m. assalto - così abbiamo ritrovato la flotta perduta di kubilai khan - la stampa - 26.10.16

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24 . LA STAMPA MERCOLEDÌ 26 OTTOBRE 2016 MAURIZIO ASSALTO TORINO A gli scolari di Takashi- ma, una minuscola iso- la all’estremità meri- dionale del Giappone, nella prefettura di Nagasaki, veniva raccontata come una favola: la storia di un’immensa flotta ne- mica, arrivata in tempi remoti dalla Cina, distrutta e conse- gnata alle profondità del mare dai kamikaze, i «venti divini» mandati in soccorso della pa- tria - quelli stessi che hanno dato il nome ai piloti nipponici suicidi della seconda guerra mondiale. E qui ogni anno, il 15 agosto, anniversario del prodi- gio, si celebra una grande festa e nel tempio zen si onorano i morti di entrambe le parti. Alla base della leggenda c’è però la realtà storica, docu- mentata in un testo cinese del XIV secolo, lo Yuan shi (Crona- che degli Yuan), che riportan- do fatti avvenuti mezzo secolo prima parla di una spedizione di 4400 imbarcazioni, con 150 mila uomini (una palese esage- razione: qualche cosa di para- gonabile solo allo sbarco in Normandia), allestita nel 1281 dal Gran Khan mongolo Kubi- lai, nipote di Gengis Khan, no- to in Occidente per avere ospi- Così abbiamo ritrovato la flotta perduta di Kubilai Khan Partita nel 1281 dalla Cina alla conquista del Giappone, distrutta e affondata dal tifone, è stata recuperata da una missione italo-nipponica. Una mostra racconta l’impresa La mostra fotografica «La flotta perduta. Archeologi italiani e giapponesi sulle tracce dell’armata di Kubilai Khan», curata da Jada Mucerino, è aperta al Museo di Arte Orientale di Torino fino al 20 novembre Al Mao di Torino Un seminario sui «Populismi» Si terrà domani e venerdì al Campus Einaudi di Torino (in entrambi i giorni alle ore 15) un seminario di Teoria politica e Filosofia politica sul tema «Populismi». Con la partecipazione di Yves Mény, Loris Zanatta, Ida Dominijanni, Salvatore Lupo, Roberto Escobar e Valentina Pazé, presiede e introduce Michelangelo Bovero. MARCO MEROLA mare aperto. Un rischio. La navigazione proseguì be- ne fino in vista della città di Hakata (oggi Fukuoka), quar- tier generale del governo nel Sud del Giappone. Qui si sareb- bero dovuti ricongiungere i due tronconi della flotta, partiti l’uno da Quanzhou, nella Cina meridionale, e l’altro da Happo, in Corea. Ma l’incontro non av- venne mai. Il primo gruppo di navi subì un rallentamento in seguito alla morte di un ammi- raglio, e mentre il secondo tron- cone veniva affrontato e respin- to dai samurai continuò a veleg- giare ignaro verso il buco nero che l’avrebbe inghiottito. A Takashima. «Come un autoscontro» Dopo il ritrovamento del sigillo, le ricerche di Mozai Torao pro- seguirono con scarsi fondi e sen- za successo fino all’86, quando il testimone passò al giovane ar- cheologo Hayashida Kenzo, fon- datore in seguito dell’Asian Re- search Institute for Underwa- ter Archaelogy (Ariua). Ma no- nostante il maggiore budget a disposizione, le ricerche resta- vano infruttuose. Finché nel 2006 entra in scena Petrella, al- l’epoca ventottenne dottorato dell’Orientale di Napoli, presi- dente dell’International Rese- arch Institute for Archaelogy and Ethnology (Iriae) con sede