m. mazzucco - il museo del mondo

6
R CULT 52 DOMENICA 6 GENNAIO 2013 l a R e p u b b l i c a IL MUSEO DEL MONDO l primo quadro di cui ho memoria non l’ho visto in un museo né in una chiesa. Non era appeso su una parete — distante, intangibile e vagamente sacrale — ma lo te- nevo fra le mani, come un qualunque oggetto della mia vita quotidiana. Insomma, era riprodotto in un libro. Ad Parnassumdi Paul Klee campeggiava infatti sulla co- pertina di un libro d’arte per bambini, che mi fu regalato da mia madre per il mio quinto compleanno. Era convinta che l’arte moderna, in apparenza primitiva e in- fantile, possa essere compresa istintivamente, senza bisogno di nozioni o espe- rienza del mondo. Forse è così: perché quel quadro è stato per me davvero una por- ta, e da allora un’opera d’arte non ha mai smesso di sembrarmi non qualcosa di morto, venerabile, il prezioso relitto di una civiltà scomparsa, ma qualcosa che — come un libro — parla proprio a me, e mi riguarda. Da qualunque lontananza ven- ga il suo richiamo. Spero che Ad Parnassumsia anche la vostra porta: perché il mio viaggio nelle immagini del mondo inizia da qui. Paul Klee, accusato dai suoi critici di dipingere scarabocchi per bambini, era in- vece un intellettuale, uno scienziato e un filosofo. Aveva elaborato una complessa teoria dell’arte e non dipingeva neanche un punto senza sapere perché. Non avreb- be mai voluto che ci chiedessimo che cosa rappresenta Ad Parnassum. L’arte non è imitazione, non deve riprodurre il visibile — diceva — ma rendere visibile l’in- terno occulto delle cose. La chioma di un albero non somiglia alle sue radici. Lui voleva sbarazzarsi di chi in un quadro va a caccia degli oggetti reali del mondo. Co- sì, di questi, è rimasto solo il riflesso, come un’eco sul punto di spegnersi. Un cer- chio arancio che potrebbe essere un sole, due linee scure che potrebbero rappre- sentare il tetto di un edificio (o una montagna, o una piramide), tre cunei che indi- cano direzioni opposte, un arco che ricorda una porta. Insomma, le forme essen- ziali: i punti, le linee, i colori. I primi si aggregano in disegni geometrici, i secondi combinano i tre colori fondamentali (giallo-rosso-blu) in infinite variazioni. La te- la è intessuta di punti di colore, come minuscole tessere di mosaico — o squame di serpente o scaglie di pesce. Klee riteneva che l’opera fosse un organismo, natura essa stessa, soggetta alle stesse leggi della cellula e del cosmo: i punti di Ad Parnas- sumbrulicano come stelle nel firmamento. Però questo quadro ha un titolo, scelto da Klee. Dunque è un segno anch’esso. Ad Parnassum significa verso il Parnaso. Ricorda cose reali. Era infatti il titolo di un saggio di teoria musicale del 1725, che Paul Klee, figlio di un insegnante di musica e di una cantante professionista, e lui stesso violinista e cultore di musica, cono- sceva: la sua aspirazione di pittore era creare una sintesi di pittura, musica, poesia. Dunque il titolo allude alla polifonia, che il quadro si propone di rappresentare sim- bolicamente. Ma Ad Parnassumsi intitolano anche gli esercizi di pianoforte di Mu- zio Clementi, che conducono l’allievo all’eccellenza. Esso implica un’ascesa — suggerisce un movimento verso l’alto. Ma nel quadro la salita è ostacolata dalle tre punte, che introducono una tensione e indirizzano lo sguardo altrove — a destra, a sinistra, in basso. L’occhio scivola allora verso un altro elemento: la porta, al cui centro spicca un rettangolo violaceo. E qui agisce il terzo significato del titolo. Il Par- naso è infatti prima di tutto il monte sacro ad Apollo e alle muse. E’ il regno incon- taminato dell’ispirazione e dell’armonia. I più grandi pittori dei secoli trascorsi, da Mantegna e Raffaello a Poussin, hanno dipinto la salita al Parnaso dei poeti e degli artisti. La porta che si apre nell’angolo sinistro di quella che non è una casa né un tempio, ma la montagna stessa dell’arte e della poesia, è allora la porta che immette in quel mondo altro — là dove il caos diverrà musica. E’ lì che si ferma lo sguardo: è quello il punto di equilibrio del quadro. Val la pena ricordare che questa sinfonia polifonica non è stata dipinta in un mo- mento qualunque della vita di Klee — trascorsa fra studio, ricerca, viaggi, famiglia, insegnamento, sperimentazione di tecniche innumerevoli e creazione inesausta (alla sua morte aveva realizzato ben 9000 opere). Fu dipinta in quello stato di gra- zia sospesa che precede la caduta. E’ il 1932. Paul Klee insegna pittura alla Scuola di Belle Arti di Düsseldorf, viaggia in Italia, lavora — e intanto, incalzato dai nazisti che hanno vinto le elezioni municipali, lo Stato tedesco interrompe i finanziamenti alla Bauhaus, dove anche Klee ha insegnato per anni. L’anno dopo, è lui stesso a es- sere licenziato. Un fogliaccio nazista lo denigra come il tipico ebreo della Galizia (in realtà suo padre è un ariano bavarese, e sua madre è svizzera), le SA perquisi- scono la sua casa. Paul Klee lascia la Germania per esiliarsi in Svizzera, dove del re- sto è nato. Fatto che invalida la battuta di Orson Welles nel Terzo Uomo (quella che dice che in cinquecento anni di pace e democrazia gli svizzeri hanno creato solo orologi a cucù). Nel 1932, in Germania, il Parnaso è minacciato. Nel 1933, un qua- dro di Klee figurerà nella prima delle famigerate esposizioni di Arte Degenerata. Ma proprio quando il Parnaso è in pericolo, Klee dipinge un’armonia melodica di pun- ti, linee e colori, e invita chi guarda a varcare la porta e a salire. L’arte non è mai un traguardo, ma un cammino: ciò che conta non è la meta, ma la strada percorsa. © RIPRODUZIONE RISERVATA MELANIA MAZZUCCO “Una melodia di punti, linee, colori Klee e il senso segreto delle cose” I FOTO DI BASSO CANNARSA L’ARTISTA Paul Klee (1879-1940), pittore svizzero. Nel 1911 entra in rapporto con gli artisti del Blaue Reiter. Risale invece al 1920 il suo ingresso al Bauhaus di Weimar; forma con Kandinskij, Feininger e Jawlensky il movimento dei Quattro Azzurri. Lascia oltre alle sue tele piene di colori e di simboli una robusta elaborazione teorica, dal “Quaderno di schizzi pedagogici” alla “Teoria della forma e della figurazione” L’OPERA Paul Klee: “Ad Parnassum” (1932), olio su tela, Berna, Kunstmuseum

