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28 • CARTA N. 46 ALMANACCO MOVIMENTI COPENHAGEN. In queste pagine, foto delle manifestazioni che hanno accompagnato e contestato il Vertice Onu sui cambiamenti climatici, tenuto a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre. In sequenza, alcuni momenti delle manifestazioni del 12 dicembre e del 16. Intervallate a quelle dei roghi seguiti all’irruzione della polizia danese nella comune di Christiania e una fila di manifestanti arrestati «preventivamente» dalla polizia. FOTO ALEJANDRO BIAGIANTI

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    COPENHAGEN. In queste pagine, foto delle manifestazioni che hanno accompagnato e contestato il Vertice Onu suicambiamenti climatici, tenuto a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre. In sequenza, alcuni momenti delle manifestazionidel 12 dicembre e del 16. Intervallate a quelle dei roghi seguiti all’irruzione della polizia danese nella comune diChristiania e una fila di manifestanti arrestati «preventivamente» dalla polizia.

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    K LIPTOWN, NELLA ZONA DI SOWETO, è ora una grandeestensione di baracche fatte di lamiera e cartone, fo-gne a cielo aperto e un livello di disoccupazione chesfiora il 72 per cento. Ma questa ex township ha rappresen-tato in passato il simbolo della volontà rivoluzionaria di mi-lioni di sudafricani. Nel 1955, il sobborgo ha ospitato i dele-gati del popolo chiamati a elaborare la Freedom Charter, cheha ispirato per decenni la lotta anti-apartheid. Fu un pro-cesso democratico che coinvolse i sudafricani oppressi dalregime, dalle campagne alle città. Cinquantamila volon-tari percorsero il paese in lungo e in largo, chiedendo al-la popolazione segregata quale fosse la sua visione peril Sudafrica del futuroe ottenendo come risposte che «la ter-ra deve essere ridistribuita», che «l’istruzione deve esseregratuita e obbligatoria», «libertà di movimento e diritto diresidenza» e «l’eliminazione di tutti i ghetti».

    Negli anni ottanta il manifesto fu ripreso in modo radi-cale da una nuova generazione di militanti che si riuniro-no sotto lo United democratic front. Il movimento vedevanella democrazia non solo l’obiettivo per il Sudafrica post-apartheid ma anche la propria modalità di lotta, equesto ebbe una portata rivoluzionaria incredibi-le. La gente organizzò comitati di strada e di quar-tiere, fino a rendere ingovernabili le township e mi-nacciando seriamente la sopravvivenza del regimedella minoranza bianca. Durante l’apartheid i bian-chi avevano standard di vita paragonabili alla Ca-lifornia, i neri a quelli del Congo. Dopo quindici an-ni di democrazia, le contraddizioni non si sono at-tenuate. Secondo i dati economici più recenti, il Sudafricaè il paese più ineguale al mondo. Nonostante le speranze chela transizione aveva portato con sé, per la maggioranza del-la popolazione le condizioni di vita sono peggiorate, dal1994 a oggi.

    All’interno del Sudafrica esistono ancora due mondi di-stinti, e questa contraddizione rende la giovane democra-zia di questo paese un gigante dai piedi d’argilla. L’Africannational congress [Anc, il partito-Stato al governo dal ’94]è di fatto responsabile di tutto questo, con le sue promes-se non mantenute e con i suoi tradimenti degli ideali dellalotta. Ma la storia del Sudafrica post-apartheid parte dalontano, dall’epoca dei negoziati che segnarono la fine delregime razzista. I negoziati si svilupparono lungo due bi-nari, uno politico e uno economico. Mentre l’opinione pub-blica si concentrava sui colloqui politici, sugli incontri tral’Anc di Nelson Mandela e il National Party di De Klerk, gli

    altri negoziati venivano definiti «tecnici» e «amministrati-vi». Il delegato principale per l’Anc era Thabo Mbeki, cheaveva trascorso parte dell’esilio a Londra imparando le-zioni di liberismo dal governo Thatcher. Il risultato fu chel’Anc conquistò il potere politico, abbandonando però iprincipi della Freedom Charter e sposando il credo dellepolitiche economiche neoliberiste.

    La Banca centrale, indipendente dal governo, fu affida-ta a Chris Stals, lo stesso uomo che l’aveva guidata sottol’apartheid. Invece di nazionalizzare le miniere, come erastato promesso durante la lotta, Mandela e Mbeki iniziaro-no a incontrarsi regolarmente con Harry Oppenheimer, expresidente di Anglo-American e De Beers. Soprattutto, l’Ancaccettò di pagare il debito internazionale contratto dal go-verno precedente, assicurando stabilità finanziaria ai gran-di investitori e causando l’impoverimento di grandi partidella popolazione. Così, invece di compensare le vittime del-

    La politica dei baraccaticontro l’apartheidche segrega i poveriDI FILIPPO MONDINI E FRANCESCO GASTALDON

    IL SUDAFRICA DEL DOPO APARTHEID È DIVISO IN DUE.DA UNA PARTE C’È LA VERITÀ UFFICIALE DELL’ANC,IL PARTITO-STATO, AUTORITARIO E NEOLIBERISTA.DALL’ALTRA, IL NUOVO MOVIMENTO DELLE TOWNSHIP,ABAHLALI, CHE ORGANIZZA LA POLITICA DAL BASSO.

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    la repressione - come chiese la Commissione di Verità e Ri-conciliazione presieduta da Desmond Tutu - la nuova de-mocrazia ha ceduto alle richieste del Fondo monetario e del-la Banca mondiale.

    Con l’avvento di Mbeki alla presidenza [nel 1999] la svol-ta liberista diventa aperta e radicale: le nuove politiche eco-nomiche del Gear [Growth employment and redistributionprogramme] hanno portato a privatizzazioni, tagli alla spe-sa pubblica, flessibilità nel mercato lavoro, più libertà discambio e meno controlli sui flussi di denaro. Le conseguen-ze sono state devastanti: per citare solo alcuniesempi, dalla fine dell’apartheid sono stati col-legati alla rete idrica nove milioni di persone,mentre i tagli ne hanno colpite dieci milioni; iltasso di disoccupazione a novembre 2009 è al31 per cento; la povertà è più profonda e istitu-zionalizzata che durante il regime segregazioni-sta e la ricchezza è sempre più polarizzata, conun gruppo ristrettissimo di persone che detiene

    la maggior parte del reddito nazionale; quasi un milione dipersone sono state sfrattate dalle zone rurali e il numero de-gli abitanti delle baraccopoli è aumentato vertiginosamen-te, e secondo alcune stime recenti circa un sudafricano susei vive in un insediamento informale.

    Il movimento degli «shack dwellers» Abahlali baseMjon-dolo nasce alla fine del 2005, in questo contesto di rabbiae senso di tradimento delle promesse dell’Anc, inspirando-si agli ideali della lotta anti-apartheid dell’United democra-tic front [Udf]. L’ideale centrale della lotta dell’Udf era cheil Sudafrica doveva appartenere a tutti quelli che ci vive-vano, a tutti quelli che lottavano contro il regime. La lot-ta per una società non-razziale non poteva essere conces-sa dall’alto, ma andava costruita giorno per giorno attra-verso l’azione politica popolare. Una questione cruciale,per il Sudafrica post-apartheid, è il passaggio dall’idea dinazione costruita su basi non razziali a quella della «rain-bow nation»: l’idea astratta della «nazione arcobaleno» èstata costruita dalle narrative dello Stato, calata dall’al-to da tecnocrati ed «esperti». Come sostengono diversi stu-diosi, ad esempio Richard Pithouse e Franco Barchiesi, aquindici anni dalle prime elezioni del ’94 appare evidenteche per l’Anc il post-apartheid è un’epoca «postpolitica», incui la solidarietà nazionale della «rainbow nation» deve pre-valere sulle rivendicazioni sociali e politiche.

    L’unica «vera lotta», quella contro l’apartheid, è stata giàvinta e la narrazione ufficiale tenta di riscrivere la storiadella resistenza come una lotta condotta solo dall’Anc. Se-condo l’ideologia ufficiale, ogni critica al governo e all’Ancequivale a un tradimento dei propri liberatori. E proprio i«liberatori» dell’Anc cercano di sfruttare il mito della Na-zione e della lotta all’apartheid per nascondere la crescen-te povertà, la gestione verticistica e tecnocratica del pote-re e i tradimenti rispetto alle promesse fatte all’indomanidella presa del potere. In quest’ottica, il cosiddetto «servi-ce delivery», la fornitura di servizi di base alle baraccopo-li e ai cittadini più poveri, è una sorta di dono erogato dal-l’alto, in modo paternalistico e autoritario.

    Abahlali ha ben chiaro il problema di questa gestione delpotere, e ne discute ampiamente nelle assemblee del mo-vimento. Secondo Zodwa Nsibande, attivista di Abahali, «lecomunità degli insediamenti devono essere consultate dal-le autorità per quel che riguarda i piani di fornitura di ser-vizi o costruzione di case popolari. Ma i politici non hannorispetto per l’intelligenza dei poveri, credono che non sia-mo in grado di pensare autonomamente». Il presidente elet-to del movimento, S’bu Zikode, dice che «il pensiero tecno-

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    FILIPPO MONDINIè missionario comboniano a Castel Volturno, ma havissuto per molti anni in Sudafrica. Ha lavorato in particolare con e per il mo-vimento dei baraccati di Durban «Abahlali baseMjondolo», che in lingua zuluvuol dire «quelli che vivono nelle baracche». L’esperienza sudafricana gli è sta-ta molto utile per partecipare alla costruzione, in Campania, del movimentodei migranti africani.

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  • È arrivata alla fine dell’Anno europeo sulla Creatività e l’Innovazione, ma ha rappresentato certamente una delle iniziative che, soprattutto inambito universitario, meglio ha saputo interpretare lo spirito e gli obiettivi di un intervento sul quale la Commissione europea ha puntatocon decisione per caratterizzare la propria attività politica e strategica nel 2009.Si tratta della 1st International Conference “Creativity and Innovation in Languages Studies – CILS”, che si è svolta dal 14 al 16 dicembreall’Università della Calabria.

    «Si è trattato - spiega la prof. ssa Carmen Argondizzo, coordinatrice del team di esperti e studiosi europei che hanno aderito al progettoCMC_E (Communicating in Multilingual Contexts meets the Enterprises www.cmceproject.it), nel cui ambito la Conferenza ha preso spunto -di un’iniziativa che riflette la volontà di mettere a fuoco due elementi fondamentali della nostra quotidianità, ancor più rilevanti nel conte-sto scolastico-culturale: la creatività e l’innovazione. Una riflessione dedicata, in modo particolare, al contesto degli studi linguistici e dell’in-segnamento delle lingue moderne».

    Quali sono stati gli aspetti sviluppati nel corso della conferenza?Intanto, vorrei sottolineare il carattere internazionale della iniziativa, alla quale, insieme a docenti dell’Università della Calabria, hanno parte-cipato studiosi provenienti da tutta Europa e dagli Stati Uniti.La Conferenza ha ospitato, inoltre, video greatings da parte di docenti del calibro di Ronald Carter, Diane Larsen-Freeman, e del Commissarioeuropeo per il multilinguismo Leonard Orban.I temi affrontati hanno riguardato la creatività delle culture e gli usi delle lingue, la creatività e l’innovazione tecnologica nelle classi di lingua,la creatività nell’uso della lingua nelle arti e le lingue e la creatività nel mondo dell’impresa.Un’attenzione particolare è stata prestata proprio a quest’ultimo tema, attraverso la presentazione di un progetto europeo che, coordinatosempre dall’Università della Calabria, ha dato vita, tra l’altro, alla realizzazione di una serie di materiali didattici in sei lingue specificamentededicato al contesto amministrativo e, appunto, al mondo dell’impresa.