all’ombra del Vesuvio ma con 120 soci, oggi, in tutto il mondo. «Ai giapponesi mancava SOCIETA’ & CULTURA SPETTACOLI La flotta di Kubilai Khan affondata dai kamikaze («venti divini») nella baia di Imari, in Giappone, davanti all’isola di Takashima. L’immagine è tratta da un emakimono giapponese del XIV secolo (rotolo disegnato su carta di riso lungo 37 metri) Finché un pescatore gli mo- strò qualche cosa di diverso: un sigillo bronzeo che su una faccia recava iscrizioni in lingua pa- gh’sha, l’idioma artificiale, una specie di esperanto, creato a ta- volino da Kubilai Khan nel 1276 (e destinato a durare appena sei anni) nel tentativo di unificare linguisticamente il suo sconfi- nato impero multietnico; sul re- tro la data di fabbricazione, 1279. «Avevamo quello che in archeologia si definisce il termi- nus ante quem, il limite cronolo- gico prima del quale un fatto non può essere accaduto», in- terviene Marco Merola. «Poi- ché noi sappiamo che i Mongoli hanno tentato di invadere il Giappone due volte, nel 1274, quando vennero respinti, e nel 1281, non restava che quest’ulti- ma data, quella della seconda spedizione di Kubilai». Condottiero colto e tolleran- te (in segno distensivo verso i popoli assoggettati aveva muta- to il nome dinastico Menku, da cui il termine «Mongoli», nel si- nizzante Yuan), a capo di un im- pero che si estendeva dalla Per- sia alla coste settentrionali della Cina, a Kubilai Khan restava so- lo da conquistare il Giappone - una mossa che gli serviva anche per ricompattare il regno in un periodo di crisi interna. Poiché il suo era un popolo di cavalieri delle steppe, dovette fare ricor- so alle barche dei sudditi cinesi, giunche fluviali poco adatte a un tragitto di 1400 chilometri in tato alla sua corte Marco Polo. Mancava tuttavia il riscontro oggettivo. Come e dove erano finite le navi? Uno dei maggiori misteri con cui si è confrontata l’ar- cheologia è ora risolto, grazie al lavoro di una missione con- giunta italo-giapponese, di cui dà conto una mostra fotografi- ca al Mao di Torino («La flotta perduta di Kubilai Khan», fino al 20 novembre, a cura di Jada Mucerino, con gli scatti di Marco Merola e David Ho- gsholt). Tutto è cominciato al- l’inizio degli Anni 70. La «Corrente nera» «Mozai Torao, un ingegnere, pioniere dell’archeologia di ri- cerca, basandosi su antiche fonti scritte aveva identificato l’area del naufragio nella baia di Imari, dove si trova Takashima. Qui ogni estate si abbatte il tifone, la “Corrente nera” come la chiamano i loca- li, che viaggia a 250 chilometri l’ora seminando distruzione». Chi parla è Daniele Petrella, lo studioso italiano, specializza- to in archeologia dell’Estremo Oriente e in ricerche subac- quee, che da una decina d’anni collabora con i giapponesi. «Mozai parlava con la gente del posto, con i pescatori che gli mostravano quello che ogni tanto tiravano su con le reti: vasellame soprattutto, anche del XIII secolo, che però non era ricollegabile alla flotta». Armatura mongola di cuoio, con le giunture di rame, ritrovata in fondo al mare all’interno di uno scrigno sigillato Una delle bombe da lancio (teppo), ricoperta dalle incrostazioni marine, di cui erano dotati i soldati mongoli. Finora si riteneva che quest’arma fosse stata creata in Occidente due secoli dopo