Upload: ggviolin

Post on 09-Aug-2015

367 views

Category:

Documents


6 download

DESCRIPTION

M. MAZZUCCO - Il Museo Del Mondo uncompleted .. 6 of 50 files

TRANSCRIPT

Page 1: M. MAZZUCCO - Il Museo Del Mondo

RCULT■ 52DOMENICA 6 GENNAIO 2013

la Repubblica

IL MUSEO DELMONDO

l primoquadro di cui ho memoria non l’ho visto in un museo né in una chiesa. Nonera appeso su una parete — distante, intangibile e vagamente sacrale — ma lo te-nevo fra le mani, come un qualunque oggetto della mia vita quotidiana. Insomma,era riprodotto in un libro. Ad Parnassum di Paul Klee campeggiava infatti sulla co-pertina di un libro d’arte per bambini, che mi fu regalato da mia madre per il mioquinto compleanno. Era convinta che l’arte moderna, in apparenza primitiva e in-fantile, possa essere compresa istintivamente, senza bisogno di nozioni o espe-rienza del mondo. Forse è così: perché quel quadro è stato per me davvero una por-ta, e da allora un’opera d’arte non ha mai smesso di sembrarmi non qualcosa dimorto, venerabile, il prezioso relitto di una civiltà scomparsa, ma qualcosa che —come un libro — parla proprio a me, e mi riguarda. Da qualunque lontananza ven-ga il suo richiamo. Spero che Ad Parnassumsia anche la vostra porta: perché il mioviaggio nelle immagini del mondo inizia da qui.

Paul Klee, accusato dai suoi critici di dipingere scarabocchi per bambini, era in-vece un intellettuale, uno scienziato e un filosofo. Aveva elaborato una complessateoria dell’arte e non dipingeva neanche un punto senza sapere perché. Non avreb-be mai voluto che ci chiedessimo che cosa rappresenta Ad Parnassum. L’arte nonè imitazione, non deve riprodurre il visibile — diceva — ma rendere visibile l’in-terno occulto delle cose. La chioma di un albero non somiglia alle sue radici. Luivoleva sbarazzarsi di chi in un quadro va a caccia degli oggetti reali del mondo. Co-sì, di questi, è rimasto solo il riflesso, come un’eco sul punto di spegnersi. Un cer-chio arancio che potrebbe essere un sole, due linee scure che potrebbero rappre-sentare il tetto di un edificio (o una montagna, o una piramide), tre cunei che indi-cano direzioni opposte, un arco che ricorda una porta. Insomma, le forme essen-ziali: i punti, le linee, i colori. I primi si aggregano in disegni geometrici, i secondicombinano i tre colori fondamentali (giallo-rosso-blu) in infinite variazioni. La te-la è intessuta di punti di colore, come minuscole tessere di mosaico — o squame diserpente o scaglie di pesce. Klee riteneva che l’opera fosse un organismo, naturaessa stessa, soggetta alle stesse leggi della cellula e del cosmo: i punti di Ad Parnas-

sum brulicano come stelle nel firmamento.Però questo quadro ha un titolo, scelto da Klee. Dunque è un segno anch’esso.

Ad Parnassum significaverso il Parnaso. Ricorda cose reali. Era infatti il titolo di unsaggio di teoria musicale del 1725, che Paul Klee, figlio di un insegnante di musicae di una cantante professionista, e lui stesso violinista e cultore di musica, cono-sceva: la sua aspirazione di pittore era creare una sintesi di pittura, musica, poesia.Dunque il titolo allude alla polifonia, che il quadro si propone di rappresentare sim-bolicamente. Ma Ad Parnassumsi intitolano anche gli esercizi di pianoforte di Mu-zio Clementi, che conducono l’allievo all’eccellenza. Esso implica un’ascesa —suggerisce un movimento verso l’alto. Ma nel quadro la salita è ostacolata dalle trepunte, che introducono una tensione e indirizzano lo sguardo altrove — a destra,a sinistra, in basso. L’occhio scivola allora verso un altro elemento: la porta, al cuicentro spicca un rettangolo violaceo. E qui agisce il terzo significato del titolo. Il Par-naso è infatti prima di tutto il monte sacro ad Apollo e alle muse. E’ il regno incon-taminato dell’ispirazione e dell’armonia. I più grandi pittori dei secoli trascorsi, daMantegna e Raffaello a Poussin, hanno dipinto la salita al Parnaso dei poeti e degliartisti. La porta che si apre nell’angolo sinistro di quella che non è una casa né untempio, ma la montagna stessa dell’arte e della poesia, è allora la porta che immettein quel mondo altro — là dove il caos diverrà musica. E’ lì che si ferma lo sguardo: èquello il punto di equilibrio del quadro.

Val la pena ricordare che questa sinfonia polifonica non è stata dipinta in un mo-mento qualunque della vita di Klee — trascorsa fra studio, ricerca, viaggi, famiglia,insegnamento, sperimentazione di tecniche innumerevoli e creazione inesausta(alla sua morte aveva realizzato ben 9000 opere). Fu dipinta in quello stato di gra-zia sospesa che precede la caduta. E’ il 1932. Paul Klee insegna pittura alla Scuoladi Belle Arti di Düsseldorf, viaggia in Italia, lavora — e intanto, incalzato dai nazistiche hanno vinto le elezioni municipali, lo Stato tedesco interrompe i finanziamentialla Bauhaus, dove anche Klee ha insegnato per anni. L’anno dopo, è lui stesso a es-sere licenziato. Un fogliaccio nazista lo denigra come il tipico ebreo della Galizia(in realtà suo padre è un ariano bavarese, e sua madre è svizzera), le SA perquisi-scono la sua casa. Paul Klee lascia la Germania per esiliarsi in Svizzera, dove del re-sto è nato. Fatto che invalida la battuta di Orson Welles nel Terzo Uomo (quella chedice che in cinquecento anni di pace e democrazia gli svizzeri hanno creato soloorologi a cucù). Nel 1932, in Germania, il Parnaso è minacciato. Nel 1933, un qua-dro di Klee figurerà nella prima delle famigerate esposizioni di Arte Degenerata. Maproprio quando il Parnaso è in pericolo, Klee dipinge un’armonia melodica di pun-ti, linee e colori, e invita chi guarda a varcare la porta e a salire. L’arte non è mai untraguardo, ma un cammino: ciò che conta non è la meta, ma la strada percorsa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

