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DOMENICA 11 LUGLIO 2010 / Numero 283 D omenica La di Repubblica le tendenze Dal ’68 al glam, il ritorno degli zoccoli MARINO NIOLA e IRENE MARIA SCALISE cultura Quell’ossessione chiamata cosplayer JAIME D’ALESSANDRO e RENATA PISU l’incontro Jonathan Coe, fuga da Londra ENRICO FRANCESCHINI spettacoli Fellini, confessioni sulla solitudine LEONETTA BENTIVOGLIO e STEFANIA MICCOLIS la memoria Un minuto di silenzio per Srebrenica GUIDO RAMPOLDI e ADRIANO SOFRI P er riuscire nella vita bisogna andare incontro agli avve- nimenti per avere su di essi libertà di manovra, bisogna rischiare molto per guadagnare molto. Ciò che non ab- biamo osato, abbiamo certamente perduto, mentre ri- schiando avremmo solo avuto più o meno probabilità di perdere. La fortuna ama concedersi solo a chi la me- rita, e non è cieca come generalmente si crede, ma la sua chiaro- veggenza sfugge a un giudizio superficiale. Nulla si ottiene al mon- do senza averlo meritato, le avventure vagano attorno a noi come esseri femminili in cerca di amore: il nostro volere non ha che da mostrarsi per divenire il loro amante [...]. Se abbiamo tendenza a mentire, le menzogne accorreranno a frotte, se temeremo il dolo- re, esso ci visiterà con frequenza, se avremo il desiderio di amare, l’amore verrà a noi. (segue nelle pagine successive) GIUSEPPE MONTESANO OSCAR FINGAL WILDE F issando la volgare e orribile carta da parati che decora- va la sua stanza in un alberguccio di decima categoria, l’uomo grasso e disfatto che aveva detto che l’estetica è superiore all’etica scosse la testa e mormorò: «Sì, cer- to, uno di noi due deve andarsene…». Ma ad andarse- ne per sempre, pochi giorni dopo, il 30 novembre del 1900, non fu la carta da parati, ma l’uomo grasso e disfatto: si chia- mava Oscar Wilde. Nessuno nella fin de siècle che pure pullulava di artisti eccessivi e geniali era stato come lui famoso e poverissi- mo, alla moda e dimenticato, perverso e innocente, uomo di suc- cesso e carcerato per omosessualità, dandy e visionario: e dopo la sua morte il mito Wilde deflagrò oltre ogni previsione. Si stampa- rono le sue opere complete, un grande scultore fece per lui il mo- numento funebre che c’è ancora al Père-Lachais. (segue nelle pagine successive) “Ciò che non abbiamo osato, abbiamo certamente perduto” Un misterioso Oscar Fingal scrisse queste parole in un breve testo ora ripubblicato Dietro quella firma si nasconderebbe il più celebrato e umiliato tra i dandy L’ultimo testamento Oscar di Wilde ILLUSTRAZIONE DI TULLIO PERICOLI Repubblica Nazionale

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DOMENICA 11 LUGLIO 2010 / Numero 283

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenze

Dal ’68 al glam, il ritorno degli zoccoliMARINO NIOLA e IRENE MARIA SCALISE

cultura

Quell’ossessione chiamata cosplayerJAIME D’ALESSANDRO e RENATA PISU

l’incontro

Jonathan Coe, fuga da LondraENRICO FRANCESCHINI

spettacoli

Fellini, confessioni sulla solitudineLEONETTA BENTIVOGLIO e STEFANIA MICCOLIS

la memoria

Un minuto di silenzio per SrebrenicaGUIDO RAMPOLDI e ADRIANO SOFRI

Perriuscire nella vita bisogna andare incontro agli avve-nimenti per avere su di essi libertà di manovra, bisognarischiare molto per guadagnare molto. Ciò che non ab-biamo osato, abbiamo certamente perduto, mentre ri-schiando avremmo solo avuto più o meno probabilitàdi perdere. La fortuna ama concedersi solo a chi la me-

rita, e non è cieca come generalmente si crede, ma la sua chiaro-veggenza sfugge a un giudizio superficiale. Nulla si ottiene al mon-do senza averlo meritato, le avventure vagano attorno a noi comeesseri femminili in cerca di amore: il nostro volere non ha che damostrarsi per divenire il loro amante [...]. Se abbiamo tendenza amentire, le menzogne accorreranno a frotte, se temeremo il dolo-re, esso ci visiterà con frequenza, se avremo il desiderio di amare,l’amore verrà a noi.

(segue nelle pagine successive)

GIUSEPPE MONTESANO OSCAR FINGAL WILDE

Fissandola volgare e orribile carta da parati che decora-va la sua stanza in un alberguccio di decima categoria,l’uomo grasso e disfatto che aveva detto che l’esteticaè superiore all’etica scosse la testa e mormorò: «Sì, cer-to, uno di noi due deve andarsene…». Ma ad andarse-ne per sempre, pochi giorni dopo, il 30 novembre del

1900, non fu la carta da parati, ma l’uomo grasso e disfatto: si chia-mava Oscar Wilde. Nessuno nella fin de siècle che pure pullulavadi artisti eccessivi e geniali era stato come lui famoso e poverissi-mo, alla moda e dimenticato, perverso e innocente, uomo di suc-cesso e carcerato per omosessualità, dandy e visionario: e dopo lasua morte il mito Wilde deflagrò oltre ogni previsione. Si stampa-rono le sue opere complete, un grande scultore fece per lui il mo-numento funebre che c’è ancora al Père-Lachais.

(segue nelle pagine successive)

“Ciò che non abbiamoosato, abbiamocertamente perduto”Un misteriosoOscar Fingalscrisse queste parolein un breve testoora ripubblicatoDietro quella firmasi nasconderebbeil più celebratoe umiliatotra i dandy

L’ultimotestamento

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28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 LUGLIO 2010

Wilde segretoQuando l’autore del “Ritrattodi Dorian Gray” morì nel 1900,il mercato fu invaso di apocrifidel grande dandyOra un misterioso testoperduto torna in libreriaPotrebbe esserel’ennesimo falso,l’ultima confessioneo la burla finale di coluiche scrisse: “Una veritànon è più vera quandoci crede più di una persona”

la copertina

OSCAR FINGAL WILDE

LE IMMAGINISopra, manoscritti

de Il diario di Dorian GrayA destra, l’ultimo conto

dell’Hotel Alsazia, a Parigi,

dove lo scrittore

ha soggiornato

nell’ultimo mese

della sua vita

Un brindisiprimadell’oblio

(segue dalla copertina)

Alimentatodagli pseudonimi usati da Wilde, comin-ciò il diluvio degli apocrifi. Gli si attribuirono unatraduzione del Satyricone di un libro del dandy cat-tolico Barbey d’Aurevilly; fu pubblicatauna corrispondenza erotica con Sarah Bernhardt;

una certa Mrs. Chon Toon vendette a un edito-re una farsa in stileasiatico intitolata Peramore del re ma fu ar-restata per truffa; unmitomane chiamatoYoung scrisse un terrifi-cante libro su Oscar pie-no di lettere apocrife; unineffabile Dorian Hopevendeva lettere false spac-ciandosi a seconda dei casiper il figlio di Wilde o del suoamante Bosie; comparve unatraduzione francese di un libroinglese inesistente intitolato Je-zabel; l’esecutore testamentariodi Oscar permise a un poetucoloamericano di completare la Tra-gedia fiorentina attribuendola aWilde; e il medium Smith pubblicòPsychic Messages from Oscar Wilde,le parole del Maestro direttamentedal mondo dei morti: per anni gli apo-crifi wildiani continuarono a spuntaree a inabissarsi un po’ dovunque, festosie improbabili.

Ora la casa editrice Robin pubblica unlibricino scritto da un misterioso OscarFingal intitolato Divagazioni sulla felicità,avanzando la possibilità che il libro, pubbli-cato dopo la Prima guerra mondiale a Mila-no dalla Alfieri&Lacroix, sia un testo wildiano,a cui alludono nello pseudonimo l’Oscar e il“Fingal”, che era il secondo nome di Wilde: unlibro tradotto anche in questo caso da un origi-nale scomparso, o scritto addirittura in italiano.Che dire? Nella sua lunga prefazione al volumet-to, Lilli Monfregola riconosce che il testo che pub-blica è lontano dal mondo-Wilde, e anche se dice diritrovarvi echi dell’ultimo Oscar, quello penitenzia-le del De Profundis, in realtà la Monfregola gioca conl’ipotesi del testo wildiano, ipotesi che non nega manemmeno afferma recisamente, parla di «letteraturaimperfetta» e del fascino che hanno i libri-fantasma, einsegue divertendosi l’ectoplasma di un Wilde italianodietro l’enigmatico Oscar Fingal, che evidentementeaveva anche lui bazzicato non poco i suburbi del de-cadentismo fin de siècle, come dimostra un altro suolibricino intitolato ambiguamente Le avventure diun Faunetto: un libro che reca in copertina un fau-no in stile liberty che ride tra le fiamme, vaga-mente somigliante ai satiretti viziosi che popola-no Sotto il Monte di Venere, il capolavoro porno-comico di Aubrey Beardsley, il giovane genioche illustrò la Salomè di Wilde.

Ma la felicità moraleggiante di cui parlaOscar Fingal tra accenni in stile pre-venten-nio contro il gregge ed elogi da vero italianoper la mamma, è lontanissima dalla feli-cità che aveva sognato l’Oscar Wilde chein Frasi e filosofie a uso dei giovaniscrisse: «Il pia-cere è l’unica cosa per cui si dovrebbe vivere e morire.Niente invecchia come la felicità». Anche se il gioco degli apo-crifi e dei travestimenti probabilmente non sarebbe dispiaciuto achi aveva elogiato l’arte come menzogna, e aveva scritto con unsogghigno: «Si dovrebbe essere sempre un po’ improbabili».

Se la modernità è stata inventata un secolo e mezzo fa dall’auto-re dei Fiori del male, non c’è dubbio che il pingue Oscar ha scoper-to il postmoderno. La banana pop dei Velvet Underground, il mi-nuto di celebrità che non si nega a nessuno di Warhol, la minigon-na, la ribellione giovanile, la società dello spettacolo, il kitsch, ilcamp, il punk, Tim Burton: tutto è stato inventato o intuito più diun secolo fa da Oscar Fingal Wilde, che in L’anima dell’uomo sottoil socialismo vide la possibilità della fine del lavoro, la nascita del-l’individuo estetico e la Bellezza per tutti: «L’Arte non dovrebbe maicercare di essere popolare. È il pubblico che dovrebbe cercare di es-sere artistico». È giusto? È sbagliato? È vero? È falso? Alle nostre do-mande Oscar solleverebbe le spalle, e alzando un calice di cham-pagne si congederebbe con un ultimo paradosso: «Una verità ces-sa di essere vera quando ci crede più di una persona».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’importanzadi chiamarsi Oscar

GIUSEPPE MONTESANO

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 11 LUGLIO 2010

(segue dalla copertina)

Così i grandi fatti non av-vengono che a coloro chesono preparati per rice-verli, e anche gli eroi chesorgono qualche volta perapparente combinazione

di fortunati avvenimenti, non sono di-ventati tali per il capriccio della fortuna,ma lo erano certamente da lungo temponell’intimo silenzioso delle proprie co-scienze. Gli uomini comuni non si ac-corgono mai delle occasioni propizie,essi sentono solo le difficoltà, davanti al-le quali incrociano le braccia, mentre an-che se l’avvenimento può sembrare osti-le a prima vista, l’uomo volitivo sa sem-pre cavarne qualche vantaggio: le diffi-coltà non sono una disgrazia, bensìun’occasione propizia per saltare piùlungi e più in alto.

