non tutto è da buttare
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Silvia Roncucci, romanceTRANSCRIPT
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NON TUTTO È DA BUTTARE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-479-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2013 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
PREFAZIONE
Silvia Roncucci scrive di un presente scomodo quanto
vero.
La vicenda di Giulia assomiglia ad una storia neorealista
dal contenuto amaro, come tutte le cose che ci
vorremmo nascondere, proprio come si fa della polvere
sotto un tappeto, ma narrata con tono ironico, caustico e
tutt’altro che autocommiserante. C’è un inizio e una “non
fine”, un po’ come per la nostra precaria esistenza. Ci
sono lampi di vita sul filo di una scrittura attenta e
disillusa, per leggere e leggersi dentro, scorrendo la
trama come pagine di una filmica sceneggiatura.
Di professori Bani ne abbiamo incontrati più di uno nella
vita e non ci sono mai piaciuti. Eppure ne hanno fatta di
strada, arrampicandosi sulle spalle degli altri, sulle nostre
spalle. Un racconto neorealista e disincantato, crudo e
asciutto, ma con sprazzi di buona speranza. “Lo baciai
andando diretto alla meta”, si legge in una delle parentesi
aperte al sentimento. Anche l’autore va diritto al suo
bersaglio, per raccontare dei suoi personaggi senza
l’orpello delle buone maniere che si rivelano false. Invece
“Non tutto è da buttare” non gira intorno al gioco di
trama, non cerca alibi, perché nel nostro neorealista
presente gli attori si comportano seguendo una morale
diffusa, che è una sorta di devastante normalità, quella
della libera corruzione. Ma non facciamo passare questo
per un paesaggio intoccabile. Non prendiamo la realtà
come una cosa troppo definitiva, rimbocchiamoci le
maniche e cerchiamo di cambiare le cose, anche
riflettendo su una storia come questa.
E poi le ambientazioni. La Bologna che si mostra alla
storia con ben poco edificanti scatole cinesi, ha una
freddezza accademica che sembra intoccabile e
invincibile. Meglio le terre del viterbese che, nonostante
sembrino ostili alla protagonista che si allontana da esse
per rincorrere i propri sogni a Bologna, aprono invece alla
speranza, come lo sguardo che si perde lontano verso il
mare, oltre il lago di Bolsena, l’Amiata, il monte di
Radicofani. Un paesaggio italiano, come dipinto da
Claudio Lorenese, che è il segno che l’autrice ha aperto
uno spiraglio di luce nella vita di Giulia. Una terra “fuori
mano”, l’ideale per riappacificarsi con il mondo e con i
propri sentimenti.
Massimo Biliorsi
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Non ce la facevo più. Era diventato troppo sfiancante
salire ogni santo giorno quelle scale, gravata dall’immane
pila di libri che il professor Bani mi affibbiava d’abitudine,
accompagnando la consegna dell’ingrato fardello con un
sorriso amichevole o, ancora peggio, convinto che fosse
un modo per farsi simpatico ai miei occhi, aggiungendo
delle frasette ironiche tipo: «li riordini, e magari, se le
avanza tempo, metta pure a posto tutte le diapositive
delle ultime venti lezioni di diritto internazionale, che così
almeno ripassa e fa pratica.»
La cultura pesa, si sa, ma anche la schiavitù, e quando le
due cose vengono a coincidere, si crea una situazione
davvero penosa che, alla lunga, può anche farsi esplosiva.
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Laureata con il massimo dei voti, elogi, inchini,
ammiccamenti di consenso e baci accademici, in corso di
addottorarmi con una tesi sulle immediate conseguenze
della legge Carcano in favore dei diritti della donna, io
sottoscritta, Giulia Bernardini, conducevo, ormai da un
paio d’anni o poco più, una vita da autentica schiava. Per
la precisione ero la serva personale del professor Bani,
chiarissimo ed eminentissimo nume tutelare della Facoltà
di Diritto dell’Università di Bologna. E per lui facevo
davvero di tutto, ma purtroppo niente che avesse valore
intellettuale. Riordinare appunti dalla grafia inintelligibile,
svuotare, spostare e poi di nuovo riempire di gravosi
dizionari i mobili dello studio, intraprendere estenuanti
viaggi in sua vece nelle più disparate città d’Italia, ogni
volta recando per lui un sentitissimo messaggio di
rammarico per non aver potuto presenziare, cause di
forza maggiore, all’evento ufficiale. Il tutto per ben
ottocentocinquanta euro al mese (lordi, logicamente).
