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OPERE AMMESSE

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OPERE AMMESSE

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“Opere ammesse alla IX edizione del Concorso artistico-letterario “Il Volo di Pegaso”,

a cura di Antonella Sanseverino, Daniele Savino, Amalia Egle Gentile e Domenica Taruscio, Roma, 2017.

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PRESENTAZIONE

Il Tema della IX edizione del Concorso artistico-letterario “Il Volo di Pegaso” è “il Viaggio”. Il 2017 è stato dichiarato dall'ONU l’anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo, al fine di promuovere il tema fra il maggior numero di persone possibile, nel diffondere consapevolezza del grande patrimonio delle varie civiltà e nel portare al riguardo un miglior apprezzamento di valori intrinseci delle diverse culture, contribuendo così al rafforzamento della pace nel mondo. La ricerca scientifica corre di pari passo, perché soltanto in una società basata sulla Pace e sul Progresso è possibile realizzare innovazione e sviluppo e costruire ponti di solidarietà a favore delle persone più fragili, incluse quelle ammalate di malattie rare. Il Viaggio diventa così il tema dell'esperienza, della fantasia, della possibilità. Il viaggio come metafora della vita è un tema ricorrente nella letteratura di ogni epoca. Nella letteratura antica, vi sono alcune opere celebri che illustrano il viaggio come un percorso di formazione personale e come prova di conoscenza, di intelligenza e di astuzia nell'affrontare situazioni difficili. Il percorso di vita di ciascuno di noi è in effetti un viaggio, ricco di aspettative, di gioie, di soddisfazioni, di sorprese, di incognite e anche di difficoltà. Molti artisti e letterati, da Leonardo da Vinci a Johann Wolfgang Goethe, ispirati dai loro viaggi e dalla conoscenza di nuovi Paesi e Continenti, hanno lasciato testimonianza artistica nei loro taccuini annotando riflessioni, spunti ed emozioni. Il viaggiatore desidera conoscere culture altre, desidera incontrare e dialogare con le persone che popolano altri mondi e universi. Il raggiungimento della meta o il ritorno sono paragonabili al traguardo che, anche nella vita reale, dopo una serie di vicissitudini, viene raggiunto. Il viaggio è quindi un’opportunità per riflettere sulla propria esistenza. La IX edizione del Concorso è stata realizzata in collaborazione con l’Associazione senza scopo di lucro “MatEr – Movie, Art, Technologies & Research” ed il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo: collaborazione che si è configurata come un’opportunità di incontro e di contaminazione tra salute ed arte, promuovendo la sensibilizzazione sul tema delle malattie rare, esempio paradigmatico di complessità e diversità. Un sentito ringraziamento va alla Giuria della IX edizione, presieduta da Maria Rita Parsi (Membro del Comitato Onu per i diritti dei fanciulli e Presidente della Fondazione Fabbrica della Pace e Movimento Bambino ONLUS) e che ha annoverato personalità del mondo letterario, artistico, culturale e scientifico: dallo storico dell’arte Vittorio Sgarbi al critico letterario Gian Paolo Serino, già ideatore del progetto “Parole di Cuore”, da Cesare Biasini Selvaggi, condirettore editoriale della Rivista Exibart al curatore Santino Carta, dal medico e scrittrice Maria Giovanna Luini e la storyteller Giovanna Conforto a Vincenza Ferrara, storico dell’arte ed esperto di ICT. Ambasciatore nel mondo della IX edizione de “Il Volo di Pegaso” è stato Carlo Capria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Questa edizione è stata realizzata grazie al contributo di Amalia Egle Gentile, Antonella Sanseverino, Daniele Savino e dei Colleghi del Centro Nazionale Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità, unitamente a Ilaria Sergi, Emilia Orlando e lo staff dell’Associazione senza scopo di lucro “MatEr – Movie, Art, Technologies & Research”, che ringrazio per la dedizione e passione dedicata a questa importante iniziativa di sensibilizzazione. Un ringraziamento particolare a tutti i partecipanti alla IX edizione del Concorso, per aver preso parte con entusiasmo, donando le proprie opere e trasformandole in uno strumento per sensibilizzare su un tema complesso come le malattie rare. Tutte le opere ammesse alla IX edizione de “Il Volo di Pegaso” sono raccolte in questo volume, simbolo del

nostro “viaggio” insieme. Grazie a tutti voi!

Domenica Taruscio

Direttore Centro Nazionale Malattie Rare

Istituto Superiore di Sanità

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Organizzazione del volume

Il presente volume include tutte le opere dei partecipanti ammessi alla IX edizione del Concorso artistico-

letterario “Il Volo di Pègaso”:

I contributi sono suddivisi in due macro sezioni:

- arti letterarie per le opere di narrativa e poesia;

- arti visive per le opere di disegno, pittura, scultura, fotografia e opera grafica digitale.

I contributi di ciascuna macro sezione sono presentati in ordine alfabetico, per cognome del primo autore,

ed è presente un asterisco (*) accanto al nome degli autori minori e il simbolo ∞ accanto agli autori adulti

professionisti [per le Categorie, cfr. il Bando della IX edizione del Concorso nel sito www.iss.it/pega].

Al termine del volume, sono indicati i finalisti ed i vincitori della IX edizione del Concorso, le cui opere sono

incluse anche:

- nell'Antologia, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità, che ne contiene i testi integrali,

accompagnati da brevi note biografiche degli autori (per quanto riguarda le opere delle sezioni

letterarie);

- nel Catalogo, a cura dell'Associazione senza scopo di lucro “MatEr – Movie, Art, Technologies &

Research” in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, che ne contiene le immagini (per

quanto riguarda le opere delle sezioni arti visive).

Tutti i volumi sono disponibili nel sito web dedicato al Concorso: www.iss.it/pega.

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INDICE

PRESENTAZIONE ................................................................................................................................................ 3

Organizzazione del volume ................................................................................................................................ 4

Sezioni arti letterarie ....................................................................................................................................... 10

Manuela Iside Alberti - Ritorno ................................................................................................................... 11

Patrizia Bacciarelli - ADDIO PAESELLO ........................................................................................................ 12

Dino Bellin - Esserci nella vita ...................................................................................................................... 15

Massimo Bencivenga - Bon voyage! ∞ ......................................................................................................... 18

Alessia Bernardi - Tu, il mio viaggio… ......................................................................................................... 21

Maria Giuseppina Buongiorno - L'acqua del mio giardino ∞ ....................................................................... 23

Maria Pompea Carrabba - La saggezza dell’uomo in punto di morte ∞ ...................................................... 24

Angela Catalini - Il cimitero dei bambini ∞ .................................................................................................. 25

Claudia Cavalcanti - Mamma e Satumata ................................................................................................... 27

Daniela Ceccato - Il mio viaggio ................................................................................................................... 30

Antonella Cipriani - Nel tunnel ∞ ................................................................................................................. 31

Donatella Colacicco - I nove giorni di Toni .................................................................................................. 32

Sara Comuzzi - Solo le rondini capiscono ∞ ................................................................................................. 35

Elena Coppari - Lo porterò al mare ∞ .......................................................................................................... 36

Sara Cortecci - Le mani intrecciate .............................................................................................................. 38

Michela Cossandi - Radici ........................................................................................................................... 40

Patrizia Cozzolino - LE SCARPE SCAMOSCIATE ∞ ....................................................................................... 41

Marina Cuollo - CUOLLO1981 ..................................................................................................................... 42

Viviana De Paola - Migliore ......................................................................................................................... 44

Adriana De Ranieri - AUTORITRATTO DI UN VIAGGIO ................................................................................. 45

Maria Delvecchio - LA CONOSCENZA DELLA VITA ∞ .................................................................................... 46

Angela Demma - IL VIAGGIO DELLA SPERANZA ∞ ....................................................................................... 47

Elisa Di Lorenzo - CRESCERE VIAGGIANDO ................................................................................................. 48

Giovanni Di Saverio - Cesare aveva ragione ................................................................................................ 49

Raffaella Maria Barbara Direnzo - Cammino .............................................................................................. 52

Francesca Facoetti (alias Gabriel) - IL VIAGGIO DI ALE ∞ ............................................................................ 53

Zeno Ferigo - Passi verso l'ignoto ∞ ............................................................................................................. 54

Alessandra Ferrari - Verso la guarigione… ∞ ................................................................................................ 55

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Monica Fiorentino - Treno per Lisbona ....................................................................................................... 56

Alessandro Fort - Lacrime di felicità ∞ ......................................................................................................... 58

Margherita Ghiglioni - BIGLIETTO PER IL GIORNO IN CUI TUTTO QUESTO SARÀ SOLO UN RICORDO * ..... 61

Palmina Giannini - Felicita e la sua infelicità ............................................................................................... 65

Battista Andrea Giardini - Sognavo delle vesti leggere ............................................................................... 66

Patrizia Girardi - Alla fine ∞ ......................................................................................................................... 67

Salvatore Grieco - Il profumo dell'innocenza ∞ ........................................................................................... 68

Clafiria Grimaldi - Il "viaggio" di un medico attraverso la sua malattia ∞ ................................................... 71

Lorena Gurrieri - Sono quel che sono, la Malinconia ∞ ............................................................................... 73

Barbara Hugonin - Diario di bordo controvento ......................................................................................... 74

Giovanna Iacovone - IL VIAGGIO ................................................................................................................. 76

Luigi (in arte Gino) Iorio - VIAGGIO D'AMORE ............................................................................................ 77

Giovanni La Mantia - Viaggio ...................................................................................................................... 78

Carmelina Lambiase - LA PRINCIPESSA SENZA TASCHE ∞ ........................................................................... 79

Pietro Lapiana - SPERANZA FRUSTRANTE ∞ ................................................................................................ 82

Stefania Laus - TI LASCERÒ ANDARE ∞ ........................................................................................................ 83

Francesco Lena - Il viaggio ........................................................................................................................... 84

Grazia Maria Litrico - Marta è morta .......................................................................................................... 85

Arianna Lorenzetto - Due punti aperte virgolette ∞ ................................................................................... 87

Ornella Mamone Capria - Dillo… che io viaggio sull’amore ∞ ..................................................................... 89

Elena Maneo - Il volo del gabbiano ∞ .......................................................................................................... 90

Alberto Mantovani - In una terra corrotta .................................................................................................. 91

Nicoletta Rosa Lucia Marazzi - Il viaggio di Francesco ................................................................................ 93

Raffaella Marolda - Dentro e fuori di me. Il viaggio tra presente e passato ∞ ............................................ 96

Lucia Marotta - ...............preziosa è la vita! ................................................................................................ 98

Vincenzo Marra - Era il nostro fato ............................................................................................................. 99

Diana Mayer Grego – È TEMPO DI PARTIRE ∞ ........................................................................................... 100

Luca Memeo - Lontano da qui * ................................................................................................................ 102

Marina Modesti - Notte di viaggio ∞ ......................................................................................................... 103

Tiziana Monari - Il viaggio ∞ ...................................................................................................................... 104

Vincenzo Mungiguerra - ANTIGONE (viaggio in treno) ∞ .......................................................................... 105

Marina Napoleoni - Una giornata insieme a te ......................................................................................... 108

Lorenzo Piccirillo - Dio ∞............................................................................................................................. 109

Laura Pingiori - IPPOCRENE ∞ .................................................................................................................... 110

Anna Maria Piria - Quando vorrai che io parta - Vorrei!!! - Illusioni ∞ ...................................................... 111

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Manuela Priolo - 9.551 ∞ ........................................................................................................................... 112

Marina Priorini - Finalmente figlia ∞ .......................................................................................................... 115

Camilla Pugno - Il tuo corpo nasconde posti sconosciuti e bellissimi ....................................................... 117

Lorenzo Raffaini - Giocarci dentro ∞ .......................................................................................................... 118

Paola Ricci - IL VIANDANTE ∞ ..................................................................................................................... 120

Margherita Rimi - DISTURBO RARO ∞ ....................................................................................................... 121

Ornella Sala - I due alberi innamorati........................................................................................................ 122

Marialuisa Sangiuliano - Il Viaggio della Speranza ∞ ................................................................................. 125

Marco Sasso - Uomini rari per malattie rare: viaggio verso sé stessi ........................................................ 127

Gina Scanzani - All’ombra del vero ti ho incontrata ∞ ............................................................................... 129

Paola Schiaroli - Echi del mare ∞ ............................................................................................................... 130

Maria Sordino - Ti aspetto ∞ ...................................................................................................................... 131

Assunta Spedicato - Alla velocità dei piedi ∞ ............................................................................................. 132

Patrizia Stefanelli - DELIRIUM ∞................................................................................................................. 133

Francesco Stolfi - Michele .......................................................................................................................... 137

Benedetta Storti - Beatrice ....................................................................................................................... 138

Maria Ivana Trevisani - Alla fine del viaggio ∞ ........................................................................................... 139

Gabriella Vai - Divino ardore ..................................................................................................................... 141

Gloria Venturini - Il volo infinito ∞ ............................................................................................................. 142

Valentina Veronesi - Un viaggio fantastico ∞ ............................................................................................. 144

Vito Vetrugno - Invito al viaggio ................................................................................................................ 146

Michela Zanarella - Viaggio a fiato libero ∞ ............................................................................................... 147

Sezioni arti visive ........................................................................................................................................... 148

Angela Agresti - Aspettative riflesse ......................................................................................................... 149

Gianfranco Alvisi - In viaggio verso la felicità ............................................................................................ 150

Eva Maria (Evita) Andujar Escribano - Vento vertiginoso o preliquidi 1 ∞ ................................................ 151

Antonio Arnofi - Ulisse ............................................................................................................................... 152

Stefania Asunis - On the road to recovery................................................................................................. 153

Gianluca Bacconi - Bambina che legge ...................................................................................................... 154

Giulio Boato - Scilla, o il mito della febbre mediterranea familiare .......................................................... 155

Andrea Boldrini - Pronti a partire? ............................................................................................................ 156

Cristina Bonanni - PAGLIACCIO ALLEGRO .................................................................................................. 157

Lorenzo Bonanni - IL PASSATO CON UNO SGUARDO AL FUTURO ............................................................. 158

Vincenzo Bossis - Homo Viator .................................................................................................................. 159

Alessandro Bravi - Il viaggio del palloncino .............................................................................................. 160

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Barbara Calcei - Dal ciclo - Le magie di Scanno - "C'ERA UNA VOLTA" ∞ .................................................. 161

Samantha Carletti - Prendi la luna, Giacomino! ........................................................................................ 162

Classe III, Scuola Primaria "C. Sala" di Valbrona (CO) - SALUTI DALLO SPAZIO! * .................................... 163

Alessia Condina - SUMMER ON A SOLITARY BEACH .................................................................................. 164

Luca Coser - SEGGIOLONE VIOLA ∞ ............................................................................................................ 165

Chiara Maria D’Angelo - Il viaggio ............................................................................................................. 166

Anna Maria De Paola - NEW YORK ............................................................................................................ 167

Irena Dombrovskaya - VINCERE LA PESTE ................................................................................................. 168

Ausilia Elce - I mille colori del viaggio ........................................................................................................ 169

Emanuela Ferrari - Viaggio verso la guarigione ......................................................................................... 170

Carla Fiorentini - Il viaggio... ..................................................................................................................... 171

Germana Galdi - Soultwo ∞ ....................................................................................................................... 172

Michele Grimaldi - L'altalena ∞ .................................................................................................................. 173

Laura Grispigni - DIOGENE (cerca l'uomo) ................................................................................................ 174

Reanna Gumiero - IL VIAGGIO: UNA SFIDA ............................................................................................... 175

Metello Iacobini - Thalasso ∞ ..................................................................................................................... 176

Angela Infante, Fabio Bertoldo, Concettina Donzelli, Patrizio Polisca, Giovanni Ruvolo - Io... viaggio solo

con Marfàn ................................................................................................................................................ 177

Giuliana Maggiotti - Il viaggio nel sogno ∞ ................................................................................................ 178

Fabio Masotti - PELLEGRINAGGI ∞ ............................................................................................................ 179

Rosalba Mele - Viaggiare con la Fibrosi Polmonare Idiopatica: si può fare .............................................. 180

Serena Muscas - IL MIO SOGNO LIBERO.................................................................................................... 181

Irena Pavlyshyn - Untitled ∞ ...................................................................................................................... 182

Anna Pino - Punti di vista ........................................................................................................................... 183

Beatrice Rachello - Franceschino ............................................................................................................... 184

Valentina Rimauro - Esalazione del fuoco femminile ∞ ............................................................................ 185

Inna Rogatchi - The might of freedom ∞ ................................................................................................... 186

Michael Rogatchi - MEMORY MIRROR ∞ ................................................................................................... 187

Rossana Ruberti - Il viaggio - cambio di marcia ......................................................................................... 188

Francesca Ruta - Orizzonti allargati ........................................................................................................... 189

Paolo Sandoiu - Campi di tulipani in Olanda ............................................................................................. 190

Vincenzo Scolamiero - Foglia di salice e corda di ferro ∞........................................................................... 191

Gabriella Scuderi - Il mio viaggio lontano .................................................................................................. 192

Catia Seri - L'INCOMPRESO ∞ ..................................................................................................................... 193

Edoardo Spallazzi, Ugo Fangareggi - Ragazzi, in Carrozza! ∞ .................................................................... 194

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Federico Strinati - Trascorrere ∞ ................................................................................................................ 195

Franceschina Taruscio - Senza titolo ......................................................................................................... 196

Daniele Tenca - On the road ...................................................................................................................... 197

Karen Thomas - Il cosmo illuminato ∞ ....................................................................................................... 198

Federico Toso - Viaggio nei miei ricordi * ................................................................................................. 199

Alfredo Dante Vallesi - Altrove ∞ ............................................................................................................... 200

Anna Zulla - Oltre ∞.................................................................................................................................... 201

Mirella Zulla - Costellazione ∞ ................................................................................................................... 202

Finalisti IX edizione “Il Volo di Pegaso” ......................................................................................................... 203

Vincitori IX edizione “Il Volo di Pegaso” ........................................................................................................ 205

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Sezioni arti letterarie

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Manuela Iside Alberti - Ritorno

Lontani… come viaggiatori erranti… come bocche che non si parlano come perle che non si infilano. Dove abbiamo riposto le nostre preziose collane… Noi chiusi in angusti cassetti ! Dove trovare se… non esiste spazio per cercare, dove tornare se… non esiste Patria per restare… viaggio per partire. Noi… duellanti senza piu’ battaglia.

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Patrizia Bacciarelli - ADDIO PAESELLO

C’era un gran trambusto intorno a me, i miei genitori erano indaffarati, sembravano preoccupati, mia madre era sempre presa da mille cose da fare, lei e la nonna spostavano di continuo oggetti e vestiti, inscatolavano e accumulavano cose da buttare… Il sole splendeva alto nel cielo, la brezza marina dava sollievo ai lunghi pomeriggi estivi. Lui era sempre lì, ad aspettarmi, bastava attraversare la ferrovia ed era fatta. Mentre mi avvicinavo, sembrava volesse accogliermi con le sue onde spumeggianti, mi venivano incontro per poi ritrarsi, come un gioco divertente che mi stuzzicava e al quale non resistevo, era il magico mare di Siderno. Quanti giorni trascorsi con lui. Abbandonavo tutti i miei pensieri cupi, era il rifugio nel quale trovavo consolazione. Spesso l’incantesimo veniva bruscamente interrotto dal fischio lontano e familiare di mio padre. Immaginavo già la sua espressione crucciata, mi incitava con gesto del braccio a tornare, ma io non esitavo a trattenermi ancora nella spirale del gioco delle onde, come se mi incoraggiassero a sfidare chiunque volesse interrompere quel divertente rituale. Continuavo come se nulla fosse, poi, con la coda dell’occhio, intravvedevo una figura piccola e minacciosa muoversi frettolosamente verso di me, a quel punto non avevo scampo, dovevo tornare a casa, con la promessa che sarei ritornata appena possibile. Eccolo, mi urlava: “Guarda le tue mani tutte rammollite e guarda le labbra viola!”. Cercavo affannosamente le mie ciabattine, stavano lì, abbandonate sulla sabbia dorata e bollente, saltavo come un capretto per raggiungerle, mio padre mi strattonava verso casa, per essere sicuro che ci sarei arrivata. Rientrare però non mi dispiaceva, la mia adorata nonna cucinava deliziosi manicaretti, dal dolce al salato. Ero ghiotta del pane fatto in casa, lo cuoceva nel suo vecchio forno, si trovava sotto il porticato della casa, poco distante dall'orto, ad una decina di metri c’era il grande pozzo, accanto una vasca di pietra che veniva chiamata in gergo “cebbia”, poi un lungo corridoio di cemento che portava al vecchio lavabo, dove la nonna lavava ortaggi e panni. Nell’angolo opposto, una piccola costruzione di mattoni, dove ai tempi si teneva qualche maialino, di fronte un piccolo gelso e a destra il pollaio con le sue maestose galline e un simpatico galletto ruspante. L'orto era soleggiato per tutto il giorno, una finestra aperta sulla natura, con i suoi preziosi insegnamenti: imparare a conoscere il terreno, prendersi cura delle piante, osservarne la crescita. Era ciò che faceva puntualmente la nonna e i risultati erano eclatanti: melanzane violacee, zucchine verde bottiglia, piselli dalla buccia lucida e color clorofilla, poi ancora insalate variegate, una gioia per gli occhi un tale spettacolo, per chi sapeva apprezzare, ed io mi nutrivo di quei colori, di quei piccoli miracoli. Gran parte della mia infanzia l'avevo vissuta in quella casa, che di fatto non era quella dove abitavo con la mia numerosa famiglia, la mia vera casa era di fronte a quella della nonna. La costruì mio padre, due piani con una bella terrazza vista mare, nel piccolo quartiere di Siderno, dove abitavano anche i miei amici, con loro giocavo trascorrendo al mare gran parte del tempo. Ero stanca delle continue beghe dei fratelli più grandi, quante ne combinavano! Ricordo che Salvatore, per assicurarsi che la gallina avesse l’uovo pronto, le ficcò un bastoncino di legno nel di dietro, povera gallina, non vi dico le arrabbiature della nonna, ormai si era abituata. Ogni tanto partiva una pallonata verso l’orto, venivano centrate puntualmente le piante dei piselli. La nonna le teneva come dei gioielli, una lunga fila di piante sostenute da bastoncini ben posizionati. Avevamo sempre la capacità di farle saltare i nervi. Rimase vedova quando aveva solo trentatré anni, dovette crescere da sola sei figli, uno di loro era mia madre, che ne diede alla luce otto. La nonna si svegliava di buon'ora e serviva la colazione per tutti, pane fresco e marmellata di fichi, versava l'orzo, preparato con la grande caffettiera di vetro americana, regalata da un vecchio zio di Toronto. Rassettava, poi si dirigeva verso il vecchio lavabo e strofinava panni a tutto andare. Era un notevole aiuto per mia madre, allora molto indaffarata, con cinque figli piccoli, gli altri tre erano adolescenti, alle prese con problematiche di ogni tipo. Quel pomeriggio la nonna mi chiamò, era nella saletta dove teneva una vecchia Singer. Lì confezionava vestiti e gonne. La sua vera passione era l'uncinetto, ci lavorava ore ed ore ed il risultato erano vivaci copriletto, altri ricami sarebbero serviti come orlo, che poi cuciva su vecchie gonne. Mi domandò se avessi voglia di andare in spiaggia con lei, a raccogliere la legna che il mare aveva portato a riva dopo la mareggiata del mattino. Il sole era alto e c'era una temperatura sopra la media, quella che arriva dopo una burrasca, quando il vento spazza via le nuvole e il sole impavido fa capolino, a riscaldare gli animi, infatti