La fortuna passa sempre nella vita diun uomo, ma pochi sono coloro che san-no accorgersene. Generalmente si ha gliocchi rivolti altrove, spesso alle idee pes-simiste; si resta indecisi, timorosi di ri-schiar troppo, e la fortuna passa indi-spettita di non essere stata afferrata ru-demente per i capelli.

Anche la disgrazia passa spesso nellanostra vita, e di essa ci accorgiamo sem-pre, perché non giunge misteriosamen-te nascosta, ma si fa accompagnare dauna scorta prepotente di dolori; peròmolta gente passa buona parte dell’esi-stenza a prevederla e a temerla, antici-pandosi l’angoscia di dolori che non so-

sce dalla sua debolezza e dal suo difettodi volontà. Chi ha il culto profondo dellapropria anima, e l’ha posta in un altarecosì eccelso che nessuna bruttura uma-na riesce a contaminare, è sempre sere-no nel dolore e nella gioia, è sempre si-mile a un sovrano sul suo trono, che ri-ceve con eguale dignità l’ambasciatoredi disgrazie e quello di vittorie.

Come il viandante che si allontananon scorge dietro a sé nella nebbia dellalontananza che la cima delle montagnedorate dal sole, e non le valli ammantatedi ombra, così noi del passato non ricor-diamo generalmente che le gioie; le noie,i disinganni, i dolori sono sommersi nel-la nebbia dell’oblio. Anche ciò che funoioso talvolta si abbellisce nel tempo,acquista una malinconica dolcezza, e cisembra doversi rimpiangere. In quasitutti esiste il senso vago di non aver com-preso, di non avere abbastanza goduto,di non aver spremuto con tutta la forzadelle dita rapaci quell’otre di delizie chegli attimi fuggenti offrirono alla nostrasete; ma il saggio guarda tranquillamen-te nel passato con l’occhio dell’esperien-za, e la memoria di ciò che fu gli serve so-lo per guidare il suo presente, e per invi-gorire la sua speranza nell’avvenire.

In verità ciò che ha reale valore nellavita è il presente; l’ora che passa è ladonna che dobbiamo amare e renderefelice; il passato e l’avvenire sono pre-senti che furono e presenti che saranno,perciò impieghiamo ogni giorno comefosse l’ultimo della nostra esistenza, co-me se dovessimo fare un bottino per l’e-ternità, viviamo intensamente ogni mi-nuto, scopriamo ogni recondito piace-re che può offrirsi a noi, amiamo contutto il cuore ciò che ci circonda: Carpediem. [...]

Per godere la vita impariamo ad ama-re, e dare in ogni istante completamentenoi stessi, tutti i nostri pensieri, tutto ciòche di intimo e di remoto nasconde il no-stro spirito: la felicità non potrà non ve-nire al costante richiamo dell’amore.Così la nostra esistenza sarà tanto fuoridella bolgia ove soffre, impreca, disperae odia il gregge degli uomini, che nonavremo il capogiro solo a pensare di an-dare ancora più in alto, oltre l’umanità.Quando avremo bevuta tutta l’ambrosiadella vita, che ci importerà più del nostrocorpo, il calice che la contenne e che cer-to la contaminò un poco? Getteremo vo-lentieri il calice nel mare dell’oblio, comeil re di Tule alla fine dell’ultimo brindisi,e l’eccesso di amore, l’eccesso di felicità,ci porterà in uno slancio sovrumano, frale spire di una serena ebbrezza che nes-sun dolore potrà contaminare, oltre iconfini misteriosi della vita.

(© 2010 Robin Edizioni srl)

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Ciò che ha realevalore nella vitaè il presente;l’ora che passaè la donnache dobbiamo amaree rendere felice

IL LIBRO

Divagazioni sulla felicità (Robin Edizioni,

144 pagine, 10 euro)di Oscar Fingal,

Oscar Wildesecondo la curatrice

Lilli Monfregola, sarà in libreria il 14 luglio

felicità, perché il dolore ci rende vera-mente padroni di noi stessi, chiama araccolta tutte le nostre energie e le dirigeverso lo scopo della liberazione, e quan-do il dolore è passato, le energie sveglie,irreggimentate e combattive, ci portanodi vittoria in vittoria. Per gli uomini di va-lore che si soffermano e si compiaccionodi rivoltarsi nel delizioso pantano deisensi, come bestie immonde, spesso lasventura ha lo stesso effetto di una scu-disciata: li ricaccia sulla buona strada algaloppo. Così anche la malattia, penosaper il corpo, è profittevole per affinarel’anima, è una vera disciplina naturale, èuna tempra che rende più saldo il metal-lo divino del volere.

Quando i nostri istinti bestiali taccio-no nel corpo indebolito dalla malattia, ilnostro spirito si affina, sembra che ac-quisti una leggerezza beata, e sia prontoa comprendere tante idee nuove, belle edolci, ad acquistare quelle virtù che di-sprezzava perché non poteva conosce-

praggiungono quasi mai. C’è chi non rie-sce a vivere serenamente del presente, econvinto di essere nato sotto cattiva stel-la è sempre ossessionato dall’avvenire, ècome avvelenato dalla sua immagina-zione, la quale a forza di prevedere di-sgrazie qualche volta le chiama. Sembraquasi che non godendo gli attimi tran-quilli, non assaporandone l’ambrosiacon intimo senso di riconoscenza, si fac-cia un’offesa alla vita, la quale vuol esse-re amata profondamente per concederele sue voluttà, e sa vendicarsi come un’a-mante tradita.

L’immaginazione è una forza comela volontà, e può fecondare l’avveni-mento che per se stesso è senza saporee senza colore, è capace di accendere edi spegnere la gioia, di creare e di di-struggere il dolore, di produrre e di gua-rire le malattie, come se emanasse unfluido possente che influenza l’avveni-re e di cui ancora non si conosce l’es-senza. La disgrazia proietta la sua om-bra davanti, quindi il saggio si accorgedella sua venuta e spesso riesce a evitar-la, ma se non lo può, sa conservare lacalma e il potere per modificare in par-te il suo corso in modo da risentirne ilminimo danno. Ma la disgrazia è anchenecessaria alla nostra vita, ché, senza diessa, diverrebbe monotona e noiosa, ènecessaria per farci maggiormente ap-prezzare la tranquillità e la gioia, è simi-le a l’ombra che mette in maggior valo-re i colori e la luce d’un paesaggio.

L’uomo a cui è dato soffrire più deglialtri, diviene più degli altri degno della

re; e la convalescenza è doppiamentedeliziosa perché l’anima sente nel rifio-rire delle forze del corpo la possibilità fi-sica di nuove attuazioni verso l’idealedella felicità. Nihil in terra sine causa fit,et de humo non oritur dolor.

Il dolore serve anche ad avvertirci dischivare le cose che fanno male al nostrocorpo e alla nostra anima, è la pietra concui si costruisce la nostra più salda espe-rienza, e solo per esso acquistiamo qua-lità di previdenza che ci permettono divivere e di trionfare, invece di cadere su-bito in preda ad alcune forze ostili dellanatura. Non bisogna quindi temere ildolore, è necessario rassegnarsi alle suevisite periodiche, perché la nostra animapossa fortificarsi sotto i suoi colpi, e ac-quistare quell’olimpica serenità che larende quasi divina. Dalla violenza deidolori superati viene a noi una grandez-za morale che ci ingigantisce agli occhinostri e a quelli del prossimo. Se la nostraanima saprà vestirsi della ferrea armatu-ra di una volontà di vittoria, tutte le pene,le disgrazie, e i dolori, faranno turbinarele loro violenze al di fuori, ma non riusci-ranno a colpirla. Essa conserverà la suatranquillità e la sua solidità, come unmonte contro cui invano soffiano le raf-fiche rabbiose, e che invano le nubi am-mantano di un umidore di pianto.

L’anima può conservare la sua sere-nità maestosa anche nei pericoli peggio-ri, anche sotto i morsi spietati del dolore,poiché nessuna forza ostile della naturapuò arrecarle direttamente danno, e tut-to ciò che la turba nasce in se stessa, na-

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la memoriaVittime

Cartoline da una fossachiamata Srebrenica

Emir Suljagic era un ragazzo l’11 luglio 1995,quando le milizie entrarono nella città bosniacaSotto gli occhi dei caschi blu, nell’indifferenzadel mondo, in sette giorni i serbi di Mladicuccisero oltre ottomila persone.Lui si salvòE oggi racconta in un libro lo stupore e l’orrore

totale di oltre ottomila musulmani, inclusi alcuni mi-norenni e molti anziani. Non si può sterminare in quel-la proporzione senza farsi scoprire (anche dai satelliti),tanto più se la strage avviene sotto il naso delle NazioniUnite. Eppure in quella settimana nessuno tra chi do-veva sapere o quantomeno intuire (Onu, governi occi-dentali) tentò di fermare la strage.

Non si può capire perché i sopravvissuti continuinoa paragonare il massacro di Srebrenica all’Olocaustosenza tenere presente che la loro vistosa esagerazioneaveva ed ha lo scopo di richiamare le coscienze dal lorotorpore. Nel concreto il confronto è semplicemente im-proponibile, data l’incommensurabile diversità, quali-tativa e quantitativa, che separa i due eventi. Eppure lesimilitudini proposte da un sopravvissuto, Emir Sulja-gic, nel suo diario dell’assedio di recentissima pubbli-cazione (Cartolina dalla fossa, edizioni Biet), meritano

rispetto e attenzione. Suljagic aveva diciassette anniquando le milizie serbe presero Srebrenica. Si salvò per-ché era interprete delle Nazioni Unite, ruolo nel qualefu testimone del «freddo, quasi burocratico disinteres-se» del personale civile e militare della missione Onu,«un tradimento compiuto da persone che, secondoogni standard, erano istruite e intelligenti: da uominiche in quei giorni non ebbero coraggio o non vollero es-sere uomini». In questa galleria di vili spicca il coman-dante dei caschi blu olandesi, il colonnello De Haan. Al-l’arrivo dei serbi si cala le braghe, al pari dei suoi uomi-ni. Non vuole guai. Cancella di suo pugno il nome di undiciannovenne che gli interpreti hanno inserito surret-tiziamente nella lista del personale Onu autorizzato daiconquistatori a lasciare la città. Lasciato a Srebrenica, ilragazzo verrà ucciso pochi giorni dopo.