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24 .LA STAMPAMERCOLEDÌ 26 OTTOBRE 2016

MAURIZIO ASSALTOTORINO

Agli scolari di Takashi-ma, una minuscola iso-la all’estremità meri-

dionale del Giappone, nellaprefettura di Nagasaki, venivaraccontata come una favola: lastoria di un’immensa flotta ne-mica, arrivata in tempi remotidalla Cina, distrutta e conse-gnata alle profondità del maredai kamikaze, i «venti divini» mandati in soccorso della pa-tria - quelli stessi che hannodato il nome ai piloti nipponicisuicidi della seconda guerramondiale. E qui ogni anno, il 15agosto, anniversario del prodi-gio, si celebra una grande festae nel tempio zen si onorano imorti di entrambe le parti.

Alla base della leggenda c’èperò la realtà storica, docu-mentata in un testo cinese delXIV secolo, lo Yuan shi (Crona-che degli Yuan), che riportan-do fatti avvenuti mezzo secoloprima parla di una spedizionedi 4400 imbarcazioni, con 150mila uomini (una palese esage-razione: qualche cosa di para-gonabile solo allo sbarco inNormandia), allestita nel 1281dal Gran Khan mongolo Kubi-lai, nipote di Gengis Khan, no-to in Occidente per avere ospi-

Così abbiamo ritrovatola flotta perduta di Kubilai KhanPartita nel 1281 dalla Cina alla conquista del Giappone, distrutta e affondata dal tifone,

è stata recuperata da una missione italo­nipponica. Una mostra racconta l’impresa

La mostrafotografica«La flotta

perduta.Archeologi

italianie giapponesi

sulle traccedell’armata di

Kubilai Khan»,curata da Jada

Mucerino,è aperta al Museodi Arte Orientale

di Torino finoal 20 novembre

Al Maodi Torino

Un seminario sui «Populismi»Si terrà domani e venerdì al Campus Einaudi di Torino (in entrambi i giorni alle ore 15) un seminario di Teoria politica e Filosofia politica sul tema «Populismi». Con la partecipazione di Yves Mény, Loris Zanatta, Ida Dominijanni, Salvatore Lupo, Roberto Escobar e Valentina Pazé, presiede e introduce Michelangelo Bovero.

MARCO MEROLA

mare aperto. Un rischio.La navigazione proseguì be-

ne fino in vista della città di Hakata (oggi Fukuoka), quar-tier generale del governo nelSud del Giappone. Qui si sareb-bero dovuti ricongiungere i duetronconi della flotta, partiti l’uno da Quanzhou, nella Cinameridionale, e l’altro da Happo,in Corea. Ma l’incontro non av-venne mai. Il primo gruppo dinavi subì un rallentamento inseguito alla morte di un ammi-raglio, e mentre il secondo tron-cone veniva affrontato e respin-to dai samurai continuò a veleg-giare ignaro verso il buco neroche l’avrebbe inghiottito. A Takashima.

«Come un autoscontro»Dopo il ritrovamento del sigillo,le ricerche di Mozai Torao pro-seguirono con scarsi fondi e sen-za successo fino all’86, quando iltestimone passò al giovane ar-cheologo Hayashida Kenzo, fon-datore in seguito dell’Asian Re-search Institute for Underwa-ter Archaelogy (Ariua). Ma no-nostante il maggiore budget adisposizione, le ricerche resta-vano infruttuose. Finché nel 2006 entra in scena Petrella, al-l’epoca ventottenne dottorato dell’Orientale di Napoli, presi-dente dell’International Rese-arch Institute for Archaelogyand Ethnology (Iriae) con sedeall’ombra del Vesuvio ma con120 soci, oggi, in tutto il mondo.

«Ai giapponesi mancava

SOCIETA’&&CULTURA

SPETTACOLI

La flotta diKubilai Khanaffondata dai

kamikaze(«venti

divini») nellabaia di Imari,

in Giappone,davanti

all’isola diTakashima.L’immagine

è tratta da unemakimono

giapponesedel XIV

secolo (rotolodisegnato sucarta di riso

lungo37 metri)

Finché un pescatore gli mo-strò qualche cosa di diverso: unsigillo bronzeo che su una facciarecava iscrizioni in lingua pa-gh’sha, l’idioma artificiale, unaspecie di esperanto, creato a ta-volino da Kubilai Khan nel 1276(e destinato a durare appena seianni) nel tentativo di unificarelinguisticamente il suo sconfi-nato impero multietnico; sul re-tro la data di fabbricazione,1279. «Avevamo quello che inarcheologia si definisce il termi-nus ante quem, il limite cronolo-gico prima del quale un fattonon può essere accaduto», in-terviene Marco Merola. «Poi-ché noi sappiamo che i Mongolihanno tentato di invadere ilGiappone due volte, nel 1274,quando vennero respinti, e nel1281, non restava che quest’ulti-ma data, quella della secondaspedizione di Kubilai».

