico alla questione sportiva. Non nel senso di una politica di sostegno parcellizzato alla spesa familiare per lo sport, ma nella direzione di un programma di servizi che allevino gli oneri dei bilanci privati e la gravosa quota di investimenti improduttivi dei soggetti organizzativi, come enti, società e anche federazioni. Comuni, province e regioni possono ripartirsi oneri di programmazione e gestione degli interventi, prevenendo o cancellando alcune autentiche vergogne del nostro ordinamento. Siamo un Paese di sportivi “a perdere”, costretti a pagarsi le più elementari prestazioni sanitarie necessarie alla pratica effettiva e sicura, visto che all’osservanza formale delle norme di tutela provvedono spesso certificati prestampati, reperibili sulla scrivania del medico di famiglia. Un Paese dove nessun governo ha mai adottato provvedimenti di alleggerimento fiscale per l’accesso a impianti, formazione tecnica, informazione medica, tramite detrazioni o deduzioni a favore dei praticanti. Un Paese in cui la pratica sportiva in ambienti insicuri causa purtroppo - ma non per mera fatalità - centinaia di decessi ogni anno, dovuti a carenza di vigilanza e/o di strumenti dedicati (le piste ciclabili, per citare un solo esempio). Senza che le istituzioni si preoccupino degli oneri spaventosi che gravano per le coperture assicurative e il rispetto degli adempimenti di legge sui malcapitati organizzatori di attività ed eventi.

Allo stesso tempo, è ancora terribilmente difficile ottenere il riconoscimento dell’operatore sportivo come potenziale mediatore culturale nei contesti di integrazione difficile (immigrazione) o di esclusione potenziale (minori a rischio, disabili ecc.).

Occorre perciò agire su un set di variabili e di priorità ampio e differenziato, che incroci azione di pressione sulle istituzioni centrali, riqualificazione dell’asse formativo degli operatori, ridisegno delle stesse modalità di offerta amministrativa.

In una parola: produzione di reti. Dovendo a questo punto individuare il punto focale del nostro problema, quale

emerge dal lavoro sviluppato attraverso l’analisi qualitativa, si può sostenere che esso si collochi nell’esigenza di promuovere e assecondare, da parte dei poteri pubblici, un processo di consapevole e non dirigistico adattamento istituzionale alle spontanee trasformazioni socioculturali che hanno interessato il fenomeno sportivo.

Tenendo nel debito conto proprio le differenze fra le diverse esperienze organizzative presenti nell’universo dello sport; che rendono ragione - come abbiamo cercato di mostrare - della sua complessità.

Il caso torinese è abbastanza esemplificativo di un quadro d’insieme, quale quello descritto dal triangolo matrice, che abbiamo ricavato dalla letteratura internazionale e

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utilizzato nella costruzione del modello dinamico del sistema sportivo locale (figure 1 e 2)

E’ questa complessità del sistema che esige l’adozione di politiche di seconda

generazione. Cioè (i) un significativo coinvolgimento degli attori organizzativi non solo nella gestione, ma nella produzione delle politiche; (ii) criteri di promozione e incentivazione di attività di interesse pubblico ispirati per lo più al metodo della direzione per obiettivi; (iii) modalità di gestione amministrativa capaci non solo di garantire la correttezza procedurale e contabile degli interventi, ma anche la progressiva valutazione del rendimento.

Il governo di un sistema sportivo territoriale, destinato a essere sempre più trasferito ai poteri locali, è un possibile e importante banco di prova per realizzare quella che viene chiamata amministrazione di risultato. Con questa formula, Fedele (2002) descrive il combinato disposto di deregolazione, riorganizzazione amministrativa, meccanismi di quasi mercato, misurazione e valutazione del risultato attraverso procedure di benchmarking. Il grafico che viene proposto cerca di riassumere i principali flussi di azione e comunicazione che regolano il rapporto fra trasformazione della cultura e della prassi amministrativa e sport locale (figura 3).

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IL MUTAMENTO DELLE POLICHE E LO SPORT LOCALE (FIG.3)

Ristrutturazione ammin. locali

Razionalizzazione organizzativa Esperienze di deregolazione Contrattualizzazione delle attività

Modelli di gestione

basati sulle misti basati sui risultati

Politiche di scopo

intersettoriali in partnership interorganizzative

Rendimento istituzionale

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Un cambiamento teoricamente già in atto nella Pubblica Amministrazione italiana, sin dalla promulgazione dei decreti Bassanini, ma che ha incontrato, come è noto, non poche resistenze burocratiche. Non si tratta infatti di un puro, per quanto incisivo, adattamento tecnico delle routine necessarie alla Pubblica Amministrazione per dare risposta all’accresciuta complessità e alle turbolenze degli ambienti di riferimento. Si tratta, al contrario, di un’innovazione che interessa la missione e i valori portanti del governo locale. E che, nello stesso tempo, coinvolge non solo gli obiettivi delle politiche, ma anche la loro effettiva strumentazione.

Il grafico considera lo sport locale come una delle possibili politiche locali interessate dalla trasformazione operativa della Pubblica Amministrazione. I suoi contenuti possono essere quindi applicati anche a diverse tipologie di intervento. Il caso dello sport è però particolarmente significativo perché i quattro aspetti portanti - si legga in sequenza verticale la successione delle caselle singole: ristrutturazione delle amministrazioni locali / modelli di gestione / politiche di scopo / rendimento istituzionale - trovano nella fattispecie una straordinaria esemplificazione. Le tre opportunità descritte dalla ristrutturazione amministrativa (razionalizzazione organizzativa, esperienze di deregolazione e contrattualizzazione delle attività) trovano, nel caso dello sport, applicazioni dirette. Basti pensare al lavoro per staff che integrino le competenze di vari uffici e assessorati o alla possibilità di istituire convenzioni e protocolli di intesa con società e organizzazioni sportive di varia natura. Questo consente anche di sperimentare modelli di gestione non più esclusivamente basati sulle norme, ma orientati a garantire insieme produzione di procedure e verifica dei risultati (modelli misti e modelli basati sui risultati). Conseguentemente, quelle politiche di scopo che abbiamo chiamato politiche di seconda generazione, possono realizzarsi sia facendo interagire comparti diversi della medesima Pubblica Amministrazione, sia attivando forme di partnership fra soggetto pubblico e attori caratterizzati da una diversa ragione sociale. Ma anche creando vere e proprie reti interorganizzative, come consorzi per il project financing o consigli di gestione di programmi di attività o di dotazioni impiantistiche. Nel caso del sistema sportivo e del ruolo dei poteri locali, la relazione fra l’acquirente (purchaser) e il fornitore (provider) è d’altronde resa più complicata dal fatto che spesso i poteri locali si trovano ad assolvere entrambi i ruoli. Da un lato, devono utilizzare servizi erogati da soggetti diversi (società, club, enti). Dall’altro, sono spesso in prima persona fornitori di strutture, come per l’impiantistica e, talvolta, organizzatori di eventi o programmi di integrazione attraverso la pratica fisico-motoria.

Si concentri ancora l’attenzione sulla parte bassa della figura. Le politiche di scopo orientate all’inclusione attraverso lo sport e la pratica fisico-motoria esigono interventi basati sui risultati, cioè sottoposti a periodiche e funzionali verifiche di rendimento. E’ l’esatto contrario delle politiche di incentivazione praticate per quasi sessant’anni da Coni e Federazioni, per esempio con il trasferimento a pioggia di contributi agli enti per attività non meglio precisate di promozione sportiva. Il rendimento istituzionale - vale a dire quanta estensione della cittadinanza si realizza, quanta inclusione sociale si genera, quanto consenso si promuove - non può che

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essere garantito dalla contemporanea attivazione delle tre modalità di gestione evidenziate dal grafico.

La modalità di azione intersettoriale richiede l’intervento e la collaborazione di attori amministrativi diversi, ma depositari di un’unica missione: assessorati (allo sport, alla cultura, agli affari sociali, all’urbanistica o simili), ripartizioni competenti, circoscrizioni e autonomie operanti sul territorio a vario raggio e con varie mansioni istituzionali.

