massimo amato – nummus non parit nummos. la questione genealogica dell’uso proprio del denaro

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Nummus non parit nummos. La questione genealogica dell’uso proprio del denaro * . I. Premessa La questione di un “uso proprio” della moneta sembra non avere un chiaro diritto di cittadinanza nella scienza economica. Forse dovremmo affermare che tale diritto le è stato implicitamente ma imperiosamente negato all’atto stesso della costituzione di un sapere scientifico sulla moneta. Quasi che ci fosse un’incompatibilità fra l’istanza politica incarnata da quella questione e l’istanza tecnica propugnata dal quel sapere. Il criterio attuale di giudizio dello strumento monetario sembra, infatti, essere quello dell’efficienza del suo funzionamento, e non certo quello della proprietà del suo uso. L’efficienza come criterio non conosce nulla di esterno a sé, ma solo gradi di efficienza e inefficienza. Fino al punto di non riconoscere, se non con una certa fatica, l’esistenza di una questione istituzionale della moneta all’interno del discorso economico 1 . La questione della proprietà d’uso, invece, implica, più ancora che opposizioni, un riconoscimento della differenza fra ciò che è propriamente moneta è ciò che solo apparentemente lo è: implica, cioè, che la distinzione fra uso proprio e uso improprio sia chiaramente posta nella forma di un atto istitutivo. Il criterio dell’efficienza richiede solo il raggiungimento di un ottimo quantitativo 2 , la questione della proprietà richiede qualificazioni, ossia distinzioni. * Il presente testo è il frutto di una prima elaborazione di un tema difficile da localizzare con precisione. L’ordine delle riflessioni è lungi dall’essere definitivo. Non è tuttavia in gioco la rilevanza dei temi. Il lettore abbia dunque la pazienza di seguire il testo nei suoi scarti e delle sue digressioni. 1 Nel suo saggio La denazionalizzazione della moneta, F. von Hayek esprime nel modo più chiaro tale giudizio di irrilevanza: “… la superstizione secondo cui è il governo (normalmente chiamato Stato, dato che così suona meglio) che deve dichiarare ciò che è da considerarsi moneta, come se il governo avesse creato la moneta e questa non potesse esistere senza di esso, ha avuto origine dalla credenza ingenua che il denaro debba essere stato “inventato” e poi dato a noi da una qualche inventore originale. Questa convinzione è stata totalmente smentita da che si è compresa l’esistenza di una generazione spontanea di istituzioni involontarie attraverso un processo di evoluzione sociale. Il denaro rappresenta il paradigma più importante di questi ordini sorti spontaneamente (il diritto il linguaggio e la morale costituiscono gli altri casi più notevoli). F.A. von Hayek La denazionalizzazione della moneta, p . 30 ed. it, Etas, 2001, c.m. 2 Il riferimento è ovviamente al testo di M. Friedman, The Optimum Quantity of Money. Ma in effetti, la decisione, le cui conseguenze sono portate a termine dal monetarismo ultramoderno, 1

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MASSIMO AMATO – Nummus non parit nummos. La questione genealogica dell’uso proprio del denaro

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Page 1: MASSIMO AMATO – Nummus non parit nummos. La questione genealogica dell’uso proprio del denaro

Nummus non parit nummos. La questione genealogica dell’uso proprio del denaro*.

I. Premessa La questione di un “uso proprio” della moneta sembra non avere un chiaro diritto di cittadinanza nella scienza economica. Forse dovremmo affermare che tale diritto le è stato implicitamente ma imperiosamente negato all’atto stesso della costituzione di un sapere scientifico sulla moneta. Quasi che ci fosse un’incompatibilità fra l’istanza politica incarnata da quella questione e l’istanza tecnica propugnata dal quel sapere. Il criterio attuale di giudizio dello strumento monetario sembra, infatti, essere quello dell’efficienza del suo funzionamento, e non certo quello della proprietà del suo uso. L’efficienza come criterio non conosce nulla di esterno a sé, ma solo gradi di efficienza e inefficienza. Fino al punto di non riconoscere, se non con una certa fatica, l’esistenza di una questione istituzionale della moneta all’interno del discorso economico1. La questione della proprietà d’uso, invece, implica, più ancora che opposizioni, un riconoscimento della differenza fra ciò che è propriamente moneta è ciò che solo apparentemente lo è: implica, cioè, che la distinzione fra uso proprio e uso improprio sia chiaramente posta nella forma di un atto istitutivo. Il criterio dell’efficienza richiede solo il raggiungimento di un ottimo quantitativo2, la questione della proprietà richiede qualificazioni, ossia distinzioni. * Il presente testo è il frutto di una prima elaborazione di un tema difficile da localizzare con precisione. L’ordine delle riflessioni è lungi dall’essere definitivo. Non è tuttavia in gioco la rilevanza dei temi. Il lettore abbia dunque la pazienza di seguire il testo nei suoi scarti e delle sue digressioni. 1 Nel suo saggio La denazionalizzazione della moneta, F. von Hayek esprime nel modo più chiaro tale giudizio di irrilevanza: “… la superstizione secondo cui è il governo (normalmente chiamato Stato, dato che così suona meglio) che deve dichiarare ciò che è da considerarsi moneta, come se il governo avesse creato la moneta e questa non potesse esistere senza di esso, ha avuto origine dalla credenza ingenua che il denaro debba essere stato “inventato” e poi dato a noi da una qualche inventore originale. Questa convinzione è stata totalmente smentita da che si è compresa l’esistenza di una generazione spontanea di istituzioni involontarie attraverso un processo di evoluzione sociale. Il denaro rappresenta il paradigma più importante di questi ordini sorti spontaneamente (il diritto il linguaggio e la morale costituiscono gli altri casi più notevoli). F.A. von Hayek La denazionalizzazione della moneta, p . 30 ed. it, Etas, 2001, c.m. 2 Il riferimento è ovviamente al testo di M. Friedman, The Optimum Quantity of Money. Ma in effetti, la decisione, le cui conseguenze sono portate a termine dal monetarismo ultramoderno,

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Il primo produce, già sul piano concettuale, una tendenza all’uniformazione; la seconda implica il riconoscimento di una molteplicità monetaria irriducibile al piano della sostituibilità, ovvero della convertibilità generalizzata, via mercato, di ogni moneta con ogni altra – ovvero della convergenza della varietà monetaria verso forme sempre più opache di uniformità. Resta tuttavia da chiedersi quale delle due posizioni (richiesta implicita di uniformazione e riconoscimento esplicito della molteplicità) risponda più adeguatamente all’universalità propria della moneta. Non foss’altro che per poter imparare a distinguere fra l’evento di un’universalità finitamente istituita e il processo di un’uniformità indefinitamente perseguita. È infatti in rapporto al fenomeno del limite che i due criteri mostrano la più marcata differenza Nel caso dell’efficienza il limite appare, se appare, come l’effetto successivo di processo di computazione; là dove è in gioco l’uso proprio, come ciò rispetto a cui, e preventivamente, un calcolo può anche solo divenire pensabile. Anche in questo caso, resta da chiedersi quale delle due posizioni alternative possa dare conto della costituzione finita di ogni costrutto dogmatico, nel nostro caso la moneta come dimensione normativa, dogmatica, dell’economico. Contro ogni apparenza, la moneta ha a che fare con la finitezza, dunque con l’emergere preventivo di un limite costitutivo. Ma tale finitezza si scontra, quando è in gioco il denaro, con un desiderio al quale non pare che si possa, e nemmeno si debba, porre alcun limite. Tale contrasto fra finitezza e desiderio è accentuato dal fatto che alla moneta si chiede, e in un certo senso a buon diritto, di favorire qualcosa come un perfezionamento, un compimento e una crescita, di ciò che dai greci in poi chiamiamo economia. In quanto ciò che apre e in un certo senso fa emergere e perfeziona uno spazio per lo scambio, la moneta sembra avere un tratto generativo proprio3. Ma dove risiede propriamente questa generatività? Nella moneta, come una sua qualità? Tale qualità coincide con una sua capacità di crescita? Cosa può crescere

viene presa all’atto stesso della costituzione dell’economia scientifica, con Ricardo. E vale la pena osservarlo, in maniera non propriamente scientifica, ma apertamente dogmatica. Ecco, infatti, l’incipit del capitolo dei Principles dedicato a Money and Banking: “So much has already been written on currency, that of those who give their attention to such subjects, none but the prejudiced are ignorant of its true principles. I shall, therefore, take only a brief survey of some of the general laws which regulate its quantity and value.” Il principle dei principles, di cui nessuno d’ora in poi potrà osare porre in dubbio senza condannarsi al pregiudizio, è dunque proprio la riduzione della moneta a quantità. 3 La cosa risulta più visibile per la negativa: senza moneta, ciò che chiamiamo economia deperisce. In questo senso lo stadio del baratto, con tutte le sue “primitive” incertezze e limitazioni, non precede, ma segue l’istituzione della moneta, emergendo là dove l’istituzione monetaria entra in crisi. Il caso delle iperinflazioni potrebbe mostrarlo con sufficiente chiarezza. Del resto proprio questo ha in mente Keynes nel Tract on Monetary Reform del 1923 (l’anno delle iperinflazioni europee). L’inflazione come disistituzione de facto dell’istituzione monetaria non è un fatto semplicemente “monetario”: essa mina quel rapporto con il rischio che la moneta come istituzione mira a rendere umanamente tollerabile.

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propriamente quando la moneta è propriamente moneta? Forse la moneta stessa, intesa come una quantità data, e soprattutto come un bene fra gli altri beni? Per lungo tempo la risposta a tale ultima domanda è stata negativa, e ha preso la forma tradizionale di un giudizio negativo, di impossibilità prima ancora che di illiceità, sul prestito di moneta contro un interesse, ossia contro ciò che è appare, in modi diversi e tra loro connessi, come un uso improprio della moneta: il quale tradizionalmente va sotto il nome di usura. Ciò che normalmente si chiama “modernità” sembra aver rovesciato tale giudizio, segnatamente con la nascita dell’economia politica, e prima ancora con l’emergere della filosofia politica di Locke e Hume. E tuttavia, le basi di tale rovesciamento appaiono solide solo se ci si limita a una fuggevole occhiata. Il rovesciamento moderno non coincide affatto con una confutazione dell’antico. Esso sembra più propriamente l’effetto di una perdita di contatto del pensiero monetario moderno con l’elemento propriamente normativo (dogmatico) della moneta, da cui invece traggono alimento le riflessioni tradizionali. Questa perdita di contatto, che pure ha conseguenze in termini di produttività istituzionale, resta comunque un vuoto, tanto meno colmato quanto meno percepito come tale. In questo senso, ossia in vista di una ripresa rinnovata di quell’elemento, la questione genealogica tradizionale a proposito della moneta, (nummus parit nummus?) resta, nonostante tutto, davanti a noi4. Le pagine che seguono costituiscono un tentativo di mostrare la rilevanza dogmatica della questione genealogica dell’uso proprio della moneta all’interno di ciò che possiamo chiamare il pensiero occidentale sulla moneta. Si tratta, a tutti gli effetti, di una tradizione “apertamente nascosta”. Tutti i testi citati sono comunemente noti, ma non sempre adeguatamente riconosciuti nella loro portata. La maggior parte di tali testi costituisce l’oggetto di trattazioni erudite, volte a ricondurre il loro apporto a una sorta di dossologia della riflessione prescientifica o parascientifica (cioè “filosofica”) sulle questioni proprie

4 Ma qual è allora tale elemento con cui si sarebbe perduto il contatto? Per dirla in breve, e con una formula, ciò che è andato perduto nel rovesciamento moderno è il rapporto con la perdita. Tale formula esigerebbe, per non rimanere tale, una trattazione tematica adeguatamente estesa, la quale esula dal presente lavoro, ma che rientra a pieno titolo progetto di ricerca in cui esso si iscrive. Per qualche primo orientamento si veda la parte finale di M. Amato, È il dollaro una moneta internazionale?, ISE Working Paper 2005-I, e M. Amato Qu’est-ce que la monnaie? Réflexions sur l’enjeu de l’institution monétaire, in J. Blanc (éd.). Exclusion et liens financiers. Monnaies sociales, Economica, Lyon 2006. La questione della perdita, centrale nelle riflessioni di P. Legendre sulla moneta (cfr. De la Société comme Texte, Fayard, Paris 2001, pp. 96-104), è, a tutti gli effetti, cruciale per un’interpretazione delle riflessioni aristoteliche sulla moneta contenute nell’Etica nicomachea (1132b 20/ 1133b 29) Una ritraduzione completa e commentata del passo dell’Etica sulla moneta è in corso di elaborazione da parte di chi scrive, ed è stata presentata in un seminario ristretto tenuto in Università Bocconi il 27 febbraio 2006. Si vedano infine, in questo saggio le considerazioni del paragrafo V, a proposito della perdita che ha luogo nel processo di trasformazione del denaro in capitale.

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dell’economia scientifica5. In aperto contrasto con tale indirizzo, in questo saggio la distinzione classificatoria dei saperi entro i quali la riflessione si è prodotta non gioca alcun ruolo. La questione è stata ogni volta assunta esattamente là dove è stata posta. Ma vi è un’altra questione, ai miei occhi la questione decisiva, che consiste nel chiedersi se il problema dell’uso proprio della moneta possa davvero restare fuori del campo d’indagine del sapere dell’economico senza danno per quest’ultimo. L’esistenza, all’interno della scienza economica, della riflessione keynesiana sulla moneta dovrebbe far propendere per la negativa. Ma è quanto si tratterà di mostrare. II. Una tradizione apertamente nascosta, da Aristotele a Keynes. Verso la fine della General Theory di J. M. Keynes, precisamente nel capitolo 23, è dato di leggere un passo apparentemente sorprendente.

I was brought up to believe that the attitude of the Medieval Church to the rate of interest was inherently absurd, and that the subtle discussions aimed at distinguishing the return on money-loans from the return to active investment were merely Jesuitical attempts to find a practical escape from a foolish theory. But I now read these discussions as an honest intellectual effort to keep separate what the classical theory has inextricably confused together, namely, the rate of interest and the marginal efficiency of capital6. For it now seems clear that the disquisitions of the schoolmen were directed towards the elucidation of a formula which should allow the schedule of the marginal efficiency of capital to be high, whilst using rule and custom and the moral law to keep down the rate of interest.

In effetti, il testo è sorprendente, e per molti deve avere da subito suonato, e continuare a suonare, anche estremamente irritante. Ci sono, infatti, poche questioni in grado di irritare un economista di professione quanto quella relativa alla legittimità del tasso di interesse, inteso come la remunerazione generalizzata e preventivamente fissata del denaro dato a prestito. La questione, si pensa, è già stata ampiamente regolata all’inizio dell’epoca dei lumi, e pertanto è stata a buon diritto accantonata fra i rimasugli dei tempi bui – i tempi in cui la luminosità dei teoremi deduttivi della scienza sociale contemporanea era ancora offuscata dai sottili distinguo operati dalla pratica del commento e della glossa, ossia dell’interpretazione. Tuttavia, la questione rimane: nummus parit nummos? Il denaro genera sempre legittimamente denaro? I figli del denaro sono figli legittimi – o semplicemente “naturali”, per non dire “bastardi”, cioè di per sé incapaci di portare un nome, di inserirsi in una filiazione? Porsi questa domanda genealogica significa,

5 J. A. Schumpeter è il campione di questo atteggiamento. Si vedano i capitoli della sua Storia dell’analisi economica dedicati al pensiero economico che precede la nascita dell’economia. 6 Ossia, in termini non keynesiani, la remunerazione del denaro prestato e la generatività di questo stesso denaro una volta che esso sia connesso con il lavoro.

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all’interno del discorso economico, chiedersi dove risieda precisamente la potenza generativa del denaro. Nel semplice fatto di essere risparmiato (meglio: accumulato), o altrove? Tale supposta potenza generativa è davvero misurabile preventivamente con un “prezzo”? Ma altre domande sono altrettanto possibili: che cosa tiene assieme il denaro presente e il denaro futuro, e come, secondo quale legge, si possono convertire l’uno nell’altro? Ma soprattutto, spostando la questione al di fuori del terreno propriamente economico, come non riconoscere che la questione della legittimità del prestito ad interesse, ovverosia in termini tradizionali, la questione dell’usura, non solo è una questione non limitabile a considerazioni tecniche, ma è anche ben più universale dell’universalità occidentale? Come non tenere conto, cioè, che altre civiltà hanno posto e risolto assai diversamente dalla doxa economica occidentale contemporanea, ma in grande assonanza con il pensiero occidentale che la precede, la questione della delimitazione dello spazio di legittimità del prestito a interesse? Un attento interprete della tradizione giuridica occidentale, capace sulla sua scorta indicare le aporie e gli enigmi della costruzione dogmatica occidentale, ha potuto scrivere, recentemente, in forte consonanza con la posizione dell’economista Keynes:

Il tempo sfugge al tentativo di dominarlo e l’euro-americo-centrismo non è più ciò che è stato finora. Non riusciamo più ad attenerci alle analisi di Max Weber sull’apporto del Protestantesimo alla costituzione del risparmio e del capitale, né all’esame degli sforzi della Controriforma cattolica per evitare, attraverso raffinatezze giuridiche, il divieto del prestito a interesse. Siamo in un frammezzo, in cui non si osa ancora sollevare la questione antropologica, che emerge da strati antichi dell’eredità europea: il denaro è padre e madre, ovvero fa figli? (La tradizione occidentale evoca la cosa per via di negazione: nummus non parit nummos, il denaro non genera denaro). Che fare della questione primitiva di una posta in gioco genealogica della moneta, riscoperta da un’etnografia sbalordita, costantemente ignorata dai lavori sulla problematica economica del valore, così come dalla psicanalisi, che dovrebbe purtuttavia doversi interessare delle fonti soggettive dello scambio? Ecco un elemento di un certo peso nelle discussioni aperte dall’omogeneizzazione mondiale delle relazioni di debito e credito: possiamo davvero sopportare di venire a sapere, da culture diverse dalla nostra, e in particolare da quelle minacciate da un rischio di cancellazione totale, ciò che noi stessi abbiamo scacciato dalla memoria occidentale? E di pari passo, è concepibile che uno sguardo dogmatico rivolto all’occidentalità interroghi il dispiegamento della teoria economica, la quale, agganciata da più di due secoli alla naturalità delle scienze fisiche, si fa giudice dei tipi di civiltà e si pone, secondo la formula di Jacques Rueff, che anticipa la doxa contemporanea, come “studio della politica e della morale razionali”?7

7 P. Legendre, De la société, cit, p. 97.

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Il testo di Keynes8 può dunque certamente apparire sorprendente e irritante – ma a questo punto dobbiamo aggiungere: lo può solo per chi non riconosca a Keynes una capacità di penetrazione del fenomeno monetario del tutto non assimilabile al “common wisdom” degli economisti di professione, e soprattutto non riconosca la legittimità, non solo logico-formale ma anche istituzionale, della questione che egli pone. Può essere invece che ci sia una tradizione, apertamente nascosta, ma in fondo costantemente accessibile, del pensiero monetario occidentale, rispetto alla quale le affermazioni di Keynes non suonino affatto strane, ma appaiano come il tentativo di riprendere, nel bel mezzo del discorso economico, una questione dalla cui espunzione lo stesso discorso economico attuale, che lo si chiami tradizionalmente economia politica o ultramodernamente economics, è sorto in modo non del tutto chiaro. Non chiaro soprattutto a se stesso. Nella General Theory, ma in realtà in tutto il suo lavoro teorico, Keynes pone al centro della propria indagine la questione del rapporto che può, e soprattutto deve, in vista di un equilibrio dotato di senso, intercorrere fra tasso d’interesse e moneta, e lo fa attraverso la messa in questione del rapporto che dovrebbe a tal fine intercorrere fra risparmio e investimento, nonché fra le determinanti dell’uno e dell’altro. È lungo questo percorso che a Keynes appaiono la questione del tasso d’interesse, e la difficoltà logica a considerarlo come un prezzo di equilibrio fra offerta di moneta risparmiata e domanda di moneta per investimenti. In effetti, molte delle osservazioni che precedono e seguono questo passo vanno in questa direzione. E tuttavia, sappiamo bene – e Keynes stesso lo ricorda nello stesso capitolo da cui abbiamo tratto il passo, parlando delle concezioni monetarie di Silvio Gesell – che la problematizzazione del tasso d’interesse è strettamente legata alla sua concezione della moneta, in particolare alla questione della liquidità e della preferenza per la liquidità. Nel lavoro teorico di Keynes sul problema, e non sul semplice fatto, della liquidità risiedono, infatti, alcune fondamentali implicazioni per la comprensione del fenomeno monetario come fenomeno istituzionale. Si tratta di indicazioni estremamente rare e preziose. In effetti, che una teoria della moneta debba considerare anche aspetti istituzionali, è cosa che ben pochi negano fino in fondo. Ma che la moneta sia come tale, e da cima a fondo, istituzione, è altrettanto raramente visto9. Ma non è tutto. Al di là dello stesso lavoro di Keynes, resta la questione, ulteriore e decisiva, di come intendere il fenomeno dell’istituzione monetaria. Come un puro fatto di convenzione? O come la messa in opera di qualcosa che non può aver luogo da se stessa, e che al contempo costituisce il primo e universale bisogno per la civilizzazione – ma forse dovremmo dire, più semplicemente ma più problematicamente: della giustificazione – delle relazioni 8 Nel quale, come vedremo a più riprese, si giocano due possibili accessi alla moneta, e dunque alla questione dell’interesse: la moneta come ente sommamente accumulabile nella forma di una generatività e la moneta come quel particolare ente il cui essere si compie con la sua sparizione. 9 Si veda, a proposito di Keynes, il lavoro di L. Fantacci, J.M. Keynes: Escaping the Liquidity Trap, ISE Working Paper, 2005/II, in particolare alla p. 12.