MELANIA MAZZUCCO

“Una melodia di punti, linee, coloriKlee e il senso segreto delle cose”

I

FOTO DI BASSO CANNARSA

L’ARTISTAPaul Klee (1879-1940), pittoresvizzero. Nel 1911 entra in rapportocon gli artisti del Blaue Reiter.Risale invece al 1920 il suo ingressoal Bauhaus di Weimar; forma conKandinskij, Feininger e Jawlensky ilmovimento dei Quattro Azzurri.Lascia oltre alle sue tele piene dicolori e di simboli una robustaelaborazione teorica, dal“Quaderno di schizzi pedagogici”alla “Teoria della forma e dellafigurazione”

L’OPERAPaul Klee: “Ad Parnassum”(1932), olio su tela,Berna,Kunstmuseum

Page 2: M. MAZZUCCO - Il Museo Del Mondo

RCULT■ 56DOMENICA 13 GENNAIO 2013

la Repubblica

IL MUSEO DELMONDO

gure. Il focus dell’affresco infat-ti è proprio quella parete bianca,abbacinante, fra l’angelo e Ma-ria. È uno spazio vuoto, comeuna pagina, che attira l’occhio edunque il pensiero: spazio dicontemplazione, rivelazione.

Ma Maria non deve avere ilmanto blu, come il cielo stellato?Forse Angelico non ha avuto iltempo di finire il dipinto: fuchiamato dal papa, partì per Ro-ma. Lasciò l’abito di Maria allostato di preparazione. Eppure inun’opera rarefatta come questaogni scelta è indizio di un signi-ficato. Maria e l’angelo si somi-gliano e sono speculari anchenei gesti – nell’istante in cui ilmessaggero si inchina a unamortale, e la donna riceve lo Spi-rito Santo dentro di sé. Ma nonsono identici. L’angelo rivela lapresenza di Dio, che è luce – e ir-radia tutto intorno, batte sullaparete di fondo e illumina ognicosa. L’angelo non ha corpo.

Anche Maria ha perso consi-stenza. Guardate la sua stranaposizione, il panneggio quasiconcavo del vestito là dove do-vrebbe esserci l’osso del ginoc-chio. Scelta da Dio, dopo averglidetto di sì, sarà mediatrice e sal-vatrice dell’umanità. Però restauna donna, ed è nel suo corporeale che tutto si compie. Così laluce la investe, ma non la attra-versa. Guardate la parete allesue spalle. C’è un’ombra. Mariafa ombra. All’Angelico ormaibasta una pennellata per direche cosa distingue gli angeli da-gli esseri mortali.

Lui, invece, ormai venivaconsiderato un angelo. Già po-chi anni dopo la morte lo chia-mavano “pittore angelico” (pro-prio nel senso che, come gli an-geli, vedeva Dio), e beato. Dal1982, per volontà di GiovanniPaolo II, frate Giovanni è beatodavvero.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

MELANIA MAZZUCCO

Lo spazio bianco di Beato Angelico nella sua Annunciazione “astratta”

LFOTO DIBASSOCANNARSA

L’ARTISTAGuido di Piero, detto il BeatoAngelico (1395 ca-1455) entra nel convento di San Domenico a Fiesole con il nome di Fra’Giovanni. Diventa tra i maggioripittori fiorentini del primoRinascimento. Affresca il conventodi San Marco a Firenze. Dal 1446 è a Roma per lavorare alla CappellaNiccolina per papa Niccolò V;dipinge poi nella cattedrale di Orvieto. Muore a Roma. Vieneproclamato Beato da papa Wojtyla

KLEE“AdParnassum”(6 gennaio)

L’OPERABeato Angelico:“Annunciazione”(1438-40),affresco,Firenze,convento di SanMarco, cella 3

minascoste dalle ali dell’angeloe gli archi della volta sono tuttociò che resta dell’architettura.Lo spazio è indeterminato e os-sessivo, come in un sogno. Néun esterno né un interno: unacavità intima, che evoca la cellareale, e il reale chiostro del con-vento. Sulla sinistra, un rettan-golo verde allude al giardinodella casa di Maria, a Nazareth,o al giardino dell’Eden da cui fuespulso Adamo (poiché l’An-nunciazione avvia la redenzio-ne dell’umanità dal peccato diAdamo). Anche il tempo èastratto. L’evento infatti non ac-cade al momento del raccontodi san Luca: è il suo ricordo. Ciò

dimostra la presenza anacroni-stica di un testimone vissuto se-coli dopo, il martire Pietro da Ve-rona dalla testa sanguinante. In-dossa il saio bianco e nero del-l’ordine domenicano, lo stessodel pittore e del frate della cellan. 3 cui l’opera è destinata. Lascena è come una visione: l’im-magine mentale dell’Annun-ciazione. Cioè Pietro (il frate, ilpittore) sta meditando sul mi-stero centrale del cristianesimo:l’Incarnazione di Dio nel ventredi una donna.

La Vergine e l’angelo appaio-no, come emergendo dal biancodell’intonaco. Sottili, diafani,inverosimili. Non parlano. Il pit-

tore presuppone il dialogo delVangelo – lo allude. L’economiadei segni è totale, i colori sonopochissimi. Rosso il sangue sulcranio del martire e lo spiritosanto che arde in forma di fiam-mella; verde il prato immagina-rio e le piume delle ali dell’ange-lo; legno l’umile panchetto diMaria; oro le aureole e i capelli;rosa l’abito di Gabriele e di Ma-ria. Ma è il bianco che domina.Bianco il libro, bianco il pavi-mento, bianco il soffitto, biancoil muro sullo sfondo. Ha lo stes-so colore dell’intonaco della cel-la che circonda il dipinto, e deldipinto stesso prima che il pitto-re vi disegnasse e colorisse le fi-

a cella numero 3, nel corridoioest del convento domenicano diSan Marco, a Firenze, è un mo-nolocale con una porta e una fi-nestra. Eppure là dentro, sullaparete, c’è l’opera più radicale diuno dei pittori più facili e insie-me complessi della storia del-l’arte, che in quarant’anni di at-tività fu assai prolifico benché,come ci racconta Vasari, essen-do uomo di santa vita non lavoròmai per denaro: frate Giovannida Fiesole, al secolo Guido diPietro detto Guidolino – insom-ma, il Beato Angelico.

