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NESSUNO VI DIRA’ CHE E’ STATO FACILE GIOVANNI BOGANI 1 NESSUNO VI DIRA’ CHE E’ STATO FACILE Colloqui Privati Di Sceneggiatura. L’Esatto Opposto Di Un Manuale Di Sceneggiatura: Una visita guidata nel luogo più sacro e misterioso del cinema, la stanza in cui nascono le idee e prendono forma i personaggi: La Mente Dello Sceneggiatore. 24 colloqui individuali con grandi sceneggiatori, registi e scrittori prestati al cinema per andare al cuore del processo raccontato in presa diretta dai protagonisti.

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NESSUNO VI DIRA’ CHE E’ STATO FACILE GIOVANNI BOGANI !1

NESSUNO VI DIRA’ CHE

E’ STATO FACILEColloqui Privati Di Sceneggiatura.

L’Esatto Opposto Di Un Manuale Di Sceneggiatura: Una visita guidata nel luogo più sacro e misterioso del cinema, la stanza in cui nascono le idee

e prendono forma i personaggi: La Mente Dello Sceneggiatore.

24 colloqui individuali con grandi sceneggiatori, registi e scrittori prestati al cinema per andare al cuore del

processo raccontato in presa diretta dai protagonisti.

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NESSUNO VI DIRA’

CHE

E’ STATO FACILE

Giovanni Bogani

con la collaborazione di

Filippo Giunti

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Per Piero De Bernardi che coltivava l’arte della leggerezza e sapeva essere ragazzo anche a ottant’anni

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Piero De Bernardi 5 Mario Monicelli 8 Alessandro Bencivenni 13 Carlo Verdone︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ 16

Giovanni Veronesi 20 Francesco Bruni 25 Fausto Brizzi ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ 34

Marco Martani ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ 39

Pupi Avati 45 Vincenzo Cerami 50 Francesco Piccolo ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ 59

Doriana Leondeff 67 Enzo Monteleone 70 Umberto Contarello 81 Paolo Sorrentino 88 Massimo Valerio Manfredi 93 Alessandro Baricco 97 Sandro Veronesi 100 Federico Moccia 103 Ken Loach 106 Steve Zaillian 110 Paul Haggis 114 Jean-Jacques Annaud 125 Aurelio De Laurentis 133

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Piero De Bernardi

I Film Comici Si Scrivono Parlando Di Cose Serie

︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎Piero se ne è andato, mentre terminavamo di correggere questo libro.

E’ a lui che questo libro è dedicato. Per come Piero ha amato e servito il cinema, e per come è stato generoso come persona. Per il suo sorriso innocente, ragazzino. Quel sorriso che portava in giro, con eleganza, a ottantaquattro anni. Negli ultimi tempi, era come se si fosse fatto leggero leggero, fragile, quasi aereo. Sarebbe bello pensarlo in un altrove sereno, a chiacchierare in mezzo ai suoi amici sceneggiatori. Tutti insieme, da qualche parte, a inventare storie di cinema. A rendere meno pesante al padreterno l’eternità. Il vero cinema Paradiso. Scrivere, scrivere e ancora scrivere. Piero De Bernardi ha scritto, da solo o con altri, 115 film. Dal 1954, l’anno del primo film, a oggi. Perché Grande, grosso e Verdone, uscito nel 2008, porta la sua firma. 115 film, e in mezzo c’è tutta la commedia all’italiana. Molti dei film li ha scritti con il suo compagno di penna Leonardo Benvenuti, morto qualche anno fa. Perché scrivere di cinema è un lavoro che si fa insieme: in due, in quattro, talvolta anche in più. Non bisogna essere gelosi delle proprie idee: bisogna mettere tutto nel lavoro comune. E poi aspettare il regista, che stravolga magari tutto. Tra i film che Piero, toscano di Prato ha scritto ci sono Matrimonio all’italiana, La ragazza con la valigia, Alfredo Alfredo, e tutti i Fantozzi, fin dal primo del 1975. Poi quasi tutti i film di Carlo Verdone, da Un sacco bello a Bianco rosso e Verdone fino ad oggi. Ha vinto 6 Nastri d’argento e 3 David di Donatello per il suo lavoro di sceneggiatore. Anche Amici miei, un simbolo dell’umorismo made in Florence, è nato dalla sua penna, dalla sua fantasia. Dalla sua e da quella di Leo Benvenuti: compagno di cinema, amico e complice. Leo se n’è andato un giorno di novembre del 2000. Il testo che segue riassume quella che forse è l’ultima ampia intervista di Piero.

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De Bernardi, come vengono in mente le idee per un film?

“Non l’ho mai saputo. Ma so che alla fine vengono tutte fuori. Bisogna vivere, incamerare sensazioni, impressioni, emozioni. Alla fine, viene tutto buono”.

Quando ha deciso che voleva scrivere film? E perché?

“Perché mi piaceva molto il cinema! Io ho studiato fino alla seconda liceo, non ho fatto l’università. Ma ero bravino a scrivere. Finita la guerra, avevo diciannove anni. Vidi i film del neorealismo. E pensai che si potevano anche raccontare storie vicine alla vita. Andai a Roma, e mi presentai a una casa di produzione con un piccolo soggetto scritto da me. L’avevo scritto con un amico, con cui avevo fatto un patto di sangue, di non abbandonarsi mai. Invece presero me, e tanti saluti all’amico... La mia carriera è nata da un tradimento!”, ride.

Invece, Leo Benvenuti non lo ha tradito mai. Quando nacque l’amicizia?

“Lo incontrai quando scriveva Le ragazze di San Frediano. Cercava uno che fosse toscano e sapesse scrivere. Gli fui presentato io. Ci siamo detti: facciamo una coppia? Lo facemmo per quarant’anni”.

Come funzionava la “coppia”?

“Scrivevamo a casa mia, perché mia moglie aveva accettato di sacrificare una stanza per farci lo ‘studio’. Così, tutti sono sempre venuti a casa mia”.

In che modo nascevano le storie per il cinema?

“Si facevano tante chiacchiere. Pietro Germi, per esempio. Veniva da noi con una scatola di sigari e fumava, fumava, mentre noi chiacchieravamo... Quando aveva finito i sigari, si fermava e alzava il pollice: l’idea gli piaceva”.

Come nacque Amici miei?“Volevamo scrivere un film sull’amicizia. E semplicemente, cominciammo a raccontare le storie di amici nostri, o di noi stessi”.

Qual era l’ingrediente fondamentale per una storia?

“A volte era il contratto degli attori! Cioè, il dover scrivere per un attore specifico. Una volta dovevamo fare un film per Verdone e la Muti. Ora, devi sapere che noi dividevamo gli attori in due categorie”.

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Quali?

“Quelli che facevano l’amore e quelli che non lo facevano. Sullo schermo, ovviamente! Verdone apparteneva alla seconda categoria. Per lui con la Muti scrivemmo Io e mia sorella. Mica potevamo scrivere ‘Io e la mia ragazza’!”.

Come si fa a scrivere una commedia?

“Ancora oggi, non lo so... Ma direi che i film comici si scrivono parlando di temi seri. Drammatici. Poi accade qualcosa di inatteso, una soluzione diversa”.

Come fate a capire se una commedia funziona?

“Se ridiamo noi mentre la scriviamo!”.

Quali registi erano più difficili?

“Abbiamo lavorato una volta con Michelangelo Antonioni. Uomo di gran classe: ma non aveva bisogno di gente come noi, di operai delle storie. Aveva bisogno di poeti”.

Lei si considera un operaio del film?

“Un muratore. Uno che costruisce storie. Non uno che inventa ‘poesia’. Per me, un film funziona quando la storia regge, come una casa”.

Ma quali sono le regole perché una storia regga?

“Mai sapute! Questo mestiere si impara facendolo”.

Con Sergio Leone come fu la scrittura di C’era una volta in America?

“Uno dei lavori più belli della mia vita. Esploravamo un mondo che non conoscevamo. E poi lui ci diceva: ragazzi, non avete idea di che cosa girerò!”.

Ma i salti avanti e indietro nel tempo li scriveste voi o li mise Sergio Leone al montaggio?

“No no, li scrivemmo io e Leo. Era già scritta così. Sergio ha però un altro merito: ci fece conoscere questo ragazzino, Carlo Verdone”.

Con Carlo è un sodalizio che dura fino al presente.

“Sì: si lavora in grande semplicità con lui. E’ una persona onesta, chiara, e ha grande rispetto per gli altri”.

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Mario Monicelli

Divertiti.

Mario Monicelli. Dici il suo nome, e vedi la commedia all’italiana, tutta intera. Vedi Vittorio Gassman che impara a ridere di se stesso nei Soliti ignoti, vedi Totò che tiene un corso universitario di scasso sulla terrazza di un condominio popolare, vedi il vecchio Capannelle, sdentato, magro, sporco e lacero, che in mancanza di meglio mangia una minestrina, nella casa che avrebbero dovuto svaligiare... Dici Monicelli, e vedi le zingarate di Amici miei, la supercazzola di Ugo Tognazzi, il medieval-ciociaro dell’orgoglio sgualcito di Brancaleone da Norcia. Parli con lui, ti aspetti di trovare un “maestro”. Trovi un uomo schietto, che dice le cose dritte dritte, senza retorica né enfasi. Figlio di un giornalista – suo padre aveva anche diretto Il resto del Carlino – emarginato dal fascismo perché in opposizione al regime, Mario Monicelli nasce a Viareggio, e si fa folgorare dal cinema a Tirrenia, dove Giovacchino Forzano aveva creato degli studi cinematografici prima di Cinecittà. Non ha neanche vent’anni, Monicelli, quando realizza il primo cortometraggio, con la cinepresa di un amico. E I ragazzi della via Paal vince a Venezia. Da allora – era il 1934 – sono stati settantasei anni di cinema. Nessun altro ha celebrato le nozze di platino con il film. Di solito, è il cinema a chiedere il divorzio. Nel suo caso, l’amore è proseguito senza interruzioni fino alla morte nel 2010. Il lavoro con Steno, a scrivere i film di Totò. Le regie in proprio. Uno storico Leone d’oro a Venezia per La grande guerra. E successi di pubblico immensi, come per L’armata Brancaleone, e – nel 1975 – per Amici miei, il film che riporta prepotentemente la fiorentinità nel cinema, e apre la strada ai vari Benigni, Nuti, Benvenuti. Monicelli ama i film corali: le “armate Brancaleone” di sciagurati, soliti ignoti della cronaca o della storia. Foto di gruppo della società, anche al femminile: come in Speriamo che sia femmina, un suo successo degli anni ’80. Leone d’oro alla carriera nel 1991, premio Maestri del cinema a Fiesole nel 1996, premio “Pietro Bianchi” a Venezia. Riconoscimenti a pioggia. Lui non se ne cura. “Me li danno perché sono ancora vivo, mentre colleghi più bravi mi hanno preceduto di là”. Conclude sereno: “Cosa faccio per aiutare i giovani? Faccio il massimo: invecchio”. E di sé, commenta: “Avrei voluto essere Luis Bunuel o John Huston. Ma mi è toccato essere Monicelli, e l’ho fatto meglio che potevo”.

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Monicelli, mi sembra che abbia spesso detto che le regole in fondo servono a poco per fare un film, serve di più chiacchierare...

“Sì, basta però avere l’idea di quello che si vuol fare!”

E per lei che cos’è che deve avere questa idea di buono?

“Ti deve sollecitare a tal punto che parlandone con gli amici gli argomenti aumentano, l’idea di base promuove altre idee... Se l’idea è valida diventa un motore per tutto il resto”.

Quanto conta la sceneggiatura? Lei è nato come sceneggiatore, e ha firmato più sceneggiature che regie... Si sente quasi più sceneggiatore che regista?

“Sì, io sono nato come sceneggiatore. Soltanto dopo ho fatto il regista. Per me la sceneggiatura è importantissima. E’ la base di tutto. Sono stato sceneggiatore, quasi sempre insieme ad altri”.

Quanto tempo dedicavate alla chiacchiera, prima di mettervi a scrivere?

“Ore e ore tutti i giorni, per mesi!”.

Vi accadeva di recitare i dialoghi tra di voi, per “metterli in scena”, per vedere l’effetto che facevano?

“A volte sì, ma forse recitare non è il termine giusto. Si leggevano le battute, e poi si parlava anche di altro. Si parlava di mille cose... Di donne, dice? No, di donne si parlava poco... Ognuno aveva la sua, e non stava a parlarne tanto. No, si parlava di politica, di tutto. L’importante era stare insieme”.

Secondo lei quanto sono importanti le regole americane che stabiliscono colpi di scena in determinati momenti, o che codificano i modi in cui sviluppare le storie?

“Non ci sono regole. Dipende dal film che stai facendo, dal corso che prende la storia. Non è detto che si debba mettere per forza un colpo di scena in un certo punto...”.

E il finale quanto contava?

“Moltissimo. Prima di incominciare una storia e di svilupparla, quindi prima di sceneggiarla e di scriverla, dovevamo sapere come doveva finire. Dovevamo conoscere già il finale del film”.

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A partire dal finale, creavate delle false piste?

“Non necessariamente. Ma bisognava sapere come chiudere una storia”.

Qual era l’aspetto più importante, secondo lei, in una storia? Quando è che una storia “funzionava”?

“Quando, mentre ci raccontavamo il film, ci si divertiva! Se ci si appassionava alla storia, eravamo contenti, eravamo tranquilli. Pensavamo che il film avrebbe interessato anche gli spettatori. Certo, a volte tutta questa tranquillità non era giustificata, e i film sono andati male!”.

A volte le capitava di pensare a persone reali, di dire a se stesso: ecco, questo è un personaggio da film?

“Spesso ci rifacevamo a persone che conoscevamo o a personaggi di un libro, di romanzi, avvenimenti, persone incontrate nella vita che ci avevano raccontato un particolare. Eh, sì. Si ruba dappertutto. Non s’inventa mai nulla”.

Le storie di “Amici miei” da dove nascono?

“Erano storie che si raccontavano a Firenze”.

C’è un film che avrebbe voluto fare e che non ha fatto?

“Mah, forse qualcuno sì: ma è meglio che non li abbia fatti!”.

Si è pentito di qualche film che ha fatto?

“Parecchi! Me ne sono andati male parecchi, e quindi ho sbagliato a farli”.

E di quale film invece è più orgoglioso?

“Non ho preferenze. E poi orgoglioso di cosa? Non sono orgoglioso di niente”.

Lei ha spesso messo insieme comico e tragico. Ha scritto commedie venate di tragedia, e tragedie “ridicole”. Perché?

“E’ vero: ho inserito spesso situazioni farsesche in commedie a sfondo anche tragico. E’ la mia attitudine nei confronti della vita che è così. Vedo le cose serie attraverso il filtro dell’umorismo, che mi permette un certo distacco dalla materia che tratto. Non è un atteggiamento cinico, come qualche volta si è detto. E’ che la vita è così, mescola comico e tragico. Anche ai funerali si può ridere”.

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Lei è poco incline al sentimentalismo...

“Assolutamente. Non amo forse nemmeno il sentimento. L’amore, diciamo. Nei miei film, se c’è una scena d’amore, ci metto sempre dentro qualcosa che la smonti, che la distrugga, che smitizzi il rapporto tra i personaggi”.

Eravate sempre in diversi a scrivere i film. Lei e Steno, o “ragazzi” come Age, Scarpelli, Ennio De Concini... Avevate un metodo per dividervi il lavoro?

“Facevamo così, per scrivere la sceneggiatura. Ci dividevamo proprio fisicamente il lavoro. Ognuno scriveva una parte, poi ci si incontrava di nuovo, la si criticava, e poi la si dava a un altro. E si ricominciava da capo. Nessuno era ‘padre’ assoluto di una singola scena”.

A lei che cosa piaceva di più fare? Creare le battute, le gag o l’architettura della storia?

“Anche le gag venivamo mentre si parlava. Non c’era uno che faceva le gag e l’altro no. Non c’erano divisioni fisse... era qualcosa di naturale”.

Il compagno di sceneggiatura più bravo?

“E che, mi metto a fare le classifiche dei miei compagni? Erano tutti bravi!”.

Age, Scarpelli, De Bernardi, Benvenuti, Suso Cecchi d’Amico... Suso, unica donna, come si trovava in questo mondo tutto maschile?

“Benissimo. Ha lavorato con tutti i registi, non certo solo con me. Ha scritto tra le sceneggiature più importanti del cinema”.

Pensava già all’attore che doveva personificare il personaggio?

“Qualche volta sì, pensavamo già all’attore che dovevamo portare sullo schermo. Altre volte invece si tratteggiava il personaggio e poi si cercava l’attore”.

Se dovesse dare un consiglio a un giovane sceneggiatore che vuole scrivere una sceneggiatura?

“Non ci sono dei metodi. Ognuno deve seguire la propria indole. Deve fare ciò che si sente meglio, che trova più naturale. Non deve seguire le istruzioni di un altro”.

Lei non ha fatto scuole di cinema?

“No. E non soltanto io. Nemmeno i miei compagni di lavoro”.

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Lei ha iniziato a sedici anni. Da cosa era partito?

“Semplice: c’era un libro, un libro famoso. Ho iniziato da lì”.

Quindi, che cosa è più importante di tutto, per uno sceneggiatore?

“Tre cose: leggere, leggere, leggere. Non bisogna pensare: ho visto film, sono colto. I film, la storia del cinema, non sono niente. Ci sono film anche molto belli. Ma non è da lì che si deve nutrire la personalità di un artista. La letteratura è più importante”.

Tra i giovani registi, chi ammira di più?

“Michelangelo Antonioni! Perché, anche se è morto, mi sembra il più giovane, il più innovativo di tutti. Io e lui facevamo film diversissimi, ma io ammiravo i suoi, e anche lui rispettava i miei. Poi, mi piacciono Moretti, Wenders, la Archibugi”.

Ha paura del futuro?

“No. Ho avuto una vita piena di soddisfazioni, non ho rimpianti. Io, la morte, l’ho già fregata”.

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Alessandro Bencivenni

Prima, Trova Qualcosa Da Proporre.

Allievo di Piero De Bernardi, Alessandro Bencivenni (nato nel 1954 a Salerno) ha iniziato scrivendo – insieme a lui, e a Leo Benvenuti – SuperFantozzi nel 1986. Da allora, ha scritto tutti i film di Fantozzi fino a Fantozzi 2000–la clonazione, e tutti gli altri film interpretati da Paolo Villaggio, da Le comiche a Com’è dura l’avventura, per proseguire poi con i cosiddetti “cinepanettoni”: Natale a New York, Natale in crociera, Natale a Rio. Insieme a Mario Monicelli, ha scritto Le rose del deserto. Ha scritto anche parte della serie tv Don Matteo, e ha pubblicato numerosi volumi. Tra questi, la monografia Luchino Visconti per Il Castoro, lo studio Peter Greenaway. Il cinema delle idee per Le Mani. Sulla sceneggiatura, ha scritto Ricordare sognare sceneggiare, per Le Mani. Vive a Roma.

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Alessandro, come sei entrato nel mondo del lavoro?

“Dopo gli studi universitari ho fatto il Centro Sperimentale di cinematografia. Da cui sono uscito disoccupato: ma convinto di essere cineasta. Dal punto di vista pratico ci furono molte difficoltà; l’unico lavoro che mi è tornato utile fu sceneggiare delle storie per Topolino. Così, quando iniziai a frequentare un corso che Leo Benvenuti teneva, venne fuori che cercavano degli sceneggiatori nel campo comico. L’esperienza che mi ero fatta con le gag per i fumetti mi furono utili prima per fare degli sketch, e poi per essere chiamato a collaborare a SuperFantozzi, che in fondo era una specie di cartone animato”.

Una scuola di cinema serve o no?

“Sì e no. Serve da un punto di vista teorico. Però da un punto di vista pratico serve molto di più quella che una volta si chiamava la ‘bottega’, cioè l’esperienza, l’opportunità di cominciare su qualche cosa di concreto”.

A un ragazzo che non sa da dove cominciare per trovare una ‘bottega’, che cosa consiglieresti di fare?

“Prima di rivolgersi a qualcuno, bisognerebbe avere qualcosa da proporre. Dall’ ‘alto’ della mia esperienza, ho scoperto una legge della sceneggiatura. L’ho scoperta nell’abbecedario di mio figlio: una storia deve avere un inizio, uno svolgimento e una fine”.

L’uovo di Colombo...

“Questa cosa sembra banale, ma in realtà viene spesso dimenticata da chi inizia a scrivere: c’è la cattiva abitudine di scrivere addirittura una sceneggiatura senza aver prima pianificato una struttura di racconto. Un esercizio per verificare anche se stessi è quello di sperimentarsi inizialmente su cose brevi o di pianificare quello che si vuole sviluppare con una scaletta, che è una specie di mappa del lavoro. Riguardo al ‘dove rivolgersi’, non esiste una porta precisa a cui bussare. Teoricamente, una palestra che offre qualche possibilità in più sono i test che alcune grandi case di produzione televisive fanno quando mettono in piedi una serie. Quindi, se si viene a conoscenza di questi test e si è fatta un po’ di pratica, si può cercare di proporre il proprio curriculum e qualche cosa che si è scritto”.

Secondo te esistono i tre atti, i plot point a un quarto o a tre quarti, eccetera?

“Esistono, ma io diffido della manualistica: codificare il modo in cui è strutturato un racconto inverte quello che è il processo naturale; non si può partire da un manuale che ci dice che una storia va strutturata in un certo

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modo, senza spiegarcene il motivo. E’ fondamentale invece guardare i film e scoprire che di solito sono strutturati in un certo modo. Chiedercene il motivo. Poi starà a noi, nel momento in cui scriveremo qualcosa, decidere se seguire quella strada o meno”.

Se tu avessi vent’anni oggi, cosa faresti per lavorare?

“Nella mia esperienza personale anche la fortuna ha avuto la sua parte: gli incontri importanti sono spesso casuali, per cui tutti i momenti aggregativi, le associazioni, i movimenti lo sono. Persino le scuole, in maniera indiretta e involontaria, sono occasioni per conoscere le persone e possono anche inaspettatamente aprire delle strade. Però io torno su un discorso che può sembrare anche un po’ astratto e romantico: prima di bussare a una porta bisogna sapere cosa si vuole. Quindi il fatto di sperimentarsi, di dedicarsi con passione a quello che si pensa sia il proprio talento, è importante. Un conto è bussare a una porta sicuri di avere delle potenzialità, un conto è bussare a caso: in questo caso, noi stessi diventiamo il nostro handicap”.

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Carlo Verdone ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎

Il Problema Di Non Ripetersi Mai︎︎︎︎︎︎︎︎. ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎

Carlo Verdone. Protagonista, da trent’anni, della scena italiana del cinema. Probabilmente, mettendo insieme gli incassi di tutti i suoi film, si ottiene un record assoluto per la storia del cinema italiano.

Figlio di uno studioso del cinema dell’Espressionismo, Mario Verdone, Carlo respira aria di cinema fin da bambino. Si laurea in Lettere, fa alcuni cortometraggi sperimentali, dei documentari sul Palio di Siena e sull’Accademia musicale Chigiana.

Ma il vero momento di svolta avviene quando mette in scena una serie di esilaranti monologhi al teatro Alberichino di Roma. La prima sera, ci sono pochissimi spettatori. Ma ridono molto. La sera successiva, c’è un critico teatrale. Inizia una parabola che lo porta quasi immediatamente in tv, con la trasmissione Non stop. il successo è immediato: Carlo ha la possibilità di scrivere e interpretare un film, che viene prodotto da Sergio Leone. E’ Un sacco bello.

Seguono più di trenta film, quasi tutti di enorme successo. Ha scritto praticamente tutti i film che ha diretto, fino al più recente Io, loro e Lara. Scrive i suoi film quasi sempre in collaborazione con uno o due altri autori: Piero De Bernardi, Leo Benvenuti, Giovanni Veronesi, Laura Marciano, Pasquale Plastino sono stati i suoi collaboratori più abituali. Ha lavorato per quattro anni, insieme a Giovanni Bogani, alla direzione del festival di cinema Terra di Siena.

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Quando è che un’idea ti sembra buona per una sceneggiatura?

“Quando riesco a intuire subito quale può essere l’inizio del film, e dove potrebbe andare a concludersi. Se io riesco ad avere la A e la Z, sono a posto. La A la devo avere chiara, della Z devo avere almeno l’intuizione; non sempre è così facile trovare un finale. Però devo sapere che la via d’uscita è abbastanza chiara”.

E saranno anche l’A e la Z tra le prime scene che scrivi, oppure vai dall’inizio e prosegui?

“Vado dall’inizio in poi, altrimenti sarebbe un’assurdità. Non scrivo le scene che ho già chiare in mente, per poi mettere quello che resta nel mezzo. Anche perché lo sviluppo di un soggetto ti può portare anche a cambiare l’idea di finale che avevi all’inizio Se non scrivo in ordine perfetto, perdo completamente il ritmo del film. E’ un errore micidiale questo di saltare. E’ un’autentica follia”.

Come procedi per dare forma alla tua storia? Prima parti da un’idea, per poi sviluppare un soggetto e una scaletta? A quale punto arrivi alla scaletta?

“Si arriva alla scaletta quando il soggetto è ben chiaro: solo a quel punto si fa la scaletta, che chiarisce ancora di più il percorso della sceneggiatura”.

Di quanti punti è composta una tua scaletta?

“Non si può quantificare con certezza, perché dipende dal tipo di film che fai. Grosso modo, il film lo divido in blocchi e all’interno di questi metto i numeri della scaletta, con le informazioni di ciò che accade, in modo che mi sia d’aiuto quando scrivo la sceneggiatura”.

E la scaletta viene stravolta molte volte? Ciò che era nel mezzo finisce all’inizio, o viceversa? E’ qualche cosa che accade spesso?

“Certamente. Spesso ci sono varie scene che possono essere lunghe e vanno accorciate; all’interno di un nucleo ci potrebbe essere anche una diramazione imprevista. Quindi è un lavoro continuamente creativo, in cui nulla è definitivo fino a quando non cominci a scrivere le varie battute e fai un copione. Ma anche a quel punto non è niente di definitivo perché è una prima stesura. Arriverà la discussione col produttore, una revisione con gli sceneggiatori,

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alcune letture con delle persone che sono valide dal punto di vista critico. A quel punto comincio a considerare magari qualche taglio o qualche modifica”.

Quante stesure fai di una sceneggiatura?

“Io non più di due. Anche se ci sono stati film che ne hanno avute di più. Per esempio Il mio miglior nemico ne ha avute cinque o sei. Giovanni Veronesi ne sa qualcosa, perché molto amichevolmente mi diede una mano in un momento di difficoltà, per dipanare un problema che non era affatto facile”.

Quali sono per te i problemi strutturali più difficili nella sceneggiatura?

“Cercare di evitare qualcosa che ho già fatto è la cosa più complicata. Ormai dopo 32 anni ho scritto talmente tanti film che devo essere bravo a cercare di evitare di ripetermi”.

Ed essere personaggio pubblico, così visibile, non ti fa mancare quel piccolo vantaggio che è la possibilità di essere “invisibile” e studiare la gente?

“No perché poi, alla fine, anche se il mio quartiere mi conosce, io non rappresento più una novità per loro. Sia il giornalaio che il benzinaio, che il barista, che il tabaccaio continuano a raccontarmi vicende proprie o di loro conoscenti: alla fine sono sempre in contatto con tutti. Certo, non c’è più quella possibilità di ascoltare liberamente, perché la gente ha sempre di fronte il personaggio e quindi chiede a me, più che parlarmi”.

Ma a te piace di più inventarla, scriverla, una cosa o girarla?

“Io direi inventarla. Anche perché quello che tu scrivi è perfetto, mentre quello che andrai a fare non dico che non è perfetto ma non sarà mai come quello che hai scritto: viene sempre un’altra cosa”.

E la voglia di rifare un tuo film dopo 15 anni ti è mai venuta?

“No, no, io sono in continua evoluzione, quindi ogni mio film appartiene a una determinata epoca”.

Gli americani hanno questo tema fisso dei tre atti, del colpo di scena al momento giusto, del punto di mezzo. Tu ce l’hai?

“Sì, forse ce l’abbiamo anche noi in Italia, solo che noi abbiamo il buon senso: viene naturalmente, non è che ci mettiamo là a fare i geometri e a calcolare esattamente a quale pagina deve entrare un evento, o in che momento

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preciso. Quando sentiamo che c’è un momento di stanchezza, allora sappiamo che deve entrare qualcosa. Stanchezza che poi potrebbe essere un dialogo molto serrato o una scena che richiede impegno da parte del pubblico e non sollievo. A quel punto devi dare sollievo attraverso una gag o una situazione comica. E’ nel buon senso di chi scrive arrivare a questo”.

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Giovanni Veronesi

Continuare A Giocare, Facendo Il Cinema.

Giovanni Veronesi è nato a Prato nel 1962. Aveva vent'anni quando cercò un modo per entrare nel mondo del cinema. Andò a bussare alla porta di un altro pratese, come lui: Francesco Nuti. Nuti abitava a Roma. Vide quel ragazzo pieno di voglia di fare, ma non aveva voglia di usarlo né come attore, né come aiuto regista. Parlarono per un po'. Nuti disse al ragazzo che quello che aveva in testa era soprattutto fare un figlio.

Il ragazzo se ne andò. Tornò il giorno dopo. “Tu vuoi fare un figlio”, disse il ragazzo. “Ma lo vuoi fare in un film. E io ho preparato per te una storia. La storia di uno che ha un figlio”. Era il primo nucleo di Tutta colpa del Paradiso. Il primo film che Veronesi scrisse.

Seguirono molti altri film di Francesco Nuti, da Stregati a Donne con le gonne; la prima regia in proprio, prodotta da Nuti, Maramao, un film tutto girato ad altezza di bambino, dove degli adulti non si vede mai il volto. E ancora, regie come Per amore, solo per amore, sceneggiature per Pieraccioni (Il ciclone, Fuochi d'artificio), per Verdone (Il mio miglior nemico), e film da regista, spesso insoliti. Come Il mio West, Silenzio si nasce. O come i più convenzionali Il barbiere di Rio, i Manuali d'amore e l'ultimo Italians. Cinema commerciale, sì; ma spesso con punti di partenza anomali, insoliti.

Oggi, e da molti anni, Giovanni Veronesi è lo sceneggiatore più prolifico, più richiesto e più “vincente” del cinema italiano. Quasi tutti i film che ha scritto sono dei successi. Cerchiamo, in questa conversazione, di capire come lavora.

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Giovanni, come si sviluppa l'idea per una storia? Come si inizia a “pensare” un film?

“Ci sarebbero due risposte. Una da autore e una da regista di film commerciali. Ma alla fine nessuna delle due è assolutamente vera. Alcuni autori potrebbero parlare di un'impellenza interiore. Di una ‘urgenza’ creativa, che fa sì che tu quella storia la debba raccontare. Questa impellenza io non la ho. Io mi oriento verso determinate storie, suggerite da momenti della mia vita caratterizzati da un luogo, da una musica, o anche da persone che mi raccontano un periodo della loro vita. Non c'è un punto di partenza preciso, definibile”.

Non c'è neanche il lampo di genio, l'intuizione, il “clic” che ti fa pensare a un film?

“Direi di no. Questo è un lavoro artigianale, da svolgersi giorno dopo giorno, con costanza. Un mestiere in cui ci si deve impegnare, altrimenti non ci si fa”.

Quindi non c'è qualcosa che ti faccia dire “questa è un'idea da film e questa no...”?

“A volte sbagli un film, e credevi di aver avuto un'idea geniale. Come è successo a me nel caso di Silenzio si nasce. Invece ci sono volte in cui azzecchi un film e in realtà credi di aver avuto un'idea banale come per Manuale d'amore, dove si raccontano le fasi più facili e comuni dell'amore. Insomma, non esistono temi o luoghi 'giusti'...”.

A proposito di luoghi. Ci sono luoghi in cui ti senti più a tuo agio per scrivere?

“Non si va a scrivere un film in alta montagna o in riva a un lago perché c'è un'atmosfera migliore. Quando ho scritto Il ciclone ero in un residence tristissimo. La mia finestra dava su un muro, ma ho scritto lo stesso”.

La scaletta. Quante volte la si rivoluziona, la si butta all'aria?

“Finché non ti sembra giusta. E anche quando ti sembra giusta, c'è sempre qualcuno che dice qualcosa per la quale vai a riguardarla un'altra volta, e butti tutto all'aria”.

E quando è che è “giusta”?

“Dipende da quello che senti. E da quanta fiducia hai in te stesso e in quelli a cui la fai leggere. Dipende anche da che film vuoi fare. Se stai facendo un horror non puoi certo fare paura mentre racconti, perché la paura deriva

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anche da un certo modo di girare. Però se fai un film comico puoi e devi far ridere, mentre leggono la tua scaletta”.

In una giornata da sceneggiatori quanto si chiacchiera senza concludere e quanto, alla fine, si scrive?