    Quale particolare ragione vi ha spinto a soffermarvi su questo specifico argomento?Questa particolare attenzione verso il mondo dell’impresa è nata da un’indagine, condotta dal progetto CMC¬_E (Communicating inMultilingual Contesxts meets the Enterprises www.cmceproject.it) e, precedentemente, dalla Commissione europea, che ha dimostratocome molti rapporti d’affari in Europa non sono coronati da successo per mancanza di competenze multilingue nei contesti amministrativie aziendali.

    Anche la tavola rotonda che ha concluso la conferenza ha suscitato molto interesse.E’ stato un confronto sulle creatività e le innovazioni “across countries” caratterizzato dalla condivisione di idee e iniziative tra partecipanti divari paesi europei, rappresentanti del mondo politico della Regione Calabria e studenti dell’Università della Calabria. Un momento di confrontomolto intenso e stimolante per capire cosa di creativo e di innovativo succede negli studi linguistici a livello internazionale.

    Quale è stata la conclusione di questa riflessione?Che la creatività e l’innovazione non sono concetti racchiusi in un contesto temporale definito, ma realtà concettuali e pratiche da coltivare evalorizzare in qualsiasi settore, dai primi anni della scuola elementare fino agli studi universitari ed oltre. Può sembrare un’ovvietà, ma l’esperienza ci dice che, spesso, non è così e che c’è ancora molto da fare perché scelte, comportamenti ed azionifunzionali a questo obiettivo, finalmente, e sistematicamente, vengano messe in atto.

    Tre edizioni. Ognuna spalmata lungo mesi di impegno intenso e costante nello studio delle lingue moder-ne, in modo particolare quella inglese. E poi centinaia di studenti, dottorandi, borsisti, assegnisti di ricercadell’Università della Calabria, ma anche numerosi insegnanti di scuola primaria e secondaria, coinvolti inun’intensa e innovativa attività di formazione e di arricchimento culturale: sono i numeri del progetto“CLAC”, promosso dall’Assessorato Istruzione Alta Formazione e Ricerca della Regione Calabria, e coordina-to, per conto dell’UniCal, dal Centro Linguistico dell’Ateneo di Arcavacata, che ha pienamente soddisfat-to ogni aspettativa.

    ClacCentro Linguistico di Ateneo Università della Calabria

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    cratico esclude la maggioranza delle persone e viene sup-portato dalla violenza quando i poveri insistono sul loro di-ritto di parlare e di essere ascoltati. Da una parte c’è un con-sulente con il suo computer portatile e dall’altra un giova-ne ubriaco con una pistola in mano. Possono sembrare a pri-ma vista diversi, ma entrambi servono lo stesso sistema, unsistema dove i poveri devono essere buoni e starsene al lo-ro posto senza pensare o parlare».

    Nel post-apartheid si è passati dai comitati popolari diquartiere alla «società civile», formata da organizzazioniche servono a creare consenso intorno a interessi speci-fici. La lotta di Abahlali è radicalmente diversa da quella deitecnocrati delle Ong. Alla «politica dei partiti» Abahlali con-trappone una politica popolare, che i membri del movimen-to descrivono come una «politica vivente»: l’idea di un mo-do di fare politica che tutti possono capire e alla cui defini-zione tutti possono partecipare, opposto in modo radicaleal linguaggio burocratico e tecnico che viene usato dalle au-torità municipali, dai partiti politici e dalle Ong.

    La politica di Abahlali, spiegano gli attivisti, abbraccial’universale. Al centro non ci sono interessi particolari mai poveri, le persone. Le verità forgiate dalla lotta, elabora-te e pensate democraticamente nelle assemblee, sono uni-versali. Dopo le recenti violenze contro il movimento [che

    Carta ha raccontato: www.carta.org] S’bu Zikode ha dettoche «questa democrazia non si cura dei poveri, perciò è no-stra responsabilità farla funzionare per tutti i poveri, co-struire la forza dei poveri e ridurre quella dei ricchi. Dob-biamo lottare per democratizzare tutti i posti nei quali vi-viamo, lavoriamo, studiamo e preghiamo».

    Un’altra caratteristica fondamentale della lotta del mo-vimento è la sua fedeltà. Nella teorizzazione del filosofo po-litico Alain Badiou, la fedeltà è il «tentativo di sostenere nelpensiero le conseguenze dell’evento». È il rifiuto di torna-re allo «status quo ante». La «fedeltà all’evento» non è scon-tata: richiede un «interesse-disinteressato» da parte dei par-tecipanti. Non c’è certezza, in questo processo. Se le «avan-guardie» politiche conoscono la strada da percorrere, ilmovimento non la conosce a priori. I membri di Abahla-li affermano che «l’alternativa, la direzione della nostralotta, uscirà dal nostro pensiero, dalle riflessioni che fac-ciamo insieme nelle nostre comunità, in cui ci educhiamoa vicenda e pensiamo la nostra lotta».

    Abahlali baseMjondolo, quindi, non chiede allo Statol’elemosina di servizi pubblici e abitazioni popolari. Le ri-chieste pratiche del movimento puntano a vedere realizza-ti i diritti sociali fondamentali promessi nella Costituzionesudafricana. Le rivendicazioni del movimento sono più pro-

    fonde, e puntano a cambiare i termini stessi dell’in-clusione dei poveri della società sudafricana, pertrasformare il regime tecnocratico del post-apar-theid in una democrazia realmente partecipata datutti i cittadini. La lotta è per affermare la dignitàdei poveri in senso più ampio, sostenendo con for-za la loro capacità di esprimersi sulle politiche esulle scelte che riguardano le loro vite.

    FRANCESCO GASTALDON ricercatore dell’università di Bologna, tra-sferitosi a Durban, in Sudafrica, per una borsa di studio, ha denunciato il vio-lento attacco a cui il movimento dei baraccati è sottoposto da parte della mi-lizia armata dall’African National Congress. È tra i promotori, assieme a Car-ta, della campagna «Mondiali al contrario» nell’ambito della quale una dele-gazione di attivisti di Abahlali sarà in Italia in primavera.

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  • stra, ndr.]. Stiamo con il Messico e il suo presidente FelipeCalderon, ha detto in più di una occasione Sabines. In Chia-pas l’uomo de Los Pinos [residenza del presidente della re-pubblica, a Città del Messico, ndr] si sente più a suo agio chein molti degli Stati governati dal suo partito.

    Juan Sabines guida la vita interna dell’istituzione a suopiacimento: licenzia o nomina dirigenti e candidati. In Chia-pas, il sole azteco [simbolo del Prd, ndr.] si è trasformato nelpartito dei paramilitari. La strategia di comunicazione del-l’amministrazione statale cammina su due piedi: uno èl’uso intensivo di televisioni e radio per promuovere ilChiapas; l’altro è una politica di contro-insurrezione in-formativa, orchestrata a partire dal controllo della stam-pa locale e della divulgazione nei media nazionali delleposizioni dell’amministrazione Sabines su conflitti che siaccendono nello Stato. Nella versione chiapaneca contem-poranea di «panem et circensens» ogni giorno vengono gi-rate telenovelas, musicisti famosi registrano canzoni e ar-tisti di successo si aggirano tra siti archeologici, monumen-ti storici e bellezze naturali. I visitatori celebri sono inter-vistati dai mezzi di comunicazione locale.

    Benché formalmente la guerra di carta contro lo zapati-smo e contro tutto quel che non voglia sottomettersi alla po-litica di concertazione statale sia condotta dall’esecutivo lo-

    N ELL’APRILE DEL 1995, José Ángel Gurria, allo-ra ministro degli esteri del Messico, dichiaròche lo zapatismo era «una guerra di inchiostroe internet». Ora, 14 anni dopo, sono il governo federa-le e quello del Chiapas ad aver lanciato una grande of-fensiva di disinformazione contro i ribelli, i gruppi chedifendono i diritti umani e i movimenti sociali dissi-denti di quello Stato. L’attuale strategia di comunica-zione governativa si inscrive nelle categorie della guer-ra delle reti [netwar]. Secondo gli analisti della Rand Cor-poration, Arquilla e Ronfeldt, «netwar si riferisce a conflit-ti che hanno a che vedere con l’informazione a un alto livel-lo tra nazioni o società. Significa cercare di alterare, dan-neggiare o modificare quel che una popolazione che sial’obiettivo della netwar sa, o pensa di sapere, su se stessae il mondo che la circonda. Una ‘guerra di reti’ può concen-trarsi sull’opinione pubbliche, sulle élite, o su ambedue. Puòincludere mezzi diplomatici, pubblici, propaganda o cam-pagne psicologiche, sovversione politica e culturali, ingan-ni o interferenze nei media, infiltrazioni in reti di computere banche dati e sforzi per promuovere movimenti dissiden-ti o oppositori mediante reti di computer».

    Questo è precisamente quel che lo Stato messicano ha fat-to nelle settimane recenti in Chiapas. La lista di provocazio-ni è lunghissima: detenzione o assassinio di oppositori so-ciali, promozione di una campagna di voci che annunciava-no una nuova insurrezione armata, intenzione di diffama-re lo zapatismo divulgando una falsa richiesta di appoggioeconomico delle giunte del buon governo [le istituzioni au-tonome zapatiste] al parlamento locale, liberazione di pa-ramilitari responsabili del massacro di Acteal e incremen-to della presenza militare. Tutto questo orchestrato con unacampagna nei mezzi di comunicazione per occultare i fatti,nonostante le evidenze.

    Con il governo di Juan Sabines [governatore del Chiapas,ndr.] i gruppi di potere tradizionali si sono ricomposti. «Ca-ciques» [capi villaggio al servizio del governo, ndr], latifon-disti, grandi allevatori e la più rancida nomenclatura poli-tica priista [del Pri, l’ex partito regime, ndr] occupano posi-zioni chiave nell’amministrazione pubblica, nel parlamen-to locale e a San Lázaro [sede del governo del Chiapas, ndr.].Diversi attori dei grandi affari locali sono associati con per-sonaggi in ambito federale. Non importa che questo gover-natore abbia conquistato l’esecutivo dello Stato come can-didato del Partito della rivoluzione democratica [Prd, di cen-trosinistra, ndr.]. Èoggi uno dei governatori più vicini al pre-sidente della repubblica [che è del Pan, il partito della de-

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    Guerra di menzognedel governo messicano.Gli zapatisti resistonoDI LUIS HERNÁNDEZ NAVARRO

    A CHE PUNTO È, DOPO 26 ANNI DALLA FONDAZIONEDELL’ESERCITO ZAPATISTA, LA RIBELLIONE INDIGENACHE HA SUSCITATO SPERANZE IN TUTTO IL MONDO?«NETWAR» E ATTACCHI ASSEDIANO LE COMUNITÀ.CHE RESTANO L’ESEMPIO DELL’AUTONOMIAS POSSIBILE

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  • cale, parte della strategia è stata escogitata dal governo fe-derale. Diego Cadenas, direttore del Centro per i diritti uma-ni Fray Bartolomé de las Casas assicura di avere informazio-ni attendibili del fatto che alle riunioni settimanali del gover-no di Sabines sono sempre presenti i militari.