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sociali? In che senso la moneta è un’istituzione fondamentale e universale? E in che senso tale fondamentalità, per quanto universale, non ha per nulla a che fare con una riduzione della generalità degli scambi in cui essa è implicata a un meccanismo processuale uniforme? Tuttavia, prima di dedicarci al rapporto di reciproca esclusione fra uso proprio e uniformazione, è necessario porre la questione dell’uso proprio in termini più ampi, tali cioè da poter comprendere in che senso la supposta infinita sostituibilità fra monete, che sta al fondo della dottrina corrente e delle istituzioni monetarie attuali, provenga da una disinterpretazione dell’uso proprio della moneta. Torniamo dunque al testo di Keynes, e alla sua apparente stranezza. La prima cosa, la più semplice, da osservare è che la rivalutazione keynesiana della Scolastica non solo non passa, come in molti autori di ispirazione cattolica, per una sua contrapposizione all’economia politica, ma nemmeno per un tentativo di “integrare” alle considerazioni improntate all’efficienza proprie dell’Economia Politica le considerazioni “morali” di un più antico modo di pensare (altro virtuosismo cattolico) – quasi che fra economia e morale si dovesse cercare una forma di “complementarità”10. Ciò che Keynes riconosce esplicitamente e volentieri agli scolastici è piuttosto un lavoro intellettuale onesto e fondato – un riconoscimento retto a sua volta dal riconoscimento dell’urgenza attuale di una ripresa trasformata di quel lavoro. Quello degli scolastici è agli occhi di Keynes un lavoro fondato precisamente nella misura in cui esso è critico, ossia nella misura in cui si presenta come un tentativo di tenere separato – di distinguere – ciò che ha in sé una certa tendenza a confondersi. E non per un effetto di negligenza umana (fosse pure quella della “classical theory”), ma per la struttura della cosa stessa. La prima confusione, che in un certo senso genera tutte le altre, è quella fra moneta e ricchezza, o, per dirla nei termini della teoria economica standard, fra moneta come asset e moneta come mezzo di scambio. Ma, ancora, potremmo rideclinarla come la questione della differenza fra moneta come flusso e la moneta come stock, come “fluido” e come “solido”. Al fondo, tuttavia, la

10 Come se a un’artificiale divisione di compiti – l’autonomizzazione dell’economia dalla morale decantata come il passo trionfalmente inaugurale dell’economia politica – si potesse rimediare con una altrettanto artificiale ricomposizione. Vale la pena ricordarsi che questa furbizia morale è ironicamente smascherata fin da subito da Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, § 189 ) e, in toni più apocalittici da Carlyle, in un passo tanto famoso quanto mal citato. Del resto, basterebbe prendere sul serio la formula di Rueff citata da Legendre, per rendersi conto che la separazione e la ricomposizione degli ambiti ha preso, da due secoli a questa parte, e in modo sempre più radicale, la forma di un’inclusione coloniale della politica e della morale nel campo dell’indagine economica. La vena politico-morale dell’economia ultramoderna si mostra proprio là dove essa nega radicalmente ogni autonomia alla politica e alla morale, riproducendole in forma cibernetica all’interno del suo discorso. Un discorso che letteralmente, e programmaticamente, non intende lasciare più nulla fuori da sé. Salvo forse, ma per via di rimozione, la considerazione del limite come posta in gioco essenziale, anche, e soprattutto, per l’economia.

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questione si può condensare, ancora più semplicemente, nella domanda: può la moneta, in quanto ciò che consente lo scambio delle merci, essere considerata essa stessa come una merce11? È in quest’ambito di problemi, ossia nel tentativo di dirimere tali antinomie e di mantenere distinto ciò che tende a confondersi, che la riflessione occidentale ha posto, e fin dai suoi inizi, la questione dell’uso proprio della moneta – evocando dunque fin dall’inizio la possibilità, inerente a tale uso, di un uso improprio. Ma il nome di tale uso improprio è appunto, e fin dall’inizio di tale tradizione, “usura”. La questione dell’usura non è innanzitutto una questione quantitativa connessa alla limitazione per via legale del tasso massimo di interesse. Questa è piuttosto una forma tardiva e depotenziata, per non dire insensata, del problema, che solo a partire da Bentham (In Defense of Usury, 1787) potrà apparire come un punto di partenza sufficiente. All’inizio, invece, come si diceva, la questione di un uso della moneta che rischi di divenire un uso improprio è incomparabilmente più inerente all’uso stesso della moneta. Così, infatti, la troviamo in Aristotele (Politica, 1258b):

… l’usura è del tutto a ragione giudicata intollerabile (mivseitai), giacché in questo caso l’acquisizione deriva dalla moneta stessa, e non da ciò in vista di cui la moneta è stata istituita. La moneta, infatti, è nata al fine dello scambio; ma l’interesse la fa aumentare (e da qui l’interesse, il tovko", ha tratto il proprio nome: in effetti i generati sono simili ai genitori, e l’interesse, il tovko", è moneta da moneta12); di conseguenza, questa forma di arricchimento è fra tutte la più contraria alla natura della cosa.

“Ciò in vista di cui la moneta è stata istituita” è la sua capacità di servire primariamente da misura, e secondariamente come mezzo per gli scambi. L’obiezione – potremmo anche dire: l’opposizione – di Aristotele all’usura ha dunque una radice logica ben prima che morale, posto che per Aristotele tali differenze siano davvero pertinenti13 – in particolare, bisognerebbe imparare a

11 Henry Miller (Money and How It Gets That Way), citando scherzosamente uno schoolmen di fantasia, dice la cosa essenziale: “that which represents either symbolically or concretely an act of exchange can never be thing exchanged”. 12 tovko", nel senso di pollone, assomiglia a tevkno", “figlio”. La somiglianza ingannevole fra tovko" e tevkno" è quella fra il puro effetto di una riproduzione non umana e l’effetto di una filiazione. 13 Come è possibile agevolmente mostrare, la coppia morale/economia, e dunque la questione derivata della subordinazione o dell’autonomia del discorso economico rispetto al discorso morale, non è tanto riferibile ad Aristotele quanto all’interpretazione scolastica di Aristotele. Il punto d’origine della questione è la netta distinzione operata dalla scolastica (cfr. Thomae aquinatis Summa theologica, IIa IIe, q. 61) fra giustizia distributiva e giustizia commutativa. Tale distinzione arriverà fino a J.S. Mill. Nulla di ciò in Aristotele. L’economia è una parte della politica, nella misura in cui la polis “con-tiene”, tiene insieme, l’oikos come una sua parte, distinguendosene non semplicemente sul piano di una comparazione/differenziazione quantitativa, ma nella misura in cui ne è il telos, ossia ciò che fin dall’inizio rende possibile il compimento definito di quelle comunità non bastanti a se stesse, non propriamente autarchiche che sono le comunità “economiche”. E l’”etica”? Per Aristotele, l’etica è, al fondo, semplicemente un altro nome della politica così intesa. È quanto, in effetti, afferma Aristotele

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non prendere l’espressione “para; fuvsin” come il tentativo di prestare alla “natura delle cose” le caratteristiche di un ordine morale immutabile, di cui Aristotele sarebbe il reazionario cantore. Il filovswfo" Aristotele non è per nulla misavrguro": non odia proprio nulla. In termini ben più aristotelici, potremmo invece dire che tale obiezione, e tale giudizio di intollerabilità, sono di ordine politico, nella misura in cui tale uso improprio – e in questo senso “innaturale” – di un “mezzo”, che consiste nel tramutarlo in un “fine”, mina, ossia fa degenerare, la possibilità del suo uso proprio. E cos’è questo uso proprio? Quella modalità dell’uso della moneta grazie alla quale gli scambi possano avvenire secondo una misura condivisa dall’intera comunità degli scambianti, in modo che le loro relazioni godano della dovuta stabilità14. Ora, tali accenti (perdita della misura e degenerazione del senso), presenti con chiarezza nel passo di Aristotele, li ritroviamo pressoché identici nel seguente passo di Keynes, e proprio con riferimento all’arricchimento (wealth-getting):

As the inflation proceeds and the real value of the currency fluctuates wildly from month to month, all permanent relations between debtors and creditors, which form the ultimate foundation of capitalism, become so utterly disordered as to be almost meaningless; and the process of wealth-getting degenerates into a gamble and a lottery15.

Keynes parla di inflazione, Aristotele di prestito a interesse: ma sia l’inflazione sia l’interesse sono, in relazione alla misura, forme di perdita di senso. Per entrambi, dunque, la posta in gioco, ossia l’elemento centrale che rischia di andar perso e di degenerare, è la stabilità della moneta come misura16. Non si tratta, ancora una volta, di una stabilità innanzi tutto quantitativa, né tanto meno di una rigidità assoluta, ma della capacità di permanenza di ciò che, pur non costituendo in sé ricchezza, e, anzi, proprio perché non è in sé una ricchezza, consente al processo dell’arricchimento di essere coerente con la propria natura, cioè, in altri termini, di essere vero, e non ingannatore. In termini economici moderni, di essere un arricchimento reale e non semplicemente … monetario!

nelle prime battute dell’Etica Nicomachea: “hJ me;n ou\n mevqodo" touvton ejfivetai, politikhv ti" ou\sa, la nostra indagine è in un certo determinato senso null’altro che un’indagine politica.”. 14 Il rinvio d’obbligo è all’altro grande testo aristotelico sulla moneta oltre alla Politica: l’Etica Nicomachea. In questo testo, il carattere abissalmente politico della moneta traspare costantemente dalle formulazioni del V libro, le più dense che sia dato di trovare sulla moneta nella tradizione occidentale. 15 J. M. Keynes, The Economic Consequences of the Peace, London 1919, p. 220. 16 Per Keynes, la stabilità della moneta come misura precede strutturalmente la stabilità del suo potere d’acquisto. Tanto è vero che può accadere che quest’ultimo debba essere deliberatamente variato proprio in vista del mantenimento della misura. Si veda il passo del Tract on Monetary Reform, in cui Keynes mostra in che senso l’inflazione, nel suo perturbare il potere d’acquisto, risponda in maniera casuale a un’esigenza strutturale, che dovrebbe essere, proprio in quanto strutturale, debitamente pre-scritta. Si veda anche il passo dell’Etica nicomachea, citato più sotto, sulla moneta come istituzione, meglio: sull’istituzione come qual particolare fare nel costruire la moneta si assume anche l’onere di dis-farla e di renderla indesiderabile, cioè inutilizzabile.

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Aristotele lo dice molto chiaramente. La moneta non può propriamente essa stessa essere oggetto di un’attività commerciale, di uno scambio, e dunque a maggior ragione di usura, perché essa è “stoiceivon kai pevra"”, elemento primo e limite dello scambio:

L’arricchimento secondo la natura della cosa è parte della cura della casa (oijkonomiva), mentre l’altro tipo di arricchimento appartiene al commercio, il quale produce beni non nel senso pieno di un portarli alla luce, ma attraverso quello specifico spostamento che è lo scambio di beni. Questo genere d’arricchimento sembra concentrarsi sulla moneta: la moneta è, infatti, il primo elemento e il limite dello scambio. Ma questo tipo di ricchezza, derivante da questo tipo d’arricchimento, è in verità senza limite.

Aristotele dice dunque con chiarezza: solo apparentemente – ma l’apparenza questa volta davvero inganna – la moneta è l’oggetto dell’arricchimento, cioè di qualcosa che è in verità senza limite. In verità, invece, la condizione di accrescimento della ricchezza è proprio la strutturale limitatezza della moneta: il fatto stesso che essa sia un limite per qualcosa che in sé non ha e non può giustamente avere alcun limite, ossia per quel particolare uso delle cose che consiste nel farle passare da una mano all’altra. Questa strutturale limitatezza della moneta implica che essa stessa non può accedere a una crescita illimitata attraverso uno scambio in cui essa, invece di svolgere il proprio ruolo di mediatore, assuma la posizione di un oggetto di scambio. La moneta è il mezzo dell’arricchimento, e l’arricchimento è il fine della moneta come mezzo. Precisamente per questo motivo la ricchezza, nella misura in cui è “infinitamente” acquisibile in un processo di arricchimento, delimita, in quanto fine, la moneta stessa in quanto mezzo:

Così come la tèchne medica è senza limite rispetto alla salute, e ogni tèchne è senza limite rispetto al suo tèlos – giacché tutte vogliono produrlo al più alto grado possibile –, così per ciò che è in vista del tèlos ognuna di esse non è affatto senza limite; il tèlos stesso è infatti un limite per ciò che è in vista del tèlos. Così dunque anche questo tipo di arricchimento non ha limiti rispetto al tèlos: e il suo tèlos è la ricchezza, ovvero l’acquisizione di beni.

Proprio quando è vista come il mezzo di un arricchimento in sé privo di limite, la moneta appare come essenzialmente limitata. Queste sono le radici logiche della “condanna” aristotelica dell’usura – una condanna che deve essere letta come un giudizio emesso piuttosto in nome dello scambio che contro di esso. Questo argomento aristotelico, ancora più della riflessione scolastica da lui stesso chiamata in causa, è ciò che possiamo reperire alla base delle considerazioni di Keynes sul tasso di interesse in un’economia a tutti gli effetti capitalistica. Ma torniamo alla fonte. Ciò che emerge dalle righe di Aristotele che abbiamo iniziato a commentare, è in realtà un duplice risultato. In primo luogo, l’energia propria della moneta, il suo specifico lavoro, si è mostrata consistere in una limitazione: la moneta è ciò che rende possibile e delimita lo scambio in quanto

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scambio17. È l’aspetto di misura che è proprio della moneta. Ma, in secondo luogo, tale capacità di limitazione ha mostrato di esigere di essere a sua volta qualcosa di delimitato, anche in senso quantitativo, dal fine cui essa serve. È per questo duplice ordine di motivi che la moneta come tale non è, e non può essere in nessun modo considerata, parte della ricchezza di una comunità o di un singolo. In questo senso, l’affinità fra il discorso politico aristotelico e quello economico di Keynes non potrebbe essere più netta. Se, infatti, nel 1923 Keynes afferma, nel suo Tract on Monetary Reform:

It is not easy, it seems, for men to apprehend that their money is a mere intermediary, without significance in itself, which flows from one hand to another, is received and is dispensed, and disappears when its work is done from the sum of a nation’s wealth18,

egli non fa che riprendere a suo modo un punto che Aristotele ha messo in luce ancora più profondamente – nel senso che Aristotele dice esplicitamente non solo perché “non è facile per gli uomini apprendere” che la moneta non è propriamente ricchezza, ma anche per quale forma di illusione la moneta normalmente appaia invece come la forma più compiuta di ricchezza:

In effetti, il più delle volte si ritiene che la ricchezza consista in una quantità di moneta, giacché è la moneta ciò su cui sembra concentrarsi il commercio. E tuttavia, accade una buona volta che la moneta appaia invece come un peculiare “nonsenso”, ossia come qualcosa la cui natura è di essere interamente legge, ossia come nulla che sorga da sé e in vista di sé, dal momento che, quando coloro che ne fanno uso l’hanno effettivamente scambiata, essa non ha più alcun valore, e nemmeno è di qualche uso per le necessità della vita. E in effetti, un uomo ben provvisto di moneta può trovarsi a mancare degli alimenti a lui necessari. Ma sarebbe davvero assurdo che la ricchezza fosse tale che un uomo ben provvisto di essa si trovasse a morire di fame, come Mida nel mito: al quale, per via della sua ingorda preghiera, tutto ciò che gli veniva offerto si trasformava in oro.