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ero felicissima di andare con lei a raccogliere legna, l’avrebbe poi asciugata e usata per il forno. Si avvicinò, dicendomi che prima mi avrebbe cucito un piccolo costumino da bagno, aveva della stoffa elastica, color cipria, ci mise davvero poco a realizzarlo. Dopo averlo indossato mi guardai allo specchio soddisfatta, il costume rosa risaltava vistosamente sulla mia pelle scura. Era anche per questo motivo che adoravo la nonna, riusciva a sorprendermi. Ci incamminammo verso il mare, c’era molto vento, si legò il foulard alla testa, teneva i lunghi capelli legati con un toupet, io li avevo cortissimi, mia madre me li tagliava corti perché erano indomabili , ricci e ribelli, dai riflessi dorati, il sole e l’acqua me li schiarivano. Lungo l'ampia battigia c’erano tanti piccoli tronchetti, rami di ogni tipo, alcuni grossi, altri piccoli, detriti di ogni genere, piccole reti e conchiglie, ne raccolsi un po’ dentro una cesta che la nonna aveva portato con sé, poi disse che era meglio rientrare, c’era troppo vento. Quella sera non mi sentii bene, mi era successa una cosa strana, avevo avvertito come una piccola scossa in testa che mi aveva attraversato da una tempia all’altra. Improvvisamente sentii i brividi su tutto il corpo, un gran freddo, ero rossa in viso e mi bruciava, mia nonna mi vide subito strana e si avvicinò per tastarmi la fronte, era chiaro che avevo la febbre, quando me la misurò prese paura, era alta mi disse. Mi fece stendere sul suo letto e mi coprì bene con un pesante copriletto, si sedette vicino, guardandomi con i suoi occhi tristi, la sua presenza era protettiva, dava sollievo al mio stato di malessere, ero molto fiacca. Il giorno dopo, mia madre andò in farmacia a prendere un farmaco per la febbre, rimasi a letto un paio di giorni, ingoiando uno sciroppo schifoso e amaro come il veleno. Passò qualche giorno ed ero già in forma, forse un po’ dimagrita . Ricordo di essere stata molto peggio quando, non so per quale motivo, decisero che mi avrebbero tolto le tonsille. La nonna sosteneva che la mia febbre fosse dovuta alle tonsille molto infiammate. Non ho mai capito veramente se la sua teoria fosse corretta, ma di fatto tutto ormai era stato deciso. Mi portarono all’ospedale per essere operata. Quello si rivelò il giorno più brutto della mia giovane esistenza. Quella maledetta mattina, mio padre mi prese in braccio, si avvio con passo deciso verso un lungo e fatiscente corridoio. Avvistai in lontananza due medici in camice bianco che si avvicinarono, mio padre mi consegnò, come il Bambin Gesù. I due con le braccia tese cercarono di prendermi, ma io non volevo staccarmi, strattonai per le maniche mio padre, ma gli fui strappata con prepotenza. Mi portarono all'interno di una stanza, spoglia e triste, muri grigiastri, qualche ragnatela sugli angoli dei soffitti, ero terrorizzata e cominciai ad agitarmi. Mi legarono subito con delle cinture, immobilizzandomi, cacciai un urlo rotto dal pianto. In quel preciso istante un medico mi ficcò in bocca il laringoscopio per tenerla aperta, il tempo necessario affinché l’altro compare potesse ficcarmi una pinza in bocca, afferrando le mie povere tonsille, con orrore le vidi cadere dentro una bacinella, assieme al sangue, tutto da sveglia. In quegli anni non esisteva l'anestesia, per lo meno non per questo tipo di intervento evidentemente. Trascorsi interminabili giorni in ospedale con febbre alta, non riuscivo a riprendermi, mi dissero che il mio sistema immunitario era molto basso. Oltre il mare la mia passione erano le rose, le amavo. Vicino alla casa della nonna ce n'erano di bellissime. Avevo sempre saputo che poco distante ci fosse il giardino della famiglia Speziali. Il proprietario era un carabiniere, me lo disse mio padre, l’idea mi incuteva molta paura. Svariate volte mi ero addentrata in quei meandri per scrutare meglio la zona, percorrevo la lunga cunetta che costeggiava le case e la ferrovia, rimanevo incantata dalla meravigliosa vista dei fiori dai variopinti colori, mi avvicinavo sempre più, arrivando esattamente davanti alla casa del carabiniere. Fui catturata dalla vista di bellissime rose rosse rampicanti, cadevano giusto fuori dalla rete, come per donarsi al miglior offerente. Non esitai a lungo per strapparne una, dovetti insistere un attimo perché non riuscivo a staccarla, avevo piegato il gambo ma non riuscivo a spezzarlo, quindi strattonai con impeto, quasi a sbilanciarmi all’indietro, e riuscii nel mio intento. Tornai indietro di corsa, lungo la cunetta, fino ad arrivare davanti al mio orto, osservai le roselline della nonna, altrettanto belle, ma quella rosa era diversa e l'avevo appena strappata al suo legittimo proprietario, pure carabiniere. La cosa mi inquietava alquanto, decisi che avrei dovuto condividere il mio segreto con la mia amica Graziella, amica del mio tempo libero. Lei era in prima elementare, io, essendo nata in marzo, avevo perso l’anno ed ero ancora alla scuola materna. Ricordo la delusione, quando lei cominciò il suo primo giorno di scuola, la guardavo con invidia allontanarsi con la sua cartella nuova sfavillante, mentre io mi ritrovavo con un cestino per la merenda dell'asilo, brutto e malconcio. Un pulmino giallo mi veniva a prendere tutte le mattine davanti a casa, salivo e mi posizionavo nel punto esatto, dove i

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miei fratelli e mia madre mi avrebbero potuta vedere, per salutarmi. Al mio ritorno, nel pomeriggio, mia madre per merenda mi preparava puntualmente un ovetto sbattuto con lo zucchero, lo sbatteva talmente bene con il cucchiaino che il risultato era superlativo, una morbida crema gonfia e leggera… Mio padre era partito con mia sorella, non so esattamente per dove, erano giorni che chiedevo di lui, ma le risposte erano vaghe, per lavoro mi dicevano, me ne ero fatta una ragione. Le mie giornate scorrevano come sempre, protagonista sempre lui, il mare. Arrivò il grande giorno, ora si spiegava il gran trambusto attorno a me, quel fermento ansiogeno che coinvolgeva la mia famiglia e del quale fino a quel momento ero stata completamente ignara. La decisione fu che ci saremmo trasferiti in un'altra città, al nord. Le valigie, ormai vistosamente pronte, ne erano la conferma. Tutti pronti, davanti alla stazione, io e la mia numerosa famiglia, mancavano all’appello mio padre e mia sorella Maria che erano partiti un mese prima per sistemare la nuova dimora, ed attendere il nostro arrivo. Il treno stoppò la sua corsa con grande frastuono alla stazione di Siderno. Attese con pazienza che tutti i passeggeri salissero sulle carrozze. Fui presa per mano da mia sorella maggiore e aiutata a salire, mentre le valigie furono caricate da un amico di famiglia, che trafelato ci sistemò in un vagone. Essendo in nove persone, fummo divisi in due scompartimenti. Mia madre teneva in braccio la mia sorellina Cinzia di nove mesi, la nonna teneva il fratellino Carlo, mentre Salvatore, Antonio e Antonella con l’altro fratellino Bruno, si sistemarono nello scompartimento accanto, li sentivo chiacchierare animatamente. Si udì un fischio, il treno poco dopo cominciò a muoversi, poi lentamente si avviò, notai del movimento fuori dal finestrino, gente che salutava, le case si allontanarono, rividi il mare di un azzurro turchino, il cielo terso, sentii lo stridio di rondini volteggianti, il treno passò davanti alla vecchia casa della nonna, con grande stupore rividi tutte le mie amiche e le loro famiglie salutarci animatamente, poi divennero piccoli puntini neri, fino a sparire del tutto, e… Addio Paesello!!!

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Dino Bellin - Esserci nella vita

“… Adesso conto fino a tre, e al mio tre ti sveglierai ricordando tutto…” Queste parole mi risuonavano nella testa mentre guidando l’auto stavo tornando a casa. Chissà come mi era passato per la mente quando ascoltando le parole di un amico mi recai da un analista per sottopormi a una terapia con l’ipnosi per ricordare la mia infanzia. Questo perché nelle ultime assemblee di UNITI, l’Associazione Italiana di malati di ittiosi, vedevo i genitori partecipanti con quanta dedizione si preoccupavano per i figli, come diciamo noi, “baciati dalla Ittiosi”. Dei primi dieci anni di vita non ricordavo niente di particolare. Evidentemente fino ad allora avevo vissuto sotto la calda protezione di mia madre, di quella grande immensa cupola che ti protegge da tutto, ma senza grossi affanni. Cara mamma. Fin dai tempi delle prime cartoline spedite dalla colonia per bambini, sino alle lettere inviate da militare, e tutti i biglietti di auguri per le feste inviate alla famiglia, tutte iniziavano sempre con: “Cara mamma…” Il papà c’era? Si certo, ma non si interessava molto degli affari di famiglia. Lui lavorava per mantenerci. In più andava a pesca, a funghi, a erbette selvatiche e a qualsiasi cosa commestibile pur di cercare di rendere vario il magro menù visto che la sua paga da operaio non consentiva a mantenere i cinque figli. Gli strani problemi che quel figlio aveva, proprio non li capiva. Erano gli anni cinquanta e forse si usava così con i figli. Dovevano crescere “granitici”. Restava qualche ricordo dell’appena passato ventennio. Perciò i miei ricordi di inizio vita vanno a quel giorno. Quando torno con i ricordi all’infanzia il punto di visione è sempre lo stesso; a mentre mi massaggio il viso cercando di lenire il dolore. Sento la mano scivolare sul naso bagnato e sento un gusto dolciastro in bocca. Sono disteso per terra e butto sangue dal naso. Quel disgraziato del “Moro”, un ragazzo di qualche anno più di me, che poi finì i suoi giorni in carcere, mi aveva mollato un pugno sul naso. Mi aveva chiamato “Rogna” e mi ero buttato su di lui colpendolo con un calcio ma poi finì con un suo pugno. Fu la prima lotta della mia vita per convivere con l’Ittiosi. Adesso sulla soglia dei settanta anni, seduto davanti al caminetto con la pipa in bocca mi piace pensare come sarebbe stata la mia vita se non fossi nato con quella strana malattia che mi rendeva la pelle secca e squamosa, lenita solo da abbondanti applicazioni di creme varie. L’Ittiosi! Il periodo più nero fu quando iniziai le scuole dopo le elementari. C’erano tre indirizzi nelle medie inferiori di allora, che avrebbero segnato il destino dei futuri adulti: le medie, le commerciali e le industriali. Io, ovvero i miei genitori, scelsero per me la scuola a indirizzo commerciale. Già mi sentivo fuori posto. I fratelli maggiori avevano fatto le “industriali” cioè a indirizzo professionale. Dovevano diventare bravi operai mentre io, per la mia fisicità dovevo fare l’impiegato. Ci impiegai cinque anni per superare i tre anni normali di istruzione. Alle elementari, scuole fatte nel paese natio, ero sempre tra i primi della classe. Ero uno dei capogruppo delle tre squadre che il maestro aveva diviso nella classe per aumentare la competizione e l’interesse scolastico. Sempre con ottimi voti. Improvvisamente nel nuovo ambiente scolastico nella città di Mestre, non capivo più la logica dell’insegnamento. Prendevo quattro nei compiti di matematica, anche se era la mia materia preferita. Due nei compiti di italiano. Storia e geografia non capivo a cosa servissero. Eccellevo in ginnastica, sette. Ma anche sette in condotta che voleva dire bollato come irrequieto. Negli anni 50 molte case non avevano l’acqua in casa. Io ce l’avevo ma non lo scaldabagno. L’acqua la si scaldava nella stufa a carbone e il bagno si usava farlo 1 volta alla settimana nel mastello di legno dove si lavava la biancheria. Il dermatologo che allora mi seguiva e che con me aveva per le mani il suo primo caso di Ittiosi mi consigliò di usare della vaselina salicilica per tenere morbida la pelle anche se la ungeva maledettamente. Il problema del prurito continuava a tormentarmi e di conseguenza, grattandomi, avevo sempre le unghie nere, nonostante le tenessi corte. Quando finii le medie i miei amici erano tutti alle superiori e così decisi di andare a lavorare. Trovai subito occupazione presso una ditta edile e giravo per i cantieri a portare ordini e segnare le presenze degli operai. Con i primi soldi che guadagnai e visto che per la specificità del lavoro avrei dovuto girare molto, i miei genitori mi accordarono l’acquisto di un motorino, i famosi quarantotto di cilindrata che si potevano

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portare dopo i sedici anni e senza patente. Fu la mia prima rivincita sulla vita. Quando alla sera ci si trovava al bar con gli amici, quelli che studiavano, loro arrivavano chi a piedi e chi in bici; io arrivavo in motorino. Il mezzo di trasporto aveva il suo fascino anche con le ragazze. Iniziò così un altro periodo di confronto-scontro per difendere le conquiste femminili. Il vantaggio acquisito con il motorino andava sempre più scemando. La presenza fisica assumeva un ruolo importante e cominciava a pesare la diversità della pelle. Fu allora che formulai la seguente preghiera: "Signore non occorre che mi fai diventare ricco nella vita, mi basterebbe solo avere la possibilità di comperarmi le migliori creme per il corpo”. Nella certezza che la mia preghiera potesse essere esaudita dovevo fare qualcosa per superare il momento critico. Più che critico ero in uno stato di grande confusione, forse normale per l’età in cui si lasciano le certezze della fanciullezza per affrontare i dubbi della pubertà e quando gli ormoni impazziscono e ci si vede sempre brutti. Io no, anzi… Spesso mi trovavo a guardarmi nello specchio della camera da letto. Capelli neri e lisci, occhi leggermente a mandorla e pelle del viso olivastra. Mi chiamavano “il cinese” e mi vantavo nel raccontare che i miei avi erano al seguito di Marco Polo ma… senza sapere se erano come principi o come schiavi. Sotto la denominazione generica di “Ittiosi” si possono contare almeno venti variazioni diverse e la ricerca non era finita perché alcune persone affette non presentavano la mutazione genetica fino allora conosciuta. La mia, la “lamellare” lascia il viso e i palmi delle mani immuni dalla secchezza tipica che si manifestava in tutto il resto del corpo. In inverno, l’epoca in cui si iniziava a organizzare le festicciole tra ragazzi nei garage di qualcuno, con musica religiosamente lenta, le pastine e la coca cola e con la luce spenta durante il ballo, mi sentivo talmente bene che ero il più accanito organizzatore di tali feste. Beato l’inverno quindi. Si poteva avere un contatto ravvicinato con le ragazze (va ricordato che eravamo nel pieno dei casti anni sessanta) e starci in lieta compagnia. Per i maschi era di rigore la camicia a maniche lunghe con la cravatta e per me era una vera gioia. Più difficile era gestire l’estate, le maniche corte e il collo delle maglietta aperto. Le uscite al mare mi facevano sentire come un “viveur” ma che aveva preso troppo sole e gli si era seccata la pelle. In ogni caso di quelle estati giovanili ricordo poco, troppe complessità da gestire. Mi ricordo bene di quando ero più grandicello intorno ai diciassette anni. Mi iscrissi in una palestra di boxe. Quel pugno di tanti anni prima mi convinse che la miglior difesa era l’attacco. Così pensai che, novello Robin Hood, potevo difendere le mie conquiste femminili da eventuali molestie di altri ragazzi. Avevo un bel fisico, alto e asciutto e poteva essere una buona strategia. Ma dopo sei mesi di intensi allenamenti l’allenatore ritenne giunto il momento di farmi salire sul ring. Guantoni, casco, paradenti mi trovai a affrontare un ragazzo di qualche anno più vecchio di me che doveva sgrezzarmi. Mi difendevo bene. Guardia alta, sinistro di disturbo e qualche destro portato a segno. Forse troppo. Il disgraziato non si divertiva e approfittando di una distrazione mi colpì violentemente al viso. Il naso cominciò a sanguinare. Rimasi per un attimo interdetto. Poi vidi in lui il “Moro” del pugno sul naso di tanti anni prima. Reagii violentemente scagliandomi su di lui colpendolo ripetutamente con una serie di sinistri e destri fino a farlo cadere per terra. Mi fermai e scesi dal ring. Buttai i guantoni e il casco in un angolo e me ne andai. Capii che la violenza non era il miglior modo di reagire alle contrarietà della vita e mi vergognai della rabbia che era cresciuta in me in quella occasione. Qualcosa nella percezione della vita cambiò più tardi e produsse un effetto benefico sulla personalità. Se la violenza era una cosa stupida saper menar le mani al momento giusto era importante e così entrai a far parte di una squadra di rugby, dove era proibita la violenza ma si poteva menar le mani. L’ambiente rude e maschio dello spogliatoio, prima mi imbarazzò... capite! Spalmarsi la cremina sul corpo nudo dopo la doccia, non era il massimo ma, o mangi la minestra o salti dalla finestra, così decisi di affrontare subito il problema. “Ragazzi devo incremarmi perché ho una malattia genetica della pelle, l’ittiosi, che mi rende la pelle secca” “ Senti della crema non me ne frega niente” si alzò alto il capitano della squadra, “ma se sbagli un altro placcaggio ti faccio cambiare la pelle a calcioni.” Mi passò una birra e finì tutto in una grossa risata collettiva.

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Oggi, ripensando a come sono stato esaudito nella preghiera fatta anni prima, con la disponibilità finanziaria di acquistare i migliori prodotti dermatologici per tenere la pelle idrata, credo di capire il turbamento dei miei anni giovanili e la necessità di guardare sempre in avanti e di cercare nuove soluzioni di vita senza rimpiangere il passato. Ripensandoci bene tutta la vita l’ho passata a cercare degli ostacoli da superare proprio per non fermarmi a pensare alla mia Ittiosi. A ventuno anni mi sposai perché la fidanzata rimase incinta. Questo fatto portò a farmi fare un altro scatto in avanti: non avevo tempo di pensare agli affanni della pelle ma dovevo lavorare per mantenere una famiglia. La manualità ereditata dai genitori mi portò a fare un corso di elettrotecnica ed iniziai a lavorare come tecnico di manutenzione esterna su apparecchi di fotoriproduzione. Fu un salto qualitativo importante. Avevo superati i fratelli e molti amici nella scala gerarchica della qualificazione professionale. Andavo spesso a Milano a fare corsi di aggiornamento spesato di tutto e obbligatoriamente si risiedeva in hotel di qualità prenotati dalla ditta per cui lavoravo. Quando anche un lavoro così entusiasmante entrò nella quotidianità tentai un colloquio con una ditta multinazionale di macchine contabili. L’esperienza acquisita nell’organizzare un lavoro esterno e una discreta, anche se sofferta, nozione di contabilità delle famose “commerciali” mi fecero passare i test impegnativi (che allora si usavano nelle aziende americane) superando i non pochi concorrenti. L’abitudine ai corsi esterni mi dette sicurezza in questa nuova avventura. Assunto dalla nuova ditta, iniziai a fare una serie di corsi sulle macchine elettrocontabili. Entrai nell’aula assieme ad altri colleghi tecnici molto più anziani di me per affrontare l’istruzione sulla nuova macchina, una selezionatrice di assegni in uso nelle banche. Tre macchine erano pronte (senza i chassis esterni) per essere smontate pezzo per pezzo e essere poi rimontate. Si faceva sia la pratica che la teoria. Una serie di manuali TUTTI rigorosamente in inglese per spiegarne la funzionalità erano dati in dotazione a ogni tecnico. A prima vista la macchina mi sembrò un mostro. Si trattava di un complesso di quaranta cassetti impilati uno sull’altro dove si depositavano gli assegni. Quaranta stampanti che ne registravano gli importi. Quaranta totalizzatori che ne sommavano le cifre. Cinghie che trasportavano gli assegni nel loro cassetto. “Mamma dove sei! Perché mi mandi in colonia dove i ragazzi più grandi mi prendono in giro per la pelle! Mi vergogno… non ce la faccio…” Non ce la faccio a imparare a riparare questa macchina. I colleghi sono diplomati; io ho solo la terza commerciale dove peraltro si studiava come lingua straniera il francese. “Mamma dove sei!!!” Fui l’ultimo ad avvicinarsi alla “selezionatrice di assegni”. Mi grattavo il collo ma non certo per la pelle secca. Furono cinque anni pesanti dove ogni sera, vocabolario alla mano, traducevo parti del manuale per capire bene il funzionamento della macchina infernale. Non fu l’ultimo ostacolo che affrontai nella vita per la sete di riscatto, per sentirmi uguale e forse, migliore di chi era nato senza il “bacio della Ittiosi”. In un anno superai gli esami dell’Istituto Tecnico e mi diplomai in elettronica. Passai a fare il tecnico sui Calcolatori elettronici. Sei mesi di corso a Roma per imparare tutto sulle CPU, gli Hard disk, unità a nastro, le stampanti. Arrivato a questo punto, a quarantacinque anni di età e alle soglie del terzo millennio, vedevo che la pelle migliorava, forse per l'avanzare dell'età o per la migliore alimentazione o sicuramente per la disponibilità di nuove creme idratanti e per questo non avevo più nessuna sfida da anteporre all'Ittiosi. Il benessere conquistato mi permise di avere una casa con la doccia ed il bagno turco per una maggiore e profonda idratazione della pelle, la vasca da bagno con idromassaggio, la possibilità di avere tutte le creme che volevo e ciò mi faceva sentire molto, molto NORMALE. Decisi così di vivere la mia nuova vita in tranquillità; mi misi a lavorare in proprio appunto per poter fare serenamente quello che nella vita avevo sempre voluto e che avevo sempre sperato di fare senza più competere con l’Ittiosi.

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Massimo Bencivenga - Bon voyage! ∞

Sulla mano mi è caduta una goccia di pioggia, attinta dal Gange e dal Nilo, dalla brina ascesa in cielo sui baffi d'una foca, dalle brocche rotte nelle città di Ys e Tiro. Sul mio dito indice il mar Caspio è un mare aperto, e il Pacifico affluisce docile nella Rudawa, la stessa che svolazzava come nuvoletta su Parigi nell'anno settecentosessantaquattro il sette maggio alle tre del mattino. Non bastano le bocche per pronunciare tutti i tuoi fuggevoli nomi, acqua. Dovrei darti un nome in tutte le lingue pronunciando tutte le vocali insieme e al tempo stesso tacere - per il lago che non è riuscito ad avere un nome e non esiste in terra - come in cielo non esiste la stella che si rifletta in esso. Qualcuno annegava, qualcuno ti invocava morendo. E' accaduto tanto tempo fa, ed è accaduto ieri. Spegnevi case in fiamme, trascinavi via case come alberi, foreste come città. Eri in battisteri e in vasche di cortigiane. Nei baci, nei sudari. A scavar pietre, a nutrire arcobaleni. Nel sudore e nella rugiada di piramidi e lillà.