    L’anello più recente della offensiva informativa è la ver-sione per cui le giunte di buon governo hanno sollecita-to il riconoscimento da parte del parlamento locale e delgoverno, evento tanto insolito quanto irreale. La menzo-gna governativa ha un obiettivo principale: delegittimarela lotta zapatista, togliere credibilità alla loro proposta. Lamanovra è una grave offesa. Nonostante la precarietà nel-la quale le comunità che fanno resistenza vivono da molti

    anni, esse hanno rifiutato sistematicamente ogni tipo di aiu-to governativo. La loro dignità non ha prezzo, e questo han-no mostrato al mondo.

    Non è la prima occasione nella storia del conflitto nellaquale le autorità ricorrono a un simile inganno. Tra il 1999e il 2000, mentre era governatore provvisorio dello StatoRoberto Albores Guillén – stretto alleato di Juan Sabines –fu montato uno show televisivo per annunciare la diserzio-ne di 13 mila zapatisti, che avrebbero consegnato armi e pas-samontagna. I disertori erano militanti del Pri, e diversi diloro erano paramilitari. Uno dei principali organizzatoridi questa opera buffa fu Noé Castañon León, al tempo ti-tolare del Supremo tribunale di giustizi a dello Stato, e cheoggi curiosamente è ministro nel governo chiapaneco.

    La guerra di inchiostro e internet contro-insurreziona-le ha creato una situazione politica molto fragile in Chiapas.Si vedrà se i governi continueranno a giocare col fuoco.

    La persecuzioneIn Chiapas la persecuzione contro le comunità zapatiste se-gue una strada precisa. Come se si trattasse di un cambiodella guardia, gruppi contadini legati al governo si alterna-no in diverse regioni nel tentativo di incrinare la resistenzaindigena. In lungo e in largo nei territori indigeni un eserci-

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    LUIS HERNANDEZ NAVARRO Giornalista del quotidianomessicano indipendente La Jornada, si occupa da anni dei movi-menti sociali e indigeni di quel paese, dagli zapatisti del Chiapasai maestri di Oaxaca, dai minatori di Lázaro Cárdenas ai contadinidi Atenco, passando per i diversi Forum sociali mondiali che hasempre seguito come inviato. È amico e collaboratore di Carta,che ha pubblicato con Intra Moenia, nel 2008, un suo libro: «Sen-so contrario – vita e miracoli di ribelli contemporanei».

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    to di sigle che parlano in nome degli agricoltori provocanoregolarmente e sistematicamente le basi di appoggio [gli in-digeni zapatisti non combattenti, ndr.] che rifiutano di ave-re relazioni con il governo.

    La provocazione non conosce tregua. Si tratta di non da-re respiro a chi si sia azzardato a costruire la sua autono-mia senza chiedere il permesso. Un giorno occupano ter-re, un altro rubano il caffè o il bestiame, un altro ancorarompono steccati, il seguente distruggono i piccoli orti.Stanno in agguato in attesa del momento opportuno pertendere un’imboscata a ribelli, per impugnare il mache-te o sparare. Una coltre di impunità protegge gli aggressori.La legge per loro non vale. Mettere gli uni contro gli altri con-tadini con contadini e indigeni con indigeni è stata sempreuna pratica del potere. Costoro ne sono gli esecutori. Per iloro servizi guadagnano succhiando le risorse destinate al-la lotta alla povertà e allo sviluppo agricolo e dell’alleva-mento e, se hanno più fortuna, occupando qualche impiegopubblico. Negli annisuccessivi all’insurre-zione, la maggioranzadelle organizzazionimercenarie appartene-vano al Pri. Nomadi del-la politica, dall’anno2000 hanno fissato il do-micilio nella sede delPrd.

    Nel dicembre del 2007 l’Esercito zapatista di liberazio-ne nazionale [Ezln] avviò una riforma agraria dal basso, sul-la base della Legge agraria zapatista. La misura risponde-va, in parte, alla decisione governativa di riconoscere dirit-ti sulla terra occupata dai ribelli ad altri gruppi contadini.Con il che l’amministrazione federale e quella statale semi-navano la discordia tra i poveri. Le provocazioni organiz-zate da organizzazioni contadine dipendenti dallo Stato sisono manifestate in tutte le regioni ad influenza ribelle. Nonsi tratta di scontri, ma di aggressioni contro gli zapatisti.

    La resistenzaIl 17 novembre scorso, nel mezzo di un clima di provocazio-ne governativa, ricorrevano 26 anni dalla fondazione del-l’Ezln. Poco più di due decenni e mezzo di una esperienzache ha trasformato la politica e la società messicane e cheispirato molteplici parti dell’arcipelago altermondialistache in una moltitudine di paesi lotta per un altro mondo. Lozapatismo ha costruito una delle esperienze di autogestio-ne più profonde e rinnovatrici di quelle che si sono date inAmerica latina: la Comune della Lacandona. Nonostantel’accerchiamento militare e l’offensiva militare contro diesse, le comunità ribelli si sono date forme di autogover-no stabili, vivono secondo le loro regole e si sono fatte ca-rico del loro sviluppo.

    Lungi dall’indebolirsi con il tempo, il passare degli anniconsolida e approfondisce il laboratori di futuro alterna-tivo e di altra politica. L’autonomia è qui non solo una pro-

    posta o una rivendicazione politica, ma un fatto reale, unaesperienza sistematica, è pensiero con i piedi sulla terra.E l’impresa di creare una resistenza ribelle è un punto di ri-ferimento e uno stimolo per milioni di indigeni in tutto ilpaese. È una dimostrazione che l’autonomia di fatto è pos-sibile. È la prova che ci sono quelli che non si arrendono nési vendono. Nel corso di 16 anni quattro amministrazionifederali e sei statali hanno destinato cifre multimilionarieal tentativo di contenere e farla finita con lo zapatismo. Nonci sono riuscite. Nonostante abbiano speso miliardi in ope-re pubbliche, progetti di produzione, aiuti in natura e in con-tanti per comprare volontà, non hanno potuto spegnere ladignità indigena. Gli insorti non accettano un solo peso [lamoneta messicana, dr] dai governi.

    L’offensiva poliziesca e militare contro i ribelli non ces-sa. L’esercito messicano mantiene nella zona insorta miglia-ia di uomini. I pattugliamenti sono costanti. Eppure, né que-sta presenza né quella delle diverse polizie sono riuscite a

    disarticolare la resi-stenza.

    Tra le conseguenzeimmediate che l’insur-rezione zapatista haavuto per il movimentosociale è aver costruitouna visione di quel che èpossibile ottenere nella

    lotta, visione molto più ampia di quella esistente fino al1994. Il margine di azione statale è minore, e le concessio-ni che deve fare ai movimenti maggiori. Anche se non sem-pre lo sanno o se ne giovano, i movimenti indipendenti han-no oggi uno spazio molto più largo per il loro sviluppo.

    Gli zapatisti continuano a riscuotere grandi simpatienel mondo indigeno, tra giovani, contadini poveri e abi-tanti delle periferie urbane. In compenso, l’appoggio cheessi avevano ottenuto da importanti ambienti del mon-do intellettuale è svanito. La solidarietà che qualche vol-ta avevano avuto da settori ampi della sinistra dei parti-ti si è convertita in aperta avversione. Molte delle Ong chein alcuni casi erano state al loro fianco si sono allontana-te. Come è accaduto più volte dal 1994, c’è chi ora sostieneche i ribelli hanno smesso di avere influenza nel paese.L’esperienza mostra che sbagliano. I ribelli sono tornati alcentro della politica nazionale con successo, più volte. An-che se alcune delle loro proposizioni politiche possono es-sere state equivocate, contano su un capitale etico enorme,che gli dà credibilità e capacità di richiamo.

    Lo zapatismo rappresenta una rottura formidabile coni vecchi modi di far politica che, nonostante il passare de-gli anni, conserva una sua freschezza. A 26 anni dalla fon-dazione dell’Ezln, il loro orizzonte è qui e continuerà a far-si sentire. Se lo zapatismo dovrà essere ricordato per una so-la delle sue conquiste, questa è l’insistere sul fatto che nel-la lotta per la democrazia, la giustizia e la libertà non potre-mo che volare come gli angeli di Luciano de Crescenzo, chehanno solo un’ala: abbracciandoci gli uni con gli altri.

    GLI ZAPATISTI CONTINUANO A RISCUOTERE SIMPATIENEL MONDO INDIGENO, TRA I GIOVANI, I CONTADINIE GLI ABITANTI DELLE PERIFERIE URBANE. HANNO PERSOL’APPOGGIO DEGLI AMBIENTI INTELLETTUALI E LA SINISTRAMOSTRA UNA DECISA AVVERSIONE VERSO DI LORO

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    SSono più di un miliardo nel mondo le persone senza ca-sa o alloggiate in condizioni pessime, minacciate da-gli sfratti, perseguitate a causa di guerre, vittime di di-sastri naturali o perché sono migranti, poveri, donne, popo-li discriminati come i Dalit o i rom, popolazioni indigene.Stime internazionali prevedono che entro il 2020 la popo-lazione mondiale in queste condizioni crescerà del 70 percento, arrivando a un miliardo e 700 milioni, mentre le po-litiche urbanistiche continuano a privilegiare gli interessiimmobiliari contro gli interessi della maggioranza, e i go-verni dei paesi poveri continuano a pagare il debito ester-no, come ordinano la Banca mondiale e il Fmi. Questo il qua-dro, dal quale facilmente si evince la ragione per la quale,a partire dal primo Fo-rum sociale mondiale[Fsm] del 2001, i tavolidi lavoro e i seminari suldiritto all’abitare e diconfronto tra i movi-menti di lotta per la ca-sa siano stati semprefortemente presenti. Anche perché il Brasile, luogo di na-scita del Forum, ha anche dato i natali, nel 1997, al Movi-mento dei lavoratori senza tetto [Mtst]. Il movimento deiSem teto è autonomo da quello dei Sem terra, anche se idue hanno stretto una forte alleanza che ne ha rafforzatola presenza in molti paesi dell’America del sud.

    Cambiamo continente, e troviamo un movimento dianaloga ispirazione – battaglia per la casa in un contestopiù generale di lotta sociale – in Sudafrica con il movimen-to Abahlali. In lingua zulu, il nome significa «Quelli che vi-vono nelle baracche» e il movimento [ne parliamo diffu-samente nelle pagine precedenti] è nato alla fine del 2005per protestare contro gli sgomberi indiscriminati delle ba-raccopoli. Restiamo in Africa, per ricordare la vittoria ot-tenuta nel 2004 a Nairobi, in Kenya, dove circa 300 milaabitanti delle baracche minacciati di sfratto a causa delpiano di «ricostruzione» del centro della città, riuscironoa bloccare il progetto.