Condottiero colto e tolleran-te (in segno distensivo verso ipopoli assoggettati aveva muta-to il nome dinastico Menku, dacui il termine «Mongoli», nel si-nizzante Yuan), a capo di un im-pero che si estendeva dalla Per-sia alla coste settentrionali dellaCina, a Kubilai Khan restava so-lo da conquistare il Giappone -una mossa che gli serviva ancheper ricompattare il regno in unperiodo di crisi interna. Poichéil suo era un popolo di cavalieridelle steppe, dovette fare ricor-so alle barche dei sudditi cinesi,giunche fluviali poco adatte a untragitto di 1400 chilometri in

tato alla sua corte Marco Polo.Mancava tuttavia il riscontrooggettivo. Come e dove eranofinite le navi?

Uno dei maggiori mistericon cui si è confrontata l’ar-cheologia è ora risolto, grazieal lavoro di una missione con-giunta italo-giapponese, di cuidà conto una mostra fotografi-ca al Mao di Torino («La flottaperduta di Kubilai Khan», finoal 20 novembre, a cura di JadaMucerino, con gli scatti di Marco Merola e David Ho-gsholt). Tutto è cominciato al-l’inizio degli Anni 70.

La «Corrente nera»«Mozai Torao, un ingegnere, pioniere dell’archeologia di ri-cerca, basandosi su antichefonti scritte aveva identificatol’area del naufragio nella baiadi Imari, dove si trovaTakashima. Qui ogni estate siabbatte il tifone, la “Correntenera” come la chiamano i loca-li, che viaggia a 250 chilometril’ora seminando distruzione».Chi parla è Daniele Petrella, lostudioso italiano, specializza-to in archeologia dell’EstremoOriente e in ricerche subac-quee, che da una decina d’annicollabora con i giapponesi. «Mozai parlava con la gentedel posto, con i pescatori chegli mostravano quello che ognitanto tiravano su con le reti:vasellame soprattutto, anchedel XIII secolo, che però nonera ricollegabile alla flotta».

Armaturamongoladi cuoio,

con le giunturedi rame,

ritrovata infondo al mare

all’internodi uno scrigno

sigillato

Una delle bombeda lancio (teppo),

ricoperta dalleincrostazioni marine,

di cui erano dotati isoldati mongoli.

Finora si riteneva chequest’arma fosse stata

creata in Occidentedue secoli dopo

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sulla denazificazione dellaGermania (The American De-nazification of Germany). Nel1963, Wolff ottenne una bor-sa Fulbright in Italia, e Levientrò in contatto con lui pro-prio in quei mesi, probabil-mente tramite la sorella An-na Maria e il sociologo Fran-co Ferrarotti. Sono queste lepremesse in base alle qualigli affidò le lettere del «pro-getto tedesco».

Che cosa compor-tò, in termini di au-to-percezione, di ri-flessione su Au-schwitz, di progres-sione creativa di Le-vi, il fallimento diquel progetto, cioèdi un libro fatto didialoghi epistolaricon tedeschi? Cosìcome la pubblicazio-ne di un libro, anchela sua mancata pub-blicazione può cam-biare la vita, l’operae l’autocoscienza diuno scrittore. Inmolte interviste deisuoi ultimi anni Leviha parlato di Se que-sto è un uomo comeuna memoria-prote-si: i ricordi che ave-va messi per iscrittotendevano a sovrap-porsi ai ricordi ri-cordati: «una me-moria esterna che siinterpone tra il miovivere di oggi e quel-lo di allora».