Quanto è leggero tutto questo in una goccia di pioggia. Con che delicatezza il mondo mi tocca. Qualunque cosa ogniqualvolta ovunque sia accaduta, è scritta sull'acqua di babele. Immersa nella poesia, Marzia non si accorse dell’uomo che si sedette accanto a lei sul treno. Era così presa che non s’accorse neanche dello strano rumore che precedeva l’uomo. Ben vestito, robusto e con la carnagione scura, la donna avvertì un accento dolce quando l’uomo le disse: “Buongiorno”. Marzia avrebbe scommesso su una sfumatura sudamericana. Chiuse il libro, non le era mai piaciuto che qualcuno, in treno o in aereo, sbirciasse le sue letture. Le sembrava quasi una violazione della sua intimità. Dal canto suo, l’uomo non perse tempo ad aprire il suo portatile. L’immagine di sfondo era un dipinto, bellissimo e malinconico a un tempo, che non mancava mai di strizzarle lo stomaco. “E’ un professore di Storia dell’Arte?”, cinguettò Marzia, che spigliata, volitiva e curiosa com’era non perdeva occasione per attaccar bottone, specie se riteneva d’aver individuato un terreno comune. Il largo sorriso di risposta produsse delle rughe agli angoli degli occhi che, unitamente al color verde opale degli stessi, alla carnagione esotica e alla spruzzata di grigio sulle tempie, le restituì un’immagine sincera, aperta, singolare ed esotica dell’uomo. “Sono un medico… In un certo senso”, rispose. “In che senso, scusi?” “Nel senso che a volte mi sento più un… filosofo naturale, se capisce cosa intendo. Sono un medico in senso stretto, anche specializzato, più volte a volerla dire tutta, ma sempre più spesso mi sento un esploratore sulla frontiera della scienza.” “Un po’ Fringe? Non credo di capire”, disse con un sorriso Marzia, lasciando subito dopo aderire le spalle

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alla delicata imbottitura. L’uomo sospirò, alzò lo sguardo verso un punto lontano, sulle labbra aleggiò quello che sembrava un sorriso. Si girò verso Marzia inchiodandola ancora di più al sedile con quegli occhi così particolari e le parlò. Poi niente fu più come prima. “Per secoli i medici son stati anche altro. Gerolamo Cardano fu un insigne matematico, ma si procurava da vivere facendo il medico e, incredibile a dirsi, l’astrologo. Già, faceva oroscopi. Medico era anche Luigi Galvani, quello delle rane, se ricorda l’esperimento con l’elettricità. Medico era pure Hermann von Helmholtz, tra i pionieri della Termodinamica. E medico era altresì il sommo Thomas Young, uno che parlava 12 lingue, un esperto di geroglifici e profeta della teoria ondulatoria della luce, in contrasto con Newton; che però era Newton e pertanto l’ebbe vinta sino a un secolo fa. Medico era Daniel Bernoulli, che studiando la pressione sanguigna arrivò a mettere a punto l’equazione dei fluidi che permette agli aerei di volare.” L’uomo fece una pausa, tornando a guardare la donna bionda la suo fianco. Osservò i capelli, il volto cesellato da zigomi alti e una bocca forse troppo grande, ma mobile ed espressiva, sexy e simpatica a un tempo. Infine, gli occhi parvero indugiare sul profilo che il seno, che s’intuiva generoso, disegnava sul castigato tailleur della donna. “E per secoli, la medicina e la chirurgia son state in competizione, anzi, mutuamente esclusive tra loro. E’ tempo di tornare indietro, al Rinascimento, quando scienza, tecnologia e arte erano complementari. Insieme all’alchimia, che tanto ha dato alla chimica moderna, e alla magia, intesa però sempre in senso rinascimentale. Poi la rivoluzione scientifica ha diramato tutto, creando sempre più delle compartimentazioni stagne. E’ tempo di operare una sutura. Di fare un nuovo viaggio, indietro e avanti al tempo stesso. ” Nuova pausa. “Questo può sembrare qualcosa di magico, ma è scienza. Conoscenza e tecnologia miscelate insieme.” Pronunciate queste parole, girò verso di lei il portatile. “Il viaggio dell’uomo nella conoscenza ci ha portato a questo: questa è una nanomacchina. Un veicolo lungo alcuni miliardesimi di metro. E questa è…” Batté alcuni tasti e sul desktop apparve una figura ancora più stramba; a Marzia sembrò il layout futuristico di una casa pensata da un architetto molto, molto creativo. “Voilà… A proposito, io mi chiamo Nathan; e lei?”, chiese. "Marzia. E diamoci del tu.” “Bene. Voilà Marzia, stai guardando una VLP, vale a dire una virus-like particles, ossia particelle virus-simili. Questa struttura, in tutto e per tutto simile a un virus, è una scatola vuota. La puoi riempire con qualunque cosa. Qualunque agente patogeno o cura intendo. Sto andando a Roma per eseguire una delicata operazione all’occhio.” “Quindi sei un oculista?” “No. Sono un medico specializzato in bioingegneria e altro. Operando con una consolle tattile, guiderò all’interno dell’occhio la nanomacchina, che veicolerà le VLP contenenti una proteina di origine murina in grado di contrastare una malattia poco nota chiamata cheratite neurotrofica.” “Ma è fantastico!”, batté le mani Marzia. “Già, sembrano realizzarsi alcuni sogni. O incubi.” La faccia rabbuiata di Marzia, lo indusse a continuare. “Per secoli medici, naturalisti, scienziati e alchimisti hanno ricercato la panacea universale, quella in grado curare ogni male. Nella Venezia dei Dogi, c’era la realizzazione della Teriaca, la presunta panacea composta da sessantaquattro ingredienti, con al centro di tutto la carne di vipera. Era una grande festa, venivano in viaggio da tutta Europa ad assistere, ma la melassa, lo sciroppo che ne derivava, non curava nulla. Con questa tecnologia possiamo attaccare le malattie in maniera mirata, con i giusti farmaci, riducendo gli effetti collaterali. Pensa a un farmaco tumorale che arrivi e combatta solo la lesione senza influire in modo sistemico sulla salute del paziente.” “Appunto, dicevo. E’ fantastico!” “Crei una cura, crei un’arma. Se io ho una cura, un vaccino o un antitodo, posso infettare una nazione nemica e aspettare che crepino. E poi…”

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“E poi…?”, titubò Marzia. “E poi le VLP possono veicolare anche agenti patogeni. Le stiamo strutturando per metterle in grado di superare la barriera emato-encefalica, la barriera che protegge il nostro cervello dalla maggior parte degli attacchi batterici e virali. Insomma è una cura e un’arma, come i farmaci, del resto. Ma la speranza, ciò che rimase, con i mali in giro, nel Vaso di Pandora ci deve spingere a una conoscenza consapevole”, disse tutto d’un fiato, e poco dopo s’udì un suono elettronico. “Cos’è?”, si allarmò Marzia. “E’ la mia gamba. E’ una protesi realizzata grazie alle teorie di Miguel Nicolelis, un grande neuroscienziato brasiliano, che fece camminare con un esoscheletro un paraplegico all’inaugurazione dei Mondiali di calcio. Solo che nessun vide il prodigio. Nicolelis è brasiliano come me.” “Non sei italiano?”, obiettò Marzia. “Sono stato adottato a 12 anni. Sono nato vicino Manaus, ai margini della foresta amazzonica, la farmacia del mondo.” “I tuoi genitori adottivi erano medici?” “No, commercianti. La mia passione per la scienza è nata con la scoperta di un esperimento un po’particolare.” “Che esperimento?” “Nel 1927 Thomas Parnell decise di dimostrare la natura liquida della pece. L’esperimento è ancora in corso. E siamo nel 2017. Ecco, fu quella tenace pervicacia a farmi intraprendere il viaggio nella conoscenza.” Sospirò ancora. Parlarono ancora. E ancora. “Scusami, mi spiace aver interrotto la tua lettura. Tu cosa fai nella vita?” “Sono avvocato, e quella era una poesia di…” Un cicalio segnalò loro l’ingresso nella stazione di Roma Termini. “Il nostro viaggio sta terminando”, osservò Marzia. “Quello della conoscenza è in corso. E sta accelerando.” “Perché l’immagine delle mani di Dürer sul computer?”, domandò Marzia prendendo il suo trolley. “Mi piace pensare a mio padre come a un uomo che, distrutto dalla fatica, scelse di abbandonarmi dai missionari cattolici per regalarmi un futuro migliore. Mi piace pensare a mani distrutte dalla fatica in preghiera per il figlio. Ma più probabilmente era un semplice farabutto ubriacone come tanti da quelle parti.” Scesero. “Nathan”, sussurrò Marzia. “Sì?” “Io sono avvocato, ma mi occupo di marketing.” “Sei una bella persona a prescindere, Marzia.” “E la poesia era L'acqua, di Wislawa Szymborska.” “Mi sembrava bella. Buona giornata.” “Ciao.” Due ore dopo, all’inizio dell’operazione e rivolto alla nanomacchina, Nathan disse: “Bon voyage!”

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Alessia Bernardi - Tu, il mio viaggio…

Ti guardo ad occhi chiusi, figlio mio, ed entro dentro di te per camminare in quella casa segreta che sei, arroccata nel paese dell'incomprensibile. Ferma davanti a quel cancello chiuso ricoperto di spine io ti osservo con gli occhi di un altro: non ti muovi, non parli, forse non comprendi. Un muro di assordante silenzio ti circonda: se non fossi tua madre avrei paura di quell'apparente vuoto di senso e distoglierei lo sguardo da te; forse fuggirei per trovare riposo in una casa meno oscura, più accogliente. Ma io conosco quel cancello, porto da sempre la chiave di te in quello spazio profondo e doloroso dove risiede la mia anima; i lupi ed i mostri che circondano la tua essenza sono miei amici, e le porte della tua mente incomprensibile si aprono al mio passaggio. Entro in quel giardino dove non ci sono fiori, cammino in quello spazio nebbioso che è la tua vita e trovo la porta di te: è il tuo sguardo, e negli occhi noi ci riconosciamo e ci scopriamo ogni volta come se fosse la prima, in un incontro che non si trova in nessun tempo conosciuto. Entro. L'ingresso è fatto di scale verso luoghi in cui non ho potuto portarti, negozi in cui non siamo potuti entrare, vacanze che non abbiamo potuto fare, porte troppo strette che non hai attraversato, spiagge e mari che non hai potuto vedere. Sono ripide salite in cui era impossibile inerpicarsi, montagne che abbiamo guardato con amarezza e con rabbia. Oggi osservo da lontano questi luoghi ancora sconosciuti con la malinconia del tempo in cui non trovavamo riposo, ma con la calma di chi ormai sa di avere un porto conosciuto ma nuovo ogni giorno dove ha costruito la sua casa. So bene dove andare, per aprire una porta dove tu possa entrare: è quella porta che io stessa ho scavato con le mani nella pietra dura dell'esistenza, affinché tu potessi esserci. Accarezzo quelle pareti di roccia ruvida dove trovo i segni delle unghie che ho consumato per farti entrare e ti porto per mano, ancora una volta, a camminare dentro di te. Ed eccoti nel luogo dove gli sconosciuti hanno pietà di te, dove imbarazzati fingono di non vederti, dove le sopracciglia si aggrottano e dove io sono oggetto di pena. È la stanza che io attraverso da anni, con te: qui ho imparato a fingere di non vedere quegli sguardi, a scivolare su chi non capisce e a camminare di fretta per portarti altrove, alla ricerca di un posto dove gli occhi si posino sull'uomo che sei e non sul bambino che non sei stato. Attraverso quegli sguardi sfuggenti a testa alta: sono gli sguardi liquidi di chi non comprende e di chi non conosce. Ma tu mi hai insegnato la dignità, mi hai insegnato la forza e mi hai condotta con il tuo esserci in luoghi altri dove noi esistiamo, io e te. Cammino con te e in te, sorda e cieca in quel mondo lacrimoso dove siamo trasparenti, verso una porta che conosco bene: si apre su una stanza dolorosa e cruda, quella dove sembriamo muoverci in un labirinto. Qui, nel freddo, si spostano frenetici tutti i medici che ti hanno visitato e misurato; tutti gli infermieri che ti hanno spostato, girato, dissanguato; tutte le persone che volevano qualcosa da te. E tu piangevi, o rassegnato sospiravi, chiuso nel tuo silenzio. Ti ho spinto io da una parte all'altra di questa stanza infinita, dove tutti ti studiavano e dove la tua preziosa unicità veniva svilita dalle tabelle e dai numeri. Qui tante volte ho pensato di cedere, piegata da un'umanità che non trovavo. In questo luogo gelato io ho urlato tante volte il tuo silenzio dolorante, ti ho portato via in braccio per curarti dalle ferite procurate da chi avrebbe dovuto guarirti. Per trovare l'uscita di questo luogo infernale ho impiegato anni: anni che erano i tuoi. Perdonami se puoi, figlio mio. Lungo questa strada che conosco ormai così bene io lascio andare la colpa ed il tempo perduto, e ti porto con me in un altro spazio: apro la porta dei luoghi dove sei stato accolto, dove sei stato visto. La mia anima si può fermare a riposare per un attimo, e posso guardarti circondato da chi ti ha preso per mano nel tuo viaggio così unico, così prezioso e così difficile. In questa stanza tu sei diventato persona, sei stato riconosciuto e sei stato abbracciato: sei stato un fratello, sei stato un amico, sei stato un alunno, sei stato un compagno di vita. Hai imparato ed hai insegnato: qui tu sei stato importante, figlio mio. In questo luogo dove non fa più freddo, finalmente hai potuto essere te stesso ed hai potuto raccontarti ed ascoltare, hai potuto vivere la tua vita di bambino, di ragazzo e poi di uomo.

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Ti ho osservato da lontano per questo tempo, seduta su una panchina in un angolo, pronta ad alzarmi per raccoglierti ad ogni tua caduta. Ti ho guardato camminare mentre potevo riposare per qualche momento le mie ginocchia, ogni anno più stanche, ma non il mio cuore di madre: ho guardato le tua vita cambiare e ti ho guidato come ho potuto, scegliendo le mani altre che ti avrebbero accompagnato. Ho avuto paura ad ogni mutamento, sono stata una donna piccola e spaventata; le mie notti sono state insonni in questa stanza senza letti in cui poter chiudere gli occhi, ma qui sono stata felice per te, ho pianto le lacrime che sciolgono ogni fatica, ho abbracciato con te le persone che ti hanno amato in luoghi e tempi in cui io non dovevo esserci. È in questa stanza che abbiamo trovato un modo, diverso e raro come te, di sorridere e di esserci. Attraversiamo questa stanza per aprire l'ultima porta davanti alla quale mi trovo sola. Sospiro accarezzando l'antro del tuo spazio più profondo, la camera dove so che ci sei tu. In questo viaggio così lungo e così faticoso in cui ti ho accompagnato, io ho impiegato anni per raggiungerti. Ho camminato con te mentre ti cercavo: ti ho trovato in un luogo vicino eppure così nascosto; ho raggiunto la tua anima di bambino ed è lì che mi sono spogliata delle delusioni, delle lacrime e della tristezza per quello che non sei stato e che non hai potuto. Qui tu sei, in quello spazio dove siamo tutti, in quella camera dove non siamo altro che essenza. Non devo bussare perché mi hai già sentita arrivare: sei tu che mi apri questa porta e mi sorridi, e mi accompagni per mano. Qui sei un bambino, sei un ragazzo e sei un uomo; qui i miei capelli bianchi tornano scuri, i segni della fatica ed i dolori di questo cammino si dissolvono in questa stanza dove mi accogli, ed io torno bambina e donna e madre. "Vieni, mamma", mi dici. Questa stanza la conosci solo tu, sei tu che mi hai guidato a scoprirti in questo luogo dove siamo bambini e vogliamo solo essere accolti. Mi conduci per mano e mi porti al centro di questo posto meraviglioso e pieno di luce dove siamo io e te. "Eccomi", mi dici. Ti guardo e sei splendido, figlio mio: un essere meraviglioso e unico, perfetto. In questo luogo io sono te e tu sei me, e riconosco nei tuoi occhi la potenza dell'esistenza, il senso, il Tutto. Qui noi ci abbracciamo e ci conosciamo da sempre, ci riconosciamo e ci comprendiamo senza bisogno di parole, perché è qui che siamo nati ed è qui che il mondo non esiste. Abbiamo attraversato le tempeste della disperazione ed i deserti della solitudine per tornare nel luogo da dove siamo venuti e ritrovarci, figlio mio. In questo tempo e in questo spazio noi siamo perfetti, non abbiamo bisogni, non sentiamo fatiche, non abbiamo paure. Qui non c'è altro che noi, figlio mio. In questa stanza io non ho sbagliato, qui non sono stata troppo né troppo poco. Qui riconosco in te il mio guardiano in questo viaggio in cui ho conosciuto quella terra meravigliosa e perfetta che sei. Qui io fermo il mio cammino, qui finisce il mio viaggio: con te ed in te, figlio mio, io resto.

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Maria Giuseppina Buongiorno - L'acqua del mio giardino ∞

Ho viaggiato in lungo e in largo per cercare le piante più belle e fiori di ogni colore ora allietano la vista e mille odori i sensi. Non ho trascurato i grandi alberi ed è alla loro ombra che mi sono assopita a riposare. Un violento temporale ha distrutto la vecchia fonte e disperso le mie acque. Le mie piante ora hanno sete ma io non ho più acqua con cui dissetarle. Devo partire! Non so se portare con me tutti i semi per salvarne una parte o allontanarmi dopo un ultimo sguardo. Sarà un viaggio coraggioso il mio lungo corsi mai percorsi. Sarà un viaggio pieno del ricordo di tutti i fiori e di tutti gli odori del mio giardino.

Le mie nocche busseranno su porte chiuse e i miei occhi invocheranno vita. Le mie labbra asciutte supplicheranno di bere e il mio corpo smunto e stanco un momento di ristoro. Viaggerò per mari e monti e tornerò per ricostruire l’antica fonte e ridare acqua al mio giardino. Tornerò portando con me un filo di stelle ed un raggio di sole a scaldarmi le mani!

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Maria Pompea Carrabba - La saggezza dell’uomo in punto di morte ∞

Necessaria alla vita l’abbiamo esclusa, poiché indecente l’abbiamo scartata, convinti dal mondo siamo tentati di dimenticare, dimenticare di andare tra i passi. Sbiadito il culto della memoria non c’è tempo di pensare a lei e pur di non pronunciarne il nome ne facciamo spettacolo pur di non arrossire e turbare non le diamo voce ma drammaticamente ed inesorabile arriva come nemica negando a volte quel doloroso abbraccio delle ultime volontà e lontano dagli altri muore la morte imprevedibile mistero della vita. Il dolore e la morte non più raccontati ai bambini, è morto l’uomo che più non vive della morte. Ma se comprendi che solo un battito di ciglia è la tua vita allora quando muore l’altro ne capisci senso e valore e lei, la morte aperta alla speranza dell’infinito si fa sorella. Sarai allora come quell’uomo che divenuto saggio in punto di morte va scoprendo il ricordo dei colori della vita del suo romanzo, il sapore di colei che ora diviene amica, il sapore di quell’ultimo suo appuntamento!

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Angela Catalini - Il cimitero dei bambini ∞

Suor Marie ne aveva viste tante da quando si era stabilita in Uganda, ma era la prima volta che vedeva un albino africano. Si presentò alla Missione insieme alla madre, una donna minuta con un altro figlio attaccato al seno e una vistosa ferita sulla fronte. Fuggivano dalla guerra, dalla fame e dai trafficanti. Il piccolo albino si chiamava Deian, la pelle rovinata dal sole sembrava carta ingiallita e aveva i segni della malnutrizione. Suor Marie li accolse con gioia e insieme alle altre suore, gli prestò le prime cure. Deian, come accadeva a molti albini africani, era stato rapito per essere venduto a uno stregone, ma era riuscito a fuggire e a ricongiungersi con la sua famiglia. Così diversi dagli altri, con pelle e occhi chiari, gli albini erano considerati magici, portatori di sventura e quindi pericolosi. Venivano stuprati, uccisi e mutilati; sangue, pelle e organi erano gli ingredienti utilizzati per preparare pozioni vendute al mercato nero a prezzi altissimi. Suor Marie aveva un talento eccezionale con i bambini e più erano difficili da trattare, più era stimolata nella ricerca di un canale preferenziale per entrare in contatto con loro e guadagnarne la fiducia. Con Deian stabilì subito un ottimo rapporto, attraverso la musica riuscì a farsi capire e in breve tempo il bambino si fidava di lei a tal punto che le raccontò della breve prigionia dove c’era un bambino con la fronte all’indietro. “Cosa ne è stato del bambino?” gli chiese la suora. Deian si guardò intorno per accertarsi che nella medicheria non ci fossero orecchie indiscrete. Poi abbassò la testa e rispose. “Lo hanno gettato in una buca insieme agli altri.” La suora si portò la mano alla croce che portava al collo. “Chi erano gli altri?” gli chiese. Stavolta Deian la guardò negli occhi e lei vi lesse l’orrore. “Erano bambini come lui, con la testa piccola come quella dei pigmei.” Da quel giorno suor Marie non faceva altro che pensare ai bambini che finivano in una buca nel fango, alla mercé delle bestie della savana. Ogni volta che guardava la piana di sabbia rossa che si estendeva per chilometri sotto un cielo piatto come un ferro da stiro, pensava al cimitero dei bambini nati con una deformità, sepolti senza una preghiera o una carezza. Ogni quindici giorni un medico faceva visita alla Missione per vaccinare i bambini e portare le medicine di prima necessità, perché l’ospedale più vicino distava parecchi chilometri e le strade erano spesso impraticabili. Il medico era una donna, si chiamava Amèlie Duvall e aveva sempre un sorriso e una parola buona per tutti. Era uno dei tanti medici volontari che avevano lasciato le comodità del proprio paese per andare a vivere dove mancava tutto: cibo, salute, dignità e diritti civili. Suor Marie le parlò del piccolo Deian e le raccontò della strage di bambini infermi che le aveva tolto il sonno. La dottoressa Duvall fu molto colpita da quella vicenda e intravide i contorni di un dramma più vasto, per questo motivo decise di fare delle ricerche approfondite. Il villaggio in cui viveva Deian si trovava vicino a un lago, gli uomini pescavano o coltivavano riso. Durante i periodi di siccità, si spostavano a nord, vicino alle città o alle strade principali, dove organizzavano mercati improvvisati tentando di vendere prodotti artigianali e manioca. La dottoressa Duvall contattò un collega che si era spinto fino in quelle zone per avere informazioni sulla salute delle popolazioni e per conoscere l’eventuale rischio epidemiologico presente sul territorio. Scoprì che quell’area era infestata di zanzare, perché l’acqua stagnante e l’umidità, soprattutto nel periodo estivo, ne favorivano la riproduzione. Si erano verificati casi di infezione, ma erano circoscritti e comunque i sintomi non duravano oltre una settimana. Sintomi che avevano interessato a macchia d’olio tutta la popolazione che viveva a ridosso del lago. “Nulla di allarmante, febbricola, mal di testa, dolori articolari, eruzioni cutanee e a volte congiuntivite. Non c’è di che preoccuparsi considerando le condizioni igieniche in cui vivono laggiù” le disse il collega. Amèlie cominciò a fare delle ricerche e scoprì che nel 1968 c’erano stati dei casi di microencefalite riconducibili al virus Zika, isolato per la prima volta in un macaco nel 1947, proprio in quelle zone.

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Prelevò campioni di sangue, saliva e urina e li inviò all’Istituito Epidemiologico per analizzarli. I test evidenziarono anomalie negli anticorpi compatibili con la presenza dell’infezione virale Zika. Quello che non poté prevedere, è che le zanzare infette si diffusero, depositando le larve sulle piante, nelle cavità di alberi, all’interno di pneumatici usati, negli abbeveratoi, sulle grondaie e in altri oggetti concavi in grado di contenere acqua. In questo modo attraversarono i confini dell’Uganda fino al Sudamerica. Il virus si propagò a tal punto che ben presto l’opinione pubblica venne a conoscenza di questa nuova minaccia che non solo poteva provocare danni al feto in fase di sviluppo, ma era anche la causa di una gravissima malattia neurologica conosciuta con il nome di Guillain-Barré. Oggi l’infezione del virus Zika è stata circoscritta e l’Italia non è considerato un paese ad alto rischio. Tuttavia c’è la possibilità che la zanzara tigre diventi il vettore di questo microrganismo anche in Europa. A tutt’oggi non sono ancora disponibili farmaci o vaccini.