Una nera esistenza, rischiarata dal raro e improvviso
bagliore di una luce lontana, quella dell’aspettativa di
liberarmi, anche solo per un attimo, dalla corvé dei lavori
da manovale. Illusione cui il mio Signore mi spingeva a
credere tramite un fine gioco di promesse e di progetti
allettanti, che mi avrebbero permesso finalmente di
dedicarmi alla pura ricerca. E magari fare anche la mia
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piccola parte durante uno dei tanti convegni di studio cui
il professor Bani partecipava con un soggetto costante –
il diritto delle minoranze etniche e linguistiche autoctone
nel Trentino Alto Adige – tema su cui aveva svolto la tesi
di laurea nei gloriosi anni Settanta e che a suo dire
“approfondiva” continuamente. Ovvio che la sua era solo
una sottilissima arte del riciclo e del taglia e cuci, una
cucina popolare in cui c’era ben poco da gettare via e lo
stesso brodo era servito ogni volta in maniera
commutativa: scambiando l’ordine degli ingredienti, il
risultato non cambiava.
E mentre la beata speranza di un futuro successo
accademico mi distoglieva la mente dai mali contingenti,
intorno a me iniziavano ad alzarsi le prime voci di
avvertimento per ciò che la cruda realtà mi avrebbe
riservato, segni inequivocabili cui rimanevo, per uno
strano meccanismo di masochistico auto convincimento,
completamente estranea.
«Giulia, io non ti capisco, guarda che se continui così ci
scrivo un articolo su questa tua vitaccia, che peggiore non
potrebbe essere» esplose un giorno Alfredo.
«E che cavolo» aggiunse, «non vedi che ti sta prendendo
in giro? Non vedi che è venuto il momento di reagire agli
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abusi che sta compiendo sulla tua vita, i tuoi studi e
soprattutto la tua pazienza? Ne va della tua sanità
mentale!»
Aveva ragione ma, a differenza del mio amico, io non
avrei mai avuto la forza di abbandonare la culla fittizia in
cui mi beavo, mandare a quel paese l’ambiente
universitario e riciclarmi come giornalista.
Alfredo era un piccoletto nero nero, che non gli avresti
dato una cicca, invece con quelle gambette corte e
nervose roteava da un punto e l’altro del globo
assolvendo, alla velocità della luce, ai numerosi progetti
che lo impegnavano. Stempiato, gli occhi mobili e vivaci,
pareva un fauno della mitologia antica, corazzato però
della volontà di ferro degna di un eroe troiano.
Intraprendente e pieno d’animo, era lontano anni luce da
me. Anch’io, a modo mio, ero sicura e determinata, ma
entro e non oltre il solco della storia del diritto femminile:
fuori da quel seminato, scaraventata nella vita quotidiana,
non sarei sopravvissuta più di mezza giornata. Meglio per
me continuare a vivere un’illusione e temporeggiare,
ignorando Alfredo che mi redarguiva aggiungendo vari
aneddoti del suo curioso passato.
«E ricordati» diceva ad esempio con parole ferme e
accorate da comizio operaio del sessantotto, «che
quando il prof mi cacciò da Lettere e Filosofia perché la
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mia omosessualità lo infastidiva, gli feci sputare le
budella! Gli feci causa, e la vinsi pure! Si pentì amaramente
di avermi sfidato… Quindi, cara la mia piagnona, bisogna
sempre cercare di far valere i propri diritti!»
“Piagnona” era il simpatico soprannome che mi aveva
dato, per comprendere il quale non c’era da fare grossa
esegesi. Si riferiva chiaramente alla mia tendenza a
vestire i panni dell’eroina infelice di un melodramma
d’altri tempi, abitudine che negli ultimi tre anni era
peggiorata vista la frequentazione di Bani. Mi lamentavo,
ma in fondo non decidevo di sganciarmi da lui.