Simmetrico al disinteresse internazionale e Onu èl’incapacità degli assediati di guarire dalle proprie illu-sioni. Quando cominciarono le prime deportazioni na-ziste, cioè ben prima della Seconda guerra mondiale,molti prigionieri dei campi coltivarono la stessa ragio-nevole speranza dei musulmani assediati a Srebrenica.I quali, scrive Azra Nuehefendic nell’introduzione aCartolina dalla fossa, «ogni sera si addormentavanocon l’idea che l’indomani qualcuno li avrebbe soccorsi,rimediando il terribile torto per il quale stavano sof-frendo, che l’ingiustizia si sarebbe risolta e che l’incom-prensibile indifferenza del mondo per le loro sofferen-ze non poteva essere reale». Il generale Mladic non eracerto Hitler, ma «l’incomprensibile indifferenza delmondo» era di nuovo all’opera. Stavolta dietro un tra-vestimento pacifista e umanitario.

Nel 1993 le Nazioni Unite avevano dichiarato Sre-brenica «safe haven», zona protetta. Quando però i ser-bi lanciarono l’assalto finale, il vertice della missioneOnu, giapponese nella parte civile e francese nella par-te militare, reagì con una lentezza probabilmente cal-colata. Per quanto fosse nella sua potestà chiedere al-l’aviazione americana di fermare i serbi bombardan-doli, di fatto lasciò che Srebrenica cadesse. Perché? Se-condo una tesi, la città e i suoi abitanti erano la monetacon la quale il comando Onu aveva comprato la libera-zione dei caschi blu sequestrati dai serbi due mesi pri-ma. Inoltre è probabile che i governi europei vedesserocon favore la caduta dell’enclave, l’unica “isola” musul-mana in quella parte di Bosnia, nel calcolo che poi sa-rebbe stato più semplice arrivare ad una spartizione ter-ritoriale, come in effetti avvenne. Il risultato “politico”fu che l’Onu rimediò la figura più miserabile in cui fos-se mai incappata. Sei mesi dopo, la sua disfatta diede di-ritto alla Nato di varare sul campo, con una guerra-lam-po in Bosnia, l’alterna stagione dell’interventismoumanitario.

Però l’«incomprensibile indifferenza del mondo»chiama in causa non soltanto i governi, ma anche le opi-nioni pubbliche europee. Durante l’intera guerra di Bo-snia, per esempio, in Italia non vi fu una sola manifesta-zione. Eppure chi ne aveva desiderio poteva capire fa-

GUIDO RAMPOLDI

“Ogni serala gentesi addormentavacon l’ideache l’indomaniqualcunoli avrebbe soccorsi,che l’ingiustiziasi sarebbe risolta”

Quindicianni dopo, chi ogni tanto ritorna hal’impressione che nulla sia cambiato. C’èancora una piazza Fratellanza e Unità, unboulevard Maresciallo Tito, e ovunque l’a-sfalto resta segnato dalle granate. Tuttocosì immobile che un sopravvissuto si sco-

pre a camminare in punta di piedi nella piazza princi-pale, tanto forte, quasi fisica, è «la sensazione di calpe-stare i cadaveri dei miei cari». In quel paesaggio intattopermane immutata anche la sensazione che l’Europarifiuti di fare i conti con quel che accadde a Srebrenicanei tre anni d’assedio stretto dalle milizie serbe, e in par-ticolare nei sette giorni successivi alla resa. Era l’11 lu-glio 1995. Dal 12 al 19 le milizie del generale Mladic am-mazzarono un migliaio di prigionieri al giorno, per un

DOMENICA 11 LUGLIO 2010LA DOMENICA DI REPUBBLICA 30

L’ASSEDIODopo un assedio di tre anni, nel 1993l’Onu dichiara Srebrenica “zona protetta”dai caschi blu. L’11 luglio 1995 le milizieserbe entrano indisturbate in città

IL MASSACRODal 12 al 19 luglio i conquistatori uccidonooltre ottomila cittadini musulmaniI caschi blu dell’Onu (gli olandesidel colonnello De Haan) non intervengono

LA CATTURA DI KARADZICIl 21 luglio 2008 l’ex presidente bosniacoKaradzic, responsabile insieme al generaleMladic del massacro di Srebrenicae latitante dal 1995, viene arrestato

LETAPPE

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 11 LUGLIO 2010

Un minutodi silenzio

ADRIANO SOFRI

Le tragedie vogliono guadagnarsi un’auradi destino, e se ne fabbricano coincidenzeimpensabili. Così, il quindicesimo anni-

versario cade nella domenica della finale di cal-cio mondiale. Avevano chiesto, le associazionidelle vittime, di dedicare un minuto di silenzioa Srebrenica, nella finale. A Sarajevo avevanotrepidato all’idea che potesse arrivarci la Serbia.Non è successo, ma un diavolo ci ha messo la co-da, perché alla finale è arrivata l’Olanda, granpaese, eccellente squadra, ma furono olandesi imilitari delle Nazioni Unite che a Srebrenica1995 brindarono con Mladic, furono traditi daicapi dell’Onu e della Nato, e tradirono un popo-lo inerme che si era affidato loro. La Fifa, perbocca del suo segretario, Jerome Valcke, ha af-fettato comprensione, ma ha spiegato che l’11luglio è anche il cinquantenario della prigioniadi Mandela, e che del minuto di silenzio non sene può far niente. Tanto meno dell’altra propo-sta, la più estremista, di lasciare sugli spalti del-lo stadio 8.346 posti vuoti, in memoria. Imma-gino già che cosa stiate pensando: «È troppo».L’ho pensato anch’io, naturalmente. 8.346 po-sti vuoti in una finale mondiale di calcio sonotroppi. L’abbiamo pensato anche leggendo lacifra dei trucidati di Srebrenica, che 8.346 eranotroppi: ma con minor trasporto, no?

Le famiglie delle vittime avevano avuto ragio-ne di preoccuparsi per la coincidenza fra la lorodata, dedicata dalla stessa Unione europea allacommemorazione di Srebrenica, e la finale delcampionato. La gente, e gli europei in particola-re, avranno altro da fare quel giorno.

In compenso andranno in tanti alla cerimo-nia di Srebrenica, anche il primo ministro belgauscente Leterme, presidente di turno del consi-glio dell’Unione europea, reduce a sua volta in-sieme alla famiglia reale dal cinquantenariodell’indipendenza del Congo, a Kinshasa. C’è lafamosa barzelletta sul Belgio, dove si regola pa-cificamente la questione della secessione: «Al-lora, tutti i valloni a destra, e tutti i fiamminghi asinistra». Restano fermi al centro alcuni signorivestiti di nero col cappello, la barba e i riccioli: «Enoi belgi dove?» È esattamente quello che suc-cede in Bosnia, dove gli accordi di Dayton divi-sero il paese in tre popoli costituenti, serbo,croato e bosniaco-musulmano (bosgnacco),con tre parlamenti e tre governi e tre di tutto, sic-ché un cittadino ebreo bosniaco, Jakob Finzi, eun cittadino rom bosniaco, Dervo Sejdic, han-no fatto ricorso alla Corte di Starsburgo chie-dendo, più o meno, «E noi?» e la Corte, nel di-cembre 2009, ha dato loro ragione, dichiarandoinvalido il voto riservato a candidature su baseetnica. Le prossime elezioni saranno nell’otto-bre di quest’anno, e vedremo come verranno acapo della barzelletta. Intanto, sono passatiquindici anni, e si piange di più, come bisognanegli anniversari tondi, sull’undici luglio.

Srebrenica, laboratorio di genocidio di viltà edi negazionismo. Basta Srebrenica a renderesuperflue montagne di volumi sul nazismo e laShoah. I volonterosi carnefici, la gente comune?Eccoli, i tifosi belgradesi della Stella Rossa, i vi-cini di casa serbi: girano a centinaia per le stra-de di Srebrenica, “restituita” all’autorità serbo-bosniaca. La programmazione del genocidio?Proclamata, nei discorsi dei nazionalcomunistidi Milosevic e dei loro servi-padroni ubriachi,Karadzic e Mladic e compagnia. La comunitàinternazionale, che su Auschwitz pretendeva di“non sapere”? Ma a Srebrenica vedeva tutto, e lotrasmetteva al mondo intero, ed era solenne-mente sul posto, e non solo non si oppose allosterminio, ma brindò coi macellai e aiutò coisuoi caschi blu a separare gli uomini dalle don-ne e i bambini, prima del mattatoio. Quanto alnegazionismo, sostengono i nazionalisti di Bel-grado e di Banja Luka che gli sterminati furonomolto meno degli 8.346 ufficialmente designa-ti, che gli esami del dna vengono falsati per farpassare come bosniaco-musulmane le vittimeserbe... Il Tribunale internazionale per la ex-Ju-goslavia ha bensì pronunciato, il mese scorso, leprime condanne per il reato di genocidio, ma lanotizia è passata pressoché inosservata. A Sre-brenica furono massacrati i maschi, dagli ado-lescenti agli anziani — ma anche molti bambinie vecchi: le donne e i bambini furono cacciati viae braccati attraverso i boschi in una fuga d’incu-bo. Una ragazza si impiccò a un albero, e i suoipiedi scalzi dondolanti suggellarono l’icono-grafia del Novecento. D’altra parte la brutalitàex-jugoslava, e serbista specialmente, che a Sre-brenica ricalcò l’antico rito del massacro degliuomini, aveva perfezionato anche la violenzasulle donne fino a programmare lo stupro etni-co. Oggi Srebrenica è, ad onta delle sue autoritàe delle sue milizie serbiste, soprattutto un postodi donne del lutto e della memoria, come ogniTroade inseminata.

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cilmente quel che avveniva dall’altra parte dell’Adriati-co. Non mancavano voci autorevoli cui dare ascolto. Peresempio il Nobel Eli Wiesel, che già nel 1993, durante l’i-naugurazione del Museo dell’Olocausto a New York, siera rivolto così a Clinton: «Signor presidente, c’è una co-sa sulla quale non posso tacere. Sono stato nell’ex Jugo-slavia e non riesco a dormire per quello che ho visto. Lechiedo di fare qualcosa per fermare le uccisioni. Qual-cosa deve essere fatto. Stanno ammazzando anche ibambini». Quanti furono i Giusti? Non molti. Merita difare almeno alcuni nomi. Tadeusz Mazowiecki, ex pri-mo ministro polacco, incaricato delle Nazioni Unite peri diritti umani. Ashdown e i lib-dem britannici. I Grunentedeschi. Alcuni piccoli partiti scandinavi. Alcuni gior-nalisti occidentali, tra i quali Adriano Sofri. Gli italiani(l’informazione, la politica): balbettanti, confusi, incon-sistenti. A destra come a sinistra.