La mancata pub-blicazione delle let-tere di tedeschi negliAnni 60 ebbe l’effet-to opposto: quellecorrispondenze, ri-

maste chiuse nella loro cartel-lina, continuarono nel corsodegli anni a esercitare la lorocarica interrogativa dall’in-terno, in maniera regolare epersistente, senza che Leviavesse avuto la possibilità dioggettivarne i significati at-traverso la scrittura. Sareb-bero così diventate l’ultimocapitolo del suo ultimo libro, Isommersi e i salvati: dove eb-bero il titolo Lettere di tede-schi, inevitabile quanto il dia-logo che le aveva propiziate.

c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

l’esperienza metodologica svi-luppata nel Mediterraneo» rac-conta l’archeologo. «Così nel2006 chiesi a Hayashida di ospi-tarmi a mie spese. Proposi unametodologia nuova, studiando le correnti e i fondali, e quindi undiverso posizionamento dellegriglie d’indagine». I risultatinon tardarono e oggi la missio-ne dell’Iriae, sostenuta dal no-stro ministero degli Esteri, rap-presenta l’unica collaborazionearcheologica di un istituto occi-dentale con il Giappone.

«La flotta di Kubilai fu inve-stita dal tifone alle spalle, quan-do era vicina alla baia di Imari»,ricostruisce Merola. «Una baiapiccola, con molti scogli affio-ranti, e troppe navi: almeno unmigliaio, presumiamo, per un totale di 40 mila uomini. Cerca-re riparo qui fu una scelta infeli-ce. Le imbarcazioni si urtavano,come in un gigantesco auto-scontro. Il resto lo fecero i fon-dali vulcanici, bassi e conforma-ti a lame». Non tutte le navi, pe-rò, colarono a picco. Quelle chesi salvarono furono attaccate dai veloci barchini degli incur-sori samurai che salivano a bor-do e decapitavano i nemici pro-vati dal tifone, per poi portare imacabri trofei allo shogun cheaveva promesso tanta terra perquante teste mozzate.

Le bombe da lancioDi questi vascelli non si è più trovata traccia. La fortuna po-stuma di quelli affondati sta in-vece in quegli stessi fondali cheavevano contribuito a farli apezzi. «Le sabbie fangose, conti-nuamente rimestate dalle cor-renti, hanno agito come una co-perta, salvando il fasciame dallacorrosione. Un miracolo», dicePetrella. Uno dopo l’altro sonocosì usciti dal mare migliaia direperti lignei, trasportati nelMuseo Storico ed Etnografico di Takashima, dove sono con-servati in grandi vasche di ac-qua di mare e settimanalmentetrattati, con dedizione tuttaorientale, con un polimero che lipreserva dai parassiti.

Dal numero delle ancore ri-trovate, le navi finora identifi-cate sono 260. Tra gli altri re-perti recuperati, mortai, forni,vasellame, elmi, specchi, perfi-no un’armatura di cuoio con legiunture di rame, perfetta-mente conservata in uno scri-gno sigillato con il mastice. Mail ritrovamento più inatteso èquello dei teppo, bombe da lan-cio di terracotta riempite conpolvere da sparo e schegge diferro. «Un’arma micidiale», os-serva Petrella, «che credeva-mo fosse stata creata due seco-li dopo in Occidente. Del restoera già raffigurata su un emaki-mono giapponese, un disegnosu carta di riso arrotolata lun-go 37 metri, che racconta iltentativo di invasione mongo-la: ma fino a quando non abbia-mo trovato i teppo non riusci-vamo a interpretarlo».

Da quelle prime bombe rudi-mentali che dovevano colpire ilGiappone nell’agosto del 1281,all’atomica che esplose nellostesso mese del 1945 nella me-desima prefettura di Nagasaki;dai kamikaze che una volta sal-varono, a quelli che nulla pote-rono alla fine della secondaguerra mondiale. A distanza disette secoli, da queste parti, lastoria ha fatto cortocircuito.

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«Segni» a Mantova, arte e teatro per i giovaniSi apre oggi a Mantova l’XI edizione di «Segni - New Generations Festival», la rassegna internazionale d’arte e teatro dedicata alle nuove generazioni. In programma, fino al 2 novembre, 34 spettacoli e oltre 300 eventi fra workshop, progetti di ricerca, laboratori e incontri. Mantova, capitale italiana della Cultura 2016, ospiterà artisti e intellettuali da tutto il mondo, da Stefano Benni al collettivo di scrittori Wu Ming. Un lupo a metà fra il fiabesco e l’umano, disegnato da Dario Fo, sarà l’immagine simbolo del festival.