In San Marco il Beato Angeli-co dipinse una cinquantina diopere, anche servendosi di col-laboratori, assistenti e seguaci.Le più personali non le trovateperò nei corridoi, nei refettori onelle stanze dei laici, ma nellecelle dei frati. Anche Angelicoera frate domenicano. Dipinge-va, in sostanza, per se stesso. Perquesto quegli affreschi rappre-sentano un caso rarissimo nellastoria dell’arte – paragonabile aquello di Tintoretto alla Scuoladi San Rocco: creati in libertà,con poveri strumenti materiali(pigmenti di origine vegetale, le-ganti organici, pennelli fatti conpeli di animali), rivelano quantoprofondo, altissimo e sottilepossa essere il pensiero di un ar-tista.

La cella numero 3 oggi è bian-ca e vuota. Forse anche intornoal 1443, quando ci entrò il primofrate. Ci sarà stato un letto, un in-ginocchiatoio, un braciere,qualche utensile per la vita quo-tidiana. Il soggetto dell’affrescoè l’Annunciazione. Beato Ange-lico ha dipinto almeno 15 An-nunciazioni: e una addirittura apochi metri, nel corridoio delconvento. Eppure questa le su-pera tutte. È nuda, essenziale,spoglia. Ricordate la laconicitàenigmatica dei 13 versetti delVangelo di San Luca? Ebbene,Angelico qui realizza l’assolutoequivalente della scrittura. Lapittura diventa astratta quantola parola. Si tratta di una trascri-zione, non di una descrizione.Angelico non illustra il raccontodel Vangelo a un ignorante chenon sa leggere; qui la pittura nonè la Bibbia dei poveri. I frati do-menicani già conoscono le sa-cre scritture. Angelico può eli-minare tutti i dettagli narrativi enaturalistici. Due colonne se-

LA GALLERIA

Page 3: M. MAZZUCCO - Il Museo Del Mondo

RCULT■ 52DOMENICA 20 GENNAIO 2013

la Repubblica

IL MUSEO DELMONDOMELANIA MAZZUCCO

FOTO DIBASSOCANNARSA

L’ARTISTAOskar Kokoschka (1886-1980) si forma alla Scuola di artidecorative di Vienna: sono gli annidella Secessione. Tra i primimaestri, c’è Klimt. Ama Munch e i fauves, gravita attorno alle esperienze del Blaue Reiter a Berlino. Diventa espressionista e poi intreccia rapporti con i Dada a Zurigo. Il nazismo lo spinge a riparare prima a Praga, poi a Londra. La sua ultima pittura è fatta di esterni postimpressionisti

KLEEAdParnassum(6 gennaio)

L’OPERAOskar Kokoschka: “La sposadel vento” (1914), olio su tela,Basilea, Kunstmuseum

amore non si vede. È una brezza, unbrivido, un vento, fin dai tempi diSaffo. E non lo si rappresenta: si fa. Ipittori se la sono quasi sempre cava-ta dipingendo le fattezze delle loroamanti o mogli trasformandole inmodelle, madonne, muse. Altre vol-te le hanno raffigurate con un reali-smo che ha scioccato i benpensanti,ma che era invece la prova più gran-de d’amore – perché l’amore è veritàe non abbellimento e mistificazio-ne. Molti di loro, infine, hanno sem-plicemente eluso il soggetto, prefe-rendo paesaggi o astrazioni. Non c’èniente di più pericoloso per un arti-sta che mostrare i propri sentimen-

ti, le proprie ferite, le proprie illusio-ni. Il ridicolo ti aspetta al varco. Peraccettare la sfida, bisogna essere omolto giovani o molto vecchi. Omolto coraggiosi.

Oskar Kokoschka era sopranno-minato il Gran Selvaggio e il Semi-natore di Zizzania (cioè il Diavolo), acausa dei quadri che aveva espostoalle mostre della Kunstschau. Ave-vano suscitato riprovazione e disgu-sto. Si distaccavano in modo radica-le dalla tradizione e dalle abitudinivisive dei visitatori. Nessuna armo-nia: troppo violenti e maleducati icolori, sgraziato il pennello, tropposconcertanti i ritratti, che denuda-

vano l’anima dei soggetti come airaggi X. Nel 1914 Kokoschka avevaventotto anni. Avrebbe dipinto peraltri sessantasei: una vita intera. Allafine, dopo lo scherno, l’esecrazionee l’esilio, sarebbe stato consideratoun caposaldo della pittura del XX se-colo. Ma nessuno dei suoi quasi cin-quecento quadri avrebbe avuto lavisionaria potenza di questo.

Non c’è disegno o schizzo prepa-ratorio, i personaggi vengonoproiettati direttamente sulla telacon larghe e fluide pennellate: la su-perficie è un turbine di grumi blu,verdi e viola, i colori sono arroganti edolorosi come graffi, le forme sotto-

lineate da tocchi di bianco, laprofondità dello spazio dalla luce.Come nei quadri dei veneziani, e diTintoretto in particolare, ammirati aVenezia pochi mesi prima, tutto ècolore, luce e movimento. La scenarappresenta due amanti, un uomo euna donna di notte, sul fare dell’al-ba, sfatti dalla stanchezza che segueil coito. Sarebbero in un letto, se que-sto fosse un quadro realista. Ma sic-come non lo è, sono in una formacurva che ricorda una barca, o unaconchiglia, in balia delle onde, delmare e del vento. L’attrazione cheprovano l’uno per l’altra si comuni-ca alle forze cosmiche, e diventa cor-

rente elettrica, dinamismo: unatempesta, che li trascina con sé. LaTempesta era infatti il titolo origina-le che Kokoschka aveva dato al suoquadro.