Però alcuni anni dopo il coro dei silenti si ritrovò a Sa-rajevo, dove una consesso di primi ministri occidentalipronunciò di nuovo il fatidico “Mai più”. Se c’è una “le-zione di Srebrenica”, suona così: mai fidarsi di quei “Maipiù”. Mai sottovalutare la tendenza universale a finge-re di non capire, quando capire comporta l’assunzionedi rischi. Mai illudersi che l’umanità capitalizzi saggez-za. E mai dare per scontato il nostro fragile stato di dirit-

to: basta poco per ribaltarlo. Nei ricordi di chi ha attra-versato le guerre “etniche” dell’ex Jugoslavia permanelo stupore per la facilità e la rapidità del rovesciamentoimposto dal conflitto. All’improvviso i criminali diven-nero l’autorità, la malvagità fu eletta a coraggio, i poli-ziotti si dimostrarono i peggiori tra i banditi. «Fummoricacciati in una società primordiale, priva di leggi»,scrive Suljagic. Le salde certezze che appartengono aciascuno furono travolte per sempre. Anche da qui l’in-capacità nei sopravvissuti di tornare alla “normalità”, ecioè la condanna ad una vita emozionale frenata, muti-lata (nelle parole di Suljagic, «Tutti i sentimenti sono in-completi… per qualche motivo solo là, tra i ricordi, trale ombre, mi sento meglio»).

Tra le storie terribili degli oltre ottomila sventurati uc-cisi a Srebrenica, molti dei quali ancora senza una tom-ba, spicca il paradosso di Nezir Omerovic. Da giovaneaveva recitato la parte di un partigiano sgozzato dai fa-scisti serbi, i cetnici, nel kolossal americano La Battagliadelle Neretva. Fatto prigionieri dai serbi nei giorni suc-cessivi alla caduta di Srebrenica, morì proprio in quelmodo: sgozzato dai nuovi cetnici. Il film in cui aveva re-citato la propria morte apparteneva al canone rassicu-rante che oggi potremmo definire il genere “Mai più”.

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LE IMMAGINIIn alto a sinistra,una donna musulmanaprega nel Memorial centerdi Potocari dedicatoalle vittime della guerradella ex JugoslaviaAccanto, il presidenteKardzic e il generale Mladic,responsabili del massacrodi SrebrenicaNella foto grandei ritratti di alcunidegli 8346 uomini musulmaniuccisi tra il 12 e il 19 luglio 1995nella città bosniaca

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Travestirsi da personaggi dei fumetti, dei videogame,dei cartoon e dei film (primo fra tutti “Guerre stellari”)Una moda giovanile nata negli anni Settanta

nelle strade della capitale giapponese e esplosa grazie a internetanche nelle metropoli americane e europee.A celebrarla ci pensa ora un libroChe ci ricorda come e quanto il Sol Levante ha conquistato l’Occidente

CULTURA*

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 LUGLIO 2010

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Un fenomeno nato in Giappone poi fiorito quasi ovunque nelmondo, un libro realizzato grazie alla partecipazione di mi-gliaia di appassionati sparsi fra Asia, Europa e Americhe, e uncuratore diventato famoso sulla Rete ballando hit anni Set-tanta per le strade di Tokyo vestito da soldato della fanteriaimperiale di Guerre Stellari. Otacool 2, appena uscito nelle li-

brerie online per Kotobukiya (128 pagine, circa 28 euro), è un singolare con-centrato di contemporaneità. O, se preferite, di follie al tempo del Web 2.0.Raccoglie foto e testimonianze di quel popolo sempre più numeroso che vasotto il nome di «cosplayer». Contrazione dei termini inglesi «costume» e«play», indica il desiderio di abbigliarsi come personaggi dei fumetti, dei vi-deogame, dei film o dei cartoni animati, sfilando a fiere, eventi, e recitando avolte piccole scene. Sindrome di Peter Pan o arte dell’intrattenimento, se-condo i punti di vista. Di sicuro un modo di appropriarsi di brandelli di im-maginario collettivo vissuto altrimenti solo passivamente.

«Tutto è cominciato a Tokyo e dintorni alla fine degli anni Settanta, quan-

Ossessione cosplayerda Tokyo al mondo

do alcuni ragazzi presero a vestirsi come Lamù, protagonista di una serie ani-mata» spiega con il suo accento toscano Francesca Dani, fra le cosplayer ita-liane più note. Poco meno di trent’anni, a capo di un’azienda di pelletteriacon la sorella, qualche anno fa ha vinto il Cosplay Summit di Nagoya, una sor-ta di campionato mondiale, e ora alcune delle sue «interpretazioni» cam-peggiano fra le pagine di Otacool 2. «La moda però si è diffusa, anzi è esplosa,negli ultimi anni complice internet e le sue potenzialità» continua. «Fra i piùbravi in assoluto ci sono i giapponesi, ma brasiliani e americani non sono dameno. E anche noi italiani ci difendiamo bene».

Ed è proprio di questo che parla Otacool 2, della diffusione di una praticache furoreggia fra i ventenni negli Stati Uniti come a Singapore, in Messico,Australia, Polonia o Thailandia. Secondo volume di una serie di una collanadedicata alla cultura otaku, parola giapponese un tempo usata in maniera di-spregiativa per definire chi dai giochi elettronici o dai manga è ossessionato,ora sfoggiata con orgoglio. Di qui otacool, altro neologismo frutto dell’unio-ne di «otaku» e «cool». Cool, di successo, come il curatore del volume. QuelDanny Choo figlio di Jimmy Choo, stilista anglo-malese tanto amato dalleprotagoniste di Sex and the City. Arrivato in Giappone nel 1999, Danny ha ini-ziato la sua brillante carriera come addetto ai siti web: Jal, Amazon, Micro-soft. Dal 2007 ha un suo blog dove si parla di “action figures” (miniature) contre milioni di utenti unici al mese. Un’enormità. Nel frattempo fornisce con-sulenze a compagnie del calibro di Google, Disney, Nhk, Mozilla, Bandai,continuando a danzare per le vie di Tokyo come cosplayer. E le sue perfor-mance su YouTube le hanno guardate in quasi quattro milioni. «Da piccoloimpazziva per Guerre Stellari, ma mai avrei pensato che sarebbe diventatoqualcuno vestendosi come i personaggi del film» ha confessato alla Cnnil pa-dre. Quando l’abbiamo incontrato, alcuni mesi fa, Danny dava l’idea di es-sere un manager più che un semplice otaku. Uno che ha un’idea molto chia-ra di come monetizzare le proprie passioni sfruttando la teoria della coda lun-ga («long tail»), i mercati di nicchia che sulla Rete diventano di massa, e ca-pace di passare dall’inglese al cinese, dal coreano al giapponese senza batterciglio. Insomma, sarebbe una falsità sostenere che i cosplayer sono tutti co-me lui. «Bene che vada si viene inviatati in fiere importanti dedicate ai fumetti,dove i cosplayer sono una presenza fissa. Il nostro è solo un hobby che, salvoeccezioni, non fa guadagnare soldi», conferma Francesca Dani. «Anzi, direidi più: è un hobby relativamente costoso». Un vestito richiede dalle due set-timane al mese di lavoro, per una spesa compresa fra i duecento e i millecin-quecento euro. Ovviamente ci sono negozi online che vendono costumi giàfatti. Ma non è il caso dei protagonisti di Otacool 2scelti da Danny Choo. Quel-li, a modo loro, sono professionisti del settore.

JAIME D’ALESSANDRO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 11 LUGLIO 2010

RENATA PISU

TRAVESTIMENTIAlcune immaginidi cosplayer trattedal libro Otacool2di Danny Choo

Chissà se tutto è cominciato con Hello Kitty.O con il karaoke. Oppure con Candy Candyo con i Pokemon, o meglio con La Rosa di

Versailles. Ma non sarà invece tutta colpa del su-shi? O magari del sashimi, del futon, dei manga…L’Occidente si sta tatamizzando (da tatami, lastuoia intrecciata di paglia di riso, pavimentazio-ne tradizionale del Sol Levante ma anche trasmis-sione per giovanissimi sulla televisione italiana).Si coltivano bonsai, si medita zen, si va in palestraper fare karatè o judo. Insomma, il Giappone è tranoi, tra i bambini che oggi al vecchio Topolino pre-feriscono Pikachu, uno dei Pokemon che sareb-bero «mostri tascabili» grazie alla contrazione ti-picamente giapponese di due parole inglesi, cioè«pocket», tasca, e «monster», mostro. E chi non sadi cosa si stia parlando si vede che non ha nessuncontatto con il mondo dell’infanzia.

Anche il termine cosplayer, i ragazzi e le ragaz-ze che si vedono in queste pagine, è frutto di unacontrazione del genere, e da noi in Europa, comein America, come quasi ovunque, persino in Cina,fa furore insieme ai manga, «le anime», cioè i car-toni animati giapponesi, sia quelli meno belli, os-sia più commerciali, sia quelli stupendi che hannoconquistato un pubblico adulto, e penso a Il ca-

stello errante di Howl di Miyazaki e al suo capola-voro La città incantata.

Siamo ormai travolti da uno tsunami (altra pa-rola giapponese ormai di uso corrente) di culturapop che ha origine nel paese del Sol Levante e cheha colto di sorpresa i meno avvertiti, anche se or-mai erano anni che guidavano una Honda o infor-cavano una Kawasaki, o andavano a spasso con unwalkman, tipico prodotto Sony ormai obsoletoperché leggeva le musicassette; e se quella non eracultura pop era di certo cultura materiale, oggettiche ci accompagnavano nel nostro quotidiano,dagli orologi alle radio a transistor. Mentre di ter-mini giapponesi che coinvolgessero una «filoso-fia» del vivere condivisibile, da noi ne circolavanopochi: geisha, samurai, ikebana, sumo, kimono e,infine, kamikaze che ha conosciuto negli ultimianni un mortifero revival globale.