    Nel 2008, le giornate per il Diritto alla casa senza fron-tiere, organizzate a Madrid dall’Alleanza internazionale de-gli abitanti, che raccoglie una grande quantità di organiz-zazioni territoriali, hanno mostrato quanto endemico sia ilproblema della casa in tutte le aree metropolitane di Ame-rica latina, Africa ed Europa, Russia inclusa. Per queste ra-gioni è stata indetta per il 2011 l’Assemblea mondiale de-

    gli abitanti «che riconosce le proprie radici – si legge nel do-cumento di intenti sottoscritto da più di 350 organizzazio-ni in più di 40 paesi di tutti i continenti - nella Carta deiprincipi del Fsm e si batte per l’unità dei movimenti socia-li urbani». Gli scopi: «Costruire uno spazio comune di incon-tro, globale e solidale, per lo scambio di esperienze, il dibat-tito, la valutazione, la sistematizzazione e l’elaborazione diproposte; uno spazio basato sul riconoscimento della diver-sità culturale e di genere, ma anche di equilibrio e comple-mentarietà, nel rispetto al nostro diritto di organizzarci informa autonoma come movimento urbano internazionale,costruendo insieme la Via Urbana». Il 5 giugno del 2009,dirigenti di organizzazioni sociali urbane, riuniti a Cittàdel Messico, hanno deciso di integrare il Comitato promo-tore dell’Assemblea mondiale degli abitanti 2011, invitan-do altri movimenti sociali urbani e di difesa della terra edell’acqua a fare altrettanto.

    In Italia, il solo grande e unico sciopero generale per lacasa vi fu esattamente quarant’anni fa. Era il novembre del1969 quando, a partire da un quartiere periferico di Mila-no, Quarto Oggiaro, si diffuse una imponente mobilitazio-ne contro gli affitti che coinvolse l’intero paese. Pochi an-ni più tardi, anche il nord Europa venne attraversato da unapotente ondata di contestazione giovanile che dalle occu-pazioni delle case fece derivare una più generale contesta-

    UN MILIARDO DI PERSONE VIVONO IN ALLOGGI PESSIMIO NON HANNO DOVE VIVERE O VENGONO SLOGGIATEIN NOME DELLA RENDITA URBANA. NEL 2020 SARANNOSETTECENTOMILA IN PIÙ. PERCIÒ SI LOTTA NELLE PERIFERIEDELLE METROPOLI DEL SUD, MA ANCHE IN ITALIA

    Movimenti urbanicercano casa.Un fenomeno mondiale DI ANNA PIZZO

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    zione agli stili di vita e alle forme del potere. In quel perio-do, le lotte nelle fabbriche e nelle scuole investono le cittàdove, a causa dei processi migratori degli anni cinquan-ta e sessanta, vive ormai quasi il 50 per cento degli italia-ni e la popolazione nelle aree metropolitane passa in po-co meno di un decennio da 19 a 25 milioni di abitanti.

    Accanto a questo, la contestazione giovanile è anche ilrifiuto della famiglia e quindi la ricerca di luoghi separatie a basso costo. Nasce da questo insieme di elementi la for-ma organizzata dell’occupazione di massa di alloggi sfittie, al tempo stesso, una visione completamente nuova del-la questione urbana e delle lotte sociali, insieme con l’af-fermarsi della coscienza dello sfruttamento anche fuoridalle fabbriche. Gli interessi economici legati alla rendita,ben rappresentati politicamente, sono enormi e lo sciope-ro segnala che il diritto all’abitare non è cosa separata daldiritto al lavoro.

    Dopo quarant’anni, l’emergenza abitativa è oggi anco-ra più drammatica; si sono consumati i processi di derego-lamentazione urbanistici con uno sfruttamento selvaggiodel territorio, la svendita del patrimonio pubblico, e la li-beralizzazione del mercato delle locazioni. Mentre gli scar-si programmi di intervento nell’edilizia pubblica di comu-ni e regioni non sono stati in grado di rispondere ai graviproblemi di disagio abitativo e hanno mostrato il sostan-

    ziale disimpegno dell’istituzione pubblica verso il patrimo-nio pubblico che ha accumulato rilevanti problemi di de-grado che sono aumentati esponenzialmente con la costan-te diminuzione del flusso dei finanziamenti pubblici. Sonooltre 650 mila in Italia le domande inevase per una casa po-polare in affitto mentre il patrimonio in affitto si è eroso atal punto che oggi meno del 20 per cento della popolazio-ne italiana vive in affitto. Ma le politiche di svendita del pa-trimonio pubblico e di incentivazione all’acquisto della pri-ma casa stanno ora provocando, in piena crisi economica,una ulteriore emergenza sociale con un enorme indebita-mento delle famiglie e un incremento esponenziale dei pi-gnoramenti dovuti all’impossibilità di pagare i mutui con-tratti. Il tutto ha portato all’allargamento dell’area dellaprecarietà alloggiativa ed a un impoverimento di strati sem-pre più ampi di popolazione. Sono circa 4 milioni e mezzole famiglie che faticano a pagare l’affitto e spesso non cela fanno a pagare canoni che pesano per il 50 per cento suiredditi. Nel 2008 sono state 140 mila le richieste di sfrat-ti, 53 mila le sentenze e 25 mila le esecuzioni, per altro incontinuo incremento. Si calcola che siano oltre un milionee cinquecento mila le famiglie che in Italia hanno subito unosfratto negli ultimi vent’anni.

    Questo concentrato di emergenze e conflitti precipita, direcente, nella crisi globale rivelando la vera natura del mec-canismo drogato del boom del mattone, la finanziarizzazio-ne dell’edilizia, e dando luogo ai tentativi più strutturati de-gli ultimi venti anni di organizzazioni che lottano per il di-ritto all’abitare. Roma, Palermo, Napoli e Firenze sono lequattro città italiane che più delle altre hanno mostrato lavolontà di intrecciare vertenze locali con questioni globa-li e creare reti tra movimenti, comitati, sindacalismo di ba-se e perfino sindacalismo confederale. Un processo che sta,seppure con difficoltà, sperimentando strade nuove di au-to-rappresentazione, come mostra la legge regionale di ini-ziativa popolare per il diritto all’abitare sulla quale si stan-no raccogliendo le firme nel Lazio. O come il tentativo re-centemente avviato da Carta assieme a urbanisti, comita-ti, rappresentanti delle istituzioni locali, di dar vita a un luo-go permanente di azione e riflessione auto-organizzata,«Democrazia chilometro zero», che ha di recente dato luo-go a un seminario specifico su questo tema dal titolo «Pia-ni casa, territori resistenti».

    ANNA PIZZO redattrice del ma-nifesto fino al 1999, è stata fra l’altrocoordinatrice di redazione di Nauti-lus, inserto mensile di Psichiatria de-mocratica, poi con Rossana Rossan-da di Antigone, la rivista dell’emer-genza. Nel 1999 dà vita con Pierluigi

    Sullo e Marco Calabria a Carta. Sempre attiva nel movimento perla pace sia nel gruppo di continuità del Forum sociale, è dal 2005consigliere regionale nel Lazio [SeL].

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    C ENTOTRENTA SOMMOSSE registrate nel 2008 in 50 pae-si e oltre cinquecento nel 2009 in circa un centinaiodi paesi. La tendenza è chiara: viviamo – su scalamondiale – un periodo di incendi come se ne verificano ognimezzo secolo.

    Il 1848 è stato l’anno in cui la primavera dei popoli ha af-fermato la modernità politica dello Stato e della Nazione.La fine della prima guerra mondiale ha visto il comunismoinstallarsi nel cuore della politica mondiale del ventesimosecolo. «Gli anni 68» hanno in qualche modo chiuso quel ci-clo politico con una radicalità della contestazione che ha in-gannato i più prendendo in prestito il suo vocabolario e isuoi simboli dalle rivoluzioni precedenti. La sequenza chesi è aperta con il ventu-nesimo secolo è singola-re: è politicamente invi-sibile, non fa «evento»,non si inscrive nel-l’agenda politica e intel-lettuale. E la ragione diquesta invisibilità para-dossale è semplice: la sommossa o rivolta si produce og-gi in un vuoto, quello lasciato dal crollo dello spazio di rap-presentazione politica.

    Questo fatto è incontestabile. Coinvolge tutti i paesi e tut-ti i regimi. Inserisce ovunque la rivolta come spazio realedi rapporto della gente e dei poteri sulle questioni più di-verse, sulle quali è venuta meno la possibilità di un dialo-go o di un negoziato. Ovunque, e per la stessa ragione, gliStati si impegnano in un’escalation repressiva. Ovunque lecondanne sono dure, ovunque l’arsenale legislativo e poli-ziesco anti-sommossa si afferma. E’ così che la Cina con-danna a morte nello Xinjiang o costituisce una forza spe-ciale di 600 mila uomini, la Danimarca vota leggi di ecce-zione per timore di disordini al vertice climatico e la Fran-cia militarizza i suoi metodi repressivi.

    Tutte le condizioni si sommano perché questa sequenzasia durevole. Il nostro tempo, quello della mondializzazio-ne, si è aperto con una «battaglia», quella di Seattle. Dieci an-ni dopo, i vertici della Nato, del G20, della Wto, da Strasbur-go a Ginevra passando per Londra, sono sempre segnati dascontri, auto che bruciano e visi coperti. Le fiamme e que-ste figure anonime sono diventate il simbolo del nostro se-colo, l’immagine di un’altra mondializzazione, quella dellacollera, quella di una gioventù stigmatizzata e repressa alpunto che la criminalizzazione dell’uso del passamontagna

    in una manifestazione si diffonde più velocemente della pau-ra dei disordini. Gli anni a venire rischiano di essere caldi,anche perché i principali bersagli della collera sono semprequi e hanno poche probabilità di attenuarsi.

    Quali sono gli argomenti che irritano sotto ogni latitudi-ne? Innanzitutto gli effetti urbani della finanziarizzazionedell’economia. Il peso della rendita finanziaria sulla cittàe su quelli che ci vivono si aggrava ogni giorno di più, contanto di segregazione, di esclusione della popolazione diinteri quartieri. Gli appetiti speculativi sui quartieri popo-lari e perfino sulle bidonvilles hanno scatenato numerosesommosse, dalla Cina all’Algeria, dal Brasile al Sudafrica.

    Ma la rendita urbana non si limita alla rendita fondia-ria. È una rendita sulla vita stessa. Le famose sommossedella fame del 2008 sono state innanzitutto rivolte urbanecontro il carovita, in Egitto, in Senegal come in Guadalupao in Martinica. Molti economisti suonano già il campanel-lo d’allarme. I movimenti speculativi che si possono già os-servare sui mercati dell’alimentare fanno prevedere som-mosse simili nel 2010. È già accaduto nell’isola francese diMayotte nel dicembre 2009. Le «sommosse dell’elettricità»,

    130 SOMMOSSE NEL 2008, OLTRE 500 NEL 2009:LA TENDENZA È CHIARA, VIVIAMO SU SCALA MONDIALEUN PERIODO DI INCENDI SOCIALI. CHE NASCONOINNANZITUTTO DAGLI EFFETTI DELLA FINANZIARIZZAZIONEDELL’ECONOMIA NELLE CITTÀ: IL PESO DELLA RENDITA

    Ogni mezzo secolodivampa un incendio. Adesso ci siamoDI ALAIN BERTHO

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    conseguenza di distacchi dalla rete per morosità nei quar-tieri popolari sono state numerose, negli ultimi anni, inAmerica latina, in Africa, in Asia, in particolare in Pakistan.