“Ci sono giornate in cui si chiacchiera e alla fine si scrive, e giornate in cui non ci si mette neppure al computer. Ma non ci sono giorni in cui si scrive e basta. Si chiacchiera molto”.

Ti capita mai di guardare la gente e prendere appunti, oppure prendi solo appunti mentali?

“Non ho mai preso appunti su un taccuino. Guardo, osservo, poi mi vengono in mente gag comiche. Questo mi piace molto”.

Quando sceneggiate con Carlo Verdone, come vi dividete il lavoro? Come funziona il vostro ménage?

“A volte può essere estremamente noioso sceneggiare, a volte invece molto divertente. Ci sono giorni pesantissimi in cui credi di star sbagliando tutto e giorni in cui invece ti viene tutto facile. Carlo è uno sceneggiatore: queste cose le sa”.

C'è un'idea buttata via che invece ti sarebbe piaciuto far diventare un film?

“Nel 1989 insieme a Edoardo Nesi, scrittore e amico, ho scritto un copione che si chiamava L'incredibile categoria degli ex. Ora scopro che Brizzi fa un film proprio su questo tema! All'epoca portai il copione a Claudio Bonivento, che era un produttore potente. Mi ricordo che me la segnò tutta di rosso, come si fa a scuola. Era un copione del tutto sbagliato, secondo lui. Mi scoraggiai e lasciai perdere”.

La scena iniziale e quella finale: quanto contano e come ci si lavora?

“L'inizio, anche se non è un granché, è sopportabile. Ma il finale deve in ogni caso essere grande, memorabile. Mi fanno molto arrabbiare quegli autori tirchi di emozioni, che troncano il finale, lo sospendono, e fanno calare una sorta di saracinesca nera sulle emozioni. Il finale deve essere ‘grande’. In Italians ci sono due finali che fanno crescere, emotivamente, la storia. Sono finali di film e non semplicemente di episodi”.

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Un pochino favolistici, se vuoi, i due finali di Italians. Siamo abituati a film con finali più realistici.

“Bisogna vedere che tipo di film. A me i film con quei finali piacciono; che poi sono i finali dei film con John Wayne, che tutte le volte montava a cavallo e se ne andava. Ma dove andava? Semplicemente verso la prossima sceneggiatura. Così come Castellitto nel mio film: va verso la prossima avventura”.

Quanto è importante per te la struttura di una storia? Cioè che ci sia l'inizio, lo svolgimento, la fine e i colpi di scena eventuali.

“Scrivendo una sceneggiatura mi sono reso conto che dopo trenta pagine avevo bisogno dell'immissione di un personaggio o di un evento particolare. Questo perché come in ogni storia che si rispetti, quando la racconti, sai esattamente dosare le forze. Nel linguaggio cinematografico significa dosare gli eventi, i colpi di scena, sapere quando farli entrare, non bruciarti il finale con scene troppo rappresentative all'interno della storia. Insomma, cercare sempre di stupire anche te stesso quando scrivi. Perché ogni storia può poi essere capovolta e scritta al contrario e può essere ugualmente bella”.

Tra gli aspetti della storia: i personaggi. Il mondo attorno ai personaggi e il conflitto. Cos'è che conta per te?

“Io solitamente curo molto i personaggi. Questo perché, facendo film con tanti attori, sono costretto a curare molto bene tutti i personaggi delle storie. Mi sono reso conto di quanto è importante il contorno della storia: l'ambientazione, l'humus in cui crescono e nascono certi personaggi, il territorio dove li spingi. E' importantissimo”.

Sui dialoghi. Quanto tempo ci metti per scriverli?

“I dialoghi sono come le canzoni e le poesie, non come pagine di libri. Possono venire anche in un pomeriggio, anche se non tutti, come ti può venire il testo di una canzone o una poesia. Alle volte invece ci rimetti le mani più volte e alla fine li cambi ugualmente. Dipende molto dall'ispirazione che hai in quel momento”.

Ma cosa devono avere i tuoi dialoghi? Devono essere naturali? Devono avere la frase che colpisce? Devono essere sintetici?

“La mia è una recitazione molto naturalistica. Anche se rasento il paradosso e la farsa nella comicità, esigo che tutti siano credibili, naturali. Proprio perché soltanto in quel modo poi la gente segue la storia e ci crede, anche se è paradossale”.

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Quante volte la riscrivi questa storia e perché?

“Non faccio molte revisioni. De Laurentiis è un produttore che, prima di far partire il progetto di una sceneggiatura, ci sta sopra, la fa riscrivere, la revisiona per vedere di spremere fino in fondo il meglio che c'è. Questo penso che sia un modo molto buono per lavorare perché l'artista non rimetterebbe mai volentieri le mani in una cosa che ha concluso. Ma il produttore ha anche questo ruolo di supervisione che con gli artisti funziona. Gli artisti sono pigri: una volta che hanno fatto una cosa non la vogliono rifare”.

Quindi è utile che ci sia un produttore un po' di ferro?

“E' molto utile che ci sia un produttore che ti contrasta; naturalmente non a casaccio, solo se è necessario”.

Quanto vengono pagati un soggetto e una sceneggiatura?

“Anche questo varia moltissimo. Io sono privilegiato perché sono uno che con i film incassa molti soldi e quindi guadagna. Però la maggior parte degli sceneggiatori in Italia guadagna poco. E' una categoria molto bistrattata. Una sceneggiatura mediamente viene pagata non più di 50 mila euro. E magari sono in due o in tre a scriverla passandoci sopra anche sei mesi. Quindi non è un mestiere molto pagato. Quelli pagati saranno sette, otto in tutta Italia”.

Quali sono gli sceneggiatori più bravi per te?

“Diciamo che quelli che si conoscono sono bravi. Per la commedia penso che Chiti e Bruni siano molto bravi. E anche Contarello. Per altri tipi di film anche Francesco Piccolo è bravo. Poi quelli più acclamati: Rulli e Petraglia hanno una buona media, cioè falliscono raramente quando si mettono d'impegno a fare film”.

A un giovane cosa consiglieresti? A uno che vuole scrivere film consiglieresti di raccontare il soggetto a un produttore, di trovare un regista, di trovare un attore o di scrivere una sceneggiatura?

“Uno che vive in provincia e che vuol fare lo sceneggiatore deve innanzitutto avere del materiale da dare a qualcuno. Oppure trovare email, indirizzi di persone e inviare qualcosa. Io per esempio leggo tutto quello che mi mandano: boiate assurde! Poi mi mandano: 'questo è un film per Pieraccioni', 'questo è un film per Abatantuono', come se i film fossero per quello o per quell'altro. Questo lo dovete far fare a me! Ora che prima di partire so che attore avrò a disposizione, allora scrivo per uno o per l'altro. Ma all'inizio uno è libero di fare quello che vuole, quindi non deve pensare di fare un film per un attore in particolare, ma solo per se stesso, deve dire qualcosa”.

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Francesco Bruni

Stabilire Un Patto Con Lo Spettatore.

Nato a Livorno - “ma all’Ardenza, tra i borghesi” lo sfotte l’amico Virzì – Francesco Bruni è lo sceneggiatore di quasi tutti i film di Paolo Virzì, da Ovosodo a La prima cosa bella. Oltre a scrivere per l’amico di lunga data Virzì, Francesco Bruni ha lavorato per Domenico Calopresti (La seconda volta, Preferisco il rumore del mare), con Ficarra e Picone (Il 7 e l’8, La matassa) e per la televisione, sceneggiando alcune puntate del Commissario Montalbano dai romanzi gialli di Camilleri, e la serie Il commissario De Luca di Lucarelli. Insegna sceneggiatura al Centro sperimentale di cinematografia di Roma.

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Francesco, quando è che un’idea diventa un’idea “da film”, un’idea buona per un film da fare?

“E' molto difficile da stabilire: ogni volta il film prende il via da spunti differenti. Potrei dire che un'idea è buona quando prende spunto da una riflessione sulla vita, sulla società, e allo stesso tempo implica un racconto appassionante, con svolte drammatiche e sorprese”.

Quanto contano le chiacchiere, quando si lavora a una sceneggiatura?

“Molto spesso prima di individuare il tema e la storia su cui lavorare si fa un gran lavoro a vuoto. Quando ci si trova per scrivere un film, uno ha in mente un articolo di giornale, una scena che ha visto per strada, un libro che ha letto, una conversazione con suo figlio, e quindi all'inizio veramente c'è molto poco, quindi c'è una lunga fase di assestamento prima di identificare la storia con cui partire. Questa fase può occupare anche il 50% del tempo”.

Non c'è la paura di perdersi per strada delle cose?

“Di solito si cerca di percorrere delle strade e poi magari ci si rende conto che sono vicoli ciechi, quindi le si abbandona. Ma restano delle suggestioni: a volte capita di riprendere, tempo dopo, degli appunti, degli spunti buttati lì. E' una fase che può essere molto lunga e anche molto frustrante, perché a volte si ha la sensazione di non stare andando da nessuna parte”.

Quand'è che una storia sembra quella giusta?

“Quando ha un senso profondo e ti permette di dire cose significative sulla vita, sull'amore, sulle persone, sulla politica, però è anche un racconto. Se hai solamente un bel racconto, che funziona ma non significa niente, è difficile che te ne appassioni. Allo stesso modo, se hai solo un concetto senza una storia, non hai niente da raccontare. Bisogna avere entrambe le cose per andare avanti”.

E’ necessario che, fin dall’inizio, appaia un conflitto forte, ben delineato, nella storia che abbiamo in mente?

“Non necessariamente. Ci deve essere un personaggio interessante, che hai voglia di seguire. Poi ovviamente ci deve essere il conflitto: delle difficoltà di fronte alle quali viene messo il personaggio. Perché non puoi semplicemente documentare un'esistenza nella sua piattezza: non ci sarebbe il film. Non è però importante che il conflitto appaia nelle prime scene. L'importante è che il racconto abbia una progressione per la quale si vuole rimanere incollati allo schermo per vedere come andrà a finire”.

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Quali sono gli elementi fondamentali che devi avere quando inizi a scrivere una storia? Non so: un personaggio, e ad esempio un obiettivo, un punto verso cui il personaggio tende?

“Direi che bisogna subito stabilire un patto col lettore, e quindi con lo spettatore, in cui viene espressa una linea di tendenza di narrazione. Ci deve essere un obiettivo. Poi, dovremo scoprire se il protagonista riuscirà a raggiungerlo. Bisogna, poi, proseguire su questa falsariga senza divagazioni, per quanto possibile. Anche se poi, è inevitabile, ci si perde sempre dietro a personaggi secondari che non influiscono in alcun modo nella storia”.

Quindi nella tua testa un film deve essere paragonabile a una freccia, andare da un punto all’altro, da un inizio a un obiettivo raggiunto o perduto, in modo il più possibile “diretto”?

“Io uso spesso la metafora del guado: sei su una sponda e devi arrivare dall'altra parte. Intravedi degli appoggi da utilizzare e devi capire se questi appoggi sono sufficienti per arrivare sull'altra sponda. Altrimenti rischi di rimanere in mezzo o di cadere in acqua. L'errore che fanno molto spesso i principianti è quello di partire con grande entusiasmo sulla spinta di un buon inizio, senza porsi il problema di arrivare alla fine: chiedersi se ci sono sufficienti appoggi narrativi affinché la storia sia interessante anche nella seconda parte. Leggo spesso sceneggiature che hanno esordi fulminanti e poi si afflosciano, perché il racconto non va più da nessuna parte”.

Questo perché già prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura bisognerebbe avere ben chiara l'architettura del racconto?

“La sceneggiatura arriva molto tardi, nel nostro lavoro. Per esempio, con Virzì partiamo da idee molto generali, quasi degli appunti che contengono già delle svolte narrative, o dei passaggi che ci sono già chiari fin dall’inizio. Poi andiamo a riempire tutti i passaggi, finché non ci rendiamo conto che la storia ha una sua completezza, una sua imprevedibilità. Solo a quel punto scriviamo prima il trattamento letterario, poi facciamo una scaletta e infine scriviamo la sceneggiatura”.

Perché fate il trattamento? In America saltano questo passaggio. Vanno direttamente dal soggetto alla scaletta alla sceneggiatura.

“Il trattamento è, laddove non ci sia un antecedente letterario del film, la creazione di un racconto che può contenere anche considerazioni non visive, non prettamente oggettive: stati d'animo, ambienti, pensieri. Quindi è la materia prima su cui uno sceneggiatore deve lavorare per tirare fuori la sceneggiatura. Per me scrivere direttamente la sceneggiatura dopo la scaletta è come camminare nel vuoto”.

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Nel trattamento però si usano aggettivi, avverbi, considerazioni astratte, che nella sceneggiatura è difficile mettere.

“Al contrario: gli aggettivi nella sceneggiatura sono utilissimi. L'importante è identificare quei pochi aggettivi capaci di tirar fuori un'immagine precisa dalla genericità. Il trattamento è anche una zona di grande soddisfazione per uno scrittore. E' il momento in cui lo sceneggiatore scrive proprio come se fosse un romanziere. E' una fase che i giovani sceneggiatori tendono a evitare, perché hanno il mito della tecnica, della sceneggiatura vera e propria. Ma è totalmente sbagliato, perché ti rendi conto che, quando vanno a sceneggiare senza aver fatto un lavoro di approfondimento, questi sceneggiatori giovani lavorano secondo una sorta di teorema astratto della narrazione, dove i personaggi non hanno spessore. Quindi tutto quanto dà una sensazione di estrema superficialità”.

Tutto questo fa pensare che le famose regole americane, come mettere il colpo di scena in un momento preciso, avere un mid-point preciso, eccetera, non ti sembrino così necessarie.

“Sono delle buone regole nel cinema di genere, che è quello maggiormente prodotto dall'industria americana. Chiaramente se fai un giallo, un thriller o un poliziesco devi stare a quelle regole. E' più difficile applicarle al cinema che facciamo noi, che è un cinema molto spesso di prototipi, di autori, di originalità narrativa. Nella commedia molto spesso queste regole invece si applicano: la rimonta, i tre atti, sono certamente cose importanti. Però non le applichi pesandole col bilancino: sono cose che applichi istintivamente per aver visto tanti film belli”.

Cosa è una rimonta? Vogliamo spiegarlo a chi legge, nel modo più essenziale possibile?

“Come rimonta si intende l'anticipazione nascosta di un elemento risolutivo drammaturgico. Per non far piombare la soluzione dall'alto come un deus ex machina, solitamente la si anticipa in una scena precedente: però in modo che non si percepisca come tale. Per esempio, se il protagonista si salverà grazie a un ombrello, racconteremo magari la scena in cui dimentica l'ombrello e torna a prenderlo. Però ovviamente non sottolineeremo il fatto che è tornato a prendere l'ombrello: altrimenti lo spettatore capisce anticipatamente che l'ombrello sarà importante. Bisogna giocare d’astuzia con lo spettatore”.

Parliamo di finali. Come deve essere un finale perfetto per te?

“Ci sono finali sospesi e finali ‘chiusi’. Bisogna sapere quando usarli e come. Il finale sospeso mi sembra molto rischioso da trattare. Ci sono casi in cui esci

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dal cinema insoddisfatto perché volevi sapere esattamente come andava a finire, e invece hanno fatto un finale sospeso. Ci sono casi in cui il finale è troppo ‘chiuso’, in cui senti che c'è stato un desiderio eccessivo di portare a termine tutte le storie, di dare loro un significato esemplare, per cui anche questa cosa ti innervosisce, la trovi forzata. Dipende da che tipo di film stai facendo”.

Mi sembra che però tu pensi che il finale sospeso sia una cosa un po’ da avanguardie degli anni '60, cose passate di moda. Hai questa sensazione?

“In generale mi pare di sì. Se dal punto di vista emotivo si è stabilito un sentimento conclusivo, anche se proprio non fai vedere esattamente tutto quello che succederà, ma lasci lo spettatore con uno stato d'animo preciso, il finale sospeso si può praticare, e possiede una certa eleganza. L'importante è che lo spettatore non si innervosisca, perché non dai un finale alla storia che ha seguito per due ore! Puoi essere ‘soft’, puoi far capire che le cose andranno in un certo modo, e magari celare qualche avvenimento conclusivo. L’importante, però, è non lasciare lo spettatore insoddisfatto”.

Parliamo del desiderio del personaggio. Del suo scopo. Per innescarlo, e quindi per innescare quello dello spettatore, che cosa fai? Per esempio, togli qualcosa al personaggio, in modo che poi lui faccia di tutto per riaverla? Quale tecnica senti più tua?

“Ogni volta è una cosa diversa. Ogni film ha domande e desideri diversi. In generale, cerchi di stabilire subito un patto con lo spettatore affinché si appassioni alle sorti del personaggio. Questo patto può essere fatto di mille ingredienti diversi. Il paradigma della narrazione perfetta è il giallo: scrivendo Montalbano ho imparato molto da Camilleri e ritengo che l'azione del giallo sia l'esempio perfetto, perché ogni scena contiene un indizio che porta verso la soluzione finale. Lì, all’inizio, c’è un crimine. Il patto con lo spettatore è subito evidente: ciò che il personaggio cerca, e lo spettatore con lui, è la scoperta del colpevole. Mi piacerebbe avere la possibilità di scrivere più spesso dei gialli, perché lì hai proprio la sensazione netta e inequivocabile del fatto che alcune scene sono inutili e puoi farne a meno. Devi sempre procedere sulla falsariga dell'inchiesta. Bisognerebbe tenere presente un po' il giallo come modello”.

Anche nella commedia?

“Sì, anche nella commedia. Per esempio un procedimento narrativo interessante che si usa poco, specialmente in commedia, è mettere in campo un personaggio che non ha un'identità precisa e andarne a scoprire lentamente l'identità. Lo faceva per esempio Kieslowski. In questo caso, parte della narrazione è scoprire chi è il protagonista. Uno dei primi film che ho

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scritto era La seconda volta di Calopresti, che giocava mezz'ora sulla comprensione dell'identità dei due personaggi e del loro rapporto. Che cosa c’è nel loro passato? Purtroppo in quel caso, la suspense venne in parte vanificata dalle troppe anticipazioni giornalistiche sul film e sulla sua trama. Per me, narrativamente, era importante che gli spettatori si facessero domande riguardo l'identità dei personaggi. E che queste domande rimanessero irrisolte per tutta la prima parte del film, almeno mezz’ora”.

La costruzione dei personaggi. Le loro azioni, i loro gesti. Come fai? Immagini dal niente delle vite? Oppure prendi appunti mentali quando conosci delle persone?

“Quando metti a fuoco un personaggio cominci a cercare di immaginare tutto di lui, inevitabilmente. Per questo dico che il trattamento è indispensabile, perché nel trattamento puoi mettere anche cose che poi non si vedranno: il background del personaggio, la sua storia precedente al film, i suoi gusti oppure la macchina che guida. Però a questo punto farlo agire è più facile e più piacevole, perché di questo personaggio sai tutto, sai molto di più di quello che fai vedere allo spettatore e quindi lo puoi anche sorprendere, inserendo un elemento che conosci del personaggio e che è coerente con la sua psicologia”.

Per immaginarti questi personaggi come lavori? Attingi a romanzi, ad altri film, o dalle esperienze con persone reali?

“Cerchi di lavorare di fantasia, di immaginare quello che, delle persone, non vedi. Ma è chiaro che nel fare questo fai sempre riferimento a un patrimonio letterario, cinematografico e anche a un patrimonio di conoscenze personali. Cerchi sempre di vedere oltre a quello che le persone ti fanno vedere. Noi sceneggiatori siamo dei grandi impiccioni: ogni volta che parliamo con una persona ci facciamo raccontare vita, morte e miracoli da lei, e poi le mettiamo nei film...”.

Il colpo di scena. Come lo costruisci? Quali caratteristiche deve avere?

“Il colpo di scena per me deve avere una caratteristica fondamentale: non deve essere una cosa gratuita e imprevedibile. Fa parte del discorso della rimonta, in un certo senso. Deve essere una svolta improvvisa e significativa che però ha un suo fondamento, una preparazione. Deve essere qualcosa di inaspettato, sorprendente: ma che non sia campata in aria. Che sia coerente”.

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Tu insegni al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Quindi alla possibilità di “insegnare il mestiere” ci credi. Da cosa parti per insegnare?

“Io ho impostato il corso al Centro sperimentale come una sorta di laboratorio di scrittura creativa. Intanto pretendo che in partenza da parte dei ragazzi ci sia una passione per la scrittura in generale e non solo per la sceneggiatura. Alla sceneggiatura ci si arriva mesi, se non addirittura un anno dopo. Selezioniamo sulla base di racconti e soggetti che i ragazzi mandano, e soprattutto sulla base di una profonda e sincera passione per la letteratura”.

Dopo che hai capito che sono appassionati alla letteratura, che cosa fai fare loro?

“Lavoriamo tutti insieme a far sì che ognuno di loro sviluppi una storia molto personale, che lo riguardi da vicino. Sono molto avvantaggiati gli allievi che provengono da una realtà provinciale che gli altri non conoscono: persone che possono raccontare un mondo assolutamente inedito. Quindi li porto a sviluppare un racconto personale, non di genere, che viene sviluppato con l'aiuto di tutti gli altri. Li alleno a raccontare la storia oralmente, per rendersi conto se questa storia che hanno per le mani è qualcosa che interessa gli altri. Quindi gli altri sono invitati a esprimere sinceramente la loro opinione: se quella storia ha uno sviluppo che può andare bene per un film o meno. Eventualmente, i compagni sono chiamati a integrare delle parti mancanti”.

La scrittura vera e propria arriva molto tardi!

“Finché loro non hanno una storia significativa e appassionante, non passano alla fase della scrittura. Quando abbiamo messo a fuoco la storia, la scrivono come un racconto e solo allora si passa alla fase tecnica della sceneggiatura”.

Tutto questo implica una enorme mole di verbalità, di chiacchiera, di discussione che è come un vuoto a perdere.

“Sì, ma i ragazzi si rendono conto solamente raccontando se la loro storia non è sufficiente, o è noiosa, o non ha personalità, o può durare venti minuti e non un'ora e mezza. Loro ovviamente partono da accensioni di ispirazione di cui non sanno valutare la portata. Questa verbalità a perdere però è anche un grande risparmio di energia, perché mettersi ogni volta a sceneggiare una storia prima di aver verificato che quantomeno a un pubblico di sette o otto persone susciti interesse, che la gente si appassioni porta a buttar via ancora più tempo!”.

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Quando capisci se una cosa funziona?

“Lo capisci subito, se qualcosa funziona. Se la storia piace, tutti dicono qualcosa, tutti danno suggerimenti. Se una storia non è appassionante, la gente sta zitta, ma non perché sia magica: perché non interessa. Quindi il racconto della nostra storia è una cartina di tornasole immediata. Altro segnale: uno sceneggiatore che ha una storia interessante trova subito qualcuno che vuole lavorare con lui. In realtà, facendoli parlare così tanto, io faccio loro risparmiare del tempo, perché se li lasciassi andare per la loro strada, magari dopo mesi si troverebbero di fronte a un muro inutile, e a tanta scrittura buttata”.

Con un produttore faresti lo stesso? Prima la tua storia gliela racconteresti?

“Se ci fossero produttori che hanno la pazienza di stare ad ascoltare, sì. Però preferisco far leggere una ventina di pagine per capire se la cosa interessa”.

Lavorare per la televisione. Cambia molto, rispetto al cinema?

“Io ho l'esperienza di Montalbano e del Commissario De Luca e quindi sono esperienze che hanno alle spalle un lavoro letterario precedente, di Camilleri da una parte e di Lucarelli dall'altra. Chiaramente il lavoro cambia perché non c'è l'ideazione del soggetto ma c'è un lavoro squisitamente tecnico di sceneggiatura. Lo sceneggiatore teoricamente sarebbe questo: qualcuno che dispone la scansione di una storia a partire da un soggetto. In America nasce così. Ecco, in televisione faccio lo sceneggiatore vero e proprio, senza la preoccupazione di inventare le trame”.

Non hai mai scritto gialli tuoi?

“No, non mi è mai capitato. Con Virzì abbiamo provato qualche volta a scrivere idee per trame di gialli. Non è escluso che prima o poi si faccia”.

La costruzione della suspense, che è la base del giallo, quanto conta e come la costruisci? E poi, la suspense è un elemento che può esistere per tutti i film, persino per le commedie?

“La suspense è un elemento legato al thriller o al drammatico. Se per suspense si intende il suscitare un'attesa nello spettatore, una tensione verso la risoluzione, certamente esiste in tutti i film. Nel giallo le strade sono due. Uno: lo spettatore non sa dov'è il pericolo e quindi percorre la stessa strada del personaggio. Due: lo spettatore sa e il protagonista non sa, quindi lo spettatore è tutto teso, avrebbe voglia di consigliare il protagonista. C’è una

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sorta di distribuzione differente della conoscenza. Non conosco altre forme di suspense che non siano queste”.

I libri sulla sceneggiatura. Secondo te servono? Ti capita di leggerli?

“Io in realtà non ne ho mai letti, quindi non me la sento di stabilire se servano oppure no. Da quello che so posso dire che si tratta di regole pericolose per chi fa cinema in Italia, a meno che uno non voglia fare cinema di genere. Sono pericolose, perché danno la sensazione ai neofiti che scrivere sia un fatto puramente tecnico ed escludono l'elemento poetico. Ma lo scrivere film non è un fatto tecnico: è una visione sul mondo, è l'esprimere la propria sensibilità in quello che poi si vedrà. Dopodiché, possono anche servire le regole della sceneggiatura, se si vuole intraprendere una narrazione standard che ha delle regole precise. Però uno non è che può fare lo sceneggiatore perché ha letto i manuali. Uno può fare lo sceneggiatore perché ha letto molto, perché ha letto Tolstoj, Dostoevsikj, perché legge giornali, guarda la televisione. Perché è una persona che vive nel suo mondo, che ha una sensibilità e ha qualcosa da dire”.

Se uno ha delle cose da dire e non ha avuto la fortuna di entrare in una scuola come il Centro sperimentale, che ha rapporti stretti con le produzioni cinematografiche, come si può affacciare al mondo del lavoro della sceneggiatura?

“Una strada che negli ultimi anni è stata molto fertile è quella del Premio Solinas. Io stesso una buona metà del mio esordio cinematografico lo devo a quel premio: mi sembra, oggi, l'unica altra strada praticabile. Un'altra strada è quella di andare a seminare sui tavoli dei produttori e dei professionisti i propri soggetti: ma posso dire per esperienza che spesso rimangono sui tavoli. Ma non per cattiveria, solo perché i produttori e quelli che possono leggere soggetti e sceneggiature e decidere di farli produrre hanno molto da fare”.

Rivolgersi alle case di produzione televisive è qualcosa che consiglieresti?

“Mi sembra che lì sia ancora peggio. La fiction televisiva italiana tende a riproporre modelli vecchi o format stranieri, quindi non c'è grandissimo spazio per i giovani. Mi sembra molto complicato”.

Quanto viene pagata una sceneggiatura?

“Dipende da che film fai. Per quello che ne so si può andare da 5.000 euro fino a 100.000 per i film di sicuro successo. Lo spettro è molto ampio. Io sto felicemente nel mezzo...”.

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Fausto Brizzi ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎

Ridi, Piangi, Ridi: La Doccia Scozzese Come Metodo.

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Cominciamo dalla fine. Perché hai scritto un film come Ex? Un film complesso, ambizioso, anche relativamente costoso, con tanti attori...

“Già”, ride. “Chi me l’ha fatto fare? Il fatto è che io sono sempre alla ricerca di nuove sfide. Se qualcuno mi propone una cosa che per me è nuova, io ci casco subito! Se qualcuno mi propone di entrare nel tabellone a Wimbledon, lo faccio a costo di fare una figura di m... Quest’anno il film che tutti avrebbero voluto da me era Notte prima degli esami 3, per cui avevamo già un progetto, che era Notte prima degli esami - domani, un po’ più ambizioso dei precedenti perché prospettava gli esami di maturità tra vent’anni. Io però ho abortito subito il progetto perché sono già usciti troppi cloni di Notte prima degli esami. Non mi interessava mescolarmi ai derivati delle canzoni di Vasco Rossi e Baglioni. Così, ho trovato un tema universale che è quello degli ex. Tema che sfiora sempre tutte le commedie romantiche: ma mai un film è stato tutto basato sul concetto dell’ex”.

E perché proprio il tema dell’ex? Poteva anche essere il primo bacio.

“Perché l’ex, rispetto per esempio al primo bacio, contiene buffoneria ma anche profonda malinconia. Quando ti lasci con una donna soffri terribilmente. Ma visto da fuori sei irresistibilmente comico. Quando un amico viene a lamentarsi perché la donna l’ha lasciato, e fa scene di depressione totale, a me viene da ridere da matti perché sono quelle malattie che tu già sai che guariranno. Quindi è un tema su cui si può scherzare, ma su cui è possibile mettere una briciola di malinconia”.

E poi è anche un tabù. L’ultima scena di una commedia è: “E vissero insieme felici e contenti”. Tu metti questo classico finale all’inizio. Lo spettatore si chiede: “E ora?”.

“E ora andiamo a indagare! Andiamo a vedere se queste coppie che si sono giurate amore eterno vissero davvero felici e contente. Nel film ovviamente prendo queste coppie in un momento di crisi in cui o si stanno allontanando o si sono già allontanate, e mi diverto a stressare le situazioni fino a creare un’onda finale: alcune coppie si rimettono insieme, altre no, come nella vita”.

Come si è formato il film? Le storie come nascono? C’era un nucleo, un tema? Hai accumulato idee?

“Abbiamo cominciato come un puzzle, provando a fare accostamenti fra le storie, per evitare di mettere cose gemelle. Per esempio, che so, un ex geloso del nuovo amore. Abbiamo cominciato a togliere i doppioni e alla fine hanno ‘vinto’ queste sei storie che si incrociavano bene tra di loro. Le storie sono state scritte prima ognuna per conto proprio, dopodiché alcuni personaggi che

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esistevano in una storia e in un’altra sono stati sovrapposti e assegnati allo stesso attore. Questo rendeva naturali alcuni incroci”.

Ti riesce facile fondere, accorpare personaggi, giocare con le possibilità?

“Facile no, però è una cosa che mi diverte particolarmente. Ho scritto quasi sempre film corali. In fondo anche i film di Natale sono film corali: quando li scrivevo c’erano sempre due storie che a un certo punto si incrociavano, quindi bisognava trovare un punto in comune”.

E il processo di fantasia ti viene autonomamente, durante la giornata o solo quando sei a ‘scuola’, cioè quando lavori con Martani?

“Ci viene solo quando siamo ‘a scuola’. Noi abbiamo un metodo di lavoro molto scientifico e preciso. Ormai da vent’anni ci vediamo la mattina alle 10 nel mio studio e rimaniamo là fino all’ora di cena. Pranziamo insieme, quando abbiamo da lavorare a qualcosa lavoriamo, quando non abbiamo da lavorare leggiamo, commentiamo film, ci guardiamo un film, andiamo al cinema Barberini che è aperto alla mattina ed è meraviglioso. Comunque noi stiamo insieme dal lunedì al venerdì tutte le settimane per tutto l’anno. Quando io prendo le ferie le ‘chiedo’ a Martani e viceversa”.

E in questo quadro la percentuale di scrittura e di chiacchiera qual è?

“Diciamo dal 10 e 90%. La percentuale di chiacchiera e ‘cazzeggio’ è almeno del 90%. Quello è il nostro metodo di lavoro. Sono vent’anni che mettiamo idee dentro al computer; a poco a poco, le stiamo anche vendendo bene. Però ne abbiamo tantissime da parte, perché in tutti i periodi di non lavoro degli ultimi vent’anni noi comunque ci siamo visti come se niente fosse. Anche facendo ipotesi fantasiose di lavoro: ‘Ma... se Pieraccioni ci chiedesse un film, che film scriveremmo?’ e abbiamo ipotizzato un film per Pieraccioni, così come uno per Hugh Grant”.

C’è mai stato un momento in cui vi sentivate costretti a non far altro che serie televisive?

“Le serie televisive noi le abbiamo fatte in un periodo d’oro in cui c’era il boom degli anni ‘90, sull’onda di ‘Maresciallo Rocca’ e cose del genere. C’era un periodo fiorentissimo in cui gli sceneggiatori televisivi erano pagatissimi, molto di più di adesso. Le paghe televisive sono calate drasticamente: si prende il 10% di quello che si prendeva prima. Quindi non ci si lamentava assolutamente: quando facevamo la televisione eravamo felici, ci sentivamo arrivati”.

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E ora secondo te un ragazzo che ha voglia di scrivere film che deve fare?