La modalità di partnership consente all’ente locale di istituire un rapporto di condivisione a termine di un programma o di un progetto finalizzati e ben definiti nel tempo. E’ la strategia già applicata con le pratiche di cofinanziamento originariamente importate dalla prassi amministrativa dell’Unione europea e da tempo in uso nel sistema universitario.

La modalità di azione interorganizzativa consiste nella costruzione di reti cooperative fra attori a differente ragione sociale e missione, come appunto i poteri locali, il sistema scolastico e le associazioni, i gruppi di utenza e lo stesso circuito profit.

E’ la sinergia di queste tre modalità che segnala nel modo più chiaro la transizione da un modello di azione amministrativa tendenzialmente autoreferenziale, basato com’è sul puro rispetto del procedure e sulla presenza di attori monopolistici (Government), a un modello in cui - riecheggiando uno slogan ancora attuale - gli attori coinvolti “gestiscono di meno e governano di più”, specializzando le funzioni e realizzando economie di scala (Governance). Lo sport, come si è sostenuto, può essere un formidabile esempio di politica di scopo orientata a valori condivisi e al governo di un sistema di azione a elevata complessità.

Un esempio che, se correttamente sviluppato, può smentire il pessimismo di Lowi (1972, 1990) sulla presunta ingovernabilità dell’azione sociale spontanea da parte dei poteri pubblici. La teoria di Lowi riposa sull’assunto che le politiche contingenti (policies) determinino le strategie (politics), perché al crescere della complessità e della molteplicità degli attori organizzativi coinvolti diminuisce la capacità delle istituzioni democratiche (cioè sottoposte al vincolo del consenso popolare) di esercitare potere di indirizzo e controllo sugli infiniti sottosistemi che l’azione sociale genera. In questo senso, la Grande Politica - quella fondata sui programmi, sui valori e sulla missione - appare condannata a rincorrere le emergenze, tentando faticosamente di razionalizzarle e di fornire loro una parvenza di coerenza con l’ispirazione ideale e programmatica dei governanti.

Al contrario, assumere come strategia e fattore identificativo delle politiche l’opzione sociale, cioè l’opzione per lo sport dell’inclusione, significa smentire questa rappresentazione pessimistica, e al limite qualunquistica, dei poteri locali. Immaginare e praticare lo sport come un ricco e variegato sistema di opportunità, che intercetta bisogni differenziati, così come differenziata è la composizione socioculturale delle nostre comunità territoriali, vuol dire realizzare non solo gestione mirata al perseguimento di finalità circoscritte (goal oriented policies), bensì politiche consapevolmente orientate a valori (value oriented politics).

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E’ questa la reale e possibile linea di demarcazione rispetto alla logica tradizionalmente perseguita dal sistema sportivo ufficiale, orientata a privilegiare le pratiche di alta prestazione e comunque il risultato tecnico come valore fondamentale e criterio pressoché esclusivo di valutazione del rendimento. Rompendo anche con le altrettanto tradizionali modalità di gestione subalterna delle risorse pubbliche - impianti e qualche occasionale e generalmente modesto finanziamento - che ha reso nel tempo i poteri locali ostaggio di lobby e gruppi di pressione, forti di una rappresentatività sociale non sempre verificata e verificabile.

Assumere lo sport come diritto di cittadinanza e oggetto di politiche pubbliche significa superare queste strettoie. Occorre pensare in grande e comprendere fino in fondo le potenziali implicazioni della rivoluzione comportamentale che la pratica sportiva diffusa rappresenta. Per agire attraverso politiche di scopo elevate, appunto, alla dignità di programma di intervento sociale, vale a dire, per riprendere e rovesciare l’aforisma di Lowi, a livello di politics che determinano policies.

Lo stesso sviluppo dei vincoli transnazionali, del resto, ha già prodotto dinamiche decisionali molteplici, partnership Stato-Mercato e cooperazione multilevel.

“Prende corpo perciò - ha scritto Fedele (2002) - un reale cambiamento nel processo di policy

making che sinteticamente può essere ricondotto all’affermazione di sistemi a rete, al cui interno operano attori pubblici e privati i quali cercano di ridurre i costi tipici del mercato o dello Stato, attraverso questa nuova modalità di regolazione” (p. 45).

Le politiche di seconda generazione necessitano di centralizzazione funzionale

(l’esatto contrario del centralismo burocratico, avendo come risultato da perseguire soltanto l’uniformità degli obiettivi selezionati e loro coerenza interna), di coordinamento (causa la crescente intersettorialità degli impatti previsti, che possono riguardare target non considerati) e di controllo (operano attori che sono indipendenti rispetto allo Stato o all’amministrazione).

Allo stesso tempo, esse devono attingere a risorse caratteristiche del mercato: decentramento dei processi decisionali (dividendo responsabilità di programmazione e decisione dai compiti esecutivi), deregolazione delle procedure (semplificazione e autonomia della line in favore del raggiungimento degli obiettivi), deleghe di competenze (politiche di scopo e ricerca di procedure consensuali variabili per perseguire le finalità selezionate) e principio di sussidiarietà.

8. Le condizioni del successo. Nella valutazione delle possibilità di successo di una politica di seconda

generazione entra in gioco la classica relazione fra costi (concentrati / diffusi) e benefici (concentrati / diffusi). Questa relazione, di matrice economica, è stata da Wilson originalmente applicata - agli inizi degli ani Settanta – allo studio delle politiche pubbliche. Il cosiddetto modello di Wilson (1973) viene qui da noi adottato come strumento euristico capace di fornire un approccio non convenzionale alla nostra indagine.

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L’intersezione dei due assi produce quattro situazioni teoriche, ognuna delle quali potrebbe essere esemplificata, grazie alle testimonianze raccolte e attraverso la ricostruzione precedentemente effettuata della letteratura grigia, da specifiche vicende amministrative. Per brevità e semplicità, tuttavia, ci limiteremo a illustrare la tipologia di Wilson con il ricorso ad alcuni riferimenti tratti dal repertorio classico:

1. costi concentrati che corrispondono a benefici concentrati, come nel caso dell’applicazione dell’aumento di una tariffa di accesso per il potenziamento dei servizi offerti da uno specifico impianto sportivo pubblico;

2. costi diffusi che corrispondono a benefici diffusi, come ad esempio l’introduzione di una tassa locale per sostenere un programma di costruzione e ristrutturazione di dotazioni in vista del miglioramento qualitativo e dell’incremento quantitativo di una vasta tipologia di offerta nell’interesse teorico di tutta la cittadinanza;

3. costi concentrati che corrispondono a benefici diffusi. E’ il caso i un’ipotetica tassa, imposta ai possessori di imbarcazioni da diporto a motore, per finanziare la bonifica ambientale di un bene pubblico, come un lago o un tratto di mare;

4. costi diffusi che corrispondono a benefici concentrati. Per esempio, un’addizionale sui consumi domestici per costruire un impianto specializzato, di cui fruiranno soltanto atleti di alto livello o tifosi dello sport spettacolo.