Il testo è molto denso. Accontentiamoci di osservare, innanzi tutto, come una concezione puramente quantitativa della moneta risulti fin da subito insufficiente. Infatti, nonostante ogni normale e reiterata apparenza, la moneta non è qualcosa che si lasci ridurre sempre a una quantità. Essa non si lascia ridurre sempre a una quantità proprio perché essa è, innanzi tutto – cioè prima di ogni suo uso corrente – il garante del senso delle quantità economiche. Certo, lo scambio, e in particolare lo scambio commutativo-commerciale, ha a che fare il più delle volte, cioè ordinariamente, con la moneta nel senso che ne usa delle 17 Non si tratta cioè di una delimitazione quantitativa imposta allo scambio, quasi che si potesse determinare a priori la sua estensione, ma di una concessione di possibilità allo scambio stesso. La moneta delimita lo scambio, e ne costituisce l’elemento proprio, proprio affinché esso possa essere a tutti gli effetti senza limite rispetto al suo fine: che è, appunto l’acquisizione di beni, e non di moneta. Per dirla in termini di contabilità: la condizione di equilibrio per lo scambio è sempre, indipendentemente dai volumi scambiati, un saldo pari a zero alla fine delle transazioni. In equilibrio, la moneta non fa parte delle cose scambiate. 18 J. M. Keynes, A Tract on Monetary Reform, 1923, p. 124

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quantità determinate. Ma, proprio nella misura in cui ne usa, e per poterne usare, esso non “ha” propriamente la moneta: non la possiede. E proprio qualora tentasse di “averla”, scoprirebbe una buona volta che essa è un “nonsenso”: o, più precisamente, scoprirebbe che essa non ha lo stesso senso di ciò che consente di scambiare. Ecco perché il riferimento a Mida, con cui si chiude il passaggio, non è affatto “letterario”, come del resto nulla in Aristotele. Piuttosto, con il mito di Mida egli chiama in causa precisamente la radice della difficoltà a comprendere la moneta come quel particolare “nonsenso” che è del tutto necessario allo scambio del senso. Tale radice è, per usare una formula un po’ complicata, la possibilità, inerente all’uso che gli uomini fanno della moneta, che il senso di ciò che presiede allo scambio del senso sia a sua volta oggetto di uno “scambio di senso”, ossia di un inganno. Tale inganno, che è al fondo un modo per ingannare innanzi tutto se stessi, consiste nel fatto che un’immagine della ricchezza sia presa per la realtà della ricchezza – come se ci si trovasse, senza peraltro saperlo, dalla parte sbagliata dello specchio. E dall’altra parte dello specchio vi è un mondo alla rovescia, un mondo assurdo, sordo al senso, in cui i beni si capovolgono in moneta, restando per ciò stesso inutilizzabili come beni. Nella riflessione aristotelica, e nel mito antico in generale, Mida è lo “speculatore” per antonomasia: colui che, credendo di aver colto l’essenza del denaro, pensa che averlo tutto per sé implichi avere per sé anche tutto ciò che il denaro può ottenere. Mida crede di aver colto il potere proprio del denaro (il suo “potere d’acquisto”) e chiede al dio di poterlo accumulare d’un colpo, di concentrarlo fino a farlo coincidere con il suo desiderio. Ma in effetti, proprio così facendo, egli dimentica che il denaro consente di ottenere le cose d’uso solo essendo ceduto – cioè de-cumulandosi nella circolazione, essendo cioè preventivamente consegnato a inabissarsi in essa. Come è noto dal mito, Mida verrà liberato dal suo dono insostenibile proprio entrando controcorrente nel fiume Pattolo: il suo dono, che egli credeva una ricchezza, sarà ceduto al fiume, ossia sarà ricondotto al suo flusso: a qualcosa, cioè, che meriti propriamente il nome di liquidità…19

19 In effetti, il desiderio di Mida torna nella General Theory, senza la forza del mito, nella forma di un motto di spirito,: “Unemployment develops, that is to say, because people want the moon; — men cannot be employed when the object of desire (i.e. money) is something which cannot be produced and the demand for which cannot be readily choked off.” Il senso del Witz keynesiano è che la moneta non può essere propriamente un oggetto di desiderio, precisamente perché essa è piuttosto il mezzo, lo spazio di mediazione attraverso cui un desiderio deve poter passare per trovare adeguata soddisfazione in un oggetto reale. In termini psicoanalitici, si potrebbe dire: il denaro costituisce rispetto al desiderio una scelta oggettuale inadeguata. In altri termini, un reale rapporto con il denaro dovrebbe passare per una rinuncia simbolica al desiderio di possederlo. Nei termini del motto di spirito: ciò che davvero si può volere, nel senso che può essere propriamente avuto, non è la luna, ma piuttosto … il formaggio, di cui la luna è semplicemente l’immagine. Ma è precisamente di questo genere di illusioni, e di scambi di senso, che si è invece nutrita per secoli, secondo Keynes, l’auri sacra fames. Una fame inestinguibile nell’esatta misura in cui non riesce a distinguere la cosa stessa dalla sua immagine.

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Lasciamo per un attimo le considerazioni di Aristotele e la loro riemergenza nel discorso di Keynes, per venire all’altro tema delle presenti considerazioni sull’uso proprio del denaro. In queste considerazioni che si svolgono agli estremi cronologici della riflessione occidentale sul denaro e sul suo precipuo ruolo nello scambio, è venuto alla luce un tratto fondamentale della moneta come istituzione: la sua irriducibilità al piano che essa stessa, in quanto istituzione, rende possibile. Per dirlo con una formula: proprio perché essa è l’istituzione della scambiabilità, essa stessa non può, e al contempo continuamente rischia di, essere oggetto di uno scambio. Lo scambio, il transfert, della moneta con ciò che essa consente di scambiare, ossia propriamente di far passare di mano in mano (metabolè) è l’unico scambio istituzionalmente impossibile. L’istituzionalità del fenomeno monetario, la sua peculiare “non-naturalità”, ha dunque a che fare con una radicale insostituibilità della moneta. Anche in questo senso, la moneta dovrebbe appare necessariamente come un costrutto istituzionale, ovvero come qualcosa che deve poter essere costruito per poter essere ciò che propriamente è: l’elemento e limite per gli scambi nel loro insieme – in altri termini, l’elemento e il limite per la circolazione. Ma questo fatto apparentemente ovvio, implica una conseguenza, che tutto può essere tranne che ovvia: è proprio la sua destinazione alla circolazione ciò che richiede la sparizione della moneta da ogni possibile computo finale della ricchezza20. E questo fino al punto che, come accade nel mito di Mida, una moneta stagnante, ovvero incapace di trovare la propria modalità di sparizione, è di per sé indizio di indigenza, per il singolo come per la comunità nel suo complesso. Ogni hoarding, ogni tesaurizzazione, ogni trattenimento della moneta dalla sua tendenza ad eclissarsi, costituisce di per sé una messa a rischio del funzionamento monetario. Una messa a rischio, anche se non necessariamente una disfunzione effettiva. Il rischio si fa tuttavia effettivo quando tale trattenimento si lega al pagamento di un compenso preventivamente fissato in termini di interesse. Ma qui ritroviamo anche la questione da cui siamo partiti, e che vedeva Keynes rivalutare la riflessione medioevale sull’usura. Ora abbiamo un elemento in più per comprendere in che senso quello degli scolastici possa essere apparso a Keynes come un onesto sforzo intellettuale e non come un tentativo gesuitico per venire a patti con una teoria folle. Agli occhi di Keynes è ben più folle la classical theory, per la quale la moneta, considerata non come misura e mezzo dello scambio, ma come merce fra le merci, ha sua volta un suo

20 Lo vedremo in Marx, in un modo allo stesso tempo sconcertante e risolutivo. Per Marx, l’ambito della circolazione, da lui costruito come complicazione quantitativa del rapporto bilaterale fondamentale “venditore/compratore” è tale da non poter generare nessuna forma di “valorizzazione del valore”, ovvero nessuna forma vera e propria di capitalismo. Dei particolari problemi di questa rappresentazione, ma anche degli ulteriori lumi sul rapporto fra moneta e circolazione da una parte, e del rapporto capitale/valorizzazione dall’altra, e dunque in generale del problema della “moneta capitalistica”, dovremo tornare distesamente più avanti, trattando del capitolo IV del I libro del Capitale.

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prezzo di equilibrio, determinato dall’offerta e dalla domanda di moneta non spesa. Si tratta ora di comprendere dove risieda la radice di questa “follia”. Ricordiamo che Keynes parla esplicitamente di una “inextricable confusion”, introdotta dalla teoria economica classica, fra ciò che regola il risparmio e ciò che regola l’investimento. Ora, la radice di tale confusione è per Keynes l’idea che l’uscita del denaro dal circuito di scambio della compravendita di beni (dove cioè la moneta è mezzo di pagamento) implichi necessariamente la sua entrata nel circuito finanziario del risparmio e dell’investimento, del debito e del credito (dove essa è anticipazione in vista di una spesa, ossia potenzialmente capitale). In altre parole: l’idea che la moneta sia profondamente marcata da un’infinita sostituibilità, prima ancora che nello spazio, soprattutto nel tempo. Per fare ciò dovremo ora provare a considerare con attenzione il concetto di sostituibilità, nel tentativo di ponderare con rigore il suo ruolo centrale nella costruzione del sapere scientifico dell’economia politica – una scienza in questo senso non solo tipicamente occidentale, ma, come ci ricorda Hegel, ancora più tipicamente moderna. Nell’apparente evidenza dell’applicabilità universale del concetto di sostituzione si nasconde probabilmente gran parte della difficoltà della scienza economica a fronteggiare il fenomeno singolare21 della moneta. III. Cinque limitazioni del concetto di sostituibilità Merce, moneta e sostituibilità Nella teoria microeconomica corrente, il tratto caratterizzante di una merce, in altri termini, ciò che la distingue da una non-merce, è, più ancora che la sua scarsità, la sua sostituibilità. Una merce, ovverosia qualcosa capace di essere definito da un prezzo, deve essere certamente scarsa. E, in effetti, uno dei primi risultati della riflessione economica moderna è il cosiddetto “paradosso del valore”22. Ma, bisogna dirlo, si tratta davvero di un paradosso senza alcuna profondità. Esso indica al più una condizione necessaria per la formazione di

21 Dico “ fenomeno singolare” nel senso della sua radicale incomparabilità. La sua stessa singolarità non può essere compresa per differenza da una norma più generale, cioè come un’eccezione. Resta invece il fatto che la moneta è irriducibile ai beni pur essendo del tutto essenziale per la loro significatività economica. 22 L’acqua, finché è abbondante, mantiene certo il suo “valore d’uso”, la sua insostituibile utilità, ma non ha nessuna capacità di avere un prezzo, un valore di scambio. Se solo però essa non basti a tutti, ecco che un uomo che rischia di morire di sete può “ragionevolmente” cedere un diamante, ovvero un bene normalmente di gran pregio, per avere dell’acqua… Di contro, negli stessi anni in cui Davanzati espone per primo il paradosso del valore, vi è ancora un autore italiano, Gasparo Scaruffi, che non ha nessuna esitazione a sostenere, in un trattato sulla moneta di conto universale, che l’oro è scarso proprio perché è prezioso, e non, viceversa, che esso è prezioso nella misura in cui sarebbe scarso. Non si potrebbe avere, in uno spazio e in un tempo così stretti, una prova migliore del “rovesciamento epistemico” che si produce in seno alla riflessione occidentale sulla moneta.

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un prezzo. Ma non è una condizione sufficiente. Nel giardino dell’Eden non c’è bisogno di scambi economici: ma al di fuori dell’Eden, cioè sempre, ciò che conta per la costituzione di una comunità di scambi non è tanto la scarsità quanto la scambiabilità delle cose. A questo fine, il bisogno individuale deve poter entrare in un “sistema collettivo di bisogni”, ovverosia, il che è lo stesso, in un sistema di divisione dei lavori, in modo che l’uso di ogni bene possa essere messo in relazione, in linea di principio, e in vista di una comunicazione dei lavori, con l’uso di ogni altro bene. Questo è quanto è dato di trovare in Platone, all’inizio del movimento di fondazione della polis, e ancora in Kant, quando è questione di fornire una definizione trascendentale della moneta23. L’economia politica tuttavia assolutizza questa prospettiva: per essa, la merce è tale se e solo se essa è a priori sostituibile con tutte le altre, senza più alcun necessario riferimento qualcosa come un uso: nemmeno nella forma di una “valore d’uso”24. Questa sostituibilità preventiva e strutturale è il motivo di fondo per cui per ogni distinzione fra beni necessari e beni di lusso non ha al fondo alcun significato analitico per l’economia politica, se non in condizioni estremamente “primitive” dello scambio. Ma è soprattutto il presupposto strutturale per la costruzione della scienza economica come una teoria generale dei prezzi relativi. I prezzi della teoria economica, sia nell’equilibrio del consumatore, sia nell’equilibrio economico generale, sono infatti, in forza della sostituibilità, necessariamente prezzi relativi, ossia quantificazioni del saggio marginale di sostituzione dei beni. Resta tuttavia da chiedersi: che ne è della moneta in questa prospettiva? La risposta è semplice quanto insoddisfacente. Anch’essa è vista come una merce. Anzi, come la merce universale. La moneta appare nell’impianto teorico dell’economia politica come una sorta di “scambiatore generale”. In quanto merce universalmente sostituibile, essa appare come un mezzo di scambio, ovverosia come ciò che consente di evitare il fastidio della “double coincidence of wants” che affliggerebbe il baratto. Ma, sempre nella buona teoria economica, e soprattutto qualora dai suoi principi si vogliano trarre tutte le necessarie conseguenze, proprio questa caratteristica della moneta ne dovrebbe fare qualcosa che non può propriamente essere considerato come una merce. Bisognerebbe, in altri termini, imparare a trarre tutte le dovute conseguenze dal fatto che, nell’equilibrio generale, la moneta non svolge strutturalmente alcun ruolo nella definizione univoca e ottimale del sistema di prezzi relativi che conduce al clearing delle transazioni fra merci. Non svolgendo in questo equilibrio alcun ruolo, la moneta non può nemmeno propriamente essere spesa, e tanto meno può essere “risparmiata”. Ecco quindi una prima conseguenza da trarre da quanto detto: se la sostituibilità è posta come la condizione di esistenza della merce, allora la

23 I. Kant, Metaphysik der Sitten, I, 31. Si tratta del paragrafo intitolato Was ist Geld?, dal quale è stata tratta anche la citazione commentata più sotto. 24 Questo processo di assolutizzazione è rigorosamente esposto da Hegel nei Lineamenti di una filosofia del diritto, §§ 189-195.

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moneta, anche quando venga intesa come quella merce dotata di una peculiare, perché universale, sostituibilità, non può che essere un mezzo per il raggiungimento di un equilibrio. Mezzo per realizzare la sostituzione generalizzata di tutte le merci, la moneta è sì universale (la “merce universale” di cui parla Verri25) ma nulla di in sé sostituibile. La sua stessa universalità è ciò che la rende propriamente insostituibile. Se la moneta è universale, lo è proprio in quanto non è una merce. Si è detto che nell’equilibrio concepito dalla classical theory, la moneta non può propriamente essere spesa, e tanto meno può essere “risparmiata”. Per questo motivo, i problemi per la teoria economica sorgono là dove sia questione di moneta risparmiata e successivamente prestata, ovvero di “capitale”. E tuttavia, la “trasformazione del denaro in capitale” è precisamente ciò che Marx deve considerare per la teorica economica “borghese” un arcano impenetrabile. In effetti, con la nozione classica e neoclassica di capitale rientra in gioco surrettiziamente la nozione di sostituibilità, e ancora più precisamente la nozione di una sostituibilità nel tempo26. La sostituibilità fra monete e il problema del cambio Vi è un altro punto in cui la questione della sostituibilità appare in diretta relazione alla moneta, e non all’interno di un sistema di scambi di merci. Si tratta dell’ambito dei rapporti fra spazi di circolazione, o in altri termini fra sistemi economici. È il problema monetario del cambio. Ora, per la teoria economica standard il cambio è un prezzo, un prezzo relativo fra due monete considerate come merci domandate e offerte. Anche in questo caso, ovvero quando il rapporto di cambio fra monete nello spazio viene pensato esclusivamente come un prezzo (tasso di cambio) determinato da quantità domandate e offerte, e soprattutto omogenee, si tratta di vedere che cosa vada perso della moneta, e se si possa parlare ancora di un suo uso proprio. Anche perché questo caso mostra più di un’analogia con il caso del cambio nel tempo (tasso di interesse), ovvero con la questione da cui eravamo partiti. Alla quale dobbiamo ora tornare, non senza aver tuttavia prima posto l’osservazione appena fatta nei termini della seguente domanda: cosa accade quando ciò che delimita l’ambito di un sistema economico, la moneta come legge della circolazione delle merci, non può più essere usato come mezzo e misura dello

25 “Il danaro è la merce universale, cioè a dire è quella merce la quale per la sua universale accettazione, per il poco volume che ne rende facile il trasporto, per la comoda divisibilità e per la incorruttibilità sua è universalmente ricevuta in iscambio di ogni merce particolare.” Pietro Verri, Della economia politica, 1781. 26 Menziono qui, non per avvalermi del suo impianto argomentativo, ma solo per ricordare la sua importanza per la messa in evidenza delle aporie interne dell’impianto neoclassica proposito della nozione capitale, il contributo di Sraffa del 1926. Il cui senso fondamentale può essere così riassunto: la teoria neoclassica del capitale presuppone ciò che dovrebbe dimostrare, cioè la produttività dei beni capitali. Questa produttività è misurata al margine dal tasso di interesse: ma il tasso di interesse è ciò che deve essere presupposto per poter sussumere enti differenti sotto il concetto di capitale.

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scambio interno, ovvero quando i rapporti di scambio hanno luogo non fra operatori all’interno di un circuito di scambi ma fra circuiti di scambi, dotati ognuno della proprio legge di delimitazione, della propria moneta? Deve la moneta necessariamente divenire oggetto di scambio? O il problema deve poter essere posto in termini differenti? Questo è lo spazio per la genesi della moneta internazionale, e per una discussione del possibile ruolo dell’oro come “moneta internazionale”, a cui Aristotele dedica alcune fondamentali osservazione nella Politica27. Il problema, della natura prima ancora che del fatto del cambio, sorge, in effetti, precisamente nel punto d’incontro fra due sistemi di moneta legale, ovvero nell’ambito delle relazioni monetarie che regolano il commercio internazionale, dove nessuna moneta nazionale può legittimamente ambire a proporsi come unità di misura e mezzo di scambio per questo tipo di relazioni economiche28. Producibilità, sostituibilità e liquidità in Keynes C’è un altro ambito di riflessioni dal quale possiamo trarre ulteriori spunti. Dobbiamo tornare a Keynes, alle sue riflessioni sulla sostituibilità, e allo stretto rapporto che esse mostrano con alcuni punti centrali della riflessione occidentale sul denaro. Il passo che ci interessa è nel capitolo 17 (The Essential Properties of Interest and Money). Al paragrafo III, egli esordisce con le seguenti considerazioni:

In attributing, therefore, a peculiar significance to the money-rate of interest, we have been tacitly assuming that the kind of money to which we are accustomed has some special characteristics which lead to its own rate of interest in terms of itself as standard being more reluctant to fall as output increases than the own-rates of interest of any other assets in terms of themselves. Is this assumption justified? Reflection shows, I think, that the following peculiarities, which commonly characterise money as we know it, are capable of justifying it. To the extent that the established standard of value has these peculiarities, the summary statement, that it is the money-rate of interest which is the significant rate of interest, will hold good.