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Claudia Cavalcanti - Mamma e Satumata Satumata è caduto dal tetto. È così che ci siamo incontrati. Ha pianto per almeno due ore prima che riuscissi a scovarlo. Era talmente minuscolo che davvero non lo vedevo. Ho guardato nell’erba filo per filo, un filo alla volta come un artigiano che intesse un tappeto pregiato. Seguivo la voce strillare, ma che voce potente anche se stridula. Come una trombetta. È tra due piccoli steli di margheritine selvatiche che l’ho sentito molliccio. Per un attimo ho ritirato la mano, ma poi ho trovato il coraggio. L’ho preso senza stringere troppo e l’ho alzato. Era tutto di ossa pieghevoli, più piccolo della mia mano con la pelliccetta bagnata e piccoli artigli sparati nel cielo. Strillava con la minuscola bocca così spalancata che si vedeva la gola. Così ho visto una cosa tremenda, ho avuto paura e di scatto l’ho lanciato via. Ha un occhio malato, bruttissimo, come avesse un grande tumore. Mi ha fatto davvero impressione. Corro subito in casa e torno con un fazzoletto di carta. Lo riprendo con il fazzoletto in una piccola piega del collo. E lo guardo. È orribile. Magro e con l’occhio malato. Io non lo voglio. Corro in fondo al giardino e lo consegno al mio giardiniere. “C’è un regalo per te,” gli dico e glielo consegno. “Grazie” mi risponde gentile, e lo prende. Sono fiero della mia opera buona, ho salvato un gattino sperduto e malato, gli ho trovato un padrone e, felice oramai ritorno alle mie cose da fare. Solo un ora più tardi decido di uscire. Lo ritrovo di nuovo davanti al portone di casa, ancora piangente e con il tumore sull’occhio. Mi guarda con l’occhio buono e mi chiede di aver cura di lui. Guardo ancora la sua piccola bocca con le labbra nere lucenti che urla e lo sollevo ancora una volta, stavolta senza il fazzoletto, cercando il coraggio di guardarlo più da vicino. Scopro che se lo metto di profilo dalla parte dell’occhio buono, sembra quasi normale. Certo è piccolo e magro, ma di profilo è quasi normale. Lo avvolgo in una tovaglia di casa e lo porto con me, c’è un veterinario a due passi da qui, posso farlo vedere da lui. Il veterinario mi dice che l’occhio malato va operato subito e che va rimosso ma che potrebbe morire per l’intervento. È un po’ troppo piccolo per superare la prova. Devo decidere per la sua vita. “E se muore?” Gli chiedo. “Succede” mi risponde. “A volte si muore.” “Ma se lo lascio così col tumore nell’occhio? ” “Forse morirà presto lo stesso. ” “Ma non è sicuro che morirà?” Gli chiedo agitato. “No. Non è sicuro che morirà.” Mi risponde tranquillo. Devo decidere io e non c’è nessun altro elemento. Ma perché proprio io di punto in bianco devo decidere della vita di questo gattino? Se me ne vado e lo lascio qui o lo riporto tra i fili d’erba dove lo ho trovato avrò comunque io deciso per lui. Forse io sono compreso nel suo destino? Comunque ora non ne posso più uscire. Decido di farlo operare. Resterà per la notte nella piccola clinica, domani mi faranno sapere. In farmacia compro le medicine per mamma e torno a casa. Sono farmaci inutili anche se li prende lo stesso. Da quando papà non c’è più mamma non ha più la memoria. Non ha più il cervello. Dicono che la sua malattia si chiami l’Alzheimer. È una malattia molto brutta per quelli che ci ragionano sopra. Per i malati invece la malattia non esiste. Perché non si rendono conto di averla. Mamma sembra addirittura felice. Canta, balla e sorride spesso. Ogni tanto le propongo un dettato e lei scrive molte parole. A volte costruisce dei soprammobili. Ieri per sbaglio ha mangiato una mosca caduta dentro al bicchiere. Ha passato dieci minuti a cercarsi la mosca sulla lingua e tra i denti. Quando poi l’ha

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trovata ha capito che le mancava un aletta. L’aletta non è riuscita a trovarla. L’avrà ingoiata con quel suo sorriso un po’ storto. Abbiamo riso moltissimo insieme, pur senza parlare. Da quando mamma ha l’Alzheimer ci vogliamo più bene, la malattia le ha lasciato solo l’amore. I suoi dispiaceri sono andati via con la mente. Sono spariti. Come ogni giorno, anche oggi, andiamo a passeggio. Passiamo dalla strada del bosco. È una strada incantata piena di fiori di tutte le forme e distese di foglie verdi gialle e marroni. Camminiamo e schiacciamo con i piedi le foglie e come bambini che giocano, ridiamo a sentirne il rumore. Gli alberi hanno un’ aurea di luce. Pioppi giganti con rami che sembrano braccia. Mani che vibrano, salutano, si prendono cura di noi. Angeli che vegliano sui nostri destini. Gli uccelli cantano a tutte le ore con instancabile brio . Camminiamo. Io le tengo la mano e lei me la stringe, si lascia guidare. Si fida. Sono parte di questa bellezza. Delle piccole cose. Delle semplici cose. Delle cose lontane dalle cose complesse del mondo. Noi siamo all’osso. In un osso prolifero e solido. Lo diceva sempre papà, se stai male devi andare nel bosco. E aveva ragione. Perché il bosco ti cura e non ti tradisce. A volte mamma cambia direzione. Si perde. Prende una strada sbagliata, ma io la riporto sul sentiero sottile e marcato che ci guida fino al nostro bistrot. Prima dell’ingresso al bistrot c’è una vetrina di oggetti magici indiani. Lei si incanta davanti agli oggetti anche senza parlare. Me ne indica uno. Sempre uno in particolare. Nel negozio hanno detto che è un lingam. L’anima che è seduta nel cuore ed in tutte le cose. E come è difficile tornare a sentire di questa anima per quelli che oramai non la sentono più. Ma noi la sentiamo. Più ora che mai. Fin da giovane mamma era attratta dall’arte orientale. E questo suo amore residuo oggi la porta per mano. La guida in uno spazio pulito. Senza preoccupazione. E io amo il suo mondo e non importa che lei non veda più il mio. Un passo alla volta arriviamo al bistrot e ci sediamo per una tisana di malva. Mentre giro lo zucchero nella tazzina al bistrot, compare una signora smemorata come lei. Si siede a fianco a noi. È la prima volta che la vedo. Si sorridono dal primo momento come due vecchie amiche che si ritrovano dopo tantissimi anni e quegli anni non sono passati. Quante cose da raccontarsi nel loro strano linguaggio. Sorridono e si mostrano i bottoni della giacca. Libere e ariose. Incastrate in un puzzle perfetto di parole scombinate. Li guardo anche io quei bottoni. Larghi di plastica grigi, lucenti con un filo bianco nel mezzo. Bellissimi. Perle di grande valore. Un tesoro che una con l’altra si mostrano. Prima una poi l’altra, con le bocche spalancate e ridenti, orgogliose. Anche io ho un bottone nella mia giacca. Voglio mostrarlo. Far vedere anche io quanto è bello. Me lo afferrano in due con grande stupore. Piace molto il mio bottone. Ora abbiamo un tesoro di bottoni di plastica. E anche i polsini del maglione e i bordi delle gonne. Prendiamo la tisana. Ridiamo ancora come bambini nei banchi di classe. Poi ripieghiamo il tovagliolo in mille forme diverse con le nostre mani oneste. Ci alziamo, la riunione è finita. Ci ringraziamo. Ci salutiamo. Ci vedremo di nuovo presto. Con grande piacere. Riprendiamo la strada di casa, rischiacciamo le foglie coi piedi. A casa è tutto tranquillo. Mamma è un po’ stanca. L’aiuto per andare a dormire. Nella mia cameretta ripenso al gattino. A Satumata. A quella manciata di piccole cose. Quando ho lasciato la clinica ha spalancato il suo unico occhio per farmi capire che aveva paura ma era fiero di me. Combatteva per farcela. Non mi avrebbe deluso. Poi me ne vado a dormire. Prima di chiudere gli occhi immagino che tutto l’amore del mondo vada da Satumata e che sia protetto per tutta la notte. Spero davvero di vederlo di nuovo. All’improvviso mi manca, mi manca Satumata. Lo immagino in una bellissima bolla dorata. E così mi addormento tranquillo.

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Un’ora prima che apra sono già alla piccola clinica. Fa freddo, è di prima di mattina, ma io non posso aspettare. Devo sapere se Satumata si è risvegliato. Aspetto qualcuno che venga ad aprire e provo a chiamarlo: “Satuuu.” Non arriva nessuna risposta. C’è solo l’abbaiare di un cane. Riprovo: “Satuuuuu.” Ma niente. Minuto dopo minuto trascorre questa lunghissima ora, finalmente arriva il dottore, ha la faccia un po’ cupa, mi abbozza un sorriso. Non parla. Gira in silenzio la chiave e apre il negozio. “Siediti” dice e sparisce in una stanza chiudendo la porta. Io mi siedo in silenzio. Forse Satu non ce l’ha fatta. Aspetto altri dieci minuti. Il dottore riesce. “Entra” mi dice e mi indica una piccola gabbia. Entro in punta di piedi, trattengo il respiro, con le braccia mi aiuto per camminare più piano e non fare rumore. Mi avvicino alla gabbia di sguincio, sospeso nell’aria. Lo vedo, è raccolto come una piccola palla. Lo chiamo “Satu.” apre il suo unico occhio e mi guarda. Si alza e barcolla sulle sue quattro zampette. Sbadiglia. L’occhio mancante gli è stato cucito. Adesso sembra un pirata. È vivo! D’istinto raccolgo le mani, piango e ringrazio. Ringrazio la vita che non ci ha abbandonati. Mamma e Satumata si sono amati dal primo momento. Lui zompetta con grande energia dal letto alle sedie ai termosifoni e mamma si diverte a corrergli dietro. Cerca di prenderlo e lui dribbla veloce come una lepre. Si nasconde e così mamma aguzza l’ingegno. La notte dormono insieme. Sospendono i giochi e dormono con la pancia rivolta al soffitto e le braccia alzate sopra la testa. Ogni tanto mamma lo guarda e controlla che sia ancora lì. Anche Satumata di notte apre il suo occhio e la guarda e quando è sicuro che è tutto tranquillo lo richiude e dorme sereno. Capita che si guardino insieme, nello stesso momento. Quando succede restano immobili con le braccia alzate a fissarsi per ore. Lui senza un occhio e lei senza cervello. Tra di loro non ci sono mancanze. Non ci sono bruttezze. In alcune occasioni può bastare un occhio soltanto per vedere quello che del mondo è importante, e non sempre serve avere il cervello per entrare nel linguaggio del cuore.

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Daniela Ceccato - Il mio viaggio

Comincia qui il mio viaggio, passeggiando sulla spiaggia quasi deserta. Siamo partiti all’alba per godere appieno gli ultimi scorci d’estate. I nostri ragazzi ci precedono e parlano fitto fitto tra loro. Noi, mano nella mano, li seguiamo in silenzio. L’emozione a tratti mi assale Ripenso a quand’erano bambini e si veniva qui con palette e secchielli. Quanti castelli sulla sabbia… non c’era limite ai nostri sogni. Un gabbiano vola basso e mi riporta alla realtà. Cosa mi aspetta alla fine del viaggio? Sdraiata al sole con gli occhi chiusi ascolto le onde infrangersi sugli scogli. E’ stata proprio come un’onda improvvisa la mia malattia, ha trascinato alla deriva tanti castelli che avevamo costruito per noi: un buon lavoro, una vita serena e magari, d’estate, il meritato riposo al mare. Poi si impara a non fare programmi, almeno non a lungo termine. Provo a mettere le briglie ai pensieri e guardo gli aquiloni variopinti che si librano nell’aria legati ad un unico filo. E’ il giovane che li governa che decide dove portarli. Così per i miei pensieri: voglio guidarli io! Leggerezza e gioia ci accompagnano durante il pranzo. Impariamo un nuovo gioco con le carte, battute e scherzi, parlando di tutto e di niente, persino qualche risata. Cos’è questo andare continuo della mente ai ricordi del passato?

Sarà forse l’adenoma impazzito a mandare dall’ipofisi i suoi messaggi? Dovrò decidere presto quale terapia intraprendere, una questione importante. Certamente quanto basta per non dormire bene la notte, per non gustare fino in fondo i bei momenti da vivere insieme. Guardo indietro alla strada percorsa: i figli cresciuti, così belli, così pieni di vitalità e di progetti, già così maturi per la loro età… Se guardo avanti mi sale un groppo in gola per la paura di non poterli seguire come vorrei con l’inizio del nuovo ciclo scolastico alle superiori o al corso di break-dance… “Suvvia”, mi dico, “sono in grado di farcela, sono allenati nello stirare e cucinare, si sanno spostare in autonomia”. Ma non è questo che mi spaventa, lo so. “Vivi adesso, respira…” Un mantra ripetuto per cacciare indietro le lacrime. Alzo gli occhi e vedo un aquilone che vola alto, liberato. E’ proprio quello che mi piace di più, dev’essere sfuggito di mano a qualche incauto bambino o forse al ragazzo degli aquiloni incontrato sulla spiaggia. Le onde spumeggianti sono un richiamo irresistibile e gli altri sono in acqua già da un po’. All’improvviso decido di farmi abbracciare dal mare anch’io. Non so nuotare ma mi immergo finché l’acqua non mi accarezza le spalle. E piano piano le onde lavano via i ricordi tristi, i cattivi presagi e tutte le fatiche e le amarezze del mio viaggio. Ad occhi chiusi mi abbandono al vento e alle onde. Percepisco le voci intorno ma in quest’istante sono sola, finalmente in pace con me stessa. Si avvicina il crepuscolo e giunge l’ora di rimettersi in viaggio. Quale viaggio? La serenità di oggi si contrappone ai dubbi sul domani in un gioco di luci ed ombre. Quello che vorrei sapere, ma non so, è cosa mi aspetta alla fine del viaggio.

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Antonella Cipriani - Nel tunnel ∞

Cos'è la vita, se non un lungo viaggio di cui nessuno può decidere la partenza e l'arrivo? Chi stabilisce luogo,

classe sociale, genitori, colore degli occhi e dei capelli, con quel corredo unico e irrepetibile che caratterizza

ognuno di noi? Avete mai pensato a questo grande mistero? Io sì. Penso spesso ai misteri della vita. Non

avevo ancora cinque anni che, una sera d'estate, chiesi a mio padre:

- Può l'uomo andare su una stella?

- Le stelle sono come il sole, non si possono raggiungere - mi rispose.

- E perché sono così piccole?

- Perché sono molte lontane.

Lontane, sì, ma quanto? Dove finiscono? Mi perdevo nella magia di quel mare di cielo buio.

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Donatella Colacicco - I nove giorni di Toni

SMS del 20 febbraio Viaggio in treno schifoso. Zio Carmine mi porta stamattina al Day-Hospital di Reumatologia. Quando arrivi? A Milano diluvia e le cugine fanno un casino bestiale. Non posso dormire. Voglio tornare a casa! Toni "Lagamba Antonino… Chi è?" l’Infermiera del Day-Hospital, con una lista di nomi in mano, si sgolava a cercare il paziente, con aria insofferente. La sala d’attesa era piena di gente, Toni se ne stava in piedi, in un angolo, vicino alla porta d’ingresso, pronto a scappare via non appena possibile. Appena sentì il suo cognome, si incamminò, di mala voglia, verso lo studio medico del Day Hospital. “Sei tu Lagamba Antonino? chiese scortesemente l’infermiera. Toni annuì a testa bassa. “Su, su che il Dottor Fabbri non ha tempo da perdere. Hai mangiato?” Toni la guardò sorpreso: “Beh, ho preso un cappuccino e una brioche, prima di uscire…” “Accidenti… Vi informiamo sempre di stare a digiuno, quando venite in Day Hospital!!!! l’Infermiera aveva la voce alterata.” Peggio per te, così dovrai tornare dopo-domani per il prelievo!!!”. Toni era frastornato e stava per risponderle in malo modo, quando fu spinto nello studio, dove il Medico sfogliava la sua cartella clinica. “E via, Adele! Non spaventi subito questo ragazzo! E’ già abbastanza teso, mi pare!!! Dunque, lei è arrivato qui inviato dal suo Medico Curante…” “Sissignore – rispose Toni, a voce bassa, seduto sulla sedia, davanti al medico. Al paese mio non furono capaci di dire quale malattia tenevo!!” Il medico continuava a studiare i documenti sanitari, con la fronte aggrottata. “Da quanto tempo le si è abbassata la vista?”

“ Saranno tre anni… solo all’occhio di destra, a sinistra ci vedo bene!” “E accusa spesso cefalea? Toni capiva poco e il medico precisò: "Mal di testa, intendevo!” “Spesso, no… Direi… una volta al mese... Devo stare al buio, sdraiato, in camera mia almeno tre ore, poi mi viene da vomitare – con rispetto parlando, e, quando mi libero, tutto mi passa…” “Mi fa vedere le formazioni sotto la pelle, di cui parla il suo medico?” Toni stese le mani e le braccia. “Sono dolorose assai e crescono veloci, specie qui, alle giunture – il ragazzo indicò i gomiti e le falangi delle dita..” Poi, da un anno, quando c’è freddo, non sento più la punta delle dita delle mani , e mi spavento, perché pare come se non ci fosse il sangue che circola!!” “Bene – concluse il Medico, mentre segnava al computer la serie degli esami del sangue, che Toni avrebbe dovuto eseguire. In quel momento, rientrò l’Infermiera, che si era allontanata, per coordinare l’invio dei prelievi in laboratorio. “Lo faccio ritornare mercoledì. Deve fare anche l’anti-citrullina e l’anti-topoisomerasi?” Toni la osservò sbigottito. Sibilò a sé, fra i denti: “Citrullo e topo a mia?” Il dottor Fabbri lo congedò sorridendo e l’infermiera gli disse di aspettare fuori, per sapere quando doveva ritornare. Mentre usciva, Toni si scontrò con una giovane infermiera, che stava uscendo, tutta indaffarata, dall’altro studio. “Scusa, non ti avevo visto…” – si scusò la ragazza. “Colpa mia - replicò Toni- ero distratto…” In quel momento uscì Adele con la lista in mano: “Lagamba Antonino!!!! Dopo-domani ore 8 precise” La ragazza parve interessata: “Ma sei siciliano?- chiese con un sorriso?” Toni, finalmente rilassato, sorrise: “Sì, di Caltagirone” La ragazza lo prese sotto braccio e lo condusse fuori: “Sono pure io siciliana, nata a Paternò. Sto qua a Milano, da mia cugina, perché studio da Infermiera. E tu, dove abiti? Si erano avvicinati al distributore di bevande e Toni fece cenno alla ragazza se voleva qualcosa. “No, grazie. A proposito. Io mi chiamo Lucia. Tu sei Antonino, vero?” Toni la osservò bene: era piccola, ma ben fatta, due profondi occhi neri e i capelli scuri raccolti, dietro la nuca. Il sorriso fantastico. “Toni, per gli amici – rispose, gongolandosi un poco – e abito, qui vicino, a casa di mio zio Carmine.” “Che fortuna! Anch’io abito qui vicino, così potrò aiutarti a capirci un po’, di questo casino!! Se vuoi…”- Toni sorrideva, felice: all’improvviso gli erano passate tutte le paturnie del lungo viaggio che aveva fatto in treno, da solo, senza sapere a che cosa sarebbe andato incontro.

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Aveva rimosso la paura dell’ignoto, di fronte alla malattia e al lungo percorso che avrebbe dovuto fare per arrivare ad una diagnosi. E poi trovare la cura giusta!!!! Ma esisteva una cura giusta? “Beh, ora devo andare, Toni - dammi il tuo numero di cellulare, così ti chiamo e lo memorizzi. Magari ci vediamo stasera, prima di cena” Mentre si allontanava, il ragazzo la rincorse: “Scusa, Lucia, ma perché devono vedere se sono citrullo?” “Ma che dici, Toni? – Lucia rise di cuore – Ah, certo! Uno degli esami del sangue!!! Cercano degli anticorpi particolari. Sta tranquillo, poi ti spiego tutto stasera. Ciao”

SMS del 21 febbraio Ho conosciuto una ragazza delle parti nostre che studia da infermiera. Stasera ci vediamo, così mi spiega tutto. Stai pure con mia sorella. Non c’è fretta per venire a Milano. Ciao. Toni.

SMS del 23 febbraio Quella bastarda mi ha tolto mezzo litro di sangue!! Ho un livido al braccio destro!! Toni era stato male durante il prelievo di sangue. Tra il caldo insopportabile, l’ipoglicemia, la tensione e la fretta dell’infermiera il ragazzo era svenuto sulla sedia, nella saletta dei prelievi. “Come stai, Toni?” gli chiese Lucia, arrivata in quel momento. Il ragazzo la guardò, torvo”. A quella la sistemo io, prima o poi, maledetta!” e fece cenno in direzione dell’infermiera Adele. Lucia si girò in quella direzione: “Ma lascia perdere. Toni, dai!!! Adesso aspetta che ti dicano quando devi tornare”. Il ragazzo era spazientito: “E quanto ci vuole? già tre giorni mi hanno fatto perdere!!!” “Per la salute, non bisogna avere fretta, Toni! Non mi hai raccontato che da tre anni cercano di farti una diagnosi?” Il ragazzo abbassò la testa, arrabbiato e rattristato. “Su, adesso stattene lì buono, che poi stasera dobbiamo uscire!! Ciao”

SMS del 24 febbraio Qua il carnevale dura fino a domani!! Stasera facciamo festa a casa di amici, con le cugine e Lucia. Ciao. E da voi, come va?

SMS del 24 febbraio Tua sorella è stata di nuovo dimessa, dopo una trasfusione di sangue. Sto a casa sua. Riguardati. Mamma

SMS del 26 febbraio Mi devono fare un esame. CAPILLAROSCOPIA (sta scrivendo Lucia) e poi una visita dall’oculista. Ciao Toni aspettava, sbuffando, il suo turno, in uno dei tanti ambulatori medici, che si affacciavano sul vecchio corridoio. Dopo circa un’ora, si alzò dalla sedia rassegnato e gettò uno sguardo fuori dal finestrone che dava sul giardino interno. Si accorse che stava di nuovo piovendo. In un istante pensò a casa sua, all’azzurro del mare suo, alle serate con gli amici, al profumo di zagare, in primavera ed un senso di stordimento lo prese, in maniera subdola e opprimente. Finiti gli esami, lo riportarono nello studio del Day Hospital, dove al posto del dott. Fabbri sedeva una giovane dottoressa, con un bel pancione, da gravidanza avanzata. Il ragazzo si sentì rassicurato, nonostante il fare sgarbato di Adele, che gli faceva cenno di spogliarsi e di sdraiarsi sul lettino. La dottoressa, sorridente, lo visitò accuratamente. “Vedrai, presso arriveremo alla diagnosi giusta e alla terapia”. “Ma quanto ci vorrà?”- le chiese a bassa voce il ragazzo. “Ecco, vogliono tutto subito questi!!!- interloquì in maniera offensiva l’infermiera, mentre passava al medico gli esiti di alcuni degli esami del sangue di Toni. La dottoressa divenne tutta rossa, per la collera, ma non disse nulla. Si rivolse di nuovo al ragazzo, in tono allegro: “Presto! Ancora qualche giorno, poi potrai tornare a casa, con tutto il piano di terapia. Per ora, ti do un nuovo appuntamento per dopo-domani: dovrai vedere il mio collega genetista.” SMS del 25 febbraio Ancora senza risultati. Con Lucia abbiamo deciso di fare il viaggio di ritorno in aereo perché lei ha poco

tempo. Ti dirò quando arriviamo all’aeroporto di Catania.

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SMS del 1° marzo Ultimi esami pronti dopo-domani. Partiamo sabato mattina. Toni non era riuscito a chiudere occhio tutta la notte; aveva la sensazione di dover affrontare una terribile condanna a vita. Lucia gli aveva dato appuntamento direttamente davanti allo studio medico, perché il suo turno cominciava alle 7 e Toni sarebbe rimasto inutilmente ad attendere l’apertura del Day-Hospital. Quando arrivò, prima delle 8, Adele si dava già da fare a chiamare a voce alta i pazienti e il ragazzo si mise in fondo alla sala d’attesa, perché la sola voce sgradevole lo infastidiva. Dovette aspettare più di un’ora, prima che l’infermiera gli facesse cenno di entrare dalla specialista. “Oh, bene!! Come va? – disse la dottoressa, sorridendogli. Finalmente abbiamo concluso tutto il percorso un po’ noioso - guardò Toni negli occhi - che ti ha fatto abbastanza tribolare in questi giorni!!! Sei affetto da una malattia che si chiama SCLEROSI SISTEMICA. Non ti spaventare. Noi sappiamo come curarla! Ora ti abbiamo preparato un piano di terapia, che potrai seguire facilmente a casa tua. Resta inteso che dovrai tornare a Milano fra circa tre mesi, per il controllo. Ti lascio il mio indirizzo e-mail e il mio numero di cellulare, così, se avrai qualche problema o se il tuo Medico volesse confrontarsi con me, mi troverete sempre disponibile”. Toni la guardò incredulo: “Vuol dire che posso tornare a casa?” “Ma certo.- rispose la specialista- Non sei stanco di stare in questa città?” Il ragazzo sorrise, suo malgrado e si diresse verso la porta, dove lo aspettava Lucia. “L’infermiera ti consegnerà tutti i referti e la documentazione da consegnare al tuo Medico Curante” La dottoressa si alzò a fatica, a causa del suo pancione e gli strinse la mano. Lucia lo prese sotto-braccio e si diresse verso la macchina del caffè: Toni se ne stava a testa bassa, frastornato ed incredulo. “Beh, non sei contento di tornare in Sicilia?- chiese Lucia, per cercare di fargli coraggio. “Lagamba!… Lagamba! – gridò Adele con la sua solita voce sgradevole. Qui, alla mia scrivania!!” Toni si avvicinò, svogliatamente all’infermiera. “Ecco, caro mio, tutto quello che ti servirà. Devi tornare il 3 giugno alle ore 8, DIGIUNO!!! E ricordati di ringraziarci, perché in pochi giorni- Adele si mise a sfogliare i documenti – esattamente… uno… due… sei… solo NOVE accessi in Day-Hospital ti porti a casa il tuo Codice Erre, così avrai tutto gratis, d’ora in poi!!!” Toni prese fra le mani tutti i fogli e guardò Lucia, che gli stava accanto. Il CODICE ERRE?!?! Il timbro della malattia. Di scatto, distolse lo sguardo dalla ragazza, perché si sentiva gli occhi pieni di lacrime…

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Sara Comuzzi - Solo le rondini capiscono ∞

Ho lasciato il deserto dove ogni cosa nasce ed invecchia senza mai maturare. Ci saranno ancora strade ad aspettare le nostre scarpe. Le coincidenze afferrate o lasciate andare, quasi per gioco. L’avventura di un trovatore, a scavare nell’oro, perché una volta raggiunto, si accorge non essere quello che stava cercando. A chi l’hai chiesto in prestito, il tempo di fare e disfare valigie? Quando pensi sia tutto finito, cambia città, ascoltane le grondaie. Il traffico, un gregge di promesse: Sto arrivando. Sarò lì in 10 minuti. E poi, due ore e mezza dopo… Ho cercato di seguire le briciole, ma non mi hanno riportato a casa. Mentre scelgo la prossima meta, tu alla stazione, saluti con la mano. È un ricordo lontano, è a malapena verità. Ora che i miei viaggi sembrano fughe, ma sono ricerche, sponsorizzate da tentativi ed errori, in aeroporti o treni, dove non possiedo niente. La scoperta inammissibile. Il bisogno di andare: a volte, solo le rondini capiscono. Si ridurrà ad una guerra di arrivi e partenze, tieni il calendario di quando non ci sono. Guardo fuori dal finestrino, in attesa del prossimo campo, il prossimo luogo, veloce a trapassare i miei occhi senza chiedere scusa.