“Deve abitare a Roma e avere delle idee. Non necessariamente scriverle. Io non ho mai venduto un copione finito. Tutti i film che ho venduto li ho venduti su un ‘pitch’, su un soggettino, su un racconto, su una cosa di tre pagine. Non ho mai venduto una sceneggiatura finita; quindi sconsiglio a tutti di scrivere una sceneggiatura senza un contratto. Quindi: contatto umano e idea forte sono i punti fondamentali. Se qualcuno ha una cosa che già dal titolo può far capire che la gente si interesserà al film, io gliela compro”.

Hai mai studiato gli americani che teorizzano sul cinema?

“Assolutamente sì. Il cinema vero per me è quello lì. Gli americani sanno fare film, gli europei no. Senza generalizzare, perché ci sono anche film europei che mi piacciono; però gli europei non lo sanno fare proprio”.

E quello che scrivono sul cinema, su come si fa?

“Io vengo da quella scuola. C’è stato un corso che ha fatto la Rai 13 anni fa, per cui hanno chiamato un gruppo di insegnanti di sceneggiatura americani. E’ stata la mia più grande scuola”.

Quindi credi nelle teorie sulla struttura?

“Assolutamente sì. Tutti i grandi successi, anche quelli degli autori più grandi, sono fortemente strutturati. Che poi questa cosa derivi da un senso innato della struttura drammaturgica oppure da un sapiente studio della struttura, il risultato non cambia”.

Per esempio Piero De Bernardi andava “a orecchio”.

“Piero De Bernardi era uno di quelli che avevano un talento innato. Poi sicuramente nella sua vita ha letto anche tanto. Io credo che se tu sei uno di buone e voraci letture ti venga un senso istintivo, un ‘orecchio’ su come scrivere storie per interessare il pubblico. Piero era un genio. Piero, insieme a Leo Benvenuti, hanno fatto la storia della sceneggiatura italiana. Tanto di cappello”.

E invece il Centro sperimentale cosa ti ha dato?

“Il Centro sperimentale, avendo io fatto regia, mi ha dato la possibilità di girare. Di girare cortometraggi in pellicola. Girare in pellicola è molto differente: significa avere una troupe vera, che era sì formata di allievi del Centro sperimentale, ma in cui comunque ognuno svolgeva uno dei ruoli canonici dei set del film. E’ una cosa molto differente dal fare i cortometraggi

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con gli amici, in casa. Capisci quel senso di responsabilità di dover dare risposte sicure a mille domande: il vero lavoro del regista. Quando poi ti trovi a fare un film professionale hai meno paura di quel meccanismo, visto che già lo conosci”.

E se tu fossi ora un venticinquenne uscito da una scuola, a chi busseresti?

“Se fossi un venticinquenne busserei agli attori, perché ci sono diversi attori con i quali ormai ‘chiudi un progetto’, cioè riesci a trovare tutti i finanziamenti necessari per produrre quel film, grazie proprio a quel nome. A parte Aurelio De Laurentiis, in Italia non ci sono produttori veri che tirano fuori il portafoglio. Quindi busserei anche alla porta di Aurelio che però, essendo un produttore che ama molto seguire il suo prodotto, alla fine riesce a fare non più di due o tre film l’anno”.

Un film di De Laurentiis deve essere “grosso”, costoso.

“Esatto. Aurelio produce dei blockbuster, quindi è molto difficile esordire con lui. Però ci sono tanti piccoli produttori che si stanno facendo le ossa. Penso a un mio compagno di corso, Nicola Giuliano, che con la sua Indigo film ha prodotto tanto buon cinema negli ultimi anni”.

Con Ex “osi” unire drammatico e comico nello stesso film.

“Molti grandi film della commedia all’italiana, come La grande guerra o Il sorpasso, finiscono con una morte. In Notte prima degli esami la morte non era in coda, ma c’era: moriva la nonna a metà di un film che fa molto ridere. Inserire questa cosa non è stato facile. Tutti mi dicevano che era un suicidio commerciale inserire a metà di un film comico la morte di uno dei protagonisti. Invece si è tornato a ridere; anzi, si tornava a ridere con un sapore diverso. Volevo portare nel film lo stesso mix di emozioni che c’è nella vita: ti capita di ridere ma un attimo dopo magari muore tua madre. Il giorno dopo ti trovi a una cena con gli amici, uno fa una battuta e ti vien comunque fuori una risata liberatoria. Ho cercato di rendere i salti di tono i più fluidi possibile. Quello è stato il lavoro principale”.

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Marco Martani ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎

Creare Un Successo: Concept, Marketing, Brand.

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Bisogna intendersi su una cosa, però: Martani, nella intervista che state per leggere, non parla di cinema come Arte. Parla di film come prodotti. Come oggetti che, prima di tutto, devono riportare a casa i soldi del produttore. E che devono, per questo, prima di tutto, incontrare il pubblico.

La seconda cosa da tener presente, leggendo l’intervista, è che per lui le regole americane – quelle di cui spesso si parla – servono, eccome. Non si può scrivere un film ignorandole. E che per scrivere una commedia quasi mai si parte dalla realtà, da una storia accaduta, dall’osservazione di personaggi. Si parte da un tema. E da lì, si sviluppa tutto il resto.

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Quando è che un’idea diventa buona per un film?

“Io e Fausto abbiamo cominciato a scrivere senza pensare a un ‘mercato’. E anche per quello, all’inizio abbiamo scritto molte cose rimaste nel computer. Le idee possono anche essere geniali: ma se non si adattano al mercato in cui vivi, restano nel computer. Quando l’idea che è venuta fuori si adatta a meccanismi che sono anche di marketing, di novità, di individuazione di un certo tipo di pubblico, allora comincia ad accendersi la lampadina... Se manca una di queste due caratteristiche – creatività e marketing – l’idea parte zoppa. Puoi anche portare avanti una grandissima idea senza marketing: ma avrai enormi difficoltà”.

Come è nato Notte prima degli esami?

“Il produttore Giannandrea Pecorelli ci aveva detto: vorrei fare un film sugli anni ‛80 con questo titolo. Era solo una suggestione: Notte prima degli esami”.

Il titolo e basta?

“Sì: era un ottimo titolo, un concept che racchiudeva un elemento emotivo e di forte fascino. Un elemento che ci induceva a dire: la base per un’operazione che possa interessare il pubblico comincia a esserci. Anche se ancora l’idea narrativa non c’era”.

Ma il titolo non è l’ultima cosa che dovrebbe venir fuori?

“No no! Nei film di De Laurentiis, per esempio, il titolo è la prima cosa. Il titolo è un concept, per certi film. Penso a Ex: il titolo è un marchio, è un brand, ed è il concept sul quale tu lavori. Hai questo quadro: gli ex amori. Può diventare una commedia romantica, nostalgica, comica eccetera. E’ questa l’operazione che vendi al produttore. Le garanzie sono: un’idea forte, un buon marchio che funziona, la possibilità di giocare su diversi fattori. Se poi lo scrivi male, non sarà un gran film. Però, già di per sé, parti avvantaggiato”.

Il lavoro dello sceneggiatore è, dunque, “riempire di senso” un titolo?

“Almeno in questo caso, sì. E dentro, devi portare un elemento di novità nella storia, ma non una novità eccessiva. Se sei troppo innovativo, troppo sperimentale, il pubblico si riduce”.

La struttura del racconto conta?

“Moltissimo”.

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Anche le regole americane dei tre atti? Quanto le segui? Vai a istinto o di “studio”?

“Seguire le regole in maniera ferrea è, per me, sempre una cosa positiva. Perché poi hai la possibilità di giocarci: ma l’importante è che tu le conosca. Se poi utilizzi queste regole in maniera schematica, il prodotto viene schematico, e viene percepito dal pubblico come non interessante. Certi film americani sono troppo prevedibili da questo punto di vista, perché si mantengono entro canoni troppo rigidi”.

Però le regole servono.

“Ignorare le regole pensando ‘io sono meglio delle regole’ è un approccio che molti autori italiani hanno avuto. Ma anche deleterio. Utilizzare un certo tipo di regole significa affidarsi a una macchina perfetta per l’aggancio del pubblico. Poi bisogna essere bravi a mascherare, a nascondere questa struttura: ma la struttura ci deve essere. Senza il pubblico rimane insoddisfatto. Sente che manca qualcosa. Se invece vuoi fare un prodotto di nicchia, allora puoi concederti qualunque sperimentazione, anche sul linguaggio. Ma non è un caso che alcuni film che mantengono regole ferree siano anche stati dei grandi successi di pubblico, e siano rimasti per sempre nella storia del cinema. Penso a Billy Wilder, che ha trovato formule perfette per intrattenere secondo le regole ma sorprendendo sempre”.

Di queste regole cosa ti sembra indispensabile? I tre atti? I colpi di scena? Il personaggio messo alla prova? L’antagonista?

“Tutto! Per esempio l’antagonista forte è fondamentale per il conflitto. Altrimenti non hai interesse per ciò che guardi. Un esempio: sono andato a vedere uno spettacolo per bambini con mio figlio di otto anni. Sono uscito, e gli ho chiesto: ‘ti è piaciuto?’ Mi ha detto: ‘mah... insomma, un po’ noioso’. ‘E come mai?’, gli ho chiesto. ‘Perché non c’era il cattivo’. Mio figlio l’aveva percepito, in maniera inconscia, come un elemento mancante. Che cos’è che mette in pericolo il mio eroe e di conseguenza mi fa interessare alla storia? Il cattivo. Anche mio padre, che non era un esperto di cinema, catalogava i film tra belli e brutti in base all’interesse. E l’interesse stava tutto nell’incertezza, nella lotta contro il cattivo, l’avversario, il male”.

I tre atti?

“Possono anche diventare cinque, d’accordo. Ma quando ti rendi conto che questi strumenti, queste scansioni non sono state inventate ieri, ma arrivano da Aristotele, ti accorgi che sono strumenti importanti per catturare l’attenzione. Per fare il nostro mestiere”.

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Che cosa, ancora, conta molto?

“L’incidente scatenante. In Notte prima degli esami c’è un incidente scatenante, in cui il protagonista dice tutto quello che pensa al professore. E poi se lo troverà ancora davanti agli esami. Questo è importante: è la cosa che ti spinge all’interno della storia. Più è forte l’incidente scatenante, e più il pubblico sarà interessato alla storia”.

Hai studiato l’elemento scatenante?

“Sì: ci sono interi corsi di scrittura creativa su come rendere al massimo questo primo momento”.

Tu avevi in mente tutta la storia fin dall’inizio?

“No. Per esempio, non strutturo in atti fin dall’inizio. E’ una cosa che avviene a posteriori. Anche perché ho un certo tipo di istinto, nel capire se un primo atto o un ultimo atto sono troppo lunghi o troppo stringati. Non uso dei paletti sui quali costruire il film”.

Come si può immaginare che cosa il pubblico potrà amare o apprezzare?

“E’ un lavoro che molti autori non hanno fatto. E che però sarebbe il caso di fare. Tutti dovremmo farlo. Non è qualcosa che vada contro la creatività! Io non ritengo che un lavoro sul marketing snaturi, di per sé, l’operazione di scrittura. Se ti fai prendere la mano da un concetto di ‘autorialità’, sbagli. Perdi di vista il pubblico. Dall’altro lato, è vero, c’è il rischio di farsi prendere la mano dall’operazione commerciale”.

Quante volte rifate la scaletta?

“In realtà, si parte da un lavoro di strutturazione a blocchi, a scene madri. Una volta che abbiamo fissato la posizione di queste scene importanti, è difficile che vengano spostate. Se ti accorgi che una scena del primo atto la puoi mettere impunemente nel secondo, se una scena del terzo la puoi mettere tranquillamente nel primo... Beh, allora è meglio che butti via tutto”.

Quindi lo scheletro della storia deve essere intoccabile.

“Certo, nelle piccole cose spostiamo qualcosa. Ma lo scheletro della storia deve rimanere quello”.

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Quali sono gli elementi che sicuramente, in una commedia, “funzionano”? E quali vanno evitati?

“Ciò che funziona è l’idea forte, che fa da traino a tutto. Un’idea che può dare meccanismi comici”.

Molti sceneggiatori partono non tanto dall’ “idea”, quanto dalla realtà. Dalle testimonianze delle persone. Magari dalla cronaca.

“Sì: ma quelle non sono commedie! Sono approcci differenti. La commedia ha un percorso solitamente più ‘deduttivo’. Nel senso che si parte dall’idea. O da un tema. E da lì si parte per costruire la storia. Noi almeno abbiamo sempre lavorato così: ‘prima troviamo una storia forte, e capiamo qual è il tema forte che la sottende’. Se poi il tema si rivela fortissimo, e impone di cambiare qualcosa della storia, per adattare il tema, si può anche fare”.

Senti, ma il concept che cos’è?

“E’ qualcosa di diverso dal tema. In Ex il concept è: gli ex amori. Il tema invece è: ‘credere all’amore eterno è un’illusione. Però continuiamo a farlo’. Il titolo ‘Ex’ è già un logo, è già un concept, è già idea. Poi, all’interno lo spettatore troverà anche un film che li gratifica”.

Quando hai un problema narrativo che non riesci a risolvere, come ti comporti?

“Vado a fare una passeggiata! No, scherzo. Ma è chiaro che cerco di confrontarmi con gli altri. Il confronto è importante. Io e Fausto lo facciamo continuamente, siamo duttili. Non ci arrocchiamo su posizioni egocentriche. Cerchiamo di smussare, ogni volta. Non ti incaponisci su un’idea che ti è venuta, quando è chiaro che non funziona”.

Quando scrivete i dialoghi che cosa succede? Ve li “recitate” tra di voi?

“Certo! Normalmente, verso la fine del lavoro di sceneggiatura, ci si dividono dei blocchi di scene. Si scrivono i dialoghi da soli, e poi ci si ri-lavora insieme. Fatto un abbozzo di una scena, con Fausto la ri-dialoghiamo. E cerchiamo di fare in modo che i dialoghi siano molto secchi, ritmati, botta e risposta. Che portino avanti la storia senza essere chiacchiere inutili”.

Prendi spesso appunti mentali? Ti capita mai di prendere appunti su qualcosa che vedi?

“Qualche volta. Non sistematicamente”.

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Quanto tempo ci vuole per scrivere una sceneggiatura?

“Per Ex abbiamo strutturato e pensato agli incipit delle varie storie per circa 6 mesi, e poi nei successivi 3 mesi abbiamo scritto la sceneggiatura. Il lavoro di ideazione e di incastro dei soggetti è stato lunghissimo. Paradossalmente, il lavoro di sceneggiatura è stato più breve”.

Quanto viene pagata una vostra sceneggiatura?

“Parecchio. Ci sono dei parametri a seconda del tipo di film, e poi si parte a seconda del tipo di successi precedenti. Il classico film di Natale sul mercato è molto ricercato, o anche commedie come Ex. Ci sono produttori che fanno a gara per assicurarsi un prodotto di questo genere”.

Lo storyboard è importante?

“Fondamentale. Quando si va sul set, gli storyboard sono fondamentali. E’ un lavoro che fai su una sceneggiatura quasi definitiva, quando hai scelto le location, e su quello discuti su che tipo di riprese e di regia vuoi fare. E’ fondamentale. Siamo un po’ strani, io e Fausto. Abbiamo preteso di fare lo storyboard di Notte prima degli esami, mentre gli storyboard si facevano solo per i film d’azione. Noi vogliamo ‘storyboardare’ tutto”.

La voce fuori campo va usata, va usata con giudizio, va usata solo quando serve, è da demonizzare?

“Si usa con giudizio, quando serve. Noi per esempio l’abbiamo usata in Notte prima degli esami. E magari la useremo per altri progetti”.

Che consigli daresti a un giovane che vuole cominciare e vuole rendere la scrittura un mestiere?

“Potrei consigliare quello che ho fatto io: ho lavorato scrivendo tantissimo anche se non avevo i committenti. Il lavoro della scrittura è una specie di muscolo che va esercitato, come gli addominali. Se non li fai per quindici giorni ti viene la panza”.

Consiglieresti di fare solo cinema?

“No, perché se no fai la fame. Qualunque possibilità che hai di scrivere e di essere pagato la devi sfruttare. Qualunque tipo di cosa. Ogni occasione di entrare nel mondo del lavoro, e di allenarti alla scrittura”.

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Pupi Avati

Tutto Nasce Dal Personaggio.

Settantadue anni, trentasette film, Bologna nell’anima e nel cuore. Pupi Avati: regista, sceneggiatore, scrittore. Uno che fa cinema come se gli fosse necessario, come respirare. Forse anche per questo ha un record da fare invidia a Woody Allen: un film e mezzo all’anno. Film non troppo costosi, prodotti “in casa”, con la DueA del fratello Antonio, film che raccontano un’Italia di gente qualunque.

Film color nostalgia: Festa di laurea, Regalo di Natale, Storia di ragazzi e di ragazze, Fratelli e sorelle, Ultimo minuto. Un tocco lieve, malinconico, sospeso tra sorriso e intermittenze dell’anima.

Per i suoi film, Avati ha vinto tre Nastri d’Argento, due David di Donatello. Silvio Orlando, protagonista de Il papà di Giovanna, è stato premiato a Venezia con la coppa Volpi come miglior attore. E nel febbraio 2009, Avati è stato premiato a Los Angeles all’istituto italiano di cultura, mentre una ampia rassegna dei suoi film veniva presentata al Chinese Theatre di Hollywood.

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Avati, da dove viene la passione per il cinema?

“Il cinema è entrato nella mia vita tardi, in soccorso di quello che doveva essere lo strumento principale, al quale io avevo affidato le mie aspettative: la musica. Io ho sognato di diventare un grande musicista. Non tanto per il successo, quanto per riuscire a dire chi ero. Era un'urgenza fondamentale, quella, nell'esistenza dei ragazzi della provincia italiana degli anni ‘50. C’era in quasi tutti la necessità di uscire da un contesto amorfo, spento, rassegnato. C'è stato chi ha avuto più coraggio, più sfrontatezza, più spregiudicatezza di altri, e ha inseguito sogni, in vari ambiti, da quelli sportivi a quelli artistici. Per me, quel sogno fu la musica. Il fallimento musicale fece sì che mi rendessi conto che poteva essere il cinema il succedaneo della musica: attraverso il cinema sarei riuscito a dire agli altri chi ero, per emergere da questa ‘non visibilità’ che in provincia si paga caramente”.

Ha sempre avuto presente come andavano scritte le sceneggiature? Oppure ha trovato pian piano la maniera?

“Io penso che il momento attraverso il quale la creatività cinematografica si sviluppa sia la scrittura. Non è certamente sul set, né tanto meno al montaggio. E’ nel momento in cui io mi trovo a confrontarmi con la pagina bianca per riempirla di una storia. E’ quello il momento in cui riesco a essere al massimo creativo: riesco a produrre quel tipo di intreccio psicologico, drammaturgico, brillante, terrificante, commovente, struggente, che poi si produce nella storia”.

Come è cambiato, anche formalmente, il modo di scrivere una sceneggiatura?

“C’erano canoni e regole nel modo di scrivere la sceneggiatura all'italiana negli anni ‘60: era molto particolareggiata, molto dettagliata; addirittura riportava le focali, le lenti, le inquadrature, i movimenti di macchina, le panoramiche, primi piani, campi lunghi, campi medi. Poi era terribile da leggersi, perché i fogli erano divisi in due parti: nella parte sinistra l'azione, nella parte destra il dialogo; quindi riuscire ad emozionare ed emozionarsi nello scrivere o nel leggere una storia di questo genere era un'impresa quasi impossibile”.

Come scrive le sceneggiature?

“Successivamente, gli americani hanno proposto uno schema narrativo, di scrittura della sceneggiatura diverso: la pagina è occupata nella sua interezza, con al centro il dialogo, però con le scansioni delle varie sequenze. Io addirittura ho superato anche questa fase e, quando scrivo una sceneggiatura, scrivo innanzitutto scorrettamente al passato. Anziché scrivere

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‘Mario entra nella stanza oppure Mario: Come va?’, scrivo ‘Mario entrò nella stanza e guardò Maria: Come va?'. Mi sembra che raccontare al passato sia come riferire qualcosa che in realtà è accaduto. Mi da più certezza. Ha un potere evocativo molto più forte, il racconto al passato”.

Insomma, lei trasgredisce un sacco di regole...

“Sì, e soprattutto non tengo assolutamente conto di tutte queste scansioni delle scene, delle battute, delle parole: io scrivo praticamente un romanzo, scorrettamente corredando il racconto anche del pensiero, cosa che in sceneggiatura non si dovrebbe fare. Fornisco agli attori anche quello che il personaggio sta pensando in quel momento, mentre sta dicendo quella cosa; mi sembra che non sia un dato trascurabile, perché spesso evita discussioni e fraintendimenti sul set per cui un attore dice: ‘Ah, ma io credevo che lo dicesse così!’...”.

Quindi le sue sceneggiature attengono più alla forma letteraria...

“Sì. Con sospensioni anche temporali: le mie sceneggiature non sono solo azione, ma si concedono delle pause nelle quali spiego perché il personaggio, mentre ne guarda un altro, sta pensando alla sua fidanzata che lo aspetta. Questi indugi che produco servono a far sì che io innanzitutto mi rammenti la ragione per la quale ho scritto queste battute, quando andrò a realizzarle. Puoi scrivere un film oggi e girarlo sette anni dopo, come è accaduto per La casa dalle finestre che ridono fu un film scritto nel ‘69 e girato nel ‘76”.

E rispetto alla scrittura della sceneggiatura, mi sembra che lei non segua le regole “americane”: il colpo di scena in quel dato momento, il midpoint eccetera...

“No, queste regole per le quali nelle scuole di sceneggiatura si insegna che dopo tot minuti ci vuole un picco, poi un altro, mi sembra che obbediscano soprattutto a un interesse che si vuole suscitare da subito nell'ascoltatore. Sono regole più televisive che cinematografiche. Lo spettatore cinematografico è prigioniero del suo biglietto: nel momento in cui ha pagato un biglietto, è entrato in una sala cinematografica, ed è molto difficile che ti abbandoni. Mentre in televisione è sempre libero di farlo. Ecco perché in televisione c'è questa necessità impellente di acchiappare immediatamente lo spettatore attraverso un interesse. Non è che il cinema debba rinunciare alla tensione narrativa, perché è altrettanto importante, ma non dosata attraverso un'alchimia delle forme così aride, così geometriche”.

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E quindi per lei quand'è che una storia è formata, è compiuta, “funziona”?

“Quando mi emoziona. Quando nel rileggerla riproduco su di me, per divertimento, per commozione o per paura, le condizioni che io ho narrato a me stesso. Bisognerebbe scrivere all’infinito le storie, non arrivare mai a una versione definitiva: se uno dovesse essere onesto con se stesso, saprebbe che ogni volta che la riscrive, in qualche modo la migliora, le aggiunge qualche cosa e vede qualche piccolo limite. Però c'è un certo punto in cui sono di più le parti che ti convincono, la tensione e l'emozione generale funzionano, e allora sei maturo per affrontare il set”.

E rispetto al personaggio che costruisce, cos'è che la emoziona di più? Le peripezie che deve affrontare, le difficoltà?

“Innanzitutto le storie non nascono avulse dai personaggi; al contrario, sono i personaggi che ti raccontano la loro storia.Non c'è una storia di un mio film che non sia nata da un identikit: è un essere umano quello che incomincio a tracciare; inizio a descriverlo fisicamente, posso occuparmi del suo guardaroba, posso desumere dal suo guardaroba e da come è fatto fisicamente, chi forse è, da che famiglia viene, in quale fase è della sua vicenda umana”.

La storia nasce dal personaggio?

“In qualche modo sì. Via via che lo descrivo, senza occuparmi della storia, cercando di fare un ritratto il più dettagliato e pungente di lui, improvvisamente questa storia emerge: emerge una serie di relazioni che questo personaggio non può non avere. Perché se è vestito così, se beve il caffè in quel modo lì, se si esprime in quel modo lì, se ha quel modello di telefonino lì, se ha quello zainetto lì, io a un certo punto comincio a desumere tutto un certo mondo di interrelazioni che lui ha attorno, una galassia che si va formando, che mi suggerisce anche una vicenda. E quando cominci a disegnare uno, due, tre identikit di questo genere, improvvisamente poi la storia esce”.

Il personaggio è centrale, per lei. L’osservazione delle persone, la costruzione di “tipi”, produce un mondo.

“Sì: disegnare un mondo è disegnare un personaggio, un essere umano. In un romanzo di Faulkner che si chiama Il borgo, c'è la descrizione di una ragazza che vive in questo borgo ai primi del ‘900, ed è una ragazza grande, sgraziata, gigantesca; e ci sono forse dieci pagine che Faulkner dedica alla descrizione, al mondo psicologico, a come si comporta, a come vive questa ragazza. Da lì si diparte tutta una vicenda che gli è suggerita dalla stessa ragazza, da come si comporta; è come se lui fosse stato giorno e notte a guardarla vivere: da lì è

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partita poi una storia che è molto intrecciata. E' la meraviglia dell'osservazione, dell'attenzione nei riguardi dell'essere umano, che produce le storie”.

Quanto mette di se stesso nella costruzione di un personaggio?

“Molto: in ognuno dei miei personaggi c’è un bel pezzo di me e della mia vicenda umana. Mia moglie e i miei figli, quando vedono i miei film, riconoscono un'infinità di cose che son state dette in casa, di atteggiamenti, di modi. Uno quando scrive, quando costruisce delle storie, elabora dei materiali che hanno molta attinenza col proprio vissuto, non lavora in astratto; non saprei mai immaginare un mondo nel quale non sono mai entrato, col quale non ho mai avuto rapporti: mi sarebbe molto difficile e sarebbe molto scorretto farlo”.

E sul set? Dice che per imparare il cinema sarebbe meglio fare la segretaria di edizione.

“La segretaria di edizione spartisce con il regista quello che i francesi chiamano découpage, cioè la segmentazione di quello che poi il montaggio verrà a produrre. Ci sono due punti d'osservazione, due luoghi nei quali si impara la sintassi cinematografica: uno è attraverso l'edizione, l'altro è attraverso il montaggio. Solo che nella sala di montaggio un regista non ti fa entrare volentieri. Perché quello è il suo confessionale, il luogo in cui si rivelano e si svelano tutti gli errori che può aver commesso sul set”

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Vincenzo Cerami

Lo Spettatore Deve Arrivarci Prima.

Vincenzo Cerami è stato candidato all’Oscar per La vita è bella, che ha scritto per Roberto Benigni. Con Benigni, ha firmato alcuni dei film di maggior successo degli ultimi vent’anni: dal Piccolo diavolo a Johnny Stecchino, dal Mostro a La tigre e la neve. Nato nel 1940, ha avuto una fortuna che non tocca a molti: avere come maestro di scuola Pier Paolo Pasolini. Il resto, lo ha fatto da solo, con determinazione, volontà, amore per la scrittura. Si è rivelato nel 1976 col romanzo Un borghese piccolo piccolo, portato al cinema da Mario Monicelli. Ha scritto sceneggiature per Gianni Amelio (Colpire al cuore, I ragazzi di via Panisperna, Porte aperte), Marco Bellocchio (Salto nel vuoto), Ettore Scola (Il viaggio di capitan Fracassa), Giuseppe Bertolucci (Segreti segreti, I cammelli). Scrive, come giornalista, per Il Messaggero. Ha scritto numerosi romanzi e pièces teatrali.

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Scrittore di romanzi, sceneggiatore, autore di teatro. Ma lei, come si sente? Uno scrittore prestato al cinema, o cosa?

“Io non faccio gerarchie. Sono un narratore. E racconto con tutti i mezzi possibili. Lavoro la parola, lavoro con le parole. Cinema, teatro, letteratura, radio, giornalismo. Non ho mai avuto una gerarchia. Semmai, mi diverto di più quando lavoro con gli altri, come nel cinema. In letteratura sei da solo, dall’inizio alla fine”.

Scrivere romanzi, scrivere film. Che differenza c’è?

“Le due scritture hanno in comune solo la struttura profonda, la narrazione. La letteratura è fatta di parole scritte in silenzio, affinché una sola persona le legga in silenzio. Il cinema racconta attraverso i comportamenti dei personaggi, e dai comportamenti devo capire che cosa pensano i personaggi. In letteratura i pensieri sono parte integrante della narrazione. Al cinema il pensiero non lo puoi dire, lo devi trasformare in azione”.

Glielo avranno chiesto mille volte. Ma come lavorate con Roberto Benigni, quando immaginate i film?

“Lavoriamo con il caos. Che poi, piano piano, diventa ordine. Cominciamo a parlare a vanvera, per ore, finché non si deposita un punto, un’idea, un centro. E da lì, da quel piccolo germoglio, cominciamo a lavorare”.

Ma è vero che “recitate” i vari ruoli, mentre scrivete il film?

“Come no! Roberto interpreta il suo ruolo, e io recito – si fa per dire – tutti gli altri personaggi, anche quelli femminili. Non è proprio un ‘recitare’, è un mettere in scena il gioco del film. Perché in fondo, è tutto un gioco”.

Nei film che avete scritto c’è sempre un contesto molto “forte”: l’Olocausto, la guerra in Iraq, per esempio. Perché scegliete questi scenari universali, enormi?

“Perché il conflitto amoroso in sé è stanco, è esaurito. Un film che racconti solo una storia d’amore per me non ha senso”.

Lei è cresciuto a Ciampino, vicino all’aeroporto. Lì, alle scuole medie, ha avuto un insegnante che si chiamava Pier Paolo Pasolini. Che cosa ha cambiato, nella sua vita?

“Tutto. Senza Pasolini oggi sarei un militare, probabilmente. E’ lui che mi ha dato l’entusiasmo per scrivere, che mi ha fatto scoprire la cultura come qualcosa che poteva essere anche mia, non solo come una cosa lontana”.

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Come era Pasolini a scuola?

“Era molto simile a noi: giovane e povero. Anche se con la cravatta. Ma era una cravatta bisunta, logora. Aveva ventotto anni, era poco più che un ragazzo. E giocava a pallone meglio di noi! Ci portava in gita, quando le gite ancora non esistevano, a visitare musei in giro per l’Italia. E quando insegnava latino era severissimo, e insieme giocoso. Ci spiegava le declinazioni latine con dei disegni, come se cadessero da degli arazzi... Insomma, era tutto un gioco. Ma un gioco molto serio”.

Quand'è che un'idea è buona per un film?

“Non esistono un codice o un programma che dicano: ‘questa storia è buona’, senza possibilità di errore. Ti affidi all’istinto, prima di tutto. Per prima cosa, devi individuare il conflitto. La natura di questo conflitto. Dev’essere qualcosa di vivo. Devi sentire che ci sono due forze che vanno in direzioni contrarie. Quelle forze creano la dinamica necessaria a costruire una storia. Senza conflitto non esiste nessuna storia. Devi sentire la qualità di quel conflitto: devi sentire che ti appartiene, che è reale, che non è campato in aria”.

Come deve essere questo conflitto, per lei?

“Non importa, all’inizio, che sia definito nei dettagli. L’importante è che sia vero. Il lavoro dello sceneggiatore consiste nel trasformare questo conflitto, che all’inizio è solo un sentimento, in una storia, un film”.

L’idea di conflitto fa pensare al dramma. Ma un conflitto può essere anche alla base di una commedia. Giusto?

“In realtà tutti i film comici, se vengono raccontati, sono drammatici. Se si pensa ai film di Chaplin, sono storie di una malinconia e di una tristezza unica. Un pover’uomo a cui capitano mille disavventure, con l’autorità costituita, con le donne... Un uomo che soffre la fame, che è emarginato... Però, interpretate da Charlot, quelle disgrazie diventano poesia, gioco, vitalità. Lui si fa maschera che racconta i bisogni essenziali, come amare, mangiare, vivere”.

Qual è per lei la fase più difficile, ma anche più entusiasmante, della scrittura?

“Le difficoltà sono tutte all'inizio. Il 90% delle difficoltà, almeno per me, sono all'inizio. L'idea è la cosa più difficile da trovare. Se la trovi, è un tesoro vero. Provo una forte emozione quando trovo l'idea perché sento che il film è fatto. Per me è finito proprio, posso già pensare ad altro”.

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Come lavora per farsi venire delle idee?

“Di idee non ce ne sono tante, e non ci sono tecniche che ti insegnino ad avere un'idea. Devi vivere il mondo in un certo modo, osservarlo in un certo modo e girare intorno alle cose. Poi un giorno hai un'illuminazione e nasce l'idea. Poi c'è il problema di scrivere quest'idea. Cioè, devi scrivere un soggetto. E non è facile. La cosa più difficile da scrivere al cinema è il soggetto, che è il racconto dell'idea”.

Perché è difficile scrivere un soggetto?

“Perché bisogna arrivare a una sintesi narrativa particolare: in due pagine devi far ‘sentire’ il film. Non devi raccontare tutte le storie che si intrecciano: devi far sentire di che si tratta, far capire ambiente, personaggi e l’evoluzione del conflitto. E’ difficilissimo. Fatto quello si passa alla prima scaletta: inizio, un po' di svolgimento centrale, colpo di scena madre e poi il finale”.