Quindi guardiamo con occhio benevolo questiinnocui cosplayer, diretta filiazione degli «otaku»,termine che significa letteralmente «la vostra ca-sa» ma che si usa anche per dare del Lei, cioè per ri-volgersi a qualcuno con cui non si ha familiarità. O

almeno si usava, perché ormai in giapponese maanche da noi ha mutato significato. Gli otaku, se-condo alcuni critici, a partire dagli anni Settantaavrebbero dato vita a una nuova forma di cultura(o di subcultura?) che sarebbe tipica della post-modernità: il Giappone post-bellico, dopo l’impe-gno collettivo — la sua Grande Narrazione — di ri-costruire il paese, a obiettivo raggiunto si sarebbetrovato sprovvisto di scopi, di idee forti, avendosoltanto il consumismo per poter esaudire i propriunidimensionali desideri. E così gli otaku per pri-mi, favoriti dallo sviluppo della più sofisticata tec-nologia, hanno intuito che la Grande Narrazioneche aveva unificato l’intero sistema di conoscen-za, e non soltanto in Giappone, era svanita e chel’unità sociale si andava frammentando in infini-te piccole narrazioni, a ciascuno la sua. Il paese siscoprì così, all’improvviso e orgogliosamente, po-st-moderno. Si dissero i giapponesi: se il post-mo-dernismo è qualcosa che viene dopo la modernità,il Giappone non si è totalmente modernizzato equesto è stato considerato un difetto. Ma siccomeci permette di aderire più facilmente al processo dipost-modernizzazione, ecco che diventa un pre-gio e il Giappone, nel XXI secolo, sarà la civiltà gui-da del mondo intero potendo vantare una societàdei consumi matura e una superiorità tecnologi-ca. Un’ondata di narcisismo ha sommerso il Pae-se e gli otaku sono stati i primi a farsi alfieri di unacultura pop basata sull’informazione che si ricavada internet, un’enorme database da cui pescareframmenti da riassemblare a piacere. L’accumu-lo di questi materiali (cd, videoclip, web sites) di-venta a sua volta una banca dati anonima dallaquale possono emergere nuove opere. Tutto que-sto sarebbe alla base della cultura otaku astratta,della quale i cosplayer si fanno ambasciatori am-bulanti, materializzando con il loro concreto ap-parire personaggi di manga e di anime, spessocreati sul web da anomimi otaku. Orecchie da gat-to, un frammento, capelli verdi, un altro fram-mento, e via via così con la divisa da scolaretta, op-pure le orecchie da coniglio, una coda di cavallo, legambe da ranocchia, il becco da uccello, gli occhisgranati da bambola. Il fatto strano è che tutto ciòabbia tanto successo e saremmo tentati di spie-garlo con l’esaurirsi delle Grandi Narrazioni anchein Occidente.

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Hello Kitty, sushi, tatamila Grande Narrazione versione post

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 LUGLIO 2010

Federico Fellini percorse gli ultimi anni del-la sua vita avvelenato dall’insofferenzaper la propria disoccupazione: era un re-gista a spasso, senza più committenti, e at-traversava le sue giornate romane con lafuria di un leone in gabbia. Eppure era un

monumento vivo, un mostro sacro, un’icona popola-re e mediatica. Negli anni Ottanta (è morto nel ’93) eral’artista più inseguito da giornali e tivù, pronti a inter-pellarlo per fargli dire la sua su qualunque cosa, comeun oracolo o un santone. A Cinecittà lo chiamavano«er Faro»: tecnici, macchinisti, montatori, sarte, loadoravano tutti, perché era il mito del Grande Cinea-sta incarnato e presente. C’era poi l’aspetto del NumeInternazionale: Fellini era il regista italiano più notodel pianeta, artefice di un patrimonio di immagini trai più premiati e copiati ovunque, persino dai suppo-nenti film-makers americani. Era il sommo incanta-tore, il visionario pluri-decorato (ben cinque Oscar),l’eterno riminese applaudito anche in Giappone, ilcreatore di topoi come La strada e Amarcord citati inlingua originale in tutto il mondo. Fino all’ultimo èstato un radar formidabile di scenari e passaggi epo-cali, sfoggiando una capacità più unica che rara nel re-gistrare lo spirito del tempo e dell’avvenire. Anche davecchio si stagliava come una fucina di archetipi e co-me un narratore con facoltà divinatorie testimoniateda straordinarie parabole sociali, esistenziali e politi-che. Quando impazzavano i riti assembleari aveva co-struito un film tagliente come Prova d’orchestra persegnalarci che è necessario un direttore per fare mu-sica insieme. E con Ginger e Fred, nel 1985, profetizzòcon nitidezza il golpe silenzioso che lo strumento te-levisivo stava mettendo in atto in Italia, guidato dalpersonaggio (riconoscibilissimo) del cavaliere FulvioLombardoni.

Ciò nonostante il settantenne Fellini era un anzia-no disoccupato e frastornato dalla propria inerzia, co-me dimostra la sua corrispondenza con l’amico regi-sta Jordi Grau: in una malinconica missiva del ’92, Fe-derico gli descrive la vacuità impotente dei suoi gior-ni: «Solo chiacchiere, mesi senza senso, anni perico-losamente trascorsi fuori dalla mia vita di sempre». Al-l’epoca aveva perso da tempo il suo rapporto con ilpubblico: «Si è trasferito su un altro pianeta», dicevalamentandosi dello scarso riscontro nelle sale, e inogni sua intervista ricorrevano parole come catastro-fe, apocalisse e naufragio. Proprio a un naufragio è vo-tata la trama di E la nave va, ombroso film dell’83 am-bientato nel 1914, alle soglie dello scoppio della Primaguerra mondiale, sopra un piroscafo destinato adaffondare. Un sogno di morte girato (come sempre) alchiuso, nei teatri di posa di Cinecittà, dove Fellinimonta un piano inclinato (denominato dalla troupe«il bilico») per imprimere alla macchina da presa ilfluttuare incerto della traversata. Durante la lavora-zione il regista è una presenza martellante sui giorna-li e in tivù, e all’uscita il film raccoglie gli sperticati elo-gi di politici, scrittori e critici. Ma i dati al botteghinosono sconfortanti: la spinta promozionale funzionasolo un po’ nei primi cinque mesi, poi la nave fellinia-na si eclissa. Forse, scrive Tullio Kezich nella sua riccabiografia del regista, la discrepanza tra l’interesse chesuscita Fellini personaggio e l’indifferenza per Fellini

autore «è il segno rivelatore di una società chesi nutre di apparenze, ama i valo-ri garantiti e non intendeesporli al rischio di una veri-fica. Forse è la nuova impa-zienza del telecomando diuno spettatore che non amapiù sentirsi raccontare la favola,preferisce l’effetto. Forse è il sin-tomo che nell’Italia anni Ottantasi è allargata la distanza tra artisti egente comune».

Anche l’esito di Ginger e Frednonè proporzionato al clamore del lan-cio, e non meno deprimenti sono i ri-sultati di Intervista, dell’87, e de La vo-

ce della luna, uscito nel ‘90 senza trova-re la via del cuore degli spettatori a di-spetto della presenza di Roberto Benignie Paolo Villaggio. Se per un verso il pub-blico è «indecifrabile o alieno», ben diver-so da quello che affollava le sale per La dol-

ce vita, d’altro canto i produttori scappanodi fronte ai terremoti finanziari provocatidall’artista. Il suo modo abituale di sfidarli, edi sentirsi addirittura stimolato dal conflittoquotidiano con «i padroni della baracca», paredilatarsi al massimo nell’età del tramonto. DaIntervista in poi lavora senza sceneggiatura: ilfilm è un’idea di partenza che cresce di giorno ingiorno quasi improvvisando, col rischio di conti-nui cambi di marcia nelle riprese e di frequenti al-terazioni del budget. Spesso «il Maestro» scrive i dia-loghi la mattina, lungo il tragitto dalla sua casa di viaMargutta a Cinecittà sopra foglietti striminziti, e nel-la struttura mobile dell’opera può succedere che lescenografie, anche le più faraoniche, restino inutiliz-zate. Ne La voce della luna il primo incontro tra i va-gabondi Benigni e Villaggio doveva avvenire all’inter-no di un caffè identico al Caffè Greco di via Condotti aRoma: un set costosissimo. Quando Fellini lo vederealizzato decide di buttarlo: «Due barboni non pos-sono frequentare un luogo così lussuoso».

È il suo modo di sondare, divorare, opporsi, nutrirela propria ansiosa ispirazione. È la sua vena di «comi-co assoluto» alla Baudelaire. È la sua voglia di rimo-dellare l’universo tuffandosi nella libertà delle vocidell’inconscio, come fanno i due matti che cercano laluna in fondo i pozzi nel suo film dell’addio. Ma larealtà non riesce più a star dietro al suo genio inquie-to e monellesco. E mentre il pubblico non lo com-prende e i produttori lo evitano, Fellini si rassegna a gi-rare qualche spot per l’odiata televisione: un «Rigato-ni» marca Barilla messo in bocca a una carnale damafelliniana, un brindisi su un treno onirico siglatoCampari, tre incubi splendidamente cinematogra-fici interpretati da Paolo Villaggio per la pubblicitàdella Banca di Roma. Persino in questo periodo,consumato da solitudine e rabbia, Federico nonperde il desiderio di giocare, lanciandosi nellefantasie più irriverenti: «Vorrei fare un film suicontadini romagnoli, un western senza revol-verate intitolato “Oscidlamadona”. Una be-stemmia. Ma come suono non è forse piùbello di Rasciomon?»

LEONETTA BENTIVOGLIO

FelliniMaestro

la solitudinedel

I suoi film, elogiati dalla critica, al botteghino non hanno più successo“La voce della luna” non trova il cuore degli spettatori nonostantela presenza di Roberto Benigni e Paolo Villaggio. I produttori fuggono

davanti ai terremoti finanziari provocati dal suo modo di lavorare. E così il regista italianopiù venerato al mondo percorre gli ultimi anni di vita avvelenato dall’insofferenzaper la disoccupazione. Come testimoniano le lettere all’amico e collega spagnoloJordi Grau: “Solo chiacchiere, mesi senza senso, anni fuori dalla mia vita di sempre....”

SPETTACOLI

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I RICORDIDa sinistra,l’ultima letteradi Federico Fellinia Jordi GrauA destra, disegnidel Maestro conservatidall’amico spagnolocon alcune fotoche ritraggonoi due registi insiemeLe ventotto letteredi Fellini a Grausaranno pubblicateintegralmentenel prossimo numerodella rivista Amarcord

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 11 LUGLIO 2010

“Giorgino mio

sono stanco e svuotato”

STEFANIA MICCOLIS

Jordi Grau è un signore dall’aspetto giovanile, anche se è nato nel 1930, vestito in manierasemplice e dai lunghi capelli bianchi. «Oggi è san Federico», dice. E ricorda di quando te-lefonò al suo amico Federico Fellini per fargli gli auguri di buon onomastico, sorprenden-

dolo, «perché non lo sapeva». Sulle pareti di casa, un appartamento poco distante dal centro an-tico di Madrid, al riparo dal caldo torrido della capitale, alcuni disegni partoriti dalla mano ironi-ca e dalla verve caricaturale del Maestro. Grau è autore del volume Fellini desde Barcelona, ma èprima di tutto un regista: i film Noche de verano(1962), El espontáneo(1964), Acteon(1967), Unahistoria de amor (1967), lo consacrarono come una delle speranze del nuovo cinema spa-gnolo. Con La trastienda (1975) osò il primo nudo femminile in un franchismo ormai alla fi-ne. Poi passò al genere horror.