Gli amanti sono coricati, la donnain posizione dominante. Del restosiamo nel 1914: epoca in cui la don-na è fatale. Vampira lussuriosa, for-za distruttrice e destabilizzante,spaventa da qualche decennio l’im-maginario maschile. Artisti simboli-sti e decadenti, e anche psichiatri efilosofi hanno spolpato il tema del-l’uomo succube, vittima designatadella Femmina. Freud ha già rivela-to i meccanismi dell’Eros e del prin-cipio di piacere ai viennesi – e Koko-schka, nato in una cittadina danu-biana di provincia, a Vienna ha stu-diato, vissuto e amato. La donnadorme, appagata. L’uomo invece èsveglio. Non per proteggerla o difen-derla. Lei dorme perché gli è sfuggi-ta nel sonno, è già altrove – impren-dibile. Lui veglia, teso, inquieto, inallarme. È una scena universale: ilsesso, l’abbandono, l’illusione delpossesso, l’enigma dell’altro. È unascena privatissima, quasi oscena.Perché l’uomo ha i lineamenti delpittore, e quello – benché deforma-to – è il suo autoritratto. I capelli lisci,il volto oblungo, gli occhi grandi e in-quisitori, il mento prominente. E ladonna è la sua amante, AlmaSchindler vedova Mahler – che si èlasciata travolgere dal suo genio sel-vatico, gli ha promesso di sposarlo secreerà un capolavoro, ma invece èfuggita, spaventata dalla sua gelosia,dalla sua rozzezza, dalla sua energia.Nell’autobiografia, lui scrisse di averdipinto il quadro quando fra loro

tutto era già finito. Usò un verbomolto strano: disse di essersi “distri-cato” da lei. La bellissima, esigente,vorace Alma era diventata la sua os-sessione, e Kokoschka poteva tratte-nerla solo imprigionandola persempre sulla tela. Lei non rimaseturbata dalla esibizione della lorointimità e anni dopo, scrivendo lesue memorie, ammise che quelloera il suo ritratto migliore.

Il poeta Georg Trakl visitò il pitto-re nel suo studio quando il quadro sistava ancora asciugando sul caval-letto. Conosceva la selvaggia e vio-lenta storia di passione che lo avevaispirato. Del resto ne sparlava tuttaVienna, che allora era il cuore artisti-co del mondo. Suggerì un titolo piùsuggestivo:La sposa del vento. Koko-schka accettò il consiglio.

Il quadro non gli riportò la sposamancata. Anzi, finì per sostituirla,diventando non più il simbolo del-l’unione spirituale e alchemica chei due si erano illusi di avere realiz-zato amandosi, ma il suo equiva-lente materiale. Intanto l’Austriaera entrata in guerra. E quando capìche Alma non sarebbe mai tornataindietro, Kokoschka si arruolò vo-lontario nel XV reggimento dei dra-goni. Gli allievi ufficiali dovevanopossedere un cavallo. Kokoschkavendette La sposa del vento e se neandò al fronte, sotto le bombe, a far-si sparare in testa, in sella al suo ca-vallo. A volte anche l’amore assolu-to, quello che fa di un giovane sel-vaggio un uomo, e di un pittoreespressionista esecrato da tutti unmaestro del Novecento, vale appe-na il prezzo di un cavallo.

BEATOANGELICOAnnunciazione(13 gennaio)

L’amore di Kokoschka e Almaperduto in un labirinto di luce e colori

L’© RIPRODUZIONE RISERVATA

Page 4: M. MAZZUCCO - Il Museo Del Mondo

R CULT ■ 52DOMENICA 27 GENNAIO 2013

la Repubblica

IL MUSEO DELMONDOMELANIA MAZZUCCO

FOTO DIBASSOCANNARSA

L’ACHEROPITAIl dipinto a cera dellaCappella del SanctaSanctorum a Romarappresenta il volto diCristo. L’opera èantichissima, databiletra il V e il VII secolo.Secondo la tradizionecristiana orientale, èun’icona non dipintada mano umana, mada Dio stesso

BEATOANGELICO“Annunciazione”1438-40, Firenze(13 gennaio)

L’OPERAAcheropìta: “SantissimoSalvatore”, Roma, CappellaSancta Sanctorum

piazza San Giovanni, a Roma, in unelegante edificio rinascimentale —spesso quinta di manifestazioni sin-dacali e concerti — c’è uno degli og-getti artistici più enigmatici e im-pressionanti che siano mai staticreati. Più che vederlo, lo si intuisce:da lontano, per pochi istanti, comeun lampo nella penombra. Non lo sidimentica più.

L’oggetto — un dipinto a cera sutela di lino incollata su tavola — sitrova su un altare, incapsulato in unalastra d’argento che emette bagliorilunari. Ma non possiamo avvicinar-ci: una spessa grata ci tiene a distan-

za. Stiamo sbirciando infatti nellacappella privata del Papa, che con-tiene i tesori più inestimabili dellacristianità: per questo è nota comeSancta Sanctorum. I pellegrini vigiungono doloranti, dopo aver salitosulle ginocchia i 28 gradini della Sca-la Santa — quella del palazzo preto-rio di Ponzio Pilato a Gerusalemme,che Gesù salì il venerdì della Passio-ne e che Elena, madre di Costantino,avrebbe portato a Roma. I curiosi sa-liti sui loro piedi vi giungono inden-ni, tuttavia intimiditi dalla scrittasull’architrave: NON C’E’ IN TUTTOIL MONDO LUOGO PIU’ SACRO. Al-la fine, quando si viene sospinti via,

resta la strabiliante sensazione di es-sere stati guardati. Ma da chi?