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Elena Coppari - Lo porterò al mare ∞

Lo porterò al mare, ho deciso. Una sensazione di disagio, quasi un morso della coscienza, se ne avessi una, mi pervade. Mi avvicino al finestrino e guardo la città dall’alto: è estranea anche da lì. Sono mesi, anni, che non ci torno ed è tantissimo tempo che non vedo Davide, anzi neanche l’ho più pensato. Scendo dall'aereo e recupero i bagagli. Ho solo un borsone con me, perché non rimarrò a lungo, non posso assentarmi dal lavoro e non voglio. Mi tratterrò giusto il tempo di regalargli un ricordo: un ultimo viaggio insieme. So che in questo momento mi sta aspettando in quella casa dove sono nato, accudito dalla badante assunta negli ultimi mesi. Non la conosco perché al funerale di mamma non sono andato, ero a una convention a Washington. Ho incaricato la cugina Adele delle pratiche per le onoranze funebri e poi l’ho ampliamente rimborsata. Ecco la mia fermata. Scendo dal tram, che ho preso per raggiungerlo, e salgo le scale esterne del palazzone grigio. Ogni scalino dei tre piani che percorro è come se rappresentasse un piccolo pezzo in un puzzle che compongo e quando arrivo al pianerottolo ho in mente la sua ultima immagine: un ragazzino di nove anni, alto e magro, allampanato, che ride sempre ai miei scherzi di quasi uomo di venti. Siamo stati molto uniti. Lo facevo giocare con le figure ritagliate, lo portavo al parco, anche se ogni tanto le sue gambe cedevano e dovevamo sederci. Parlava poco e male, eppure ci capivamo. Poi ho avuto l'occasione della mia vita e durante gli anni ho perso l'amore e il ricordo, che ora m’investe come questo vento caldo, il Foen, dimenticato anche lui. Apro la porta con le mie chiavi: ancora funzionano. Che puzza. Odore di vecchio, di umido, di vomito, di medicinali e di chiuso mi assalgono. So che lui è peggiorato negli ultimi tempi, me lo diceva mamma quando mi costringevo a telefonare, una volta o due al mese. La malattia lo trascina indietro nell'evoluzione: arrivato a un certo punto di sviluppo tutto quello che ha imparato, è tolto pezzo per pezzo. Per prima ha dovuto rinunciare alla vista, poi alla parola, alla deambulazione ed alla minzione spontanea. Eppure rimango sconvolto quando entro nella stanza e trovo un fantoccio, un vegetale disteso sul letto di quello che era mio fratello. Neanche i lineamenti coincidono più. Ho davanti un vecchio di diciannove anni. Mi avvicino: due occhi liquidi, grigiastri, si fissano sui miei, sopra la mascherina per l'ossigeno che gli chiude quella bocca che poco ha parlato, ma molto ha sorriso. "Ciao" dico, quasi a me stesso, mentre fisso tutti i tubi: ha perso anche la respirazione autonoma, deduco. Non ci sono reazioni, nessun effetto al mio saluto. Entra nella stanza una signora grassottella sulla cinquantina "Buongiorno! La aspettavo un'ora fa" dice con fare indispettito. "Scusi, non dipende da me... sa l'aereo..." abbozzo. "Sì, sì! Ma ora devo andare! Sono cinque giorni che mi occupo di lui notte e giorno e non ho neanche un minuto libero... ci vediamo questa sera". Mi sento come schiacciato sotto un masso fatto di responsabilità. "Aspetti!" urlo, correndogli dietro "Non so cosa devo fare!". Si ferma e si gira, gli occhi non sono proprio benevoli "Certo che non lo sa! " sbuffa, ma poi si fa più comprensiva "L’ho pulito da poco e i macchinari sono tutti a posto, non dovrebbe avere problemi. In ogni caso la sua mamma, nel corso di quest’ultimo anno di vita, ha scritto un manualeper lei. E' sopra la scrivania. Arrivederla" si gira ed esce.

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Ritorno sui miei passi... altro che vacanza. Questo povero cristo disteso qui, questa larva che era mio fratello, è attaccato a tanti di quei macchinari che ci vorrebbe un tir per farlo spostare. Mi siedo sulla panchetta stile rinascimentale, la preferita di mamma, e prendo in mano il quaderno a fiori che mi ha indicato. Manco lo apro che già piango... come ho fatto ad abbandonarli? Le lacrime non smettono di scendere mentre leggo l'elenco di mansioni scrupolosamente annotate: - ore 13 - inserire flacone dell'alimentazione nel tubo del flebo, attendere la fine e rimettere l'idratazione; - ore 14 - controllare sacca catetere e cambiare se necessario; … e continua così passo dopo passo, ora dopo ora. In fondo c'è una nota per me. - Per Luca. Se stai leggendo queste righe, significa che io non ci sono più. Non ti chiedo di occuparti di Davide, so che non puoi, ma ti prego di fargli avere una buona sistemazione. Ho preso contatto con vari istituti, dentro il cassetto del comodino troverai l’elenco dei migliori. Per i soldi senti tua cugina Adele, si sta occupando della vendita della casa. Ti auguro una buona vita, ti voglio bene. Mamma.- Nessun rimprovero, nessuna richiesta di assunzioni di responsabilità. Chiudo il quadernino delle istruzioni, e con gli occhi lucidi guardo Davide. Forse sta dormendo. Allungo una mano e accarezzo la sua gota, grigiastra. Apre gli occhi… rimango allibito… allora qualcosa c’è dentro questo involucro di pelle! Avvicino la sedia alla sponda del letto, che ripiego sotto, in maniera da poter stare più vicino a lui. Gli volto leggermente il capo, delicatamente per non rischiare che qualche tubo si stacchi, e appoggio la testa sul cuscino in maniera da poterlo guardare. Lui non può vedermi, perché è cieco, eppure sento una stretta al cuore così forte che le lacrime non bastano più e lo fisso per alcuni minuti, come se lui potesse vedermi davvero. Poi decido. In qualche maniera gli regalerò un ultimo viaggio con me. Chiudo gli occhi e comincio a raccontare. Gli descrivo la nostra ultima vacanza a Rimini, quando lo prendevo in braccio e lo facevo entrare in acqua, e di come gli piaceva, il mare, e voleva sempre assaggiare quell'acqua salata. Gli parlo delle formine e dei secchielli e di come amava che gli versassi la sabbia nei piedi, come fosse una fontana dorata. Poi parlo dell'albergo, con quei grossi mosaici di pesci alle pareti, e dei nostri letti che avevamo fatto attaccare per stare insieme, e della mattina, quando ci svegliavamo madidi di sudore perché ci stava sempre appiccicato, a me e a mamma. Continuo per una mezz'ora buona e alla fine m'interrompo perché sento una strana sensazione umida. Apro gli occhi e capisco che il cuscino è bagnato di lacrime: le sue. I suoi occhi ora, fissi nei miei, non sono persi ma coscienti e presenti. So che mi ha sentito e che ha ricordato. Torno a casa dopo tre giorni, con la sensazione di aver fatto un viaggio molto più lungo di queste due ore di aereo, un viaggio dentro me stesso, e la certezza che il regalo alla fine l’ho ricevuto anziché donato.

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Sara Cortecci - Le mani intrecciate

Il mio nome è Selvaggia, e da che ne ho memoria sono sempre stata una persona fuori dal comune, un carattere forte, senza paura, una persona che cattura l’attenzione in tutto ciò che la riguarda. Questo mio sentimento altezzoso si spiega con l’ essere sempre stata la più alta della classe, la più magra, e per questo mi amavo alla follia, ovunque andavo ero piena di attenzioni. Diventando donna acquisii capacità seduttive che mi resero affascinante per molti uomini, non ero bella e non lo sono, ma gli uomini erano attratti dalle mie gambe dannatamente lunghe, dai miei occhi che spesso per strada incontravano occhi maschili che sembravano chiedermi passione ad ogni sguardo lanciatomi, in più ero benestante ed anche questo giocava a mio favore. Ovunque andavo mi sentivo un gradino sopra gli altri, mi sentivo diversa, straordinaria, speciale. Tutto questo fino ad arrivare ai miei 24 anni, quando durante una visita cardiologica, un certo Dottor Milen di Roma, mi fece notare che avevo alcune caratteristiche che lo facevano pensare alla Sindrome di Marfan. Mi ritrovai in un inferno, tutte le mie sicurezze crollarono in un ora, per la prima volta nella mia vita mi sembrava di sprofondare e non c’era nessuno in grado di aiutarmi . Quella che mi era stata passata come una semplice visita cardiologica, in realtà mi era stata fatta perché mio padre, che aveva avuto due operazioni al cuore ed una all’arteria aortica, presentava alcune caratteristiche tipiche di questa malattia. A 38 anni aveva avuto il prolasso della valvola mitrale, a 55 anni il prolasso si è presentato di nuovo ed hanno dovuto sostituire la sua valvola con una meccanica. Poco dopo gli venne un aneurisma che fortunatamente presero in tempo. Mia nonna era morta a 25 anni per un problema al cuore, non si e’ mai saputo di cosa fosse morta precisamente, ma adesso i dottori ipotizzavano un aneurisma aortico perché era morta in pochi secondi. La nostra altezza e magrezza, l’ elasticità della nostra pelle , il prolasso ed il successivo aneurisma di mio padre, insieme alla morte prematura di mia nonna facevano pensare alla Sindrome di Marfan e noi figli dovevamo fare dei controlli per un eventuale “eredità “ di questa Sindrome. Ci mandarono a Milano dove fecero dei controlli a mio padre, a me, a mia sorella gemella ed a mio fratello, dovevamo aspettare un mese circa per sapere le risposte. Un mese con il pensiero asfissiante di avere una malattia rara e’ qualcosa che non credo sia in grado di immaginare chi non la vive. Pensavo continuamente che se gli esiti fossero stati positivi, io ero nata malata e rischiavo la vita ogni giorno senza saperlo. Un giorno mentre ero in ospedale ad aspettare il genetista, vidi passare un ragazzo di una bellezza disarmante. In quei giorni mi sentivo priva di muscoli vivi nel corpo, eppure lo notai. Lo vidi per altri due giorni consecutivi, mi sedevo vicino a lui sulla panchina e restavo a guardarlo, gambe lunghe più delle mie, altissimo, gracilino, un viso stupendo e mani affusolate che si sarebbero inserite armoniosamente tra le mie altrettanto lunghe e fine. Non riuscivo a non guardarlo, avvolte si girava mi sorrideva e poi tornava a guardare avanti. Il giorno della mia partenza lasciai ad un infermiera il mio numero di telefono e la pregai di darlo al ragazzo della stanza 113. Pensai a lui tutto il viaggio di ritorno. Aveva un aria malinconica, come se fosse sofferente ed io sentivo di essermene innamorata. Si può amare qualcuno con il quale non si e’ mai parlato? Credo di sì. Era strano in quel momento di paura sentivo di essere attratta da quell’ uomo come non mi era mai successo, pensavo a lui e tutto intorno a me diventava dolce, calmo , ovattato. Arrivata a Roma ricevetti la sua chiamata. Ci innamorato subito l’uno dell’altro. Maicol (così si chiamava il mio amore) mi racconto che aveva la Sindrome di Marfan ed era in ospedale a Milano per un problema alla schiena che stava curando in questi mesi. Sua madre era morta a 28 anni e da vari controlli postumi alla sua morte dissero che la madre aveva questa malattia e lui purtroppo l’aveva ereditata. C’era un 50% di possibilità di trasmissione al proprio figlio e lui l’ aveva ereditata. Dopo circa un mese arrivarono le nostre risposte: non avevamo questa Sindrome. Nei mesi successivi tutti intorno a me si informarono sulla sua malattia ed in molti mi dissero di lasciarlo, io ero benestante continuavano a dirmi, lui non lavorava ed aveva sempre quell’ aria malinconica che loro odiavano. Dopo circa due mesi che stavamo insieme si opero alla schiena. Il giorno dell’operazione mi diede una lunga lettera che iniziava con “menomale che ti ho incontrato”. Quando uscì dalla camera operatoria andò per tutto il giorno in rianimazione. Dopo una settimana finalmente torno a casa a Roma. Restai a dormire a casa

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sua, quando mi svegliai, lui era sveglio e mi fissava. Lo baciai con tutta me stessa stando attenta ai tubi che aveva ancora attaccati. Amavo le sue labbra umide. Dopo qualche mese dalla sua operazione iniziai ad avere i primi incubi, sognavo un mio ipotetico figlio che nasceva con questa malattia, sognavo che doveva operarsi alla valvola mitrale come mio padre, sognavo il rumore della valvola meccanica che rimbombava nelle mie orecchie come fosse un rumore assordante. Di giorno le ore passavano, gli accarezzavo le guance morbide e lo baciavo, era il mio cuoricino. Quando avevo paura gli stringevo forte le mani intrecciandole con le mie e cercavo di trovare la forza di andare avanti, ma di notte questi incubi entravano nella mia mente, la mia testa si riempiva di cattivi sogni e brutti pensieri, lui così fragile e impotente davanti alla sua malattia, stava rovinando la mia vita, così continuavano a dirmi. Tutti mi erano contro. Così mentre lui andava a Milano per il controllo post- operazione, io Restai a Roma e conobbi un altro uomo. Io e quest’ uomo facemmo l’amore. La sera stessa mi telefono il padre di Maicol per dirmi che c’ era stato un problema e doveva essere nuovamente operato. Era così, mentre lui era in ospedale io ero a ridere e scherzare con un altro uomo. Iniziai a sentire il cuore che scoppiava dal dolore, pensai che se gli fosse successo qualcosa io sarei morta insieme a lui, mentre pensavo al male che stavo facendo al nostro amore mi arrivo un messaggio con scritto “ ti amo. Maicol” .Guardandomi dal vetro di un finestrino della metro, mi vidi una bambola velenosa, il ticchettio della valvola iniziai a sentirlo sul polso, era il mio orologio ma io associavo quel rumore al rumore di una valvola meccanica, mi sembrava di impazzire, qualcuno tolga questo orologio dal mio polso pensai disperata. Inizia a farmi schifo, dietro tutta la ferocia di quel giorno d’ amore con uno sconosciuto era celata in me la paura della felicità, della morte, del futuro. Corsi a casa, mi cambiai, presi il telefono, il portafoglio e scappai come una gazzella verso il treno per Milano, mi sembrava che tutte le birre del pub di quella sera con quello sconosciuto mi si stessero rompendo sotto i piedi. Arrivai all’ ospedale, salii le scale d’ emergenza esterne mi arrampicai sulla finestra e finalmente lo vidi, Restai a guardarlo per molto tempo fino a quando non arrivo il padre, vidi che Maicol apri gli occhi e gli disse qualcosa e il padre indicando la finestra disse” Selvaggia ti e’ accanto”, mi guardo ed in quel momento capii che avrei voluto passare tutta la mia vita con lui, non riuscivo a capire come avevo fatto a dar retta alle persone esterne al nostro amore, in un ospedale o al mare insieme a lui io stavo bene e finalmente lo avevo capito. Il padre apri la finestra ed io gridai “ti amo” lui era il tassello che mi mancava per completare il mio mondo. La vita inizio ad abbracciarmi e ballammo insieme fino a farci girare la testa. Le malattie rendono più forti. Speciali. Ed io ho la fortuna di aver trovato in quel ragazzo mingherlino tutta la forza di cui avevo sempre avuto bisogno, avvinghiata a quelle spalle mi sentivo una roccia e finalmente riuscivo a spogliarmi della mia corazza di essere semplicemente me stessa.

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Michela Cossandi - Radici

Ed io vago nell'aria, come puro etere. Ti mostri a me come meraviglia vestita di luce... Sfioro gli imponenti monti, cornici del tuo ventre. Verdi fronde accarezzano l'astrale eterno, fuoco di stelle soavemente abbraccia l'anima. Una melodia racchiusa in danzanti sospiri d'ossigeno, percorre alata i miei mistici segreti. Cerco ancora radici nel terreno incerto, acqua che sgorga da fonti d'immensa ricchezza, goccia di vita, rugiada mattutina tra le mie orme... radiosi ricordi, lontani come terre sconosciute, irrompono nella mia mente. Un polveroso vento culla amorevolmente le mie membra stanche... ma la bussola non punta a nord, anime selvagge come dirompenti onde d'oceano scalciano per la libertà. L'universo m'indica la direzione. Cullami ancora nel tuo nefasto fulgore; desta i sensi ad ogni alba del desiderio, essenza nutrita da ricordi di severa bellezza. Nascondi verità nei meandri della memoria, barlume d'infanti speranze gelosamente vissute, e cucite nel tuo essere: così remoto, così presente... leggiadra espressione donata dal tempo... Un ultima lacrima immortale sul mio volto... Vita. Ma d'un tratto il freddo metallo. Cigolii infernali. Quel gelsomino travolto da un'umana invenzione, edera scura, velenosa ne prese il posto. Eppure non odierò, amerò... non cadrò, mi sorreggerò... non tramonterò, rinascerò... non camminerò, volerò. Sarò cascata, e vento, e fango. io sarò madre terra, il creato la mia dimora: le mie radici.

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Patrizia Cozzolino - LE SCARPE SCAMOSCIATE ∞

Dalle scarpe scamosciate spazzo ansiosa la neve e il magone che mi porto dentro valanga che scivola via sulla tavola di neve e ghiaccio letto di sofferenze ibernate di vene cristallizzate di mani e piedi addormentati in un tempo indefinito e infinito piccoli gadget per noi pezzi di noi guardano straniti e confusi le luci lontane della città. E sulla punta delle scarpe scamosciate mi sollevo e vado alla ricerca nell'universo dell'essere umano al qual buttar le braccia al collo e poi brindare in una festa di coriandoli ad un futuro fatto di sguardi, presenze levità felici in abito da sera frusciante seta nera mi avvolge e le scarpe scamosciate in un baleno diventano eleganti décolleté col tacco a spillo, quello di vernice che vuol far girar la testa al mondo e sul mio cancro sicuro e un po' spocchioso danzare disarmante.

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Marina Cuollo - CUOLLO1981

Io mi chiamo Marina e ho una cosa che si chiama sindrome di Melnick-Needles. È rara. Molto rara. Così rara che se la cerchi sull’enciclopedia medica è facile tu non la trovi. Tanto rara che Google porta 953 risultati, quasi otto milioni meno di “aka bubu lalla” (digitati appoggiandomi sulla tastiera a occhi chiusi. Se non ci credi, prova). In ogni caso, gli unici riferimenti degni di nota portano tutti e tre le medesime indicazioni: la patologia è genetica e associa alla displasia scheletrica una particolare conformazione facciale, a metà strada tra un criceto e un lemure. Ci sono così pochi casi al mondo da farmi venire il sospetto che il nome non sia quello dei due scopritori, ma di coloro che ne soffrono. Dopo di me, la aggiorneranno in Melnick-Needles-Cuollo. In realtà gli esemplari sono di più, più di cinquanta e meno di cento, sparsi nel mondo tra la Papuasia, il Kurdistan e tutti quegli Stati che se provi a pronunciarli ti si annoda la lingua. Particolarmente femminista, la malattia è letale nei maschi. Per non essere noiosa, la sindrome ama differenziare i suoi effetti con ogni singolo caso femminile cui decida di attaccarsi. Con me si è fatta subito sentire: tra una stenosi e una scoliosi, ha ridotto la mia capacità respiratoria alle dimensioni di una scatoletta di tonno, lasciandomi con il fiatone dopo pochi metri a piedi. Un po' come te dopo il cenone di capodanno, però tutti i giorni. Il fatto che io assomigli a un personaggio della Pixar attira da sempre l'attenzione dei più piccoli, che a me piacciono, ben inteso, soprattutto quando mi fissano e sembrano tanti pesciolini morti sul banco della pescheria: occhio vitreo e bocca spalancata. Da semiadolescente, non mi stavano simpatici, lo ammetto. Stavo attraversando la mia fase Hitleriana e avrei voluto farli fuori e in modo atroce. Adesso, invece, quando mi sento osservata, per una mezz’oretta buona ho solo voglia di sushi. Ma basta parlare di me. Il mio ego è già troppo ingombrante a dispetto delle mie dimensioni. Dicono che la vita sia un viaggio. Beh, se la vita è un viaggio, la famiglia è decisamente la compagnia aerea, solo che in questo caso non la scegli tu. E se ti capita di essere messo al mondo da una low cost, sei davvero nella merda. Com’è stato il mio? Pur non essendo nata e cresciuta sull’Air Force One, non posso lamentarmi: qualche volta mi sono ritrovata in prima classe, altre sulla circumvesuviana. Essendo Napoletana, la mia famiglia è terrona. C'è qualcosa di male in questo? No, poteva andare peggio: potevo nascere in una famiglia di alcolizzati. Magari alieni, nell’Area 51. Invece no. Sono stata fortunata e sono capitata a Napoli, a bordo del volo trans-vesuviano CUOLLO1981. La verità è che amo il mio parentato perché è un vero concentrato di idiosincrasie, manie e amore infinito, il tutto condito da un po' di ragù. Mamma è il capitano. In cabina c’è lei e a lei è affidato il comando. In quanto capitanA, lei può fare qualsiasi cosa (un po’ come un personaggio della DC): segue i lavori di casa meglio di un'impresa di pulizie; gestisce due uomini che se non avessero la testa attaccata alle spalle la dimenticherebbero in ufficio e quando fa la spesa ha la capacità di risparmiare sempre e comunque con qualche offerta o promozione di cui solo lei è al corrente. Come super pilota, mamma è attenta. Talvolta ipocondriaca, è altruista in modo ossessivo compulsivo. Segni particolari: iperprotettiva a livello maniacale. Qualche giorno fa la studiavo mentre era alle prese con i lavori domestici: tutta concentrata come se stesse per tentare un atterraggio di fortuna, sprizzava energia da tutti i pori. - Accidenti! - ho detto - darei un rene per arrivare alla sua età così in forma. Mio padre, incredulo, mi guardava. - Ma sei scema? A stento ti funzionano, proprio un rene vuoi dare? - Lo so pa'. Hai ragione, ma scegliere cosa cedere è un po' difficile. Non è che il mio corpo sia proprio la sagra della salute. - Beh, puoi cedere l'orecchio. - Ma cosa dici? Se già cosi è un miracolo se ci sento. - Aspe’, io dicevo solo la parte fuori. Tanto non serve a niente. - Uhm… sì, si può fare. Ma dubito sia uno scambio equo.

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Papà è un tipo particolare. Il suo ruolo, pensando all’aereo, è quello dello steward, con attitudini da cabarettista e la vocazione del medico di bordo. Credo che parte del mio umorismo, di quello che migliora la vita a me e peggiora quella di chi mi sta intorno, arrivi da lui. Stacanovista per vocazione, papà è un lavoratore instancabile e un pescatore fin dentro le viscere. Insomma, un mancato capitano Achab. Quella per il mare, nata come una passione, si è via via rivelata quasi una dipendenza, per poi passare a panacea universale. Per lui l'acqua salata e lo iodio fanno bene e curano tutto. Punto. L'anno scorso ho avuto la bronchite per due volte di fila in un mese. - Ovvio! Non hai preso abbastanza aria di mare! Per mio padre: hai il raffreddore? Vai al mare! Hai la polmonite? Vai al mare! Hai scoperto di avere un carcinoma al quarto stadio? Accidenti! Si vede che non sei stato al mare. A cavallo tra un dottore tuttologo e uno scienziato pazzo, ha la soluzione per qualunque malanno. Con gli anni ha acquisito il lessico dell'enciclopedia medica Zanichelli e per tale motivo spesso viene scambiato per un medico vero e quindi, insultato. A bordo del volo CUOLLO1981 (data della fusione fra capitano e steward), oltre a mamma e papà, ci siamo io e mio fratello, entrambi viaggiatori, entrambi sciancati. Io nel corpo, grazie alla sindrome di Melnick-Needles-Cuollo e lui nell’animo, per colpa di una grave, gravissima riluttanza ai latticini. Come passeggero di un volo made in Naples, la sua è una doppia disabilità menomante. Da un lato non sopporta i formaggi (nemmeno la mozzarella, ci potete credere?) e dall’altro non sa fare a meno di mamma. È ancora lei, alla soglia dei trent’anni, che gli prepara le valigie, gli sistema i cassetti e gli riordina i calzini. Quando protesto, ricordandole che il suo pargoletto sta per sposarsi, spunta dalla cabina con la faccia scura. - Cinque minuti, ci metto… Se poi si dimentica qualcosa, come fa? - Si arrangia? – chiedo io, guardando il mio consanguineo metà umano e metà pesce che da babbo deve aver ereditato la passione per il mare. Volare con una cricca simile ha i suoi lati oscuri, ma pure una tonnellata di benefit. Il cibo è buonissimo, la compagnia pure. Per me farlo con una malattia rara è un po’ come viaggiare con un animale esotico: con un permesso speciale. Dove vado io, viene pure quella. Non mi abbandona mai. Mi permette di saltare la fila al check-in, di ottenere gratis le matite colorate al ristorante e di avere almeno un assistente di volo a mia totale disposizione. Quindi, dove eravamo rimasti?... Ah si... La vita è un viaggio, la famiglia è la compagnia aerea, e tu? Chi sei? Tu sei quello che si caga sotto durante le turbolenze, ma sorride cercando di passare inosservato e nel frattempo, tra uno scossone e un vuoto d'aria, ci prova spudoratamente con la hostess.