Di quanti punti si compone una sua prima scaletta?

“Diciamo sei, sette, dieci punti. Qui siamo ancora a livello di uno schema, che va poi cancellato. Va scritta un'altra scaletta più graduale, dove la storia diviene più credibile da un passaggio all'altro, quindi molto più ampia. Viene chiamato 'scalettone' in gergo, ed è composto dai quaranta ai settanta punti, a seconda del genere. Per un film d'azione ad esempio saranno di più”.

Parliamo delle coincidenze. Quanto ci si può spingere a stravolgere il normale corso delle cose, creando coincidenze che accadono una volta su un milione?

“A volte per risolvere il problema del racconto si utilizza una forzatura, ma bisogna fare in modo che lo spettatore non dica sarcasticamente: 'Guarda un po' che coincidenza!'. Queste evenienze bisognerebbe eliminarle del tutto. Quando sono strettamente necessarie, si deve riuscire a nasconderle, in modo tale che non creino imbarazzo nello spettatore”.

Se una “coincidenza”, una forzatura accade, dovrebbe sempre andare contro il protagonista, si legge un po’ ovunque. Il lavoro dello sceneggiatore è complicare la vita al suo personaggio, giusto?

“Il protagonista deve infilarsi in situazioni che lo mettono in allarme, in pericolo. Di qualunque natura esso sia. Questo allarme rende viva la scena e rende vivo il personaggio, che comincia a reagire a questa aggressione che arriva”.

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Poco fa mi ha detto che l’idea è praticamente tutto. Quindi quando ha pensato a un ebreo che viene messo in un lager, e per tranquillizzare il figlio finge che sia un gioco, sentiva di avere già tutto La vita è bella?

“Ciò che è accaduto nella Storia è talmente abnorme, che ho pensato di giocare sul paradosso. Un padre che dice al figlio che quella è una cosa talmente assurda, che non può esistere. Questa è la chiave del film. Siamo stati ‘aiutati’ dalla assurdità di quello che è realmente successo: come potevano fare lumi e portacenere con le persone?”.

Quanto si chiacchiera prima di arrivare a scrivere un soggetto?

“Io uso sempre un metodo lavorando con i registi: quando si ha l'idea bisogna conquistarne la complessità. Bisogna rendere complessa l'idea e per farlo si comincia a girare intorno al tema, quindi a discutere di tutto, anche di cose che apparentemente non c'entrano. Però sono cose che il film richiama, temi che vengono buttati dentro finché non hai questo senso della complessità dell'argomento”.

In qualche modo, inserire nell’idea tutto quello che può essere legato a essa.

“Sì: e a quel punto devi fare il contrario. Cioè, dopo quello di addensamento, nasce il lavoro di semplificazione. Da questo universo che hai creato, devi ricavare una storia molto semplice. Ma la semplicità la puoi creare solo a questo punto: perché tutto il materiale che hai raccolto ti ha dato lo spessore e la complessità che sono sempre dietro la semplicità”.

A quale punto dell’elaborazione della storia affiorano i personaggi?

“Quando hai fatto questo lavoro sull’idea, mentre si cercano le situazioni, iniziano a emergere i personaggi. Cominci a immaginarteli nelle situazioni iniziali, e poi loro stessi stimolano la tua fantasia e ti portano nelle nuove situazioni, e quindi dentro la tua storia”.

Come si crea la complessità delle storie? Facendo credere che la vicenda debba andare in una certa direzione, quando invece finisce altrove?

“Tu sceneggiatore sai dove il protagonista andrà. Nel mezzo, sei libero di portarlo dove vuoi. Ma il pubblico deve scoprire il destino del personaggio poco a poco”.

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Però se il suo destino è – diciamo – bianco, un attimo prima deve sembrare che vada verso il nero?

“Lo spettatore deve arrivare cinque secondi prima che tu gli dica come sono le cose. Ci deve arrivare da solo, non glielo devi dire tu. Il protagonista a un certo punto dovrà andare dove lo spettatore sa. Non sorprenderlo, perché se lo sorprendi troppo lo disorienti e gli rendi meno credibile ciò che accade”.

E quella che Hitchcock chiama suspense. Come si lavora per crearla?

“Il cinema ci permette di raccontare, come in letteratura, ‘in terza persona’. Cioè si può vedere quello che fa un personaggio, poi quello che fa un altro personaggio e poi farli incontrare. Lo spettatore ha il codice di interpretazione di questo incontro, sa quello che hanno fatto rispettivamente, mentre ogni personaggio non lo sa. Giocando su questa ‘superiorità cognitiva’ dello spettatore posso rendere la scena molto significativa, molto forte. Proprio perché il pubblico sa, crei una complicità col pubblico su cui creare la suspense”.

Quindi bisogna fare in modo che lo spettatore sappia sempre qualcosa in più dei personaggi...

“Sì, lo spettatore dovrebbe sapere un po' di più. Però ci sono delle storie, specialmente dei gialli, in cui viene usato quello che in letteratura si chiama 'libero indiretto': seguo il protagonista e non lo lascio mai, quindi ho insieme a lui una certa cognizione del mondo e delle cose. Improvvisamente si va da un'altra parte. E qui c'è il colpo di scena: a un certo punto non c'è più la visione delle cose che ha il personaggio, ma un punto di vista che supera quello del personaggio. Tutto quello che ho visto fino a quel punto era un inganno”.

Lei come lavora sul colpo di scena?

“Il colpo di scena è un passaggio stilistico, non è solo un fatto drammaturgico. E’ come passare dal ‘libero indiretto’ alla terza persona narrativa. Se prendiamo La donna che visse due volte di Hitchcock, la macchina da presa sta attaccata a James Stewart. Sta sempre con lui. A un certo punto lui deve seguire una donna che pare che sia suicidata. La rivede per strada e ci si chiede se non sia resuscitata, anche se è vestita e pettinata in modo diverso. Lui la segue: noi spettatori abbiamo il sospetto che sia lei, però l'abbiamo vista cadere dal campanile e per noi è morta. Lui va a casa di lei, poi se ne va e per la prima volta la macchina da presa non lo segue ma rimane là. A questo punto c'è il colpo di scena: la macchina da presa ti conferma che è lei. E’ un colpo di scena eseguito con lo stile, basato essenzialmente sui movimenti della macchina da presa”.

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E per quel che riguarda i suoi colpi di scena, delle sue sceneggiature, come ci lavora?

“Mi attengo ad Aristotele. Lui già parlava di come raccontare le storie: c'è un mondo apparentemente equilibrato e poi improvvisamente dall'esterno arriva qualcosa che rompe questo equilibrio. Il personaggio è costretto ad agire per ritrovare un altro equilibrio dopo il trauma”.

E' molto importante che tutto il mondo che si crea sia credibile...

“Tutto sta nel piano stilistico scelto. Se si sceglie il piano naturalistico tutto deve essere credibile. Ma anche se si sceglie il piano metafisico, tutto deve essere a suo modo credibile. L'importante è che tutto sia omogeneo con il piano che si sceglie”.

Torniamo alla successione degli stadi di scrittura. Lei lo fa il trattamento?

“Sì. Si deve fare! Il trattamento è l'unico momento letterario nella costruzione di un film ed è il momento in cui cominci a immaginarti come sono fatti i personaggi dentro e li vedi negli ambienti. Fino a ora hai visto solo come si muovono e cosa fanno per far scattare il meccanismo, però dopo devi conoscere come sono fatti dentro, da dove vengono, qual è il loro passato, cosa pensano. Il trattamento è l'unico punto in cui si può scrivere il pensiero dei personaggi. Il trattamento è fondamentale”.

Dopo, il trattamento va trasformato in sceneggiatura. Dialoghi più azione...

“E' il passo successivo. Dopo il trattamento fai i dialoghi. Prendi situazione per situazione, te la studi bene e da lì cominci a rifare da capo tutto il lavoro: fai una scaletta, non più delle scene ma delle inquadrature e dei punti di vista. Da lì si può cambiare anche l'ordine delle inquadrature per cambiare il senso della scena”.

I dialoghi le vengono naturali, oppure scrive tanto, riproducendo la verbosità del parlato, e poi riduce?

“No, guai! Quando uno scrive un dialogo e non sa dove va, è sbagliato. Bisogna creare una situazione per cui quando due personaggi parlano, noi sappiamo cosa si diranno. Il problema è vedere come; ma cosa si diranno, lo dobbiamo sapere prima”.

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Quindi non le accade di ritrovarsi con i registi con i quali lavora, e fare delle prove di dialoghi “recitati”?

“No. Non ‘provo’ le cose che si dicono. Semmai, dopo, proviamo il modo con cui verranno dette. Il ‘cosa’ si dicono è drammaturgico. Io faccio incontrare delle persone, creo un conflitto e so che dovranno parlarne. Quindi so cosa si diranno e il pubblico sa cosa si diranno. Il problema non è quello che si diranno ma come se lo diranno”.

Quindi il suo dialogo scaturisce sempre per ‘deduzione’, sempre da un’idea. Non è che vi incontrate, iniziate a parlare e scrivete quello che viene fuori...

“No, una volta che si sa cosa si dice, allora si vede come dirlo. Allora si fanno delle prove. Poi è chiaro che il caso di Benigni è particolare, perché lui è una maschera comica, quindi è ovvio che io sto lì ad aspettare le sue invenzioni anche linguistiche. Posso solamente dire se nel dialogo si resta in linea con il racconto o no. Però negli altri film si scrivono i dialoghi e poi si prova come vengono. Può succedere che, sentendo i dialoghi interpretati dagli attori, ti rendi conto che alcune battute possono essere dette in un altro modo, secondo le caratteristiche dell'attore”.

Le regole americane. Per lei sono fondamentali da seguire oppure sono qualcosa che abbiamo già in noi, nel nostro bagaglio culturale?

“Quelle regole sono morfologie prestabilite, un po' omogeneizzate, che garantiscono una serie di risultati che ti portano alla fine del film e quindi garantiscono che chi lo vede lo segua fino alla fine. L'unica controindicazione è che dopo un quarto d'ora sai già come andrà avanti il film: il film lo hai praticamente già visto e in questo caso non ti interessa più l'aspetto narrativo. Questi sono film che non vado mai a vedere perché mi annoiano. Tant'è vero che nessuno vuole venire al cinema con me, perché dico le battute prima”.

Quindi lei nella sua drammaturgia segue altre regole...

“Sì, anche perché io non faccio film ‘di genere’. Questa morfologia prestabilita vale solo per quel tipo di film. Non lo troverai mai in Woody Allen o nei grandi artisti. Questa è roba da prodotto medio, per portare a casa una garanzia, perché il pubblico è confortato da quello che già si aspetta, dal fatto che il protagonista tanto non morirà o che il cattivo morirà. Kubrick non usava questa roba qua!”.

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Lei ha scritto “Consigli a un giovane scrittore”. Ma a un giovane che ha voglia di scrivere storie lei oggi cosa consiglierebbe di fare?

“Adesso ai ragazzi non direi più di pensare al grande schermo. O per lo meno non solo a quello. La logica della scrittura per il cinema è bene conoscerla, perché comunque il cinema rimane l'arte più alta da questo punto di vista. Il cinema lo vedi 'in coro', è un tipo di esperienza enormemente differente. E più importante, che non vedere lo stesso prodotto in cucina, o sul lettore dvd. Poi: a questo giovane, consiglierei di vedere molte fiction americane. Non quelle italiane che sono orrende, sono il peggio del peggio. Ma ci sono fiction americane che sono molto belle, girate bene, veloci, intelligenti, molto fantasiose. In Italia c'è demagogia, sentimentalismo, sempre la lacrima pronta e il sorrisino per uno che fa lo scemo del villaggio”.

E se uno volesse scrivere, lavorativamente parlando, cosa gli consiglierebbe di fare?

“Prima di tutto deve imparare a farlo. Deve essere autenticamente appassionato. Io credo che valga per tutti i mestieri del mondo: se a uno piace fare un mestiere, qualunque esso sia, ed è veramente appassionato gli viene facile, guadagna facilmente. Il talento gli si sviluppa subito, non si annoia, non si stanca e si diverte. Se uno vuole fare lo sceneggiatore senza sapere scrivere, o senza sapere se gli interessa veramente, è inutile che lo faccia. Quindi la prima cosa è appassionarsi veramente a questo lavoro”.

Lei si diverte quando immagina un teatro di personaggi che si muovono?

“Io è da una vita che invento storie: da quando ho undici anni. Quindi mi diverto. Anzi, a questo punto mi diverto anche di più, perché siccome ho molta esperienza sono diventato nemico di me stesso. Perché a un problema narrativo trovo subito la soluzione. Però se trovo la soluzione facilmente, significa che quella cosa già è stata fatta. Quindi bisogna difendersi dalla facilità con cui si fanno le cose”

Però è un piacere vedersi muovere i personaggi nella mente...

“E' un piacere quando tornano i conti. Quando vedi che il ritmo funziona, che tutto è stato fatto in maniera tale che sembri naturale, che sembri casuale,

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Francesco Piccolo ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎ ︎

Perdite Di Tempo, Digressioni E Strade Sbagliate: La Spina Dorsale Della Sceneggiatura. ︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ Francesco Piccolo, nato a Caserta nel 1964, ha scritto romanzi e raccolte di racconti come Allegro occidentale e L’Italia spensierata, in cui è molto critico sulla civiltà delle vacanze, della ricchezza, dello svago forzato. Ha vinto il premio Giuseppe Berto e il premio Piero Chiara con Storie di primogeniti e figli unici.

Ha scritto la sceneggiatura di My Name is Tanino di Paolo Virzì, di Paz! di Renato De Maria, del Caimano di Nanni Moretti e di Caos calmo, tratto dal romanzo di Sandro Veronesi. Ha lavorato con Silvio Soldini, alla scrittura di Agata e la tempesta e di Giorni e nuvole. Collabora con il quotidiano La Repubblica, e insegna sceneggiatura al Dams a Roma.

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Parliamo di Caos calmo. Quali sono stati i problemi da affrontare nel trasformare il libro in sceneggiatura?

“Il problema principale è che il romanzo è corposo e complesso, pieno di ragionamenti. E’ un libro molto bello proprio per questo, perché racconta un’interiorità. Una bellezza che diviene un problema, nella trasposizione cinematografica. L’interiorità, al cinema, è difficile da mostrare. Il secondo problema era dato dal fatto che la scrittura di Sandro Veronesi è fortemente intessuta di ritorni al passato, di ricordi... Anche questo, al cinema, è difficile da trasporre”.

Una scrittura piena di digressioni...

“Sì, digressioni che rappresentano l’emotività del personaggio”.

Individuati i problemi, che cosa avete fatto?

“C’era da rintracciare, dentro questo magma di complessità, una sorta di spina dorsale del racconto. Per esempio, l’evento centrale. Un uomo perde la moglie e per proteggere la figlia si ferma davanti alla scuola e rimane lì, abbandonando il lavoro. Questo evento nel film diviene ancora più chiaro: il libro racconta, invece, molte altre cose. Quindi la nostra prima operazione è stata prendere questa spina dorsale e costruirla su questo personaggio. Considerando anche il fatto che il personaggio sarebbe stato interpretato da Nanni Moretti. Ed era importante che ci fosse anche lui a scriverla, a mettere in scena se stesso”.

Vi siete impegnati anche per trovare dei corrispettivi “concreti”, degli oggetti con cui simboleggiare la fuga del personaggio dal mondo. Nel romanzo, si rifugia nell’auto. Nel film, su una panchina.

“Abbiamo scelto di metterlo su una panchina, perché la panchina è un luogo molto più vivo, cinematografico. Ed è proprio all’aria aperta, non è cupo come l’auto. Nel romanzo l’auto è un luogo bello perché lui vi ricostruisce un mondo, una sorta di casa. Però nel film era molto più importante stare lì piantati in quella piazza, ricreare un microcosmo cinematografico. Questo è il primo passaggio fondamentale e visibile”.

Quali altri cambiamenti avete fatto?

“L’altro cambiamento che abbiamo fatto è stato dare molta importanza al rapporto tra lui e la figlia, che nel romanzo è il luogo centrale dell’azione ma che resta una specie di catalizzatore, di scusa affinché accada tutto il resto. Abbiamo ricostruito la vita di Pietro Paladini in casa. Quell’interiorità che

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Veronesi costruiva attraverso le digressioni del racconto, noi l’abbiamo costruita nel rapporto tra padre e figlia.

Era un problema anche motivare narrativamente il rivolgersi di ogni personaggio a lui?

“Questo è un problema che ci siamo posti meno. Ci sono delle questioni su cui uno ragiona dopo aver visto il film e si chiede: ‘Come hanno fatto? Perché hanno fatto?’. E’ ovvio che abbiamo pensato a come rendere credibili questi personaggi. Ma rispetto alla domanda che fai, è molto importante la fiducia che avevamo nell’impianto narrativo, nell’impianto drammaturgico. Noi avevamo fiducia che un uomo che si ferma, e che racconta questa pausa dalla vita per proteggere la figlia e controllare il dolore, fosse un punto di partenza drammaturgico sufficiente, affinché gli altri arrivino e buttino su di lui tutti i loro problemi”.

A proposito di impianto drammaturgico: la partenza è fortissima ed è un cambio assoluto della vita normale. Da lì in poi avete ragionato anche in termini di sceneggiatura classica? Per esempio, i colpi di scena li avevate ben presenti?

“Io penso che un po’ ci sia stato questo lavoro, nel senso che tutti i personaggi, anche se tornano solo due o tre volte, hanno la loro storia, un loro percorso. Più che costruire ‘bombe’, colpi di scena in senso classico, abbiamo costruito intrecci di percorso per fare in modo che ognuno facesse un segmento di narrazione che intrecciando gli altri creasse una specie di ragnatela di mondo attorno a questo personaggio. E’ ovvio che l’inizio dà una forza propulsiva a tutto, perché è il lutto che da questa emotività. Nel film si entra grazie al fatto che si ha un’empatia forte con questi due personaggi, padre e figlia, perché devono sopportare un dolore. In più, nel libro come nel film, c’è il fatto che, alla morte di Lara, lui era a fare qualche altra cosa: e su questo si basa anche un’altra delle idee del racconto che lui si trascina fino alla scena iniziale dove libera questo senso di colpa”.

Questa scena è stata isolata o c’erano un prima e un dopo più costruiti?

“No, è una scelta molto semplice dal punto di vista narrativo: se c’è una scena d’amore la devi costruire, se c’è una scena di sesso non la devi costruire, perché quanto più arriva all’improvviso, tanto più è spoglia da altre implicazioni sentimentali. Per questo era semplicemente il percorso che abbiamo scelto”.

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Una cosa che nel cinema può essere un rischio: avendo Moretti e avendo un lutto all’inizio, il pensiero corre a La stanza del figlio. In sceneggiatura ci avete pensato?

“Pochissimo, perché questo in fondo è anche un valore che ha chi racconta storie: non si pone troppi problemi di somiglianza perché riesce sempre a vedere la specificità di una storia. Questo può essere anche un ragionamento ingenuo, ma è un ragionamento che si fa sempre. Poi esce il film e gli altri trovano le somiglianze. Pietro Paladini è un personaggio completamente diverso da quello che fa Nanni ne La stanza del figlio. Raccontando quella storia abbiamo sentito questa vicinanza della questione dell’elaborazione del lutto. Ma il tema, per uno sceneggiatore, ha un’importanza minima. L’importanza della storia viene dalla complessità narrativa: è quello che ti importa”.

La complessità narrativa è una caratteristica delle tue sceneggiature. C’è anche in altri tuoi film; forse ti piace anche intrecciare i percorsi, fare i puzzle.

“Sì, questo è capitato in un bel po’ di film. Diciamo che Caos calmo ha una struttura abbastanza semplice, soprattutto rispetto al romanzo. In altri film è vero che ci sono più storie che si intrecciano, anche più livelli narrativi. Questo mi sembra molto interessante e corrisponde abbastanza a un tipo di complessità narrativa che in questi anni è assolutamente viva e visibile. Però da questo punto di vista non ho preferenze tra la semplicità e la complessità. La verità è che, per quante idee si abbiano sulla narrazione, la cosa giusta da fare è trovare la linea e il tono giusti per la storia che si vuole raccontare”.

E questa cosa che dicono gli americani: il film è come una freccia, si divide in tre parti, si hanno i colpi di scena in punti precisi eccetera, è un principio che segui oppure no?

“Mai. Perché ritengo che questa teoria sia una formula dedotta, non indotta. Sono convinto che si possa seguire così come si possa non seguire e in entrambi i casi non dà certezza di risultato. E credo che se andiamo ad analizzare i film che amiamo forse la ritroviamo, grazie a una forza interna del racconto stesso. Mi sembra che farsi condizionare da quest’idea non produca risultati: non per questo un film è migliore. Insegno sceneggiatura all’università e non parto mai da questi manuali, pur avendone rispetto e pur pensando che non dicano stupidaggini. Ma è come se dicessero qualcosa che non ti aiuta a far meglio il lavoro che devi fare”.

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Che cosa conta soprattutto per te? Le verosimiglianze delle psicologie? Il conflitto?

“La verosimiglianza delle psicologie, senz’altro. A me sembra che sia importante creare un mondo e all’interno di quel mondo fare in modo che tutto sia credibile, autentico. Ovviamente deve essere credibile e autentico non in assoluto, non per il realismo, ma all’interno di quel mondo. Questo mi sembra il punto centrale”.

C’è un genere per il quale ti senti più portato?

“Soprattutto quando si parla di sceneggiatura non ci deve essere una tipologia specifica di film che sai fare o che ti piace fare, ma credo che bisogna invece sfruttare una delle possibilità che dà il cinema: raccontare storie in vari modi, in vari contesti. Poi probabilmente ci sono cose che non saprò scrivere mai, ma pregiudizialmente mi sembra di poter entrare in una storia e raccontarla in qualsiasi momento e in qualsiasi modo”.

La chiave per raccontare in maniera convincente una storia, oltre al fatto che il mondo sia coerente, qual è per te?

“Secondo me la qualità dei personaggi, quindi di conseguenza la qualità dei dialoghi. In modo del tutto teorico, non mi importa tantissimo la trama, non sono un appassionato di grandissime trame o di grandissimi colpi di scena. Mi sembra che la qualità dei personaggi e la qualità dei dialoghi siano elementi fondamentali. Poi questo riguarda la sceneggiatura, riguarda il fatto che è una storia che ti piace, e il passaggio successivo è vedere tutta questa roba farsi cinema con un regista che ti piace e che costruisce quella storia su un’idea di cinema che invece può essere bella, sofisticata, elegante, complessa o semplice, realistica, cruda, ma deve essere precisa”.

Però ti piace anche l’idea della versatilità, di scrivere vari generi?

“Sì, devo dire che mi piace l’idea di scrivere anche per la televisione, di scrivere film diversi, di lavorare con registi che sono anche molto diversi tra di loro. Io scrivo libri che sono quasi sempre molto personali. E’ come se consumassi, della mia vita creativa, drammaturgicamente poco. Vado a cercare dei libri che anche dal punto di vista narrativo sono poco interessati a trame. Il cinema è anche il luogo dove dare sfogo a qualsiasi idea drammaturgica e quindi mi sembra che sia una possibilità di racconto universale e di mettersi in gioco in qualsiasi modo. Ovviamente si parla di un punto di vista pregiudiziale e che la discriminante sia trovare un’idea che ti piace, che ti interessa, che ti sembra che la puoi raccontare e ovviamente è molto importante trovare un regista con cui sei in sintonia e che sai che può

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costruire un mondo che, a prescindere da quello che racconterete, è un mondo che ti interessa”.

Cerchi sempre di fare in modo che le tue storie abbiano significati più ampi?

“Certo, ma penso che ci si deve preoccupare poco dei temi, quando si scrive. Bisogna scrivere dei personaggi e poi vedere dove portano, senza avere come obiettivo l’universalità, che deve venire fuori un po’ da sola”.

E tu come scrivi? Di giorno o di notte? Col computer?

“Ormai scrivo col computer, anche se tuttora prendo molti appunti a mano. Tendenzialmente cerco di avere una vita quanto più regolare possibile dal punto di vista della creatività, quindi cerco di svegliarmi la mattina e mettermi a lavorare come una persona che va in ufficio. Naturalmente, come le persone che vanno in ufficio, a volte faccio gli straordinari. Cerco, riuscendoci poco, di avere un rapporto con il mio mestiere un po’ da lavoratore dipendente, perché secondo me il rapporto con la creatività a un certo punto diventa un lavoro in cui sai aspettare che arrivino le cose, sai usare delle ore per mettere giù quello che devi mettere giù e così riuscire a dedicare il resto della vita al tempo che ci vuole per vivere e non occuparsi solo dello scrivere”.

E vai sull’onda quasi fisica delle parole oppure pensi, strutturi e poi vai?

“Quando scrivo ho un bisogno di non dover mai cominciare. Io prendo appunti sulle cose per tantissimo tempo, quindi quando comincio a scrivere non sto come ai blocchi di partenza, sono sempre già in gara. Credo che sia proprio un metodo esistenziale quello di non sentirsi mai al punto di partenza di una cosa né alla fine della cosa, ma di stare in un magma”.

Quindi cerchi sempre di pensare che sia un work in progress e che non sia finita mai?

“E’ come se costruissi un palazzo non partendo dall’angolo ma mettendo vari pezzi: a un certo punto ti accorgi che non c’è più spazio per mettere altri mattoni”.

Lavori nel caos o nella calma?

“Tutti e due. Riesco a scrivere in qualsiasi luogo, anche se ora ho uno studio e amo molto stare lì da solo. Sono molto aperto, non spengo mai il telefono. Mi piace quando mi telefonano e se non mi telefonano, telefono io agli altri. Mi piace essere interrotto, avere un rapporto di concentrazione e distrazione continua. Però tendenzialmente sempre di più sono solo”.

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Per esempio a Paul Haggis piace scrivere nel caos.

“E’ una cosa che facevo all’inizio. Per un periodo mi piaceva, adesso non più. Cerco una situazione di solitudine in cui far entrare continuamente segnali dall’esterno”.

Vi dividete il lavoro in qualche modo con i co- sceneggiatori?

“Per ogni film è diverso. Ci sono stati film in cui abbiamo scritto ogni singola parola tutti insieme, davanti a un computer. Altri film li abbiamo scritti dividendoci il lavoro. Il metodo di scrittura di sceneggiatura è molto vario; dipende anche dalla storia con cui hai a che fare o dall’occasionalità. E’ anche una cosa molto affascinante perché ogni volta non sai che percorso farai e ogni volta quindi è un percorso un po’ nuovo”.

Non hai mai la sensazione della perdita di tempo nel pomeriggio di sceneggiatura? Tipo le chiacchiere prima dello scrivere.

“La perdita di tempo è proprio la spina dorsale dello scrivere sceneggiature. Se uno scrittore pensa di star perdendo tempo e quindi vuole fare un’altra cosa, tipo scrivere il proprio libro, non sarà mai uno sceneggiatore”.

E ai fini del film?

“Ai fini del film la perdita di tempo è uno dei fattori fondamentali della costruzione di un film. Quando passi quei pomeriggi in cui dici quattro parole utili e quattrocentomila inutili, sai che hai fatto un passo anche quel giorno. La sceneggiatura è questa. La sceneggiatura è fatta di digressioni, strade sbagliate, racconti di cosa hai mangiato la sera prima: c’è tutto in una sceneggiatura per il semplice fatto che ci sono delle persone creative che convivono per dei mesi. Convivere per dei mesi con gli altri non vuol dire fare soltanto quella cosa che devi fare, cioè scrivere un film, ma ricreare praticamente una specie di comune di vita ed è forse la cosa per cui vale la pena scrivere film”.

Se tu avessi di fronte un ventenne che vuole scrivere film e non sa da dove cominciare, cosa gli diresti?

“Secondo me, prima di tutto, ciò che avverto nei ventenni che frequentano i miei corsi di sceneggiatura è il fatto che vogliano assolutamente trovare il mezzo per capire come riuscire a fare un film. E la cosa che gli direi è sentirsi una persona che deve imparare, quindi usare il ‘metodo’ che deve usare chiunque: vedere tantissimi film, leggere tantissima letteratura, perché la letteratura sta assolutamente alla base dell’idea di scrivere storie, interessarsi tantissimo alla vita e continuare a imparare dai film belli e dai film brutti, dalle

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cose belle e dalle cose brutte, un metodo per costruire il proprio modo di guardare il mondo. E’ fondamentale non avere un’idea pratica della scrittura: l’idea di dire ‘Io voglio fare un film e quindi non voglio perdere tempo’. Io credo che una persona a vent’anni debba saper aspettare e intanto imparare un sacco di cose. L’unica cosa che deve conservare è l’ostinazione: il pensarsi come uno che farà un film a tutti i costi. Questa è la cosa fondamentale, poi bisogna far passare il tempo necessario a imparare al meglio possibile a fare quella cosa”.

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Doriana Leondeff

Quando Cerchi La Verità.

Doriana Leondeff è nata a Bari nel 1962, da madre italiana e padre bulgaro. Si diploma in sceneggiatura presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma nel 1987, l’anno successivo si laurea in Lettere – Storia e critica del cinema – presso l’università La Sapienza di Roma.

La sua collaborazione con Silvio Soldini, quella che rimarrà un segno distintivo della sua carriera, inizia nel 1995. Insieme a lui scrive Le acrobate, Pane e tulipani, Brucio nel vento, Agata e la tempesta, Giorni e nuvole. Con Francesca Archibugi scrive Lezioni di volo, per Mazzacurati La giusta distanza e per Michele Placido scrive Il grande sogno.

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Come sei arrivata al cinema? Qual è stato il tuo percorso?

“Il mio percorso è stato abbastanza tradizionale: ho fatto il Centro sperimentale di cinematografia, mi sono diplomata in sceneggiatura. E, sempre a Roma, mi sono laureata in storia del cinema. Finito il Centro sperimentale ho saputo che Kusturica girava parte del suo film Il tempo dei gitani in Italia, quindi ho scritto alla sua casa di produzione a Sarajevo. Ho incontrato il direttore di produzione che era venuto a Roma, e così tramite lui sono venuta in contatto con Kusturica che non aveva nessuno in Italia che potesse dargli una mano come aiuto regista, quindi serviva qualcuno. E’ stata una coincidenza fortunata”.

E poi hai proseguito con il lavoro di sceneggiatrice.

“Sì, quello è stato un mio desiderio. Il lavoro sul set con Kusturica è stata anche un'esperienza umana, oltre che artistica, che mi interessava fare. Ma non ho mai perso di vista il vero obiettivo che per me è sempre stato quello della scrittura”.

Qual è la cosa che cerchi all'inizio di una storia? Cosa ci deve assolutamente essere?

“La verità. Qualcosa che a me interessa raccontare, che da spettatrice vorrei vedere, che da lettrice vorrei leggere. Non riesco a pensare nei termini di ciò che penserà lo spettatore”.

Come vi dividete il lavoro di sceneggiatura con i tuoi collaboratori?

“Le modalità cambiano di volta in volta, sia in rapporto al regista con cui collabori, sia a seconda del progetto a cui si sta lavorando. Con Soldini, con cui ormai lavoro da 12 anni, le modalità di lavoro si sono evolute nel tempo. Per esempio Le acrobate, il primo film che abbiamo fatto insieme, lo abbiamo effettivamente scritto insieme al 50%. Siamo partiti dal soggetto, lui aveva un'idea molto vaga di partenza e da lì abbiamo continuato, poi il trattamento, poi la scaletta, e ce lo siamo divisi metà per uno. Poi da Pane e tulipani in poi, Soldini ha capito che per lui era più utile non essere troppo coinvolto nella scrittura, avere un minimo di distacco per essere più lucido sul set. Quindi abbiamo sempre fatto moltissime riunioni, discusso in modo approfondito, però materialmente al computer ero io a scrivere. Però è effettivamente frutto di una collaborazione stretta”.

Poi l'hai fatto anche con Francesco Piccolo...

“Con Agata e la tempesta ha cominciato a lavorare con noi anche Francesco Piccolo e quindi Silvio si è tenuto, in quel film, sempre fuori dalla scrittura

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materiale ma dentro al processo creativo, mentre con Francesco ci siamo divisi il lavoro in tutte le varie fasi. In Giorni e nuvole, la cui scrittura è stata molto laboriosa e complicata, è tornato a scrivere anche Silvio perché avevamo bisogno di rinforzi”.

Ma avete scritto tutto in due?

“No. Abbiamo scritto sempre dividendoci le scene”.

I dialoghi li fai da te?

“Sì, poi magari c'è uno scambio, quindi c'è un lavoro reciproco sulle scene che ha scritto l'altro”.

Facevate un teatrino in cui interpretare le scene?