Lo stesso Wilson, ideatore del modello matrice, segnalava come

un’Amministrazione pubblica incontri logicamente problemi di consenso soprattutto nelle situazioni descritte ai punti 3 e 4. In altre parole, quando non c’è coincidenza fra chi paga i costi di un intervento e chi ne trae beneficio. In un caso, quello di pochi che si accollano oneri a beneficio di tutti (o di molti), è prevedibile una reazione difensiva - talvolta di tipo corporativo - che può sfociare in manifestazioni di denuncia, in campagne di opinione contro i provvedimenti o persino in azioni legali che ne contestino la legittimità. Nell’altro, quando tutti sono chiamati a sostenere interventi di cui fruiranno pochi, la reazione può essere ancora più politicamente esplosiva. E’ facile immaginare come in simili casi si faccia appello all’idea di un privilegio illegittimo o di una indebita regalia clientelare, elargita con risorse collettive. Più facile, ma non scontato, dovrebbe essere far passare provvedimenti che, a diversa scala, incidono sui diretti beneficiari. Non sono, infatti, da escludere resistenze che verteranno sulla necessità o l’opportunità di interventi onerosi (agenda delle priorità sociali), né sospetti sul fatto che i beneficiari di un’azione universalistica siano davvero tutti i potenziali fruitori dell’intervento. Non va mai dimenticato come nell’azione amministrativa, più che in qualsiasi altro contesto sociale, sia sempre in agguato la logica del free rider, descritta ormai molti anni or sono da Mancur Olson (1965). Perché, come singolo cittadino, dovrei assumermi oneri in vista di benefici che altri potrebbero pagare al mio posto? E chi mi garantisce che i benefici attesi saranno realmente tali e incideranno effettivamente sulla mia personale qualità della vita? (7)

Le trasformazioni che hanno interessato il nostro sistema politico a partire dai primi anni Novanta, con l’adozione contestuale di un sistema elettorale

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tendenzialmente maggioritario e dell’elezione diretta di alcuni capi degli esecutivi locali, come sindaci e presidente della Provincia, conferiscono - se possibile - ancora maggiore rilevanza a tali questioni. Non è casuale, del resto, che tutta la riflessione politologica e sociologica sull’azione collettiva, sulla razionalità dell’attore individuale e sull’applicazione al mercato politico della logica economica costi-benefici si sia prodotta in contesti politici da sempre maggioritari, come quello anglosassone.

Queste considerazioni non vogliono rappresentare digressioni fuorvianti o pure esercitazioni modellistiche. Ci sembra, al contrario, che proprio le testimonianze raccolte attraverso l’approccio qualitativo ripropongano con forza, anche se con formulazioni verbalmente diverse, la questione del consenso, dell’influenza di reti strutturate di pressione (il sistema delle associazioni sportive e delle loro organizzazioni di raccolta) e della “giustizia distribuitva” in un sistema ad elevata complessità e molto sensibile all’impatto sociale (cioè anche politico ed elettorale) dei processi decisionali. (8)

A nostro parere una corretta ed efficace politica locale per lo sport non può allora sottrarsi ad alcuni imperativi.

Il primo è definire di quale sport è giusto e opportuno che si occupi l’intervento

pubblico. E’ la stessa crescente differenziazione e diversificazione qualitativa dell’universo dei praticanti a suggerire un’indicazione di massima: le amministrazioni locali devono occuparsi dello sport per tutti, cioè di promuovere un sistema di opportunità che si ispiri all’inclusione. Tale sistema di opportunità non potrà pertanto escludere nessuno sulla base del talento, dell’attitudine o di motivazioni specifiche e dovrà concepire lo sport come potenziale strategia di integrazione per fasce sociali deboli (non necessariamente ed esclusivamente “marginali” o “emarginate”). Di questa missione sociale va evitata, peraltro, ogni declinazione demagogica e declamatoria. Non interessa qui, insomma, enfatizzare in astratto la valenza sociale e solidaristica, oltre alle finalità legate alla prevenzione sanitaria, della pratica sportiva per tutti i cittadini. E’ invece essenziale concepire il sistema sportivo locale come un sistema aperto, a basso tasso di gerarchizzazione e, specularmente, a elevato livello di funzionalità e specializzazione. Assumendo consapevolmente il rischio del conflitto interorganizzativo. La mancata riforma di sistema dello sport ufficiale, infatti, lascia ancora varchi non trascurabili a possibili contenziosi e conflitti di competenza con ente olimpico e federazioni. Un contenzioso che ha aspetti molto concreti: disponibilità di risorse umane, finanziarie, impiantistiche e organizzative; criteri di equa ripartizione di costi e benefici fra soggetti istituzionali, società, associazionismo di utenza ecc. Ma che comprende anche forti implicazioni simboliche e valoriali. Il ceto dirigente del sistema sportivo federale, forse per effetto del monopolio a lungo esercitato dal Coni, forse a causa degli stessi percorsi formativi della dirigenza olimpica, stenta in Italia a liberarsi di una rappresentazione anacronistica e riduttiva dello sport e delle sue potenziali funzioni collettive. Nella migliore delle ipotesi - come risulta non solo dalle testimonianze torinesi, ma anche da altre ricerche -, lo sport per tutti è confuso con generiche attività solidaristiche, in

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cui i contenuti tecnicamente e culturalmente più tradizionali dello sport di prestazione vengono “travasati” in un involucro fatto di buoni sentimenti e di struggenti testimonianze a favore delle vittime di qualche catastrofe umanitaria. Senza, cioè, minimamente impegnare una riflessione sulla qualità e le modalità di un’offerta sportiva realmente alla portata di tutti. Un generico sport sociale, insomma, al posto di un vero - anche se più difficile da perseguire - sport per tutti.

In qualche caso, ancor peggio, lo sport per tutti viene ricondotto (o retrocesso?) alla vecchia e non sempre luminosa icona della promozione sportiva. Una rappresentazione anche questa parziale del ruolo di enti e società, che continua però a esercitare una sorta di potere narcotizzante e rassicurante rispetto alle tradizionali logiche politiche. Il vecchio regime degli enti - prodotto postbellico del metabolismo sociale di partiti politici, istituzioni religiose, aziende e università – consentiva, infatti, di amministrare, entro un ben oliato meccanismo di scambio politico, le relazioni e gli stessi conflitti interni tanto ai sistemi sportivi locali quanto a quello nazionale. Anche qui costi collettivi, cioè le risorse potenzialmente a disposizione per la pratica diffusa attraverso l’attivazione di reti sociali di supporto, venivano tradotti in benefici concentrati. A favore di organizzazioni più dedite, almeno in molti casi, alla manutenzione del loro sistema di relazioni entro il mercato politico che non alla promozione della cultura del movimento e della socialità attraverso la costruzione di buone pratiche sportive e fisico-motorie.

Questo giudizio va ovviamente temperato segnalando le debite eccezioni. Enti che si sono rivelati capaci di trasformarsi in efficaci ed efficienti associazioni di sport per tutti, inventando, importando e diffondendo esperienze nazionali e straniere, sperimentando un’idea di sport come pratica di cittadinanza attiva, interagendo sistematicamente con l’universo del Terzo settore fuori delle vecchie tutele organizzative e di obsoleti recinti ideologici. Questa crescente differenziazione del panorama sollecita anche la capacità di operare sul terreno politico-amministrativo scelte coerenti con un programma e con le sue opzioni discriminanti. Indulgere a logiche di pura composizione per linee interne delle contraddizioni che il mutamento e l’innovazione hanno indotto rischia di produrre esiti perversi. Quello, ad esempio, di mortificare la sperimentazione di nuove modalità di offerta collettiva senza più nemmeno garantire i vecchi equilibri di rappresentanza, spazzati via dalla crisi dell’istituzione sportiva ufficiale.

E’ a questo scopo essenziale ricordare come anche una buona pratica come lo sport a valenza educativa, sanitaria e riabilitativa non è mai autosufficiente rispetto a finalità di inclusione sociale.

Naturale corollario di questa constatazione è che le strategie di inclusione attraverso lo sport saranno tanto più efficaci quanto più coinvolgeranno pratiche sociali ed esperienze amministrative a largo raggio. Un esempio per tutti. E’ straordinario verificare quanto la pratica sportiva, in quanto linguaggio del movimento e della corporeità - e perciò capace di limitare l’effetto obiettivamente discriminante del livello di abilità verbale degli attori individuali - possa favorire l’inclusione nella comunità ospite degli immigrati. Guai, però, a pensare l’offerta

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sportiva come un prodotto generico e indifferenziato, buono a tutti gli usi e indifferente all’impatto culturale che può generare.