27 Anche in questo caso, mi permetto di rimandare al mio lavoro sulla questione della moneta internazionale. 28 Cfr M. Amato, È il dollaro, cit: “Una vera moneta internazionale, universale, esige l’esistenza di monete nazionali, locali. Anzi, per precisare ancora meglio il senso dell’esigenza: l’istituzione monetaria, la moneta come istituzione, esige tanto la differenza fra due piani quanto la comunicazione fra essi. Nessuna logica della reductio ad unum – o della irriducibilità, che di quella è semplicemente il rovesciamento –, presa come l’unica logica dell’universale, potrà consentire una risposta davvero soddisfacente alla nostra domanda, posto che si tratta, per le monete così come per le culture, di comprendere, per citare P. Legendre, la loro ‘uguaglianza e l’impossibilità di ridurle a una sola’ … Se l’unicità di una moneta globale non può essere l’unicità numerica della moneta statuale di uno stato globale, e se la differenza fra moneta nazionale e internazionale non rientra nel formato della opposizione, comunque risolta, fra uno e molteplice, si tratta allora di comprendere dove risieda tale unicità”.

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Il problema di Keynes è dunque quello di dare conto di due fatti di per sé non necessari, nel senso formale che essi ammettono il loro contrario: il primo è il fatto che, fra tutti i possibili tassi di interesse (intesi come la comparazione quantitativa del valore nel tempo di un bene) proprio quello monetario risulti dirimente – Keynes utilizza il termine di “standard” – per la dinamica economica. Il secondo, evidentemente connesso al primo è che questo particolare tasso di interesse non si comporta come gli altri, e in particolare non è sensibile ad aumenti quantitativi del bene in cui è espresso. Si tratta di stati di fatto non necessari nella misura in cui è possibile avanzare, come fa Keynes, l’ipotesi che essi dipendano dal modo peculiare in cui è costruita la moneta di cui egli parla, e non solo da sue caratteristiche strutturali. Essi, infatti, caratterizzano non tanto la moneta come tale, quanto piuttosto “la moneta così come noi la conosciamo”; e dipendono, per Keynes da tre peculiarità della moneta. Ma, mentre le prime due possono essere considerate generali, la terza ad ogni effetto non lo è. Le due peculiarità generali sono: un’elasticità di produzione pari o prossima allo zero29, e un’elasticità di sostituzione pari o prossima allo zero30. Per Keynes, e nell’ambito dell’argomentazione svolta in questo paragrafo, è tuttavia l’insieme di queste peculiarità prese nel loro insieme ciò che può agevolmente spiegare una “prima facie presumption for the view that [money’s] own-rate of interest will be relatively reluctant to fall”. Ma la luce che esse consentono di gettare sul fenomeno monetario è assai più ampia e più profonda di una semplice spiegazione del comportamento del tasso di interesse in un’economia capitalistica. In effetti, le prime due caratteristiche menzionate da Keynes fanno della moneta come tale, e non semplicemente della moneta “come noi la conosciamo”, qualcosa di irriducibile al piano della merce, e dunque al piano di qualcosa il cui valore possa essere regolato da un prezzo di mercato. Inoltre, esse rimandano direttamente ad alcune caratteristiche fondamentali che la riflessione occidentale sull’uso proprio della moneta ha fin dall’inizio messo in evidenza. L’elasticità di produzione pari a zero, propria della moneta, ci dice, infatti, qualcosa sul modo in cui qualcosa come una moneta può venire ad essere. La moneta non solo non viene ad essere nel modo

29 “The first characteristic which tends towards the above conclusion is the fact that money has, both in the long and in the short period, a zero, or at any rate a very small, elasticity of production, so far as the power of private enterprise is concerned, as distinct from the monetary authority; — elasticity of production meaning, in this context, the response of the quantity of labour applied to producing it to a rise in the quantity of labour which a unit of it will command. Money, that is to say, cannot be readily produced; — labour cannot be turned on at will by entrepreneurs to produce money in increasing quantities as its price rises in terms of the wage-unit. In the case of an inconvertible managed currency this condition is strictly satisfied. But in the case of a gold-standard currency it is also approximately so, in the sense that the maximum proportional addition to the quantity of labour which can be thus employed is very small, except indeed in a country of which gold-mining is the major industry.” 30 “The second differentia of money is that it has an elasticity of substitution equal, or nearly equal, to zero; which means that as the exchange value of money rises there is no tendency to substitute some other factor for it; — except, perhaps, to some trifling extent, where the money-commodity is also used in manufacture or the arts.”

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di un ente naturale, ma nemmeno nel modo di un ente tecnico: essa non può essere né coltivata né fabbricata. Qui giace la differenza fondamentale fra la moneta e ogni possibile merce: nel fatto che le condizioni stesse della sua produzione non ne possono fare una dotazione alla stessa stregua delle merci. La moneta è, sì, in un certo senso data – anzi, essa lo è ancora di più di quanto non lo siano le merci: ma non come l’esito di un processo di produzione, anche quando quest’ultimo venga ridotto formalisticamente a una mera attività di combinazione di fattori produttivi. Essa non è un prodotto, non è l’output di nessun input, ma, appunto, secondo la formulazione già citata di Aristotele, è novmo" pantavpasi, “interamente legge”. La moneta nasce come legge: nasce cioè solo attraverso una messa in opera istituzionale. L’espressione aristotelica è kata; sunqhvkh, tradotta normalmente “secondo convenzione”31. Ma in effetti, un passo dell’Etica Nicomachea ci dice assai chiaramente in che senso tale modo di intendere la sunqhvkh sia del tutto insufficiente:

… la moneta è sorta kata; sunqhvkh, nel modo dell’istituzione. Ed è per questo motivo che porta il nome di novmisma (nómisma), poiché non è qualcosa che sorga da sé ma è sempre per via di un’istituzione deliberata – da cui deriva fra l’altro che, già precisamente con l’atto che la fa, è consegnato a noi anche l’onere della deliberazione che la trasforma e la dis-fa, rendendola <infine> indesiderabile32.

Là dove è in gioco la sunqhvkh, non si tratta mai semplicemente di convenzioni sociali e di accordi su una base di parità, ma di qualcosa che deve essere “prodotto” in un modo radicalmente diverso dalle cose d’uso – di qualcosa la cui stabilità deriva cioè non dalle leggi della produzione, ma dalla produzione di una legge. Ecco perché la natura della moneta è una natura “abissale”, come Keynes non ha difficoltà a sottolineare, in una frase a tutti gli effetti ambigua, e che dovremo dunque sottoporre a un lavoro di interpretazione: “Money is a bottomless sink for purchasing power”33.

31 Non è forse privo di interesse ricordare che l’altro ambito in cui la riflessione aristotelica fa un uso significativo di questa espressione è l’ambito dello scambio di parole significative, della hermenèia, cioè del linguaggio in quanto linguaggio umano. Il vivente politico è anche il vivente parlante: l’unico vivente la cui vita, semplicemente per avere un senso, debba attraversare il campo della parola. Senza questo attraversamento nessuno scambio è propriamente uno scambio umano. Ma sulla analogia fra moneta e parola, un’analogia più abusata che non compresa nella sua abissale portata, si tratta di iniziare a impostare un lavoro interpretativo, volto a mostrare la posta in gioco e il pericolo connessi all’istituzione della comunicazione. Ogni convenzione, per poter essere semplicemente tale, presuppone una già avvenuta apertura di uno spazio di comunicazione attraversando il quale sia possibile “convenire”. In questo senso il linguaggio, la parola, non sono per Aristotele nulla di convenzionale, ma piuttosto qualcosa che non può propriamente aver luogo se non attraverso una messa in opera, che è anche una messa in comune di ciò che solo da lì in poi potrà esser riconosciuto come propriamente comune. Cfr., su questo punto, F. Fédier, Intérpretations, puf, Paris 1985, pp. 28 e 78. 32 Aristotele, Etica nicomachea, 1133a.. 33 Questa osservazione sarà ripresa nel suo contesto, dopo che avremo speso qualche parola sulla seconda caratteristica della moneta: la sua insostituibilità.

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Anche in questo caso, partendo dal suo problema analitico, Keynes giunge autonomamente a conclusioni sulla natura istituzionale della moneta del tutto affini alla posizione aristotelica. Vediamo nel dettaglio l’argomentazione keynesiana. Se la moneta non è producibile tecnicamente – se è vero che la moneta non può “be grown like a crop or manufactured like a motor-car” –, allora la configurazione istituzionale che meglio corrisponde a questa sua caratteristica essenziale è quella della moneta inconvertibile e regolata – ma anche di un gold standard rettamente inteso, nella misura in cui esso include forti, anche se impliciti, elementi di regolazione:

Money […] cannot be readily produced; — labour cannot be turned on at will by entrepreneurs to produce money in increasing quantities as its price rises in terms of the wage-unit. In the case of an inconvertible managed currency this condition is strictly satisfied. But in the case of a gold-standard currency it is also approximately so, in the sense that the maximum proportional addition to the quantity of labour which can be thus employed is very small, except indeed in a country of which gold-mining is the major industry

Dunque, non solo la moneta è scarsa secondo una modalità della scarsità che, come abbiamo potuto vedere, non è semplicemente quantitativa, ma strutturale (la moneta come tale deve esser costruita in modo tale che la sua elasticità di produzione sia zero). Essa è soprattutto insostituibile: ha cioè, in termini analitici, un’elasticità di sostituzione pari a zero.

This follows from the peculiarity of money that its utility is solely derived from its exchange-value, so that the two rise and fall pari passu, with the result that as the exchange value of money rises there is no motive or tendency, as in the case of rent-factors, to substitute some other factor for it.

All’interno delle argomentazioni analitiche di Keynes ritroviamo l’osservazione, centrale per l’argomento aristotelico contro l’usura, circa l’impossibilità di trattare la moneta alla stregua di una cosa d’uso. E questo non perché essa non sia utile, ma perché la sua peculiare utilità, e dunque il suo uso proprio, non risiedono nel suo essere usata, ma piuttosto nell’essere ceduta. La linea genealogica delle considerazioni sull’uso proprio della moneta qui si arricchisce di un’altra filiazione non meno importante: la riflessione kantiana sul denaro. Nel paragrafo 31 della prima parte della Metafisica dei costumi, in titolato Che cos’è il denaro?, Kant esordisce con una definizione nominale del denaro che guiderà tutte le sue considerazioni successive:

Il denaro è una cosa di cui non si può far uso che cedendola. Questa è una buona definizione nominale di esso…, vale a dire è sufficiente a distinguere questa specie di oggetti dell’arbitrio da ogni altra; ma non ci dà alcun chiarimento sulla fattibilità di una tale cosa.

L’attenzione deve cadere sulla capacità di tale caratterizzazione kantiana di fissare un limite, nel senso proprio di una frontiera, fra moneta e non-moneta, e questo nella direzione di una duplice distinzione: della moneta dalla cosa d’uso e della moneta dalle altre forme di oggetti dell’arbitrio. La moneta non è una

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cosa d’uso, ed è al contempo un’istituzione del tutto peculiare, una ben determinata forma della legge. Il senso della legge monetaria, ovvero ciò che si mette in opera nella moneta, è, infatti, la cessione: ovvero, in altri termini, la tendenza di una moneta propriamente detta e esplicitamente indetta, a sparire nella circolazione. Se, e solo se, è istituita in questo modo, la moneta delimita l’ambito della circolazione dei beni, e vige come un sigillo di legittimazione su di essa. A questo punto un’osservazione s’impone. Quando accenna, per non trattarne, della fattibilità di una moneta tale quale egli stesso la definisce, Kant sorvola espressamente qualche cosa di essenziale, e che tuttavia egli nomina. La cedibilità della moneta, proprio perché non si tratta di un oggetto di produzione, ma di un oggetto dell’arbitrio, non può essere data per acquisita, ma deve essere letteralmente posta in opera. La definizione nominale della moneta ci dà il criterio per distinguere la moneta da ciò che non lo è, ma non ci dice nulla sulla possibilità di realizzare qualche cosa di quel genere. Non ci dice nulla sulla fattibilità della moneta così concepita. Le condizioni della messa in opera della cedibilità sono invece precisamente l’oggetto delle considerazioni di Keynes, e, non a caso, sono svolte a partire dall’osservazione di una moneta che tale condizione non adempie: secondo l’espressione di Keynes, “la moneta così come noi la conosciamo”. Per Keynes, in tutto rigore, questa espressione, riferita alla moneta occidentale moderna e ultramoderna, significa semplicemente: non-moneta. Keynes trae dalla peculiare caratteristica della moneta messa in luce da Kant (ovverosia la coincidenza in essa fra uso e cessione) una conclusione analitica apparentemente opposta. Ma, in effetti, essa è tale solo perché che, nel contesto delle sue considerazioni sul tasso di interesse come qualcosa di “ovviamente” riferibile alla moneta, egli la deve riferire esclusivamente alla moneta “così come la conosciamo”. Per questa moneta, la sua insostituibilità le consente di poter sostenere una domanda infinita. Ed è in questo senso che essa appare come un “pozzo senza fondo”:

Thus…. money is a bottomless sink for purchasing power, when the demand for it increases, since there is no value for it at which demand is diverted — as in the case of other rent-factors — so as to slop over into a demand for other things.

La moneta come noi la conosciamo è fatta in modo da rendere apparentemente ragionevole la richiesta di Mida: nessuna quantità di moneta sembra essere “troppa”, la moneta come ricchezza non è mai “abbastanza”. L’insostituibilità della moneta “così come la conosciamo” appare a Keynes come una ragione sufficiente della sua potenzialmente infinita accumulabilità. E tuttavia, nella misura in cui l’insostituibilità non sia riferita alla moneta “così come la conosciamo”, ma alla moneta come tale, diviene possibile un’altra lettura delle osservazioni di Keynes: la lettura propriamente abissale. In questa prospettiva, la moneta, in quanto improducibile e insostituibile, è un pozzo senza fondo nel senso che essa è in grado di assorbire qualunque potere d’acquisto. Ma questo

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significa che, quando la moneta è vista nella sua strutturale cedibilità, il potere d’acquisto, ovvero la dimensione quantitativa, cessa di essere la sua prima caratteristica. Qui risiede, in effetti, tutta l’ambiguità del fenomeno monetario, così come si è già manifestata nel passo aristotelico su Mida e il nonsenso. Da una parte, la moneta sembra poter essere risolta in una quantità capace di aumentare senza limite; dall’altra essa è precisamente il limite per ogni quantità. In questo senso, la non sostituibilità della moneta è allo stesso tempo la dimostrazione della necessità che essa sia ogni volta una determinata quantità, ma anche la prova della impossibilità di definire la moneta in termini di quantità di moneta. Questa inevitabile ambiguità di lettura delle prime due caratteristiche, con il corollario della necessità di scegliere fra una delle due, si toglie, per Keynes togliendo alla “moneta come noi la conosciamo” una sua terza caratteristica, questa sì davvero peculiare solo ad essa, e fin qui non nominata: la liquidità, ovvero la capacità di questa specifica moneta che è la moneta moderna occidentale, di mantenere intatto il suo valore di scambio, che essa venga usata oppure no. Questa caratteristica è comunemente riconosciuta come la funzione di “riserva di valore”, la quale sarebbe naturalmente propria della moneta. Ma, a ben vedere, è invece quella peculiare caratteristica della moneta moderna che di fatto sospende, per essa, la questione del riconoscimento di una differenza fra uso proprio e uso improprio. Ed è precisamente in vista di una restaurazione dell’uso proprio della moneta, ovvero del mantenimento in positivo delle prime due caratteristiche della moneta, che Keynes non può che guardare con favore ai progetti monetari che levano alla moneta proprio questa sua terza caratteristica, attribuendo per via legale una perdita, nella forma di un costo di mantenimento per il suo non-uso:

Thirdly, we come to what is the most fundamental consideration in this context, namely, the characteristics of money which satisfy liquidity-preference. For, in certain circumstances such as will often occur, these will cause the rate of interest to be insensitive, particularly below a certain figure, even to a substantial increase in the quantity of money in proportion to other forms of wealth. In other words, beyond a certain point money’s yield from liquidity does not fall in response to an increase in its quantity to anything approaching the extent to which the yield from other types of assets falls when their quantity is comparably increased. In this connection the low (or negligible) carrying-costs of money play an essential part. For if its carrying-costs were material, they would offset the effect of expectations as to the prospective value of money at future dates. The readiness of the public to increase their stock of money in response to a comparatively small stimulus is due to the advantages of liquidity (real or supposed) having no offset to contend with in the shape of carrying-costs mounting steeply with the lapse of time. In the case of a commodity other than money a modest stock of it may offer some convenience to users of the commodity. But even though a larger stock might have some attractions as representing a store of wealth of stable value, this would be offset by its carrying-costs in the shape of storage,

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wastage, etc. Hence, after a certain point is reached, there is necessarily a loss in holding a greater stock. In the case of money, however, this, as we have seen, is not so, — and for a variety of reasons, namely, those which constitute money as being, in the estimation of the public, par excellence “liquid.” Thus those reformers, who look for a remedy by creating artificial carrying-costs for money through the device of requiring legal-tender currency to be periodically stamped at a prescribed cost in order to retain its quality as money, or in analogous ways, have been on the right track; and the practical value of their proposals deserves consideration.

Se di ogni cosa si dà la possibilità di “averne troppo”, la moneta, finché è costruita come liquidità sfugge a questa semplice limitazione. La moneta come liquidità non è mai troppa34. Per questo, da un punto di vista economico, quale è appunto quello keynesiano, l’unico modo per levare alla moneta questa indistinzione strutturale fra sufficienza ed eccesso, e di ricondurla in tal modo alla sua peculiare finitezza, ovvero alla sua qualità propria, è quello di far emergere il costo del suo uso improprio. Sostituibilità, uso proprio e usura in S. Tommaso d’Aquino Vi è un quarto e ultimo modo di considerare la rilevanza della questione della sostituibilità al fine di giungere a una determinazione rigorosa, attenta al contempo alle indicazioni della tradizione e ai dati fenomenici, delle condizioni dell’uso proprio della moneta. Si tratta ancora una volta di passare attraverso la nozione di usura, così come essa viene trattata nella prima scolastica, e in particolare in Tommaso35. Il luogo più noto è in Summa Theologica, IIa IIe, quaestio 78. La quaestio si interroga sulla liceità del prestito a interesse, e sulle relazioni che possono o non possono intercorrere fra chi concede e chi richiede un prestito. Le domande a cui rispondere sono quattro:

In primo luogo, se sia peccato ricevere denaro come prezzo (in pretium, come misura, prezzo e premio) di un somma di denaro prestata, cioè ricevere usura. In secondo luogo, se sia lecito ricevere denaro per qualunqiue altro motivo, come ricompensa per un prestito. In terzo luogo, se si sia obbligati a restituire ciò che, a fronte di un prestito usurario, è stato guadagnato. In quarto luogo, se sia lecito prendere a prestito denaro a condizioni di usura.