“No. L'unico film in cui abbiamo scritto alcune scene in questo modo è stato Pane e tulipani, perché era una commedia e quindi era utile avere uno scambio. Molte battute venivano meglio così piuttosto che in solitudine davanti al monitor”.

Quindi preferisci un po' la solitudine per scrivere?

“Sì. Ma dipende un po' dai film, dai progetti. Nell'ultimo film, che è molto drammatico, un po' di raccoglimento faceva bene”.

Tu le storie come le immagini? Le vedi con i personaggi che si muovono o le pensi come concetti?

“Le vedo con i personaggi che si muovono e hanno un volto, anche se non è un volto di un attore. Mi piace essere abbastanza libera in quella fase in cui si immagina la storia con i suoi personaggi. Però è successo anche di scrivere con l'idea di coinvolgere un attore, quindi con una traiettoria precisa per quel che riguarda il personaggio. Ognuno poi trova il suo modo di scrivere, quello che gli è più congeniale”.

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Enzo Monteleone

Mettere Il Pesce Fuori Dall’ Acqua. ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎ ︎︎︎︎

Nato a Padova nel 1954, amico fin dagli anni dell’università di Carlo Mazzacurati e Roberto Citran, Enzo Monteleone ha fatto, nel cinema, un po’ di tutto. Programmatore di cineclub a Padova, va a Roma e scrive press book per le case di produzione. Fa l’aiuto regista per un film televisivo girato in Amazzonia. Poi inizia a scrivere film. Il primo è Hotel Colonial, diretto da Cinzia Th. Torrini. Segue la collaborazione con Gabriele Salvatores, per il quale scrive quattro film, da Kamikazen a Puerto Escondido, e nel mezzo ci sono Marrakech Express e Mediterraneo, che vince l’Oscar 1992 come miglior film straniero. Monteleone ha scritto per Carlo Mazzacurati (Il prete bello), Giuseppe Piccioni (Chiedi la luna), Alessandro D’Alatri (Americano rosso). Come regista, ha fatto film non convenzionali: da La vera vita di Antonio H., in cui racconta in maniera tragicomica, surreale la vicenda di Alessandro Haber, a El Alamein, all’ultimo Due partite, dal testo teatrale di Cristina Comencini. Per la tv ha diretto la miniserie Il capo dei capi.

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Quando è che un’idea ti sembra un’idea da film?

“L’idea iniziale non si sa mai cos’è. E’ casuale: è una curiosità, un’emozione. Può essere un dettaglio, una foto su un giornale, un paesaggio, una persona che vedi per strada. Tante cose”.

Che cosa conta, perché qualcosa diventi “un’idea da film”?

“E’ come lo spunto per una canzone o una poesia: ci devono essere delle emozioni e degli interessi. Devi decidere di impegnarti per mesi su un’idea, una storia, dei personaggi: per mesi, quei personaggi diventano la tua vita. Ti devono piacere”.

Da dove attingi, solitamente? Dalla cronaca, dai libri, dall’osservazione di un fatto?

“L’idea per un film può arrivare da dovunque. Dipende da come sei fatto, da come sei cresciuto. Dipende dai libri che hai letto, dai film che hai visto, i viaggi che hai fatto, le fidanzate che hai avuto, le città in cui hai vissuto... Il problema, oggi, è trovare un’idea realizzabile in Italia. Siamo costretti, mentre pensiamo alla storia, a pensare anche al budget”.

Una volta avuta un’idea, bisogna svilupparla, strutturarla. Come procedi?

“La struttura di una sceneggiatura, come quella di un romanzo, segue regole di narrazione ormai abbastanza codificate. E’ dai tempi di Aristotele che esistono i tre atti: diciamo che gli americani l’hanno risistemata e resa universale. Ormai c’è questa struttura. In tre atti. Con i colpi di scena, l’antefatto, la chiusura eccetera”.

Tu la seguivi anche prima, ma senza saperlo?

“Io non ho fatto scuole e quindi mi sono formato da me, vedendo film e leggendo. I primi film li ho scritti seguendo inconsciamente questo ritmo narrativo. Poi ho seguito un corso di un insegnante americano che, col pragmatismo degli americani, ha portato nella coscienza mia e di altri colleghi una rivoluzione. Siamo rimasti colpiti favorevolmente: c’era una struttura che inconsciamente usavamo e abbiamo avuto la conferma di star facendo bene”.

Quindi la struttura è molto importante, per te.

“Sì, anche se le famose ‘sceneggiature di ferro’ secondo me non esistono. Esistono sceneggiature molto ben costruite; ma poi girare un film significa anche sfruttare gli imprevisti, farsi prendere dalle intuizioni, dal lavoro con gli

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attori. La sceneggiatura deve essere una base solida sulla quale poi puoi lavorare, come una partitura musicale. Poi la devi eseguire”.

Quindi la struttura, comunque, è una necessità. Così come ci devono essere colpi di scena sistemati in un certo punto, e un contrasto forte. Così come è necessario far accadere al protagonista qualcosa che è lontano dalla sua quotidianità...

“Sì. Il conflitto è necessario, ovviamente. Se in Romeo e Giulietta i genitori fossero stati d’accordo, non ci sarebbe stato il loro dramma. Quindi gli ostacoli sono necessari. Per organizzarli, ci sono varie formule. Gli strutturalisti russi hanno studiato le storie e hanno trovato che in realtà ci sono 12 storie archetipe: si cambiano l’ordine e gli ingredienti, ma le storie alla fine sono sempre quelle”.

C’è, tra queste situazioni archetipe, una che senti più tua?

“A me una situazione che piace molto, e che ho usato spesso, è quella che chiamo del ‘pesce fuor d’acqua’. Spesso ho messo i personaggi in situazioni che non conoscono e a cui devono reagire. Ognuno le affronta secondo il proprio modo di essere. E’ un mio sistema, un metodo per mettere alla prova il personaggio”.

Quando scrivi, lo fai seguendo l’ordine cronologico della storia o parti dalla scena che ti riesce meglio in quel momento – magari una scena madre, una rivelazione – e poi vai avanti e indietro nella storia?

“Cerco di scrivere sempre dall’inizio alla fine. Ovviamente ci sono vari stadi di scrittura. Uno da un’idea iniziale comincia a fare delle scalette, cerca di capire dove va a finire la storia, cerca di fare un’ossatura. Da dove si parte, cosa succede, dove finisce”.

Cambi spesso gli elementi della storia?

“Durante la scrittura, si può anche scoprire che il personaggio pensato in una certa maniera è più interessante se reagisce in un’altra. Oppure il personaggio pensato come uomo, scopri che è più interessante se diventa una donna”.

Quante volte si riscrive una scaletta?

“Non c’è regola. Certe storie ti vengono miracolosamente chiare in testa: Mediterraneo credo di averlo scritto in un mese. E’ uno di quei casi abbastanza rari. La prima versione l’ho scritta molto velocemente, perché ce l’avevo in testa da tanto tempo”.

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Mediterraneo comincia con la voce fuori campo. La voce fuori campo quanto andrebbe usata?

“Ci sono i denigratori, i sostenitori e quelli ‘incerti’ sull’uso della voce fuori campo: a me la voce fuori campo piace. La voce fuori campo della Sottile linea rossa la trovo straordinaria: non è una sola voce fuori campo, sono tante voci che si inseguono, sono i pensieri di tanti personaggi... E quell’inizio fantastico di Apocalypse Now, con la voce fuori campo: ‘Saigon. Era ancora una volta a Saigon’... Come si fa a essere contro la voce fuori campo a priori? Ci sono quelle belle e quelle sbagliatissime, che sono solo delle scorciatoie per spiegare quello che non si è capito o non è chiaro”.

Ma come si fa a capire se un’idea funziona?

“Solo quando il film è finito. Quando il film esce in sala. Poi siamo portati a considerare riuscito il film che incassa: e non è sempre del tutto vero. Ci sono film bellissimi che la gente rifiuta”.

Quanto viene pagata una sceneggiatura?

“La sceneggiatura non ha valore in sé. Viene pagato lo sceneggiatore. Le mie prime sceneggiature sono state pagate praticamente niente: le successive – specialmente dopo l’Oscar – sono state pagate di più. Conta anche, ovviamente, il regista per il quale scrivi. E la produzione che è in gioco. Se fai un film per Pieraccioni o per Aldo, Giovanni e Giacomo la sceneggiatura viene pagata meglio, mentre se fai la sceneggiatura del film di un ragazzo del Centro Sperimentale che fa il suo primo film a basso costo lui ti dice: grazie e arrivederci. Quindi non è la sceneggiatura in sé che costa ma è lo sceneggiatore. E poi, il tipo di film, di produzione. Dipende solo dal tuo potere contrattuale”.

Quando pensi a un personaggio, che caratteristiche deve avere? Come lo disegni?

“Di solito si parte col personaggio principale, però io spesso ho fatto film corali, dove c’era un gruppo di personaggi. Prima di tutto si deve creare la situazione, poi ci si mette dentro il personaggio. I personaggi devi identificarli, amarli, conoscerli. Devi sapere tutto di loro: la prima comunione, in quale scuola elementare sono andati, che facevano i loro genitori. Crei insieme a loro un mondo e ti affezioni a loro. Poi è chiaro che non possono essere tutti eroi; quindi ci sarà l’eroe, l’antieroe, lo sbruffone, il codardo, il figlio di puttana, l’ingenuo, il timido”.

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Ti riesce facile immaginare la vita del personaggio? Una volta che l’hai creato, riesci a pensare a dove andrà a fare la spesa, a quale treno prenderà, a come farà il biglietto eccetera?

“Quello è esattamente il mestiere dello sceneggiatore: dato un mondo, sapere come ci si muoveranno dentro i personaggi. Quei personaggi di cui ovviamente conosci vita, morte e miracoli perché li hai creati tu. Chiaramente ti ispiri a cose che conosci, che vedi. Per strada vedi una coppia con un bambino che litiga e ti fa scattare tutta una serie di associazioni. Oppure l’ispirazione è il tuo vissuto”.

Quando vedi la coppia col bambino che litiga, per fare un esempio, ti riesce facile immaginare cosa faranno quando usciranno dal tuo campo visivo?

“Una coppia con un bambino che litiga per strada potrebbe fare qualsiasi cosa. Sta allo sceneggiatore raccontare il seguito, rispetto all’idea o alla fantasia che si è fatto di questa coppia: può diventare una tragedia o una commedia. O un film alla Ken Loach in cui segui la vita disastrata di questi precari che devono arrivare a fine mese, con un bambino piccolo che non li fa dormire, e lei lavora in un call center mentre lui aspetta di essere assunto, vivono in una bruttissima casa”.

Quindi ti riesce facile immaginare le varie possibilità anche nel concreto?

“Sì. Ma la difficoltà, la cosa che bisogna evitare assolutamente, la cosa che fa la differenza tra una buona sceneggiatura e una cattiva sceneggiatura è il cliché”.

Come si evita il cliché, il già detto?

“Con la verità. Se noi raccontiamo e lavoriamo sul sentito dire facciamo ciò che fa il 99% della televisione italiana con le fiction: si ha il banale, sai già cosa succede, sai come si vestirà lei, che macchina ha e anche cosa si diranno. E sai perfino cosa dirà il bambino!”.

Il cliché uccide il film?

“Esattamente. Il cliché è la cosa che ammazza il film; tant’è vero che quando si vede un film, il piacere è rimanere sorpresi dalle situazioni e dai dialoghi. Non è che bisogna fare per forza Guerre stellari per sorprendere lo spettatore. Lo si sorprende con le situazioni, i dialoghi e i personaggi”.

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Va messo in conto che ciò che era novità diventa cliché. Cioè se fai una cosa innovativa nel ‘50, dieci anni dopo diventa cliché. Quindi ogni volta bisogna spingersi oltre il limite del già detto.

“Sì. Non è che uno debba inventarsi chissà che cosa, però deve essere attento, originale, mai scontato. Perché sennò si lavora sul sentito dire, sull’ovvio”.

Che cosa è fondamentale per evitare il sentito dire?

“La fase fondamentale è la ricerca, e non solo se si vuole fare un film storico. E’ fondamentale la ricerca sul quotidiano. Se uno vuole raccontare la storia di una coppia in crisi che vive al Tuscolano Terzo, chi scrive deve andare al Tuscolano Terzo e vedere come vive quella gente lì, in che case stanno, che linguaggio usano. Per esempio io ho trovato straordinario il lavoro fatto per Gomorra, che non è un film scontato. Si vede che c’è stato un grandissimo lavoro di ricerca di luoghi, di facce, di persone e di parlato. La cosa terrificante di Gomorra non sono tanto i morti ammazzati, ma il linguaggio: i protagonisti di Gomorra parlano una ‘ur-lingua’ irriconoscibile che non è il napoletano, non è il campano, ma un ritorno al gutturale pre- ominide. Infatti il film ha dei sottotitoli anche per i napoletani, perché neppure loro riescono a capire cosa si dice: è un linguaggio fatto di grugniti, di parole smozzicate, che contano più del senso, di quello che dicono. La cosa terrorizzante è come lo dicono, l’aria che si respira: quello è straordinario, il coraggio non solo di trattare l’argomento ma di farlo in quella maniera. E’ sorprendente. Altrimenti diventava un’altra cosa”.

Pensare ai dialoghi, dare loro un ritmo. Per te è facile?

“I dialoghi sono una parte molto difficile del nostro lavoro. Di solito si tende a essere logorroici nei film italiani, non solo perché i personaggi parlano molto, ma perché ognuno ha dei pezzi lunghi e delle spieghe. Dei momenti in cui riassumono chi sono, cosa stanno facendo, che intenzioni hanno”.

Invece...?

“Invece i dialoghi devono essere secchi, smozzicati; basta uno sguardo, basta un ‘Eh?’ o un ‘Mah!’, a volte. Bisogna andare più sul sintetico. I più bei dialoghi sono quelli scritti di niente, fatti di sottotesto, non di testo. Per il testo c’è il teatro. Al cinema è meglio il sottotesto, è meglio alludere, dire mezze frasi lasciate là. Questa cosa si trova sia in scrittura che durante le prove: con gli attori bisogna trovare il ritmo giusto e poi tagliare, rendere più vero possibile”.

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In fase di sceneggiatura, quando la storia è tutta formata, diciamo quando la scaletta è fatta, per te il lavoro più grosso è proprio il dialogo?

“Non solo. Dialoghi e ambientazioni, azioni. Un po’ tutto. Costruisci il tuo teatrino sulla carta. La sceneggiatura è un supporto tecnico non solo per gli attori, ma per tutti i reparti. Se lo scenografo riceve la sceneggiatura non può leggere solo dialoghi: deve sapere com’è quella strada, com’è quella casa. E il costumista lo stesso. Quindi ovviamente contano anche le piccole cose: com’è vestito il personaggio, se ha gli occhiali da sole, il cellulare, che macchina ha, se ha il motorino”.

Preferisci essere molto preciso o lasciare un po’ di libertà?

“Io sono molto preciso. Poi accetto ogni suggerimento da parte dei vari reparti. Accetto tutti i consigli dai reparti scene, costumi, trucco, fotografia. Però tendo io per primo a dare più elementi possibile a chi legge la sceneggiatura. Anche agli attori può servire sapere quale macchina ha il personaggio. E quella macchina va descritta”.

Tornando alla storia, quanto si può lavorare sulla coincidenza? Riunire i fili “sparsi”, far accadere cose magari un po’ improbabili, e quindi forzare la realtà?

“Una coincidenza può passare. Ma quando cominciano ad essere due o tre c’è qualcosa che non va. A meno che uno non decida di fare tutto un film sulle coincidenze. E’ un lavoro a tavolino, aritmetico, molto preciso che è anche una grossa soddisfazione se viene bene, perché fare della coincidenza il tema di un film è molto bello. Ma è un’altra cosa”.

Il personaggio che si rivela in modo diverso, che ribalta il proprio stato ti attrae, ti interessa?

“Sì, a me interessa tutto. Non ho una scaletta di preferenze. Dipende dalla storia. C’è la storia in cui il vigliacco prende il fucile e spara, come in Cane di paglia”.

Una delle molle della narrazione è proprio opprimere un personaggio, vessarlo, creare delle ingiustizie contro di lui, finché non reagisce.

“Torniamo alle famose dodici trame fondamentali degli strutturalisti russi: Cane di paglia è quella cosa lì, per esempio. Poi c’è la ricerca del Sacro Graal, il grande amore impossibile per cui gli amanti fanno di tutto per cui poi o l’amore vince o la morte vince, c’è il viaggio di conoscenza. Gli archetipi sono quelli. Essere bravi significa usare i luoghi delle storie e reinventarle, nasconderle, non farle riconoscere. Questa è l’abilità dello sceneggiatore”.

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Ti capita di prendere appunti su certe cose che vedi?

“Certo, in maniera sia conscia che inconscia. Uno incamera, poi magari dimentica, magari gli torna in mente tempo dopo. Però uno dovrebbe girare sempre con un quadernino. Magari viaggi in treno e senti un dialogo irripetibile per argomenti, per il tipo di parole usate, per il tipo di contraddittorio tra i due, per un dettaglio. Uno accumula e mette da parte, poi magari prima o poi userà queste cose”.

In quali condizioni ti piace scrivere?

“Da solo, in totale tranquillità”.

Tu vedi “scorrere un film”, scrivendo la storia?

“Sì, il problema è che uno vede scorrere un film fatto da Scorsese! Sarebbe bello se lo girasse davvero lui. Poi magari invece lo faccio io...”.

A te piacerebbe fare un filmone a grande budget?

“Certo! A me piacerebbe fare anche storie bibliche, epiche. Però per tornare a questo inevitabile scontro tra fantasia e realtà, tra possibile e impossibile del cinema italiano in questo momento bisogna capire che ci sono dei condizionamenti inevitabili dati dal budget. Lawrence d’Arabia non potremmo farlo mai, nel nostro cinema. L’unico che riesce a mettere insieme un budget consistente è Tornatore. Ma quando ha tentato di fare L’assedio di Leningrado, perfino Tornatore non è riuscito a portarlo a termine perché comunque ci si scontra con una realtà che non ammette questo tipo di cinema. Quello italiano è un mercato interno. Sono rarissimi i casi di film che possono vincere un festival di Cannes o un Oscar e quindi avere poi la diffusione vera, una grande distribuzione capillare e ufficiale in tutto il mondo. Non è che ogni volta che facciamo un film possiamo vincere Cannes o l’Oscar. I nostri film sono riferiti, economicamente, al nostro mercato”.

Il cinema italiano, e dunque anche il lavoro degli sceneggiatori italiani, si riferisce spesso a un genere o due, ben precisi.

“Ormai è assodato, tranne rarissimi casi, che i grandi incassi li fanno le commedie”.

Tu però hai osato anche qualche cosa di diverso.

“Ho tentato di dirigere una sorta di filmone: El Alamein, che ho girato in sette settimane con un budget di tre milioni e mezzo di euro. Cioè, il minimo, per un film di quel genere. Però ce l’ho fatta a farlo. Quella di El Alamein è stata la più grande campagna campale di carri armati della Seconda guerra mondiale.

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Se io avessi fatto un film ‘sulla’ battaglia di El Alamein, avrei dovuto avere i soldi di Salvate il soldato Ryan ed essere anche in grado di fare un film come Salvate il soldato Ryan”.

La soluzione era già in sceneggiatura?

“Sì. Ho concentrato il film sul classico avamposto di uomini perduti: in mezzo al deserto, in mezzo al nulla, lontani da tutti, isolati e sperduti ci sono questi poveri disgraziati abbandonati a se stessi e il film è la storia del loro sopravvivere a questa situazione. Solo in quella maniera ho potuto farlo. In più sapevo che il più grande attacco si è svolto di notte: in una scena di notte hai bisogno di meno carri armati”.

Fai gli storyboard?

“A volte mi hanno proposto gli storyboard, e ho accettato per curiosità. Ma alla fine ho visto delle bellissime tavole, dei bellissimi fumetti di cui poi non ho tenuto minimamente conto. Perché il piano di lavorazione è un’altra cosa. Io disegno sulla sceneggiatura, disegno un po’ le cose che succedono, ma prendo appunti al volo. Non faccio tutto il lavoro grafico prima. E sul set non riesco a seguire uno storyboard”.

Quando lavori con qualcuno, come dividi il lavoro? Anche Marrakech Express l’hai scritto con altri.

“Beh, lì eravamo agli inizi, quindi abbiamo chiacchierato molto, parlato molto, scritto la scaletta, descritto i personaggi e poi ognuno a casa faceva i compiti. I compiti di Mazzacurati e Contarello, gli altri due complici, erano più scarabocchiati e allora li davano a me e io li mettevo in bella copia: li ristrutturavo, li impaginavo”.

La percentuale tra chiacchiera e azione, nel lavoro di sceneggiatura, qual è?

“E’ cento a uno! Cento chiacchiere e uno scrittura. Però la chiacchiera è importante e tra l’altro è anche la parte più importante di questo mestiere. Insieme ai sopralluoghi, quando te li fanno fare. Sono importantissimi”.

Per El Alamein lo capisco. Ma se devi fare un film ambientato a Roma i sopralluoghi sono altrettanto importanti?

“Sì. E’ quello che dicevamo prima: se devi girare al Tuscolano o al Pigneto, devi prima andarci. E passare una giornata, due giornate: parla con la gente, vedi i baretti, scopri un mondo, scopri uno sfasciacarrozze con un personaggio strano o un nano ventriloquo...”.

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Quali sono i mondi che ti hanno affascinato e che per qualche motivo non hai potuto mettere in un film?

“Più che mondi ci sono storie a cui mi sono avvicinato. Per esempio una situazione terribile è quella della prostituzione. A un certo punto ho parlato con un produttore per i diritti di un libro su un’organizzazione che lavorava in Thailandia per salvare le ragazzine che lavorano nei bordelli per i turisti stranieri. Ed è una storia straziante, ma è sotto gli occhi di tutti. Quindi quella è una storia che mi sarebbe piaciuto raccontare, come tra l’altro una storia su questi schiavi moderni. Io passo in macchina e vedo le ragazzine ai bordi della strada, ed è una situazione lampante: sappiamo che quella ragazzina è stata strappata, è stata stuprata, la ricattano eccetera. In questo caso il discorso sui sopralluoghi e la raccolta del materiale diventa fondamentale. Uno dovrebbe parlare con i poliziotti che si occupano di queste cose, parlare coi centri di recupero, le case famiglia e poi riuscire a entrare in contatto con una ragazza che ha voglia di tirarsene fuori. Sono usciti un sacco di servizi e interviste, quindi un mondo e delle vicende ci sono, però prima di iniziare a scrivere qualsiasi cosa va fatto questo lavoro di ricerca”.

Il passaggio dalla ricerca, dalla documentazione, dall’inchiesta alla “storia”, alla finzione non è difficile? Ci sono mille cose, mille informazioni. E bisogna scegliere un elemento, un racconto, una linea narrativa che vada fino in fondo.

“Per fortuna! La vita è piena di cose che neanche sospettiamo. Se devo cercare una linea nel mio lavoro, anche se ho fatto tutti film diversi l’uno dall’altro, è che in realtà raccontano storie vere, in qualche maniera”.

Non hai paura della vastità del materiale da cui partire.

“Mi piacciono le storie che partono da vita vissuta, perché la vita è sorprendente. Io sono sicuro che se conoscessi una prostituta albanese e lei mi raccontasse la sua storia e quella delle sue amiche, verrebbero fuori molte cose che non si sanno dai giornali e tutto questo materiale è ricchezza, non mi fa paura. E’ da temere il contrario, perché se non si conosce ciò di cui si parla, ci si ritrova a non sapere come andare avanti, a chiedersi cosa potrebbe succedere. Invece se fai prima un grande lavoro di ricerca, ti ritrovi con tanto di quel materiale che poi i personaggi e le strade si creano da soli”.

Però se hai le storie di cinque prostitute e devi coagularle in una sola, non è difficile?

“Quello è questione di gusti, di forza del racconto. Puoi scegliere se fare un film corale o raccontare la storia di un solo personaggio. Non c’è una

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soluzione. La soluzione è il tuo coinvolgimento emotivo in una storia. Solo quello ti può guidare”.

Ti capita spesso di pensare: “Questo potrebbe essere un film”?

“Sì. Basta aprire il giornale e tutti i giorni ci sono decine di film potenziali. La scelta di fare un film dipende dal potere contrattuale che hai. Per esempio se io voglio fare un film sulla prostituta albanese, i produttori potrebbero bocciarmi l’idea. Se la propone qualcuno con più potere contrattuale, magari lo fa. Molto del cinema italiano viene deciso da chi detiene il potere economico. Decidono quale storia interessa e quale no”.

A uno che vuole iniziare ora, a un ventenne, cosa consiglieresti?

“Ormai i ventenni sono tutta un’altra generazione. Io sono cresciuto con il cinema degli anni ‘70 che è esattamente l’opposto del cinema che si fa adesso, quindi darei dei consigli banali: vedersi un sacco di film, andare molto al cinema. Però probabilmente il mio è un vecchio concetto di cinema. Il cinema del futuro non so come sarà. Probabilmente ci sarà sempre più forbice, sempre più divario tra il cinema superspettacolare, con effetti speciali, di supereroi americani, poi magari esploderà il cinema di Bollywood e invaderà il mondo... Dicevo, ci sarà un divario enorme tra questi blockbuster e i film molto piccoli, magari fatti con la telecamerina che diventerà sempre più ad alta definizione, tenuta in mano. Adesso si fanno anche i film coi telefonini”.

Le possibilità, adesso, sono maggiori che quando hai iniziato tu?

“Io credo che uno ora ha molte più possibilità di mettersi in gioco perché con una qualsiasi telecamerina, anche a bassissimo costo e a bassissima definizione, può dimostrare quello che vuol fare. Può fare un corto di cinque minuti o un kolossal di tre ore, anche col telefonino. L’importante è che venga fuori una personalità”.

Una scuola secondo te serve?

“Sì, tantissimo, certo. Credo che la scuola, soprattutto il Centro Sperimentale e le scuole all’estero, se uno riesce a entrare, siano fantastiche. Le ultime generazioni sono uscite quasi tutte dal Centro Sperimentale. Le annate di Virzì, di Bruni, anche di attori oltre che di tecnici, direttori della fotografia, montatori, sono state importanti. E sicuramente gli allievi bravi di quegli anni non sono rimasti disoccupati: hanno lavorato e hanno anche fatto bellissimi film”.

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Umberto Contarello

Ogni Racconto E’ La Storia Di Un’ Eccezione.

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Nato a Padova nel 1958, Umberto Contarello è uno degli sceneggiatori di Marrakech express, e del Toro di Carlo Mazzacurati. Per Mazzacurati ha scritto anche Vesna va veloce e La lingua del santo. Ha scritto Metronotte per Francesco Calogero, Luce dei miei occhi per Giuseppe Piccioni, Ovunque sei per Michele Placido, La stella che non c’è per Gianni Amelio, Lascia perdere Johnny! per Fabrizio Bentivoglio.

Dal suo romanzo Una questione di cuore è stato tratto il film diretto nel 2009 da Francesca Archibugi. Il suo concetto di cinema si differenzia molto da quello, per esempio, espresso da Martani e Brizzi.

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Quando è che uno spunto diviene un’idea “da film”?

“Per quanto mi riguarda, un'idea che possa muovere un'avventura di scrittura e poi una possibile avventura di realizzazione di un film – non sempre le due cose coincidono – è un po' legata all'idea del carburante. Puoi avere un grandissimo e ricchissimo giacimento di petrolio, ma nascosto a grandissima profondità, così che per estrarlo ci vuole una fatica improba. Quel petrolio potrà essere una ricchezza, ma troppo difficile sarà estrarlo. Una buona idea per un film contiene una sua naturalezza, una sua facilità, un suo stato iniziale che ha qualcosa di completo e allo stesso tempo qualcosa di aperto che permette il suo espandersi, il suo trasformarsi in qualcos'altro”.

E quando è che capisci che un’idea ha queste qualità?

“Deve durare nel tempo, questa cosa che ti frulla in testa. Nella fase iniziale è molto importante anche il racconto verbale. La prima verifica per me è il racconto dell'idea a un amico. La prima volta che racconto una cosa, mi rendo conto se raccontando invento facilmente o se non mi viene da inventare”.

Ci sono quasi due tipi di “idee”: quelle che danno spunti per proseguire e quelle che non ne danno?

“Sì. Spesso ci sono delle intuizioni che entusiasmano troppo: l'idea è così formata e potente che sembra già pronta. Io spesso ho verificato che questo tipo di sensazione non corrisponde a un'idea, ma a una trovata. E nella complessità che serve per dare vita a un racconto, c'è una grande differenza fra partire con una trovata anziché con un'idea. Spesso non siamo così onesti con noi stessi da confessarci che in mano non si ha un'idea, ma una trovata”.

Raccontare una “trovata” è più facile, perché è chiusa.

“Esattamente”.

Dopo che hai elaborato un po' l'idea, su cosa cominci a lavorare? A cosa presti attenzione soprattutto?

“Certe cose le faccio un po' automaticamente, perciò è un po' difficile ricostruirle a posteriori. Comincio con l’idea. La possibile inea di un racconto. Magari con delle cose al proprio interno non molto a fuoco, ma con alcune perfettamente chiare. Comincio a scrivere. Ma è una scrittura molto vicina al racconto verbale. Però dentro c’è già una storia”.

Ti nutrono i film, per costruire i tuoi modelli?

“Mi nutrono i film. Quelli che di volta in volta coincidono con qualcosa che sto inconsapevolmente cercando. Per esempio un film che ultimamente mi è

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piaciuto molto, proprio per il tipo di film, per la scrittura, è Breakfast on Pluto. Il tipo di scrittura di quel film è molto vicino a quello a cui vorrei arrivare. Perché la forza del film poggia continuamente sulla qualità, brillantezza, poeticità, eccentricità, bellezza delle situazioni che dipana. E costruisce pochissimo per provocare degli effetti. Diciamo che nei film non mi piace tutto ciò che è visibilmente messo lì per creare un effetto”.

Quindi non ti piacciono quelle sceneggiature “all'americana” in cui c'è una rimonta, in cui ogni elemento “servirà” in futuro...

“Quest’ arte della costruzione del racconto classico la adoro quando il cinema che la utilizza riesce a sorreggere l'idea della scrittura come idea di classicità. Chinatown è un film che usa perfettamente gli schemi ‘all’americana’ per un film anche molto originale, personale. Ma quando si usano quelle stesse regole in un cinema che non ha dentro di sé la verità, il risultato è che si vede la struttura. Il risultato è un film di maniera”.

Quindi la struttura non si deve “vedere”.

“Quella che si chiama volgarmente ‘struttura’ è come l'impalcatura di una casa: la sua funzione è scomparire. C'è una frase che mi indica sempre un brutto film: quando qualcuno mi dice 'Vai a vedere quel film perché ha una bellissima sceneggiatura'. Se la sceneggiatura si fa notare, quei film a me non piacciono”.

Perché esibiscono la propria struttura...

“Sì. Perché un film è qualcosa che nella sua vita inizia con qualcosa di molto gassoso, attraversa una fase molto materica, molto strutturata e poi deve avere la capacità di perdere tutto questo. La sceneggiatura perfetta è quella che contiene la sua ‘scolorina’, il suo antidoto interno: una sostanza per la quale, raggiunta la sua funzione, poi progressivamente nel farsi del film scompare. La sceneggiatura deve scomparire. Per questo motivo io non conservo i miei copioni. I miei copioni, fatto un film, mi sembrano oggetti totalmente mortiferi”.

Come riesci ad accettare di esercitare un’arte “a scomparsa”, come fare i modelli di cera per le statue?

“Per me è come fare i disegni sulla sabbia. Un’arte che assume una grande precisione, una grande bellezza: ma la sua bellezza è scomparire. Cioè è il suo disfarsi dentro a una morfogenesi. Cioè a qualcosa che è altro, perché un film è altro dal suo testo scritto”.

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Però tu come accetti di fare un'arte che si deve cancellare?

“Se avessi avuto dentro di me l'idea dell'immortalità, di segnalare il mio passaggio con qualcosa che faccio, avrei fatto il regista. Faccio qualcosa che ha a che fare con un’operosità, ma anche con il vuoto. Si fa una grande fatica affinché qualcosa, con leggerezza, scompaia. Se si lavora per costruire un oggetto pesante questo non scomparirà e ingombrerà lo spazio, che invece deve essere libero, tra la sedia dello spettatore e lo schermo”.

In tutto questo c'è comunque la necessità di costruire. Per esempio costruire dei personaggi. Come li costruisci? Come ci lavori?