Di qui un altro imperativo, consistente nella necessità di un rapporto non estrinseco con i potenziali fruitori e beneficiari dell’intervento, l’attenzione al background culturale di riferimento, l’esigenza di evitare che la pratica sportiva divenga un ghetto riservato ai soli immigrati o un’opportunità offerta solo a quelli fra loro più dotati o più inclini all’approccio strettamente tecnico-agonistico. In breve: è essenziale l’apporto di mediatori culturali, sia operanti individualmente a supporto di azioni già definite (come interpreti che siano anche facilitatori del rapporto con i singoli gruppi di utenti), sia, soprattutto, in qualità di soggetti collettivi. Nessuna azione amministrativa risulterà alla lunga efficace se non coinvolgerà i gruppi di riferimento, le eventuali organizzazioni attive nella comunità, i loro opinion leader. Questa rappresentazione del sistema sportivo come sistema aperto, animato da mediatori culturali e ispirato al principio delle buone pratiche pone, però, la questione degli strumenti operativi a disposizione dei poteri locali.

Non è nostra intenzione invadere l’ambito delle scelte e delle responsabilità

politiche. Compito dei ricercatori è assai più quello di aiutare la formulazione di domande giuste anziché quello di suggerire risposte idonee, che appartengono per intero all’ambito e alle competenze delle istituzioni. Si possono però legittimamente censire alcuni repertori di domande emerse dalle interviste e dal focus, cercando di segnalare idee - e talora esperienze concrete - che in altri contesti hanno interpretato con successo esigenze simili. La tabella 2 (Priority Base Budgeting) riconduce le problematiche emerse a un promemoria legato alla costruzione dei bilanci di settore e all’individuazione delle relative priorità. E’ quello che, in gergo amministrativistico, viene definito PBB (Priority Base Budgeting). Lo schema, da adattare alle singole situazioni specifiche, traccia una sequenza di azioni funzionali che aiutano a definire in concreto le priorità di bilancio e, insieme, a dilatare l’azione di governo del bilancio, passando dai dati puramente contabili a quelli legati all’efficacia dell’intervento. Con lo scopo, cioè, non di promuovere gestione, ma di realizzare governo. Cioè politiche di settore.

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IL PRIORITY BASE BUDGETING (TAB. 2)

Individuazione progressiva degli obiettivi (sport come sistema aperto)

Pianificazione strategica di tipo proattivo

Priorità selezionate in relazione al budget disponibile

Pianificazione a rete delle linee operative

Sistematico coinvolgimento degli staff, responsabilizzazione e specializzazione dei

servizi

Analisi delle risorse e incentivazione delle economie di scala

Verifica delle domande dell'utenza potenzialeProposte di miglioramento dei servizi

e investimento in Information Technology

Incentivazione al cambiamento Proposte di budget

Un primo ordine di problemi riconduce alla necessità di conoscere. Questione non solo di corretta e completa informazione a servizio dei decisori pubblici - coerente con il classico motto einaudiano “conoscere per agire” -, ma anche di costruzione di una griglia di dati orientati al perseguimento di programmi diversi da quelli tradizionalmente elaborati dalle federazioni agonistiche, dai club professionistici e dagli stessi tradizionali enti di promozione. Occorre, insomma, aggiornare e potenziare gli strumenti e gli stessi criteri di rilevazione. Per impostare una politica dello sport dei cittadini, non è sufficiente - e può essere persino fuorviante - il ricorso alle statistiche federali o comunque alle informazioni di pura matrice tecnico-agonistica. Potrebbe essere utile e interessante, invece, sperimentare un osservatorio permanente sulla domande di sport dei cittadini, sulle sue trasformazioni in termini di preferenze e tendenze, sulle sue connessioni con la domanda commerciale. Questo strumento dovrebbe disporre di terminali attivi nelle circoscrizioni urbane e nelle realtà territoriali dell’intero hinterland, garantendo però una sostanziale centralizzazione delle informazioni. Le tendenze emergenti dall’osservazione

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statistica andranno connesse (a) a periodiche rilevazioni sul campo (analisi field, basata su somministrazione di questionari e successiva valutazione qualitativa dei dati da parte di politici, operatori e analisti specializzati) e (b) alla costruzione di un’autentica banca delle buone pratiche, che metta a disposizione di tutti le esperienze significative, consentendone la disseminazione sul territorio. La possibilità di accesso permanente alle informazioni - possibilmente tramite un’unica struttura di contatto, one stop show - è, del resto, un aspetto fondamentale della cittadinanza.

Per quello che emerge dalla nostra analisi, inoltre, la peculiare missione dei poteri locali deve orientarsi sempre di più alla promozione di sistemi di opportunità e sempre meno al diretto coinvolgimento in esperienze di gestione. Questo significa produrre politiche di seconda generazione. Vale a dire, creare una rete di partnership selezionate con i titolari di un’offerta socialmente orientata e vincolare i possibili benefici a programmi, alla loro verificabilità in termini di efficienza / efficacia, alle loro ricadute a favore della collettività. Tale rete di partnership non dovrebbe forse limitarsi a includere l’associazionismo sportivo strettamente inteso, bensì applicare in concreto l’idea del sistema aperto. Rivolgendosi così a un audience e a un potenziale di relazioni più ampio. Alcuni esempi possono rendere più evidente la distanza che separa il sistema sportivo attuale e le sue problematiche dal vecchio paradigma, centrato sul modello federale.

Se la piaga del doping, e la sua diffusione nelle palestre amatoriali, rappresenta un problema di leggi, regole, culture, comportamenti, informazione e prevenzione, come si possono delegare in toto tali incombenze a un sottosistema specializzato, come quello sportivo? Non potrebbero essere proprio i poteri amministrativi a promuovere il coinvolgimento diretto delle agenzie educative (scuola), della formazione superiore (corsi di laurea in Scienze motorie), delle associazioni dei consumatori e delle categorie professionali? Questo porsi come nodo centrale di una rete di relazioni e competenze più o meno specializzate non aiuterebbe lo stesso sistema sportivo a generare forme più efficaci di mobilitazione contro questa minaccia collettiva? E non potrebbe favorire una più decisa e nitida fuoriuscita del nuovo associazionismo di sport per tutti dai vecchi paradigmi della promozione sportiva e dalla sudditanza al regime federale? Non permetterebbe, insomma, il pieno dispiegarsi di un punto di vista non riducibile a quello condizionato dalle logiche del successo, purtroppo ancora dominante nell’arena sportiva ufficiale?

Un ragionamento analogo può essere sviluppato in materia di impatto sportivo nell’ambiente naturale, come in quello urbano. Il movimento ecologistico ha saputo imporre anche in occasione dei Giochi olimpici invernali di Torino 2006, il criterio della Valutazione Ambientale Strategica (VAS) (Bobbio e Guala, 2002). Si tratta di un protocollo finalizzato - come già per Barcellona 1992, per Lillehammer 1994 e per Sydney 2000 - non solo a preservare, ma a valorizzare le risorse del territorio entro i vincoli e le finalità individuati da garanzie di totale ecocompatibilità. Occorre forse dare continuità a queste esperienze, mobilitando i soggetti di riferimento - come l’associazionismo ambientalistico - e legittimandone il ruolo. L’ambizione potrebbe essere di affiancare alla VAS, una Valutazione di Impatto Sociale (VIS), sotto l’egida delle amministrazioni locali. Questa valutazione dovrebbe prevedere e orientare le

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possibili ricadute nel tempo degli interventi legati all’impiantistica. Per esempio contemperando le esigenze dello sport spettacolo con la domanda di strutture leggere, a basso impatto, polivalenti e molto versatili, che meglio intercettino le istanze dello sport per tutti. I poteri locali potrebbero, insomma, elaborare quegli autentici “piani regolatore dello sport locale” cui si è già fatto cenno, associando in questa prospettiva le organizzazioni di utenza e i movimenti interessati. Ciò emerge anche dalle parole di Silvana Accossato che spiega:

“Teniamo conto che gli impianti che vengono costruiti per l’Olimpiade, sono alla fine abbastanza contenuti, sono quelli necessari per le Olimpiadi, forse l’unico ambito in cui si sta facendo anche qualcosa in più è quello sciistico. Dove però, oggettivamente, la preoccupazione per l’utilizzo post olimpico è minore, perché ovviamente si è cercato di cogliere l’occasione per implementare e ammodernare il sistema degli impianti a disposizione soprattutto in chiave di miglioramento. […] Si stanno anche ipotizzando anche soluzioni pubblico-privato di gestione mista post-olimpica proprio di tutto il sistema sciistico […] È ovvio che la gestione può essere avviata, ma la titolarità degli impianti non può essere di questi soggetti che non hanno co-finanziato. Si è trovata una soluzione ponte fino al 2006-2007, di una titolarità regionale di una gestione data alle società attuale. […] Gli impianti sono una grande risorsa per il territorio, e una loro gestione non attenta al complesso del sistema turistico e di accoglienza può essere molto negativa: non possono decidere come e quando tenere aperti gli impianti, perché delle loro decisioni ne traggono conseguenze gli albergatori, e ristoratori e tutto un sistema. […] questo è essenziale. Non a caso tutto il progetto olimpico è stato sottoposto alla Vas (Valutazione Ambientale Strategica) che ha tra i suoi fini anche questa cosa”.