    Non c’è alcuna ragione di annunciarne la scomparsa. Congli effetti del riscaldamento climatico, sono oramai semprepiù sostituite da rivolte per l’acqua, come quella che hascosso Mumbai nel dicembre del 2009. Perfino i conflitti so-ciali più classici sono oggi marchiati almeno dai simboli del-la sommossa [il fuoco, i passamontagna, i blocchi stradali]

    se non dal suo modus operandi. Nel 2009 ci sono state al-cune grandi sommosse operaie nel mondo, in Cina, in Co-rea, in Bangladesh, in Spagna, in Argentina. Oltre al crol-lo dello spazio della rappresentazione politica, quello checollega queste collere multiple è da cercare da due lati: lagestione statale della mondializzazione e la paura mondia-le della gioventù.

    Gli Stati nazionali che gestiscono di fatto, localmente,la mondializzazione capitalista e finanziaria, hanno tut-

    ti, più o meno, un problema di legittimità neiconfronti della popolazione. La tendenza piùgenerale è di restaurare questa legittimità sul-la paura dell’altro. Lo Stato della mondializza-zione cerca la sua forza non utilizzando una im-magine della Nazione ampia, aperta e inclusiva,ma sulla sua capacità a definire la Nazione inmodo stretto, nella sua capacità a escludere.

    Ognuno lo fa a modo suo: il dibattito sull’«ivo-rietà» in Costa d’Avorio ha aperto la strada allaguerra civile, il dibattito sull’identità naziona-le in Francia è una macchina ideologica contro

    ALAIN BERTHO È professore di antropologia al-l’università Parigi 8 Saint-Denis ed è anche, fra l’altro, di-rettore de l’Ecole doctorale Sciences Sociales. Gestisceil sito internet www.berthoalain.wordpress.com attra-verso cui racconta e censisce le mobilitazioni globali. Ilsuo ultimo libro è «Il tempo delle sommosse», pubblica-to in Francia lo scorso primo ottobre per le edizioni Ba-yard. Ogni settimana, Bertho cura su Carta la rubricaBanlieues.

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    Ora è possibile abbonarsi a Carta edizione pdf: ogni settimana l’intero giornale scaricabile da inter-net, con un giorno di anticipo sull’uscita in edicola dell’edizione stampata. L’abbonamento annua-le [46 numeri] costa solo 50 euro, ma se volete un assaggio c’è anche il semestrale [23 numeri], a 30euro. Aggiungere all’abbonamento cartaceo quello al pdf costa 10 euro in più: 130. Per chi fa l’ab-bonamento biennale [200 euro], il pdf è gratis. Chi è attualmente abbonato può chiedere via mail l’ac-cesso al pdf e riceverà le chiavi di accesso: il pdf sarà in regalo fino alla scadenza dell’abbonamento.

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  • gli stranieri, i discendenti di stranieri e l’islam. Questa ten-denza è così generale che le eccezioni fanno rumore. È chia-ro che la vittoria di Obama è stata resa possibile da un pro-getto nazionale inclusivo e sulla promessa di prendere tut-ti in carico. Il sentimento nazionale brasiliano è dello stes-so genere. Ma si tratta di eccezioni. E le sommosse sono quimeno numerose e meno gravi che altrove.

    Questa nuova forma di governo che viene chiamata«governance», un misto di disprezzo, di burocrazia e di au-toritarismo che istituisce una distanza tra lo Stato e lagente, è profondamente generatrice di sommosse. Lasommossa, in qualche modo, è una specie di specchio del-lo Stato. Può perfino essere il suo doppio, quando questa lo-gica di paura e di rigetto è talmente affermata che chi par-tecipa alle rivolte non se la prende più con i simboli dell’au-torità ma con la vita del vicino, dell’altro, dello straniero.Si assiste allora alle scene di pogrom che si sono verifica-te in Sudafrica nel 2008, nello Xinjiang in Cina quest’annoo ad Algeri [contro i cinesi].

    L’altro motore incontestabile della sommossa è losguardo che gli Stati, e i responsabili politici, hanno sui gio-vani. Il fallimento delle rivoluzioni del ventesimo secolo ela minaccia climatica hanno in certo modo abolito ogni rap-presentazione positiva del futuro. La gioventù non vienepiù vista come il futuro del mondo ma come una minacciaper il mondo di oggi. Il discorso e le pratiche repressive e di-sciplinate spesso hanno vinto sul discorso e le pratiche edu-cative, la paura prevale sulla fiducia, la diffidenza sulla be-nevolenza. In questo clima generale è talvolta il drammaquello che si incontra alla fine, le morti violente in cui so-no – in un modo o nell’altro – coinvolte le forze dell’ordine.E la rivolta è immediata. In Francia nel 2005 come in Gre-

    cia nel 2008. E il ricordo brucia nonostante gli anni che pas-sano. Tredici sommosse nel mondo, nel 2008, dopo la mor-te di un giovane in simili circostanze, il doppio nel 2009.Quante nel 2010?

    Nel frattempo, ovunque, i giovani scolarizzati affronta-no il potere con violenza, in India come in Venezuela, in Co-lombia come in Italia, in Francia come in Cina, in Kenya co-me in Grecia, in Iran come in Senegal. È questa stessa gio-ventù che forma i battaglioni più duri dei disordini nel cor-so delle manifestazioni altermondialiste. Ma non ingannia-moci: la crescita della collera non prepara alcuna rivoluzio-ne. I fantasmi nostalgici non sono utili. La speranza di un«domani che canta» dopo la «presa del Palazzo d’inverno»è irresponsabile tanto quanto il timore del «complotto sov-versivo» è imbecille. Attraverso i gesti, attraverso i corpi,attraverso la messa in pericolo di sé, è la sofferenza chetenta ovunque di dirsi, in mancanza della possibilità diparlare veramente. Ed è questa sofferenza che gli Stati re-primono con una ferocia crescente.

    Gli anni di fuoco che si annunciano rischiano di brucia-re tanto i popoli quanto il potere. L’urgenza è quindi di ab-bandonare i dibattiti bizantini che agitano ancora gli spa-zi del potere [di quelli che l’hanno e di quelli che lo voglio-no] e dove sprofondano ovunque le forze politiche tradi-zionali, e di far emergere una nuova forma della politicacapace di portare la parola collettiva che manca così tan-to oggi. I Forum sociali di cui festeggiamo il decimo anni-versario, il movimento zapatista, il movimento AbahlalibaseMjondolo sono probabilmente frammenti di questanuova forma della politica. Ma ne siamo ancora ben lon-tani, e la brutalità dello scontro ha ancora momenti di glo-ria davanti a sé.

    LA FORMA DI GOVERNO CHIAMATA «GOVERNANCE»,UN MISTO DI DISPREZZO, BUROCRAZIA E AUTORITARISMOCHE SI BASA SULLA DIFFUSIONE DELLA PAURA DELL’ALTRO,ISTITUISCE UNA DISTANZA TRA LO STATO E LA GENTEED È LA CAUSA PROFONDA DELLE RIVOLTE POPOLARI

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    N EGLI ULTIMI VENTI ANNI ho avuto la possibilità di vi-sitare molti e diversi angoli dell’America latina. So-no luoghi dove «los de abajo», quelli in basso - unampio ed eterogeneo insieme di persone che include tutti, esoprattutto tutte, coloro che subiscono oppressione, umi-liazione, sfruttamento, violenze, emarginazioni - sono im-pegnati a trasformare le proprie iniziative collettive perla sopravvivenza in spazi per resistere al sistema dominan-te. Ho potuto così conoscere alcune esperienze notevoli econdividere con i protagonisti di quelle esperienze i modie le forme con cui costruiscono le loro vite quotidiane. Hoavuto inoltre la fortuna di poter approfondire quel che hocondiviso lì attraverso un’abbondante bibliografia.

    Quel che ho appresoinsieme a quei collettivimi ha confermato che inAmerica latina, nel vivodelle resistenze de «losde abajo», si sono anda-ti formando «territorialtri», diversi da quellidel capitale e delle multinazionali, territori che nasco-no, crescono e si espandono nei molteplici spazi delle no-stre società. Si potrebbe obiettare, certo, che le forme di co-struzione dei movimenti indigeni nelle aree in cui abitanoda secoli, non possono essere paragonate con le esperien-ze urbane dei settori popolari. Le differenze tra gli uni e glialtri sono evidenti, cominciando dal semplice fatto che lapresenza dello Stato in quei luoghi è debole, cosa che faci-lita l’esistenza di forme di vita eterogenee. Eppure non pos-siamo trascurare che le esperienze di quei settori spesso s’in-trecciano e che in frequenti occasioni tendono a prenderestrade se non identiche, almeno simili.

    Le esperienze educative, ancorate al bilinguismo, le cu-re della salute sulla base di saperi ancestrali, il rinnovamen-to e il riconoscimento della giustizia e di forme di potere ba-sate sulle tradizioni comunitarie, possono servire a confer-mare le inesorabili diversità tra il mondo rurale indigenoe quello urbano popolare. È certo che tra gli indigeni del con-tinente latinoamericano sopravvivono e si sono ricreati tra-dizioni differenti da quelle che vediamo nei settori popo-lari urbani, la stessa lingua ne è un esempio lampante.

    Eppure, è altrettanto certo che i settori popolari sono por-tatori di relazioni sociali diverse da quelle egemoniche, seb-bene non assimilabili a quelle degli indigeni. Non è peròattraverso studi di carattere sociologico o antropologico che

    potremo sviscerare il carattere di quelle differenze. I popo-li, le loro culture e le loro cosmovisioni, non possono esse-re compresi a partire da metodologie di carattere scienti-fico, cioè soltanto con studi quantitativi e strutturali. Nonsi tratta di misurare le differenze ma di comprenderle attra-verso il loro dispiegamento e il loro rendersi visibili, attra-verso le tracce e le realizzazioni concrete che vanno lascian-do scie e impronte, materiali e simboliche.

    Resto fermamente convinto che, come suggerisce Ja-mes Scott, «los de abajo» hanno progetti strategici che nonformulano in modo esplicito, o almeno non lo fanno at-traverso i codici e i modi praticati dalla società egemo-nica. Investigare questi progetti presuppone, in sostanza,la necessità di combinare uno sguardo di lungo periodo conparticolare risalto ai processi sotterranei, sulle forme di re-sistenza di scarsa visibilità che però anticipano il mondonuovo che los de abajo stanno tessendo nella penombra del-la loro quotidianità. Serve uno sguardo capace di posarsisulle piccole azioni con lo stesso rigore e interesse che esi-gono le azioni più visibili e notevoli, quelle che di solito «fan-no storia».