Primo Levi e i tedeschiFino all’ultimo cercò di capire

MARTINA MENGONI

Sopravvissuto ad Au-schwitz, Primo Levinon tronca i suoi rap-

porti con i tedeschi. Nell’ul-timo dopoguerra, il confron-to con quel popolo sarà unastoria di incontri, letture,scambi epistolari, tentativieditoriali, elaborazioni lette-rarie e, soprattutto, di do-mande che attendono una ri-sposta. Che i tedeschi abbia-no rappresentato un rovelloper Primo Levi (uomo, scrit-tore, testimone, perfino chi-mico) è un dato di fatto. Co-me questa relazione difficile,ondivaga, a tratti entusiasta,a tratti frustrante, si sia mo-dificata nel tempo, dentro efuori la sua scrittura, èquanto occorre ricostruire.Oggi lo si può fare contandosu una mole di documentipoco noti o inediti, prove-nienti da archivi di tutta Eu-ropa.

Fin dal 1962 Levi si eracreato una rete di corrispon-denti dalla Germania Ovest:i primi lettori della traduzio-ne tedesca di Se questo è unuomo, apparsa nel novembredel 1961. [...]

Sempre in quegli anni, Le-vi avviò uno scambio episto-lare con Hermann Langbein,storico austriaco, ex trian-golo rosso (comunista) inLager, segretario generaledel Comitato Internazionaledi Auschwitz; Langbein locoinvolse nel progetto di unagrande antologia di testimo-nianze di vittime e carneficidi Auschwitz. Doveva uscirein contemporanea con la pri-ma istruttoria del processodi Francoforte contro i re-sponsabili del campo; ma illibro fu pubblicato già nel1962 e vi furono inclusi due

Primo Levi (Torino 1919-1987)in un disegno di David LevineTHE N. Y. REVIEW OF 

BOOKS / DISTR. ILPA

Conoscere sé stessi attraverso gli altri:le Lezioni di Storia tornano a Torino 

Quando si leggono i te-sti antichi, in cui lamorale e la concezio-

ne dell’uomo è diversa dallanostra, ci si trova di fronteall’altro. E - come sempresuccede - questo altro ci dice

qualcosa su noi stessi, ci co-struisce proprio perché è di-verso. Con la sua differenza cimette in questione».

Così scriveva Jean-PierreVernant, uno dei più grandistorici della Grecia antica, nelsuo libro-dialogo con JacquesLe Goff. Può essere questodesiderio di conoscere séstessi attraverso l’altro ciòche ha spinto negli ultimi die-ci anni centinaia di migliaia dipersone in tutta Italia a met-tersi in fila per ascoltare leLezioni di Storia?

All’Auditorium di Romaprima, alla Basilica di SantaMaria delle Grazie a Milano

GIUSEPPE LATERZA

rivolta dei Tuchini: era dicem-bre e la piazza era coperta dineve!

Proprio Alessandro Barbe-ro domenica aprirà il nuovociclo delle lezioni di storia cheabbiamo promosso insiemealla Stampa, al Circolo dei let-tori e al Teatro Carignano.

Seguiranno le lezioni diEmilio Gentile e Franco Car-dini, tutte introdotte da Cesa-re Martinetti e infine un dialo-go inusuale tra un grande an-tichista come Andrea Giardi-na - che aveva aperto il ciclosulla storia di Torino con unalezione sulla fondazione dellacittà - e il direttore della Stam-pa, Maurizio Molinari. Il temasarà Augusto e il Califfo...unmodo per fare storia alla ma-niera di Vernant: guardare aun passato lontano per rimet-tere in questione noi stessi...

c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Il via domenica al Carignanocon AlessandroBarbero

Le lettere che gli arrivavano dalla Germania nel Dopoguerradovevano far parte di un libro che non vide mai la pubblicazione

dopo e poi a Firenze, Trieste,Genova, Bari, il rito laico del-la domenica mattina si è ri-petuto, ogni volta con la me-raviglia degli storici stessiper la quantità di gente cheveniva ad ascoltarli. Non una«nicchia», come qualcuno di-ce, ma una comunità diversi-ficata per professione ed età,che legge i giornali e i libri,che va al cinema e visita i mu-sei, che usa la rete in modoconsapevole.