«Alfredo, capisci bene però» riuscii infine a controbattere,
«che io non sono omosessuale, e neanche vengo dal Sud,
insomma non ho alcun handicap, lui mi tratta così perché
rientra nella prassi, e un giorno mi renderà il
riconoscimento che merito. Basta solo avere un po’ di
pazienza…»
Non so se fosse perché avevo definito la sua
omosessualità e la sua meridionalità come handicap,
rischiando così un pugno dritto sullo zigomo destro, o
perché continuavo a dare segni di totale rimbecillimento,
che Alfredo reagì alle mie parole alzandosi dal tavolo del
bar dove ci eravamo dati appuntamento e, nascondendo
a fatica una smorfia di disappunto, buttò là un «ciao ci
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vediamo» che stava a significare «beh, peggio per te».
Cose cui non detti più di tanto peso.
Alcuni giorni dopo, durante uno dei miei soliti sali e scendi
lungo la fila indefinita di gradini che conducevano
dall’ingresso della facoltà allo studio del professor Bani,
ovviamente carica di volumi come un mulo da soma, mi
soffermai attratta da rumori sospetti sul pianerottolo in
cima alle scale e intravidi qualcosa che avrebbe segnato i
successivi mesi della mia vita. Accanto alla stanza del
professore si trovava un piccolo archivio delle diapositive,
quello in cui passavo interi pomeriggi a riordinare i pezzi
usati per le sue lezioni. Mi avvicinai e sentii delle risate a
voce bassa, paroline sussurrate accompagnate a rantoli di
piacere. Passando, mi parve di intravedere il professore,
in compagnia indubbiamente femminile. La mia curiosità
era tale che mi appostai dietro alla porta socchiusa del
suo studio, con un occhio a ciò che accadeva fuori, e vidi
uscire il prof diretto verso i gabinetti, subito seguito
dall’immagine di una giovane donna che si riagganciava
con nonchalance la camicetta e si allontanava
cinguettando.
Non c’erano dubbi. Era quella testa di legno della mia ex
compagna d’università, Maria Rosa Del Lungo, tanto
lenta di comprendonio da far sembrare, al confronto,
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Forrest Gump un genio dell’astrofisica nucleare. Emigrata
negli Usa a cercar fortuna, dopo una laurea conseguita a
suon di schiaffoni paterni – il padre, noto giurista del
potentino, era un pezzo grosso sempre presente nei
consigli degli esami di abilitazione per avvocati – era stata
evidentemente costretta al ritorno. Perché, se è vero che
nel paese delle libertà hanno più risorse di noi per la
ricerca, questo non significa che gli Americani le
elargiscano proprio a cani e porci. Ecco, porci, appunto. E
il mio ricordo andava a quando, già nei banchi universitari,
la bella Del Lungo cercava di sopperire alla sua totale
mancanza di materia grigia, unita a una non comune
assenza di desiderio d’applicazione sui libri, con smorfie e
svenevoli complimenti diretti alla persona del professor
Bani, che ricambiava, ma con moderazione. Non che fossi
gelosa di lei, ma la mia integrità di studiosa archetipica
non poteva neanche lontanamente concepire il suo
tentativo di collezionare successi tramite le raffinate armi
della seduzione.
Lì per lì l’immagine di loro due insieme mi sbalordì, ma poi
per un po’ non ci pensai, ritenendo che fosse stato solo il
gioco di un attimo, e che quella sciacquetta non potesse
in alcun modo scalfire la mia posizione di eburneo
predominio. Ancora preda dei miei abbagli di giudizio,
ritenevo la mia superiorità intellettuale palese.
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Nonostante i lavori di bassa manovalanza cui ero
costretta e la scarsa considerazione che mi dava Bani, mi
ero creata, infatti, una cerchia di ammiratori tra gli
accademici, ed ero la prima nella lista di coloro che
avrebbero dovuto affiancare l’ordinario o alla bisogna
sostituirlo. Nella mia mente continuavo a pensare che era
solo questione di tempo e di capacità di sopportazione. Di
lì a poco invece le cose avrebbero iniziato a marciare
proprio in direzione opposta.
Due giorni dopo la visione della coppia clandestina, il
professore mi buttò giù dal letto con un’inattesa
telefonata di prima mattina. «Buongiorno Giulia,
potrebbe venire nel mio studio un po’ prima stamani,
diciamo verso le 8.30? Ho una cosa importante di cui
parlarle.» Le parole del mio insegnante, che oltretutto
non si abbassava mai a telefonare alla sottoscritta, mi
elettrizzarono letteralmente. Ero a conoscenza del fatto
che, a breve, avrebbe organizzato un convegno
internazionale e immaginavo che volesse parlarmi per
propormi di ricoprirvi un ruolo centrale, ma ancora non
sapevo quale.