La tavola in realtà è un’icona anti-chissima, che rappresenta il Santis-simo Salvatore, cioè Gesù CristoPantocratore. Molte altre icone rap-presentano lo stesso soggetto, e nel-lo stesso modo, perché sono imma-gini del sacro, dunque identiche a sestesse, e non conoscono il tempo.Ma l’icona del Sancta Sanctorum èdiversa. Non perché sia miracolosa,accechi i superbi, esaudisca desiderio guarisca malattie, benché pare fac-cia anche questo. Né perché è il tali-smano protettore di Roma, senza il

quale la cittàstessa perirebbe.Le cronache rac-contano che nel753 al papa Stefa-no II bastò mo-strarla perché ilre longobardoAstolfo togliessel’assedio. Cosìper secoli i papi

la ostentarono in una processionenotturna che attraversava tutta lacittà. Il popolo si accodava in massa,invocando pietà e protezione controla peste, la morte, la guerra — il ma-le, insomma. L’icona del SantissimoSalvatore in qualche modo funzio-nava. Neanche i lanzichenecchi lu-terani del 1527 riuscirono a rubarla oa darle fuoco. Si salvò da terremoti,invasioni, incendi. Però si consumò,quasi si estinse. I balsami con cui ipiedi del Santissimo Salvatore veni-vano unti durante le ostensioni cor-rosero le membra; poi sparirono l’a-bito e il trono su cui sedeva il Panto-cratore. Alla fine del 1100 l’immagi-

ne originale non si vedeva quasi più,e fu ridipinta. Con fedeltà. Però il cor-po era svanito, e non fu ripristinato.L’assenza fu coperta con un vestitod’argento, tempestato di gioielli epietre preziose, un sudario da cui ilvolto di Cristo emerge perentorio espettrale, con l’allucinata intensitàdi una visione.

Si è cercato di stabilire dove è sta-ta dipinta l’icona. A Bisanzio, secon-do alcuni studiosi: sarebbe statastrappata dal palazzo imperiale altempo dell’iconoclastia. Altri so-stengono che essendo la tavola dinoce, e non di cedro o altro legnoorientale, deve essere latina, italia-na, romana. In realtà, come semprequando un’opera appare all’im-provviso, il Santissimo Salvatore èun oggetto misterioso, come un me-teorite.

Ma ha un autore: Dio stesso. Ciòsignifica l’enigmatica parola di origi-ne greca, Acheropìta(non fatta con lamano), che figura in luogo della pa-ternità dell’opera. Dunque è Dio ilpittore di questo ritratto. Insomma,è un autoritratto.

Poiché non è un calco del volto diGesù (come il Mandilion di Edessa, oil sudario della Veronica), sarebbe ilprimo autoritratto della storia del-l’arte. I pittori italiani e stranieri loconoscevano. Venivano tutti a Ro-ma. Si sarebbero ricordati della fron-talità ieratica e degli occhi immensidi questo uomo-Dio.

Oggi è difficile crederci. Le ricer-che scientifiche hanno dimostratoche la pittura è fragile, fatta con nor-malissimi colori, e databile, comeogni manufatto umano. Al V secolo,non oltre l’inizio del VII. Le ricerche

artistiche hanno analizzato la formae la tipologia dell’immagine — a suavolta diventata modello per altre, ri-producendosi all’infinito. Più chemostrare come Dio vede se stesso,l’icona acheropìta ci dice come gliuomini dei secoli bui vedevano Cri-sto: sovrano onnipotente incorona-to da un’aureola d’oro, ma anche do-lorosamente umano. Forse non imi-ta l’aspetto del Cristo storico, ma ilsenso della sua presenza sulla terra.Nel congiungersi alla barba, i baffi gliconferiscono un’espressione nontrionfante, anzi immensamente tri-ste. Ha gli occhi enormi e vicini, spa-lancati, assenti eppure penetranti,fissi nella contemplazione di qual-cosa al di là del visibile e della mate-ria. Eppure è impossibile sottrarsi al-la sensazione che quel dipinto rac-chiuso in un sarcofago d’argentodella misura di un uomo non sia unpezzo di legno inerte. Non siamo noiche guardiamo l’opera, ma è l’operache guarda noi. Ci segue con losguardo, ci giudica. Ci legge dentro.Ed evidentemente è una sensazionediffusa, se un papa del Medioevopreferì coprirla con un velo di seta,perché guardandola le persone veni-vano colte da tremori, terrore, verti-gine come di fronte all’infinito, o a unabisso.

Ogni volta che torno a visitare l’A-cheropìta, mi chiedo se il SantissimoSalvatore mi guarda perché è Dio, operché è una magnifica opera d’arte.E mi ripeto che se un’opera d’artenon diventa presenza — specchio diun pensiero, indelebile emozione,scintilla di un significato del mondo— non è niente.

PAUL KLEEOlio, “AdParnassum”1932, Berna (6 gennaio)

KOKOSCHKA“La sposa del vento” 1914, Basilea(20 gennaio)

A© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’enigma dell’AcheropitaAutoritratto di Dio

Page 5: M. MAZZUCCO - Il Museo Del Mondo

R CULT ■ 54DOMENICA 3 FEBBRAIO 2013

la Repubblica

IL MUSEO DELMONDOMELANIA MAZZUCCO

FOTO DIBASSOCANNARSA

L’ARTISTAJackson Pollock(1912-1956), pittoreamericano. Originariodel Wyoming, studiaa New York, èaffascinato daimessicani Orozco eSiqueiros e daPicasso. Diventa ilmaggiore esponentedell’action painting: lapittura nella suaopera si fa “gesto”

BEATOANGELICO Annunciazione(13 gennaio)

L’OPERAJackson Pollock: FullFathom Five (1947) New York, MoMA

eminare parole sulla carta. Eri-gere un muro di caratteri, e poiinabissarsi nelle proprie paginecome in un labirinto. È il sognodi molti scrittori. Può sembrareun modo strano per cominciareun discorso su Jackson Pollock,il mito dell’avanguardia ameri-cana degli anni ’50, il rude cow-boy del Wyoming, paragonato aMarlon Brando e James Dean:ma è esattamente questa la sen-sazione, insieme riposante eangosciante, che mi comunica-no le sue opere. Come fosserodei muri che l’artista ha erettointorno a sé, o dei mari in cui siè tuffato per annegarvi. Infattise gli scrittori possono realizza-re la fuga nell’opera solo in me-tafora, o finendo in manicomio,un pittore può farlo davvero. EPollock ci è entrato dentro colcorpo, con le mani, e lì è rimasto– cristallizzato, salvo, come uninsetto in una goccia d’ambra.