    Uno sguardo di lungo periodo, perché è solo nel lungo pe-riodo che si dispiega il progetto strategico de «los de aba-jo», non come un programma definito e delimitato ma attra-verso grandi tratti che muovono in una determinata dire-

    CERTO SONO DIVERSI DAGLI INDIGENI, GLI ABITANTIDELLE FAVELAS O DELLE VILLAS DEI POVERI URBANI.MA ANCHE LORO STANNO CREANDO LIBERAZIONE,IN MODI INEDITI E SENZA UNA LINGUA PER DIRLO.L’INTRODUZIONE DEL NUOVO LIBRO DI RAÚL ZIBECHI

    Territori in movimentoin America latina.Fuori dal capitaleDI RAÚL ZIBECHI

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    zione. Quella direzione, in America latina, ci parla di crea-zione di territori, un tratto distintivo dei movimenti socia-li e politici rispetto a quel che accade ad altre latitudini. Con-temporaneamente, nel lungo periodo si possono rendere vi-sibili i risvolti interni – una chiave di volta per compren-dere i progetti di questi popoli – che risultano invisibili al-l’osservatore esterno a causa delle coperture esteriori e su-perficiali che li occultano.

    Malgrado i territori dei movimenti aprano nuove pos-sibilità per il cambiamento sociale, essi non rappresentanoalcuna garanzia di una trasformazione liberatrice. Nelle pe-riferie urbane di molte città latinoamericane, ho visto in-sieme territori con forme di vita molto eterogenee: terri-tori della complessità e della diversità, della costruzio-ne di relazioni sociali orizzontali e di emancipazione e ter-ritori in cui la dominazione veste le volgari sembianzedella militarizzazione verticale ed escludente. Passare daun quartiere a un altro, attraversando appena un viale, puòrappresentare un brusco cambiamento tra la dominazionee la speranza.

    Come ogni creazione di emancipazione, i territori ur-bani sono sottoposti, tra le altre cose, al logoramento ine-ludibile del mercato capitalista, alla concorrenza distrut-tiva della cultura dominante, alla violenza, al maschilismo,al consumo di massa e all’individualismo. I territori dei set-

    tori popolari urbani sono nati e tentano di crescere nel nu-cleo più duro della dominazione del capitale, nelle grandicittà che sono sede naturale delle vecchie e nuove formedi controllo sociale e che contribuiscono a lubrificare l’ac-cumulazione del capitale.

    In effetti, sia per la via repressiva che per la interiorizza-zione della cultura neoliberista, questi territori sono statiperseguitati fin dalla nascita, più o meno quattro decennifa, in tutte le periferie urbane del continente. Con il tem-po, stanno apprendendo a fronteggiare questo insieme diavversità, a volte perfino smobilitando alcuni dei loro pro-getti più cari, come raccontano ad esempio i partecipanti alMovimento Social Dignidad di Cipolletti, la città della pro-vincia argentina di Rio Negro, nella Patagonia settentrio-nale. Per non restare intrappolati nella logica identita-ria del capitale, capace di divorare tutto ciò che si conge-la malgrado sia stato creato con pratiche di emancipazio-ne, i disoccupati organizzati di quella città hanno decisodi sciogliere, o meglio di sospendere per un certo tempo,attività produttive come la panetteria e la fabbrica di mat-toni, attività che pure fornivano loro buone entrate.

    Per continuare ad avanzare, per cominciare a lavorarecon coloro che hanno più necessità di movimento – adole-scenti, bambini e bambine vittime della povertà – si sonovisti costretti a rimettere in discussione tutto quel che sta-vano facendo. Lo hanno fatto per aprire uno spazio nelle lo-ro anime e nei loro corpi, come avrebbe detto il poeta spa-gnolo León Felipe.

    I territori urbani dove hanno messo radici i movimentiche lavorano per l’emancipazione stanno soffrendo nuovie inaspettati assalti da parte di agenti spesso nati nel senodegli stessi movimenti. Si tratta di un processo che si puòdatare nella decade degli anni novanta del secolo scorso conl’accesso ai governi municipali di forze della sinistra co-me il Pt in Brasile, il Frente Amplio in Uruguay e altre for-ze della sinistra in parecchie altre città latinoamericane.Con la parola d’ordine del «decentramento partecipativo»si sono messi in marcia progetti come il Bilancio partecipa-tivo a Porto Alegre e in altre città brasiliane, esperienze chehanno avuto nomi e protagonisti diversi ma caratteristichesimili in altre città.

    Dal punto di vista dei settori popolari organizzati in mo-vimenti, queste esperienze non si sono rivelate felici, han-

    RAÚL ZIBECHI Scrittore, giorna-lista uruguaiano, collaboratore di Car-ta. Vive a Montevideo, dove è capore-dattore del settimanale Brecha e do-cente della Multiversidad franciscanade America latina. Ha vinto il premioJosé Martí per il giornalismo. Ha pub-

    blicato, anche in italiano, libri sugli zapatisti e sui movimenti socia-li e indigeni:tra cui «Genealogia della rivolta», [Luca Sossella edito-re, 2003] e «Disperdere il potere» [Carta/IntraMoenia]

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    no infatti prodotto la di-sarticolazione di tuttoun gruppo di organiz-zazioni popolari, a prescindere dalla volontà dei loro pro-motori.

    Il problema che affronta il dominio in America latina èche negli ultimi decenni le popolazioni si sollevano e in-sorgono, e, a partire dal Caracazo del 1989, lo fanno in mo-do regolare. Il panopticon [il progetto architettonico delXVIII secolo che riorganizzava lo spazio di una prigione pre-vedendo un solo posto di sorveglianza centrale da cui si po-tevano controllare tutte le celle, ndt] si è fatto arcaico. Seb-bene continui a funzionare, non è più il mezzo fondamen-tale di controllo. Ciò che si richiede per governare grandicentri abitati che cambiano e cercano il cambiamento so-no forme di controllo a distanza, più sofisticate, che lavori-no in relazione di immanenza rispetto alla società. E perquesto tipo di controllo i movimenti possono giocare un ruo-lo fondamentale. C’è la necessità che i movimenti faccia-no la loro parte, non serve reprimerli o emarginarli.

    Possiamo dire che gli stati che dirigono Lula [Brasile], Ta-baré Vazquez [Uruguay] o Cristina Fernández [Argentina],per fare gli esempi più ovvi ma non gli unici, sono figli del-l’arte di governare. Non siamo più al welfare state o ai pre-cedenti stati neoliberisti, abbiamo di fronte qualcosa diinedito, qualcosa che sulla base della fragilità ereditatadal modello neoliberista cerca di sviluppare nuove artiper restare in piedi, per dotarsi di maggior legittimità eassicurare una sopravvivenza sempre minacciata.

    Nelle favelas del Brasile, nelle villas dell’Argentina e ne-gli insediamenti dell’Uruguay, gli attivisti sociali non so-no più soli. Alcuni decenni fa, lo Stato compariva solo con

    l’uniforme della poliziao dei militari, oppure at-traverso caudillos pa-

    triarcali oggi in decadenza. Adesso lo Stato ha riconosciu-to il ruolo del territorio e dei movimenti territoriali. E, daparte loro, i movimenti riconoscono un nuovo ruolo allo Sta-to. Insieme, a partire da questo riconoscimento, Stato e mo-vimenti stanno creando qualcosa di nuovo: le nuove formedi dominazione. È un cambiamento di lungo periodo, desti-nato a introdurre un potente cuneo statale nelle periferieurbane. Non si tratta più di uno Stato puramente repres-sivo ma di qualcosa di più complesso e «partecipativo» chetuttavia persegue lo stesso fine: prepararsi in tempo a ciòche potrebbe succedere, cioè «evitare la rivoluzione». Èuno Stato capillare, quello attuale, perché grazie all’artedi governare ha permeato i territori della povertà con mol-ta più efficienza che non i caudillos clientelari del periodoneoliberista. Quei caudillos agivano in modo verticale e au-toritario, e pertanto potevano sempre essere spodestati, era-no insomma destinati ad essere superati.

    Stiamo transitando verso nuove forme di dominazione.Importa poco che vengano sostenute da forze politiche chesi proclamano di sinistra, perché le nuove arti del governa-re le oltrepassano e a volte le includono. Non sono le sinistread essersi proposte questo progetto, ma ad esse è toccato go-vernare in un periodo in cui sorgono nuove governabilità.In altre parti del mondo, ad esempio in Iraq, alcune di que-ste «arti» le praticano le truppe di occupazione degli Usa.Qui, tuttavia, non ci interessa il «chi» ma il «come».

    Quel che è in gioco è la sopravvivenza stessa dei movi-menti, e quella dei loro territori come potenziale spazio diemancipazione. Nella misura in cui le nuove forme del go-

    NELLE PERIFERIE DELL’AMERICA LATINA SI SPERIMENTANONUOVE FORME DELLA DOMINAZIONE: NON PIÙ LE DIVISEDI POLIZIOTTI E MILITARI, O CAUDILLOS CLIENTELARI,MA IL RICONOSCIMENTO «PARTECIPATIVO» DEL RUOLODEI MOVIMENTI SOCIALI: UNO STATO CAPILLARE

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    vernare, che in genere sono sperimentate prima a scala mu-nicipale, disarticolano i movimenti sociali, esse possono es-sere considerate parte dell’arsenale antisovversivo degliStati. Affrontare e superare questa sfida significa passare,tra le altre cose, per la comprensione di ciò che sta cambian-do, assumere le nuove forme di dominazione biopolitica benoltre il problema di chi le fa circolare. Che siano le sinistrea essere incaricate di farlo, non dovrebbe comunque sor-prendere: il panopticon è stato una creazione della Rivo-luzione francese per affrontare le sfide che poneva la cadu-ta dell’ancien régime.

    Le parole e i concetti che abitualmente maneggiamo perdescrivere e comprendere le nostre realtà sembrano dun-que ora inadeguati e insufficienti a interpretare e ad accom-pagnare le società in movimento. È come se la capacità dinominare le cose fosse rimasta intrappolata in un periodosuperato dalla vita attiva delle nostre popolazioni. Buonaparte delle ipotesi e delle analisi con la quale siamo cre-sciuti e ci siamo formati, noi che abbiamo partecipato alciclo di lotte degli anni sessanta e settanta del Novecen-to, si sono trasformate, parafrasando Braudel, in «prigio-ni di lunga durata». Spesso esse abbassano la capacità crea-tiva e ci condannano a riprodurre il già noto e sconfitto. Unnuovo linguaggio, capace di dire qualcosa su relazioni e mo-vimenti, deve aprirsi la strada nel groviglio di concetti crea-ti per analizzare strutture e scheletri organizzativi.

    Mancano espressioni capaci di captare ciò che è effime-ro, i flussi invisibili allo sguardo verticale, lineare, dellanostra cultura maschile, saccente e razionale. Quel lin-guaggio ancora non esiste, dobbiamo inventarlo nell’am-bito delle resistenze e delle creazioni collettive. O, meglio,dobbiamo assorbirlo dal sottosuolo della socialità popola-re perché si espanda verso gli ampi viali in cui possa ren-dersi visibile e, così, essere adottato, alterato e rimodel-lato dalle società in movimento. Abbiamo bisogno, infi-ne, di poterci chiamare in modo tale da essere fedeli allospirito dei nostri movimenti, capaci di trasformare la pau-ra e la povertà in luce.

    E dobbiamo essere capaci di pensare e vivere in movi-mento, come credo suggeriscano i compagni di Cipolletti.Perché quelli che stanno peggio, nelle nostre società, quel-

    li che, secondo Marx, non hanno da perdere che le propriecatene, per esistere, per scongiurare la morte e l’oblio, de-vono muovere se stessi, spostarsi dal luogo che gli è stato as-segnato. In movimento, sempre, perché fermarsi significacadere nell’abisso della negazione, cessare di esistere.