Indossai il canonico tailleur – di cui avevo infiniti
esemplari con innumerevoli tonalità di colore tra il nero
chiaro e il grigio scuro – raccolsi i capelli nel solito chignon
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castigatore, calzai le mie ballerine e corsi in facoltà,
saltando i gradini delle scale tre a tre. Quando bussai alla
porta di Bani ed entrai, lui era lì, seduto alla scrivania,
ovviamente, ma accanto a lui c’era quella.
«Buongiorno Giulia! Grazie di essere venuta così presto.
Credo che lei si ricordi della sua compagna di università, la
dottoressa Del Lungo, che si è ampiamente distinta negli
Usa e ha coraggiosamente deciso di fare ritorno in patria
per dare il proprio contributo alla ricerca qui, nel nostro
paese…»
«Si certo» pensai «distinta negli Usa per la sua notevole
incapacità e tornata perché cacciata a calci nel sedere!»
«…Ebbene, veniamo al sodo. L’ho convocata in merito al
convegno internazionale che, come saprà, è previsto a
gennaio. Abbiamo tre mesi per organizzarlo e ho pensato
fosse opportuno dare a lei, Giulia, il compito di farlo.»
“Bene!” esclamai dentro di me, “finalmente un
riconoscimento come si deve! Sì, ma allora questa qua
cosa c’entra?”
«Certamente professor Bani, la ringrazio per avere
pensato a me» risposi immediatamente con voce grata,
accennando una specie d’inchino, «mi dica cosa posso
fare per lei e se devo preparare anche una relazione da
presentare ai convegnisti…»
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«No, carissima» m’interruppe bruscamente, «per lei avrei
immaginato piuttosto un ruolo di… ehm…
“organizzatrice”. Nei fatti dovrebbe occuparsi di
contattare gli studiosi, definire gli spostamenti e gli
alloggi, cercare un catering per il buffet…»
“Versare il caffè, no?” borbottai dentro di me.
«…Ma avrà anche un altro compito» aggiunse. E a quel
punto mi rinfrancai, sentendo che stava per avvicinarsi un
momento rivelatore.
«Dovrebbe gentilmente aiutare la sua collega Del Lungo a
redigere il proprio intervento. Deve sapere, cara Giulia,
che ho valutato personalmente le sue capacità di…
studiosa, seria e disponibile, e sono conscio che questa
nostra università italiana, nonostante il difficile clima che
viviamo e le ristrettezze economiche in cui versa, debba
darle una chance. A tale fine mi sto adoperando per farle
avere la borsa di dottorato per il prossimo anno e dunque
una relazione da parte sua sarebbe opportuna per
introdurla all’ambito accademico e metterne in evidenza
le doti.»
Brividi, gelo, sgomento totale. Rimasi imbambolata come
uno spaventapasseri in mezzo a un campo di grano,
ridicola, scompigliata, con lo sguardo svuotato. Esitai un
poco a rispondere, francamente avrei voluto prendere le
loro teste e batterle insieme all’unisono, per vedere se si
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sarebbero rotte e ne sarebbe uscito qualcosa di buono.
Studiosa seria? Ma quando mai! Disponibile forse, anzi di
questo non c’era dubbio, ma seria era un aggettivo che
non le addiceva di certo.
Nonostante il fuoco che mi ribolliva nello stomaco
continuavo a guardare le loro facce impietrita. Lui che se
ne stava lì col suo sorrisino isterico e imbarazzato –
evidentemente mi conosceva, sapeva che non ero una
scema e mi ero resa conto del gioco che stavano
giocando – e lei con uno sguardo a metà tra fiero e
inconsapevole di quello che stava facendo. Avrei voluto
dirgli che sì, sarebbe stato un piacere, ero letteralmente
estasiata del ruolo di primo piano che mi aveva conferito,
ma che andasse a quel paese lui e la sua ganza! Invece no,
non riuscii a fare altro che pronunciare un timido sì,
tornando ad accennare il solito lieve inchino. Lasciai il mio
numero di cellulare alla futura convegnista, dissi che
avevo una visita medica e che sarei dovuta scappare, ma
che comunque mi sarei occupata della cosa: «non si
preoccupi.»