34 Cfr., più sotto, il riferimento a Ricardo. 35 La tradizione scolastica è incomparabilmente più ricca di sfumature di quanto non possa apparire dalle scarne righe di Tommaso. In particolare, vanno ricordate le riprese della questione da parte della scuola francescana e della seconda scolastica (la scuola di Salamanca). Non solo lo spazio di questo saggio è troppo breve per dar conto distesamente di tutte le particolarità di questa forma di pensiero, ma il suo impianto è volutamente orientato a indicare una linea complessiva di pensiero a tutti gli effetti apertamente nascosta, nel senso che l’Occidente la eredita in un modo tale da esigere innanzitutto, e prima di ogni dossografia un lavoro di scavo preventivo e di apertura.

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Il prestito è un passaggio di moneta, il quale, a differenza del dono, implica tuttavia una restituzione. La questione è, pertanto: secondo quale misura deve avvenire tale restituzione? Qual è la giusta misura della restituzione di quella specifica “cosa” che è la moneta, quando essa sia prestata in quanto moneta? L’ultima specificazione (“in quanto moneta”) non è oziosa, giacché consente di mettere a fuoco, anche per questa via, la singolarità della moneta rispetto non solo ai beni in generale, ma anche a quelli che comunemente chiamiamo beni capitali. E, in effetti, di questo stiamo parlando: della possibilità o meno di pensare la moneta come capitale, ossia, ancora, come qualcosa che, come tale, comporti la possibilità di generare legittimamente qualcosa che ne sia separabile e che al tempo stesso gli assomigli. La risposta di Tommaso alla domanda se la moneta propriamente detta sia dunque capitale in questo preciso senso, è, come vedremo distesamente più avanti, la stessa di quella di Marx, ossia: assolutamente no. Per Tommaso, come anche per Marx, nummus non parit nummos. I motivi addotti da Tommaso sono invece, come si può immaginare, differenti da quelli di Marx – anche se non così differenti come sarebbe dato in prima battuta di credere. La risposta di Tommaso alla prima questione è netta:

Rispondo dicendo che ricevere usura per una somma di denaro data in prestito è per se stesso ingiusto, poiché in tal modo è venduto ciò che [propriamente] non è. Per questo manifestamente si genera un’ineguaglianza, che, come tale, è contraria a giustizia. Affinché la cosa risulti evidente, si consideri che esistono cose il cui uso coincide con il loro consumo, per esempio il vino, che consumiamo proprio quando lo usiamo come bevanda, o il pane, che consumiamo quando lo usiamo come cibo. Per queste cose, l’uso non deve dunque essere computato separatamente dalla cosa stessa: a chiunque sia concesso l’uso, per ciò stesso è concessa anche la cosa. Ecco perché per tali cose il prestito trasferisce la proprietà. Pertanto, se qualcuno volesse vendere separatamente del vino e l’uso di quel vino, venderebbe due volte la stessa cosa, ossia venderebbe ciò che non è. E dunque manifestamente commetterebbe un peccato di ingiustizia. Per analogo motivo, commette ingiustizia chi presti vino e cibo richiedendo due compensi, uno per la restituzione di una cosa equivalente, e uno come prezzo (pretium) per l’uso, ovvero per ciò che viene chiamato usura,. D’altro canto, esistono cose il cui uso non coincide con il loro consumo: per esempio, l’uso di una casa è la sua abitazione e non la sua distruzione. Pertanto per tali cose è possibile concedere separatamente uso e proprietà: come nel caso di una che trasferisca a un altro la proprietà di una casa, riservandosene l’uso temporaneo, o viceversa. Per questo motivo è lecito ricevere un compenso (pretium) per l’uso di una casa, e oltre a ciò richiedere la casa prestata, come risulta evidente nei rapporti di conduzione e locazione. La moneta, invece, secondo il filosofo (Etica V, politica, I) è stata inventata principalmente per l’effettuazione di commutazioni, e dunque l’uso proprio e principale della moneta è il suo consumo, o meglio il suo consumo nel modo della sua cessione36 (distractio, l’essere tratta via da …) nel movimento della sua

36 La distractio è il modo proprio della consumptio per quella cosa d’uso del tutto singolare che è la moneta. Essa vine meno nella consumazione non venendo assunta, e trattenuta presso colui

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spesa negli scambi commutativi. Per questo, per la natura della cosa stessa, è illecito ricevere un prezzo (pretium), cioè un’usura, per una somma di denaro data in prestito. E così come si è tenuti a restituire ogni altra cosa ingiustamente acquisita, così si deve per il denaro ricevuto per via di usura.

L’uso improprio, ossia l’usura, si mostra qui come una volontaria confusione fra uso proprio e uso improprio: un’usura dell’uso stesso. Ciò che l’usura comporta, e precisamente per il fatto di voler prefissare un prezzo per l’uso della moneta, è una distorsione del rapporto che propriamente vige fra utilizzatore e cosa utilizzata. Per Tommaso la moneta è, al pari dei beni di consumo che con la sua mediazione si scambiano, inseparabile dal suo uso. Nel caso della moneta, così come in quello dei beni d’uso, non è possibile parlare, distinguendoli propriamente, di un capitale di un suo frutto e di un suo ammortamento. Non c’è nemmeno un costo di mantenimento, non c’è, insomma, nessuna possibilità di imputare alla moneta un costo per il suo uso separato dal prezzo di vendita. Nel caso della moneta, inoltre, tutto questo è ancora più saldamente legato che nel caso dei beni, dal momento che essa stessa è il prezzo di se stessa. Dal punto di vista della misura, infatti, mentre un chilo di pane è equivalente a una lira, una lira è uguale a una lira. Un altro modo per vedere la cosa è ricordare, come non manca di fare Tommaso, con esplicito riferimento ad Aristotele, che la moneta è fatta per lo scambio, e che quindi la sua specifica consumazione coincide con il suo ritrarsi fino a sparire entro lo scambio (distractio). L’uso proprio della moneta, anche di quella presa a prestito, è di essere spesa, e dunque non è possibile pensare di pagare due volte: per poterla avere e per poterla spendere, dato che la moneta è propriamente avuta solo quando è “persa”. Riemerge qui, per altra via, il tratto di insostituibilità della moneta, che fonda per Tommaso l’impossibilità di sostituire il suo non uso da parte di qualcuno con il suo uso da parte di qualcun altro, cercando un prezzo che regoli lo scambio fra uso e non uso37. Emerge inoltre la questione, tipicamente keynesiana, per cui se l’interesse è premio, e prezzo, (nel doppio senso del francese prix) per qualche cosa, non lo è certo per il fatto di non aver usato la moneta, ma per aver accettato di perderla in un altro modo rispetto alla sua spesa. Ma emerge altrettanto bene il fatto che non concepibili e ingiusti non sono né il prestito monetario, né, in certe condizioni, il prezzo dell’uso, ma, prima ancora, il fatto che la moneta come tale possa essere separata dal suo uso.

che la usa, ma essendo ceduta, tratta via dal suo utlizzatore. La distractio di Tommaso è la Veräußerung del testo di Kant. Emtrambe sono state tradotte con cessione. Questo modo proprio dell’uso, ossia la coincidenza di uso e cessione, è il fondamento della insostituibilità della moneta per Keynes. Ed è soprattutto il fondamento della coincidenza dell’essere proprio della moneta con la sua sparizione. 37 Nel prestito e nella sua restituzione, ciò che passa di mano con la moneta è propriamente la cessione. La moneta in tutti i passaggi di mano resta identica alla propria cessione. E per tale cessione nulla può essere dovuto, dal momento che, appunto essa coincide con la moneta.

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Che le cose stiano così, lo dimostra il fatto che un prezzo per l’uso della moneta è possibile anche per Tommaso, ma precisamente solo quando la moneta non sia ceduta in quanto moneta. È il caso dell’obiezione sesta dell’articolo primo:

Obiezione 6. Inoltre, l’argento monetato e l’argento a cui è stata data forma di suppellettile non differiscono specificamente. Ma, siccome è lecito ricevere un prezzo (pretium) per delle suppellettili d’argento date in prestito, così è lecito ricevere un prezzo (pretium) per l’argento monetato. Dunque l’usura non è in sé peccato. Risposta all’obiezione 6. Va detto che l’uso principale delle suppellettili d’argento non è il loro consumo, e pertanto il loro uso può essere lecitamente venduto, mentre la loro proprietà è mantenuta. Invece, l’uso principale della moneta d’argento è la cessione della moneta negli scambi commutativi. Quindi non è lecito vendere il loro uso e allo stesso tempo pretendere la restituzione di ciò che è stato prestato. Si deve sapere, tuttavia, che un uso secondario delle suppellettili d’argento può effettivamente essere lo scambio commutativo. Ma tale uso non è lecitamente vendibile. Similmente, può darsi un uso secondario della moneta d’argento, per esempio nel caso in cui qualcuno concedesse della moneta coniata perché un altro ne facesse ostentazione, o ne facesse uso come di un pegno. Tale uso può essere legittimamente venduto.

Attraverso la risposta a quest’ultima obiezione apprendiamo innanzitutto, che la moneta di cui è impossibile vendere l’uso non coincide mai con la materia di cui è essa è fatta. Fra monete d’argento e vasi d’argento vi è differenza, e precisamente differenza di specie, cioè di forma, cioè di fine. E dunque, mentre di un vaso d’argento si può mantenere la proprietà e vendere l’uso, su di una moneta, d’argento, ma anche di una qualsiasi altra materia, non è possibile operare tale distinzione: il fatto che essa sia dis-tratta nello scambio ne annulla il tratto materiale, liberando il suo tratto più proprio, ossia la sparizione. La prevalenza della distractio, ossia della sparizione, rispetto alla materia è talmente centrale da annullare anche la materialità dei vasi, qualora vengano a loro volta utilizzati come moneta. E specularmente, un uso non monetario della moneta, un uso ostentatorio per esempio, rende invece possibile l’attribuzione di un prezzo all’uso. La sostituibilità fra risparmio e investimento: Keynes, l’interesse e il matrimonio Possiamo ora forse capire perché tale capacità di distinguere sia apparsa a Keynes come un onesto sforzo intellettuale. E forse potremmo iniziare a guardare con un giustificato senso di sospetto al preteso razionalismo che ha spazzato via questo modo di distinguere – soprattutto se pensiamo al fatto che rigurgiti inconsapevoli e disordinati di quest’arte di pensare appaiono quando meno ce lo si aspetta, ovvero là dove l’economia politica si compiace di farsi sottile38.

38 In un articolo di rassegna svolto sulla falsariga delle disputationes scolastiche, Milton Friedman asserisce, a commento di una recente teoria monetaria, e al solo scopo di trovare giustificazione per una differenza quantiativa fra tassi di interesse: “Liquid assets may also render nonpecuniary services in the form of pride of possession, a feeling of security, a reserve for the future. Such non pecuniary services must obviously be introduced to explain differences in interest

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Ma, nonostante l’acribia e la capacità di distinzione che caratterizzano Tommaso, non è con lui che si giunge al fondo della questione, ma ancora una volta con Aristotele. La questione che in Tommaso tende a farsi giuridica, riposando su una metafisica non discussa, in Aristotele appare nella sua natura fenomenologica: prima ancora che distinguere, in generale e in astratto, fra uso e non uso si tratta di distinguere, in generale ma in concreto, fra uso proprio e improprio. Quest’ultima distinzione passa, infatti, attraverso ogni cosa. Il passo è famoso e si trova nella Politica:

Di ogni bene proprio si dà la possibilità di un duplice uso. Entrambi gli usi sono usi propri, ma non nello stesso modo: uno è, infatti, inerente alla cosa in quanto cosa d’uso <le si addice, è di casa in essa>, l’altro no. Si prenda un calzare: lo si può calzare in proprio o lo si può trasferire a un altro: entrambi sono uso del calzare. Infatti, colui che, in cambio di moneta o di altri beni d’uso, cede il calzare a qualcuno che abbisogni del calzare <per calzarlo>, fa pur sempre uso del calzare in quanto calzare, ma non un uso inerente <al suo specifico in quanto>. Il calzare non è stato, infatti, posto in essere al fine dello scambio <ma dell’essere calzato>. Lo stesso vale per ogni altra cosa d’uso.

Questa differenza fra usi, ancora più sottile di quella intravista da Tommaso, è ripresa, tanto inconsapevolmente quanto pertinentemente, da Keynes nella General Theory, quando si tratta di introdurre la questione dell’interesse sulla moneta:

The psychological time-preferences of an individual require two distinct sets of decisions to carry them out completely. The first is concerned with that aspect of time-preference which I have called the propensity to consume, which, operating under the influence of the various motives set forth in Book III., determines for each individual how much of his income he will consume and how much he will reserve in some form of command over future consumption. But this decision having been made, there is a further decision which awaits him, namely, in what form he will hold the command over future consumption which he has reserved, whether out of his current income or from previous savings. Does he want to hold it in the form of immediate, liquid command (i.e. in money or its equivalent)? Or is he prepared to part with immediate command for a specified or indefinite period, leaving it to future market conditions to determine on what terms he can, if necessary, convert deferred command over specific goods into immediate command over goods in general? In other words, what is the degree of his liquidity-preference […]? We shall find that the mistake in the accepted theories of the rate of interest lies in their attempting to derive the rate of interest from the first of these two constituents of psychological time-preference to the neglect of the second; and it is this neglect which we must endeavour to repair.

rates on assets that they and we alike would regard it as undesirable to call ‘money’. They must also be rendered by assets we do call money”. M. Friedman, A. Schwartz, “The Definition of Money: Net Wealth and Neutrality as Criteria”, in Journal of Money, Credit and Banking, Vol 1. No 1 (feb., 1969), p. 3. Corsivi miei.

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Traducendo il passo nella terminologia del presente lavoro, abbiamo: un “uso proprio inerente alla cosa” (consumption, come spesa di moneta), “uso improprio” (hoarding, come trattenimento indefinito di moneta: immediate liquid command) e un abbandono dell’uso improprio del denaro come “uso proprio non inerente alla cosa” (prestito, come possibilità per altri di un uso proprio ad esso inerente). Per Keynes, l’interesse non premia direttamente l’uso improprio, ma il secondo modo d’uso proprio (il prestito) in quanto abbandono dell’uso improprio. E tuttavia, è proprio la legittimazione istituzionale dell’uso improprio, ovverosia la moneta come liquidità, ciò che determina la forma dell’abbandono, e il fatto che essa debba essere “premiata”. Il tasso di interesse, in questa configurazione di rapporti non può non apparire se non come un premio. Esso, infatti, è

nothing more than the inverse proportion between a sum of money and what can be obtained for parting with control over the money in exchange for a debt for a stated period of time.

Esprimendosi così, Keynes si riferisce alla forma di economia che egli si trova davanti: l’economia del nostro tempo, ovvero dell’economia che si dice “capitalistica”39. Si tratta di una forma di economia in cui l’interesse appare come legittimo, proprio perché, se non addirittura solo perché, la moneta non ha costi di mantenimento – e quindi, lungi dall’essere destinata a sparire entro la circolazione senza entrare nel computo della ricchezza di una nazione, essa può mantenersi indefinitamente fuori della circolazione senza perdere nulla del suo valore40. E tuttavia anche in questo caso, l’interesse non è comunque in senso proprio un prezzo, inteso propriamente come il saggio di sostituzione fra due usi propri. Esso non è il prezzo di una merce, nemmeno in questo particolare caso, quello della moneta “così come noi la conosciamo”, ma la misura della propensione a detenere la moneta nella sua forma impropria:

The rate of interest is not the “price” which brings into equilibrium the demand for resources to invest with the readiness to abstain from present consumption. It is the “price” which equilibrates the desire to hold wealth in the form of cash with the available quantity of cash.

Come economista, Keynes ha il problema di venire a capo di una situazione di partenza che egli, sempre come economista, giudica letteralmente non tollerabile (in termini aristotelici: mivseitai)41 nell’esatta misura in cui in tale situazione è

39 Sulla legittimità di concepire il capitalismo come una forma economica, vedi le riflessioni svolte più sotto, in margine all’interpretazione di Marx. Valga per il momento quanto segue: che il capitalismo sia una forma economica è cosa che può essere messa giustificata mente in dubbio sulla scorta del fatto che la moneta capitalistica è al fondo una non-moneta. 40 Ma, potremmo dire, perdendo tutto del suo essere. 41 Tale giudizio di intollerabilità è in Keynes, come in Aristotele, un giudizio politico, nel senso che l’esercizio di tale giudizio è politico, ovverosia, per Keynes, di competenza dello Stato. La moneta come istituzione, e dunque l’indizione dell’uso proprio della moneta richiede per Keynes l’assunzione di un onere politico di deliberazione, che è chiaramente espresso in questo passo del Tract on Monetary Reform: “There is a respectable and influential body of opinion which,

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l’uso improprio del denaro a dettare le condizioni del suo uso proprio. Da qui la sua questione, che nei nostri termini può essere espressa così: come coniugare, come “sposare”, i due usi propri della moneta, la spesa e il prestito come forme differenti della medesima cessione, in modo tale che l’uso improprio non influenzi tale relazione? E soprattutto in modo che tale matrimonio possa generare legittimamente una progenie? È da queste considerazioni che muove il discorso di Keynes sull’auspicabilità di un management della moneta (ovvero dell’istituzione una moneta che implichi l’assunzione dell’onere del suo governo – una moneta nel senso della sunqevkh di Aristotele: capace di essere fatta, dis-fatta e resa indesiderabile) e di una riforma dei mercati finanziari, in vista dell’ottenimento di una relazione stabile e significativa fra “risparmio” e “investimento”. Sul primo versante, si tratta di levare ai mercati finanziari l’apparenza secondo cui essi sarebbero in grado di generare moneta incondizionatamente, nella forma di una liquidità e senza limiti (secondo un principio di sostituibilità generalizzata fra means e asset): di generarla “naturalmente”, e non secondo una legge di filiazione, come se non ci fosse differenza fra investimenti puramente finanziari (moneta contro moneta) e investimenti reali (moneta in vista di beni). Per usare una metafora di Keynes, che nella prospettiva di questo saggio è ben più che una metafora ma un’indicazione dogmatica, i “figli del denaro” sono legittimi solo all’interno del matrimonio fra scelta di astenersi dal consumo e scelta di investire in attività produttive, ovvero fra risparmio e investimento. Ovvero per dirla tutta, sono legittimi solo all’interno di un rapporto regolato fra denaro e lavoro.42

repudiating with vehemence the adoption of either expedient, fulminates alike against devaluations and levies, on the ground that they infringe the untouchable sacredness of contract; or rather of vested interest, for an alteration of the legal tender and the imposition of a tax on property are neither of them in the least sense illegal or even contrary to precedent. Yet such persons, by overlooking one of the greatest of all social principles, namely the fundamental distinction between the right of the individual to repudiate contract and the right of the State to control vested interest, are the worst enemies of what they seek to preserve. For nothing can preserve the integrity of contract between individuals, except a discretionary authority in the State to revise what has become intolerable. The powers of uninterrupted usury are too great” 42 Qui tocchiamo un punto che esula dalla possibilità di un’adeguata trattazione in questa sede. E tuttavia si tratta di un punto davvero fondamentale. Dopo il tramonto dell’illusione teorica di fare del “valore-lavoro” il fondamento soggettivo-oggettivo, assoluto, di quella forma fenomenica del valore che è il denaro, e fronte del costantemente reiterato tentativo della dogmatica ultramoderna di liquidare il lavoro risolvendolo, ben più radicalmente di ogni mercificazione, in una risorsa, la questione del rapporto fra denaro e lavoro appare come la questione davvero ineludibile. Su questo piano,tuttavia, bisogna riconoscere che l’economia politica e la sua versione ultramoderna, l’economics, sono davvero agli antipodi della possibilità non dico di risolvere la questione ma anche solo di riconoscerne l’urgenza. E tuttavia le risorse interpretative non mancano, per poco che ci si scosti da quella che appare l’unica via percorribile, ovvero quel del lavoro come risorsa da qualificare, come capitale umano o sociale, o infine come capability. Penso per esempio a tutta la meditazione di Pèguy e di Simone Weil sulla centralità del lavoro, e sulla peculiare insostituibilità di ogni lavoro. Insostituibilità della moneta e insostituibilità del lavoro chiedono di essere considerati sotto la luce dogmatica della messa in opera della loro relazione. Vi è un altro percorso interpretativo che merita di essere menzionato a questo proposito. Si tratta della riflessione di Claudio Napoleoni contenuta nel

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The spectacle of modern investment markets has sometimes moved me towards the conclusion that to make the purchase of an investment permanent and indissoluble, like marriage, except by reason of death or other grave cause, might be a useful remedy for our contemporary evils. For this would force the investor to direct his mind to the long-term prospects and to those only. But a little consideration of this expedient brings us up against a dilemma, and shows us how the liquidity of investment markets often facilitates, though it sometimes impedes, the course of new investment. For the fact that each individual investor flatters himself that his commitment is “liquid” (though this cannot be true for all investors collectively) calms his nerves and makes him much more willing to run a risk. If individual purchases of investments were rendered illiquid, this might seriously impede new investment, so long as alternative ways in which to hold his savings are available to the individual. This is the dilemma. So long as it is open to the individual to employ his wealth in hoarding or lending money, the alternative of purchasing actual capital assets cannot be rendered sufficiently attractive (especially to the man who does not manage the capital assets and knows very little about them), except by organising markets wherein these assets can be easily realised for money. The only radical cure for the crises of confidence which afflict the economic life of the modern world would be to allow the individual no [other] choice between consuming his income and ordering the production of the specific capital-asset which, even though it be on precarious evidence, impresses him as the most promising investment available to him. […] Those who have emphasised the social dangers of the hoarding of money have, of course, had something similar to the above in mind.