    In questa tappa del capitalismo, le nostre «società al-tre» possono esistere solo in movimento, come ci hannomostrato bene le comunità zapatiste, gli indigeni di tut-te le Americhe, i contadini senza terra e, sempre di più, idannati delle periferie urbane. Il doppio movimento, la ro-tazione sul proprio asse e lo spostamento sul piano, sono idue modi complementari di intendere il cambiamento so-ciale: spostamento e ritorno. In effetti, non basta muover-si, spostarsi dal luogo materiale e simbolico che ci viene as-segnato; serve forse un movimento come la danza, circo-lare, capace di perforare l’epidermide di una identità chenon si lascia acciuffare perché ogni giro la riconfigura.

    Il movimento, come immagine della società altra, è, se-guendo il filosofo, la scommessa dell’intensità [flusso o mo-vimento] di fronte alla rappresentazione; sempre destina-ta a sacrificare il movimento sull’altare dell’ordine. Qual-siasi ordine. La trottola del cambiamento sociale sta dan-zando, da sola. Non sappiamo né per quanto tempo né ver-so dove. La tentazione di darle una spinta per accelerare ilritmo potrebbe fermarla, ben oltre la miglior intenzionedi chi pretenda di «aiutare». Forse, la miglior cosa da fare peraiutare la danza è immaginare che siamo noi stessi parte delmovimento-zumbayllu1; girando, danzando, tutti e ognu-no. Essere parte, senza pretendere di avere il controllo deldestino finale.

    * Questo articolo è l’introduzione al libro«Territori in movimento», di prossima uscita per Carta.

    Note1] Il termine quechua yllu è un'onomatopea. Yllu rappresenta in una

    delle sue accezioni la musica che producono le piccole ali in vo-lo, il riferimento nel testo di Zibechi è tratto da un brano del ro-manzo «I fiumi profondi», del grande scrittore peruviano José Ma-ría Arguedas in cui un ragazzo porta tra i compagni una piccolatrottola di legno legata con uno spago, il cui movimento produceil tipico ronzio delle ali di un insetto.

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    N EL GIUGNO DEL 1999 LA BANCA MONDIALE pubblicò undocumento sulla situazione dell’acqua di Cocha-bamba, raccomandando al governo boliviano di nonalzare i prezzi dell’acqua per uso umano. Il governo raccol-se l’invito della Banca mondiale alla privatizzazione del-l’amministrazione del servizio, mentre nello stesso tem-po veniva promulgata – nell’ottobre dello stesso anno – lalegge 2029, la Ley de servicios básicos, la legge sulle acquee le fognature, che eliminava qualsiasi garanzia nella distri-buzione dell’acqua nelle zone rurali. L’acqua nelle cam-pagne boliviane viene considerata sacra. È infatti stretta-mente legata a credenze ancestrali e continua a essere am-ministrata secondo usi e costumi antichissimi, in manieraidentica ai tempi prein-caici. Dunque, la legge2029 andava in nettacontrapposizione contutto questo, arrivandofino alla proibizione peri contadini di raccoglie-re la pioggia con i serba-toi. Inoltre, elargiva la concessione delle fonti alle impre-se private per 40 anni. Ai contadini fu proibito scavare i pro-pri pozzi. Infine, «dollarizzava» le tariffe, aumentando ledifficoltà economiche dei boliviani.

    Nella città di Cochabamba, solo la metà dei cittadini so-no connessi al sistema centrale della distribuzione dell’ac-qua, mentre l’altra metà gestisce l’acqua attraverso coo-perative: questo, per andare incontro alla mancanza di in-frastrutture e sovvenzioni da parte dello Stato. In altriquartieri ancora, la gente si serve con le autobotti, pagan-do l’acqua a litro. La 2029 proibiva perfino questo, impo-nendo la supremazia delle imprese private anche nella di-stribuzione. In sostanza, venivano decapitati tutti i siste-mi di gestione autonoma dell’acqua, che sempre avevanocaratterizzato Cochabamba, che dovevano passare alle im-prese private gratuitamente. Anche i pozzi privati. Chi neaveva uno in casa, usato regolarmente, da un giorno all’al-tro si trovava a dover pagare un privato per lo stesso poz-zo di sempre, altrimenti veniva tappato. Il governo firmòun contratto con l’impresa privata Aguas del Tunari nel set-tembre dello stesso anno, un mese prima dell’approvazio-ne della legge. Aguas del Tunari era un consorzio che a suavolta includeva l’inglese International Water e la spagno-la Abengoa, oltre ad altre tre o quattro imprese boliviane.International Water era associata a sua volta con la statu-

    nitense Bechtel. Per noi boliviani dunque, Aguas del Tuna-ri era una specie di fantasma con sede alle Isole Cayman.

    La privatizzazione dell’acqua a Cochabamba non era laprima del paese e la 2029 non era la prima legge che favo-riva questo tipo di accordi. In Bolivia, come nel resto delcontinente latinoamericano, dal 1985 aveva preso piede ilmodello economico neoliberista come una forma di suppor-to alle forze reazionarie che, raggruppate nelle impresemultinazionali più potenti del mondo, cercavano – e cer-cano – di accaparrarsi lo sfruttamento delle nostre risor-se naturali. Durante quell’anno, il governo del presidenteVíctor Paz Estenssoro promulgó il famoso Decreto 21060,più noto come la Nuova Politica Economica [Npe] e granparte delle imprese vennero privatizzate.

    Da questo punto in poi, vennero messi in atto una seriedi profondi cambiamenti strutturali nei settori dell’econo-mia nazionale. L’obiettivo ufficiale del decreto era quello diarginare l’inflazione, cosa che avvenne. Nello stesso tem-po però, il 21060 aveva una veste politica finalizzata a di-sarticolare i sindacati ed a privatizzare le imprese statali.Fino al 1985 in Bolivia esisteva uno dei movimenti sinda-cali più forti dell’America latina, ben connesso con la strut-tura statale. Nel 1985 queste imprese fornivano il 60 percento degli impieghi su tutto il territorio nazionale. Esiste-vano parecchie imprese statali forti, come quella petroli-

    CRONACA DI UN EVENTO CHE, INIZIATO PRIMA DI SEATTLEE TERMINATO NEI MESI SUCCESSIVI, MERAVIGLIÒIL MONDO INTERO: UNA CITTÀ BOLIVIANA SI SOLLEVAPER DIFENDERE LA SUA ACQUA DALLE MULTINAZIONALI.È LA DATA DI NASCITA DI UN MOVIMENTO GLOBALE

    Lo stesso anno di Seattle.I mesi in cui Cochabamba riconquistò l’acquaDI OSCAR OLIVERA

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    fera. Ma anche fabbriche, imprese di telecomunicazione,ferrovie, aereoplani. Quattro miniere producevano il 25 percento delle entrate del governo. Per questa ragione, le or-ganizzazioni minerarie erano le più forti ed avevano gran-de peso politico. La strategia del governo per disarticolareil movimento operaio consistette dunque nel ripartire in-centivi ai minatori perché si ritirassero volontariamente dalproprio lavoro così da poter privatizzare le miniere

    L’obiettivo delle agenzie finanziarie è quello di spreme-re i paesi poveri, e ce l’hanno fatta. All’inizio degli anni no-vanta i paesi poveri inviavano più di 4 miliardi di dollari almese ai propri creditori solo per pagare gli interessi del de-bito estero. Con il pagamento del debito stesso, stiamo par-lando di 12.500 milioni di dollari al mese.

    Il 70 per cento del debito estero fu contratto fra il 1985e il 1999 , ovvero durante l’egemonia di quei partiti chepromuovendo a spada tratta la politica neoliberista, ciavevano indebitati come mai nessuna dittatura prima.

    Il debito ha avuto effetti devastanti anche da punti di vi-sta non economici. La Nuova Politica Economia [Npe] ave-va avviato un processo di accumulazione che a sua volta hapreteso una trasformazione profonda delle strutture eco-nomiche, sociali e politiche del paese. Tutto per essere un«paese vivibile». Cioè per pagare il debito estero.

    I risultati del debito estero sono ben connessi alla per-

    dita totale della propria sovranità. Noi non potevamo, co-me boliviani, aprire bocca su come erano gestite le faccen-de in casa nostra. Le banche esigono tagli ai servizi socia-li come prassi per rientrare nel bilancio della spesa pubbli-ca. L’obbligo di esportare le nostre materie prime era la ba-se per le entrate della valuta: la svalutazione delle risora-se naturali; la «modernizzazione delle relazioni lavorative»– che in concreto significa flessibilità – diventano condizio-ni necessaria per attrarre nuovi finanziatori.

    Le elezioni presidenziali del 1997 permisero il ritorno alpotere dell’ex dittatore Hugo Banzer Suárez. Banzer era sa-lito al potere nel 1971 grazie ad un golpe militare. Sotto ilsuo regime il debito estero era triplicato. Durante la secon-da amministrazione Banzer, nonostante le sue evidenti in-tenzioni di rimettere in sesto la propria reputazione e as-sicurarsi una rendita per la vita, il livello della qualità del-la vita dei boliviani scese ancora più in basso. La crisi eco-nomica che si sviluppò nel corso del mandato di Banzer di-venne lo scenario della Guerra dell’Acqua.

    Fino al 1997 la mano d’opera, a Cochabamba, veniva uti-lizzata attorno al 65 per cento, nel 1999 faticava ad arriva-re al 48. Questo significa che c’erano state perdite massic-ce. E questo dato parla solo di quelli che in effetti avevanoun contratto, ma non include le centinaia di lavoratori –donne, uomini e bambini – delle botteghe di scarpe, adesempio, o di quelle dei vestiti tradizionali fatti a mano.Centinaia di migliaia di disoccupati si convertirono in unasacca di senza diritti disposti a tutto pur di lavorare. Co-loro che invece avevano avuto la forza di mantenere ilproprio lavoro, si ritrovarono in condizioni assoluta pre-carietà. Le industrie multinazionali continuarono a portar-si via le risorse dei boliviani, nonostante le promesse di Hu-go Banzer che si era impegnato, durante la sua campagnaelettorale, a tenere sotto controllo le politiche privatizza-trici dell’allora ministro [e poi futuro Presidente] GonzaloSánchez de Lozada. Lo stato boliviano si convertì in sem-plice spettatore del «gran capitale», lasciando la libertà disfruttare, acquisire, i ricavati delle risorse boliviane.

    L’organizzazione della Guerra dell’Acqua cominciò effet-tivamente cinque anni prima della privatizzazione del ser-vizio idrico di Cochabamba. Quando cominciammo, l’acquanon era una nostra priorità. In realtà, la Coordinadora ini-ziò come un tentativo di ricostruire le reti e il tessuto socia-

    OSCAR OLIVERA Segretario delsindacato operaio di Cochabamba e por-tavoce della Coordinadora in difesa del-l’acqua e la vita. È un punto di riferimen-to dei movimenti internazionali che sibattono per la difesa dei beni comuni.Ha ricevuto nel 2002 il premio Goldman

    [il cosiddetto «Nobel per l’ecologia»]. Con i proventi ha finanziatola nascita della Fundación Abril, che si occupa a Cochabamba dicooperazione internazionale sull’acqua e sui diritti dei lavoratori.