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Viviana De Paola - Migliore

Una voce amica aleggia nella notte dei timori. È lei la riconosco. Oh, mia consigliera di un giorno, di una vita, il tuo multiforme ingegno mi ispira, la tua voce, i tuoi gesti rassicurano quest'anima triste e sbiadita. Non mutare sentimento, fallo restare sempre lo stesso, in modo da volare insieme sui lidi della perfezione, in modo da crescere e migliorarci sempre insieme, unite come nel primo giorno di sventura e nell'ultimo di felicità futura.

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Adriana De Ranieri - AUTORITRATTO DI UN VIAGGIO

Sei partita prima che sapessi, ancora prima che potessi capire quello che gli altri dicevano, tentavi di muoverti nelle loro parole, davanti allo sguardo sconvolto di tutti. Ti sentivi priva di protezione, vulnerabile e bisognosa, tenevi per mano solo il pensiero della speranza, la coscienza di una compagna di viaggio indesiderata.. Nella tua pesante valigia: medicine o formule magiche, consigli sbagliati o corretti, il cosa fare, non fare, preghiere o superstizioni. Hai diviso la tua anima, con quel qualcosa che in te non andava, hai attaccato sul tuo passaporto la foto sbiadita del tuo essere donna. Ora non importa quel che farai, non importa dove andrai, anche se lei sarà lì sempre lì, giorno e notte senza sosta senza limiti... tu continua ad essere la donna ricercata e piacevole, il frutto di quello che la vita ti ha donato perchè... qualunque cosa tu viva nel tuo viaggio, lotterai sempre per quel “Io sono”.

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Maria Delvecchio - LA CONOSCENZA DELLA VITA ∞

Se la pazzia di una cellula si mutasse in una danza scolpirebbe la morbidezza dell’essenza in un profondo gaio; Scolpire la sapienza è un’icona di vittoria che con delicatezza vela l’abbraccio del mondo; se il percorso del vermiglio sangue dissetasse la fatica del viaggio della vita non aspetteremmo la pioggia per poter specchiare albori mutamenti di un sorriso da tempo raggelato; il viaggio dei pensieri è nullo se approdi in mani sicure che ti aprono la visuale del mondo. Sperare è crescere e diventare vecchi, il sapere è saggezza di un dotto vissuto, tutti grandi elementi che conducono un viaggio immenso che termina nel nucleo della conoscenza della vita.

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Angela Demma - IL VIAGGIO DELLA SPERANZA ∞

Vorrei raccontarti una storia difenderti dal gelo del suo inverno, riscaldando l'inverno dei tuoi pensieri, vorrei strapparti dalla retina immagini di un viaggio bizzarro che ti ha uccisa. SPERANZA vorrei baciarti le labbra livide di paura dal tuo sogno tradito. SPERANZA , mia dolce SPERANZA nel tenebroso bosco sei finita per salvarti e rovi di spine hai trovato. SPERANZA verrò a prenderti , ti cullerò fra le mie braccia, ti solleverò dal tempo che ha fermato la tua fine. SPERANZA ha ingabbiato la tua anima pura nel bosco di rovi e nelle sue lenzuola nere. Quante bugie quante bugie hai ascoltato... SPERANZA vorrei riscaldarti quel fuoco di dolore che brucia nella tua carne mentre sei abbandonata , distesa nel gelo, mi rende muto guardare le tue palpebre chiuse senza più lacrime e tu tu non mi ascolti .. Vorrei toglierti quel calore di pensieri stesi ancora in quel manto oscuro dove dormisti felice. SPERANZA SPERANZA in apnea ti ha lasciato e non sento il calore del tuo respiro. SPERANZA salvati, uccidi i ricordi delle sue vesti nere e denudati, nuda ti cospargerò di unguento per rianimarti cercando fra le tue ciglia una lacrima di gioia per me chiamandoti SPERANZA.

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Elisa Di Lorenzo - CRESCERE VIAGGIANDO

Tantissime volte sei stato da me evocato. Da bambina amavo trascinare tutte le sedie di casa che disponevo in due fila per poter simulare un pullman. Curavo ogni minimo dettaglio e l’autista obbligato era mio fratello. Sorelle e cugini erano i viaggiatori, carichi di pacchi e bagagli. Io sedevo agli ultimi posti per godermi al meglio il viaggio… Gli anni volarono in fretta ma non passò la mia vocazione per gli spostamenti, e già adolescente mi trovai a desiderare di lasciare il paese per la città. Volevo studiare e crescere in fretta, in quegli anni sessanta. Ed intanto lottavo contro tutto e tutti per un minimo di indipendenza. Erano anni duri quelli ma anche carichi di speranza ed ottimismo, e lottare contro l’educazione severa e pregiudizi paesani veniva da se. Con la maturità ed un minimo di emancipazione conquistata cominciai a realizzare piccole cose che mi portarono a vivere in altri luoghi e diversa cultura. Quante cose si fanno da giovani! Ricordo che il mio cervello era in continuo movimento. Feci anche qualche errore e senza molto godermi quello che realizzavo continuavo a sognare e a progettare. Alla soglia dei miei quarant’anni però qualcosa fermò e turbò i miei sogni; spossatezza e dolori fisici misteriosamente attaccavano tutto il mio corpo. Il mondo intorno a me si fermò di colpo e sparì anche la voglia di viaggiare. Le forze fisiche mi abbandonavano e la mente riusciva a contenere solo dolore, sofferenza, amarezza ed incomprensioni che arrivavano da ogni campo: medico, lavorativo, sociale e familiare. Sono trascorsi ormai trent’anni a lottare tra angoscia e limitazioni e tanti sono stati i viaggi interiori intrapresi che sono serviti per prima cosa a metabolizzare la grande rabbia per una diagnosi di malattia rara. Anche l’accettazione di doverci convivere è stata dura ed abituarsi silenziosamente alle graduali progressioni è avvenuto quasi spontaneamente. Oggi però ho ripreso a sognare e a viaggiare anche fisicamente. Certo la valigia non è la prima cosa a cui penso bensì a chi potrà accompagnarmi. Poi tutto va programmato con infinita cura, ma grazie alla nuova tecnologia assieme alla eliminazione di alcune barriere architettoniche si riesce a realizzare qualche capriccio. Io parto sempre con molto coraggio, grande forza di volontà, pazienza ed una gran dose di ironia e voglia di sorridere che non devono mai mancare. Però rimango sempre e solo una nonnetta disabile. Ho visto sfumare sempre più tutta la mia libertà acquisita negli anni ed anche se continuo a professarmi libera, libera non lo sono più. Dipendo totalmente dall’umore della persona che mi accompagna perché magari non ha molta pazienza, non è curiosa quanto me o non sa apprezzare le meraviglie della natura e dell’arte. Viaggiare arricchisce cuore, mente e spirito ed a me può bastare.

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Giovanni Di Saverio - Cesare aveva ragione

Venni, vidi e subito mi convinsi che la stupidità umana non conosce confini. Mi costringono a trascorrere le mie giornate tranquillo rinchiuso tra queste quattro mura schiavo del mio determinismo naturale a testimonianza del fatto che il dado ormai per me deve considerarsi tratto. Tuttavia mi ritengo un tipo fortunato. Ho avuto infatti sempre a che fare con uomini molto più sciroccati di me, la cui compagnia è stata utile per farmi rendere conto di quanto la vita in fondo sia stata clemente con me. Pur battendomi ai dadi non se l'è sentita di infierire contro un idiota così da non permettermi di diventare un perfetto coglione. Da bambino la mia preoccupazione non è mai stata quella di scoprire il significato recondito delle parole; dare un senso al mondo lo si può fare a qualsiasi età; l'importante è sapere sempre in ogni circostanza che qualcosa dentro la tua testa manca, altrimenti non si spiegherebbe perché tutti, genitori e fratelli compresi, continuano a dipingerti come un individuo malato di mente. Anche se, devo ammetterlo, la mia interpretazione migliore senz'altro è stata quando la commissione medica all'età di 18 anni mi chiese chi fossi. Volevano che io partissi per andare a fare una guerra, così di primo acchito pensai fosse meglio mentire fingendomi matto; ma io sono un tipo troppo presuntuoso e dal momento che mi ricordai di avere letto da qualche parte che per convincere bisogna essere convinti; invece di dire che provenivo da un altro pianeta, come all'inizio mi era passato per la testa e a cui nessuno avrebbe creduto, dissi le cose come stavano veramente e cioè che io ero uno dei tanti figli illegittimi di Dio. Farmi capire non è mai stata cosa facile per me. Non so bene da chi ho ereditato il dono di essere facilmente frainteso (forse da mio padre) o, forse, si tratta soltanto di quella mia maledetta volontà di dire sempre e solo la verità; fatto sta che un dottore, membro della commissione, si fece portavoce delle perplessità comuni e mi chiese se fossi in grado di addurre delle prove a supporto di quella mia così forte affermazione riguardo la mia progenie. Allora io, da povero idiota qual son sempre stato, mi illusi per un istante di poter ridare nuova luce a quegli occhi di giudici tanto curiosi facendo notare loro che, postulare una mia diretta discendenza divina, era l'unica maniera per spiegare in modo plausibile tutti quegli anni di mancati miei miglioramenti. “Se dobbiamo ritenere vero che Dio non ha alcuna possibilità di mutamento verso il meglio in virtù del suo essere già perfetto” cercai di chiarire il mio complicato pensiero, “allora anch'io devo avere in me qualcosa di divino, data l'impossibilità che voi medici mi avete sempre riconosciuto di guarire. È opinione largamente condivisa che io non sono nato adatto a vivere nel regno dei sani; non mi è concesso mutare il mio stato di uomo pazzo verso uno stato che si ritiene essere migliore e perciò degno soltanto di chi è sano di mente. Le mie ossessioni, secondo voi, mi obbligano a conservare questo stato di assoluta immobilità, dimostrando così che io, in quanto individuo, non sono degno della specie a cui appartengo!” Vista e considerata la mia schietta sincerità mi sarei aspettato quanto meno uno sconto sulla pena ed invece niente. Sulla mia cartella clinica scrissero che il paziente palesava tutte le caratteristiche tipiche della megalomania e cercarono di convincermi che, per il mio bene, fosse meglio passare un po' di tempo insieme a dei miei simili per fare conoscenza magari di qualche mio fratello. Per diverse notti feci lo stesso strano ed identico sogno. C'ero io da solo lungo una strada e correvo. Intorno a me tutto era buio e non c'era che il deserto. La luce della luna mi illuminava il volto come fosse un grande riflettore e non appena mi fermavo perché accecato da quel bagliore mi ritrovavo su di un palcoscenico davanti ad una platea di cui non riuscivo a scorgerne che lo scintillio degli occhi. Era evidente che aspettavano che io facessi il mio numero, ma davvero non sapevo proprio da dove incominciare; non sapevo cosa fare né cosa dire. Non riuscivo neppure ad immaginare cosa diavolo mai si aspettassero da me, eppure c'ero soltanto io su quel palco. Voltandomi istintivamente per cercare aiuto, ecco che intorno a me ricompare di nuovo il deserto; questa volta però si trattava di un deserto di emozioni; un'assenza totale di umori e solo allora mi svegliavo e prendevo coscienza del fatto che quel sogno non aveva colori. Sapevo che non potevo dare tutta la colpa ad un sogno, se non mi trovavo bene dentro quel folle mondo; come non nutrivo dubbi sul fatto che tutti quelli, che venivano rinchiusi in quanto matti, per poter appartenere a quella categoria non solo dovevano avere certe caratteristiche facili da riscontrare dai camici bianchi, ma dovevano anche ostentare comportamenti folli.

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Per questo motivo cercavo di starmene quieto. Se da un lato mi tenevo alla larga dal mio camerata Ponzio Pilato, l'unico colpevole o forse il solo artefice di tutta la repubblica di cristianopoli, (poiché in verità temevo per la mia incolumità dati gli spiacevoli trascorsi con mio fratello il rivoluzionario), dall'altro, però, non potevo fare a meno di ascoltare rapito le stravaganze del vecchio Machiavelli, che dal pulpito di una sedia pontificava ogni giorno alla stessa ora benedicendo i fallimenti della logica megarica e la semplicità con cui il senso comune si preoccupa di giungere alle sue errate conclusioni. Osservavo attento tutto quel disordine cercando di venire a capo, con le sole mie forze di uomo, del bandolo di quella apparentemente incomprensibile matassa, che faceva capo alla follia. Era evidente che tra le quattro mura di quel nosocomio regnasse incontrastata la pazzia; tuttavia le ossessioni di ogni singolo individuo avevano i loro perché, al punto che quel pazzo mondo nessuno riusciva ad imbrogliarlo, se non ricorrendo alla costrizione. Ero francamente molto curioso di sapere come la scienza conciliasse il determinismo sotteso alla pazzia con la libertà degli individui che possono, anzi devono determinarsi. Un bel giorno chiesi allora ad un dottore dei chiarimenti a tal riguardo e il camice bianco mi rispose: “Vede lei è appena arrivato. Presto si renderà conto che soltanto qui dentro quelli come lei sono davvero liberi di autodeterminarsi nel rispetto di quelle che sono le loro caratteristiche essenziali. Vedrà si troverà bene qui con noi!” Come dire che un matto non può fare a meno di essere quello che è; o meglio di apparire tale agli occhi di chi ne misura la distanza dalla banalità della normalità. L'universo della pazzia è talmente complesso, che visto dal di fuori sicuramente appare strano, ma non per questo deve necessariamente essere giudicato come assurdo. Ma dentro quel sistema, in cui gli individui non contavano niente, in cui persino Dio era impotente poiché non si preoccupava del singolo, ma soltanto della specie, ogni paziente era considerato semplicemente come un pezzo del tutto; funzionale al mantenimento di una celeste armonia nella quale per i dottori non era necessario confrontarsi con i malati, ma erano sufficienti le nozioni di anatomia e psichiatria generale studiate anni addietro su dettagliati manuali. Un lupo difficilmente si riesce ad addomesticare; prima o poi la sua natura di predatore rischia di avere il sopravvento e per evitare che ciò accadesse anche a chi è distratto dalla logica ci sedavano mattina e sera. Fui gettato in una realtà completamente estranea al passare del tempo, dentro la quale la mia volontà non era più soggetta al mio intelletto. Nonostante le mie azioni non si fondassero sulla ragione quel che volevo non mi appariva sbagliato, tuttavia rischiavo di fare la fine dell'asino di Buridano scoprendomi incapace di scegliere per il mio bene. La mia volontà bastava a rendermi libero; agivo tranquillamente senza un motivo preciso per il semplice fatto che mi andava di farlo; il mio volere esprimeva i miei desideri più reconditi senza che fosse necessario chiamare in causa la ragione; mi sentivo superiore a tutte le eventualità insite nella possibilità; riuscivo senza alcuno sforzo a fare a meno di comprendere l'ordine sotteso alla realtà e capii che, se davvero l'uomo ha un suo posto nel mondo, il mio era il manicomio. Ma la terapia dell'oblio, si sa, non può durare a lungo. Giunge sempre quel momento in cui ci si ricorda che si sta dimenticando qualcosa e allora capita di domandarsi cosa diavolo ti hanno internato a fare, se lì dentro tutto è già stato deciso; fatto, disfatto e poi nuovamente rifatto sempre a immagine e somiglianza delle più recondite paure degli uomini; sperare che possa davvero accadere qualcosa di nuovo e di straordinario anche dentro solo una di quelle teste, implica l'assurda credenza, che esista da qualche parte un luogo fuori nel mondo, in cui un malato di mente possa ritornare ad avere un'esistenza normale. Da tutti considerati un incidente ci tengono reclusi perché dell'accidente non si da una scienza. La nostra appartenenza alla categoria dei matti fa si che in noi si riscontrano soltanto certe assurde combinazioni del caso, che strutturalmente sono poco adatte a supportare la fede nei miracoli, poiché neppure un miracolo può negare il principio di non contraddizione. L'universo della pazzia è talmente complesso, che la minima modificazione, anche di un solo banalissimo punto sulla curva spazio-tempo, ha per effetto l'alterarsi di un qualunque altro generico punto dell'universo di chi è sano di mente. Il seme della follia alberga latente persino nei caratteri forti; nei geni e nella loro sregolatezza. La normalità, dalla quale così tanto appariamo distanti, non è altro che la capacità dell'individuo medio, di mantenere costante l'equilibrio tra azioni e reazioni all'interno di un contesto sociale in cui tutto risulta già essere stato scritto. A noi dementi per vocazione non resta altro da fare che

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rassegnarci; tirare le somme e cercare di impedire ai camici bianchi di prendere nota dell'agitazione racchiusa nei nostri cerchi. La materia del nostro male sembra non essere una cosa reale. Se soltanto fosse possibile osservarla con occhi di scienziati, forse avremmo qualche probabilità in più di liberarci dalla follia; ci domandano spesso delle nostre paranoie; vorrebbero penetrare all'interno di quel moto circolare che caratterizza la nostra ossessione e in cui tutto quadra e che pur mutando di giorno in giorno nulla, in verità, muta. Io, francamente, di pensieri ne ho sempre avuti pochi, ma nonostante tutto quei pochi si sono sempre rivelati assai buoni. Non lo faccio per vantarmi, ma sono stato io l'unico qui dentro ad inventarmi dal nulla come si costruisce un sogno. L'ho fatto seguendo le due semplicissime regole che contraddistinguono il ragionamento corretto e che in millenni di loro costante applicazione hanno reso l'uomo un essere migliore. Come ci sono riuscito non lo so; so soltanto che un bel giorno stavo provando anch'io a smettere di pensare (per vedere se davvero era così facile come sostenevano i dottori) e mentre ero lì a farmi del male per riuscirci ho capito come dovevo fare: il segreto era smettere di pensarci. Ebbene io ci ho provato e ci sono persino riuscito; ho creato per chi mi sta attorno uno spettacolo in grado di divertire. Ho inseguito il volo di una farfalla e dentro di me ho raggiunto finalmente una felicità insperata. Ho tenuto duro e alla fine ecco chi vi trovate davanti; un matto di nome Cesare, al quale la natura ha regalato una maschera; una faccia adatta per recitare la commedia della pazzia. Un folle che dopo anni di mediocri rappresentazioni quotidiane si è stancato di aspettare un giudizio positivo da parte della critica. Dopo anni di manicomio ho imparato a mie spese che a nulla serve ostinarsi per trovare il giusto senso della nostra condizione umana. Ciò che ci differenzia, ciò che nonostante anni di privazioni della nostra libertà non è stato in grado di umiliare il nostro essere è la certezza che qualcuno un giorno ci svelerà il significato della nostra emarginazione senza l'utilizzo di troppe parole. Sarà sufficiente emettere un grido. Forte! Per capire il perché la paura di incontrare per strada chi la fortuna ha voluto diverso si tramutasse in sospetto e soprattutto perché gli uomini sani si siano per secoli ostinati ad erigere muri dietro ai quali si rifiutavano di guardare ignorando completamente il fatto che la sinfonia della pazzia si svolge nel tempo e non nello spazio. Al pari della poesia più bella le nostre ossessioni richiedono soltanto un certo tempo per divenire e non di un luogo nel quale farle maturare per poi lasciarle marcire.

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Raffaella Maria Barbara Direnzo - Cammino

Cammino.

Anima nera. Con la mente cammino.

Mi porto altrove. Con i sogni.

Con quel frammento dorato. Seguo quella luce.

Piccola. Fioca.

Cammino. Io.

Fragile. Affaticata. Respiro.

Reagisco. Ruggisco.

Anima colorata. Ho coraggio e forza. Ho la mia serenità…

un frammento dorato nel mio petto celato. Cammino.

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Francesca Facoetti (alias Gabriel) - IL VIAGGIO DI ALE ∞

Ho paura in questo mio viaggio la malattia non la capisco tumore sensazione di terrore tumore un’emozione nel timore di morire un domani che forse non c’è ma questa paura mi avvicina a Dio.

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Zeno Ferigo - Passi verso l'ignoto ∞

Difficile da definire quel purgatorio esistenziale, dove s’alternano speranza e sconforto in un viaggio circolare tra territori sconosciuti, ove s’apre un varco, come meta finale: il sogno della scoperta! Nel perenne andar avanti ogni passo, un processo di conoscenza, una decisione da prendere, uno spiraglio verso alba radiosa. Giri tortuosi, imboccati per superar pericoli, ostacoli, prove; verifica di esperienze, abilità di relazionarsi, capacità di adattamento in vicoli oscuri. Ma la maschera che hai sul volto spesso copre realtà sconosciute: l’illusione delle apparenze. Nulla è come appare. La polvere cela la superficie delle cose, si insinua nelle crepe dell’esistenza ti fa dimenticare che la vita reale è altro da quella che stai vivendo. Lasci scorrere l’acqua senza coltivar la terra, così cadono i fiori …. e la vita corre via. Tra movimenti silenziosi di labbra, quel sogno appar svanito, caduto nell’abisso del tempo …. almeno per oggi!

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Alessandra Ferrari - Verso la guarigione… ∞

Oltre la buia quotidiana prigione che senza tregua e con insistenza vincola la cagionevole e fragile esistenza, avanza silente e costante un forte desiderio di evasione che trasporta il corpo e la mente nel luminoso viaggio verso la guarigione, lasciando finalmente libero il cuore di volare tra le candide ali della speranza e sopra le azzurre onde dell’emozione.