“Io nella mia vita ho conosciuto persone che sono diventate, nel mio scenario mentale, molto vicine all'idea che si dà alla parola archetipo. Cioè io posseggo una quindicina di archetipi. Nel senso che sono esseri umani conosciuti e nel tempo stilizzati fino a farli diventare, nel mio immaginario, degli archetipi. Con la loro essenzialità e la loro radicalità. Quando comincio una storia che ha all'inizio dei personaggi molto vaghi, mi viene spontaneo sovrapporre questo abbozzo di personaggio a uno di questi archetipi mentali. Questa prima mossa mi fornisce un primo elemento di solidificazione del personaggio. Mentalmente per me questo personaggio sta cominciando a diventare una persona che conosco. Alla fine di questa prima sovrapposizione ho qualcosa che posso già chiamare grosso modo un personaggio”.

Ma attingi sempre ai tuoi modelli conosciuti o ti capita di dover inventare qualche personaggio che non rientra in quei quindici?

“Quando nascono i miei personaggi non appartengono a quei quindici, ma ce li faccio rientrare io. Compio una forzatura in modo da avvicinare qualcosa che inizialmente è molto lontano e astratto a qualcosa che io ho intimamente introiettato. Si crea una creatura che ha il dentro di una persona che io conosco. E’ la prima mossa che faccio”.

Quando hai un problema narrativo che non sai come risolvere, come vai avanti?

“Non vado avanti, ma faccio il gambero: cerco di capire qual è l'ultimo punto del racconto che ha una sua fluidità e dove comincia a essere poco autentico. Perché per me problema narrativo è sinonimo di non autenticità. La storia non funziona quando non è autentica. Non conosco altro tipo di problema”.

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Usi “l'incidente” per sviluppare la narrazione? Ci sono tuoi colleghi che studiano a lungo l’ “incidente scatenante”...

“Io non creo incidenti. Nel caso de Il toro, il film in cui due disperati rubano un toro da monta, molto semplicemente una sera tornavamo io e Carlo Mazzacurati a Padova in aereo e a Fiumicino abbiamo incontrato un amico che non vedevamo da circa 25 anni. Gli abbiamo chiesto cosa facesse nella vita e ci ha detto che vendeva sperma di toro. Incuriositi abbiamo chiesto quanto si guadagnasse e ha risposto che dipende dalla razza del toro e che se si ha la fortuna di avere un toro di una certa razza, allora si fanno i milioni. Abbiamo chiesto il prezzo di questo toro e la risposta è stata: 'Non ha prezzo, perché è come se mi chiedessi quanto costa la Gioconda'. Abbiamo pensato che qualcuno potesse rubarlo. Ci ha detto che se lo si rubasse non si potrebbe venderlo, perché tutti lo conoscono. E se si andasse a venderlo altrove, lo comprerebbero senza sapere esattamente che cosa è, quindi non si guadagnerebbe per il suo valore. Il giorno dopo abbiamo deciso di fare un giro nell'allevamento dove tengono questo toro. Questo per dire che io nego, e mi fa anche un po' orrore, l'idea che gli incidenti che muovono i racconti siano come delle iniezioni di cemento dentro a un corpo che inizialmente è fragile”.

Però l’idea di rubare il toro è un “incidente” totalmente nuovo nella vita dei due protagonisti. E’ una deviazione dalla loro routine.

“Ogni racconto per natura è la storia di un'eccezione. Non esiste favola senza un'eccezione. Un racconto è di per sé un incidente. Mi sembra strano che si studi la teoria degli incidenti”.

Deciso l'incidente e il racconto, tu sai che gli americani credono ciecamente nella struttura in tre atti, nel colpo di scena nel punto preciso eccetera...

“Rispondo così: come si riconosce una canzone da un'opera lirica? Il passante qua sotto risponde dicendo che c'è una parte, poi c'è il ritornello e poi l'altra parte. Non sa niente di armonia, di melodia, eccetera, però ogni volta che sente una canzone riconosce che è una canzone. Questo è tutto ciò che c'è da sapere, nulla di più e nulla di meno, dell'aspetto strutturale di un racconto”.

Quindi che cosa bisogna sapere sulla struttura di un film?

“Un film è la cosa più vicina alla semplicità di una canzone. Nel senso che più o meno c'è una parte che sembra un'introduzione, che può essere più o meno lunga, poi c'è una parte centrale e poi c'è una parte finale. Ma nessuna delle persone che io conosco, cioè persone che fanno cinema che aspira a essere

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il più possibile autentico, ha mai impiegato più di dieci minuti della sua vita a pensare se quello che sta scrivendo è il primo atto o il secondo, quando finisce, se il primo atto è lungo oppure è corto eccetera. Io in vent'anni non ho mai discusso di atti con un mio collega. E qualcuno potrebbe sorridere e dire: 'Si vede!'. Certo, si vede! Nei film che ho scritto io si può dire che sicuramente non c'è una perfezione algebrica della struttura, perché è una cosa che non mi interessa”.

Così anche, ovviamente, i colpi di scena al punto esatto?

“Il problema è molto semplice: una storia, se è una storia e non una trovata, ha tutto dentro, compresi i colpi di scena. E i suoi movimenti importanti emergono nei primi venti giorni di lavoro. Se non emergono vuol dire che la storia non li ha dentro e che siamo noi a metterli. Ed esiste una differenza fondamentale tra fare emergere una cosa e introdurre una cosa. E' la differenza che c'è tra un corpo narrativo autentico ma che ha un mistero dentro, per il quale il lavoro serve a fare emergere quel mistero, e un'operazione che è invece un'operazione ingegneristica. Io non faccio l'ingegnere”.

Da una parte però c'è l'aspetto di artigianato, di lavoro materiale.

“Come no! Quell'aspetto è molto importante e ha a che fare con l'idea dell'equilibrio. Io penso che quando noi scriviamo un copione siamo artigiani nello stesso modo in cui un artigiano cerca di dare equilibrio all'oggetto che crea, sia esso un equilibrio di forma, di bellezza, di funzionalità. Il lavoro che tu chiami giustamente 'di artigianato' è quel lavoro che permette agli elementi naturali del racconto di essere in equilibrio fra di loro e di essere in armonia fra di loro, affinché questi elementi naturali vivano in modo potente ed efficace”.

In alcuni casi ti sei fatto ispirare dalla cronaca, da situazioni storico-sociali. Come in Vesna va veloce...

“Ogni film può nascere da materiali iniziali molto diversi tra loro. Può nascere da storie compiute o da semplici suggestioni, quasi delle visioni. Vesna va veloce, per esempio, fu proprio una suggestione fortissima di Carlo Mazzacurati che nasceva attorno a Trieste e a questa immagine che gli rimase impressa casualmente: vide un pullman in una giornata ventosa, che posteggiava nel centro di Trieste, dal quale uscivano delle persone straniere, misteriose, con dei sacchi vuoti che arrivavano a comprare delle cose che nei loro Paesi non hanno e poi tornavano in serata. E tra questi c'era una ragazza che poi si è allontanata da sola. Cominciammo a lavorare su una suggestione piccolissima, quasi pittorica. La natura della suggestione iniziale stabilisce

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inesorabilmente il film che sarà, perché contiene in sé il suo tema. In questo caso, in questa suggestione c'era netta la visione di una distanza, di un mistero, di una creatura quasi inconoscibile che è diventata narrazione, ed è diventata la tessitura della storia”.

Se tutto è nato da una suggestione quasi pittorica, questo personaggio non lo conoscevate bene. Come avete lavorato per costruirgli attorno una storia?

“Noi non abbiamo mai pensato di raccontare la vera storia di quella ragazza partendo da quell'immagine, ma abbiamo cercato di raccontare solo ciò che si può sapere di una donna misteriosa. Quindi lo sviluppo drammaturgico era la trama di questa impossibile conoscenza di questo individuo. Abbiamo pensato di metterci nella condizione di distanza che vivono le persone che guardano e che non possono conoscere una ragazza del genere. Qual è la distanza giusta oltre la quale non si può andare? Tutto il film è in fondo il racconto di questa impossibile conoscenza di un personaggio”.

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Paolo Sorrentino

La Sceneggiatura È Finita Quando Ti Scocci.︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ Nato a Napoli nel 1970, Paolo Sorrentino ha conosciuto il grande successo internazionale al festival di Cannes, nel 2008, per il film Il divo, ispirato alla figura di Giulio Andreotti. Premio della giuria al festival, e ottima accoglienza della critica, insieme a un buon successo di pubblico. Sorrentino aveva debuttato nel 2001 con L’uomo in più, del quale è anche sceneggiatore, presentato al festival di Venezia e vincitore del Nastro d’argento per il miglior regista esordiente. Con Le conseguenze dell’amore, nel 2004, Sorrentino approda a Cannes in concorso, e vince 5 David di Donatello. Torna a Cannes con L’amico di famiglia nel 2006. Nel momento in cui lo incontriamo, sta scrivendo – insieme a Umberto Contarello – il suo primo film “americano”. A interpretarlo dovrebbe essere il due volte premio Oscar Sean Penn. Diventerà “This Must Be The Place”.

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Quando pensi all’idea di un film, cos’è che ti deve piacere prima di tutto il resto?

“Deve persistere l’idea, non è che deve necessariamente piacermi così tanto. Quando un’idea persiste nella mente per molto tempo significa che bisogna fare il film”.

I tuoi film sono anche abbastanza insoliti, nel senso che non trattano il percorso dell’eroe come nel cinema americano. Quindi tutte le regolette che uno impara tu le sovverti.

“No, sono state sovvertite molto tempo fa. Io seguo la scia di altri più illustri di me. Ci mancherebbe, non sovverto nessuna regola”.

Quando devi strutturare la storia cosa ti sembra fondamentale mantenere? Per esempio gli americani hanno questa idea dei colpi di scena in un dato momento...

“Non applico delle regole in maniera così pedante, ma tengo assolutamente conto del fatto che i film comprendano dei colpi di scena. Conosco le regole della sceneggiatura americana e le rispetto molto. Poi si possono fare delle variazioni su quelle regole”.

Quindi i tuoi film esistono nella tua testa come tre atti?

“Sì, sono abbastanza strutturati in tre atti”.

Quindi ti è capitato anche di leggere le teorie americane su come si struttura un film?

“Assolutamente sì. Quando ho cominciato ho letto molte cose”.

Mi hanno sempre colpito i tuoi film anche per una grande qualità visiva: mi sorprendono sempre. Ci sono altre influenze di altri mezzi? Per esempio il fumetto?

“Tutti i mezzi tranne il fumetto. Non sono un grande fan del fumetto. Sono piuttosto ignorante in materia. Ma la musica, la letteratura, la fotografia, la pittura sicuramente sì. E il cinema ovviamente”.

Per scrivere una storia nuova da cosa attingi soprattutto?

“Attingo da un’idea che viene dalla mia mente. Non attingo da altro”.

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E preferisci scrivere nel caos o nella calma?

“Posso scrivere un po’ ovunque, a patto che possa sentire la musica mentre scrivo. Ho bisogno della musica per autoesaltarmi. La devo sentire a tutto volume”.

E il personaggio lo vedi vivere? Immagini tutti i suoi gesti?

“Sì, assolutamente sì. Quello che si vede sullo schermo è quello che ho immaginato in fase di sceneggiatura”.

Quindi i film li vedi prima nella tua mente?

“E’ l’unico compito vero che ha il regista: vedere il film prima di girarlo. Se ciò non accade il film viene male”.

E ti capita di osservare le persone e immaginare la loro vita?

“Sì, molti film nascono così. Le conseguenze dell’amore è nato osservando un uomo d’affari in un albergo in Brasile. Stava lì, non ho avuto il coraggio di avvicinarlo e non avendolo conosciuto mi ha incuriosito e ho lavorato di fantasia. Questo capita spesso”.

E anche pensare a cosa faranno dopo, quando spariscono alla tua vista?

“Certo. Assolutamente sì”.

Come narratori di storie chi ti affascina di più nella letteratura e nel cinema?

“Ce ne sono tanti. E’ difficile dire dei nomi senza dimenticarne degli altri”.

Tu adotti il procedimento classico? Soggetto, scaletta, sceneggiatura. Segui queste fasi?

“Il procedimento classico sarebbe: soggetto, scaletta, trattamento, sceneggiatura. No, faccio solo scaletta e sceneggiatura. Un tempo facevo il soggetto, ora non più”.

Una scaletta ampia? Di molti punti?

“Una scaletta molto precisa, di tutte le scene”.

E lì c’è già il film?

“In parte. Poi quando scrivi la sceneggiatura finisci per contraddire molte cose della scaletta che avevi calcolato male”.

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La sfida più grande qual è? Per esempio scrivere i dialoghi, rivedere la sceneggiatura? Qual è la fase per te più impegnativa?

“La fase più impegnativa forse è fare le successive stesure di sceneggiatura. Alla prima stesura hai un grande sprint emotivo, passionale. Dopo diventa più un lavoro ‘di tavolino’ e faccio più fatica”.

Nelle successive stesure tendi ad asciugare?

“Non c’è una regola fissa. Dipende anche dagli esiti che raccoglie la sceneggiatura quando la fai leggere ai produttori o agli amici. O sulla base di idee successive che ti vengono”.

Per avere giudizi cosa fai di solito? Quando hai una scaletta ne parli con qualcuno?

“No, se ho la scaletta non ne parlo con nessuno. Faccio leggere direttamente la sceneggiatura”.

E la fai leggere sia ad amici che a professionisti?

“Sì, ma non a tante persone. A un gruppo fidato”.

Come capisci che la stesura che hai fatto è l’ultima?

“Quando mi scoccio! Nel momento in cui mi sono annoiato significa che è finita. Ma il cinema è un po’ così: passi alla fase successiva una volta che ti annoi di quella precedente”.

Quanto tempo ci metti mediamente per scrivere?

“Molto poco. Per scrivere una sceneggiatura ci metto tra una settimana e quindici giorni. La prima stesura sì. Però per quindici o sedici ore al giorno non faccio altro”.

Da solo o con altri?

“Sempre da solo. Anche se scrivo con un altro sceneggiatore, scrivo da solo e poi gli passo la sceneggiatura per una revisione. Lui ci mette le mani e poi me la ridà. Però è capitato raramente”.

E lo storyboard?

“Quella è una cosa che faccio io successivamente. Ne faccio due”.

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Quindi disegni proprio tu?

“Sì. Ne faccio uno subito dopo avere scritto la sceneggiatura definitiva. Poi ne faccio un secondo subito dopo aver fatto i sopralluoghi e aver scelto i posti dove si girerà il film”.

Ti capita di immaginare scene non filmabili per problemi di produzione? Di immaginare cose un po’ troppo complicate a cui devi rinunciare?

“No, devo dire che sono stato fortunato. Un po’ perché ho dei produttori molto accondiscendenti, un po’ perché ormai con gli anni so quello che si può fare e cosa non si può fare, quindi al limite mi censuro in partenza”.

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Massimo Valerio Manfredi

L’ Errore Fatale Che Un Produttore Non Deve Commettere.

︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎Valerio Massimo Manfredi è un archeologo, un professore universitario, ma soprattutto uno scrittore. Uno scrittore di best seller. Non che li abbia programmati come tali: ma oggi, un suo libro vende intorno al milione di copie, ed è tradotto in una trentina di lingue. Ha insegnato in atenei prestigiosi, da Chicago alla Sorbona. Ma soprattutto ha venduto milioni di copie dei suoi romanzi di ambientazione storica. Tra questi, la Trilogia di Aléxandros, Il faraone delle sabbie del 1998, L’isola dei morti, L’ultima legione del 2002. E’ un signore tranquillo, gentile, che non dimentica le sue origini contadine. E che ha scelto di vivere proprio lì dove è nato, e dove c’è, vicino, la casa di sua madre. A Piumazzo, in Emilia, poco distante da dove è nato Francesco Guccini.

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Come nasce un best seller? Da che cosa si comincia?

“Se ci fosse una formula per fare un best seller, me la dica, che mi renderebbe la vita più facile... In realtà è un fatto assolutamente istintivo. Un best seller è soltanto un libro fortunato; ma io, fin dal mio primo libro, sapevo che avrebbe interessato il lettore, questo sì”.

Come si comporta di fronte alla pagina bianca? In quali momenti del giorno scrive? Ha una percezione “visiva” delle storie che scrive? “Vede” i suoi romanzi?

“Scrivo sempre su un’onda emotiva. Le mie storie sono scritte ‘a caldo’, a colata continua: una volta che comincio non interrompo mai, non torno indietro a rileggere. Scrivo di notte, da dopo cena fin verso le due del mattino. E scrivo al buio, con una piccola lampada sopra il computer, ma niente altro che mi distragga. E con la musica. E sì, io ‘vedo’ quello che sto raccontando. Quasi come fosse un film. Scrivo fin quando non crollo: direi che è un piacere quasi fisico”.

Che cosa pensa che piaccia, alla gente, delle sue storie?

“Per quello che mi riguarda, quello che piace alla gente è la carica di pathos che c’è nelle mie storie. E poi forse la visualità: io vedo e cerco di far vedere quello che sto raccontando. Quasi in 3D, con la colonna sonora”.

Le succede di trovare “idee” che arrivano quasi da sole?

“Sì, ma accade perché tu hai impostato il problema e la mente lavora da sola. Perché il cervello umano ha meccanismi che tu non conosci. Una mattina ti svegli e tac!, la macchina ha finito di elaborare e ha trovato una via d’uscita”.

Quanto tempo impiega per scrivere un romanzo?

“Per scrivere un romanzo inizio con due - tre mesi di riflessione sul tema, sul nocciolo della storia. Poi forse un altro mese per impostare una scaletta, una sequenza di avvenimenti. Quando ho una scaletta quasi completa, la faccio leggere a mia moglie, che è una persona molto severa, e a pochi amici. Poi comincio a scrivere”.

Che cosa fa quando c’è un problema narrativo che non riesce a risolvere?

“Quando sbatto la testa contro un nodo narrativo che non si scioglie, spesso vado a dormire. Poi mi sveglio al mattino e tac!, ho la soluzione. E’ che tutta notte il cervello ha scannerizzato tutte le soluzioni. E al mattino è come se uscisse il foglio dalla stampante e tac!, ecco proprio la soluzione che cercavo”.

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Fin quando scrive?

“Fin quando non crollo”.

E’ un piacere quasi fisico...

“Senz’altro”.

Scrive da solo oppure, come Ken Follett, ha un gruppo di collaboratori?

“Scrivo rigorosamente tutto da solo. Non faccio troppe ricerche sull’ambiente storico, l’ho metabolizzato da anni”.

Come ha capito di essere uno scrittore?

“Io già all’asilo avevo questa passione di raccontare storie, di intrattenere gli altri bambini. Raccontavo che in casa avevo un leone addomesticato, e cose così. Non so se sia un caso, ma mio nonno era un narratore popolare che andava nelle stalle, nelle notti d’inverno, quando i lavori dei campi tacevano, e narrava storie. Ed era meraviglioso. Lo chiamavano fin da lontano, dai paesi vicini”.

Meglio la prima stesura o l’ultima?

“Per me, è sempre ‘buona la prima’. La prima versione è sempre la più bella. Quando, infatti, perdo un pezzo di testo, sono disperato perché so che non lo recupererò mai con quella energia emotiva. Quando scrivo, la mente è in una condizione di tale ‘surriscaldamento’ che le sinapsi si aprono, e trovano collegamenti che normalmente non troverei”.

Scriverebbe lo stesso anche se vendesse 10 copie, invece di un milione?

“Io scriverei anche se vendessi una sola copia. Non mi chiedo mai quante copie venderò. La mia ambizione è solo scrivere un bel libro”.

Che cosa consiglierebbe a un giovane che ha scritto un romanzo?

“Gli editori li leggono i manoscritti. Non è vero che non li leggono. Consiglierei una lettera di presentazione molto breve, ma estremamente incisiva. Uno deve convincere l’editore che sarebbe un errore fatale non pubblicare quel libro. E basteranno poche frasi per dimostrarglielo. Dopo di che, qualche cosa deve succedere”.

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La parte promozionale del suo lavoro le piace? Le presentazioni nelle libreria, i tour nei paesi dove il libro è tradotto?

“Ci sono scrittori che vanno dappertutto, magari in un anno fanno ottanta presentazioni. Io preferisco stare a casa a scrivere”.

Il cinema?

“Lo amavo molto. Il lusso era andare a Spilamberto o a Castelfranco Emilia, dove c’erano più film che a Piumazzo. Ricordo Ben Hur, i grandi film di quando ero ragazzo, i western di Sergio Leone”.

Da un suo best seller hanno tratto L’ultima legione. Ha collaborato alla sceneggiatura?

“Ho scritto una delle versioni della sceneggiatura: è stata una lavorazione molto complessa e difficile. Forse alcuni sceneggiatori americani non avevano chiara la percezione di quel mondo. Nel V secolo, dove è ambientata la storia, è il naufragio di un mondo intero. Ma non ci sono ballerine con le gonnelline”.

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Alessandro Baricco

Raccontare Storie All’ “Animalone”

Alessandro Baricco è uno degli scrittori contemporanei di maggior talento, e maggior successo. Il suo stile ha portato una ventata di nuovo nel panorama letterario italiano. Dopo il successo televisivo di alcune trasmissioni nelle quali parlava di libri in un modo del tutto nuovo – Il circolo Pickwick, Barnum – i suoi libri si sono venduti sempre di più. Da Castelli di rabbia a Oceano mare, dal monologo teatrale Novecento a Seta, da City a Senza sangue. Baricco diventa un punto di riferimento nel dibattito culturale. Scrive editoriali su un quotidiano nazionale, e commenta eventi musicali e sociali, poi raccolti nei due Barnum. Scrive sulle sfide della modernità e della globalizzazione i saggi Next e I Barbari. Crea la scuola Holden, a Torino, e organizza corsi di scrittura creativa. Inventa una nuova forma di spettacolo: i libri raccontati, musicati e portati in scena a teatro, come in Totem. Alcuni suoi libri divengono film: Novecento viene portato sullo schermo da Tornatore, col titolo La leggenda del pianista sull’oceano, e Seta diviene un film con Keira Knightley. Esordisce nella regia nel 2008, con Lezione Ventuno.

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Ti è sempre piaciuto il cinema?

“Sì, è una passione che viene da lontano, ho scritto per il cinema un po’ di volte. Il cinema mi ha formato e quindi in realtà è una specie di incontro molto rimandato. Avrei potuto arrivarci prima”.

I modelli cinematografici che avevi in mente? I film della tua vita che magari anche girando ti sono riaffiorati?

“Quando giravo non mi ricordavo più di niente. Però molto cinema ha lasciato il segno sicuramente su come scrivo i libri, forse di più di quanto poi sia successo girando un film”.

Perché hai deciso di fare un film “non italiano”?

“Il soggetto di Lezione ventuno era molto strano. Non c’erano antecedenti di quel genere di film nel cinema italiano. Il pubblico riconosce i grandi attori italiani quando fanno un certo tipo di cinema e quindi non eravamo sicuri di poter usare la forza di questi attori. E poi c’era il desiderio di fare un film che potesse girare per il mondo facilmente. Tutti questi ingredienti messi insieme hanno fatto pensare a Domenico Procacci di farlo in inglese, coprodotto con gli inglesi. Era una scelta strana ma se tornassi indietro la rifarei”.

Per te cosa è stato difficile in sceneggiatura?

“Io non pensavo neanche di girarlo, quindi non mi ponevo limiti. Era fantasia pura. Quello è il mio mestiere e l’ho fatto con molta felicità, è stato un passaggio solo festivo”.

E a livello registico qual è stata la cosa più difficile, più impegnativa?

“Molte cose. Molti piccoli passaggi nella lavorazione che apparentemente non sarebbero così difficili ma per me erano più difficili di altri. Per esempio scegliere i posti in cui si gira è molto difficile perché in teatro e in letteratura non c’è questo problema. Per me era un problema inedito”.

E il linguaggio della macchina da presa? Inquadrature, movimenti...

“Siamo tutti alfabetizzati in questa grammatica. Naturalmente essere dei virtuosi o degli stilisti della macchina da presa è diverso. Però diciamo che l’alfabeto, la grammatica è una cosa che conosci, sei circondato da persone che sono tutte del mestiere e ti impediscono di buttarti giù nel burrone”.

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Il fatto che lo veda un pubblico vasto ti preoccupava? La fruizione di un libro è one-to-one: dall’autore al lettore. Il film lo vede quel grande “animalone” che è il pubblico, tutto insieme.

“Mi piace dialogare con l’ ‘animalone’. Lo conoscevo già dal teatro. Il rapporto one-to-one col lettore è bellissimo, ma è bellissimo lavorare anche con questa componente irrazionale della tanta gente messa insieme. Non mi ha mai preoccupato”.

Una scoperta che hai fatto girando?

“Duemila! Tante, tante, tante...forse una su tutte è come si possa cambiare un film semplicemente montandolo. Sapevo che il montaggio fosse un passaggio decisivo della lavorazione, però forse non avevo mai pensato che fosse così profonda la possibilità che hai di modificare completamente un film. Questa è stata un po’ una sorpresa”.

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Sandro Veronesi

Scrivere: Il Tuffo Nel Bianco.

Pratese, classe 1959, Sandro Veronesi ha esordito con il romanzo Per dove parte questo treno allegro nel 1988. Con Gli sfiorati, nel 1990, comincia a imporsi sulla scena nazionale. Nel 1995 esce Venite, venite B 52; nel 2000 vince il premio Campiello con La forza del passato, che diventa un film interpretato da Bruno Ganz. Nel 2006 vince il premio Strega con il romanzo Caos calmo, che nel 2007 diviene un film interpretato da Nanni Moretti. Insieme a Domenico Procacci ha fondato la casa editrice Fandango Libri. Scrive articoli giornalistici e ha firmato le sceneggiature di Cinque giorni di tempesta di Francesco Calogero e di Streghe verso nord, diretto dal fratello Giovanni Veronesi.

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Come scrittore, qual è l'atto di coraggio più grosso per te?

“All'inizio, quando ero ragazzo, il coraggio ci voleva a dire che volevo scrivere. Era una dichiarazione sulla base della quale non si andava da nessuna parte. Dopo il coraggio maggiore è entrare dentro la nuvola e andare avanti sapendo che poi ne esci. E’ come quando l'aereo entra nella nuvola: ovviamente si sa che prima o poi spunterà la campagna, la pista, però per un certo tempo sei nel bianco. E in quel bianco ci stai anche per un anno o due”.

Tutto l'atto di scrivere è entrare nel bianco?

“Sì, il grosso dello scrivere è quel bianco lì. Ma non bisogna farsi prendere dall'ansia: bisogna abbandonarsi, riempire il bianco, altrimenti non si fa niente. Ecco, lì un po' di coraggio ci vuole perché, anche se sai che ne uscirai, per il momento non vedi niente”.

E questo bianco lo strutturi? Cioè, quando cominci ad avere un'idea per un romanzo, ti fai una scaletta dettagliata, una struttura? Hai ben chiaro l'inizio e la fine? O cominci da un punto e poi vai avanti?

“No, questo bianco è bianco anche perché, per quanto mi riguarda, non c'è struttura. Quando racconti, vai da un punto ad un altro, perché è ciò che devi fare. Già questa è una struttura. Per quanto tu non abbia idea di quanto ci metterai e dove passerai, sai che arriverai lì. Non vuol dire necessariamente arrivare alla fine: la fine non la conosco, però so da dove voglio passare. E' una questione di energia: bisogna dosarla per uscire fuori dal bianco. Però dopo un po' non hai più energia, quindi tutto sta nel dosarla finché non hai compiuto il tuo dovere”.

Dopo l'idea ti fai un piano ben preciso o vai più sull'onda di quello che può succedere?

“Io capisco che farsi un piano, una scaletta, sia molto rassicurante. Io ho provato ma poi mi sono accorto che era tempo perso perché poi le cose buone, per le quali vale la pena scrivere un libro, vengono nell'immediatezza della scrittura, non sono mai previste. L'importante è che uno abbia una meta, che a un certo punto dalla nebbia spunti la pista”.

Quindi diventa molto importante il momento in cui cominci a scrivere e le condizioni in cui scrivi; in che condizioni scrivi di solito?

“Purtroppo io sono sempre in condizioni di emergenza. E' sempre precaria la mia condizione. Un po' perché lo voglio: non ho mai avuto uno studio con una porta, fondamentalmente per una questione immobiliare, ma anche perché mi

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trovo bene a farmi disturbare. A volte sono proprio i disturbi che ti risolvono il problema, perché può arrivarti casualmente una parola che stavi cercando”.

Quindi questo può succedere anche con la musica che uno ascolta.

“Con tutto! Anche con i disturbi veri come lo squillo del telefono. Le cose che ti interrompono a volte non sono delle seccature: sotto forma di seccature a volte arriva la svolta. Basta essere disposti ad accettarlo”.

Ed è quasi una questione fisica per te anche galoppare scrivendo? Fare una corsa attraverso le parole?

“Io mi devo fermare. Mi fermo, aggeggio qualcosa, mi faccio un caffè, ma più di un quarto d'ora alla volta non riesco”.

E dopo quanto torni indietro? Quanto correggi? Quanto tagli?

“Generalmente finché non sono a posto non vado avanti. Per esempio io non faccio stesure ma la stessa pagina magari la riscrivo 25 volte, ci sto 25 giorni. Una volta che sono soddisfatto di quella pagina vado avanti e non ci torno più sopra. Poi magari può capitare che viene un'idea molto bella quando sei quasi alla fine e questo ti costringe ad aggiustare le cose retroattivamente ma per una questione di trama. Una cosa di cui mi accorgo sempre di più è di quanto faccia schifo la prima stesura di quella famosa pagina che poi, dopo 25 volte, mi soddisfa. C'è una differenza che io mai farei vedere: mi vergognerei se venissero lette le prime stesure”.

E non ti fa paura che magari la venticinquesima sia raffreddata rispetto alla prima?

“Quello è un pericolo piuttosto pesante che affronto con il computer. Io per fortuna ho cominciato a scrivere con la macchina da scrivere, con cui le correzioni costavano fogli e fatica. Quindi non ne venivano fatte troppe. Siccome ho questo imprinting di due romanzi scritti con la macchina da scrivere, non ho preso il vizio del computer come il luogo della provvisorietà, dove ogni parola si può cancellare e sostituire in quattro e quattr'otto. Per me è già una cosa abbastanza definitiva quando sta scritta lì. Salvo il fatto che comunque la facilità con cui ti viene di correggere alle volte può portare a un feedback negativo. Cioè tu superi il punto di massimo splendore e non ti accorgi che invece di migliorarla la stai peggiorando; quello è un pericolo. Però a un certo punto te ne accorgi e torni indietro”.

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Federico Moccia

Lo Sceneggiatore E’ Come Un Attore.

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Tuo padre ti ha fatto respirare cinema fin da piccolo. Era Pipolo: insieme a Castellano, sceneggiatore di Totò, di Franco e Ciccio, dei grandi successi degli anni ‘70 con Adriano Celentano. Che cosa ti piaceva dell’atmosfera del cinema?

“Giravano per casa, quando ero bambino, Tognazzi, Renato Pozzetto, Diego Abatantuono, Adriano Celentano. Ma a me piacevano soprattutto le proiezioni ‘per addetti ai lavori’, nella saletta dell’Anica. E ancora adesso mi piace tantissimo l’atmosfera un po’ segreta del cinema visto prima che lo vedano tutti: come curiosare in cucina prima del pranzo”.

Sei soprattutto scrittore, anche se proprio adesso hai girato un film con Raoul Bova, dal tuo romanzo Scusa ma ti chiamo amore. Quando scrivi? Giorno o notte? Con musica o nel silenzio? In casa o in un caffè?

“Scrivo di notte. In una mansarda dove vengo spesso ospitato. Scrivo con la musica: non sempre quella che scelgo io, mi va benissimo anche la radio. Mi piace la casualità dell’incontro con una musica, una frase, un’atmosfera. Entrare in sintonia con quello che, nello stesso istante, altri stanno ascoltando. Farsi dare una mano dal destino, insomma”.

Nella vita, ami le sorprese, l’imprevisto, l’inatteso?

“Penso a volte che solo per l’inatteso valga la pena vivere. Mi piacciono le parole che sento per strada quando non me le aspetto, le persone che incontro senza averlo previsto. Tutto quello che la vita ti dà fuori programma”.

Ti dispiace non essere finito nello scaffale degli “autori”, ma solo in quello degli “autori di best seller”?

“Non essere considerato un ‘autore’ non mi dispiace neanche per sogno. Negli Stati Uniti, ci sono i musei e c’è il wrestling. E a nessuno viene in mente di disprezzare l’uno o l’altro. Ognuno ha il suo spazio, il suo pubblico. Io non dico di fare wrestling letterario, ma non mi atteggio neanche a intellettuale. Così come nella letteratura, nel cinema. Mi piacerebbe fare il mio cinema romantico, senza credermi Bergman”.

Qual è il tuo film preferito? E tra i film di tuo padre?

“Sarò banale, ma il mio film preferito è Pretty Woman. E tra i film scritti da mio padre, direi La voglia matta e Il federale. E, più recentemente, il film con Celentano, Segni particolari: bellissimo...”.

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In Amore 14 racconti col punto di vista di una quattordicenne. Ma come fai a pensare come loro, a usare le “loro” parole?