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    le che era stato distrutto dal neoliberismo. Insieme ad al-tri dirigenti sindacali tentammo di affrontare il problemasindacale e la problematica degli operai, in particolare percapire la situazione dei lavoratori precari e subordinati,quel nuovo mondo del lavoro che ancora oggi non è visibi-le. Cominciammo a scoprire che esisteva un mondo invisi-bile, di gente che viveva in condizioni realmente gravi, sen-za diritti minimi di orario, di salario dignitoso e di sicurez-za dei contratti. Nelle stesse fabbriche c’era un mondo pa-rallelo al nostro, un mondo di lavoratori precari e senzadiritti, di giovani che la maggior parte di noi vedeva co-me avversari sul posto di lavoro.

    La Federazione dei fabriles cominciò ad essere il referen-te anche di altri settori della società: mi ricordo del sinda-cato di polizia, i cui appartenenti erano stati cacciati dal lo-ro posto di lavoro per ordine dell’ambasciata degli Stati uni-ti. Per noi era difficile appoggiarli, perché per i cocaleros [icoltivatori di coca, ndt] quella era gente che si occupava del-la repressione. Ma allo stesso tempo erano lavoratori ai qua-li erano stati violati i propri diritti, e per di più dagli statu-nitensi! Verso la fine dell’ottobre del 1999, un gruppo di re-gantes venne a parlare con noi: «Voi siete brave persone.Ma c’è un diritto fondamentale che ci stanno togliendo, edè il diritto all’acqua.Ampliate il vostro oriz-zonte per difendere ildiritto alla vita».

    [...] Un giorno fummochiamati dai regantesper partecipare adun’importante riunio-ne, durante la quale venne fondata una Coordinadora in di-fesa dell’acqua. Un contadino disse: «Che non sia solo perl’acqua, ma anche per la vita, perché qui ci stanno toglien-do tutto». Visto che noi avevamo una sede più o meno ac-cettabile per poter lavorare e riunirci, uno spazio dove ci sipoteva incontrare, proponemmo alla Coordinadora di riu-nirsi presso la Federazione dei fabriles. In una di queste riu-nioni, quelli di «Pueblo en Marcha» ci spiegarono nel det-taglio la legge sull’acqua: comprendemmo così che il siste-ma di distribuzione dell’acqua potabile dei nostri quartie-ri stava per essere danneggiato, che le tariffe sarebbero au-mentate e l’acqua sarebbe stata confiscata.

    Il 12 novembre del 1999 naque ufficialmente la Coordi-nadora, in concomitanza con la firma del contratto conAguas del Tunari. Così cominciarono le mobilitazioni.

    Come «padrone di casa» all’interno della Federazione,iniziai a coordinare le riunioni e le assemblee, a convoca-re gli incontri e fare i comunicati. La gente iniziò a stare connoi, e convocammo una prima mobilitazione con i lavora-tori della città ed i contadini - visto che il 40 per cento del-l’acqua che si consumava a Cochabamba proveniva da poz-zi per l’irrigazione e questo problema storicamente ci ave-va messo sempre gli uni contro gli altri. Non pensavamo divedere una mobilitazione tanto grande. Risposero 10 milapersone, vennero comitati per l’acqua, gente che non face-

    va parte del movimento sindacale, i regantes, gli abitantidei quartieri, la gente della città che iniziava a credere innoi, e ancora di più, in un ideale: capivano che qualcunoiniziava a dire la verità.

    Durante la manifestazione, che si trasformò in una gran-de assemblea aperta, si decise di dare un ultimatum al go-verno, l’11 gennaio del 2000, per rispondere concretamen-te alle nostre richieste: no al contratto con Aguas del Tuna-ri, no alla legge sull’acqua potabile e no all’aumento delletariffe.

    Arrivò l’11 di gennaio, e circolò la notizia che se il gover-no non avesse dato una pronta risposta, si sarebbe inizia-to un blocco delle strade. Il 13 di gennaio, il governo ci die-de appuntamento con una commissione, mentre la città erabloccata e la gente in piazza. Il nervosismo era alto e men-tre eravamo già nel pieno del negoziato, iniziarono a spa-rare gas lacrimogeni sui manifestanti, per cui io ed Evo Mo-rales dovemmo scappare. Quando la situazione tornò allacalma, ottenemmo la firma di un accordo nel quale il gover-no si impegnava a rivedere il contratto e la legge sull’acqua,ma non a rivedere l’aumento delle tariffe. Quindi ritiram-mo la firma da questo accordo. Decidemmo in assembleache nessuno avrebbe pagato le fatture, e molte vennero bru-

    ciate simbolicamente inpiazza. In attesa di ri-sposte concrete da par-te del governo, orga-nizzammo per il 4 difebbraio un incontropacifico, senza blocchistradali, che si sarebbe

    chiamato la «Toma de Cochabamba», la presa di Cochabam-ba. La presa di Cochabamba spaventò molti tra imprendi-tori e politici, che dicevano: «Gli indios stanno arrivandoper prendere la città». Noi dicevamo che stavamo venen-do a prendere ciò che era nostro.

    Arrivarono così i Gruppi Speciali di Sicurezza e si schie-rarono in luoghi strategici. Vennero allora a cercarci i mi-nistri del governo, dell’Informazione e altri ministeri, perchiederci di recedere dalla nostra iniziativa e di non pren-dere la città. Noi continuavamo a spiegare che non sareb-be successo nulla, che era un’iniziativa fatta con i fazzo-letti bianchi, i fiori e le bande, insomma una festa. Ma nonci credettero. La repressione cominciò alle 9 della matti-na: non ci lasciarono avanzare nemmeno per 200 metri. Lapolizia cominciò a tirare gas lacrimogeni e la manifestazio-ne fu repressa con violenza inaudita. La gente si affaccia-va dalle finestre per incitarci, ed i contadini rispondevano:«Stiamo combattendo per voi. Uscite!»

    Pensavamo che il 5 di febbraio la gente non avrebbe con-tinuato la mobilitazione, invece mentre camminavamo perla città era tutto bloccato e tutti giravano per le strade ar-mati di pietre. Quando la televisione iniziò a trasmetterequello che stava succedendo, anche coloro che erano rima-sti nella propria casa cominciarono ad uscire. Credo che lastampa giocò un ruolo chiave in questa situazione, perché

    COME ACCADDE CHE UNA FESTA CHIAMATA «LA TOMADE COCHABAMBA», LA PRESA DELLA CITTÀ, SPAVENTÒA TAL PUNTO IL GOVERNO DA SPINGERLO A OCCUPAREMILITARMENTE LE STRADE. E QUESTO CONVINSE SEMPREPIÙ GENTE A USCIRE DI CASA E AD UNIRSI AI CORTEI

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    mostrò alla popolazione ciò che stava succedendo.Il giorno dopo ancora i cocaleros si occuparono per pri-

    mi di ricreare i blocchi stradali per la città. Tutti ormai ave-vano il loro ruolo: i giovani stavano al centro per contrasta-re i militari, gli anziani sbattevano le pentole in segno diprotesta, i bambini di 5/6 anni raccoglievano rami e pietreper bloccare le strade. La gente aveva deciso di dire basta.

    Ottenemmo di firmare l’accordo con modifiche che nonsperavamo: venivano congelate le tariffe e questo diedemolta forza alla gente, che si sentì vittoriosa. Questo accor-do dava un termine di due mesi al governo.

    Arrivò il 4 di aprile, la data limite per il compimento del-l’accordo di febbraio, e il nostro timore era che non ci sa-rebbe stata una partecipazione molto elevata alla mobili-tazione. Per fortuna ci sbagliavamo. Arrivarono i ministriper parlare della questione, ma come sempre ci ignoraro-no e si riunirono tra di loro: proponemmo allora un termi-ne di 24 ore entro le quali il governo doveva rompere il con-tratto. Furono occupati simbolicamente gli uffici di Aguasdel Tunari e gli impianti di trattamento. Il giorno seguen-te decidemmo di assediare anche la prefettura e la sede del-la polizia dove si riunivano i ministri, i parlamentari, i sin-daci, gli imprenditori. La nostra decisione era: «Da qui nonce ne andiamo fino ache non se ne vaAguas del Tunari».

    Ci infilammo diforza nella riunionein corso, ribadendoche nessuno sarebbeuscito dalla stanzafino a quando l’ac-cordo non fosse stato firmato. Mentre stavamo negozian-do sentivamo spari di gas lacrimogeni per le strade e all’im-provviso entrò la polizia e ci arrestò tutti. Ci portarono al-la centrale di polizia. L’arcivescovo si dichiarò tra i detenu-ti e negoziò la nostra libertà. Dopo quattro ore eravamo li-beri. Il giorno successivo in piazza eravamo in 40 mila.

    Ci arrivò la notizia che stavano arrivando aerei milita-ri. Ricordo che mi fecero cambiare i vestiti, perché gira-va la voce che i militari avessero l’ordine di uccidermi.

    Ci convocarono per una riunione alle 4 del pomeriggio.Pensavo fosse l’ennesima presa in giro. Ma alla fine mi co-strinsero ad andare, incontrai l’arcivescovo che fra le lacri-me ci avvertiva commosso che avevano deciso di rompe-re il contratto.

    Convocammo subito un’assemblea nella piazza, anchese rimaneva in sospeso la questione legata alla campagnae quindi i contadini proposero di non togliere i blocchi. Ten-tammo quindi di spiegare che la città doveva riposarsi: ven-ne fatta una messa che fu molto partecipata nonostantecontinuassero gli scontri.

    Erano i primi giorni di aprile ed eravamo nel pieno del-la K’oa [festa indigena, ndr] quando il governo comunicòufficialmente che non aveva accettato la rescissione delcontratto con Aguas del Tunari e che questa era la sua ul-

    tima decisione. In quel momento mostrarono in televisio-ne che stavano abbattendo la casa dei miei genitori e quel-la di altri compagni e io feci appena in tempo a mettermi incontatto con alcuni mezzi di comunicazione per informar-li che la lotta sarebbe continuata e che la gente doveva scen-dere per le strade e continuare a bloccare la città.

    Il giorno seguente contattarono per una riunione me edEvo Morales. Ci assicurarono non sarebbe successo nulla,eppure io ero molto preoccupato. Mandarono un agente aprendermi e mentre attraversavamo la città vedevo le stra-de riempirsi di donne e bambini. Quel lunedì tutta la popo-lazione si era data appuntamento nella piazza per prende-re una decisione definitiva, per rompere lo stato d’assedioimposto dal governo. Quei giorni per me sono stati i più dif-ficili di tutta la mia vita, non perché avessi paura del go-verno o delle pallottole. Sentivo la forte responsabilità diessere portavoce della popolazione, che era inferocita.

    I rappresentanti del governo si presentarono con due po-sizioni differenti: una più dura, che diceva che l’importan-te era mantenere il contratto e l’impresa a Cochabamba, so-stenuta da tecnocrati come Maclean e Tuto Quiroga. Unapiù conciliante, con Hugo Banzer. [...]

    Finalmente si trovò un accordo. La proposta della Coor-dinadora riguardo alla ge-stione dell’acqua era difarla tornare un’impresamunicipale. Ma la piazzachiedeva che fosse la Coor-dinadora a farsi carico del-la gestione dell’acqua, enon il governo della citt