È chiaro che l’idea del sistema sportivo locale come sistema aperto rinvia a strategie di governo della complessità (Governance) e a modelli ispirati alla rete e implementati attraverso quelle che abbiamo definito politiche di seconda generazione. Essenziale in questa ottica, va ripetuto, è il coinvolgimento delle sedi formative pubbliche - dalla scuola all’Università - e il riconoscimento del ruolo negoziale dell’associazionismo nelle sue varie tipologie: orientato alla promozione dello sport per tutti, agonistico-federale, ma anche espressione di sensibilità e interessi non immediatamente e non esclusivamente riconducibili alla sfera dello sport praticato (consumatori, ambientalisti, organizzazioni del tempo libero ecc.).

Più in generale, una efficace strategia di Governance, che si rivolga alle

opportunità offerte dalla pratica sportiva diffusa, dovrebbe ispirarsi ai dodici principi chiave individuati dall’OECD (2001) in relazione alla produzione delle politiche pubbliche. E’ per noi interessante sottolineare come tutti, o quasi tutti gli obiettivi strategici di seguito riprodotti dal Rapporto OECD, siano presenti nelle dichiarazioni dei nostri testimoni e nelle indicazioni emerse dal focus, soprattutto da parte degli amministratori. Questo conferma le nostre ipotesi di lavoro, e quindi non ci sorprende. L’idea di qualità dell’offerta pubblica tende a coincidere, in un’aggiornata rappresentazione del ruolo dei decisori istituzionali, con il risultato che meglio coincide con lo scopo perseguito. Nei sistemi pubblici - soprattutto nelle amministrazioni locali sottoposte al rischio di repentine contrazioni dei trasferimenti statali - l’esigenza di definire le priorità a medio periodo e la crescente pressione

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fiscale hanno favorito il passaggio da un modello di Governance, basato su un elevato controllo delle procedure e un basso controllo dei risultati, a forme di governo a distanza, attraverso politiche di intervento indiretto finalizzate soprattutto al controllo dei risultati. Quindi regolazione di scopo intesa come riduzione dei controlli procedurali e dei vincoli di azione amministrativa e di impiego delle risorse umane, come potenziamento delle capacità manageriali e come rendicontazione-valutazione dei risultati in funzione della estensibilità dei benefici e del possibile trasferimento delle acquisizioni. Dal modello classico del rational planning and control si passa così a quello della self-regulation (van Vught, 1993). Il primo enfatizzava la presunta razionalità del decisore, presupponendo che questi possedesse tutti gli strumenti informativi capaci di orientare le scelte. Il secondo ritiene che il decisore possa e debba controllare solo un limitato numero di variabili assicurandosi però, attraverso il monitoraggio e l’analisi del feedback, che le oscillazioni rimangano entro il campo stabilito, secondo il modello gestionale definito del PBB (Priority Base Budgeting), riprodotto in forma di esemplificazione nella tab.2.

A titolo riepilogativo, si elencano di seguito le dodici priorità strategiche che, in coerenza con il modello OECD, l’azione dei poteri pubblici a scala locale dovrebbe selezionare:

a. Fornire incentivi per la riduzione dei costi e la produzione di economie di scala (per esempio attraverso la realizzazione di strutture polivalenti e criteri di gestione orientati alla massima utilizzazione delle dotazioni).

b. Garantire sedi di concertazione per favorire la condivisione di obiettivi chiave (fra associazioni sportive potenzialmente concorrenti o confliggenti e fra associazionismo sportivo e altre forme di aggregazione della cittadinanza).

c. Assicurare procedure e strumenti per pervenire a risultati misurabili (benchmarking, bilancio sociale).

d. Favorire l’attivazione di strutture di governo dei progetti di tipo reticolare: l’Amministrazione diviene così il nodo centrale di una mappa di nodi territoriali e tematici non più organizzati gerarchicamente, secondo la vecchia tipologia line.

e. Distinguere chiaramente fra le responsabilità di governo politico del sistema e le competenze di consulenti, esperti e tecnici specializzati, con un ricorso sistematico a strumenti scientifici di informazione (osservatorio permanente, banca delle buone pratiche).

f. Privilegiare metodi di governo orientati alla pianificazione strategica di tipo proattivo, capace di intercettare le tendenze e di anticipare le dinamiche di offerta sociale (Valutazione di Impatto Sociale), anziché rincorrere le emergenze e la pressione delle lobby. E’ quanto può rientrare nella filosofia della Vas già adottata in occasione dell’evento olimpico.

g. Assecondare una maggiore specializzazione del lavoro amministrativo, come pure delle funzioni e dei ruoli degli attori organizzativi chiamati a concorrere alla Governance del sistema. Discende da qui anche una inevitabile soluzione di continuità rispetto alle pretese vocazioni generalistiche di singole istituzioni (Coni).

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h. Sul terreno della prassi gestionale quotidiana, far discendere dall’idea di sistema sportivo locale come sistema aperto un assetto organizzativo coerente, in particolare stimolando

i. il lavoro di gruppo; j. gli investimenti in Information Technology; k. l’incentivazione dell’innovazione; l. il trasferimento sistematico delle buone pratiche. Questo impianto metodologico-procedurale non nasce dal nulla. E’ frutto di un

percorso di analisi che la ricerca sociale sul sistema delle amministrazioni pubbliche ha avviato, con alterni risultati, sin dagli anni Ottanta. Esso si è via via concentrato sulla filosofia del risultato e sul peso attribuito dai decisori consapevoli alla visione, corrispettivo pubblico della missione per le imprese private. Per questo la rappresentazione pragmatica del sistema sportivo locale come campo di opportunità empiricamente verificabili non può essere dissociata dalla trama valoriale che sorregge l’idea di sport per tutti come diritto di cittadinanza. Di ciò pare del resto pienamente consapevole la maggioranza degli intervistati. E ci induce a sollecitare anche proposte operative, facilmente mutuabili da esperienze già attuate in altri contesti tematici e territoriali, come le conferenze dei servizi o la produzione di protocolli e dichiarazioni d’intenti (white paper) che le pubbliche amministrazioni possono diffondere facendone lo strumento per coinvolgere tutti gli attori organizzativi e sociali potenzialmente interessati. L’innovazione tecnologica favorisce queste procedure, per esempio con il ricorso ormai diffuso alla posta elettronica.

Ogni decisione amministrativa, in questa ottica, deve poter porre vincoli, ma non impedire processi. La comunicazione è essenziale perché diffonde e verifica la visione, che indica la direzione di marcia. Dopo di che la velocità operativa è legata al sistema di budget e ai criteri di gestione del personale. Per Wildawsky (1979) il budget è uno strumento chiave per assumere decisioni. In passato il bilancio si fondava sulle esigenze delle unità amministrative di spesa, con modeste variazioni percentuali di anno in anno. Questo riduceva i conflitti, perché valutava la destinazione delle risorse in base storica e deresponsabilizzava i manager, chiamati solo a garantire la corrispondenza fra preventivi e consuntivi. Nessuna attenzione ai risultati e ai fabbisogni, nonché vincoli temporali (il bilancio annuale) che impedivano di investire su progetti a diversa scadenza temporale.