Sull’altro versante, altrettanto cruciale, vale la pena ricordare ancora una volta l’interesse di Keynes per forme monetarie, diverse dalla moneta “come noi la conosciamo”, in grado di far emergere un costo di mantenimento per la moneta non spesa, ovvero di istituire una distribuzione regolata della sua perdita. Una moneta così istituita reintrodurrebbe nei movimenti monetari quel limite di cui la moneta stessa è propriamente l’incarnazione legale. Reintrodurre, per via istituzionale, per nomos, nella moneta una tendenza alla sparizione là dove essa non sia propriamente usata, consentirebbe, infatti, di contrastare quella tendenza del saggio monetario di interesse a restare positivo che si alimenta precisamente della tendenza della moneta senza costi di mantenimento a mantenersi indefinitamente non usata.

Discorso sull’economia politica. Lì, in tutta chiarezza Napoleoni argomenta che ogni teoria del surplus, anche quella neoclassica, si basa sul tentativo di riconoscere un senso all’astensione dal consumo. Ma ciò che Napoleoni, da economista pur avvertito, riferisce mediatamente all’investimento, Hegel lo riferisce direttamente al lavoro. Il lavoro è per Hegel l’astensione dall’apprensione immediata dalla cosa. Ma ancora più direttamente, il lavoro può, e forse deve cominciare ad apparire come quel rapporto con la cosa che è intonato dalla mancanza. Questa intonazione alla mancanza può fare apparire il lavoro non come un’attività, ma piuttosto come un rapporto abissale dell’uomo con l’opera.

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IV. Uso proprio, insostituibilità e generatività: la (in)distinzione moderna e ultramoderna fra moneta e capitale e la perdita del limite Che cosa è stato possibile vedere in questa lunga digressione sulla (in) sostituibilità della moneta? Innanzitutto, questo: la moneta, nella misura in cui è davvero tale, è retta da un’asimmetria fondamentale rispetto ai beni il cui scambio essa rende possibile. Proprio perché essa stessa è un limite, un elemento di delimitazione per gli scambi e per la loro espansione equilibrata, deve essere istituita come limite. Ma questo bisogno implica che il limite che le è proprio non possa essere innanzitutto un limite quantitativo, come vorrebbe la teoria quantitativa, ma, appunto, istituzionale. In secondo luogo, abbiamo ora qualche elemento aggiuntivo per comprendere che cosa accade quando tale asimmetria costitutiva della moneta e del suo uso proprio non venga vista. Possiamo indicativamente porre a questione nei seguenti termini: quando l’asimmetria non è vista, o è dogmaticamente svalutata, la moneta è necessariamente rappresentata, e analiticamente trattata, come un sistema di vasi comunicanti43, le cui regole di funzionamento sono, da una parte, convergenza e uniformazione, e, dall’altra, la progressiva perdita di rilevanza di ogni delimitazione spaziale e temporale. In questa prospettiva, la sostituibilità fra monete nel tempo e nello spazio, ovvero la moneta come liquidità, appare come il fondamento di un necessario processo d’integrazione di circuiti solo convenzionalmente diversi, ma strutturalmente già comunicanti. E tuttavia è possibile pensare che l’equilibrio possa essere ottenuto mediante “travasi” di liquidità? La sparizione della moneta implicata dal suo uso proprio può essere così surrogata?44

A questo punto si tratta di porsi un’altra domanda: che ne è di tutto ciò nella storia dell’economia politica? Che cosa passa di questa tradizione di pensiero 43 L’immagine è esplicita in Hume, On the Balance of Trade: “All water, wherever it communicates, remains always at a level. Ask naturalists the reason; they tell you, that, were it to be raised in any one place, the superior gravity of that part not being balanced, must depress it, till it meet a counterpoise; and that the same cause, which redresses the inequality when it happens, must for ever prevent it, without some violent external operation.” 44 O non è che proprio in questo modo si apre la strada a un’incidenza necessariamente crescente del fenomeno della crisi monetaria? Non è questa la sede per parlarne diffusamente, ma l’intensificazione delle crisi a partire dall’apertura dei mercati dei capitali, cioè a partire dalla legittimazione di una liquidità internazionale costitutivamente non riassorbibile e dunque sempre in cerca di impieghi remunerativi, sembrerebbe doverci far propendere per la negativa. A meno di non vedere nelle crisi,, un surrogato ex post di quella sparizione della moneta che l’istanza politica del suo uso proprio impone di porre ex ante. Le crisi, in effetti, non distruggono la liquidità: al contrario, l’aumentano. Ciò che accade piuttosto è che esse si presentano come una forma teratologica di distribuzione ex post di quella perdita che la moneta istituita in vista della sua sparizione invece distribuisce in modo inaugurale. Al fondo, e proprio per questo, l’instabilità endemica dei processi monetari globalizzati sembra essere un costo troppo oneroso, ovvero un prezzo troppo alto da pagare per la sottovalutazione della importanza strutturale del limite come costitutivo dell’istituzione monetaria. Cfr, ancora, M. Amato, È il dollaro, cit, e M. Amato, Qu’est-ce que la monnaie?, cit., in particolare le pp. 48-50.

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monetario così apertamente nascosta? Già all’inizio è stata avanzata un’ipotesi assai netta: questa tradizione così apertamente accessibile inizia ad essere nascosta proprio con la costituzione del sapere scientifico sull’economia politica. Nella storia dell’economia politica, la questione dell’uso proprio della moneta non ha trovato, prima ancora che risposte adeguate, un’udienza adeguata come domanda. Proprio per questo, le rare risposte dei migliori economisti non hanno potuto trovare un seguito, con il risultato di una progressiva espunzione del problema. E, ancora una volta, non tanto per censura quanto per sordità a una questione davvero delicata. E dunque, se Smith pone il problema se sia logicamente, prima che moralmente, legittimo comparare su un piede di sostituibilità, e dunque attraverso la mediazione di un prezzo di clearing, la moneta presente con quella futura, Ricardo non esita a rispondergli velando il problema della sostituibilità con la pratica della scarsità:

Dr. Smith appears to have forgotten his own principle, in his argument on colony currency. Instead of ascribing the depreciation of that paper to its too great abundance, he asks whether, allowing the colony security to be perfectly good, a hundred pounds, payable fifteen years hence, would be equally valuable with a hundred pounds to be paid immediately? I answer yes, if it be not too abundant.

Per Ricardo c’è sempre un prezzo della moneta (un tasso di interesse di mercato) capace di rendere uguale ciò che propriamente non lo è (il denaro presente e il denaro futuro), trasformando un’incomparabilità strutturale in un’uguaglianza successiva. Tuttavia, la risposta di Ricardo appare convincente solo se non ci si ponga mai il problema di cosa significhi davvero too abundant, e di come si possa davvero misurare questo eccesso: ovvero se e solo se la moneta è rappresentata e posta fin dall’inizio come identicamente uguale alla quantità di moneta. Ma, se, com’è bene ricordare, anche sulla scorta di quanto detto sopra, le quantità economiche sono sempre quantità relative, e dunque implicano la sostituibilità come condizione di esistenza e pensabilità, il velamento ricardiano si fa a prezzo di un riferimento circolare45. Lo svelamento di tale velamento è, per quanto attiene alla storia del pensiero economico, precisamente il contributo di Keynes, di cui abbiamo cercato di mostrare l’”ascendenza aristotelica” – e non nel senso di una ripresa dottrinaria di una supposta dottrina di Aristotele, ma come la riscoperta, nel bel mezzo della pratica analitica dell’economia, della questione che guida la riflessione

45 Possiamo dire, conclusivamente: il velamento della questione della moneta consiste nella determinazione quantitativa della moneta. Una volta rappresentata la moneta come quantità, ovvero come merce, è ovvio che il suo prezzo sarà un prezzo di equilibrio: “A circulation can never be so abundant as to overflow; for by diminishing its value, in the same proportion you will increase its quantity, and by increasing its value, diminish its quantity”. Ma che la moneta sia una merce, e non un limite per la scambiabilità della merci, è qualcosa che dovrebbe essere dimostrato, e non semplicemente assunto.

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aristotelica. In altri termini, ovvero se si guarda alla moneta come non si è ancora mai esplicitamente fatto, tale svelamento è la scoperta keynesiana della questione della liquidità, e della necessità di “tirare una linea” fra la moneta come mezzo di scambio e ciò che propriamente non è moneta non ma capitale: in termini analitici keynesiani, la necessità di tirare una linea fra means e asset. Si è facilmente equivocato il senso di tale proposito, “aiutati” nel far ciò dalla apparente noncuranza con cui Keynes pone il problema in una nota del tredicesimo capitolo della General Theory, riferita alla definizione del tasso di interesse come saggio di sostituzione fra moneta e debito:

Without disturbance to this definition, we can draw the line between “money” and “debts” at whatever point is most convenient for handling a particular problem. For example, we can treat as money any command over general purchasing power which the owner has not parted with for a period in excess of three months, and as debt what cannot be recovered for a longer period than this; or we can substitute for “three months” one month or three days or three hours or any other period; or we can exclude from money whatever is not legal tender on the spot.

Là dove potrebbe sembrare che egli si limiti a fornire un principio pratico senza alcuna rilevanza strutturale, Keynes, in effetti, dice apertamente che, se è vero che la definizione di cui sta parlando non dipende dal punto in cui si tira la linea, essa invece dipende – eccome! – dal fatto che una linea sia effettivamente tirata, e che lo sia previamente, ovvero in vista del significato di ciò che è in gioco nella definizione. Ma per Keynes, ciò che è in gioco è la possibilità di una comprensione del tasso di interesse non fondata sull’indifferenziazione fra moneta e debito.46

La non sostituibilità fra moneta e debito (fra ciò che redime un debito e il debito stesso) è analoga a un’altra insostituibilità, ovvero quella fra mezzo di scambio e riserva di valore. Ma la questione del “line-drawing” è ancora più ampia del modo in cui essa è posta da Keynes in relazione al suo problema. Essa tocca, infatti, la natura stessa della moneta, nella misura in cui è il suo uso proprio che implica una delimitazione, e dunque l’esigenza metterla in opera. E se la distinzione di Keynes ha a che fare con la possibilità di non confondere fra loro moneta e capitale, è Marx a dirci con molta chiarezza in che senso il “regime capitalistico”, ovverosia il regime definito dal fatto che “il denaro genera denaro”, sia propriamente il regime in cui tale distinzione non può più propriamente essere effettuata. E ci dice anche a quale prezzo tale impossibilità si imponga come positivamente evidente. Stiamo toccando un’altra configurazione del problema del limite, che per Marx è l’enigma della trasformazione del denaro in capitale. Ovvero, in termini analitici, il passaggio dalla configurazione m-d-m alla configurazione d-m-d’. Ovvero ancora, in

46 Si tratta della definizione già citata sopra: ”the rate of interest is, in itself, nothing more than the inverse proportion between a sum of money and what can be obtained for parting with control over the money in exchange for a debt for a stated period of time”

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termini non più analitici, il passaggio dalla sfera della circolazione alla dimensione della valorizzazione. Si tratta di qualcosa di difficilmente sottovalutabile da un punto di vista dogmatico, giacché l’evidenza del potere generativo del denaro che caratterizza la dogmaticità moderna è alla base del programmatico misconoscimento della tradizione di pensiero sulla moneta che in queste pagine ho tentato di porre in luce. Si tratta ora di fare un ultimo passo e di chiedere che cosa ne sia della misura e del limite nel regime che risulta da questa impossibilità di distinguere moneta e capitale – il quale non è altro che il regime della moneta “così come noi la conosciamo”. Per fare questo dovremo passare per Marx. Dicevamo prima che la risposta di Marx alla questione se la moneta sia di per sé capitale – meglio, se la moneta in quanto mezzo di scambio per una circolazione sia in grado di “partorire” valore – è, al pari di quella di Tommaso, negativa. E tuttavia, lo è sulla scorta di motivazioni e ragionamenti differenti. Si tratta dunque di vedere perché, e in vista di che, Marx può rispondere come effettivamente risponde. Per far ciò, dovremo addentrarci nelle argomentazioni svolte da Marx del IV capitolo del I libro del capitale, intitolato, del tutto appropriatamente, La trasformazione del denaro in capitale. Per Marx, tale trasformazione inizia a muovere storicamente i primi passi nello stesso storico in cui la forza delle argomentazioni scolastiche inizia a diminuire, ovvero nel XVI secolo. Tuttavia, la questione che egli deve porre non è di ordine storico ma ontologico47. Si tratta in fatti per Marx di concentrare l’attenzione sulla “storia che si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi”, in cui “ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato [...], in prima istanza come denaro”, e di vedere in essa come ciò che fino a un certo punto è moneta possa in un altro punto divenire capitale. La differenza fra i due consistendo proprio nella capacità, propria esclusivamente del secondo, di “valorizzarsi” (sich verwerten). Anche per Marx, che esplicitamente si rifà su questo punto ad Aristotele48, la moneta in quanto tale non è, infatti, in grado di generare alcunché. E tuttavia, proprio

la circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale.

Ora, la circolazione delle merci implica, nella sua forma compiuta, la presenza del denaro come misura per lo scambio e come mezzo di scambio. Ma anche il capitale, e fin dalle sue prime rudimentali forme – il capitale commerciale e il

47 “Dal punto di vista storico, il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usurario. Tuttavia, non c’è bisogno dello sguardo retrospettivo alla storia dell’origine del capitale, per riconoscere che il denaro è la prima forma nella quale esso si presenta: la stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi.”. 48 In effetti, tutto il primo libro del Capitale, e in particolare i primi cinque capitoli, possono, e forse dovrebbero essere letti come un confronto costante di Marx con Aristotele. Non vi è alcuna proposizione strutturale del primo libro che non si presenti come una ripresa-approfondimento-superamento di una posizione aristotelica.

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capitale usurario – appare connesso con la presenza e l’uso del denaro. Dove sta la differenza fra i due? Come è noto, l’indicazione formale di tale differenza è per Marx la duplice formula m-d-m vs d-m-d’:

Denaro come denaro e denaro come capitale si distinguono in un primo momento soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione.

Questa differenza formale nasconde delle differenze sostanziali, che tuttavia non è facile fare apparire. All’apparenza, infatti, la seconda formula sembra essere del tutto priva di contenuto:

Ora, è evidente, certo, che il processo di circolazione d-m-d sarebbe assurdo e senza sostanza se si volesse servirsene come d’una via indiretta per scambiare l’identico valore in denaro contro l’identico valore in denaro49, dunque, per esempio, cento lire sterline contro cento lire sterline. Rimarrebbe più semplice e più sicuro, senza paragone, il metodo del tesaurizzatore, che tiene strette le sue cento lire sterline, e non le abbandona al pericolo della circolazione. D’altra parte, che il commerciante rivenda a centodieci lire sterline cotone comperato a cento lire sterline, o che sia costretto a liberarsene a cento o anche a cinquanta lire sterline: in ogni circostanza il suo denaro ha descritto un movimento peculiare e originale, di tipo del tutto differente che nella circolazione semplice delle merci, differente per esempio da quello che ha luogo fra le mani del contadino che vende grano e che con il denaro così reso liquido compera vestiti. Quel che importa è in primo luogo di caratterizzare le distinzioni di forma fra i cicli d-m-d e m-d-m: così si avrà anche la distinzione di contenuto che sta in agguato dietro quelle distinzioni di forma.

Dunque, affinché la circolazione d-m-d’ abbia un senso e un contenuto, d’ deve essere tendenzialmente – potremmo dire strutturalmente50 – maggiore di d. Qui sorge il problema logico: come può una stessa quantità di denaro, semplicemente perché è immessa nella circolazione, modificare, o meglio aumentare, la propria misura? A cui si deve aggiungere tuttavia un’altra domanda,: questo guadagno derivante dalla valorizzazione del denaro può davvero accadere senza alcuna perdita che lo controbilanci? Le due questioni sono intimamente legate. Marx ne è consapevole. E tuttavia, il modo in cui pone l’ordine della loro successione è diverso, e comporta proprio per questo l’impossibilità per Marx stesso di vederne fino in fondo la connessione. Il fatto è che Marx, nel momento in cui pone il problema, conosce già la soluzione. L’elemento che consente al capitale di valorizzarsi non è il denaro, ma la forza-lavoro come principio di valorizzazione. Il denaro diviene capitale quando acquista, sul mercato delle merci e a prezzo di equilibrio, quella particolare merce che è la forza lavoro. È la “teoria del plusvalore” a tutti nota. Si tratta

49 Vale la pena ricordarsi qui quanto è stato osservato a proposito dell’argomento di Tommaso: la moneta, se è propriamente tale, non ha propriamente una quantità, ma la qualità tautologica proprio dell’unità. Una lira, cioè, non equivale a una lira: essa semplicemente è una lira. 50 Strutturalmente: cioè al netto della congiuntura, che esempio forzi il commerciante dell’esempio a vendere la propria merce allo stesso prezzo o addirittura a un prezzo inferiore a quello di acquisto

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tuttavia di rallentare un poco la corsa51 e chiedersi che cosa ne sia, in questo processo di valorizzazione del valore, della moneta e del suo uso proprio. L’uso proprio della moneta ci è apparso connesso alla possibilità che la moneta sia istituita come un limite: come qualcosa che delimita e definisce lo scambio. La moneta per Aristotele è, ricordiamolo, stoiceivon kai; pevra" th÷" ajllaghv", primo elemento e limite dello scambio. Non ciò con cui lo scambio finisce, ma ciò che definisce lo scambio nella sua specifica (finita e finalizzata) mobilità. In questo senso, la moneta è un limite a sua volta limitato, una misura, che, proprio perché è tale, è differente dalle cose che essa misura e fa circolare misuratamente. Una misura, appunto, e non una cosa. Nella forma d-m-d,’ invece,

Il denaro riemerge alla fine del movimento come il suo stesso inizio. Quindi la fine di ognuno dei singoli cicli nei quali si compie la compera per la vendita, costituisce per se stessa l’inizio di un nuovo ciclo. La circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione di valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece, la circolazione di del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento costantemente rinnovato. Il movimento del capitale è pertanto senza misura.