Ricordo come fosse ieri lalunghissima fila di fronte alCarignano una domenicamattina del 2009 per ascolta-re Barbero che parlava della

capitoli di Se questo è un uomo.Nel 1964 un ulteriore capitolodi Se questo è un uomo uscì inun volume-strenna che le ac-ciaierie Hoesch di Dortmunddistribuirono ai loro dirigentie dipendenti. Nella Germaniadi Hitler le grandi industrieavevano dato un sostegno de-cisivo al regime. Ora una diquelle industrie pubblicavaun volume sulla fratellanza, diispirazione cattolico-liberale, curato dallo stesso AlbrechtGoes. In un contesto di invitoall’accoglienza e all’ecumeni-smo cristiano, Levi aveva scel-to il capitolo Ottobre 1944 chesi concludeva con la ben notasentenza «Se io fossi Dio, spu-terei a terra la preghiera diKuhn».

Per sua stessa ammissione,Levi riceve in quegli anni «unaquarantina di lettere» di tede-schi. Nel 1963 annuncia in dueinterviste che Einaudi inten-de pubblicarle. È una non-no-tizia, perché il libro non si fa-rà, ma è anche una notizia: ap-

Oggi alle 17,30alla Cavallerizza

Si terrà oggi alle 17,30, Aulamagna dell’Università diTorino alla Cavallerizza

Reale, l’8a Lezione PrimoLevi, l’annuale appuntamento

organizzato dal Centro Leviper approfondire l’opera

dello scrittore in rapportoalla contemporaneità.

Quest’anno sarà MartinaMengoni (della Normale di

Pisa) a parlare di Primo Levie i tedeschi. La lezione (di cuianticipiamo uno stralcio) saràreplicata in altre città, fra cui

Roma, Milano e Bolzano.

Quattro appuntamentiLe «Lezioni di storia speciale»

si aprono domenicacon Alessandro Barbero («Il

linguaggio dei Papi», TeatroCarignano, ore 11, introduce

Cesare Martinetti). Nelledomeniche successive lezioni

di Franco Cardini, EmilioGentile e Andrea Giardina con

Maurizio Molinari. Biglietti:€ 7 (€ 5 per abbonati Tst,

La Stampa, Carta PlusCircolo dei Lettori).

Info e biglietteria: Circolodei lettori, 011-4326827

prendiamo che per Levi, finda allora, le lettere dei lettoritedeschi possedevano una di-gnità editoriale e di contenutoautonoma rispetto al libro chele aveva originate.

Più tardi, Levi avrebbe af-fidato quelle corrispondenze(denominandole «progettotedesco») a Kurt HeinrichWolff, un sociologo tedesconaturalizzato statunitense.Wolff era un «tedesco ano-malo». Fuggito dalla Germa-nia perché ebreo, rifugiatosi

in Italia negli Anni Trenta,emigrò infine negli Stati Uni-ti diventando professore allaBrandeis University. Nei pri-mi Anni Cinquanta, invitatoda Max Horkheimer, parteci-pò ai Gruppen-Experimen-ten dell’Istituto di Sociologiadi Francoforte, che aveva ap-pena riaperto dopo la guerra,redigendo due studi: uno sul-l’autorappresentazione dellapopolazione tedesca dopo laguerra (German attempts atpicturing Germany), l’altro

Inaugurato a Roma il Museo della ZeccaHa aperto ieri al pubblico il Museo della Zecca di Roma, che espone oltre 20 mila opere tra monete, medaglie, punzoni, modelli di cerae macchine industriali d’epoca, come il bilanciere pontificio di Clemente XII. «Torna visibile al pubblico un patrimonio numismatico di grande valore che testimonia la storia della Zecca e del Poligrafico, nonché un pezzo significativo della storia d’Italia», ha dichiarato il ministro Franceschini, presente all’inaugurazione assieme al ministro Padoan e al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.