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«Orbene, se analizziamo dettagliatamente il
Weltanshauung kantiano, possiamo notare che l’interesse
del pensatore tedesco per il diritto non compaia come un
apax, ma che tutta la sua opera sia permeata in re ipsa di
tale la categoria. Potremmo aggiungere, senza cadere in
tuziorismi, che l’insocievole socievolezza di cui parla il
pensatore germanico non è un dato soggettivo, ma
piuttosto una realtà egoisticamente oggettivante, della
Sua filosofia del diritto…»
Dopo circa un’ora e tre quarti di mescolanze, quasi a
casaccio, di termini in tutte le lingue, vive o morte, note e
non, in modo da dare l’impressione di aver composto una
brillante orazione sgorgata da studi approfonditi (e
soprattutto reali), l’emerito professor Mercuri, luciferino
e illustrissimo ordinario presso la Federico II di Napoli di
filosofia del diritto – la branca forse linguisticamente più
bislacca di un campo già di per sé di difficile
comprensione – aveva fatto sballare completamente
tutto il programma del convegno. Un programma che
prevedeva, per l’appunto, interventi non superiori alla
mezzora e quindi commisurati alla capacità di
sopportazione del pubblico, stremato come al
trentacinquesimo chilometro di una maratona, ma
stoicamente pronto a raggiungere l’ambito traguardo
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coincidente, nella fattispecie, con la pausa/rinfreschino di
mezza mattinata.
La preparazione del congresso aveva richiesto mesi di
lavoro tanto incessante quanto inaspettatamente
piacevole e divertente. Ammetto che adoravo pianificare,
tenendo finalmente in mano le redini della situazione, ed
ero diventata piuttosto brava a organizzare viaggi,
prenotare alberghi, litigare con gli autisti, rispondere
cortesemente alle richieste bislacche dei professoroni a
conclave e fingere un sorriso quando ero stremata.
Rispolverai il mio inglese, che avevo abbandonato per la
causa del diritto femminile, e riesumai quel poco francese
che avevo appreso alle scuole medie.
Come sempre i convegnisti, chiusi in un rigido
comportamento autoreferenziale, se la suonavano e se la
cantavano senza dare spazio a nessun altro, esaltando il
proprio ego intervallato da rari elogi a qualche collega,
meglio se morto, che in questo caso amavano celebrare
con lunghi, sinceri sospiri e “intervalli‐di‐silenzio‐in‐
ricordo‐di”, rimpiangendone le virtù dimostrate nella loro
troppo, troppo breve vita, spentasi, almeno un lustro
prima, in una età variabile tra gli ottanta e i
novantacinque anni. Vita spesa interamente nella
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conoscenza e frequentazione del mondo giuridico della
prima metà del XX secolo, anch’esso morto e sepolto.
L’atmosfera di questi convegni odorava di stantio, come
se quelle mummie se ne stessero in naftalina per buona
parte dell’annata per venire fuori dalle loro bare
scricchiolanti solo una o due volte l’anno, proprio in
occasione di tali meeting. Mi pareva di vederli, uscire dai
loro avelli e andarsene di casa dopo aver spazzolato le
ragnatele dalle loro giacchette anni Settanta.
Ma io non smettevo di ascoltarli rapita, ancora non del
tutto uscita dai fumi dell’illusione, pensando che sì, un
giorno avrei potuto dire anch’io la mia su quella
benedetta legge Carcano e sul diritto in favore delle
donne nel XX secolo, facendo bella figura, destando
l’approvazione globale, suscitando la passione degli
addetti ai lavori e, perché no, finanche scatenando le
folle.
Del resto non sarei stata l’unica giovane studiosa.
Talvolta, come in quel caso, partecipavano anche dei
nuovi, promettenti virgulti, che facevano ben sperare sul
futuro fiorire di questo nostro eminente settore di studi.