La filosofia del nuovo bilancio mette al centro i programmi di attività (vere unità di analisi), tende a produrre programmazione temporalmente flessibile (si pianifica l’intera spesa) e aumenta la discrezionalità di intervento dei manager, praticando strategie di incentivazione.

Circa le modalità di gestione del personale, il modello classico prevedeva: reclutamento per concorso, indipendenza dalle pressioni politiche, progressione gerarchica delle carriere, privilegiando l’anzianità di servizio e un regime di tutele in vista del pensionamento. Ciò garantiva coesione, stabilità e regolarità, ma scoraggiava il passaggio a un’amministrazione di risultati e favoriva

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l’autoreferenzialità burocratica, non potendo attingere a competenze ed esperienze maturate in altri contesti. Oggi si tende, sull’esempio dei Paesi di common law, a connettere l’implementazione con la valutazione dei risultati, estendendo le pratiche di contracting out e l’applicazione del benchmarking come procedura principale di valutazione. Un’esperienza che ha prodotto in un certo settore risultati di eccellenza viene analizzata per verificarne l’estensibilità, anche adottando strumenti di verifica della soddisfazione e di analisi delle aspettative, secondo la tabella di Helgason (tabella 3), dedicata alle funzioni del benchmarking e qui riportata.

Tabella 3. Le funzioni del benchmarking

Oggetto del benchmark Per favorire

l’innovazione (re-engineering)

Per la valutazione

Processi Gestione della qualità Produzione di innovazione

(re-engineering)

Risultati Comparazione dei rendimenti

Programmi di valutazione

Fonte: Helgason (1997) La globalizzazione ha svuotato la vecchia sovranità statale a favore del nuovo

potere decisionale delle istituzioni transnazionali o di quelle locali, incentivando così le autonomie funzionali. Da politiche condizionali, distributive e settoriali si sta passando ovunque a politiche di scopo, redistributive e intersettoriali (politiche di seconda generazione). Anche nel governo di un sistema aperto a elevata complessità, come quello sportivo, dobbiamo guardare alla Governance come distinta dal tradizionale meccanismo di gestione della cosa pubblica (Government). Dobbiamo, anzi, sempre più rappresentarci l’azione del governo locale come punto d’incontro fra l’orientamento normativo delle amministrazioni pubbliche classiche e l’orientamento strumentale, proprio del settore privato. La regolazione dei processi di rete dipende dall’autonomia degli attori e dalla possibilità di attivare giochi a somma maggiore di zero, in cui ognuno possa acquisire benefici senza danneggiare gli altri. Di tre tipi sono le risorse attivabili: normative, economico-gestionali e comunicative. Tre sono, a loro volta, i tipi di management preposti alla loro implementazione:

* amministrativo (si affida a risorse regolamentari e alla gerarchia, ma è stimolato a valorizzare la qualità);

* neopubblico (con la partecipazione di operatori privati, che introducono logiche di convenienza);

* di rete.

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FIG. 4 Costi percepiti Concentrati Diffusi

Bassa

Valenza simbolica Elevata Fonte: Wilson (1973) La figura 4 sintetizza visivamente l’approccio suggerito in materia di management

delle politiche. Pensare l’Amministrazione locale come rete di governo (network management)

significa raccogliere le esperienze di innovazione del settore pubblico, come combinazioni ad assetto variabile di burocrazie e mercati e come tentativo di sintesi fra il new public management anglosassone e la tradizione amministrativa continentale. Nei fatti, appare più un punto di equilibrio fra modelli diversi che non un’alternativa ad essi. In questa ottica, Ferrera (2000) sostiene a ragione che in un Paese come l’Italia la riforma del Welfare vada disegnata “con una matita fina”, mancando un’amministrazione pubblica orientata ai risultati. Non vanno però trascurate innovazioni legislative recenti e significative, come la 328/2000 sull’assistenza, che per la prima volta prefigura un governo a rete del problema, o come gli accordi di area o di programma e la diffusione dei patti sociali o territoriali. Innovazioni che segnalano lo sviluppo di politiche di contratto, in cui le amministrazioni pubbliche non sono più i decisori unici, bensì appunto il nodo nevralgico, centrale e il volano di un sistema reticolare. Il governo dei sistemi sportivi può essere così un ulteriore eccellente terreno di sperimentazione di politiche pubbliche e semipubbliche di rete.

Politiche redistributive

Politiche distributive

Politiche simboliche includenti

Politiche Simboliche escludenti

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Conclusioni. Nel concludere le nostre riflessioni non possiamo perdere di vista il quadro

generale in cui si va sviluppando, a scala internazionale, il dibattito sul nuovo Welfare e l’inserimento del diritto allo sport come parte della riforma del Welfare.

Tale dibattito, che interseca potentemente ruolo e competenze dei sistemi locali di Governance - ed è perciò in gran parte coincidente, in Italia, con la prospettiva di un nuovo federalismo istituzionale -, ha conferito maggiore visibilità a un fenomeno imponente e poco tutelato nelle sedi legislative, come lo sport per tutti. Se lo sport per tutti non rappresentasse altro che l’estensione a fasce sociali e demografiche più ampie del “gioco dei moderni” – vale a dire dei suoi piaceri e delle sue ossessioni –, potremmo parlarne come di un effetto prevedibile, indotto dallo sviluppo economico, con le sue mode e con i suoi cicli di preferenza e di innovazione.

Un fenomeno puramente mimetico, insomma. Al più un generico indicatore di democratizzazione, intesa nel senso limitativo di espansione della cittadinanza passiva, ancorata al consumo di tempo libero. Anche alcuni sostenitori dello sport per tutti come possibile diritto di cittadinanza, del resto, hanno parlato delle sue “promesse mancate”. Intendendo sottolineare, così, come lo sport per tutti non sia riuscito ad affrancarsi del tutto dalla subalternità culturale al grande sport agonistico, spesso accontentandosi di scavare qualche nicchia nella parete friabile del cosiddetto “sport sociale”. In realtà, come si è già affermato, si tratta di fenomeni differenti e che vanno rigorosamente distinti.

Mobilitare la disponibilità di qualche decina di atleti di alta prestazione per una maratona podistica, destinata a ricavare fondi per una nobile causa umanitaria, è fare sport sociale, non sport per tutti. Organizzare un evento agonistico contro la violazione dei diritti umani in qualche parte del mondo costituisce un’iniziativa altamente meritoria, che non costituisce però un’esperienza di sport per tutti. Lo sport per tutti inizia quando si afferma e si pratica un’idea di cittadinanza attiva, che sperimenta stili di vita “a misura di ciascuno” e pone, così, una questione di diritti individuali e collettivi – diritto all’accesso, alla tutela, all’informazione – contro un’altra idea di cittadinanza. Quella che abbiamo definito passiva, in quanto vissuta nella sfera del puro consumo ed entro circuiti prevalentemente individuali. In questa ottica, lo sport “per tutti e a misura di ciascuno” è in radicale antitesi al modello dello sport “imposto a tutti”, caro ai regimi autoritari e dittatoriali. Ma è anche irriducibile alla logica e agli interessi del fitness commerciale, per quanto diffuso a livello di massa.

Tanto una rappresentazione mimetica dello sport per tutti – vale a dire lo sport agonistico esteso ai cittadini non atleti -, quanto una lettura ideologica (lo sport per tutti confuso con lo sport sociale) finiscono per avallare, alla fine, una visione stereotipata e persino regressiva dello sport contemporaneo. Ne cristallizzano l’identità nel tempo e nello spazio e ne negano quel profilo multiforme, cangiante e contraddittorio che emerge da un’osservazione non ancorata a paradigmi culturali usurati. Limitarsi a contare quanti “non atleti” pratichino sport, per compiacersi delle dimensioni quantitative assunte dal fenomeno senza indagarne il profilo qualitativo,

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è un classico esempio di banalizzazione. Ci si preclude così la possibilità di cogliere l’elemento di innovazione culturale sotteso alla riscoperta del corpo. Viceversa, includere fra le funzioni accessorie dello sport qualche motivazione solidaristica espone al rischio, simmetrico e speculare, di un uso ideologico, e perciò involontariamente ancillare, dello sport per tutti. Il quale diventa veramente una promessa non mantenuta, se non riesce a saldare in una missione unificante innovazione culturale, etica pubblica ed espansione del diritto alla pratica.