“Uno scrittore deve essere un po’ come un attore. Deve entrare nei suoi personaggi. Deve assumerne il linguaggio, i pensieri, i tic. In qualche modo, bisogna uscire da noi stessi e diventare un altro. Per scrivere Amore 14, mi ha aiutato mia nipote di quattordici anni. Ho immaginato di essere lei, di avere le sue parole, i suoi pensieri”.

Ma non hai paura di sbagliare?

“Sempre. Basta una parola sbagliata. Basta farle dire ‘fidanzatino’, per poi scoprire che per una quattordicenne è una parola sbagliata, ridicola. E crolla tutto, tutto finisce. Cerco solo di essere un po’ come Zelig di Woody Allen. Mi trasformo in una di loro”.

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Ken Loach

La Rivoluzione? Si Impara Da Shakespeare

Lo osservi, e vedi un signore mite, dal sorriso gentile. Con gli occhiali chiari, e i capelli chiari, e le idee molto, molto chiare. Ken Loach è il regista di film bellissimi e appassionanti, commoventi e insieme “politici”: La canzone di Carla, Piovono pietre, Riff Raff, My name is Joe. Ken Loach è un signore inglese dal corpo minuto, dalla voce quieta, che ha raccontato la difficoltà di vivere in Inghilterra, in Scozia, in Nicaragua, in tutti gli angoli del mondo. Ha raccontato storie di gente qualunque, ha raccontato le storie di quelli che non hanno voce in capitolo nella Storia, quella con la maiuscola. Ha raccontato le battaglie di chi con le unghie e con i denti combatte per un salario da poco, di chi vive nelle periferie, di chi si vede licenziare da un giorno all’altro. Ma tutto questo, lo ha fatto con uno stile straordinariamente scintillante, riuscendo nel miracolo di dare a ogni volto, a ogni scena la dignità di una scena perfetta, dell’espressione limpida, cristallina dei sentimenti. I suoi protagonisti sono tutti povera gente, e sono tutti bellissimi, intensi, sono tutti re e regine, con i loro volti sgualciti, con negli occhi la rabbia, la vitalità, la passione. Ha vinto la Palma d’oro a Cannes con Il vento che accarezza l’erba. Eppure, non ha cambiato di una virgola la sua aria mite, la sua voce quieta. L’ultima volta, l’abbiamo incontrato in un bar di Cannes. Abbiamo chiacchierato a lungo. Il clamore della Croisette era lontano.

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Che tipo di ricerche fa prima di pensare all’idea per un film?

“In realtà, i film li scrive Paul Laverty. Parliamo a lungo insieme, discutiamo insieme su come deve essere la sceneggiatura, ma la firma è la sua. Da quindici anni, è insostituibile per me. Prima parliamo un sacco. Di temi generali, di quello che abbiamo letto o visto. Piano piano, un’idea emerge. Parliamo di come potrebbe essere la storia. Paul disegna un personaggio o due: poi torniamo a parlare di come pensare tutto il film”.

Poi?

“Poi Paul arriva con una prima stesura. E lavoriamo a distruggerla”.

In che senso, distruggerla?

“Ci facciamo tutte le domande possibili, per mettere alla prova la storia. Come reagiranno i personaggi a una certa situazione? Come la decisione di un personaggio influirà sui suoi rapporti familiari? Paul comincia a scrivere il first draft. Per la prima stesura, gli bastano tre o quattro settimane. Torna da me, e smontiamo di nuovo tutto. E’ un lungo processo di va e vieni”.

In quale direzione opera i cambi nella sceneggiatura? Quand’è che una storia è buona?

“La storia deve avere diverse qualità. Prima di tutto, devono esserci dei personaggi che hanno contraddizioni in sé: qualcosa di irrisolto. La storia è la soluzione di queste contraddizioni. Nella relazione centrale, ci deve essere qualcosa di non risolto. Se la storia è ‘giusta’, illumina tutti gli aspetti di questa contraddizione, senza mai generalizzare”.

E’ più importante, per lei, il conflitto interiore del personaggio, rispetto a quello con il mondo esterno? Conta più quello che accade “dentro”?

“Direi che il mondo interiore del personaggio riflette ciò che c’è fuori. Il processo di realizzazione del personaggio si compie attraverso le circostanze esterne. E il mondo stesso che c’è al di fuori mette alla prova il personaggio, lo spinge a compiere certe scelte”.

Quindi, il mondo mette alla prova il personaggio?

“Il mondo esterno contribuisce a svelare il vero volto del personaggio. Lo mette alla prova, lo costringe a compiere delle scelte. E quindi a mostrare come è veramente, di che pasta è fatto”.

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Parliamo della struttura del racconto. La famosa struttura in tre atti, quella di cui parlano i libri di sceneggiatura, per lei ha senso?

“No. Temo di non aver mai letto libri teorici sulla sceneggiatura. Quello che so, l’ho preso dal teatro. Da Shakespeare. A teatro si capisce come si sviluppano i drammi, come si risolvono i conflitti. Da quando avevo tredici anni, ho vissuto nel teatro. E il teatro ha cominciato a diventare parte del mio sangue”.

Non ha studiato le regole della sceneggiatura, ma la sua narrativa è sempre piena di suspense, di interesse anche drammatico...

“Una storia, nel momento in cui la vedi, deve sempre essere sorprendente. E quando ci ripensi, ti deve sembrare inevitabile. Ti deve sembrare che i personaggi possano solo comportarsi così”.

Diversamente da molti film “d’autore”, i suoi sono anche molto “entertaining”, appassionanti...

“Il problema è tutto nel ritmo della storia. Continuo a pensare che il più cinematografico degli autori sia Shakespeare. Sa come si emoziona il pubblico, i suoi movimenti emotivi, e quando è necessario passare da una scena all’altra”.

E’ Shakespeare il suo maestro di cinema?

“Detto così, suona presuntuoso. Ma da lui viene tutto”.

Quali domande si pone, quando deve disegnare il suo personaggio?

“La domanda più importante è: che lavoro fa? Perché il lavoro definisce e produce certe qualità in una persona. Passare otto ore al giorno facendo una certa cosa ti definisce. Ogni lavoro ti fa diverso, anche fisicamente. Agli attori chiedo di fare, almeno per una settimana o due, il lavoro che svolge il loro personaggio”.

E nelle dinamiche familiari, che cosa conta?

“Conta sapere chi ha il potere, nella famiglia. Chi è il capo? Chi decide? Ogni famiglia è una serie di relazioni complesse”.

I suoi attori sono sempre straordinariamente credibili, ed emozionanti. A volte sono professionisti, altre no. Con quali criteri li sceglie?

“Scelgo a prescindere dal fatto se abbiano già fatto cinema o meno. Scelgo quelli che sembrano più veri, più credibili per il personaggio. Quelli a cui il pubblico può credere”.

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Ma è vero che ai suoi attori non dà la sceneggiatura tutta intera, ma solo alcune pagine per volta?

“E’ vero, perché così rimangono in tensione, rispetto a quello che sta per succedere. Proprio come farebbe, nella realtà, il loro personaggio. Ciò che è veramente importante, per un personaggio, è il suo passato. Non il suo futuro. Gli attori non devono pensare al futuro dei loro personaggi. Devono essere lì, in quel momento, devono essere veri in quell’istante”.

Non fate molte prove prima, immagino. Non vi mettete a leggere la sceneggiatura per mesi, come fa il suo collega Mike Leigh.

“Oh, no! A me non importa se, per esempio, gli attori dimenticano le parole. Per me conta che vivano ciò che accade sul set, e che reagiscano a quella situazione”.

Le sue storie riguardano quasi sempre la working class. Ma anche la borghesia ha i suoi problemi, le sue sofferenze. Non è mai tentato di raccontarla?

“La grande maggioranza dei film tratta di personaggi borghesi, o che non si devono preoccupare dei soldi. La classe lavoratrice ha una caratteristica: il loro linguaggio è più vivo, più crudo. L’espressione dei loro sentimenti è meno mascherata, meno inibita. E le loro lotte sono per la sopravvivenza. I borghesi possono pagare per risolvere i loro problemi, loro no. Quindi i drammi che li riguardano sono più intensi”.

E perché allora i film sono spesso sui borghesi, sui ricchi?

“Perché la gente che va al cinema aspira a essere come quelli che vede sullo schermo”.

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Steve Zaillian

Don’t Believe In Hollywood’s Formula.

Steve Zaillian è, tra le altre cose, lo sceneggiatore di Schindler’s List. Ha vinto l’Oscar, per aver scritto quella sceneggiatura. Ha scritto anche Risvegli dai casi clinici descritti da Oliver Sacks, Hannibal dal romanzo di Thomas Harris, Gangs of New York, Clear and Present Danger, The Interpreter, Searching for Bobby Fischer e il soggetto di Mission: Impossible. E’ nato a Fresno, in California, da una famiglia di origine armena. Un trucco per riconoscere gli armeni: i cognomi finiscono quasi sempre in “an”. Atom Egoyan, Herbert von Karajan, Sylvie Vartan, William Saroyan, e tutta una serie di scacchisti di livello mondiale, tra cui Petrosjan , e il pittore Mondrian, o il calciatore Boghossian, oltre al cantante Charles Aznavour, il cui cognome era Aznavourian.

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Lei è di origine armena. Si sente parte di questa cultura?

“No, veramente non molto. Sono americano di seconda generazione e sono cresciuto parlando pochissimo armeno. Lo ascoltavo da mio padre, sì. Ma niente di più”.

Però ha scritto un film su un campione di scacchi, uno dei giochi in cui gli armeni eccellono. Lei è un bravo giocatore?

“No. Veramente no. Ho imparato a conoscere gli scacchi durante il lavoro di ricerca per scrivere Searching for Bobby Fischer. Ma ero più interessato ai personaggi che ruotavano intorno al gioco degli scacchi che non al gioco in sé”.

Quando scrive un film da dove comincia? Dal personaggio, dall'eroe, dal mondo, dal conflitto?

“Comincio con il mondo nel quale la storia si muove. Poi sviluppo il personaggio al quale affido la mia storia. Solo in seguito arrivo alla trama del film. Ad esempio in Schindler's List l'idea di base del film per me era di qualcuno che abbandona tutto per trovare se stesso. Qualcuno che perde tutto. E che perdendo tutto trova la sua grandezza”.

E' Schindler's List il film a cui è emozionalmente più attaccato?

“Sicuramente è quello di maggior successo, il più importante forse. Ma quello che mi ha toccato in maniera più personale, che sento più mio è Searching for Bobby Fisher”.

Riguardo a Risvegli, è stato difficile trasportare nel film i vari casi clinici? Come si può sceneggiare una serie di racconti medici?

“Sì, è stato difficile. Il libro di Oliver Sacks, da cui è tratto il ilm, è costituito da una serie di riflessioni quasi filosofiche sulla salute e sulla malattia; se vogliamo, anche sull'essere umano. A me, come sceneggiatore, era necessario un personaggio che attraversasse la storia. Parlare con il dottor Sacks è stata la chiave per la realizzazione del film. Prima di incontrarlo, non ero sicuro di sapere come affrontare il soggetto. Dopo aver parlato con lui mi sono detto: ok, adesso ho capito come fare”.

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Quanto è importante, per lei, la struttura del racconto, della storia?

“Meno di quanto si possa pensare. E’ vero che anche io strutturo i miei film nei ‘tre atti’ classici. Ma lo faccio inconsapevolmente. Non ho mai seguito un corso di sceneggiatura. Non credo in formule del tipo ‘questo deve succedere alla pagina 55’. Ogni storia si sviluppa naturalmente. Non credo alle strutture rigide. Credo che nel narrare una storia, gli eventi si debbano susseguire in modo naturale. Quando scrivo, dunque, non mi concentro mai sulla struttura. Quella diviene riconoscibile dopo”.

Scrive in luoghi precisi, a orari specifici?

“Quando ho cominciato a scrivere lo facevo ovunque: in casa, in un giardino, al caffè. Con rumori di fondo o nel silenzio. Per me non faceva differenza. Adesso, per me è diverso. Scrivo in un piccolissimo appartamento, con solo una scrivania, una sedia, un divano e un tavolino. In realtà credo semplicemente di aver bisogno di stare scomodo quando scrivo”.

Molte grandi star hanno lavorato nei film che ha scritto. Ha mai scritto per un determinato attore?

“No. Non sono mai stato coinvolto in una sceneggiatura della quale già conoscevo i nomi degli interpreti. Il personaggio che creo nella mia mente può essere qualcuno che ho incontrato, che conosco, anche una parte di me oppure del tutto inventato, ma non penso mai a un attore, probabilmente anche perché non so chi sarà a interpretarlo e dunque è inutile immaginare. Per me un personaggio, mentre scrivo, è più reale dell'attore che lo impersonerà”.

Che effetto ha avuto professionalmente e a livello personale vincere un Oscar?

“All'inizio ero molto eccitato, perché potevo parlare di questa esperienza. Ero nervoso, non tanto per il chiedermi se avrei vinto oppure perso, ma per come la gente avrebbe reagito. Che cosa si sarebbe aspettata da me se avessi vinto? Avrebbe cambiato il mio modo di lavorare? Adesso credo che la sola cosa importante sia concentrarsi sullo scrivere, nient'altro. Non sento più la pressione”.

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Preferisce un genere particolare? Che cosa ne pensa del thriller?

“E’ divertente pensare a me stesso come uno scrittore di thriller, sebbene io abbia scritto effettivamente molti thriller, nella maggior parte delle occasioni ho dovuto riscrivere lo script. Molti miei soggetti si basano su fatti reali. Mi piace molto il genere, ma non lo sento mio, non lo padroneggio”.

Le capita mai di immaginare scene che potrebbero succedere in un film?

“Adesso solo quando scrivo. Ma quando ho cominciato mi capitava spesso di immaginare e annotare quello che sarebbe potuto succedere nell'arco della storia... Spesso però quello che immaginavo non accadeva mai durante la scrittura della storia”.

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Paul Haggis

I Crash Test Del Personaggio.

︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎Il mondo lo ha conosciuto con un doppio exploit: Crash e Million Dollar Baby. Del primo film, Paul Haggis era regista e sceneggiatore. Uscito senza troppe pretese, ha vinto l’Oscar per il miglior film, e anche in Italia ha avuto un successo notevole. Di Million Dollar Baby, Paul Haggis è lo sceneggiatore; la regia era di Clint Eastwood. I temi, fortissimi, quelli dell’impotenza fisica, della libertà di scelta individuale e dell’eutanasia. Oscar, anche in questo caso. Paul Haggis diventava, così, il primo sceneggiatore a vincere due Oscar di seguito per il miglior film. Nel caso di Crash, vince addirittura l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale e quello per il miglior film. L’anno dopo, Lettere da Iwo Jima gli fa ottenere la terza nomination. Ma il cammino di Paul Haggis era stato già molto lungo. Tantissime sceneggiature televisive, e anche tanti lavori “da negro”, cioè nei quali la sua firma non compare, per varie sitcom. I suoi vent’anni sono stati turbolenti. E anche adesso, che di anni ne ha un po’ di più, non dimentica l’impegno politico, le utopie rivoluzionarie, la rabbia di allora. Dopo Crash, dirige Nella valle di Elah, in cui fa i conti con la devastazione psicologica dei soldati americani reduci dall’Iraq. Dopo gli Oscar, diviene anche il primo nome che viene in mente, quando gli executive di Hollywood pensano a uno sceneggiatore. Ed è così che viene coinvolto persino nell’impegno di reinventare 007. Scrive i dialoghi di Casino Royale, e successivamente viene chiamato a scrivere in toto Quantum of Solace. Il primo film di James Bond che non nasca da un romanzo di Ian Fleming.

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Quanto in là si può spingere uno sceneggiatore per raggiungere verità e realismo?

“Solitamente ci sono molte regole che uno sceneggiatore deve conoscere. Regole che io stesso conosco bene, per aver lavorato molti anni per la televisione. Scrivere sempre con queste regole può diventare noioso, così un giorno mi sono detto: sai che cosa? Non mi interessa se questa è la regola. E ho fatto così con Crash. E’ molto rischioso agire così, ma a me piace. L’ho fatto con Crash, ma anche con Million Dollar Baby. Quello che mi piace fare è mettere lo spettatore a proprio agio, metterlo davanti a qualcosa di apparentemente semplice. E poi, sorprenderlo. In Crash ho fatto questo. Ho messo lo spettatore davanti a personaggi che potevano “conoscere”, di cui potevano comprendere il comportamento. Poi, velocemente, ho cambiato sotto i loro occhi questi personaggi. Così li ho messi davanti alla consapevolezza che in realtà questi personaggi loro non li conoscevano affatto. Perché un personaggio si può conoscere veramente solo se lo si è messo alla prova. Fino ad allora puoi pensare che sia buono o cattivo, ma non lo sai”.

Quello che vuole e che si deve fare è mettere alla prova i personaggi?

“Certo. Testarli, testarli e testarli ancora. Fino a mettere in evidenza le crisi e le tragedie dei personaggi. E’ questo che mi interessa. Non mi fido mai infatti della coincidenza che aiuta l’eroe. Se la coincidenza lavora contro il personaggio va bene. Ma non nel caso contrario. C’è una regola che non infrangerò mai, che non deve mai essere infranta. Mai togliere la crisi dalle mani del protagonista. Il protagonista deve sempre avere il controllo sulle proprie azioni. Deve essere quello che prende decisioni. Che siano sbagliate oppure no, questo non ha importanza. Nel film a cui sto lavorando, Nella valle di Elah, mostrerò che questa è la più grande illusione di tutte. Che noi in realtà non abbiamo il controllo. Sarà un mystery, indagheremo su qualcosa. Ma la scoperta sarà che non c’è alcun mistero, che la verità è sempre stata sotto i nostri occhi, e che è peggiore di quanto potremmo mai immaginare. Il protagonista non avrà più in controllo”.

Nei suoi film allora il punto sarà mettere alla prova il personaggio e far vedere che la verità non è quella che appare?

“E’ la sorpresa il regalo che lo spettatore si aspetta. Ad esempio in Million Dollar Baby c’è una scena in cui Frank (Clint Eastwood) va da Hillary Swank e le dice ‘Ok, ti ho trovato l’incontro che volevi. Adesso puoi decidere, possiamo arrivare a Las Vegas in aereo oppure in macchina’. E lei rimane sorpresa perché è la prima volta che può decidere qualcosa da sola. Allora risponde che vuole andare in aereo all’andata e tornare guidando. E’ una cosa che non

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ha senso: un gioco tra i due personaggi. Ma alla fine è quello che accadrà. Raggiungerà Las Vegas in aereo e al ritorno, dopo l’incidente, tornerà in ambulanza. Questo è il regalo che lo spettatore vuole, la cosa che non si aspetta, ma che sa che deve accadere”.

Lo spettatore qualche volta vuole essere sorpreso?

“Esatto. In Crash succede sempre. Ad esempio quando il regista televisivo – intrerpretato da Terrence Howard – viene bloccato dalla polizia nel vicolo cieco con il tizio che gli punta alla testa la pistola. Lui afferra la pistola e se la mette in tasca. In una situazione del genere, se hai una pistola, il pubblico si aspetta che la usi: io ho voluto sorprenderlo. La sorpresa può anche essere un’altra: vedere accadere sullo schermo proprio quello che il pubblico ha pensato possa accadere. Anche questa può essere una sorpresa”.

Come si comporta con un personaggio che può fare sia una cosa che un’altra, che ha più scelte?

“Questa è la cosa peggiore che può succedere a un personaggio. Devi conoscere bene il tuo personaggio, sapere quello che vuole veramente e fargli inseguire ciò che vuole, darglielo oppure toglierglielo e vedere come reagisce; e la storia può continuare”.

Quali sono le domande che solitamente si pone mentre scrive un film?

“Una delle domande che mi sono fatto in Crash è perché reagiamo in maniera diversa alle diverse situazioni, seppur simili, perché giudichiamo gli altri secondo i nostri problemi, senza mai pensare a quali possono essere i problemi degli altri. Ad esempio, se qualcuno mi taglia la strada camminando su un marciapiede e mi urta, mi chiede scusa e io continuo per la mia strada senza incidenti, senza arrabbiarmi. Ma se qualcuno mi taglia la strada in macchina io lo giudico, dico che è uno stronzo. Non lo conosco, ma so per certo che è uno stronzo. La domanda è: che cosa gli succede quando prosegue per la sua strada in seguito a quel fatto? Va a casa e litiga con la moglie? Oppure prosegue e vede un incidente un isolato o due dopo avermi tagliato la strada e salva la vita a qualcuno? Questo è il caso di Crash. La persona che io considero uno stronzo diventa un eroe. Che cosa so delle persone? Che cosa giudico? Come esseri umani noi siamo delle immense contraddizioni. Così ritengo che il modo migliore di scrivere sia proprio quello della contraddizione. L’eroe può essere un razzista, uno stupratore. Ma per la persona che ha salvato resta sempre un eroe. Così il cattivo, il colpevole, può essere qualcuno di profondamente buono o che può diventare un eroe da un momento all’altro, perché noi non siamo né completamente buoni né del tutto cattivi, mai”.

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Questa è una cosa nuova per le regole di Hollywood...

“Sì. Puoi avere un protagonista che maltratta le donne, ma resta pur sempre buono. Oppure il “cattivo” che è in realtà una brava persona, qualcuno per cui puoi provare simpatia, mentre il protagonista può essere una persona terribile. Questo è quello che voglio esplorare, perché è ancora nuovo a Hollywood. Faccio lo stesso con il giovane poliziotto, interpretato da Jonathan Rhys Meyers. Un personaggio con dei principi e una morale, un personaggio che può essere seguito per tutto il film dicendo o pensando che sicuramente farà la cosa giusta. Ma l’altra cosa che so è che gli dèi sono crudeli, e se c’è una cosa che non perdonano è la superbia. E il maggior peccato di superbia è credere di conoscere noi stessi. Così lui crede di conoscere se stesso, di essere migliore di quelli che giudicano gli altri per la strada in cui vivono o per il colore della pelle, ma qualche volta non siamo come vorremmo essere”.

Quando penso ai suoi film viene naturale paragonarli a Magnolia.

“Bellissimo film, ma molti film, come ad esempio quelli di Altman in cui le storie nascono all’interno di altre storie, mi hanno ispirato. Film di gente che fa cinema da svariati anni. Anche De Sica mi ha ispirato in questo. Quello che voglio, che mi interessa, è seguire il mio personaggio attraverso una situazione che sfocia in un’altra e in un’altra ancora. Credo che questo sia un po’ diverso dall’avere storie parallele che si uniscono alla fine verso una risoluzione comune”.

Cosa fa quando comincia un film? Come lo comincia? Ad esempio Giuseppe Tornatore comincia annotandosi le idee su dei foglietti di carta.

“Lo faccio anche io, poi li conservo nel mio portafoglio o in tasca o nelle borse e alla fine li metto tutti nel computer. Pile di foglietti che diventano il mio soggetto o il soggetto per qualcosa che farò in seguito. Ho pensato a Crash per 10/15 anni prima di scriverlo. Semplicemente pensavo a qualcosa, lo scrivevo e lo mettevo da parte. Per Million Dollar Baby ho letto un breve racconto che mi ha colpito così profondamente perché c’è un’esperienza personale lì dentro, ed ho capito che dovevo scriverlo. E’ qualcosa che mi fa arrabbiare, che mi rende nervoso, che non piace. Allora sapevo che era qualcosa che dovevo scrivere”.

Che ne pensa dei cartoncini colorati che usano, si dice, gli sceneggiatori di Hollywood per la scrittura? Li usa?

“Li uso, ma non li amo particolarmente. C’è sempre il rischio di perdersi nei dialoghi, nella bellezza della scrittura. Devo scrivere solo l’essenziale della scena, delle situazioni. Flags of Our Fathers è stato un adattamento molto

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difficile. E’ un libro molto lungo, con tantissimi personaggi, che copre un lasso di tempo lungo. Lì si è trattato proprio di tagliare via delle parti. Mi sono annotato le cose fondamentali e poi ho letteralmente strappato via tutto quello che non serviva finché non mi è rimasto solo l’essenziale. E’ stata una battaglia narrare quella storia”.

Sì, ma se si scrivono cose che piacciono a noi – e che rischiano di piacere “solo” a noi – come si reagisce ad un rifiuto?

“E’ dura. Devi credere nel tuo progetto, devi credere che prima o poi verrà realizzato. Magari non in questo momento, ma in futuro sì. Devi metterlo da parte e cominciare a scrivere altro. Non ti devi mai fermare”.

Ha detto di aver scritto delle brutte sceneggiature, ma anche che adesso sa come farle...

“Sì; ne ho scritte all’inizio della mia carriera, ma anche adesso non sono certo di scrivere bene tutte le volte. Ogni volta che mi trovo davanti alla pagina bianca, alla prima pagina, mi dico: non posso farlo, non ce la farò. Spesso quando la sceneggiatura è finita, ed è buona, non me ne rendo conto. Solitamente se penso che una sceneggiatura sia buona invece scopro che non lo è”.

Ci sono degli elementi che differenziano una buona sceneggiatura da una brutta sceneggiatura?

“Sì. Se pensi che una sceneggiatura sia buona, solitamente non lo è. Se pensi non sia buona, forse potrebbe andare bene. Questo è quello che so”.

Ritiene utili le scuole di sceneggiatura?

“Sì, molto. Io non ho fatto l’università. Ho studiato fotografia per quattro anni al liceo e cinema per altri tre anni in un altro liceo, ma mi sono ritirato. Ero un pessimo studente. Sono finito nei guai molte volte, ma non per violenza, avevo altri problemi. A 22 anni mi sono trasferito a Hollywood per diventare fotografo, ma ho fallito. Allora ho cominciato a scrivere. Di tutto. Scrivevo per la televisione, lungometraggi, qualsiasi cosa, ma in maniera disordinata. Poi ho trovato a Los Angeles una scuola, che ora non c’è più, ed è stato fantastico. C’era gente che sapeva davvero cosa insegnava”.

Che ne pensa della teoria dei tre atti?

“La uso, ma non ne sono schiavo. In qualcosa è molto utile, quando ad esempio devo cercare di capire che cosa accadrà, ma spesso i miei film non hanno i tre atti. Ad esempio Million Dollar Baby non è strutturato secondo i tre atti, e credo che neppure Crash lo sia. La struttura è molto importante, ma

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esistono centinaia di strutture che si imparano nel corso degli anni. Il mio consiglio è quello di usare la struttura che funziona di più per te e per quello che stai scrivendo”.

Qual è il pericolo maggiore da evitare in una sceneggiatura?

“Devi conoscere bene le regole prima di poterle infrangere”.

La prima cosa da fare è buttare giù una traccia di quello che succederà?

“Certo. Bisogna sempre avere presente quello che accadrà, quello che i personaggi faranno, perché non dobbiamo mai dimenticare che la cosa più importante in un film è l’azione. Qualunque essa sia. I personaggi devono fronteggiare qualcosa che in realtà non vogliono fronteggiare. Sono i personaggi che devono creare l’azione, se sono dei buoni personaggi”.

Quanto tempo impiega per scrivere i dialoghi?

“Solitamente sono velocissimo. La trama porta via un sacco di tempo, così come la scrittura della storia, ma non i dialoghi”.

Non ha mai paura, lavorando alla storia, di metterci troppa invenzione?

“Sì, certo. Per molti anni io sono stato uno scrittore astuto, cercavo modi per nascondere la verità, per inventare sempre stratagemmi nuovi che la coprissero, ma ero un cattivo scrittore. C’erano dei grandi momenti comici o dei grandi momenti drammatici, ma era tutta una facciata, era tutta manipolazione”.

Come sceneggiatore considera parte del lavoro vedere il suo prodotto cambiato sullo schermo?

“Sono stato molto fortunato perché le mie sceneggiature non sono mai state cambiate. Hanno sempre girato quello che io ho scritto. Una volta, quando ho lavorato con Spielberg, sono stato io a voler fare dei cambiamenti, mentre lui era contrario e continuava a ripetere che la sceneggiatura andava bene. Io scrivo solo quello che è fondamentale, non scrivo i movimenti di macchina e non do molte informazioni sulla fisicità dei personaggi. A me non interessa vedere esattamente quello che ho scritto in una scena, ma vedere la verità di quella scena. Questo è ciò che conta”.

Ha detto che l’ultimo film di Eastwood è stato difficile da scrivere...

“Molto. Intanto è un film di guerra e non capivo perché dovessi scrivere di una guerra passata in un momento in cui siamo in guerra. Che cosa potevo scrivere? Che domande potevo formulare? Che cosa potevo raccontare di

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importante? La storia in sé, la storia della foto che apre il film, è cortissima, dunque per prima cosa ho dovuto trovare un perché dovevo farlo”.

La risposta a quel perché?

“Steven Spielberg mi disse che dovevo farlo per onorare gli uomini che sono morti in quella guerra. Gli ho risposto che non era sufficiente e Spielberg mi ha guardato sconvolto. Poi gli ho detto che non si doveva preoccupare, quello era il mio lavoro, avrei trovato io la risposta. Mi ci è voluto molto per arrivare alla domanda veramente importante. Quanto costa a un uomo diventare un eroe? In questo caso essere chiamato eroe distrugge l’uomo. Perché è l’uomo stesso che non si sente un eroe”.

Il suo lavoro con Gabriele Muccino, per “tradurre” in inglese “L’ultimo bacio”, come è andato?

“Mi piace Muccino, tecnicamente il mio lavoro con lui è stato solo quello di tradurre in inglese la sua sceneggiatura, quella che mi aveva mandato anni prima, quando stavo lavorando ad altri progetti. Ottimo cast, un regista bravissimo. Il film non è buono, è formidabile”.

In che condizioni scrive di solito? In uno studio o all’aperto, con il silenzio o con la musica...

“Le condizioni variano. Posso scrivere a casa, in un albergo, in un caffè, ovunque insomma. Il luogo ideale in cui scrivere sarebbe un luogo pubblico, ma la gente intorno a me non mi dovrebbe rivolgere la parola. Dovrebbe solo continuare a parlare, così potrei sentirne le voci. Ho bisogno di sentire la vita intorno a me. Quando sono a casa provo a scrivere presto la mattina, ma poi passo ore a leggere le mail o a rispondere alle telefonate o a sbrigare altre faccende. Poi, all’una, mi sento in colpa e apro il documento, ma verso le quattro comincio a entrare in panico. Questo va avanti per mesi, poi quando mi rendo conto che sono sulle stesse pagine da troppo tempo. Mi chiudo in albergo e comincio a scrivere anche per dodici, quindici ore al giorno. Questo per due o tre settimane. Come ho detto, amo sentire la vita intorno a me, allora quando scrivo in albergo apro le finestre della mia camera, per sentire la vita dalla strada”.

Le accade di parlare da solo, per raccontare quello che sta succedendo nella storia?

“No. I miei personaggi parlano con me per tutto il tempo, così non ho bisogno di sentire la mia voce. Riesco a immaginare tutto in modo vivido. Solitamente non penso mai agli attori, ma ai personaggi, in Crash è stato facile, mi è venuto naturale. Solo per Million Dollar Baby ho pensato fin dal primo

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momento a Clint Eastwood e Morgan Freeman. Non potevano essere che loro i miei due attori”.

Qual è stata la sfida più grande?

“Nella valle di Elah, il film che ho scritto e diretto. E’ stato difficilissimo, Un impegno duro. Mi sono divertito a scrivere Casino Royale, ma questo è stato sicuramente l’impegno più grande”.

Quali sono le caratteristiche di Charlize Theron che più l’hanno affascinata?

“E’ camaleontica, scompare nella parte. E’ bellissima, ma preferisce non comportarsi come una star di Hollywood. Ho voluto vestirla normalmente, con poco trucco e il suo colore naturale di capelli. Lei entra totalmente nella parte, non ricerca le grandi scene, trasmette verità. Anche Tommy Lee Jones è una certezza. E’ meraviglioso”.

Qual è stato il suo apporto per questo film?

“Volevo un attore che fosse veramente un simbolo di una generazione, del quale potessimo dire: ecco, questa è l’America”.

E sulla scrittura? La storia è quella di un soldato che scompare in Iraq. Ci ha abituati a molte sorprese, a molti colpi di scena, quale sarà la sorpresa di questo film?

“E’ un viaggio verso la libertà. E’ sì un thriller, ma in qualche modo la verità è facile da scoprire. Più facile da scoprire che da affrontare. E’ un po’ come un thriller, ma non conta tanto scoprire chi ha ucciso questa persona, ma che cosa ha portato alla sua morte. Chi è responsabile e perché. Che cosa è accaduto a lui e ai ragazzi che lo circondavano. E’ una verità più grande di quella personale. La vera sorpresa di questo film è che non ci sono sorprese, ho solo cercato di giocare con il genere”.

Questa verità è legata alla guerra in Iraq?