La mia lettura è influenzatadal titolo di questo quadro. Glistorici dell’arte non attribui-scono troppa importanza ai ti-toli dei quadri, perché sannoche di rado gli artisti li scelgonoda soli, e spesso nascono invecea quadro finito, dietro suggeri-mento di un amico intellettua-le, poeta, critico. In questo caso,del traduttore Ralph Manheim,vicino di casa del pittore. Io peròsono di quelli che nei musei siingobbiscono per leggere la di-dascalia, anche se il quadro inquestione rappresenta un sac-co di tela o un escremento. E mimettono a disagio le esposizio-ni dove ci sono ottanta opere“senza titolo”. Perché, anche senon raffigurano nulla, esse han-no pur sempre un soggetto –cioè un senso per chi le ha crea-te. Poiché nessuna opera si rea-lizza da sé: nemmeno se fattasotto dettatura automatica del-l’inconscio. Anche Pollock clas-sificò molte sue opere col nome“untitled”, seguito da un nume-ro, una lettera e l’anno di crea-zione. Ma ai due quadri che pre-diligo, Full fathom five e Deep,ha messo dei titoli “verticali”.Come se volesse assimilare lasuperficie orizzontale del qua-dro agli spazi dell’oceano o delcielo. Pollock finì per odiare ciòche gli altri apprezzavano dellasua opera: il sembrare frutto delcaso. Dunque mi piace pensareche Full fathom five dica moltodell’opera in questione e di lui.

Si tratta di un quadro astrattoalto quasi un metro e trenta: del1947, è uno dei primi esempidello stile che diventerà in-confondibilmente suo. Fila-menti di colore sgocciolato sul-la tela formano arabeschi eideogrammi enigmatici. Domi-na il verde, con inserti di bianco,arancione e rosso, fra geroglifi-ci di linee nere. La superficie èbutterata di relitti della vita ma-teriale del pittore, incastrati sul-la tela come in un collage: bot-toni, fiammiferi, puntine, mo-nete, sigarette con la cartinastrappata, tappi di tubetti di co-

lore e chiavi. Allora l’insieme as-sume una forma quasi antropo-morfa: sembra di intravedereuna figura prigioniera sotto lostrato di pittura.

Ed è esattamente così. Le fo-to a raggi X effettuate per il re-stauro hanno svelato che esistedavvero una figura, in piedi, conun braccio alzato, sotto la ra-gnatela di linee. È come se Pol-lock l’avesse seppellita dentro ilsuo quadro. Questo infatti si-gnifica Full fathom five: A cin-que braccia sul fondo. È la can-zone che Ariel canta a Ferdi-nando nella Tempestadi Shake-speare, descrivendo il padreche il giovane crede annegato. Acinque braccia sul fondo giacedunque un cadavere.

Ma il cadavere di chi? Si po-trebbe rispondere: della figura –cioè della pittura tradizionaleche Pollock, alla ricerca dellasua identità, sta abbandonan-do. Dunque cancella, sfregia,seppellisce, con un atto libera-torio, tutto ciò che lo ha prece-duto. Alcuni anni più tardi, teo-rizzò che l’artista moderno nonpuò esprimere il suo tempo,l’aeroplano, la bomba atomica,la radio, nelle vecchie formedella passata cultura. Ogni etàtrova la sua propria tecnica. Latecnica che avrebbe messo apunto Pollock – più o meno daquesto quadro – aboliva il pen-nello, la tavolozza, il cavalletto.Prevedeva una tela stesa sul pa-vimento, e la distribuzione delcolore direttamente dal tubet-to, mediante lo sgocciolamento(il “dripping”). La pittura diven-tava espressione delle energiedell’inconscio, azione (“actionpainting”), e l’atto della crea-zione più importante del suoesito. Questa tecnica è stata pa-ragonata all’orgasmo, all’inse-minazione, e anche alla min-zione.

Allora si può forse risponderediversamente. La figura chegiace sul fondo è l’artista stesso.Aveva scelto di dipingere sul pa-vimento perché, come dichiaròin un’intervista rilasciata neigiorni di Full fathom five, così sisentiva parte del quadro – pote-va camminarci intorno, ed es-sere letteralmente nel quadro.Un metodo simile a quello degliindiani del west che lavoranosulla sabbia. Quando sono nelmio quadro, disse, non sono co-sciente di quello che faccio, unquadro ha una vita propria, chedevo lasciar emergere.

E la lasciò emergere, fra il1947 e il 1950 – l’epoca d’oro diPollock, quattro anni scarsi incui realizzò i suoi capolavori, inuno stato di grazia febbrile. Poitentò di cambiare strada – sen-za successo, perché la critica loaveva ormai identificato con laformula degli Untitled. Alloraentrò in crisi e si smarrì. Si ri-trovò nel 1953, con Deep: anco-ra un titolo che evocava l’abis-so. Nel bianco della tela una cre-pa oscura accogliente comeuna vagina indicava un varco, euna via di scampo. Pollock sinascose per l’ultima volta den-tro la sua opera, e forse era già insalvo quando l’11 agosto del1956 la macchina che guidavaubriaco si schiantò contro unpalo e lo uccise.

PAUL KLEEAdParnassum (6 gennaio)

OSKARKOKOSCHKALa sposa del vento (20 gennaio)

S

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Quella figura misteriosa sepoltasotto le gocce di colore di Pollock

ACHEROPITAIl SantissimoSalvatore (27 gennaio)

Page 6: M. MAZZUCCO - Il Museo Del Mondo

R CULT ■ 52DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013

la Repubblica

IL MUSEO DELMONDOMELANIA MAZZUCCO

FOTO DIBASSOCANNARSA

L’ARTISTARaffaello Sanzio(Urbino, 28 marzo o 6 aprile 1483 –Roma, 6 aprile 1520)è stato un pittore earchitetto tra i piùcelebri delRinascimentoitaliano. Nei suoiritratti spesso è ilrealismo a prevaleresull’idealismo

BEATOANGELICOAnnunciazione(13 gennaio)

POLLOCK“Full FathomFive”(3 febbraio)

L’OPERA RaffaelloSanzio“Ritratto dipapa Leone Xe dei cardinaliGiulio De’Medici e LuigiDe’ Rossi”1518Firenze,Galleria degliUffizi

nritratto dice che la persona raf-figurata è esistita. Che era po-tente, ricca, talvolta bella. Un ri-tratto può incutere timore e re-verenza, oppure sedurre. È po-tere, vanità, illusione di vivereper sempre. I ritratti dei sovranie dei papi, eseguiti dai più gran-di pittori, sono tutti sopravvis-suti. Io preferisco i ritratti deglianonimi – persone comuni dicui si sono persi nome e memo-ria, e che però sono vive per noi,perché ha saputo salvarle il pen-nello di un artista. Come PetrusChristus, Lotto, o Holbein. Lamia eccezione è questo ritrattodi Raffaello. Divino genio, diomortale su cui tutto è stato scrit-to, che oggi si ammira con unarispettosa indifferenza. Non èepoca, la nostra, che possa ama-re davvero la perfezione, la bel-lezza classica e la grazia che con-traddistinguono la sua pittura.