Il termine tedesco per “senza misura” è maßlos. E indica che al movimento del capitale la misura manca positivamente, cioè strutturalmente, cioè fin dall’inizio52. Si tratta, al fine della comprensione di ciò che accade con questo movimento, di non confondere causa e conseguenza. Non si tratta, infatti, di “osservare” che la crescita capitalistica è priva di limiti, nel senso che non conosce né riconosce ostacoli, ma di pensare da dove tragga questa sua apparentemente incontestabile caratteristica – e da dove se non dallo stesso luogo in cui è persa la facoltà di conoscere il limite? E in effetti, ciò che accade alla moneta trasformatasi in capitale è che con quella trasformazione le è costitutivamente sottratto il suo tratto costitutivo, quello di poter essere una misura, e come tale di delimitare lo

51 E di riportarsi alle considerazioni svolte precedentemente sulla problematicità del rapporto fra denaro e lavoro, e l’urgenza di una sua ripresa adeguata. Anche alla luce della soluzione cibernetica del problema ricardiano de una misura invariabile del valore, apertasi con il lavoro di Sraffa su Ricardo, e che consiste nella dichiarazione di irrilevanza della teoria del valore-lavoro per la determinazione della misura invariabile del valore, e dunque per la misurazione del surplus come esito di un processo produttivo. Cfr., su questo punto, C. Napoleoni, Discorso sull’Economia Politica, e il mio “Quale Eredità? Osservazioni su Napoleoni, Marx, Heidegger e sulla possibilità di un ‘dialogo produttivo con il marxismo’”, in Il pensiero economico italiano, II/1994/2, pp. 123-160. 52 Anticipiamo qui ciò che potrà risultare più chiaro nel prosieguo della interpretazione. Il fenomeno su cui Marx consente di fare luce non è l’usura in quanto uso della moneta come capitale usurario, né come uso improprio della moneta: usura è qui il nome per l’usurazione della differenza fra moneta e beni. L’usura è l’usura del limite stesso, ossia del limite come radice della possibilità di avere qualcosa come un bene essendo passati attraverso la perdita di qualcosa che non lo è (la moneta appunto). Il nome di questa usura è valore. Il valore, meglio la valorizzazione, è il negativo fotografico della perdita, come rinuncia all’appropriazione della misura.

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scambio. Là dove il movimento della circolazione (nella forma d-m-d’) diviene privo di misura, allora è possibile che qualcosa possa presentarsi plausibilmente come una crescita non vincolata a nessun limite, e addirittura che la crescita si imponga come l’imperativo strutturale dell’attività economica ultramoderna. Il capitalismo, prima ancora di poter apparire come una forma di organizzazione economica, consiste nel movimento dogmatico di assumere questa possibilità senza riguardo alcuno alla perdita di misura che essa comporta. In termini soggettivi, infatti, il capitalista “sposa” questa possibilità e ne fa oggetto dei suoi sforzi volontari. Il capitalista non è, in questa prospettiva, un tesaurizzatore che pretenda che la propria moneta non spesa accresca di per sé la sua ricchezza, e non è nemmeno un usuraio che pretenda di farsi pagare da altri per l’uso di qualcosa che non è propriamente separabile dal proprio consumo. In quanto funzionario del capitale (in quanto supporto di un movimento costituito come dis-misurazione) egli usa volontariamente la circolazione dei beni in vista di qualcosa che non è la circolazione dei beni, (ossia, correlativamente, la sparizione della moneta), ma la valorizzazione del valore incorporato nella moneta che egli abbandona costantemente alla circolazione:

È in quanto supporto consapevole di questo movimento che il possessore di moneta diviene capitalista. La sua persona, o piuttosto la sua tasca, è punto di avvio e punto di ritorno del denaro. Il contenuto oggettivo di quella circolazione – la valorizzazione del valore – è il suo fine soggettivo , e solo nella misura in cui una appropriazione in costante aumento della ricchezza astratta costituisce l’unico motivo propulsore [l’unica pulsione] delle sue operazioni, egli funziona come capitalista, come capitale personificato, cioè dotato di volontà e coscienza. Il valore d’uso non deve mai pertanto essere trattato come il fine immediato del capitalista. Ma neppure il singolo guadagno, ma solo il movimento senza tregua del guadagno. Questo impulso [questa pulsione] assoluto di arricchimento, questa caccia appassionata al valore accomuna il capitalista al tesaurizzatore; ma, mentre il tesaurizzatore è soltanto il capitalista impazzito, il capitalista è invece il tesaurizzatore razionale. L’incessante accrescimento del valore, al quale tendono gli sforzi del tesaurizzatore, nel suo tentativo di trarre fuori il denaro dalla circolazione, viene raggiunto dal più intelligente capitalista nel suo costante abbandonarlo nuovamente alla circolazione.

Proprio qui, nell’abbandono consapevole del denaro alla circolazione, accade quella trasformazione del denaro in capitale che invece non avviene con la mera tesaurizzazione. Ma appunto, in che modo? In che modo, visto che è in un certo senso lo stesso circuito di scambi quello in cui capitalisti e non-capitalisti comprano e vendono? Come separarli e distinguerli l’uno dall’altro, se appunto la funzione centrale della moneta, ossia quella di essere la misura, la dimensione, e il limite per lo scambio, è precisamente ciò che viene sacrificato all’altare della valorizzazione? O meglio, ciò che viene non tanto volontariamente quanto piuttosto volontaristicamente perduto? Resta infatti vero, per Marx, come per Keynes, Tommaso e Aristotele, che

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Le forme indipendenti, cioè le forme monetarie assunte nella circolazione semplice dal valore delle merci, non fanno che mediare lo scambio di merci, per poi sparire (verschwinden) nel risultato finale del movimento.

Da una parte, con lo scambio (m-d-m), la moneta si perde; dall’altra, nella valorizzazione(d-m-d’), nulla è perso, e anzi tutto si accresce. C’è, in effetti, da chiedersi se, a fronte della perdita della moneta come limite e come legge dello scambio, qualcosa d’altro non si sostituisca ad essa nella circolazione del capitale – mentre allo stesso tempo moneta e merce non assumano un ruolo e un significato differenti. E, in effetti, è così:

Al contrario, nella circolazione d-m-d l’una e l’altra, merce e denaro, funzionano soltanto come differenti modi di esistenza del valore stesso; il denaro come il suo modo di esistenza generale, la merce come modo di esistenza particolare, per così dire solo in travestimento. Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra, senza perdersi in questo movimento53, e si trasforma così in un soggetto automatico.

La perdita della moneta come misura rende possibile un’autonomizzazione del valore. Il valore diviene ciò che è fin dall’inizio chiamato ad essere: valorizzazione. Tale valorizzazione è, a sua volta, volontà di valorizzazione: un volere che si esplica integralmente e incondizionatamente nel processo della propria affermazione. Essa diviene cioè un soggetto non semplicemente autonomo, ma propriamente automatico. Il valore in quanto volontà di autovalorizzazione non è soggetto nel senso di un ente che stia al fondamento delle connessioni fra enti: esso cessa di essere concepibile come qualcosa di differente dalle cose di cui è il fondamento, per divenire esso stesso il centro, il fulcro, la dimensione di ogni attività di messa a disposizione54. Il valore, in quanto ciò che trapassa senza perdersi nel processo della propria autovalorizzazione, è pertanto in grado di assorbire in se stesso sia la moneta sia i beni che con essa si scambiano, e non nella forma di un empirico ammassamento, ma di una preventiva e incondizionata messa a disposizione per via di sostituibilità:

Se si fissano separatamente le forme di manifestazione particolari che il valore autovalorizzantesi assume nel suo ciclo di vita, si hanno le dichiarazioni: il capitale è denaro, il capitale è merce.

53 Il valore non sai perde mai, è fatto per non essere perso. Ma a che prezzo? Piuttosto potremmo dire: nel trapasso logistico del valore da una sua forma di manifestazione a un’altra ciò che si perde è precisamente la perdita. 54 “Early on in the Marxian presentation of the analysis of the essence of capital in Das Kapital, capital is determined on the basis of a concept of value as an “automatic subject” in the sense of the self-valorization of value. This does not mean, however, that capital is anything resembling an artificial subject, for it is neither artificial in the sense of ‘imitative’ nor is it produced by art, that is, by technology. The subject-character of capital must be sought via the concept and dimension of value”. Michael Eldred, Draft Casting of a Digital Ontology, 5. Digital technology and capital, http://www.webcom.com/artefact/dgtlon_e/dgtlon5e.html

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Ma proprio questa autonomizzazione del valore come dimensione è la radice della possibilità di ciò che alla moneta come misura risulta radicalmente im-possibile, ovvero il suo aumento. Tale aumento non ha luogo nella forma di una crescita ciecamente quantitativa, ma letteralmente di un’autogenerazione. E non è un caso che proprio a questo punto Marx riprenda la domanda classica della riflessione occidentale sulla moneta, che abbiamo visto formularsi in Aristotele e poi cristallizzarsi nella formula latina nummus non parit nummos. Alla fine del nostro percorso ritroviamo la domanda dell’inizio. Ma soprattutto troviamo un indizio importante per capire in che modo questa domanda, a cui una lunga tradizione trova argomenti estremamente convincenti per rispondere per la negativa, sia trasformata, a partire dall’epoca moderna e in particolare dalla nascita dell’economia politica, in un oggetto di derisione e in una prova di oscurantismo e di pregiudizi inconfessabili. Ma troviamo anche indizi per capire il motivo per cui questa tradizione, velata da una trasformazione dogmatica che sembra dover monopolizzare la modernità, resti tuttavia aperta alla sua ripresa: sia cioè una tradizione apertamente nascosta. Una volta ottenuto il valore come soggetto automatico di un processo che si può legittimamente dubitare di definire economico – se è vero che l’economia è essenzialmente l’istituzione di un rapporto con il limite –, Marx è in un certo modo costretto a riprendere la questione genealogica della filiazione del denaro, e non a caso lo fa passando per il nucleo dottrinale fondamentale, per l’occidente romano-cristiano, ai fini della costruzione della filiazione: la dottrina della trinità. Il problema della filiazione del denaro è, in questo passo di Marx, analogo al problema della filiazione divina. Vale la pena di notare che, anche e soprattutto per Marx non si tratta di indulgere alla rappresentazione semplicistica secondo cui il denaro, ossia “Mammona”, sarebbe il dio dell’occidente moderno. Ciò che si tratta di vedere, anche attraverso Marx, è come il problema logico del denaro possa apparire legato alla soluzione teologica tradizionale del problema di un Dio che crei l’intero dell’ente a partire dal nulla. Per l’occidente moderno il denaro – ma dovremmo dire: quel sostituto della moneta come misura che è la dimensione del valore così come è fatta emergere da Marx, tende ad occupare lo stesso posto strutturale in cui prima era stato posto il Dio della teologia. In questo senso, l’economia politica, se è qualcosa, è una scienza teologica che s’ignora come tale. Ma torniamo al testo:

Ma, di fatto, il valore diventa qui il soggetto di un processo nel quale esso, costante cambio di forma, da forma di denaro a forma di merce passando continuamente dall’una all’altra, altera anche la propria grandezza, e, in quanto plusvalore, si stacca da se stesso in quanto valore originario, valorizza se stesso. Perché il movimento durante il quale esso mette su [si “ingravida” di] plusvalore è il movimento suo proprio, il suo valorizzarsi e quindi la sua autovalorizzazione. Ha ricevuto la proprietà occulta di partorire valore per il fatto di essere valore. Scodella figli vivi, o per lo meno depone uova d’oro.

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Ciò che genera valore è non dunque il denaro in quanto nummus , novmisma55, ma un “soggetto automatico autovalorizzante” che si appropria della forma del denaro e della forme di merce e soprattutto della loro relazione-articolazione-separazione-differenza. Forma qui vuol dire, inequivocabilmente: forma fenomenica, forma esteriore, apparenza. Nel suo uso capitalistico, il denaro è la manifestazione appariscente del valore autovalorizzantesi: la manifestazione di qualcosa che tutto può essere tranne che perdita e debita sparizione. Questa trasformazione del denaro in capitale, che apparentemente lascia tutto intatto, avviene però in modo tale che la misura sia persa. E non solo per la moneta, ma anche per ciò che è essa chiamata a misurare: i “beni”. Nel processo capitalistico non c’è alcun male determinato, nessun crimine apparente, proprio perché il “bene” non è in nessun modo rilevante e vincolante. La dis-misura colpisce tanto la misura quanto ciò che è misurato. Se si vuole apprende a vedere, non tanto il male, quanto il pericolo in cui consiste “il capitale”, proprio su questo punto bisogna insistere: sulla peculiare forma che in esso assume l’assenza di misura. Se lo si vede in questa prospettiva, il capitalismo è non tanto una occasione eminente, o una generalizzazione della pratica dell’usura, quanto piuttosto una forma compiuta dell’usura come tratto d’essere dell’ente nel suo intero: un logoramento costitutivo, una “usurazione” della differenza stessa fra misura e misurato, fra moneta e beni. La misura è persa non nel modo della sua distruzione o della sua più o meno volontaria “dimenticanza”, ma della sua messa a disposizione, nella sua “disponibilizzazione” per il processo dell’autovalorizzazione. A questo prezzo, e per nessun prezzo inferiore, il capitale è. E solo a questo prezzo il denaro può partorire denaro – e non a partire dal principio ma a partire dalla fine. L’”arcano” del capitale sembra poter essere descritto, sulla scorta di Marx, proprio così: come un subitaneo rovesciamento del rapporto di filiazione, a partire dalla perdita, non riconosciuta come tale, di ciò che possibilizza e legittima il rapporto stesso, il suo senso e la sua direzione. Ciò che nella trasformazione del denaro in capitale è perso (o meglio, viene ridotto a “soggetto automatico”, ossia a un processo) è quella dimensione terza che è lo spazio di apparizione e di separazione della misura e del misurato. A partire tale trasformazione l’impossibile diviene possibile, anzi addirittura necessario. Là dove la moneta in quanto misura non può convertirsi con ciò che esso misura, e, specularmente, non può essere tesaurizzata e accumularsi senza perdere significato come moneta, il denaro come forma fenomenica del capitale diviene invece “onnipotente”, e soprattutto “pre-potente”, nel senso che accumula preventivamente in sé ogni potere, ogni sostanza, di cui tanto le merci quanto la moneta, in cui di fase in fase e costantemente (processualmente) esso si converte, sono solo un’apparenza occasionale e inconsistente. In questo modo, e a questo prezzo, ogni opposizione, ogni inconvertibilità strutturale, ogni 55 Nummus deriva etimologicamente da novmisma.

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antagonismo fra moneta e beni viene superato, e il tutto diviene un processo senza limite:

Come soggetto prepotente di tale processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e la forma di merce, ma in questo cambiare si conserva e si espande, il valore ha bisogno, prima di tutto, di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo nel denaro. Quindi il denaro costituisce il punto di avvio e il punto conclusivo di ogni processo di valorizzazione … Ma qui il denaro, per sé preso, conta solo come una forma del valore, poiché esso di forme ne ha due. Senza l’assunzione della forma di merce, il denaro non diventa capitale. Quindi il denaro non si presenta qui in antagonismo con la merce, come nella tesaurizzazione. Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano avere un aspetto miserabile o per quanto possano avere cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente circoncisi, e per di più mezzi taumaturgici per fare del denaro più denaro. Se nella circolazione semplice il valore delle merci nei confronti del loro valore d’uso riceve tutt’al più la forma autonoma del denaro, qui esso si presenta improvvisamente come una sostanza risolventesi in processo, dotata di moto proprio, per la quale merce e denaro sono entrambi pure e semplici forme esteriori. Ma c’è di più. Invece di rappresentare rapporti fra merci, il valore entra ora, per così dire, in un rapporto privato con se stesso.

Che cosa sia questa relazione privata di se stesso con se stesso che caratterizza il valore, Marx lo spiega ricorrendo alla formulazione trinitaria. Con la significativa e niente affatto casuale omissione della terza persona56. Ma vale la pena prima leggere il passo:

56 Vi è un altro importante testo del giovane Marx, in cui il mistero trinitario e l’arcano del capitale appaiono strettamente connessi, e al contempo sconnessi da ogni riferimento al movimento ternario della mediazione. Si tratta degli Auszüge aus Mills Eléments d’économie politque (1844). Il particolare, il passo che segue (citato dall’edizione inglese) meriterebbe un’approfondita interpretazione: “Mill esprime assai bene l’essenza della cosa nella forma di un concetto, caratterizzando la moneta come il medium dello scambio. L’essenza della moneta non è dunque, in primo luogo, il fatto che in essa sia alienata la proprietà, ma il fatto che l’attività mediatrice ossia il movimento, l’atto umano, sociale, con cui i prodotti dell’uomo di completano mutuamente l’uno con l’altro, è estraniato dall’uomo e diviene attributo del denaro, ossia di una cosa materiale al di fuori dell’uomo. Poiché è l’uomo stesso che aliena tale attività di mediazione, egli è attivo solo come un uomo che ha perso se stesso ed è disumanizzato; il rapporto stesso con le cose, l’operare umano con esse, diviene l’operare di un’entità al di fuori e al di sopra dell’uomo. In forza di questo mediatore estraneo – l’uomo stesso non essendo mediatore per l’uomo – l’uomo guarda alla propria volontà, alla propria attività e al proprio rapporto con gli uomini come a un potere indipendente da sé e dagli altri. La sua schiavitù, raggiunge così il culmine. È chiaro che questo mediatore diviene ora un vero Dio, giacché il mediatore è il potere effettivo su ciò che esso media a me. Il suo culto diviene un fine in sé. Gli oggetti separati da tale mediatore hanno perso il loro valore proprio. Dunque gli oggetti hanno valore solo nella misura in cui essi rappresentano il mediatore, là dove originariamente il mediatore aveva valore solo nella misura in cui questo rappresentava quelli. Tale rovesciamento del rapporto originario è inevitabile. Questo mediatore è dunque l’essere perduto e alienato della proprietà privata, proprietà privata che è divenuta alienata, esterna a se stessa, costituendo ormai solo la figura alienata dell’attività umana, la mediazione esteriorizzata fra produzioni umane. Tutte le qualità che sorgono nel corso di tale attività sono pertanto traslate nel mediatore. Così, più l’uomo diviene

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[Il valore] si differenzia, come valore originario, da se stesso come plusvalore, allo stesso modo che Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, ed entrambi sono coetanei, e costituiscono di fatto una sola persona, poiché solo mediante il plusvalore di dieci sterline le cento sterline anticipate diventano capitale, e non appena sono diventate capitale, e appena è generato il figlio, e mediante il figlio il padre, la loro distinzione torna a scomparire, ed entrambi sono uno, centodieci sterline. Il valore diventa dunque valore in processo, denaro in processo, e come tale capitale. Viene dalla circolazione, ritorna in essa, si conserva e si moltiplica in essa, ne ritorna ingrandito e torna a ripetere sempre di nuovo lo stesso ciclo. D-D’, denaro figliante denaro – money which begets money ...