Il rapporto con il regista italiano inizia nel maggio 1958. Fellini gli concede un’intervista perLa Actualidad española. «All’epoca ero un giovanissimo studente del Centro sperimentale ci-nematografico di Roma», racconta Grau, «dove andavano i registi a mostrare il proprio film e poine parlavano con gli allievi. Mentre Blasetti, Lattuada, Antonioni accettavano il colloquio ma seden-dosi in alto, quasi come fossero dei ministri, Federico si sedeva in basso, al nostro livello, e si stabilivacosì un vero dialogo». Il giorno dell’appuntamento per l’intervista, Fellini con fare sbrigativo invitaGrau a montare in macchina, avrebbero parlato andando in giro per Roma. Da allora nasce un’ami-cizia testimoniata da una corrispondenza durata trent’anni. Ricorda Grau con un sorriso: «Io gli scri-vevo una lettera lunga e lui mi rispondeva con una lettera breve. Tranne l’ultima, di diverse pagine,scritta a mano». Ventotto lettere in tutto. Le prime sono messaggi di poche righe, vergate con la frettadi chi ha molto da lavorare ed è «molto occupato». Poi, con il passare degli anni, il Maestro diventasempre più disponibile, o forse più fiducioso, certamente bisognoso di «conforto». Nel 1958 l’incipitfelliniano è «caro signor Grau», poi «caro amico», quindi «caro Jorge», «caro Giorgio», infine «Giorgi-

no mio». Fellini scrive spesso del suo lavoro all’amico spagnolo: «Ho ricominciato per laterza volta la preparazione del Casanova, un film che più degli altri ha assommato un ta-le numero di difficoltà e di amarezze da farmi sentire già stanco, svuotato, senza nessunentusiasmo». E altrettanto spesso si dice «deluso». All’amico racconta anche il disagio didoversi trovare a girare «spot commerciali» per la televisione: «Un lavoro non proprioesaltante», gli scrive nell’ultima lettera. È il 1992, un anno prima di morire.

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 LUGLIO 2010

i saporiFerro e fuoco

di sagre, è condannato dallesue stesse dimensioni al ruo-lo di massiccio strumento dicottura, stanziale e inamovi-bile, ruvido guardiano di po-derosi tagli di carne, polli infil-zati a mezze dozzine, stinchi divitello, cosce d’agnello.

I suoi nipotini, al contrario, sono fa-cili e leggeri, meravigliosamente manegge-voli tanto per chi li offre (si preparano praticamente ovun-que) tanto per chi li gusta, svincolati come sono dall’obbligo di piatti eposate. Se ben fatti — niente sgocciolature, untuosità o consistenze sbava-te — perfino il tovagliolo diventa superfluo.

Così, gli ingredienti diventano tutt’uno con gli stecchi di legno che li passa-no da parte a parte. Un gemellaggio che li rende distinti per funzioni, insepa-rabili al momento di proporli, eco-compatibili al momento di gettar via i sup-porti. Guai, però, a trascurare le modalità di realizzazione. Mai come in que-sto caso, infatti, la scelta delle migliori materie prime rischia di essere vanifi-cata da approcci affrettati o distratti. Gli spiedini di carne e quelli di pesce, peresempio, ambiscono a riposare in marinature preventive che garantisconomorbidezza e succulenza. Le verdure restano croccanti senza secchezze conqualche pennellata d’olio, la frutta meno cuoce e meglio è.

Se poi volete riportare sulla retta via un inappetente, offritegli uno spiedinofritto-e-asciugato di ciliegine di mozzarella e zucchine trombetta. Uno steccodi ananas e datteri caramellati lo guarirà definitivamente.

In filaper uno, appassionatamente. Un laicissimo rosa-rio goloso che non conosce altra regola se non quella delpalato. Ricetta fantasia: ritaglio di pancetta, anello di cipolla,tocchetto di salsiccia, foglia d’alloro, quadratino di peperone, cubettodi pollo a chiudere. Per amanti dei crostacei: tandem di gamberi e cala-mari. Strettamente vegetariano: zucchine, pomodori, finocchi, radic-

chio rosso. Trionfo goloso: panettone, babà, brioche, più una fragola per sal-varsi la coscienza. Salutisti ortodossi: anguria, pesca, mango, susina, ananas,qualche fogliolina di menta qua e là.

L’estate induce a scrutare i ripiani del frigo e quelli della dispensa con umo-ri ballerini: stanchi del lavoro nelle città roventi, alla fine di un’assolata gior-nata in spiaggia o piacevolmente affaticati dalla passeggiata in quota. Avendospesso poca voglia, poco tempo e un certo languorino da soddisfare.

Difficile resistere al fascino ammiccante e scomposto degli spiedini. Chesanno tentarti in cento situazioni diverse: feste e pranzi in piedi, aperitivi e ce-ne placée, self service in riva al mare e picnic in campagna. Nulla è loro pre-cluso, dagli ambienti più mondani ai pasti più semplici, esempio democrati-co e ubiquitario di fast food a qualità (purtroppo) variabile: spiedini straordi-nari che esaltano mazzancolle e costolettine d’agnello o mediocri ricicli digamberetti surgelati e verdure appassite.

Il padre spiedo è di tutt’altra pasta, se così si può dire. Nato per placare la fa-me atavica di fieri guerrieri e traslato a totem mangereccio di alcune migliaia

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Spiedini

LICIA GRANELLO

Carne, pesce, verdure: tutti in fila per uno

Feste in terrazza e pranzi in piedi, aperitivi in spiaggiao barbecue in giardino. Pochi altri piatti possiedono il donodella fantasia e della semplicità. A patto di saper sceglierele migliori materie prime. E di conoscere alcuni piccolisegreti che garantiscano a ogni ingrediente infilzatoil massimo della succulenza e della morbidezza

BarbecueD’obbligo la scelta: carne o pesce,

per evitare contaminazioni di gusto e odori

Sugli stecchini leggermente bagnati,

fantasia di salsiccia, pollo, agnello, vitello,

maiale, alternati con peperoni e cipolle

BourguignonneEntrambe le tipologie — con olio o brodo

come liquido di cottura, base carne

o pesce — richiedono abbinamenti dosati

Sulla forchettina, il boccone di manzo può

essere supportato da un pezzo di würstel

Frutta caramellataIl più goloso dei finger food dolci: mandarini,

mele, ananas, pesche, datteri,

albicocche (secondo stagione) tuffati

in un caramello leggero e infilati a raggiera

su un pompelmo foderato di carta stagnola

MarinaraGamberi, calamari, cozze, ma anche

tocchetti di salmone, cernia, pescatrice

Marinati e passati in un pangrattato

aromatico, reggono bene griglia e forno,

a patto di cuocerli delicatamente

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 11 LUGLIO 2010

itinerariIl capreseMarco Iaccarinoguida le cucinedel Tiberio Palace,nel cuore di CapriTra i piatti

del menù estivodel “Terrazza Tiberio”,spicca lo spiedinodi finocchietto selvaticocon gustosi gamberie tempura di limone

La bella cittadina affacciata sul lago di Ginevra,sede di un magnifico festival jazz e di prestigiosistudi di registrazione, offre nei suoi ristorantiun’eccellente varietà di fondute tradizionaliservite con sfiziosi spiedini

DOVE DORMIREHOTEL BON-PORTRue du Théâtre 4Tel. 0041-21- 9628070Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELE MUSEUMRue de la Gare 80Tel. 0041-21- 8631662Sempre aperto, menù da 35 euro

DOVE COMPRARELUCINE MOURTALIER PATISSERIEGrand Rue 44Tel. 0041-21-9632114

MontreauxDiecimila abitanti, sede del Parco Nazionaledella Maiella, la cittadina chietina vanta una lungatradizione gastronomica legata agli spiedini di maiale, chiamati arrosticini, piatto immancabile nelle feste e nelle sagre regionali

DOVE DORMIRECASTELLO DI SEMIVICOLIVia San Nicola 24Tel. 0871-890045Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREVILLA MAIELLA (con camere)Località Villa Maiella 30 Tel. 0871-809319Sempre aperto in estate, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA PAOLO FILOMENAVia Tripio 142Tel. 0871-85921

Guardiagrele (Ch)A 1.300 metri sul livello del mare lungola Val d’Ayas, il bel borgo valdostano formatoda tre comuni, a pochi passi uno dall’altro,è famoso per le piste da sci di fondoDa gustare le fondute di carni o formaggi

DOVE DORMIREHOTEL DU FOYER (con cucina)Località VollonTel. 0125-300007 Mezza pensione da 60 euro a testa

DOVE MANGIARELES GUILLATESLocalità GuillatesTel. 0125-300588Sempre aperto in estate, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREFORMAGERIE HAUT VAL D’AYASRue Trois Villages 1Tel. 0125-301117

Brusson (Ao)

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Fondue au fromageTrasformazione irresistibile del paneraffermo (ma non troppo) tagliato in piccolipezzi, variando il più possibile le tipologie:al farro, ai semi, integrale, casereccioPoi, immersione nelle tome d’alpeggio fuse

Fonduta di cioccolatoEgualmente golosa nella ricetta invernale— cioccolato bollente — o in quella estiva,a base di una crema al cacao freddaSi alternano tocchetti dolci (torte, brioche)aromatici (pan speziato) e frutta fresca

SangrìaGli spiedini di frutta macerati nel vinoarricchito a piacere (con arance, limoni,mele, pesche, chiodi di garofano, cannella,vodka, soda) sono uno dei mangia-e-bevipiù rinfrescanti e nutrienti dell’estate

Lo spiedo vanta una storia gloriosa, ricca di sapori e di immagini. Saporidi carne, soprattutto. Se gli spiedini (discendenti in miniatura dello spie-do) possono contenere pezzetti di lombo o di salsiccia, ma anche toc-

chetti di pesce o di formaggi, e verdure di vario genere, lo spiedo inevitabil-mente rinvia all’arrosto di carne, alla selvaggina da piuma o da penna, al lom-bo o alla coscia di un grosso animale o addirittura all’animale intero, messo a

girare sul fuoco con l’ausilio di macchine ingegnose (Bartolomeo Scappi,nel 1570, raffigura un complicatissimo «molinello con tre spe-

di, che si volta da sé, per forza di ruota, col tempo, a fog-gia di orologio»). Girata con implacabile lentez-

za, la carne si priva degli umori superflui econcentra i suoi succhi, diffondendo profu-

mi inconfondibili, preannuncio di sapori forti e decisi. A quei sapori si sono associate, nei secoli, immagini altrettanto inconfondi-

bili di ricchezza e di potere. Anche le tecniche e gli strumenti di cucina possie-dono uno statuto sociale e l’arrosto allo spiedo per molto tempo ha significatoil privilegio di pochi: potersi permettere un bel pezzo di carne non era cosa datutti, così come disporre di un grande camino per cuocerlo. Lo stesso fatto diarrostirlo era sentito come una pratica esclusiva: la cucina contadina era piùlegata al bollito, che spreme la carne nel brodo e ne consente ulteriori utilizzi.Perciò gli attrezzi di cucina rappresentano per gli archeologi un indizio im-portante: se gli scavi restituiscono pentole, siamo probabilmente di fronte a unvillaggio contadino; se invece si trovano spiedi, è una residenza signorile.