“Sì, ma soprattutto con chi siamo noi americani. L’America è un paese che ha un potere e una responsabilità. E’ un film su che cosa può fare un uomo quando è davanti a scelte impossibili. Possiamo avere tutte le migliori intenzioni, ma queste vengono distrutte. Siamo abituati a pensare in maniera semplicistica alla guerra, invece io volevo porre domande più complesse. Questo è il mio lavoro, fare domande”.

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Parliamo del suo James Bond. Vorrei sapere qual è stata la sfida più grande per lei questa volta.

“L’altra volta (Casino Royale) abbiamo inventato il personaggio, ed era perfetto. Avevamo fatto del nostro meglio e ci era venuto davvero bene. Ma questa volta davvero non sapevo che cosa fare. Così ho lasciato perdere per un po’, ho messo da parte il progetto è ho scritto altro, non perché non lo volessi fare, ma perché non sapevo come fare. Poi, finalmente, sono arrivato alla costruzione della trama”.

Dopo aver reinventato il personaggio, che cosa ha fatto?

“Sono passato a formulare le domande cruciali sul personaggio. Dopo aver pensato a quelle ho continuato a farne di sempre più complesse. Ecco che cosa ho fatto”.

Il suo concetto dunque è che la vita sia una prova continua?

“Sì, esattamente. La vita è una prova continua, fallisci la maggior parte delle volte, poi rimetti insieme i pezzi e ce la fai, o almeno provi. Questo è quello che un personaggio deve fare: provare, provare, provare e non arrendersi mai. La definizione di personaggio è colui che non si arrende”.

Sono importanti anche i modi in cui fallisce?

“Certamente. In ogni genere, dalla commedia romantica, al dramma, al thriller, se il personaggio deve riuscire alla fine del terzo atto deve riportare dei fallimenti nel primo e magari nello svolgimento di tutta la storia. Non può partire con i poteri di un supereroe fin dall’inizio”.

Nello scrivere il nuovo James Bond che è il seguito di Casino Royale, ha pensato all’attore?

“No. Non penso mai all’attore. Se pensassi all’attore scriverei quello che lui vuole fare e non quello che il personaggio può fare. Bisogna sempre pensare al personaggio, mai all’attore”.

Parlando con Giancarlo Giannini mi ha detto che l’ultima pagina dello script non gli è stata data...

“Davvero? Non lo sapevo. Non sono stato coinvolto nella realizzazione del film, ho scritto la sceneggiatura, poi l’ho consegnata, non ho saputo altro. C’erano una produzione fantastica e un grande regista, dunque ero tranquillo”.

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Una domanda di pura curiosità personale. Quanto può essere pagata una sceneggiatura?

“Un sacco di soldi... Oppure veramente poco. Ad esempio per Crash non mi hanno pagato quasi nulla, perché la dovevo assolutamente vendere e l’ho venduta al minimo previsto dal Sindacato degli sceneggiatori. 45.000$ per quattro anni del mio lavoro. Million Dollar Baby è stata pagata molto così come altre sceneggiature e anche Casino Royale è stata pagata molto bene. Non mi posso lamentare”.

Che cosa può suggerire a un giovane sceneggiatore italiano? Ha qualche idea?

“Scrivere con passione. Bisogna sempre seguire le proprie passioni. Non importa che genere questa passione abbracci. Non si deve mai pensare a quello che potrebbe vendere più facilmente o a quello che la gente vuole. Questo è un grosso errore che viene commesso spesso. La passione è la chiave. Crash e Million Dollar Baby sono stati scritti con passione e per passione e sono stati due successi al botteghino”.

Ha mai avuto la tentazione di ritirarsi?

“Molte volte, ma sarebbe stato stupido”.

Qual è stata nella sua carriera la sfida più grande?

“Trovare la passione adatta per narrare le storie. Cercare il modo giusto per entrare in una storia, il modo giusto per raccontarla, può richiedere moltissimo tempo”.

Solitamente scrive da un punto fino alla fine oppure rimette insieme i pezzi?

“Quando ho scritto Casino Royale sono partito dalla fine. Questa è una cosa insolita per me. Solitamente di un film mi piace scrivere l’inizio e la fine prima di scrivere la parte centrale. Mi concentro su inizio e fine, inizio e fine finché non mi dico... Ecco che cosa può succedere”.

Una domanda sui dialoghi. Non ha mai paura che possano apparire troppo costruiti?

“No, non mi succede mai, i miei personaggi mi parlano sempre e prima di crearli faccio ricerche, dunque questa non è una mia preoccupazione. Li conosco, dunque so esattamente come parlano, come si comportano, che cosa faranno. Per me è facile immaginare le vite degli altri, quando incontro

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qualcuno mi viene naturale immaginare come vive, che cosa farà, come si comporterà”.

Dunque per lei l’esistenza degli altri non è un mistero. Non è sgomento, chiedendosi che cosa faranno in questo momento.

“Io sono molto curioso, mi piace osservare la gente, quando parlo con qualcuno lo ascolterei per ore, voglio sapere che cosa pensa, che cosa prova. Io colleziono queste vite, queste esperienze, così quando devo creare un personaggio non ho difficoltà ad attingere dalla vita reale. Anche adesso che sto parlando con te, mi interessa conoscerti, sapere che cosa pensi, che cosa provi, nonostante tutte le bellissime donne che ci sono qui. Lo so, è strano, ma sono fatto così”.

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Jean-Jacques Annaud

Si Va Al Cinema Per Avere Delle Preoccupazioni.

Jean-Jacques Annaud è il regista del Nome della rosa, de Il nemico alle porte, de L’amante, di Sette anni in Tibet. I suoi film possiedono sempre un enorme impatto spettacolare: anche quando raccontano storie intime, come nel caso de L’amante, dal romanzo di Marguerite Duras. Con il suo primo film, Bianco e nero a colori, Annaud ha vinto l’Oscar. Ha vinto anche tre César, gli Oscar francesi, per i suoi film successivi. Nato nel ‘43 nella provincia francese, ha studiato fotografia e cinema alla Sorbona. Ha diretto centinaia di spot negli anni ‘70, prima di esordire nel cinema. Con coraggio. Gira La guerra del fuoco, ambientato nella preistoria, senza far ricorso all’uso della parola. Nel Nome della Rosa, sa scegliere, tra milioni di suggestioni, di impressioni, di pressioni, quale forma cinematografica dare al più grande best seller mondiale degli anni ‘80, al libro del quale ognuno dei milioni di lettori aveva un’immagine mentale diversa. Nel Nemico alle porte, dirige un film di guerra che è quasi una riflessione sull’atto stesso del vedere.

Non sempre la critica ha amato i suoi film: ma tecnicamente, pochi riescono ad arrivare ai suoi livelli. Perfezionista, alla Kubrick, controlla lui stesso ogni tappa della lavorazione dei suoi film. E’ accademico di Francia.

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Quando è iniziata la sua passione per il cinema?

“La mia prima cinepresa l’ho avuta quando avevo 11 anni. Per tutta l’infanzia ho fatto fotografie e filmini. La domenica, li mostravo ai parenti. Avevo già un pubblico! E sapevo che bisognava mostrare cose interessanti e non annoiarli. Avevo un piccolo magnetofono, con cui registravo commentari e musica. E facevo anche pagare il biglietto!”.

Quali anni erano?

“Erano gli anni ‘50. Sono nato nel 1943, e il mio ‘apprendistato’ è di quegli anni. Non che sia stato facile. Quando a scuola dicevo che volevo fare il cinema, i professori dicevano: che peccato, un così bravo allievo! Pensavano ancora che il cinema fosse qualcosa di disdicevole, come il circo”.

In famiglia, è stato incoraggiato?

“Per i miei genitori il cinema non era un mestiere vero. Mio padre lavorava nelle ferrovie. Mia madre lavorava nell’industria chimica. Io provengo dalla classe media francese, quella che fa la forza della Francia! Allo stesso tempo, i miei genitori si vergognavano di non essere colti: perciò mi hanno fatto andare molto a teatro, mi hanno fatto visitare i musei”.

Era uno spettatore onnivoro?

Io ho visto di tutto, sono stato a tutti i concerti, ho visto centinaia di film. Ed è stata la mia fortuna. Ho potuto vedere i film italiani, il cinema migliore del mondo”.

Per fare un film cosa è necessario, secondo lei?

“Un dramma. Si va al cinema per avere delle preoccupazioni, diceva Hitchcock. C’è bisogno di condividere il dramma di un personaggio. Si va al cinema per vivere un’avventura che non potrai vivere nella vita. Quello che è formidabile, è che noi abbiamo voglia di vivere altre vite: il cinema ci permette di avere altre età, un altro sesso, di vivere emozioni diverse dalle nostre, ma comprensibili. Io, da ragazzo, vivevo in un mondo tranquillo, ma senza speranza, senza prospettive. Grigio. Ciò che mi ha salvato è il cinema. Quando lo schermo si apriva, era il modo di viaggiare e di condividere emozioni più grandi: una sensazione che non ho mai abbandonato. Al cinema divento di nuovo bambino con i miei desideri di viaggio, di sogno, di esperienze eccezionali”.

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Come sceglie i suoi soggetti?

“Scelgo i miei soggetti in base ai miei entusiasmi personali su quel progetto. Penso che se per sei mesi posso essere interessato a un progetto, altri potranno esserlo per due ore! Io non sono speciale: quando vedo un bel paesaggio, una bella donna, so che anche altri apprezzeranno quel paesaggio o quella donna. Se una cosa mi piace, penso che è ciò che devo fare. Quando una storia o un libro mi danno abbastanza entusiasmo per starci intorno per tre o quattro anni – perché questa è la dimensione temporale di lavoro dei miei film – penso che posso cercare di convincere anche dei produttori, persino degli Stati o un pubblico, a interessarsene”.

Lei ha fatto film molto diversi: Il nome della rosa, Il nemico alle porte, L’amante. Cosa li lega?

“Il grande pericolo per un regista è di ricominciare nello stesso ambito che ti ha dato il primo successo. Io cerco di tagliare con il passato, di trovare sempre nuovi territori. Se mi interesso ai monaci e al Medioevo, non vuol dire che non mi piacciano le belle donne; e racconto di una adolescente tra le braccia di un cinese. Mi piace molto l’universo coloniale in cui si situa L’amante. Nel mio primo film ho avuto la fortuna di ricevere l’Oscar, con Bianco e nero a colori. Io amo l’Africa, e così, dopo quel successo, tutti mi hanno proposto film sull’Africa. Così come dopo Il nome della Rosa tutti mi hanno proposto film sul Medioevo. Per me, invece, era chiaro che dopo Il nome della Rosa, avrei dovuto aspettare vent’anni prima di raccontare di nuovo il Medioevo! Adesso, per esempio, sono affascinato dal Medio oriente, dal mondo musulmano. Cerco sempre di assecondare i miei gusti del momento. A volte mi chiedono: ma perché fa questo? Semplice: perché mi piace. Perché si è innamorato di questa donna? Perché mi piace...”.

In quanto tempo scrive una sceneggiatura?

“Mi occorre almeno un anno. Mi serve un periodo di incubazione. Devo leggere, andare sul posto. Per almeno sei mesi, ho bisogno di ‘vivere’ quella storia dentro di me. Poi, per scrivere, quando riesco a buttar giù quattro pagine al giorno, è già un successo. Per Il nome della rosa ho fatto 17 versioni: a quella sceneggiatura ho lavorato due anni!”.

Qual era il problema del Nome della rosa?

“La struttura era molto incrociata. Come in un dolce millefoglie, c’erano molti livelli di significato. Per tradurre lo spirito di seicento pagine, che richiedono diciassette ore di lettura, come si fa? Non puoi fare un film di diciassette ore. Però devi inserire tutte le questioni che il romanzo affronta: problemi teologici, filosofici... Devi mettere in scena l’Inquisizione, devi raccontare la bellezza e la

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felicità della conoscenza. Come fai in due ore? Poi, molti dei temi erano astratti, poco ‘cinematografici’. Non potevamo fare come in un libro, dove puoi fermare la lettura, riprendere, tornare indietro: il film si vede tutto d’un fiato”.

Dal libro al film, il processo continuo è quello di rendere concreto, immagino.

“Esattamente. In un film tutto deve essere preciso. Leggo nel libro: ‘Un vecchio dietro il tavolo’. Nel film, devo scegliere: che vecchio? Che tavolo? In letteratura, ognuno si fabbrica il suo film. Al cinema, devi dare tu l’immagine. L’adesione all’opera si attua in modo diverso. L’adesione emotiva a un film si fa in modo carnale. Ogni parola – tavolo, uomo, vecchio – deve avere un corrispettivo concreto”.

Per lei, un film è qualcosa di molto “carnale”...

“Proprio così. In letteratura il lettore vive un processo intellettuale; al cinema, lo spettatore vive un processo carnale. L’adesione passa attraverso il cuore. Per fare il cinema, è necessario identificarsi con il personaggio. In letteratura non è necessario. Al cinema è necessario sentire, prima ancora di comprendere”.

Questo comporta delle differenze, nella scrittura.

“Certo. Al cinema non si può dire: ‘Paul è infelice’. Bisogna che io scriva: ‘Paul esce da camera sua. Guarda a lungo il cielo grigio. Si sente la musica lontano di una fisarmonica’ eccetera. Va be’, non è la migliore immagine della tristezza, ma è almeno un’immagine...”, ride. “Al cinema non posso esprimere le intenzioni. Devo trovare delle materializzazioni di tutto. In francese, regista si dice: ‘realizzatore’, réalisateur. E’ una parola molto precisa. Devi rendere reali delle cose astratte”.

Cosa è, per lei, dunque, la sceneggiatura?

“La sceneggiatura è il film che racconti a uno spettatore prima di farlo. Questo spettatore, di solito, è il produttore...”.

Il suo rapporto con i dialoghi qual è?

“Per me, sono l’ultima cosa. Ho fatto un film, La guerra del fuoco, che non aveva dialoghi. E la gente aveva paura che non si capisse. Invece si capisce tutto. I dialoghi sono radio, non sono cinema”.

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Per lei il cinema deve essere visivo. Immagino.

“Giusto! Torniamo all’esempio di prima: se qualcuno dice in un film, nella voce over, ‘Paul è triste’, quello non è più cinema, è radio filmata. Gli americani conoscono bene questo pericolo. E sanno evitarlo quasi sempre. Perché in America il pubblico non sapeva bene l’inglese: erano tutti immigrati. E allora il cinema era per forza visivo: c’era uno col cavallo nero, e uno col cavallo bianco. Quello col cavallo nero era il cattivo”.

Il cinema americano è rimasto visivo, anche oggi?

“Sì. Il cinema americano ha continuato questa sua tradizione, mentre in Europa c’è una tradizione teatrale, dove l’informazione passa per i dialoghi. Un cinema più intellettuale e meno spettacolare. E certamente, meno universale. Chi è riuscito a fare un cinema insieme intellettuale e universale, divertente ed emozionante, è Fellini. E lui, infatti, i dialoghi li scriveva dopo! A volte, dopo aver girato il film! Prima c’era l’immagine”.

A livello di costruzione della storia, come si crea l’effetto di suspense?

“L’esempio è semplice: se nella nostra conversazione, dove adesso non c’è suspense, si fa vedere che sotto la sua sedia c’è una bomba legata a un cronometro, si sa che siamo destinati a scoppiare. Lo spettatore è cosciente di un pericolo: e abbiamo una situazione di suspense. Questo esempio, come lei sa, non è mio, ma di Hitchcock”.

Nel Nemico alle porte c’è molta suspense. E c’è anche un aspetto molto forte che riguarda la visione. Il film è su un cecchino, che deve vedere in un istante i suoi nemici, sparare, e non essere visto. Quindi a sua volta, oggetto di visione.

“Mi piaceva questa miniatura al centro di un enorme affresco. L’affresco è l’enorme battaglia di Stalingrado. Il ritratto è però quello di un soldato, uno soltanto. In costante pericolo. Ho messo in scena il pericolo prestissimo, nel film. La suspense riguarda la sua vita”.

L’effetto di suspense può riguardare ogni aspetto della vita del personaggio...

“Sì: per esempio può riguardare un personaggio che aspetta i risultati di un’analisi medica. E puoi ritardare il momento in cui lo viene a sapere, in modo da prolungare l’effetto. Magari facendo in modo che il taxi che lo porti all’ospedale ritardi, e che sia costretto a proseguire a piedi...”.

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Altri esempi di bombe innescate?

“I pericoli possono essere anche psicologici. Un uomo molto preso da sua moglie, mentre noi vediamo che la moglie è innamorata di un altro. E’ anche questa una bomba che sta per scoppiare”.

Quindi qual è il segreto della suspense?

“Dal momento in cui anticipi i problemi del tuo protagonista, sei tenuto sul filo, hai il fiato sospeso. Puoi sempre usare questo schema: anticipare le difficoltà del personaggio centrale. Quando racconti una storia, devi sempre giocare su questo. Anche nella vita, quando racconti delle storie, fai ugualmente dei flash back e delle anticipazioni. Quello che è importante è che devi mettere i pericoli abbastanza presto nel racconto”.

Come si decide l’ordine cronologico del racconto?

“Puoi raccontare le cose in maniera lineare, oppure puoi mettere in scena da subito tutto quello che è in gioco. E’ un gioco con il tuo pubblico. Devi rivelargli abbastanza punti sensibili, e lasciare dei punti in sospeso. Lo spettatore deve aver voglia di ricostruire la storia nella sua mente, possibilmente prima che la comprenda il protagonista”.

Mi sembra che lei abbia molto chiaro quel libro, l’intervista che François Truffaut fece ad Alfred Hitchcock.

“E’ un libro formidabile! Ci sono delle monografie di registi importanti, come quelle di Ejzensteijn, uno dei primi grandi pensatori del cinema. Ma il libro di Hitchcock e Truffaut è straordinario, perché Hitchcock aveva capito tutti i meccanismi del cinema. Quel libro lo ritengo uno delle mie Bibbie, con la Poetica di Aristotele. Cinque secoli prima di Cristo, Aristotele aveva non solo compreso, ma scritto benissimo quel che bisogna sapere. Questa idea della purificazione, della catarsi, è formidabile. E poi l’idea che bisogna non raccontare tutto, ma solo quello che è importante. I punti di snodo di un racconto”.

Questa è un’altra caratteristica di un buon film.

“Proprio così. Non è necessario raccontare cinque ore di vita in cui non succede niente, ma i due secondi importanti di una vita. Bisogna selezionare. Il lavoro dello sceneggiatore è proprio quello: selezionare, essere denso. Fisiologicamente, un’ora di spettacolo è già molto. C’è chi fa film di tre ore: ma bisogna stare attenti, c’è un limite fisiologico”.

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Quali sono, in sceneggiatura, le regole da non trascurare a nessun costo?

“Le regole, bisogna non applicarle con troppo zelo. Però ci sono delle cose essenziali. Trovo molto seccante, ad esempio, abbandonare il protagonista. C’è bisogno, per tenere sveglio lo spettatore, di farlo appassionare al protagonista. Ed è assolutamente necessario che non capisca cosa sta per succedergli: se lo capisce, è inutile che resti in poltrona”.

Il pericolo è la prevedibilità...

“E’ un grosso pericolo. Usare modelli di racconto talmente abusati che il pubblico capisce subito tutto, e ha la tremenda impressione di aver già visto il film”.

Servono, per lei, i manuali di sceneggiatura?

“Io ho una grande collezione di libri di sceneggiatura. Ma non mi servono tanto. Ho conosciuto molti grandi sceneggiatori, e mi hanno sempre detto: ‘non ho idea di come faccio a scrivere!’. L’istinto è la grande regola”.

Anche perché i libri “inseguono” sempre i film che sono stati fatti. Non quelli che si faranno...

“Infatti. Il racconto cinematografico si è evoluto negli anni. Oggi gli spettatori sono abituati a informazioni più veloci, e non si possono applicare i metodi che servivano agli spettatori di vent’anni fa. La maggior parte di questi libri sono regole dedotte da film di successo di dieci o venti anni fa, e sono consigli datati. Io, per esempio, odio le frasi che hanno spesso in bocca gli executives delle case di produzione: ‘non vedo i tre atti’. Il pubblico se ne frega, dei tre atti!”.

Ma quindi nei suoi film non ci sono i tre atti?

“Ho i film nella testa ben prima di girare. E ho il sentimento di un tempo che si svolge, e di quanto devono durare le scene. Sento che ci sono momenti di dramma e momenti di calma. Ma seguo solo l’istinto. Se ci sono i tre atti, è un caso”.

La prima e l’ultima scena. Quanta importanza hanno?

“Le prime scene devono dare immediatamente l’idea dei toni del film. Devono dare il senso di quale sia il genere di film. E’ molto importante partire col piede giusto. Anche se ci sono film che partono molto male e si riprendono... Penso a Andrei Rublev di Tarkovskij. Mi sono annoiato per un’ora, e poi il film diventa straordinario! Le prime scene sono vitali per stabilire uno stile, per dare

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l’appetito di vedere allo spettatore. E l’ultima scena è la scena su cui ci si lascia. E’ come alla fine di una bella cena, se dici al tuo ospite: ‘tutto bene, ma mi ero dimenticato di dirti che sei uno stronzo’, tutto viene rovinato! Tutto il piacere si rovescia. Al contrario, se a una cena non particolarmente brillante, quando sei sulla porta riveli un sentimento importante, di colpo il tuo ospite ti vede partire e ha il cuore stretto. Anche il titolo di un’intervista è quasi sempre l’ultima frase che dici, accompagnando il giornalista alla porta. ‘Vede, questo film non ha chance di riuscire’, dici al giornalista, a microfoni spenti. E proprio quello diventa il titolo! La fine è essenziale. Per questo negli Usa rifanno spesso la fine, perché è quella l’impressione che rimane alla gente, quando esce dal cinema”.

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Aurelio De Laurentis

Fare Cinema E’ Un Processo Di Grande Umiltà. Non Di Grande Umiliazione! ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎ ︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎︎

E’ uno dei veri – e pochi – re del mondo del cinema italiano. L’unico produttore “puro”, che rischia soldi suoi. E’, in Italia, anche uno di quelli che contano davvero, che muovono il mercato. Figlio di Luigi De Laurentiis, nipote di Dino, dunque erede di una dinastia di produttori italiani, Aurelio è l’ideatore del ciclo delle “commedie di Natale”, da più di vent’anni ai vertici del box office. Con una regolarità impressionante, i suoi “cinepanettoni” incassano pressappoco la metà dei guadagni complessivi del cinema italiano nell’anno. Sono film che hanno stabilito una tradizione unica nel suo genere, e che trascinano milioni di spettatori al cinema. Successivamente, creano altissimi ascolti televisivi e formidabili risultati nell’home video. In una zona più “riparata” della stagione cinematografica, verso febbraio, De Laurentiis fa uscire il suo secondo cavallo di battaglia: film come Manuale d’amore e Italians di Giovanni Veronesi, o Il mio miglior nemico e Grande, grosso e Verdone di Carlo Verdone. Film che hanno conquistato anch’essi un notevole successo, venendo a costituire una sorta di secondo appuntamento fisso con le commedie prodotte dalla sua società, la FilmAuro.

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De Laurentiis, la cosa che conta prima di qualsiasi parola scritta è, anche per lei, un’idea che deve essere forte?

“Sì. L’idea è la prima cosa. E’ una delle più importanti. Però l’idea ancora, in sé, non è niente. Io posso avere l’idea di fare un film su Napoleone: ma poi su Napoleone posso creare mille soggetti diversi. Posso vederlo da diverse angolazioni. Allora io sceneggiatore devo discutere, devo vedere qual è il soggetto che può interessare di più non solo al regista e al produttore, ma anche al pubblico”.

Qual è, secondo lei, il segreto per centrare l’obiettivo, per non sbagliare un film?

“Il segreto è quello di spersonalizzarsi, perché se dovessi fare i film che piacciono solo a me, probabilmente accontenterei solamente me stesso e raramente accontenterei il pubblico. Io credo che fare cinema sia un processo di grande umiltà. Non di grande umiliazione! Purtroppo molto spesso gli autori si sentono umiliati nel fare cose che piacciano al pubblico. In realtà non è così. Fare un cinema popolare è un bagno di grande umiltà, per il fatto di sentirsi utile, di essere al servizio di una platea che sia il più allargata possibile. Fare film per pochi adepti significa porsi su una cattedra da cui si vuole dimostrare di avere ragione, mentre chi è contrario viene escluso. Questo è un atteggiamento che ha poco a che fare con il cinema”.

Sì, ma cosa deve avere un’idea per essere buona per un film?

“Se c’è un’idea centrale importante si può parlarne per mesi e farne poi un milione di film diversi. Quindi ecco che il soggetto da individuare diventa oggetto di dibattito tra regista, sceneggiatori, produttore, fino a che l’idea si coagula in un soggetto che convince tutti. Dopodiché si scaletta il soggetto e poi è fatto il 100% del lavoro”.

Come? E la sceneggiatura?

“La sceneggiatura in sé non è importante che sia letterariamente scritta bene: basta che sia possibile leggerla come un film. Lo stile ce lo mette il regista, con la sua capacità di raccontare per immagini, secondo la sua personalità, il suo stile”.

Allo sceneggiatore cosa chiede? Cosa vuole vedere già nella scaletta?

“Lo sceneggiatore è un grande collaboratore che deve avere una grande pazienza nel mediare tutto quello che viene buttato sul tavolo da tutti in materia informe. Una volta che il soggetto è stato scritto bisogna vedere chi sono i personaggi che sono stati creati: qual è la loro identità, come si

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vestono, cosa fanno nella vita eccetera. Bisogna dare una costruzione logica dei personaggi”.

Che differenza c’è tra il cinema italiano e quello americano?

“Il cinema americano è apparentemente più bello perché è più professionale. Innanzitutto loro hanno una pre-produzione che dura minimo sei mesi, mentre noi abbiamo una pre-produzione che va dalle quattro alle otto settimane”.

Perché?

“Perché non c’è mai tempo, visto che il tempo nel cinema è davvero denaro; perché un attore fa quattro o cinque film contemporaneamente e quindi bisogna fare piani di lavorazione incastrati. Gli americani, inoltre, costruiscono tutto in teatro di posa, dove possono dare una continuità alla luce, alle atmosfere. Noi giriamo molto spesso in esterni per problemi di costi, e quindi in condizioni che, per il cinema, sono di assoluta anormalità. Chi riesce a fare cinema in queste condizioni secondo me è eroico”.

Tornando alla storia: cosa ci deve assolutamente essere?

“Qualunque tipo di storia deve far entrare gli spettatori nella tridimensionalità dei personaggi. Lo spettatore dovrebbe potersi identificare sempre nel personaggio rappresentato: anche se molte volte non lo ammetterà. Credono che, nei difetti dei personaggi di De Sica o di Ghini, o di Castellitto o di Verdone, sia rappresentato il loro vicino. Se fossero più umili, capirebbero che si parla proprio di loro. Gli spettatori che lo accettano fanno un bel bagno di umiltà. In quel momento è come se facessero una seduta di psicanalisi, di auto- psicanalisi. Infatti si dice sempre che quando esci dal cinema, dopo aver visto un bel film, ti senti migliore. A me capitava quando ero bambino”.

Quindi, è necessario un personaggio in cui lo spettatore si deve identificare. E poi ci vuole un po’ di conflitto, se no il film non parte...

“Il conflitto è la forza fondamentale della vita. Non occorre neanche ‘inserirlo’: c’è, in ogni vicenda, in ogni cosa della vita. Nella vita la conflittualità fa progredire la vita stessa, la crescita delle situazioni, dei personaggi”.

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Quando si riscrive una sceneggiatura, su cosa si lavora? Per esempio Carlo Verdone mi diceva di aver ultimato molte stesure di Il mio miglior nemico, film prodotto da lei.

“E’ stato il primo film che Carlo ha scritto e diretto con me. Da anni era abituato a fare tutto da solo, senza confrontarsi con il produttore. Lavorava per una società per la quale scriveva il film, lo faceva e quando usciva, se incassava, bene. Se non incassava, pazienza, ci avrebbero riprovato il prossimo anno. Tutto veniva in qualche modo affidato a lui. Da me si lavora tutti in squadra, invece. Abbiamo lavorato insieme. E scritto e riscritto. Per Il mio miglior nemico siamo arrivati alla dodicesima stesura: Carlo era stremato. Io però gli ho detto: ‘Carlo, sceneggiare significa questo: o si fa così o non si fa!’. Lui non sapeva più cosa aggiungere e cosa levare, e alla fine abbiamo dato per buona quella dodicesima stesura. Secondo me la sceneggiatura aveva ancora un piccolo problema, ma abbiamo deciso di fermarci e di lavorare su ciò che di buono avevamo costruito, che costituiva il 90% del film. Infatti il film ha incassato 21 milioni di euro, ed è stato il più grosso successo di Carlo”.

Quando dice “un piccolo problema”: che tipo di problemi sono per lei fatali in una sceneggiatura?

“Quando hai una prima parte fortissima, logicamente hai già sbilanciato il film, perché nella seconda parte non riesci mai a essere all’altezza di questa prima parte così forte. Quindi, in sceneggiatura si tende sempre a fare più forte la seconda parte. In Il mio miglior nemico Carlo si era giocato tutte le carte di questa conflittualità tra i due mondi dei personaggi nella prima parte. Diventava molto difficile raccontare con altrettanta forza il loro riavvicinamento. Dalla conflittualità si passava alla complicità, alla solidarietà: sentimenti che hanno ugualmente grande appeal, ma sono più complicati da raccontare”.

Che cosa si sarebbe dovuto fare?

“Probabilmente il copione andava messo a riposare tre o quattro mesi in un cassetto. Se si fosse riletto quattro mesi dopo, sicuramente si sarebbe trovato il modo per dargli un quid in più. Però parliamo di inezie, perché comunque è un film straordinario, ben riuscito e mi ha portato grandi soddisfazioni. Ringrazio Carlo di aver avuto la pazienza di sopportarmi”.

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Un altro fenomeno notevole targato De Laurentiis è il cosiddetto “film di Natale”. Il film di Natale ha una lavorazione molto precisa, molto rigorosa e che parte da lontano...

“Sì: già a gennaio, appena delineati gli incassi del film di Natale precedente, cominciamo un full immersion per capire quale tipo di comicità ha funzionato meglio, che cosa ha funzionato meno, e dunque come occorre aggiustare il tiro. Stendiamo un soggetto, e a giugno stiamo ancora lavorando sulla sceneggiatura. Sono film che vengono girati in dieci settimane: non si lascia nulla al caso e si cerca di mettere il regista in condizioni tali che si possa procedere con la post-produzione già mentre si gira. Il montaggio viene fatto a tempo di record. Non come in America, che impiegano otto mesi o un anno per la post-produzione”.

Durante le riunioni di sceneggiatura a gennaio o febbraio, si “sceneggiano” anche le location e il cast?

“La cosa molto divertente è che si sceneggia a prescindere dai posti, che ancora non si decidono. Dopodiché, verso aprile, sapremo dove si andrà. Quest’anno avevamo deciso prima che si sarebbe girato il film a Beverly Hills: ma in ogni caso, Neri Parenti non sapeva che cosa esattamente avrebbe trovato. E’ andato a fare i sopralluoghi soltanto una volta finita la sceneggiatura. Poi si è messo a modificarla a seconda dei posti che aveva trovato, che erano diversi da come li aveva immaginati, come sempre accade”.

Che cosa cerca in uno sceneggiatore? Quali sono le qualità che contano?

“L’amicizia e la sincerità. Secondo me per fare il bel cinema bisogna mentire agli altri, ma essere sinceri tra di noi. Perché se non si è sinceri tra di noi, non si riesce a mentire agli altri. Dico mentire in senso sano, visto che il cinema è finzione. Non dico di prendere in giro lo spettatore”.

A un giovane sceneggiatore che strada consiglierebbe?

“I grandi sceneggiatori hanno fatto ‘i negri’. E’ un brutto termine ma lo utilizzo perché deriva dal cinema degli anni ‘50 e ‘60. Fare ‘il negro’ significa stare in un gruppo di lavoro nel quale uno piano piano acquisisce professionalità, affina le proprie doti, capisce tutto il processo che c’è dietro e di conseguenza impara e va avanti”.

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Giovanni Bogani è nato a Firenze nel 1963. Dal 1987 è critico cinematografico della “Nazione” e consulente di sceneggiatura. Ha diretto per sei anni il festival cinematografico “Terra di Siena”; poi ha diretto il festival “Goal!”, dedicato al rapporto tra calcio e cinema. Ha scritto la monografia Peter Greenaway per Il Castoro. Ha pubblicato saggi su Andrej Tarkovskij, Wim Wenders, Stanley Kubrick, e sugli scrittori Italo Calvino e Pier Vittorio Tondelli. Ha pubblicato sei romanzi e alcune raccolte di racconti. Dal 1995 insegna sceneggiatura presso la scuola di cinema Immagina.

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