Un aspetto non trascurabile della questione è costituito dall’atteggiamento dell’opinione pubblica, che dimostra di avere una percezione del problema e delle sue implicazioni più aggiornata e coerente di quanto molti osservatori specializzati non ritengano. Si è già riferito dei dati emersi dalla rilevazione Istat del dicembre 2000. Pochi mesi prima, un sondaggio condotto dall’Unicab su un campione di 1.812 cittadini italiani, residenti in comuni di differenti dimensioni demografiche e collocazione geografica, aveva fornito indicazioni altrettanto interessanti e in un certo senso complementari, perché rivolte non alla quantificazione dei livelli di pratica, bensì all’orientamento verso le attività sportive.

Le attività sportive e culturali figuravano al sesto posto in un ideale ordine di priorità sociali, in relazione alle quali valutare l’efficacia delle politiche locali. Una posizione sorprendente, se si considera che tutte le indicazioni che in graduatoria di priorità precedono la voce “sport e cultura” hanno a che fare con questioni di immediato impatto, collegandosi a un possibile allarme sociale o a concrete preoccupazioni individuali: sanità, lavoro, rischio ambientale, assistenza, sicurezza. Di più: ben il 93% dei rispondenti dichiarava di avere o di avere avuto un coinvolgimento diretto nella pratica sportiva. Dato perfettamente coincidente, operate le opportune ponderazioni statistiche, con le indicazioni fornite dall’Istat. Infine, quasi un quarto degli intervistati sosteneva che le carenze dell’azione amministrativa locale in relazione allo sport costituivano la principale causa di disaffezione verso la propria municipalità. Si tratta di dati grezzi, meritevoli di ulteriori e più specifici approfondimenti. Sufficienti a confermare, però, come la filosofia dello sport dei cittadini – a meno di non sostenere che il 93% degli italiani appartenga all’élite agonistica – si sia stabilmente insediata nell’opinione pubblica.

Certo, siamo in presenza di indizi, di frammenti di un discorso incompiuto. Sufficienti, però, a delineare una fase di stato nascente. Esiste una domanda sociale diffusa e insoddisfatta – in gran parte confinata nelle esperienze “fai da te” – ed esistono dinamiche di conflitto dentro l’arena sportiva istituzionale. Se in campo scendessero attori collettivi ancora troppo timidi nel rivendicare il proprio ruolo in una riforma dello sport che non si riduca al riordino del Coni – pensiamo, oltre ai poteri locali e al sistema educativo, alle associazioni ambientalistiche, alle organizzazioni non profit e ai movimenti dei consumatori -, saldandosi con le avanguardie del nuovo associazionismo di sport per tutti, potrebbe prendere forma un movimento capace di vincere le resistenze corporative, di modernizzare e trasformare il sistema sportivo. Lo sport dei cittadini potrebbe cessare di rappresentare uno slogan di pronto impiego per divenire, invece, la concreta espressione di un nuovo diritto

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nelle società del benessere. I poteri locali possono costituire il più diretto e rilevante interlocutore di questa domanda.

NOTE

(1) Torino apparterrebbe alla categoria delle eurocittà industriali, come Lipsia e Manchester. Anversa e Genova sarebbero l’esempio delle eurocittà portuali. Colonia, Venezia e Firenze delle eurocittà turistiche.

(2) Un dato che viceversa, se analizzato da vicino, appare tutt’altro che trascurabile riguarda le competizioni agonistiche di alto livello, in cui la quota di successi femminili è ormai a livello di quelli maschili. In alcune discipline, come è accaduto in occasione delle ultime Olimpiadi, sono le atlete a rappresentare la maggiore riserva di risultati tecnici per le squadre azzurre.

(3) A raggio nazionale la sequenza percentuale praticanti continuativi, praticanti saltuari, attivi, sedentari è 21.2 - 8.7 - 29.6 - 40.0 per i comuni capoluogo, e invece 21.2 - 10.0 - 33.8 - 34.8 nella periferia metropolitana. Ne discende che (a) nel rapporto fra sedentari e genericamente attivi, i centri metropolitani fanno registrare in quota di composizione, come si è già accennato, circa il 5% di totalmente sedentari in più rispetto ai residenti nelle rispettive cinture urbane, e (b) risulta proporzionalmente più elevata la polarizzazione ai due estremi della pratica intensiva e della totale sedentarietà.

(4) Il problema si è, se possibile, ulteriormente accentuato con la crisi organizzativa del Coni e dei suoi comitati territoriali e con il venir meno delle risorse umane e finanziarie un tempo destinate alla ricerca e alla documentazione. E’ deprimente, ad esempio, constatare il livello di degrado della Biblioteca nazionale dello sport di Roma e l’assoluta insufficienza dei servizi erogati a studiosi e operatori dal sistema sportivo ufficiale. Le nostre rilevazioni si fondano perciò prevalentemente su dati Istat, su rielaborazioni Cnel e sulle ricerche di settore che è stato possibile reperire. Tutte queste disperse e talvolta contraddittorie informazioni (effetto della mancata standardizzazione di criteri e procedure di acquisizione ed elaborazione dei dati statistici) hanno per noi trovato coerenza soltanto in rapporto al lavoro di analisi qualitativa che è stato condotto in loco con i testimoni privilegiati. Soltanto alla loro disponibilità e alla loro capacità di analisi si deve se questa ricerca ha potuto produrre esiti congruenti, come ci auguriamo, con le aspettative della committenza e con la deontologia dei ricercatori.

(5) Per fare qualche esempio, non c’è dubbio che la commercializzazione dello sport spettacolo abbia indotto una imponente commistione con il mercato della comunicazione. Anche l’offerta tradizionalmente veicolata dagli enti di promozione, nati da costole dei partiti o delle grandi organizzazioni sociali (Chiesa, Confindustria, Università), si è dovuta ridefinire in relazione a nuovi target con il declino del sistema di relazioni politiche della Prima repubblica. Persino sul terreno dell’offerta formativa, vanno pullulando proposte sempre più specializzate e mutuate da agenzie esterne allo sport. Le stesse Facoltà (o Corsi di laurea) di Scienze motorie - complice

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anche il nuovo statuto giuridico dell’Università - si rapportano al loro potenziale target adottando logiche e strategie proprie di altri sottosistemi sociali, a differenza di quanto avveniva con il regime dei vecchi Isef.

(6) E’ perciò comprensibile, e persino doveroso, che il movimento dello sport per tutti rivendichi anche in Italia, attraverso la necessaria innovazione istituzionale, il riconoscimento e la legittimazione dell’innovazione culturale che esso ha già contribuito a produrre. Innovazione che non può limitarsi a ridisegnare competenze e poteri dei differenti soggetti già operanti nel circuito dell’ente olimpico, ma che deve investire l’intero, più vasto sistema sportivo nazionale, prendendo atto delle imponenti trasformazioni culturali e persino demografiche intervenute.

(7) Secondo la teoria di Olson, che rappresenta una variante critica della teoria della scelta razionale, ogni volta che un individuo non può essere escluso dai benefici derivanti dall’accesso ai beni comuni, questi cercherà di sottrarsi agli oneri necessari a garantire la persistenza nel tempo del bene, privilegiando i propri vantaggi immediati. Col risultato che, se tutti gli attori operano come free rider, il bene comune è destinato alla distruzione. A tutela dei beni comuni si pongono serie questioni di governo e regolazione, che rivelano tanto le carenze dello Stato – la cui azione è per definizione costosa e “distante” – quanto quelle del mercato, che promuove costi sociali indiretti non inferiori alle economie che intende realizzare. Si aprono, invece, importanti prospettive per l’associazionismo intermedio, la cooperazione e il Terzo settore.