Ma questo ritratto multiploriassume una stagione irripeti-bile. Raffaello lo dipinge nel1518, al culmine della ricchezza,degli onori, della gloria. Pittoreormai al di sopra di ogni lode,sommerso di richieste, al puntoda aver dovuto allestire una bot-tega con decine di collaboratori;architetto della fabbrica di sanPietro, senza più rivali (si è sba-razzato pure di Leonardo e Mi-chelangelo), non ha più nulla dachiedere a se stesso – tanto che cisi domanda cos’altro avrebbepotuto dipingere se non fossemorto a 37 anni. Raggiunta lavetta della sua arte, potrebbe an-che solo replicarsi. Invece l’oc-casione riaccende la scintilla.Deve fare il ritratto a Giovannide’ Medici, ovvero papa LeoneX. Ciò non dovrebbe stimolarlo,visto che è un uomo “grossola-no, di brutta effigie e poca vista”(Sanudo dixit), e inoltre lo ha giàritratto almeno sei volte. Il testo-ne e il corpo pingue e bolso delMedici ricorrono nei Palazzi Va-ticani (nelle sale della Segnatu-ra, di Eliodoro, dell’Incendio diBorgo). Ma lì recita, è in costume– travestito nei panni dei prede-cessori. Qui, invece, Leone X puòessere solo se stesso.

Il papa aborre la miseria e lasofferenza, evita i problemi evuol vedere solo gente bella, sa-na e felice. Perciò adora Raffael-lo, che sente affine. Sono en-trambi raffinati, gaudenti, uma-nisti, pagani, affascinati dallamusica, dalla classicità, dallabellezza. Femminile il pittore,maschile il papa. Raffaello deveriuscire nell’impresa di idealiz-zarlo – dipingerlo come vorreb-be essere – e insieme immorta-larlo così com’è. Lo raffigura nellusso di cui si compiace – simbo-leggiato dal colore dominantedel dipinto, il rosso, in tutte lesfumature possibili; con gli em-blemi del suo potere – il camauroin testa e la mozzetta sulle spalle.Ma anche col doppio mento, lepalpebre gonfie, i solchi sulleguance, le occhiaie, il naso gros-

so. È seduto al suo scrittoio, disbieco, assorto. Le mani sonobellissime, affusolate, bianche,femminee. La destra tiene unalente d’ingrandimento fra le dita(modo gentile di alludere allaforte miopia che gli aveva meri-tato il plebeo nomignolo del Tal-pa), e poggia su una Bibbia mi-niata – aperta alla prima paginadel Vangelo di Giovanni. Sul tap-peto spicca una campanellad’argento, cesellata con perizia.Serve a chiamare i domestici. Maanche i cortigiani. Che infatti ac-corrono, sbucando dall’oscu-rità, e si fermano dietro di lui. So-no suoi cugini, quasi coetanei,amici di una vita, come fratelli.

Col cardinale e vicecancelliereGiulio, quello alla sua destra, ilpapa ha condiviso l’infanzia, lostudio all’università di Pisa, l’esi-lio, i viaggi in incognito in Euro-pa. Anche il cardinale Luigi de’Rossi vive da sempre con lui, perquesto poggia le mani sulla se-dia, con familiarità.

Raffaello sfida la natura, la vin-ce e ci inganna. Stoffe, oggetti,mobili, acquistano un’evidenzatattile, materica. Il velluto, il da-masco, la seta, l’argento a sbalzo,la pergamena, il laccetto dellacampanella, la pelliccia, i capelli,il fermafogli: ogni cosa non sem-bra dipinta, ma vera. Il gioco dispecchi con la realtà si spinge al

punto che il pomello della sediariflette la scena: le spalle del pa-pa, l’ombra di un corpo, la fine-stra della stanza che per noi è in-visibile. Luigi, unico, ci guarda –smaschera la posa, ma per accre-scere la finzione: tu stai guardan-do tre persone vive. E infatti ilquadro fu mandato a Firenze insettembre, in modo da permet-tere ai tre di partecipare (in effi-gie) a un banchetto di nozze.

Il ritratto di Leone X e cugini,lodato e imitato, è un archetipodella ritrattistica occidentale.Ciò che mi ha sempre colpito è lanaturalezza. Ma non nel sensodel virtuosistico illusionismo diRaffaello. La naturalezza con cui

un pittore dipinge un papa. Concortigiano garbo, e però senzaservilismo. Leone X è ritratto nel-la sua intimità quotidiana: prin-cipe, papa, amico. Così questoquadro segna un apice nei rap-porti fra arte e potere. Connessi,legati, una espressione dell’al-tro, e però non subordinata. Du-rerà poco.

Nel giro di tre anni morirannoLuigi, Raffaello, poi Leone X. So-pravviverà il più coriaceo, Giulio,che sognava il mestiere delle ar-mi e che diventerà anche lui pa-pa, per assistere allo scisma pro-testante, al sacco di Roma e alladistruzione di tanta bellezza. Nelritratto nessuno sorride. Come

sapessero che l’estate del 1518 èuna delle ultime della loro dolcevita. Raffaello inventa quadri chenon dipinge, rileva la mappa diRoma antica, e si gode spensiera-tamente i suoi piaceri. Leone X,scampato a una congiura, sul-l’orlo della bancarotta, sfidato daLutero che giungerà a parago-narlo all’Anticristo, dedica tuttoil suo tempo al divertimento: vi-ve fra poeti, musici e buffoni, va acaccia e la sera posa per il suoamato pittore. La sera, sì: guar-date le sue guance. C’è un’ombrascura. La barba sta ricrescendo.Di giorno, il papa e il pittore, feli-ci, hanno di meglio a cui pensare.

PAUL KLEEAd parnassum(6 gennaio)

KOKOSCHKALa sposadel vento(20 gennaio)

U

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La sfida di Raffaello, genio ingannatore

ACHEROPITAIl SantissimoSalvatore (27 gennaio)