«Carissimi colleghi» iniziò, infatti, un giovanissimo e
paffuto dottorando cui spettava uno degli interventi
mattutini, «oggi vi presento una relazione dal titolo Il
diritto ospedaliero nell’Alto Medioevo. Or dunque,
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essendo io specializzato in diritto del lavoro, e avendo
fatto un lungo master in Germania sul Gastarbeiter,
nonché uno studio in Francia sull’impiego dei migranti nel
lavoro interinale, non sono propriamente uno specialista
del settore, né dell’epoca storica, né tanto meno
dell’argomento, e quindi ho ritenuto opportuno non
avventurarmi troppo oltre il mio seminato, limitandomi a
illustrare ciò che già è stato detto in merito e comporre
una breve carrellata riepilogativa. Per qualsiasi domanda
rivolgetevi pure al professor Centurioni, seduto qui
davanti a me, che appunto mi ha commissionato la
relazione, a sua volta ispirato al benemerito professor
Canuti, compianto docente presso l’Università…»
“E che modo di lavorare è questo?”, mi domandai
innervosita, “che facciamo dottorino? Un bell’elenco di
ciò di cui non si parla con giustificazione davanti alla
maestra per i compiti non svolti ed eventuale suggeritore
seduto in prima fila, in caso di vuoti di memoria?”
Evidentemente il grasso e barbuto giurista in erba era il
pupillo di qualcuno: poco valeva che avesse fatto un
discorso da scolaretto che si arrampica sugli specchi, e si
accingesse ad aggiungervi una figura penosa. Del resto il
pubblico sembrava non farci caso, preso com’era dalle
pance brontolanti per l’ora della pappa gentilmente
offerta dall’ateneo, che per fortuna si stava avvicinando.
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E così, mentre anche il promettente studioso cominciava
a snocciolare la solita lista di vocaboli “getta‐fumo‐sugli‐
occhi”, i miei, di occhi, iniziarono ad aprirsi ulteriormente.
Giunto il momento della pausa, mentre servivo tè, caffè e
pasticcini, sentendomi chiamare “cameriera”, “ragazza”,
“ragazzina”, “signorina”, “hostess” e mai dottoressa
(d’altronde chi poteva sapere che lo ero, visto che me ne
andavo in giro con brocche e vassoi?), ascoltavo i discorsi
che quei ruderi continuavano a fare coalizzatisi in
gruppettini di alleati di pensiero, accorgendomi di averli
sentiti altre cento volte.
Da loro si distingueva un assai brillante giovane studioso
americano, che parlava pacatamente ma con fermezza, e
che qualche istante prima avevo visto scambiare due
parole con la Del Lungo. Era un ragazzo dai tratti
vagamente arabi e con l’accento curioso di chi aveva
studiato l’italiano al Sud, a occhio e croce in Puglia. In
altre condizioni, avrei potuto provare a intessere con lui
un qualche rapporto, ma la situazione di inferiorità in cui
mi trovavo non mi rendeva agevole un eventuale
avvicinamento. Sorrideva in modo inconsapevolmente
magnetico, mostrando gentilezze verso tutti, compresa la
sottoscritta, che gli serviva un caffè allungato, inebetita e
incuriosita da quel volto atipico, dagli abiti demodé di chi
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se ne infischia delle tendenze modaiole e dalle maniere
fin troppo educate per un accademico.
I lavori continuarono con l’intervento di “Nostra‐Signora‐
della‐seduzione”, la dottoressa del Lungo, che spiattellò,
con un inglese che pareva aver appena appreso per
corrispondenza, una tesina compilata dalla qui presente
cameriera. Gliela avevo redatta nella lingua di
Shakespeare – visto che Bani aveva tenuto a sottolineare
che la sua protetta avrebbe dovuto fare una splendida
figura – e gliela avevo consegnata bella e finita e
impacchettata di tutto punto, perché discuterne con lei
sarebbe stato troppo faticoso.
Il congresso era stato un successo, almeno per i
convegnisti, che si congratularono apertamente con il
professore per l’organizzazione poco prima che questi
facesse il suo intervento di chiusura. Baldanzoso come e
più di un Russel Crowe da “Il Gladiatore”, il professor Bani
salì in cattedra tra il tripudio generale e cominciò il suo
discorso. Tutto sembrava andare per il meglio – e anch’io,
a dire il vero, mi stavo pregustando la fine dell’agonia,
l’abbandono dei tacchi e il meritato riposo – quando a un
certo punto il giovane studioso americano, che pareva
tanto pacato e per bene, si alzò richiedendo il microfono
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per intervenire e, rivolgendosi al professor Bani, con il suo
delizioso accento del Sud, disse:
«Mi scusi, ma io, di tutto il suo discorso, non ho ancora
capito una cosa.»
«Chi ha parlato?» rispose il professore scuotendo la
criniera brizzolata, come un vecchio leone risvegliato
dagli spari dei bracconieri dopo anni d’inattività.