(8) Abbiamo usato consapevolmente l’aggettivo efficace in luogo di efficiente. L’efficacia, infatti, si riferisce alle ricadute sociali dell’azione, mentre per efficienza intendiamo convenzionalmente il rispetto della logica econometrica costi-ricavi. La distinzione è particolarmente opportuna nel caso in oggetto. E’ del tutto ovvio, ad esempio, che in termini di puro ritorno finanziario per le casse dell’ente locale sia più conveniente adibire a fruizione privata a pagamento determinati impianti di sua proprietà, anziché destinarne l’impiego ad attività rivolte a popolazione marginale. In questo caso, oltre al mancato “profitto”, l’Amministrazione dovrà calcolare anche i costi per sostenere programmi finalizzati che possono richiedere competenze specializzate, professionalmente qualificate e non disponibili nei ranghi del personale dipendente. Saremmo, insomma, in presenza di un’azione economicamente “inefficiente”, ma socialmente “efficace”. La questione rinvia, peraltro, ai criteri di valutazione dell’efficacia sociale, che sono assai meno semplici da definire e assai meno facili da mettere in atto rispetto a quelli propri del tradizionale calcolo economico, basato su una pura valutazione di rendimento finanziario. Vanno in tale direzione, peraltro, alcune sperimentazioni gestionali che sono comprese nelle categorie di benchmarking e di bilancio sociale.

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NOTA METODOLOGICA Questo lavoro assume un carattere fortemente innovativo in quanto sinora gli

studi effettuati, oltre ad essere piuttosto frammentari, si fondavano su dati secondari che, per quanto utili, non erano stati capaci di mettere a fuoco una fotografia sufficientemente chiara della situazione torinese.

In questa sede chiariremo il metodo con cui abbiamo realizzato lo studio di cui è oggetto questo lavoro e i motivi che ci hanno indotti alla scelta della procedura di cui ci si è avvalsi.

La ricerca si inserisce, invece, proprio all’interno di quel filone della “storia dal basso” che tenta di far parlare e raccogliere le testimonianze di chi ha direttamente vissuto il processo di modificazione delle politiche sportive sul territorio torinese, con tutti i problemi e le dinamiche ad esso connesse. Un approccio che ha sostanzialmente fatto propria la ricchezza euristica del metodo qualitativo.

In termini empirici, ci si è mossi da una prima ricerca di carattere bibliografico volta a ricostruire gli antecedenti storici e sociografici utili a collocare l’oggetto dell’indagine. In seguito ci siamo mossi attraverso l’uso di interviste in profondità a testimoni privilegiati. Tale “rapporto aperto” con il nostro oggetto di ricerca e, di conseguenza, con i soggetti intervistati è stato necessario proprio a partire dalla poca letteratura esistente sull’argomento e dai recenti cambiamenti nelle dinamiche di gestione dello sport da parte degli attori istituzionali1. Quando parliamo di un “rapporto aperto” non intendiamo dire che la prassi rilevativa è lasciata a un anarchismo intersoggettivo, quasi come fosse un oggetto artistico che si caratterizza, come direbbe L. Pareyson, “ad un fare che, mentre fa inventa il da farsi e il modo di fare”2, ma di un rapporto che è “veicolato” al fine di rilevare le informazioni che ci interessano in modo che queste non si presentino, però, come delle risultanze o come dei pensieri reificati, ma mantengano la loro dimensione dinamica e storica, ovvero la loro articolazione argomentativa, così come sono del resto nella vita del pensiero reale.

Questa fase, che ha occupato i ricercatori nella raccolta di dati primari attraverso alcune interviste in profondità a cosiddetti “osservatori privilegiati”3 ha permesso di “accedere alla prospettiva degli intervistati”. L’osservatore privilegiato può, infatti, far parte della popolazione in esame, ma per la sua particolare posizione – che può esser data sia dalla professione svolta o da un’ampia esperienza rispetto al tema dell’indagine – è dotato di una conoscenza profonda dell’oggetto della ricerca e in tal senso è capace di sintetizzare alcune prospettive, diverse tra loro sul tema oggetto

1 Ricordiamo infatti che: “più il soggetto dello studio è complesso, o poco conosciuto nei suoi schemi […] più l’intervista dovrà essere non direttiva, [e] aperta a tutte le possibilità d’espressione. Cfr. H. Dautriat, Il questionario, Franco Angeli, Milano 1990, p. 12. 2 L. Pareyson, I problemi attuali dell’estetica, in AA. VV., Momenti e problemi della storia dell’estetica, Marzorati, Milano 1961, p. 1819. 3 Espressione che viene da noi utilizzata in alternativa a quelle di “testimoni privilegiati” o “informatori chiave” (key informants).

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dell’indagine, che trasversalizzate in fase di analisi permettono di comporre il mosaico della situazione reale in un dato contesto.

Sono stati intervistati (il 10 aprile 2003) singolarmente rappresentanti delle istituzioni locali e dell’associazionismo sportivo: Silvana Accossato - Assessore Sport e Turismo alla prov. di Torino Annamaria Brunato -Assessore Solidarietà Sociale, Politiche Giovanili, Sanità e Pari Opportunità Patrizia Alfano - Presidente UISP prov. di Torino Padre Mario Loi - Associazione di volontariato Speranza azzurra 2000 Pier Paolo Maza - Consulente Olimpiadi 2006 Massimo Sacco - Presidente C.S.I. prov. di Torino Annalisa Tribisonna - Presidente P.G.S. prov. Torino Successivamente, gli stessi soggetti con l’aggiunta di altri due testimoni (Filiberto Rossi - Presidente UISP Regione Piemonte e Roberto Petito - Presidente dell’associazione Centro Campo) hanno partecipato ad un focus group4 che ha messo a confronto le diverse voci su alcuni temi centrali della ricerca.

Tali materiali (per un totale di circa 20 ore di registrazione) sono stati raccolti con l’ausilio del registratore, successivamente trascritte (mantenendosi il più possibile aderenti al parlato, ma utilizzando la punteggiatura per facilitare la lettura e la comprensione dei testi) e analizzate attraverso la tecnica dell’analisi tematica5. Per correttezza metodologica, chiariamo che le interviste sono state scomposte sulla base dei temi individuati come portanti del discorso sulle politiche sportive e sulle specificità del contesto torinese, e successivamente ricostruite in ordine a questi temi “tagliando” le parti che non utili all’analisi, ma segnalando le parti mancanti con tre puntini di sospensione in parentesi quadra.

I materiali sono stati, quindi, interpretati alla luce di un quadro teorico di riferimento implicito nel livello di analisi, i cui concetti sono stati estrapolati dalla letteratura sociologica e antropologica sui temi dello sport, delle politiche sociali, dell’identità, della socializzazione, etc. Tale prassi interpretativa - che definiamo a “struttura interpretativa aperta” -, che ci ha permesso di individuare i temi, rappresenta, a nostro avviso, un momento conoscitivo insuperabile per il farsi stesso della gnoseologia sociologica, messa continuamente alla prova da un reale che, spesso, supera i livelli teorici nelle sue manifestazioni e articolazioni.

4 Ricordiamo che la tecnica dei focous groups si compenetra perfettamente a quella delle interviste a testimoni privilegiati. Esso non è altro che un piccolo gruppo (otto, nove persone) che discute e commenta una serie di temi o “stimoli” che vengono indotti nella dinamica interattiva da un direttore o moderatore formale della riunione. È molto utilizzata nel settore del cosiddetto marketing politico e appare molto utile nei casi, come questo, in cui si cerca di far emergere il vissuto concreto di una certa politica da parte dei cittadini; più in generale esso permette di far emergere le rappresentazioni sociali (sistemi di norme e valori, immagini associate a istituzioni, stereotipi, topoi ecc.). esso si colloca in quella che viene definita da Jakobson “funzione metalinguistica del linguaggio”, in quanto produce discorsi particolari e controllati che rinviano a discorsi più ampi di carattere sociale. 5 Cfr. M. I. Macioti, La disgregazione di una comunità urbana, Siares, Roma 1988.

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