La selvaggina allo spiedo era il cibo preferito di Carlo Magno: il suo pastoquotidiano – racconta il biografo Eginardo – comprendeva sempre l’arrosto,«che i cacciatori erano soliti infilzare nello spiedo e che egli mangiava più vo-lentieri di qualsiasi altro cibo». Non era solo una questione di gusto: l’arrostoallo spiedo era anche un modo per segnalare il suo potere, l’appartenenza al-la “società dei forti”. In qualche modo era un obbligo sociale: ancora da vec-chio, malato di gotta, del suo spiedo non faceva a meno e si lamentava dei me-dici che «gli erano particolarmente odiosi perché lo esortavano ad abbando-nare gli arrosti, a cui era abituato, per passare alle carni lessate».

Mentre le case contadine erano organizzate attorno a un focolare con le bra-ci sempre accese e una pentola appesa sul treppiede, nelle case borghesi e ari-stocratiche del Medioevo comparve ben presto il camino a parete, che natu-ralmente “chiama” lo spiedo. Una miniatura del Trecento raffigura un incre-

dibile virtuosismo culinario, l’uovo allo spiedo, infilzato nel ferro e girato sulfuoco.

Oggi allo spiedo non si associano più queste immagini di privi-legio sociale. In certe regioni esso è entrato nel patrimoniocollettivo e viene anzi rappresentato come “tradizione po-

polare” (penso al girato toscano, allo speo del Veneto prealpino, ad altro anco-ra). È un segno della dimensione più democratica in cui si muove la cultura ga-stronomica contemporanea. Ma attenzione: questa tradizione è una conqui-sta recente.

Dai castelli medioevalialle sagre di paese

MASSIMO MONTANARI

VegetarianoIl trionfo delle verdure da impreziosire,volendo, con qualche cubetto di formaggioda selezionare tra i più saporitiA scelta: zucchine, peperoni, cipolle,ma anche carote e patate sbollentate

Repubblica Nazionale

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le tendenzeTremate, tremate

La calzatura nata nel mondo contadino, già simbolodella contestazione sessantottina e del femminismo,oggi torna inaspettatamente in una veste glamourImpreziosita da borchie, fiocchi o lacci, con il suoinconfondibile rumore annuncia l’avanzaredi un esercito di ragazze di ogni età

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 LUGLIO 2010

N

to massiccia.Nelle varianti più audaci diventa un rocchetto, peri-coloso come un’arma, o una scultura in metallo lucente. Nei casiestremi si abbina a zeppe altrettanto maestose. Una lavorazionea fitte borchie (lucide o gioiello) generalmente segna il confine tral’impegnativa suola e la parte superiore. E qui la fantasia supe-ra ogni limite: tela, lino, jeans, tessuti stampati, ma a volte an-che piume, lacci e ciuffi di pelo. Pur impreziositi, gli zoccolinon dimenticano la loro origine rustica. Ed allora ecco cheritorna l’intramontabile modello in cuoio, adatto ancheagli acquazzoni estivi sempre più frequenti. E tra le fanpiù accanite circola una tentazione: abbinandoli ad ap-positi calzettoni, gli zoccoli possono diventare l’acces-sorio più glamour del prossimo inverno. Da in-dossare con jeans, calzoni e, perché no, congonne più o meno lunghe. E gli uomini tre-mano augurandosi un provvidenzialeritorno: quello del classico tacco a spil-lo. Ma nella moda, si sa, basta avere pa-zienza e, prima o poi, arriverà anche ilsuo turno.

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ati come scarpe per i contadini olandesi, nel Sessantotto sono di-ventati uno dei simboli della rivoluzione. E oggi a sorpresa sfilanonelle passerelle dell’haute couture, griffati dalle maison interna-zionali e conquistano le copertine dei giornali di moda. Sono glizoccoli. O clogs. Poche calzature hanno avuto una vita così avven-turosa. Chi li ama sostiene che non siano mai passati di moda. Chili detesta li definisce un attentato alla femminilità. Per alcuni rap-presentano un capo insostituibile. Per altri sono l’ennesimo ritor-no. Scarpe dalla sagoma robusta, chiuse in punta e aperte sul tal-lone, in questa estate 2010 gli zoccoli conquistano nuovi e inso-spettabili fan.

Con il loro inconfondibile rumore annunciano l’avanzare di unesercito di ragazze di ogni età che, se pur in precario equilibrio, in-cedono fieramente. Gli zoccoli piacciono per i motivi più vari. Le piùpiccole li amano perché, senza darlo a vedere, regalano preziosi cen-timetri. Le eterne alternative li prediligono e, grazie a quel tocco im-previsto alle estremità, si allineano alla moda pur preservando il lo-ro look stravagante. Le salutiste li promuovono perché aiutano lapostura. Le dive, da Ashlee Simpson a Alexa Chung, amano abbinarlia mini, leggins e look singolari. Meno soddisfatti i signori che, ai pie-di di mogli e fidanzate, preferirebbero qualcosa di più sexy.

La struttura dello zoccolo, vista da vicino, incuriosisce. La basegeneralmente è in legno, talvolta in sughero, ma comunque mol-

Al passo coi tempi

STEMMA LUCENTEAnche la maison Chanelnon ha potuto resistere al fascinodi uno zoccolo con plateaue tacco robusto. Il tocco in piùè lo stemma sul davanti

INNO ALL’ARCHITETTURAÈ una costruzione quasiarchitettonica con fascerosse alternate a cuoioe laccio alla cavigliaProposto da Miu Miu

DOPPIO TONOPer Keys lo zoccolodell’estateè in due tonalità:caffè e bianco sporcoEntrambi con taccoa cono in legno

APERTURA A SORPRESAÈ a sorpresa apertoin punta il rigorosozoccolo biancogriffato PradaUn modello idealeper far risaltareil piede abbronzato

STILE COUNTRYGioca sui contrastilo zoccolo bicolore

di Ralph Laurenin stile country

Perfetto con i jeanso con accessori

sportivi e informali

IRENE MARIA SCALISE

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 11 LUGLIO 2010

Duri e puri per natural’inflessibilità in una scarpa

MARINO NIOLA

Sono l’essenza dura e pura della calzatura. La scarpa inflessibile che si spezza ma non sipiega. È la sua proverbiale rigidità ad aver fatto dello zoccolo un simbolo di resistenza,di rottura, di ostinazione. Vizi o virtù che hanno in un modo o nell’altro a che fare con

la durezza della vita, contadina e non solo. Da quando sono stati inventati gli zoccoli nonhanno mai smesso di essere delle allegorie, ancorché robustamente pedestri, di una condi-

zione sobria, essenziale e spartana. Emblemi di povertà, ma anche di un carattere to-sto. Come il legno dei sabot che le operaie francesi gettavano nelle macchine per

“sabotare” la produzione. Gli zoccoli insomma sembrano fatti apposta per rimanere coi piedi per

terra. Tutti d’un pezzo come quelli che hanno trasformato le olandesine inicone della bellezza acqua e sapone. Zatteroni vertiginosi come gli oboko

dall’alto dei quali le Geishe entravano rollando nell’impero dei sen-si. Foderati di pelliccia come quelli dei camionisti nord europei

che più lanzichenecchi non si può. Bianchi, bucherellati easettici alla maniera svedese fatti apposta per il look ospe-

daliero. Fino allo zoccolo light del dottor Scholl che di fat-to inventa il glamour ortopedico a misura di piedi libera-ti come quelli di Twiggy e di Jean Shrimpton. Cambianole forme ma il principio è lo stesso. Materiali forti per

fronteggiare situazioni d’urto. Come gli zoccoli delle fem-ministe che negli anni Settanta appendono al chiodo le

scarpette da brave ragazze e fanno dei loro leggendari sabotun simbolo contundente. Da lanciare contro lo specchio di un

femminile tutto casa e chiesa, fatto di gonnelline plissettate e cami-cette immacolate. Al ticchettio seducente ma sottomesso dei tacchi a spillo le “nuove stre-ghe” contrappongono il loro fragore strafottente e fiero da zoccolanti della contestazione.Così il secondo sesso indossa le vesti del quarto stato e decide di riscrivere la storia dalla par-te delle bambine.

Siamo in pieno revival folk quando mettersi nei panni degli ultimi, contadini o campesi-nos che fossero, non era solo un modo di dire ma un modo di vestire, il segno tangibile di unacondivisione di valori scritta sul corpo. Di una sensibilità che non a caso ha il suo manifesto

poetico in un film come L’albero degli zoccoli. Dove l’umile calzatura dei diseredati vie-ne trasfigurata da Ermanno Olmi in un simbolo politico ed evangelico di una vita

da poveri cristi. Gilet neri, gonnelloni a fiori e zoccoli borchiati diventavano co-sì il fashion etico di un’intera generazione. Una moda trasversale, capace di

mettere d’accordo rivendicazioni libertarie e utopia politica, terzomondi-smo e flower power, operaismo e Woodstock.

Oggi gli zoccoli tornano alleggeriti dal peso dell’ideologia.Mobili, perfino flessibili, addirittura trasparenti. Non più ab-

binati a gonne lunghe e palandrane orientaleggianti, madisinvoltamente associati a jeans superslim e hot pants.

Zeppe e zatteroni incarnano lo spirito casual della mo-dernità liquida. Dove la libertà è un dato acquisito, al-meno in parte. E lo zoccolo da arma del sesso debolediventa finalmente l’accessorio del sesso forte.

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METODO CLASSICOÈ il più classico zoccolodel mondo. Quello che ricordal’Olanda. Lo proponeCafè Noir, in pelle marronee impuntura sul bordo

INTRECCI STRATEGICIIntreccio in morbida pelle biancae zeppa per la calzaturaproposta da Manas Lea FoscatiUn modello idealesia al mare che in città

PELLE PREGIATALo zoccolo di Stuart Weitzman

è in pelle pitonata con tacco altoe lavorazione pregiata. Un modello

all’ultima moda per le più attentealle tendenze dell’estate

OSSESSIONE MODALa comodità è un’altra cosa,ma quest’ultima evoluzionedella calzatura olandese per eccellenzaè perfetta per chi farebbe di tuttopur di seguire la moda. Da Viktor & Rolf

POSTURA PERFETTAListini di pelle allegri

e coloratissimiper il modello

proposto da SchollBello e anche “giusto”

per la posturae la salute del piede

ALTEZZA REALEAltezze vertiginose

per lo zoccolodal tacco in sugherodi Roberto Del Carlo

Per quelle che sognanodi essere alte anche

solo per un giorno

LOOK ESSENZIALEFascia bianca sempliceed essenziale:Emporio Armanipropone un modelloche sembravoler imitarequelli delle infermiere

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 11 LUGLIO 2010

l’incontroRicercatori

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Alla sogliadei cinquant’annisenti che il temponon è più infinitoe se in questa fasedel viaggio riescia conservare un po’di amici verisei fortunato

appuntamento. E dove l’euro-spazzatu-ra, senza offesa per nessuno, si respira ef-fettivamente a pieni polmoni.