«Io» rispose il ragazzo, «io professor Bani. Mi scusi, ma
non riesco ancora a capire una cosa. Mi permetta di
spiegarmi. Credo di non sbagliare se ritengo che il
problema delle fonti longobarde sia fondamentale nel
diritto delle minoranze etniche e del loro autogoverno in
alcune zone d’Italia, ma lei non lo cita mai. Insomma
vorrei sapere… il lavoro sulle fonti longobarde? E il loro
confluire nel diritto medievale? Dove lo mette tutto
questo?»
Un silenzio glaciale invase la sala. Guardai verso il prof,
pareva uno di quei cadaveri di Pompei mummificati
dall’eruzione del Vesuvio, grigi, bloccati come statue di
polvere. Da lui nessuna reazione per il momento, mentre
dopo alcuni istanti si udì una debole voce nella sala che
farfugliò qualcosa di incomprensibile.
«In effetti» aggiunse la vocina schiarendosi, «anch’io era
da alcuni anni che mi chiedevo la stessa cosa.»
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Le flebili parole uscivano dalla bocca della professoressa
Meli, sostituto procuratore al tribunale dei minori, una
donnina tanto piccola quanto imbattibile, che non aveva
mai intrapreso la carriera accademica, non si era mai
sposata e non si era mai impegnata personalmente in un
convegno sul diritto, anche se non ne aveva mia perso
uno. Una potente semi‐occulta, per intendersi, che da
anni si occupava di diritti delle minoranze, cui aveva
dedicato una rivista: Diritti in secondo piano, da lei guidata
avvalendosi dell’aiuto di abili studiosi del settore.
«Sono anni, professor Bani, che seguo i suoi convegni»
continuò la donna, «e mi sono sempre posta il quesito
sulle fonti che il nostro giovane studioso ha qui
prontamente fatto presente. Nei suoi scritti lei sviscera
tutto lo sviscerabile sul diritto romano senza mai citare
neanche la necessità di dover indagare maggiormente
quello barbarico nei territori di suo interesse, e poi…»
«Mah» irruppe infine il professor Bani, preso da
improvvisa, divina ispirazione, «a dire il vero le fonti
dell’epoca successiva alla caduta dell’Impero Romano
sono proprio il tema di una ricerca in fieri che vedrò di
approfondire in un imminente convegno che
organizzeremo in collaborazione con la dott.ssa
Bernardini.»
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E subito indicò me, che me ne ero rimasta in fondo alla
sala sbigottita per lo scacco che i due catilinari stavano
infliggendo all’esimio, e tutti, compreso il bel professore
americano, si girarono di scatto e iniziarono a fissarmi
come per avere una risposta dalla sottoscritta. Forse
qualcuno si chiese anche che cosa c’entrava una delle
cameriere con gli studi di Bani, fatto sta che, dopo anni
passati a bramare l’attenzione del mondo accademico,
finalmente l’avevo ottenuta, ma non proprio nelle
modalità più opportune.
«Ecco» riuscii infine a dire, «in effetti, è proprio come dice
il professor Bani, il tema sarà trattato a suo tempo in una
prossima giornata di studi cui, aggiunsi, siete tutti
fortemente invitati.»
Una sorta di sospiro di sollievo collettivo seguì il mio
breve discorso e poi un applauso scrosciante, manco
avesse parlato Introvigne in gonnella, con cenni di
approvazione da parte di tutti, mentre Bani irruppe in una
delle sue risatine isteriche, riprendendo forma e colore
umani, senza cessare di passarsi nervosamente le mani
tra i capelli.
Mentre la folla usciva dalla sala, stringendomi la mano e
salutandomi con mille convenevoli – con il nobile
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appellativo di dottoressa, ora che avevano finalmente
capito chi fosse la ragazza che fino a quel momento
aveva versato il caffè – mi chiedevo perché, in quella
critica situazione, il professor Bani fosse ricorso proprio al
mio aiuto e cosa rappresentassi in fondo io per lui se non
qualcuno cui rifilare i fardelli più gravosi. Immersa tra le
mie congetture salutavo la massa come un automa, ma
non mi sfuggì lo sguardo dubbioso e il sorriso vagamente
ironico dello studioso americano, che allontanandosi
continuava a scrutarmi con la coda dell’occhio, mentre
fingevo di fare la brava padrona di casa invitando i miei
ospiti a tornare presto a trovarci portando amici e
parenti.
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