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Monica Fiorentino - Treno per Lisbona

Lettera 21. Lente le sue dita tremanti, presero a carezzare quel respiro, dolcemente, con delicatezza infinita, con cura lungo tutta la sua riga, cullandoselo nel cuore, quel muscolo furioso a battere indomito nel suo petto, scaldandolo col proprio fiato. E di spalle, muto, scalzo, cingendole dolcemente i fianchi, lui posò il viso nei lunghi capelli di lei, lasciati sciolti sulle spalle, baciandole la nuca, in silenzio, mentre il cuore della donna, trovava ristoro, in piedi nell’abitacolo del treno, mirando fuori il passaggio veloce delle rotaie ad attraversare quello splendido lembo di terra, il cadenzare delle rotaie a portarla lontano, saturare l’aria. Un’ipoglicemia, quell’abbassamento del livello di zuccheri nel sangue, che provoca sudorazione, freddo intenso, capogiro e nausea, segnali d’allarme da sedare subito. Lei in quel treno, glucometro alla mano, quella bustina nera di stoffa, dentro cui un piccolo macchinario dopo una breve puntura al dito, ed un bip metallico, le segnalava a modo, quanto fosse dolce “al momento” il suo sangue. Un’ipoglicemia, il livello glicemico stimato attorno ai 63, lei a levarsi di colpo in piedi, raggiungere un finestrino per prendere aria, vento in faccia, nervi saldi, lo sbandare del convoglio sui binari, il suo passo fermo. Un’ipoglicemia, campanello d’allarme a segnalare che entro breve il cervello non avrebbe più ricevuto zuccheri necessari, a sufficienza, fermando il suo normale andamento, causa di morte. Un’ipoglicemia improvvisa a trasformare la fame in “desiderio unico di divorare”, a far divenire il sangue acido, veleno a scorrere nelle vene, solo chi lo ha provato può capire. Treno per Lisbona. Lei quel viaggio lo aveva voluto fortemente. “Un viaggio a Lisbona? Ma col diabete?”, “Come fai… e se non riuscissi a gestirlo?”, “Se in treno nessuno sapesse aiutarti?, non è come in ospedale!”, “Il diabete lo conoscono in pochi, non tutti sapranno aiutarti, come farai?”. Un viaggio per Lisbona, una destinazione per attraversare se stessa ed i suoi sogni, il sogno di portare lontano i suoi haiku, la sua poesia, lei che voleva divenire un haijin, condurre la sua poesia, quel genere poetico di tre versi anche a Lisbona, lei che voleva far divenire la sua poesia un connubio fra Oriente ed Occidente, andare oltre, senza più muri e schemi inaccettabili. Lisbona un nome tatuato sulla sua stessa pelle, lo voleva. “Non puoi farlo se non conosci per bene le dinamiche della malattia”, “Il diabete è imprevedibile. E se hai una ipo? Se invece sale troppo?”, “Acqua ne avrai per tutto il viaggio?”, “Dovresti prima pensare al microinfusore” “Ma il microinfusore ha costi altissimi, difficili che una Asl l’accetti facilmente”, “Ma non è una malattia che colpisce solo i vecchi?” Ho il diabete… ma ho anche voglia di Scrivere, fare haiku, Vivere, se non sono prima io a crederci? L’aria ad entrare nei polmoni, lei a riprendere fiato, pochi zuccheri, una bustina, semplice, in borsa, l’attrezzatura giusta, mai partire senza, il glucometro un compagno insostituibile, la “regola del 15”, 15 gr di zuccheri, in 15 minuti sale con valori oltre i 70, mai adoperare zuccheri a “rilascio” lento come cioccolato o bevande light. Godot, quell’angelo, a serrarla tra le sue braccia, tornite, stringerla forte, i muscoli del petto guizzanti, cassa toracica ampia, enorme, sentiero selvatico, inesplorato, che sembrava potesse contenerne due di cuori, lui, in piedi, fermo, attonito, a contemplare quella rosa rossa, purpurea, assaporandone il profumo. Ce l’avevano fatta, quel sangue era ripreso fluido, insieme, anche se con sforzo e paura. Il Diabete era questo. Quante altre volte si sarebbe fermato? Non importava, lui sarebbe stato al suo fianco tutte le volte, troppo bassa, esageratamente alta, glicosuria nelle urine, le avrebbe riprese tutte. Troppo alto? al contrario acqua, e poche unità di correzione, un ago sottile ad attraversare la pelle, siringa d’insulina, cartuccia pre-riempita da adoperare a seconda dell’esigenza, basso una bustina di zucchero, il sudore, l’accelerarsi del cuore. Niente. Lui ci sarebbe stato sempre. E chiudendo le sue lunghe ali su di lei, splendida rosa scarlatta, dai petali carnosi, annusandola fin nel cuore, lenta una lacrima prese a inumidirgli le ciglia socchiuse. Bocciolo bellissimo: il sangue di lei, quel sangue malato, denso, scuro. La polvere della morte, l’alito sublime della vita.

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Zitto, levò i suoi occhi verso il cielo, due braci viola di dolore accesi, proteggendo quel soffio, chiudendolo stretto nel palmo, fermo, difendendolo con maggior foga, vivo, a stringerlo ancora ed ancora. Al rullare del treno ad accelerare

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Alessandro Fort - Lacrime di felicità ∞

Una lacrima le scorre lungo la guancia, è la paura, la felicità, la somma di emozioni che prova quando le portano quel fagottino rosa che consegnano con delicatezza, lei apre le braccia e lo accoglie sorridendo, mentre Mauro, il papà, è chino su di loro e si commuove. Margherita teme che anche sua figlia, teme di averle donato un’eredità con la quale dovrà lottare, come ha fatto lei, ma l’hanno rassicurata, le cose sono cambiate da allora. Tutto era cominciato un giorno qualunque in quarta superiore, a poche settimane da Natale. In realtà aveva già notato che la carta geografica era ridotta male, non si vedevano gli stati, i nomi delle città principali, era vecchia e da buttare. Ma il problema si rese più evidente quando la professoressa di inglese le chiese di rispondere alla domanda scritta alla lavagna. Si rese conto di non riuscire a distinguere le parole che si deformavano tanto da risultare incomprensibili. Si passò la mano sugli occhi un paio di volte. La prof rimase sorpresa. <<Margherita… allora?>> Lei continuò a cercare di interpretare quelle parole, ma non ci riuscì. <<Non vedo bene>> rispose. Una risata serpeggiò in aula, i ragazzi sono crudeli nel loro modo di sogghignare. La segreteria chiamò sua madre, la figlia aveva un problema di vista. Il lunedì successivo Margherita apparve con un paio di occhiali arancioni e la diagnosi del medico che le suonava ancora nelle orecchie.

<<Niente di grave, la bambina ha un problema di astigmatismo>>, ma non sapeva se le aveva dato fastidio più la diagnosi o quella definizione, avesse detto ragazza, anche ragazzina sarebbe stato meglio, ma non bambina, bambina sarà stata sua sorella. Margherita divenne la terza quattrocchi della classe, ma era difficile stabilire se lei fosse peggiore o migliore

rispetto agli altri due, arrivati sin dalla prima con gli occhiali e quindi accettati e basta. Durante la lezione di storia, il prof utilizzò una serie di noiosissime diapositive sparate sulla parete bianca opposta alla cattedra esponendo per due ore senza mai fermarsi. Le spiegazioni erano dettagliate, le immagini colorate e belle, ma questo lo venne a sapere dalla sua amica, la quale le passò gli appunti che lei non era stata in grado di prendere. Tornando a casa, scendendo dalla corriera non vide lo scalino e si ribaltò cadendo sul marciapiede. Preoccupata di non rompere gli occhiali nuovi, si graffiò le ginocchia e il palmo della mano destra, per non parlare della giacca strappata, la giacca che erano andati a comprare la settima prima. Sua madre la sgridò, rimproverandole di essere sempre con la testa per aria, e lei da allora cominciò a chiudersi in camera sua a piangere con la sensazione che il mondo stesse complottando contro di lei. A scuola le cose peggiorarono e la madre fu riconvocata per la preoccupazione del corpo docente, incerto sulla promozione alla fine dell’anno. Margherita affrontò i propri genitori accomodati in poltrona una sera di febbraio. Spiegò loro che la vista, nonostante gli occhiali, non era migliorata, anzi, aveva la sensazione che le cose fosse peggiorate e temeva di diventare cieca. La cercarono di tranquillizzare, ipotizzando che stesse esagerando, ma le promisero di cercare un secondo parere. Questi era un anziano oculista con un’espressione arcigna. Dopo controlli e verifiche anche sulle lenti, concluse che la diagnosi era corretta, ma che erano necessari degli esercizi di ginnastica oculare, altrimenti la “bambina avrebbe rischiato gravi conseguenze” sentenziò. Margherita cominciò a chiedersi se quello si fosse messo d’accordo col primo nel chiamarla in quel modo. La teoria del complotto era sempre più evidente. Fece quegli esercizi a giorni alterni arrivando a casa con la testa che le doleva continuamente. Ogni tanto spegneva la luce in camera e cercava di fare le solite cose, come se fosse cieca, con la sotterranea speranza di allenarsi all’idea di diventarlo davvero.

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Arrivò aprile e poi maggio, studiare era pesantissimo, il mal di testa divenne una costante ma grazie alla disponibilità degli insegnanti e di alcuni amici, riuscì a superare gli scrutini seppure con una valutazione che corrispondeva alla metà di quello che avrebbe potuto ottenere. Con la convinzione che l’estate le avrebbe dato la possibilità di riposarsi, festeggiò pure lei la fine dell’anno scolastico. Nel corso dei mesi estivi, gli occhi le lacrimavano e la sensazione di vedere sempre meno l’angosciava ogni giorno, dal mattino alla sera. A settembre, ritornando in classe, il problema si ripresentò nella sua forma peggiore, non soltanto non riuscì a distinguere le scritte alla lavagna, ma leggere era diventato un patimento insopportabile, così dopo una settimana dall’inizio delle lezioni, Margherita venne accompagnata da un altro oculista, con il timore di ricevere un altro brutto responso con l’aggravante di essere chiamata bambina per la terza volta. Il camice bianco che vide arrivare, le si soffermò di fronte. L’esame confermò la distorsione dell’immagine, ma quelle due labbra strette dissero “Pare un cheratocono”. La madre di Margherita non capì, se lo fece ripetere due volte e lui le spiegò che si trattava di una malattia rara responsabile della deformazione continua della cornea, con la conseguente modifica dell’immagine proiettata sulla retina. Propose l’uso di lenti a contatto non tanto per ridefinire l’immagine, quanto per tentare di schiacciare la punta del cono e ricreare la normale concavità della cornea. Imparare a usare e sopportare le lenti fu difficile e a distanza di un mese la lacrimazione era insistente, a volte imbarazzante, ma almeno riusciva a distinguere le persone e le cose.

Malgrado questo primo risultato, la lettura era ancora faticosa, e alla visita successiva, le venne riconosciuto un peggioramento, in particolare dell’occhio sinistro. Dopo l’ottimismo che l’aveva entusiasmata, Margherita ripiombò nella tristezza. Il cheratocono era una patologia influenzata dalla crescita e purtroppo il periodo dell’adolescenza, che è quello della maturazione, rappresentava la fase più acuta per quella patologia. All’ennesima visita, la dottoressa, una giovane che si era messa seduta di fronte a lei a osservarla pensierosa, le spiegò: <<La malattia peggiorerà sino a rendere la cornea così deformata da non permettere più nemmeno l’applicazione delle lenti a contatto>> si sfiorò il mento e continuò, <<pertanto non abbiamo scelta>>. Margherita venne inserita in una lista con la previsione di fare un’operazione, tuttavia quattro mesi dopo, mentre la malattia si acuiva rendendo difficile l’uso delle lenti che saltavano cadendole qua e là, quella stessa dottoressa la richiamò dicendo che non era possibile fare alcuna previsione dei tempi perché si rendesse disponibile un donatore compatibile e che l’alternativa era un trapianto in un centro specializzato, seppure lontano, ma con tempi più brevi, dove avrebbero utilizzato cornee di squalo. La cosa lasciò perplessi tutti in famiglia, ma l’aggravamento rese la cosa meno assurda di quanto non avrebbero pensato anche solo un mese prima. Un martedì di febbraio alle nove del mattino, lei e i suoi genitori partirono per l’aeroporto. Era la prima volta che prendevano l’aereo e lei che lo aveva sempre sognato, non avrebbe mai immaginato che l’avrebbe fatto per curarsi e non per andare in vacanza in qualche lontano luogo esotico. Che rabbia non vedere quasi nulla dal finestrino preso il quale aveva voluto prenotare il posto, percepiva solo colori. Decise di dormire, di non pensare a quello che stava andando ad affrontare e si addormentò ascoltando pur senza troppa attenzione, quello che la signora davanti a lei stava dicendo al marito, parlando dell’appartamento al mare dove il riscaldamento non funzionava dall’inverno precedente. Lui rispose che tanto in inverno non ci andava nessuno quindi non importava, lei rispose qualcosa. Si ritrovò immersa nella confusione dell’aeroporto, nel taxi sino all’albergo dove avrebbero soggiornato i suoi e poi all’ospedale, dove una marea di persone andavano e venivano dimostrando che anche se non lo sai, c’è un mucchio di gente che non sta bene e che lotta per la salute ogni giorno, in ogni istante. Venne messa in una stanza assieme a una giovane italiana di qualche anno più di lei. Non parlava molto, se ne stava in silenzio a fissare il vuoto, o almeno quello che del vuoto riusciva ancora a distinguere. La mattina seguente venne condotta in sala operatoria. Si risvegliò con una grossa benda sull’occhio sinistro e a malapena vedeva la luce e le forme con l’altro. Qualche minuto dopo apparve il chirurgo con un sorriso, si avvicinò e le disse che era andato tutto bene aggiungendo:

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<<Vedrai che adesso riuscirai anche a nuotare meglio>>. Lei non capì, ma non gliene importava molta, l’importante era vedere. Figuriamoci cosa gliene importava dell’abilità di nuotare degli squali. Rimase quattro giorni in quell’ospedale, continuando a non parlare con la compagna di stanza, ma arrivando a chiacchierare con suo fratello. Il quinto giorno, era lunedì mattina, dopo il cambio della garza da parte dell’infermiera, venne dimessa con l’impegno di controlli continui per almeno tre mesi. Agli inizi le cose non furono semplici. Venne assalita da dolori, bruciori, sensazioni strane e immagini altrettanto strane, ma nel corso delle settimane, cominciò a vedere meglio tanto che quasi otto mesi dopo non solo aveva acquistato la vista dall’occhio sinistro, ma era pronta per partire per il secondo viaggio, con la segreta speranza di incontrare il fratello della sua compagna di stanza. Il destino le fece davvero incontrare quel ragazzo, che si chiamava Mauro, mentre i suoi occhi le permisero

da allora, di vedere benissimo, riportandole il sorriso e la fiducia nella vita.

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Margherita Ghiglioni - BIGLIETTO PER IL GIORNO IN CUI TUTTO QUESTO SARÀ

SOLO UN RICORDO *

- Vorrà dire che prenderete l’aereo per attraversare l’oceano e venire a trovarmi -. Sorrise soddisfatta Marta, sullo schermo del tablet di mamma. Non vedevo mia sorella, ormai ventitreenne, da qualche mese e, a quanto pare, avrebbe prolungato la borsa di studio in California per altri sessantadue giorni. Alla parola “aereo” il mio cuore sobbalzò come fosse un atleta delle Olimpiadi di Rio 2016 del salto a ostacoli: prendere l’aereo mi aveva sempre incantata anche se mi sorgeva il dubbio che, a seguito dell’intervento, qualcosa potesse essere cambiato. Negli ultimi sei mesi, la mia famiglia ha subito qualche turbolenza degna di un viaggio che si rispetti. Per prima, mia sorella ha programmato la sua partenza per la California e, in seguito, io ho coinvolto emotivamente e psicologicamente i miei familiari, con una risonanza magnetica al cervello non molto pulita. Insomma, a differenza di Marta, senza nemmeno visitare il porto, mi trovai su un vascello nel mezzo di una tempesta. In effetti, mal di mare l’avevo la mattina... o meglio... il pomeriggio in cui mi svegliai. Quando aprii gli occhi, mi trovavo in uno stanzone un po’ caotico, o forse mi sembrò tale per via della morfina e del mal di testa che, malvagio, apriva numerose credenze nel mio cranio e rovesciava a terra pentole e mestoli. I miei occhi, rimasti chiusi per più di nove ore, percepivano le immagini scure e violacee. Sentii male alla gola e, allungando un dito, mi accorsi di essere intubata; alle braccia e sul collo, erano fissati cerotti da cui emergevano tubi trasparenti. Mi accorsi anche di avere, attaccati al petto, degli elettrodi e, ignorando il clamore nella mia testa, ascoltai il ritmo scandito da una delle tante macchine all’interno della sala: era la voce del mio cuore. - Ciao Margherita! - un viso mi apparve rovesciato, da dietro la testa. - Che bella treccia che hai! - Ah già, i miei capelli. Evidentemente li avevo ancora. Non pensai subito a loro, poiché furono l’unica parte del corpo che non mi faceva male. - Ti trovi nel reparto di rianimazione e io sono l’infermiera di turno. Sono quasi le sei di sera. L’intervento è durato nove ore e credo sia andato tutto bene! - Non appena smisi di sorriderle, mi sorprese una gran spossatezza: avevo l’energia sufficiente solo a respirare e a pronunciare: - Buongiorno. Sono feli... - Poi capii lo scopo di uno dei tubi infilato nella mia narice: rigettai l’anestesia e mi ricordai di aver già sentito, la notte prima, tutta quell’acidità corrodermi lo stomaco e quell’odore marcio di vomito attraversarmi la gola e il naso, nonostante fosse incanalato nel tubicino. M’infastidiva molto. - Scusa -. Interpellai l’infermiera. - Quando me lo togliete?- Riferita al tubicino. - Tesoro, quando smetti di vomitare. - Suonò come una preghiera. Mi rassegnai, come più avanti avrei fatto col catetere vescicale e con i vari postumi, che l’intervento aveva lasciato. Mi riaddormentai senza sapere che, al risveglio, mi avrebbero sfilato da bocca e narice i tubi, tolto gli elettrodi dal petto, rivestita e, finalmente, avrei visto mia madre. - Marghe, ti portiamo nel reparto di terapia sub-intensiva, dovrai cambiare un po’ di barelle oggi, per questo ti chiedo di collaborare, sei pronta? - - Certo!- E tutto quel buon umore dove l’avevo preso? Avevo ancora una forte nausea, ma ero determinata a tenere fuori dal mio naso altri tubi. Sollevarono il lenzuolo sotto di me ed io mi protesi verso la nuova barella. In breve tempo ero nel nuovo letto. Lo schienale sollevato, ero quasi seduta. Un tremendo male al collo e alla nuca mi arroventava i muscoli, a ogni minimo movimento della testa, la stanza vorticava, più di quanto non facesse già, rimanendo immobile. Poi mia madre, seduta accanto al mio lettino, mi teneva la mano. Bellissima anche con tutte quelle occhiaie, mi sorrideva. Ricambiai debolmente. Mi guardai attorno, in cerca di un appiglio temporale: non c’erano orologi. - Mamma, che ore sono? - sussurrai stando attenta a non disturbare gli altri piccoli pazienti. - Le dieci, tesoro - sembrò sollevata nel sentire la mia voce. - A.m. o p.m.? - La colsi di sorpresa. - Credo a.m. - Esitò. - Mamma io sono guarita? - - Sì - Le brillarono gli occhi. E lo disse di nuovo come se non ci credesse ancora. Se avessi avuto la forza di scoppiare a piangere l’avrei fatto. Non piansi tanto, nemmeno quando scoprii di essere malata: la gioia mi

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sa prendere più della tristezza. Nemmeno io ci credevo: ero guarita. Smisi di piangere quando mamma mi asciugò le lacrime e mi invitò a smettere, ma piansi le notti seguenti, senza che nessuno mi vedesse. Poche ore dopo vidi entrare in stanza e porsi ai miei piedi un medico con una folta barba rossiccia. - Buongiorno bellezza -. Ascoltando la sua voce mi riscossi dal torpore, ricordai che quell’uomo era stato uno dei due chirurghi che mi parlò il giorno prima che mi addormentassi. Insistevo, fin troppo curiosa, chiedendo qualsiasi cosa mi passasse per la testa. La scrivania del suo studio, all’interno del reparto, ci divideva, e mai potrò dimenticare lo schermo del computer accanto al suo volto, su cui si apriva, come un fiore, la sezione del mio cervello. Mentre lui parlava coi miei genitori, io non scollavo gli occhi dalla macchia grigio chiaro che sporcava la risonanza magnetica. Rivivevo e ricordavo tutte le esperienze che avevo vissuto i mesi prima, mordendomi il labbro, piena di rabbia, per come il tumore stava sgualcendo ogni minuto felice, per poi rendermi conto di quanto le esperienze che, fino ad allora avevo definito “tristi”, fossero in realtà nulla in confronto a quella situazione. Quando mamma e papà si erano accorti dei miei occhi lucidi, vittime del mostro grigio e mi avevano proposto di tornare in camera, io ero scoppiata a piangere correndo via. Il mio primo bacio, il mio ragazzo, la ginnastica artistica, la scuola, gli amici, casa mia: avevo da poco lasciato tutti e avrei potuto perderli. Corsi a perdifiato per il corridoio blu fino alla stanza numero dieci, spalancai la porta piangendo ancora. - Che succede tesoro? - mia sorella se ne stava seduta sulla poltroncina verde accanto al mio letto alla luce della luna. Non avevo mai pianto prima. - Nulla, è che a volte mi sembra che il mondo si dimentichi che ho sedici anni da due soli giorni. - Il chirurgo, dunque, a seguito dell’intervento, mi visitò e mi fece una serie di domande per verificare i danni a livello cognitivo. Per via della morfina somministratami per settantadue ore, non saprei riordinare precisamente le tappe che caratterizzarono quei giorni. Ricordo di essermi morsa numerose volte il labbro per via del dolore alla testa e al collo, di aver accarezzato con una mano la mia nuca pelata, di aver versato qualche lacrima involontaria durante le medicazioni, di aver sbuffato per la posizione in cui ero obbligata a dormire e di non aver mai smesso di perdere i miei occhi nella solita parete verde spento della stanzina. Ma anche di aver riso rumorosamente con mamma e papà, ironizzando sulla flebo che, poiché fatta male, rendeva fosforescente una mia vena, ironizzando sul menù dell’ospedale e imitando una serie di strani personaggi che vidi entrare in quella stanza. Il mio letto era posizionato sotto una finestrella oscurata, a destra altri due, di fronte ai quali un vetro lasciava intravedere un’altra stanza nella quale tre culle accoglievano altrettanti bimbi di pochi mesi, che ormai avevano teste simili a uova, interamente avvolte da garze e finalmente regolari nella loro rotondità. Accanto a me, un giorno, vidi coricare dalle infermiere una minutissima bimba di circa quattro anni dai capelli mossi e castano chiaro: Beatrice. Fu per due settimane il mio sole e io fui il suo, quello che nella nostra stanza non poteva entrare. La sera, i genitori erano obbligati a lasciarci soli con le povere infermiere. Beatrice, giustamente, cominciava a sentirsi abbandonata. - Magghellita - non una elle in più, non una in meno. - Dimmi tesoro -. M’inteneriva e rispondevo sussurrando. - Quando arrivano mamma e papà?- Le sacche delle flebo ci tenevano compagnia. - Bea, arrivano tra pochissimo. - Mentii come ogni notte: non sarebbero arrivati prima delle undici di mattina. - Se dormi il tempo passerà più in fretta e mamma e papà saranno già qui! - Le regalai la mia riserva di entusiasmo e gliela posi sul pancino. - Magghellita, non riesco a dormire. - piagnucolò. - Sai Bea, io per addormentarmi faccio tanti bei respironi, così non sento male alla testa e m’addormento. Ora fai come faccio io. Chiudi gli occhietti, inspira dal nasino - Inspirai. - E butta fuori l’aria con la bocca. - Espirai soddisfatta notando che s’era addormentata. L’unico libretto che s’era portata appresso da casa sua, era Cenerentola e, la notte, mi chiedeva di raccontarle un’altra storia. La inventai, raccontandole ciò che avrei voluto vedere io dietro la nostra triste finestrella: - Fuori di qui c’è il mare e, sotto il mare, c’è il sole che riposa, ogni sera chiude gli occhi proprio come facciamo noi, mamma e papà. La mattina apre gli occhi e tutti ci svegliamo per giocare insieme. - Trascorrevano attimi di silenzio. Poi: - Magghellita, il sole non si vede da qui, come facciamo a sapere che si è svegliato?- - Anche se non lo vediamo, la sua luce entra da questa finestrella e io ti sveglierò quando vedrò la tua mamma e il tuo papà. -