Il figlio, ovvero il plusvalore, genera il padre, il valore iniziale: e questo nel senso preciso che lo fa effettivamente diventare padre, ovvero il suo proprio generatore, senza che la relazione di filiazione passi per la costituzione di un luogo della filiazione, distinto dal padre e dal figlio: il luogo terzo, lo spazio strutturale per l’unità-e-separazione dei due57. Tutto accade in modo tale che essi, alla fine, risultino qualitativamente indistinguibili. La loro qual-ità si riduce a mera quantità e la quantità a mera eguaglianza quantitativa, in una sorta di processo di de-generazione in cui ciò che va perso è letteralmente il senso, la direzione della generazione. Anche qui la perdita è visibile, come perdita dello spazio di mediazione, della scena di ogni possibile generazione, per poco che si tenti di leggere quanto Marx scrive. La sua “trinità” è in realtà una trinità del tutto binaria, in cui precisamente l’elemento della mediazione, la dimensione del senso della generazione è annullata. Si tratta di una “trinità senza spirito”, di una generazione senza legge: di una generazione letteralmente incestuosa. Il brano di Marx, se lo si prende sul serio, e non semplicemente come un esercizio metaforico estrinseco, è letteralmente pazzesco. Apparentemente, esso è la descrizione di un mondo alla rovescia. E tuttavia, è la descrizione fedele del nostro mondo, e di un passaggio storico tanto impercettibile e misconosciuto quanto carico di conseguenze. Ed è peraltro proprio qui che, se solo prendiamo sul serio la descrizione di Marx, possiamo toccare la radice della riluttanza profonda della trattazione scientifica sulla moneta a riprendere in mano la questione genealogica della moneta richiamata dalle parole di Legendre. E capiamo anche che tale riluttanza non è semplicemente un fatto di negligenza, ma attiene alla difficoltà di cominciare a vedere ciò che è apertamente nascosto povero come uomo, ossia separato dal suo mediatore, più il mediatore diviene ricco. Cristo rappresenta originariamente: 1. gli uomini di fronte a Dio; 2. Dio per gli uomini; 3. gli uomini per l’uomo. In modo analogo, la moneta rappresenta originariamente, in accordo con l’idea di moneta: 1. la proprietà privata per la proprietà privata; 2. la società per la proprietà privata; 3. la proprietà privata per la società. Ma Cristo è Dio alienato e uomo alienato. Dio ha valore solo nella misura in cui rappresenta il Cristo, e l’uomo ha valore solo nella misura in cui rappresenta il Cristo. Lo stesso per la moneta.” 57 Ciò che viene meno per il denaro e la sua legittima generazione è precisamente il “luogo del padre”, rispetto al quale solamente quel figlio che è ogni padre potenziale diviene, per un altro figlio, il veicolo della sua legittima individuazione.

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nella costruzione dogmatica della moneta moderna. In questo senso, la questione del tasso d’interesse si mostra come una questione non semplicemente tecnica né primariamente morale: essa è piuttosto l’indizio più scottante di una questione strutturale, che ha a che fare con gli strati profondi dell’eredità europea. Di quell’eredità di cui qui stiamo tentando di ricostituire i tratti, al fine di riaprire la questione dogmatica e politica della moneta e della misura. Ci manca ancora un ultimo passo per poter tornare alla questione di partenza che abbiamo posto a Marx, dopo averla posta a Tommaso. La domanda suonava: la moneta è di per sé capitale? – o meglio, la moneta in quanto mezzo di scambio per una circolazione è in grado di “partorire” valore? Ebbene, per motivi del tutto differenti, la risposta è no. Dopo aver osservato che

la forma di circolazione nella quale il denaro esce dal bozzolo e si svela come capitale, contraddice a tutte le leggi che sono state spiegate in precedenza sulla natura della merce58, del valore del denaro e della circolazione stessa.

E che quel che distingue tale forma di circolazione dalla circolazione semplice delle merci è la successione invertita dei due medesimi processi contrapposti, vendita e compera.

Marx si domanda: Ma per quale incanto tale differenza, puramente formale, dovrebbe mutare la natura di questi processi?

Dopo una lunga serie di passaggi la conclusione è tuttavia chiara: Comunque la si rigiri, il risultato non cambia … La circolazione, ossia lo scambio delle merci, non crea nessun valore.

Da qui l’enigma della moneta capitalistica: Dunque è impossibile che dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione … La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equivalenti. Il nostro possessore di denaro, che ancora soltanto come bruco di capitalista, deve comperare le merci al loro valore, le deve vendere al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Il suo evolversi in farfalla deve avvenire entro la sfera della

58 Ma questa contraddizione è per Marx il segno distintivo dell’economia politica. Da questo punto di vista, l’economia politica è l’organizzazione della rimozione dell’imbarazzo di fronte alla questione della legge. Sempre negli Auszüge appena citati è dato leggere: “ … fra tutte le acute e precise formule a cui essi [gli economisti politici] riducono l’economia politica, la formula di base – qualora volessero esprimere tale movimento astrattamente – dovrebbe essere: nell’economia politica, la legge è determinata dal suo opposto, ossia dall’assenza di legge. La vera legge dell’economia politica è il caso, dai cui movimenti noi scienziati arbitrariamente isoliamo alcuni elementi nella forma di leggi”.

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circolazione e non deve avvenire altro la sfera della circolazione. Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta!

Certo, si tratta di saltare, ma non necessariamente nel senso proposto da Marx. E tuttavia proprio alle sue descrizioni dobbiamo più di uno spunto per saltare diversamente. Innanzitutto, la conversione della moneta in capitale non può aver luogo come processo di evoluzione di una forma storica, la circolazione semplice, a una forma più sviluppata, la circolazione capitalistica. Fra circolazione semplice e circolazione capitalistica non c’è una successione, ma una compresenza problematica, più precisamente un’interferenza modale. La stessa moneta in mano a un capitalista e a un non capitalista è e non è capitale. Ma, appunto, il problema è che essa è comunque la stessa moneta. A partire da tale identificazione, non c’è nessuna possibilità di istituire una relazione fra due elementi separati, né in termini di sostituibilità né tanto meno in termini di insostituibilità. Nel mondo capitalistico non ci sono due monete, ma una sola, che talvolta è mezzo di scambio e talvolta è capitale, che può rovesciarsi nel suo alter, per esempio nel corso di una crisi, e rimanere intrappolata indefinitamente nella forma di una liquidità impossibile a riassorbire. Per quella forma dogmatica che è il capitalismo, la possibilità stessa di distinguere fra moneta e credito, così come fra misura e mezzo di scambio è persa strutturalmente. Così, mentre la circolazione semplice resta un ambito in cui non è possibile generare valore, essa è al contempo l’ambito in cui il valore può essere generato, senza nessun passaggio intermedio: meglio, senza nessun passaggio per un elemento terzo che possa fungere da legge di distinzione. Se si volesse una descrizione vivida della inextricable confusion a cui faceva riferimento Keynes nel passo iniziale, imputandola, e non a caso, alla stessa economia politica di cui Marx produce la “critica”, non si potrebbe avere nulla di più preciso. L’economia politica moderna, così come le istituzioni economiche e monetarie che a partire da essa sono state costruite, vivono di questa programmatica indistinzione, senza peraltro poterla nemmeno riconoscere. Come abbiamo già anticipato, la soluzione proposta da Marx all’enigma della trasformazione del denaro in capitale è nota: la merce che, acquisita nella circolazione semplice, è in grado di generale valore è il lavoro, o meglio la forza-lavoro acquistata e venduta come merce sul mercato del lavoro. La differenza fra il valore del lavoro acquisito e il valore dei beni che il lavoro produce è la fonte del plusvalore. Ma è anche noto che il tentativo degli “economisti marxisti” (una strana espressione in verità, dal momento che per Marx l’economia politica è qualcosa che deve essere posta solo perché sia possibile toglierla) di fondare una teoria economica sulla base del valore lavoro si è scontrato inizialmente con difficoltà logiche, ma infine con la dimostrazione logico-formale della totale irrilevanza del valore-lavoro come base per una teoria del surplus. È questo il contributo definitivo di Sraffa alla chiusura dell’economia politica come luogo d’interrogazione sul senso della produzione. A partire da Sraffa è possibile concepire un’“economia”, o meglio, un processo di gestione dell’ente ridotto a

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risorsa, in cui né il lavoro né il denaro abbiano più alcun ruolo peculiare da svolgere, se non come merci fra le merci, meglio: come risorse fra le risorse. In Sraffa, né il lavoro né il denaro possono vigere propriamente come misura dell’attività economica. Al più, come incidentalmente si lascia sfuggire Sraffa stesso, se qualcosa deve poter avere il significato di una misura, questo è ormai solo e proprio il tasso di interesse. Questo è quanto risulta dal piano inclinato inaugurato da Marx, e concluso nei suoi effetti strutturali dalla soluzione sraffiana: nessun ruolo peculiare, non solo istituzionale, ma anche stricto sensu economico per la moneta in quanto tale. E tuttavia, anche nell’esposizione e interpretazione del passo di Marx, abbiamo potuto vedere come la questione istituzionale della moneta come legge e limite per l’economico sia sempre suscettibile di essere posta a partire da una tradizione al contempo interna ed esterna al sapere economico. Si tratta di provare ora a trarre qualche conclusione da tutto ciò. La tradizione del pensiero occidentale sull’uso proprio della moneta ci ha indicato un suo tratto fondamentale. La moneta è propriamente un limite istituzionale, cioè posto in opera come limite entro lo scambio e in favore dello scambio. Ma proprio in quanto limite, essa non ha e non può avere una determinazione che sia dello stesso ordine di, ovvero proceda da, ciò che essa delimita. Ciò porrebbe la questione di un limite del limite: ossia produrrebbe il vizio logico di una regressione all’infinito. La sua limitazione è dunque di altro ordine, e attiene al suo essere: ora, il suo essere è di essere là dove sparisce. Questo peculiare tratto d’essere è in qualche modo riconosciuto anche all’interno della classical theory. Mill per esempio lo dice a suo modo molto chiaramente:

There cannot, in short, be intrinsically a more insignificant thing, in economy of society, than money; except in the character of a contrivance for sparing time and labour. It is a machine for doing quickly and commodiously, what would be done, though less quickly and commodiously, without it: and like many other kinds of machinery, it only exerts a distinct and independent influence of its own when it gets out of order.59

Il termine più generale per dare conto di questa insignificanza all’interno del discorso economico è, come è noto, “neutralità della moneta”. In equilibrio la moneta “non conta”. Il termine che indica invece il “being out of order”, ovvero, in questa prospettiva, il disequilibrio, è “crisi”. La crisi è il necessario e oppositivo complemento della moneta concepita come neutrale. Ciò che non può esser per nulla chiaro all’interno di un tale modo di porre la questione, è invece la radice di tale in-significance: meglio, la radice della positività di questa negatività. Andare alla radice della questione significherebbe, in effetti, riscoprire l’enigma della moneta, ossia la sua costituzione differenziale come misura e mezzo di

59 J. S. Mill, Principles of Political Economy, p. 488

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pagamento60. Ma questa riscoperta riproporrebbe la questione della costituzione istituzionale della moneta, ovvero il fatto che essa non è né semplicemente un ens rationis senza effetti sugli scambi né semplicemente una merce fra le merci, convenzionalmente usata come mezzo di pagamento. Non è né solo l’una né solo l’altra cosa, né solo ideale né solo reale, ma piuttosto la messa in opera dell’articolazione fra le due61. Andare al fondo della questione significherebbe riscoprire l’insufficienza di queste determinazioni in ordine alla comprensione della moneta come forma istituita, come la messa in opera di un limite per lo scambio. Un indizio di questa impossibilità è l’incapacità, per quella che Marx chiama l’economia borghese, di dar propriamente conto della natura del “being out of order” della moneta, ossia della crisi monetaria che è sempre sul punto di minare l’ordine della circolazione, e che ha le sue radici nella costitutiva indistinzione fra moneta e capitale, e nella conseguente impossibilità di un’articolazione del rapporto fra misura e mezzo di cambio. Entrambe queste insufficienze possono essere riassunte in una sola determinazione, come abbiamo già detto all’inizio: la riduzione della moneta a merce. Marx ha dunque buone ragioni, dal suo punto di vista, a parlare di “contraddizione assoluta”, in un brano del Capitale in cui il riferimento alla posizione di Mill è per lo meno implicito :

La funzione del denaro come mezzo di pagamento implica una contraddizione immediata. Finché i pagamenti si compensano, il denaro funziona solo idealmente, come denaro di conto, ossia misura dei valori. Appena si debbono compiere pagamenti reali, il denaro non si presenta come mezzo di circolazione, come forma del ricambio organico destinata solo a fare da mediatrice a scomparire, ma si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta.62. Questa

60 Rimando su questo punto al mio L’énigme de la monnaie, ISE Working Paper, 2004-I. 61 Il capitale così come lo presenta Marx, ossia come soggetto automatico della valorizzazione come processo, è la versione cibernetico-tecnica di questa istanza: la sua processualizzazione, appunto, attraverso la messa a disposizione di moneta e merce, di misura e misurato, resi preventivamente fungibili, cioè sostituibili. Resta da pensare appropriatamente che cosa possa essere una sua articolazione propria. Ma appunto per questo motivo è necessario passare per la questione dell’uso proprio. 62, Se vi è qualcosa di assoluto nella moneta, cosa di cui è lecito dubitare, resta da chiedersi se davvero questo possa essere visto come l’incarnazione in una merce di un lavoro sociale. Ma non si tratta solo di dubitare: un’altra strada è aperta, e precisamente, ancora una volta a partire da Aristotele, Etica Nicomachea, V, là dove è questione della capacità della moneta di mantenere il proprio senso anche in assenza di beni da acquisire. Ora mentre nella prospettiva dell’economia politica, che Marx si limita ad esporre senz’altro aggiungere, una moneta eccedente gli scambi presenti rappresenta a tutti gli effetti un credito, è possibile imparare a vedere, sulla scorta di Aristotele, come essa, proprio in questa circostanza, mostri fino in fondo il suo fondo di provenienza: ovverosia la mancanza, il debito, in una parola la costitutiva non appropriabilità delle condizioni stesse di esistenza di una vita economica propriamente umana. Se in economia vi è qualcosa d’assoluto (nel senso letterale di “sciolto da debiti e obbligazioni”), e se, com’è probabile, la moneta ne è l’attestazione, questo assoluto è la dimensione della mancanza. Queste considerazioni, del tutto insufficienti in questa forma, sono

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contraddizione erompe in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria. Essa avviene soltanto dove sono sviluppati pienamente il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano turbamenti generali in questo meccanismo, e, quale che sia l’origine di essi, il denaro si cambia improvvisamente e senza transizioni, e, da figura solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro contante. Non è più sostituibile con merci profane. Il valore d’uso della merce è senza valore e il suo valore scompare dinanzi alla propria forma di valore. Il borghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illuministica derivata dall’ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rintrona il grido: “solo il denaro è merce”. Come il cervo mugghia in cerca d’acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l’unica ricchezza63. Nella crisi, l’opposizione fra la merce e la sua figura di valore, il denaro, viene elevata fino alla contraddizione assoluta .

E a parlare, in una nota al testo, di “spavento teorico” Questa improvvisa riconversione del sistema di redito al sistema monetario sovrappone al panico pratico lo spavento teorico: e gli agenti della circolazione sono presi da raccapriccio davanti all’impenetrabile arcano dei loro propri rapporti.

“L’impenetrabile arcano dei loro rapporti” è tuttavia, molto modestamente, l’effetto strutturale di una rinuncia programmatica a porre, prima ancora che a risolvere, la questione del limite. L’emersione della moneta come limite, e della connessa necessità di un’istituzione della moneta che, consentendo la distinzione fra un suo uso proprio e un suo uso improprio, le consenta di sparire propriamente, ossia di apparire come misura, pone l’esigenza di una riconsiderazione della natura istituzionale della moneta. La moneta non è, per sua costituzione, nulla la produzione del cui significato possa essere incondizionatamente affidata a un meccanismo allocativo fondato su criteri di efficienza, il mercato – pensato a sua volta non come una costruzione normativa, e dunque come qualcosa in cui il rapporto con il limite è la posta in gioco fondamentale, ma come qualcosa che produca le norme del proprio funzionamento sulla base del suo stesso funzionamento. La perfetta sostituibilità come tratto strutturale della moneta concepita in termini di quantità, con il corollario di una preliminare indistinzione fra i suoi usi, non è un dato indiscusso e indiscutibile, ma, in quanto effetto della preventiva indistinzione fra uso proprio e uso improprio, una costruzione

state approfondite nel commento testuale alla trattazione aristotelica del denaro nell’Etica Nicomachea, presentato in un seminario ristretto in Università Bocconi il 27 febbraio 2006, e ora in corso di rielaborazione. 63 È interessante notare come in questo passo di Marx, il rovesciamento del mito di Mida su cui si basa l’economia politica appaia a sua volta in forma rovesciata. La salvezza è cercata proprio facendo ricorso a ciò che costituisce la radice del pericolo, ma senza nessuna consapevolezza del movimento Risultato:l’insorgere di un’oscurità totale nel bel mezzo della riduzione illuministica della moneta a forma trasparente.

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dogmatica, che come tale deve essere riconsiderata in vista della costruzione di un sapere istituzionale della moneta. Tale sapere esige che la questione genealogica della moneta, in altri termini la questione della generatività della moneta venga posta in relazione alla questione del suo uso proprio. È in relazione a questa questione che, come si è detto, può ridivenire possibile porre la questione del rapporto fra moneta e lavoro. Ma entrambe le questioni portano con sé la possibilità, e presumibilmente la necessità, di riconsiderare la moneta entro la dimensione, terza e abissale, della normatività. Massimo Amato Milano, marzo-maggio 2006

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