Come mai ha scelto di abitare in mez-zo a questo effluvio? «Non certo perchémi piace Chelsea», risponde. «O meglio,non certo perché mi piace Chelseacom’è oggi. Una ventina d’anni fa, quan-do mi sono sposato, la famiglia di miamoglie aveva un appartamento in que-sta zona e ci siamo venuti a stare. Cono-scevo e amavo la Chelsea della mia gio-ventù, ero consapevole di che cosa erastata ancora prima: il quartiere dellaSwinging London anni Sessanta, e poidei punk, e anche quando mi ci sono tra-sferito io era ancora pieno di piccolicaffé, curiose botteghe, tipi strani, avevainsomma un suo fascino e una sua ener-gia creativa, un’aria bohèmienne cheapprezzavo. Adesso è un quartiere dibanchieri francesi, di banchieri italiani,di banchieri russi, di banchieri svizzeri,insomma di banchieri approdati a Lon-dra da tutta Europa, e non è che io, se do-vessi scegliermi dei vicini di casa con cuiandare a bere una birra al pub, scegliereidei banchieri, europei o meno».

Anni fa, quando ci conoscemmo, ri-cordo che Coe mi sorprese perché, casoforse unico nell’entusiasmo collettivoper la Londra del blairismo, per la CoolBritannia, la Britannia fichissima e pure(un po’) di sinistra, lui dimostrava scarsoentusiasmo per la capitale e confessavadi non vedere l’ora di svignarsela. E ora?«Ora sto per compiere cinquant’anni,ma le mie figlie vanno ancora a scuola epenso che per loro sia tutto sommato unbene crescere in una grande città. Ri-mando la mia fuga da Londra a quandodi anni ne avrò quasi sessanta, quandomi cercherò un posticino in campagnada qualche parte e a Londra ci verrò soloper visitare musei, andare a teatro o al ci-nema, passare pomeriggi in libreria o in-contrare i vecchi amici». Cosa non loconvince di Londra? «Mica vorrei torna-re indietro, al passato remoto di una cittàsussiegosa, ammuffita e old England.Apprezzo i benefici del multiculturali-smo. Riconosco che culturalmente Lon-dra offre più di quasi ogni altro luogo del-la terra. E, dopo tanti anni, ci sono affe-zionato, anche se sono nato e cresciuto aBirmingham. Non mi piace però che siacosì costosa. Non mi vanno quelli che laesaltano perché vedono solo Chelsea e ilcentro, senza aver mai messo piede incerte zone di periferia dove si affettano iminorenni a coltellate. È ancora, per cer-ti versi, una città dickensiana, di ricchis-simi e poverissimi: in assoluto, preferi-sco i posti dove sono quasi tutti né ricchiné poveri». E, potendo scegliere, in cheparte di Londra vivrebbe? «Forse ad

Hampstead, perché il suo parco non è unparco ma un vero, grande bosco, e per-ché il quartiere ha una certa aria intellet-tuale in cui mi riconosco. Però, da qual-che tempo, mi sorprendo a passeggiareper Pall Mall, la grande strada dei clubper gentiluomini, non perché pensi odesideri di esservi ammesso, ma perchéconserva un po’ di storia, di autenticità,è sfuggita all’omologazione che clonastrade tutte uguali, con le stesse catene dicaffè, librerie, farmacie e supermercati,di modo che non puoi nemmeno distin-guere dove sei».

Un’altra cosa che ai miei occhi distin-gueva Coe dall’omologazione culturale,ossia dal vizio che porta tutti a seguire lestesse mode, era la prudenza, per non di-re scetticismo, con cui guardava Blair e ilblairismo. «Sono sempre stato laburistae ho votato per Blair, fino alla guerra inIraq, poi ho smesso. Perché le bugie dalui raccontate per portare il nostro Paesein guerra mi hanno fatto credere che fos-se poco sincero anche su altre questio-ni». Per chi ha votato alle ultime elezioni?

«Per i liberaldemocratici, un partito dicentro diventato una specie di rifugioper molti laburisti delusi». E che impres-sione gli fa ritrovarsi ora a letto, per cosìdire, con i conservatori, nel governo dicoalizione uscito dalle urne? «Una stra-na impressione, perché noi britannici, adifferenza del resto d’Europa, siamo po-co abituati alle coalizioni. Il premierconservatore, David Cameron, mi incu-riosisce. Sembra più moderato, per nondire più di sinistra, di gran parte del suopartito. E in Nick Clegg, il leader lib-dem,ha trovato un sosia sotto ogni punto di vi-sta. La verità è che il Regno Unito si trovain una fase di incertezza, rispetto agli an-ni della Thatcher e di Blair. Non sappia-mo più bene chi siamo, né dove andia-mo. Una condizione che può creare di-sagio ma che io trovo interessante, pro-prio perché induce a riflettere, a porsidomande, anziché fornire risposte pre-confezionate».

L’incertezza del non sapere cosa ciaspetta è anche un elemento, se non l’e-lemento centrale, del suo ultimo ro-manzo: quanto c’è di Jonathan Coe inMaxwell Sim, il protagonista del libro?«Parecchio. Max ha la mia età, molti deimiei dubbi, alcune delle mie idiosin-crasie. È uno che scappa da Londra, ac-cettando una stravagante proposta dilavoro che lo conduce in Scozia, perchénon sa mai cosa scegliere, non vuole de-cidere, preferisce che sia qualcun altroe magari il destino a decidere per lui.Anch’io sono fatto così, e sarei potutodiventare uno come Max, se la scritturanon mi avesse fornito una direzione eun’identità».

Nelle prime pagine del romanzo c’èuna bella metafora sulla somiglianza trale persone e le automobili: «Ogni giornocorriamo di qua e di là, arriviamo quasi atoccarci ma in realtà c’è pochissimo con-tatto. Tutti quegli scontri mancati. Tuttequelle possibilità perse. È inquietante, apensarci bene. Forse è meglio non pen-sarci affatto». E nella seconda parte dellibro il protagonista, in auto, si innamo-ra poco per volta della voce femminiledel suo navigatore satellitare. «L’idea miè venuta durante un viaggio in Irlanda»,osserva Coe. «La navigatrice stava dan-do istruzioni, mia moglie parlava e io lazittii perché non riuscivo a sentire. Lei mirimproverò di dare la precedenza a unapersona inesistente. Ma quante personeinesistenti possono avere un ruolo, unpeso, nella nostra vita? Oggi la maggiorparte dei rapporti avvengono filtrati daun mezzo tecnologico, abbiamo amicisu Facebook che non incontreremo mai,scambiamo e-mail e messaggini invecedi guardarci in faccia. Diamo talvoltaperfino più valore al personaggio di un

romanzo che a una persona vera. È unbene, è un male? Non sono sicuro dellarisposta».

Nel suo libro c’è un’altra osservazioneconclusa da un interrogativo: “A mano amano che invecchi, alcune amicizie tisembrano più ingiustificate. E un belgiorno di chiedi: a che servono?”. Quan-to è importante l’amicizia? «Molto im-portante. Però, alla soglia dei cin-quant’anni, uno sente che il tempo a di-sposizione non è più infinito, non si puòpiù sprecare, e comincia a diventare piùselettivo, anche nelle amicizie. I miei ro-manzi in fondo sono la storia di un grup-po di amici, dalla adolescenza alla gio-ventù, dall’età adulta alla maturità: se inquesta fase del viaggio uno riesce a con-servare un po’ di amici veri, con cui si fan-no ancora cose insieme, con cui si con-dividono idee e passioni, è fortunato».Gli domando se, fra i suoi amici, ci sonogli scrittori inglesi considerati, insieme alui, tra i migliori della sua generazione:Nick Hornby, Ian McEwan, MartinAmis. «Conosco Nick, ma non ci vedia-mo spesso, Ian lo incontro a eventi e fe-stival letterari, Martin l’ho intravistoqualche volta». Potreste essere, insisto, iquattro moschettieri della nuova narra-tiva britannica, solo che bisognerebbestabilire chi è chi: e in particolare chi èD’Artagnan. Jonathan scoppia a ridere.«È un gioco a cui non posso partecipare,perché, per quanto possa sembrare stra-no, non ho mai letto I tre moschettieri. Hovisto una o due versioni cinematografi-che, tanto tempo fa, da ragazzo. E so be-nissimo che è un gran libro. Ma non l’holetto. È una lacuna che prima o poi dovròcolmare». Mi riprometto di regalarglie-lo, la prossima volta che ci incontrere-mo. Nella piazza più euro-trash di Lon-dra, o da qualche altra parte.

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ENRICO FRANCESCHINI

LONDRA

Euro-trash vuol dire euro-spazzatura: è così che gli in-glesi doc chiamano noi eu-ropei del continente. Non

c’entrano l’antipatia per l’euro e la no-stalgia del British Empire. L’etichetta,applicata con una buona dose di umori-smo, più che come insulto, riguarda inparticolare quella ricca e felice colonia diitaliani, di francesi, di altri continentali,che ha invaso i quartieri più chic di Lon-dra, se ne è appropriata, e vi esibisce unamoderna versione della dolce vita, a ba-se di auto di lusso, abiti firmati, un evi-dente complesso di superiorità e un cat-tivo gusto che nemmeno i soldi riesconoa mascherare. Potremmo replicare cheloro, gli inglesi, hanno fatto lo stesso conil Chiantishire, un tempo bucolica areadella Toscana, ora contea distaccata del-l’Inghilterra. Ma a parte il fatto che gli in-glesi nelle cascine del Chianti parlano abassa voce e per lo più si astengono daicomportamenti kitsch, adesso sono se-duto a un tavolino della piazza più euro-trash (Sloane Square) nel quartiere piùeuro-trash di Londra (Chelsea), con unoscrittore che detesta l’euro-spazzatura.

Eppure Jonathan Coe, autore di unadecina di romanzi che messi insiemeraccontano una storia a puntate dellaGran Bretagna, dalla Thatcher a Blair(l’ultimo, I terribili segreti di MaxwellSim, è uscito in questi giorni in Italiapubblicato da Feltrinelli; lui comincerà apresentarlo nel nostro paese il 13 luglio,alla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi, e il16 alla rassegna il “Libro Possibile” di Po-lignano a Mare, Bari), vive da un paio didecenni proprio qui, a Chelsea, a duepassi dalla brasserie dove ci siamo dati

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Ha raccontato la Gran Bretagnadalla Thatcher a Blair, e ora -lui che ha sempre diffidato del mitodella Cool Britannia - confessa

di non votare più Laboure di non sopportareneppure questa Londra“rimasta dickensiana”Si muove nell’oggiincerto e curioso,come il protagonista

del libro che a giorni presenteràin Italia. “Sarei come lui se la scritturanon mi avesse indicato la strada”

Jonathan Coe

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Repubblica Nazionale