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- Voglio un’infermiera che mi faccia compagnia, la chiami?- Così feci, ma queste erano troppo impegnate a placare lo straziato pianto dei piccoli. Per accontentarla, attirai la loro attenzione staccando il cerotto della saturazione dal dito e la macchina produsse una frequenza di allarme. Così Beatrice ebbe compagnia finché non ci addormentammo entrambe. Trascorsero due settimane e, ogni giorno di più, sentivo crescere la voglia di tornare a stare in piedi. Seppi inoltre che, mio fratello, avendomi vista ancora sotto anestesia nel reparto di rianimazione, era svenuto in corridoio; che mio zio, il giorno dell’intervento sbagliò ospedale e che, la mia famiglia, frantumata in mille pezzi anni prima, s’era riunita la stessa sera dell’intervento, a mangiare una pizza sostenendosi, provata dal viaggio in cui l’avevo trascinata. Non dimenticherò quanto fu difficile sedermi sul fondo del letto, poiché mi sbilanciai quasi cadendo, come fu frustrante non poter muovere qualche passo verso il bagno, ma doverlo fare in carrozzina, come muovere il collo fosse di enorme difficoltà. Una sera andai a dormire stringendola promessa di mio padre: “Domani ci mettiamo in piedi”. Il fatto che fosse medico, faceva sì che le sue parole suonassero più credibili e perciò incredibili, rispetto alle altre. Quel giorno avevo già provato a camminare, con mamma che mi teneva entrambi i palmi. Mi aveva fatto ridere forte, paragonando la mia camminata a quella di Learch della famiglia Addams. La stessa notte, cullando la promessa, sognai di correre in un prato verde, col sole che scalda le ossa e il fiato che manca non solo per via di qualche semplice gesto. La mattina dopo, non appoggiai più il piede come il giorno prima. Al mio racconto nessuno crede mai, ma quel sogno m’insegnò di nuovo a camminare. Qualche giorno dopo, uno dei due chirurghi, entrò in stanza, mi guardò con aria di sufficienza e mi esortò ad alzarmi in piedi e camminare. Il fatto mi aveva irritata molto e la mia infermiera preferita lo prese in giro nominandomi “Lazzaro”. Questo fu il mio soprannome di lì alla fine del ricovero. Giunse poi, la mattina tanto attesa: quella di fisioterapia, che precedeva il mio trasferimento in reparto, dove la vita era di certo meno opprimente. Mi sedetti sulla sedia a rotelle e mamma cominciò a trascinarla con poca delicatezza. L’ultima espressione la definirei un eufemismo, visto che non si rivelò proprio capace di guidarla. Sfrecciava nei corridoi gelidi e la mia testa cercava di starle dietro con poco successo. Quella mattina dimenticammo in palestra la sua sciarpa colorata e lei non si ricordò mai dove l’avesse appoggiata dopo avermela tolta. - Menomale che mi rialzerò in piedi: io con te non rimarrei viva se fossi in carrozzina. - Risi. Il fisioterapista riscontrò alcuni deficit “totalmente riassorbibili” così li definì, ma fece compilare al primario una lettera in cui consigliava di proseguire, anche a casa, nella riabilitazione dell’arto superiore sinistro e dell’equilibrio. Così, quindici giorni dopo l’intervento, fui dimessa; seduta in macchina con mamma e papà, credetti che tutto fosse finito, ma non sapevo di essere soltanto a metà di quello splendido percorso. Il viso perfetto del sole non mi sembrò mai così luminoso e il dorso del mare, mai cosi liscio, l’aria, tagliata a scaglie, che entrava dal finestrino di mamma un poco abbassato, non fu mai così profumata di sale, la mia vita mai così bella. Purtroppo questa è la situazione: nessuno può mai sentirsi così egoista (come mi sentivo io), da provare il desiderio di ingoiare con gli occhi la meraviglia che c’è da sempre attorno a noi, finché non rischia di perderla. Durante il viaggio di ritorno capii molte cose, tra queste, che avrei voluto raccontare, attraverso il mio viaggio, che siamo ancora in tempo per afferrare la meraviglia che è la vita e per cogliere l’esperienza del dolore lasciando che esso ci trasformi. Mentre il sole mi scaldava le ossa, pensai alla piccola Beatrice, che avevo salutato, uscendo con le mie gambe dal reparto, che se ne stava accasciata allo schienale rialzato del suo lettino della stanza sette, al suo visino, che non mi ero mai voltata a guardare (per via della rigidità del mio collo), così bello e allegro, al mostro che stava compromettendo i suoi movimenti e che avrebbe dovuto affrontare per una terza volta. Pensai a quanto avrei voluto che i suoi deficit fossero riassorbibili quanto i miei e che il suo Astrocitoma fosse poco invasivo quanto il mio. Lei aveva ancora qualche altro tratto da percorrere, ma sono certa che nulla di ciò che la vita ci riserva, sia più grande di quello che possiamo affrontare. Sapevo che, la notte, anche lei sognava come me di correre: i suoi genitori un pomeriggio, promisero che, una volta guarita, l’avrebbero portata a rinfrescarsi tra le fontane nel suo parco preferito. E la immaginai scorrazzare felice, come spetterebbe a una qualunque bambina di quattro anni. Mi commossi dietro al finestrino. L’ospedale è un mondo a parte che nessuno può davvero conoscere, senza averlo abitato: c’è disperazione, sconforto, alienazione e al tempo stesso speranza che nascono dal dolore stesso. Alla radio quella canzone, mi gridava nelle orecchie “Comunque andare”, le strofe che cantava la piccola Alessia appena sveglia ogni mattina, che viaggiava due letti accanto al mio. I sentieri che

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s’intrecciarono in quei giorni furono troppi e questi caratteri non sono sufficienti a descriverne la bellezza, ma è così che ci siamo persi e ritrovati. Quando giunsi a casa aprii la porta al sesto piano. Rividi mia sorella e mio fratello. Lei mi corse incontro e mi sussurrò all’orecchio: - Hai visto che ce l’hai fatta?- In quell’attimo decollò l’aereo su cui mi ero imbarcata, diretto verso il giorno in cui tutto questo sarebbe

stato solo uno splendido viaggio da raccontare.

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Palmina Giannini - Felicita e la sua infelicità

Sono stata concepita con infinito amore, tutti mi attendevano con ansia, mamma e papà non stavano nei loro panni, una frenesia strana si era impossessata di tutti parenti ed amici. Sarà maschio? Sarà femmina? L’importante che nasca in buona salute e che sia protetto da una buona stella. Nella nostra casa non si viveva più, era diventata un ritrovo di persone elettrizzate, si correva, si rideva, avevano tutti un viso instupidito, si udivano spesso frasi senza senso. Vi era nell’aria un’euforia totale. Assomiglierà alla mamma o al papà? Sarà bellissima o bellissimo? Finalmente si seppe: è femmina. La mia cameretta sembrava quasi una nuvola rosa, che bello il rosa! Il colore più bello del mondo, infatti vi aleggiava un profumo di rose antiche, il rosa un colore perfetto. Mi crogiolavo nel pancione di mamma percepivo una sensazione di pace, d’amore, d’affetto, sarebbe stata la mia un’esistenza da favola... tutta in rosa. Finalmente stavo per venire al mondo, in sala di attesa vi erano tutti, amici parenti e compari, i più sensibili simulavano finti svenimenti, che aspettarti di più dalla vita, in quel momento percepii il meglio del meglio. Dopo un lungo viaggio durato nove mesi, tra sorrisi e consigli inutili finalmente venni alla luce, finché ero nel pancione della mamma mi sentivo una principessina nel suo castello dorato; era esso un luogo vitale il più ospitale del mondo; fuori che confusione! Parole ed auguri che si incrociavano, i telefonini che suonavano in continuazione tutti, felicemente ed esageratamente euforici coinvolti in un evento invece del tutto naturale. Che bella! Tutti facevano il tifo per me: è nata Felicita! Ammiravano i riccioli biondi, le guance paffutelle i piedini delicati. Assomiglia alla mamma! Ma no! Al papà! Ma quando mai! A nonno Gino! Alla nonna Margherita! Alla zia Brigida! Assomigliavo a tutti e tutti assomigliavano a me; uff che stress.

Dopo tanto trambusto ed inutile parlare, in modo improvviso gli occhi che prima sfavillavano non brillarono più, scese intorno a me un silenzio mortale, il mio cuoricino si struggeva in un doloroso silenzio, i parenti e amici mi osservavano con i volti imbronciati in modo inaspettato fu distrutto e stroncato il mio mondo da favola, mi veniva spontaneo sgambettare con le mie gambine e volgevo lo sguardo di qua e di la, inconsapevole, che quello che doveva essere un lungo e brillante viaggio di una vita felice era sì iniziato ma subito terminato. Mi imposi di non deludere nessuno era troppo bello essere amata; dovevo assolutamente farmi voler bene di nuovo. Anche se brevemente, avevo assaporato la felicità essa mi era piaciuta così tanto che desideravo gustarla di nuovo; anche perchè il mio nome Felicita significa: Fertile, Favorita dagli Dei, Contenta, inoltre il colore a me appropriato è il rosa. Con questo nome una bimba dev’essere assolutamente esultante e piena di voglia di vivere, mai il suo animo dev’essere turbato, anche se affetta da malattia rara dovevo trovare in essa un risvolto positivo, perché i fanciulli tutti sono continuamente affamati d’amore e voglia di vivere. Affinchè ci sarà solo un bambino triste al mondo esso, non sarà un mondo vivibile; perché la sofferenza di un bimbo non è mai giustificata. In bocca a lupo principessa Felicita, ora sei una principessa triste, ma un giorno sarai sicuramente una

principessa piena di felicità: Auguri e che la vita ti sorrida sempre.

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Battista Andrea Giardini - Sognavo delle vesti leggere

Sognavo delle vesti leggere libero dai massi a cui ero legato. Un bicchiere di vino rosato Ha uno strano odore di storie Narrate solo in sogno. Un violino scordato Mi ricorda grida smaliziate Di storie di capelli sporchi, Cera d’api e strani rumori. Un valzer da pazzi Gli occhi di una bambina E la bocca di pesca e le gote sanguigne. Non pensavi che camminare fosse così difficile. A oziare per una preghiera A sperare cenere e carbone Un braciere isolato, al chiuso. Un servo ululava alla luna Mentre un pastore ramingo Masticando, faceva suonare la porcellana in bocca. Disconnesso Indico con le dita un gomitolo di lana Morbida e scolorita. Nell’aria la spuma del mare E tu con le mani callose A orientarti tra intime stelle. Chissà, un giorno… Ritrovarti con le scarpe bucate A un incrocio o su una duna in mezzo al mare, riposandoti solo per un attimo, animata dalle storie di marinai o cullata dai ricordi, E, intanto, Prego che tu abbia coperte per scaldarti In compagnia del tuo angelo bianco Entrambi sorridenti come in quella foto, Come in un sogno.

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Patrizia Girardi - Alla fine ∞

Portami a dormire al sole Di una spiaggia al mare Fammi ricordare Dimmi com'è L'odore di respirare Non ti vorrei lasciare e invece sono qua Non so più cosa fare e questo non mi va Dolore che non passa, angoscia che non posso più vivere così Chissà come sarà questa camera d'albergo Avrà finestre rosa o forse solo un letto Di certo avrò il sorriso di chi mi verrà incontro Di chi saprà parlarmi o solo starmi accanto E poi se andrò veloce verso la nuova meta Incontrerò qualcuno che parlerà divino E senza più paure affronterò il destino Per arrivar lassù

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Salvatore Grieco - Il profumo dell'innocenza ∞

Il maestro Ferdinando Finelli era un omino esile, ed era il veterano della Scuola Elementare di San Marco, frazione di Santa Maria a Vico. Erano undici anni che da Caserta raggiungeva la città suessolana. Era ripartito dalla prima classe e già dopo quattro giorni di lezioni gli si era presentata la prima grana: mancava uno scolaro. Aveva informato subito la sua amica direttrice che, rice-vuto il diniego dei genitori, aveva fatto intervenire il maresciallo dei Carabinieri. Il piccolo Antonio Cimmino era minuto, con il viso magro e i rattoppati panni indossati indicavano quanto misera era la sua famiglia. Di carattere difficile, ribelle, al maestro era stata necessaria tutta la sua esperienza per farlo emergere dalla tragica condizione in cui viveva. Alla fine d’ottobre Antonio, mentre era accanto alla cattedra, fu pervaso da un fremito seguito da una forte sudorazione: la vo-ce gli mancò di colpo e in un baleno stramazzò al suolo. Al mite maestro occorse non poco di tempo per farlo rinvenire. Incerto su cosa fare, la successiva domenica mattina bussò alla porta di Pasquale Cimmino. «Signor Cimmino, ciò che sto per dirle» esordì «è per il bene di Antonio. A mio parere, ha un problema di salute e va tenuto d’occhio…» Quelle prime parole lasciarono l’uomo confuso. «con lo sguardo Antonio lancia una continua supplica…» Aggiunse il maestro. I giorni passarono, ma nulla si smosse. Il 6 dicembre del 1963 il maestro Finelli stava per iniziare la lezione, quando attirato dal baccano degli alunni, vide il piccolo Cimmino riverso sul pavimento: fiatava a fatica. Si precipitò verso di lui. Lo sollevò. Gli servirono sei disperate manovre per fargli riprendere conoscenza. Aveva iniziato ad amarlo più di suo figlio e decise di prenderlo sotto la sua protezione. A distanza di quasi due mesi gli sciagurati genitori ancora non si decidevano di sottoporre il figlio a visita specialistica. Non si mossero neppure dopo il terzo inquietante episodio ca-pitato durante la costruzione del presepio: Antonio, nel raccogliere i cocci di una statuina caduta per terra, si ferì alla mano sinistra. Nonostante la pronta medicazione, la lacerazione non smetteva di sanguinare. Cominciò a rimarginarsi solo dopo otto giorni e ciò insospettì ancora di più il maestro Finelli. Il nuovo anno, alla ripresa delle lezioni, Antonio non tornò a scuola. Al quinto giorno d’assenza, il maestro decise di far visita ai Cimmino. Nel porticato incontrò la vicina di casa, l’anziana signora Natalia, che appena lo intravide gli si parò davanti e bloccandolo gli disse: «Professo’, siete qui per Tonino? In casa non c’è nessuno.» «Come non c’è nessuno?! E Tonino?» Il bambino dorme. Non ha nulla, solo un po’ d’influenza. La mamma, però è inquieta. Secondo lei il figlio ha uno strano malanno perché si sente stanco e poi, va cadendo come un sacco vuoto. Professo’ s’è riempito di lividi. «Secondo me, Luisella fa bene a preoccuparsi per il figlio.» «Il padre non gli crede. La mamma vuole chiamargli il dottore e lui gli ha detto che non si deve permettere.» Il maestro non replicò subito, ma prima di uscire, le urlò: «Avvisateli che tornerò con il medico e se non vogliono, faccio venire anche il maresciallo dei Carabinieri, va bene?» Si consigliò con il cognato che era infermiere all’Ospedale Civile di Caserta il quale gli consigliò di affidarsi al Primario di Ematologia. Il maestro Finelli, fissata la visita specialistica, tornò dai Cimmino e mentre il bambino gli si avvicinava per sa-lutarlo, si accasciò senza perdere i sensi. Il maestro corse da lui e sparse sul suo corpicino, poté scorgere la presenza di larghe petecchie. Dopo averlo adagiato sul lettino, rivolgendosi al signor Cimmino, cominciò: «Pasquale, secondo me la sua malattia è molto seria. Vedendo tuo figlio, ho pensato che sia affetto da...» Il maestro decise di prendere lui l’iniziativa e data la gravità e l’urgenza, gli annunciò l’appuntamento con il Primario accollandosi lui i costi. Il successivo sabato si ritrovarono dinanzi lo studio del Professor Aniello Cacace. Il signor Cimmino per l’insistenza della moglie aveva acconsentito nello stesso tempo, però ave-va cominciato a maltrattarla senza sosta. Con il trascorrere dei giorni, la signora Luisella, stanca delle umiliazioni, non resse più e litigò con il marito in maniera furibonda. Il bambino no, non glielo doveva più toccare, poteva insultare lei, ma il suo bimbetto

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assolutamente no! Un pome-riggio, col sangue che le pulsava nelle arterie, alzò d’impeto la seggiola e gliela scagliò addosso. Era inferocita. Restò per alcuni istanti inebetita, immobile, a quel punto il maledetto prese il sopravvento e la riempì di botte. Appena lei poté sfuggirgli andò via da casa. Scappò rifugiandosi dai genitori. Antonio cominciò a tremare impaurito e vedendo sua madre precipitarsi fuori lanciò un urlo e provò a correrle dietro, ma dopo pochi passi, in preda a indicibili spasmi stramazzò svenuto. Pasquale Cimmino era ancora inferocito, quando scorse il fi-glio steso sul pavimento. Gli s’avvicinò barcollando, lo sollevò e lo portò sul lettino lasciandolo privo di sensi: l’aspetto del bambino era cadaverico. Il vigliacco genitore impiegò diversi minuti per riprendersi e mezzo stordito s’avvicinò al figlio e provò a scuoterlo, ma Antonio gli sembrò come morto. Cominciò a inveire come un satanasso tanto che, spaventata dalle forti grida, in casa si precipitò zi’ Natalia. Corse subito dal bambino immobile e nonostante la caterva di bestemmie e urla del vicino, con gran sangue freddo, riuscì a rianimarlo. Dopo la furente litigata, grazie all’anziana Natalia, tra i Cim-mino tornò il sereno. Il maestro Finelli non seppe mai ciò che era successo in quella casa e ricevuti gli esami clinici cui era stato sottoposto il piccolo Antonio riprese l’appuntamento con il Professore. Il Luminare spiegò a Pasquale quale grosso guaio gli era caduto addosso. La patologia di cui era affetto Antonio, doveva ascriversi tra le malattie rare. Era seria e grave. Si trattava di una malattia denominata: Porpora Trombotica Trombocitopenica. Di tale morbo non si sapeva molto tuttavia era strano che avesse colpito lui che era così piccolo. Papà Cimmino accusò il colpo e per avere un sostegno si recò dai genitori che seppure concilianti, gli riempirono la testa di fesserie fino a convincerlo di non seguire la medicina ufficiale. Gli ripeterono che i medici erano una calamità e le medicine gliele davano solo per fare esperimenti. La cura alternativa cui avevano affidato il bambino dapprima sembrò funzionare, però dopo non molto Antonio ricominciò a stare molto male. Pasquale, che per seguire i consigli dei parenti s’era allontanato dal maestro Finelli e così, pressato dalla moglie e dalla serietà della situazione del figlio, si recò a Caserta sperando di parlare con lui. Era molto pentito di aver affidato il ragazzino nelle mani di fattucchieri e mistificatori. La disdicevole sot-tomissione fu completa e finì per toccare l’animo del ritrovato amico. Il maestro si pose al lavoro e già quello stesso pomeriggio Tonino fu ricoverato nell’ospedale casertano. In meno di venti giorni di cure ospedaliere Antonio non solo aveva riconquistato la sua autonomia, ma era tornato anche di nuovo a casa. A ogni modo la malattia, con i suoi alti e bassi, non gli dava tregua e così piano piano le ore di riposo comin-ciarono a ridursi tantoché il maestro consigliò di portarlo di nuovo all’Ospedale di Caserta. Ultimati gli accertamenti clinici, un pomeriggio il Professor Cacace comunicò alla signora Luisella che per il suo bambino c’erano poche speranze di sal-vezza. Quella stessa sera anche il maestro apprese dal cognato che Antonio era spacciato. Il maestro, dopo aver parlato a lungo con il Professor Cacace, afferrò l’amico Pasquale per un braccio e gli disse la verità su suo figlio Antonio. La speranza era in un farmaco sperimentale ed era necessario affrontare un lungo e faticoso viaggio per recarsi a Firenze dal Professor Panzellini, noto scienziato amico del Professor Cacace. La visita medica fatta presso il Luminare toscano purtroppo deluse il maestro Finelli che si attendeva ben altri risultati. La speranza di salvare la vita ad Antonio era ridotta al lumi-cino e perciò dal giorno che era tornato da Firenze a Pasquale tanti gravosi pensieri gli rodevano la mente e in particolare di nuovo gli capitò di domandarsi se fosse lecito fare sperimenta-zione su suo figlio senza una speranza di guarigione e in verità sia il Professor Cacace sia lo scienziato di Firenze non gli avevano mai detto: “Io te lo guarisco”. A ogni buon conto i coniugi Cimmino, non avendo altra scelta per il loro Tonino ap-provarono la sperimentazione approvata dall’Istituto di Sanità. Il maestro Finelli, che non aveva mai smesso di fermarsi alla masseria per un saluto e una carezza al beneamato Tonino con amara sorpresa, un mesetto dopo aver cominciato la nuo-va cura, notò nel bambino un’aria strana, preoccupante. Deci-se di parlarne al Professor Cacace seduta stante. L’amico pro-fessore dopo averlo ascoltato con attenzione, gli replicò: «Caro Ferdinando ti si legge sul volto che non accetti la cru-dezza degli eventi tristi. Solo esercitando questo mestiere purtroppo si capisce quant’è duro, penoso, comunicare certe real-tà alle persone che s’aspettano da te solo miracoli e che tu non puoi fare...» Il professor Cacace restò un attimo pensieroso, assorto, grave. Poi ricominciò: «Ferdina’ non c’è più nulla da fare. Per il tuo piccolo scolaro io non ho più cure...» «E il viaggio a Firenze, il professore? Vuol dire che la cura non ha funzionato, che non gli ha fatto assolutamente bene?»

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«Se posso aggiungere, Ferdina’, non è per essere catastrofico o distruttivo, ma io, conoscendo la letteratura medica ed essendo informato sui passi che i nostri scienziati, almeno quelli ufficiali, stanno facendo, la scienza per questo tipo di malattia così rara, la TTP, è purtroppo ancora ai primordi. Al momento non ha trovato niente che possa guarirli e neppure fermare la sua avanzata o mantenerla allo stato in cui è arriva-ta. No, amico mio, il suo corpicino non ha avuto benefici effetti e oltre a quella non c’è altro. D’altra parte, se ricordo bene, lo stesso Professor Panzellini aveva detto che la cura era sperimentale e di non farsi illusioni, o sbaglio?» Fu durissimo per il maestro Finelli accettare che il suo picco-lo alunno stesse per iniziare l’ultimo viaggio e comunque, cre-dendo nella ricerca, rimase in contatto con il professor Cacace sperando che un giorno... Il piccolo scolaro Antonio Cimmino morì a pochi giorni dal suo ottavo compleanno. Era il mese di giugno del 1964. Oggi la ricerca e la sperimentazione hanno certamente raggiunto livelli tali da consentire la messa a punto di cure che se non sono risolutive quantomeno impediscono al male d’avanzare donando una dignitosa esistenza.

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Clafiria Grimaldi - Il "viaggio" di un medico attraverso la sua malattia ∞ Il ricovero Il giorno in cui l’ambulanza mi ha portato via ho capito che qualcosa nella mia vita cambiava inesorabilmente. Improvvisamente mi sentivo depersonalizzata, ero diventata “un caso clinico”, uno tra tanti, e mentre aspettavo che un camice bianco mi dicesse cosa sarebbe stato da quel momento in poi, una nuova consapevolezza si faceva strada: la mia vita, non era più mia. La sig.ra Antonella Rossi alias cartella n. 423 affetta da patologia codice ICD-9 410, era diventata un numero. Ed è proprio in quel momento che come per incanto riaffioravano alla mente i giorni felici: il mio matrimonio, il primo bacio, l’abbraccio di mia madre, le feste di compleanno dell’amica del cuore, il giorno che piansi accarezzata da un fiore. Momenti in bianco e nero scorrevano come la pellicola di un vecchio film, un set in cui ero stata la protagonista mentre adesso, sembrava che stessi guardando dall’ultima fila. Attendevo timorosa in astanteria, cercando un sorriso negli sguardi di coloro che erano diventati i miei “angeli bianchi”, un minimo accenno che desse quel poco di calore necessario per riaccendere la fiammella della speranza. Fu un’attesa snervante dove si decideva il futuro, un futuro che non è mai certo, sempre in bilico, e mentre rivedevo i miei giorni uno ad uno, ne assaporavo solo allora la loro reale importanza, pensavo alle cose che non avevo fatto o non avevo detto prima, che smania… giurai: se esco da qui mangerò a morsi la vita! Le ore passavano lente, ad occhi chiusi, ormai rassegnata al peggio. La nostra esistenza è questa, quando meno te l’aspetti ti arriva una pugnalata alla schiena, non bisogna mai dare tutto per scontato, ogni giorno è un dono, e mente vagavo tra mille riflessioni, sentivo salire il cuore in gola, per la prima volta avevo paura di morire. La morte è un passaggio, non dovrebbe far paura, c’è chi mi accoglierà, e così introiettata, un dubbio atroce mi assaliva: ma Dio esiste? Ti prego Signore dammi un segno, consolami, dammi forza, ecco come da copione arrivava anche la fase mistica, un classico. Spesso ci ricordiamo di “Lui” solo nei momenti di necessità, e questa idea mi procurava un certo imbarazzo, eppure si faceva strada una considerazione, una piacevole consolazione, se prego forte mi perdonerà, se credo forte forse, avrò meno paura. L’attesa continuava, intorno a me come in un girone di sofferenza, altri arrivi, Dio mio siamo in tanti, gli angeli bianchi non potranno salvare tutti, ed io cosa potevo fare? Iniziai a parlare, a consolare, a condividere il mio con il loro dolore, abbiamo sorriso, pianto e pregato insieme, ecco la speranza… ad un tratto mi sento leggera, una mano che stringe la mia, sorrido e vado via. La visita Puntualmente rientro nel mio studio dopo giorni di malattia, fortemente provata dai girotondi eseguiti nei vari ambulatori e laboratori di analisi alla ricerca di una diagnosi certa e rassicurante, invalidata nelle mie relazioni affettive sociali e lavorative. Fu un viaggio della speranza, attraverso meccanismi kafkiani nel mondo della sanità, questa volta da paziente e non come medico. Persa come in un labirinto alla ricerca di una via di fuga, avevo vissuto giorni di intensa frustrazione, aggravati dalle conoscenze mediche che anziché essere d’aiuto tendevano a peggiorare le mie aspettative prognostiche. Finalmente la routine quasi liberatoria, una vecchia affezionata paziente venne a visita e sulla porta dello studio a farmi i convenevoli: “Felice di rivederla al suo posto, come sta la sua salute dottoressa?”, questo esordire mi suscitò un’insolita sensazione: si erano per caso invertiti i ruoli? Dalla mia scrivania sorvolai e risposi “E’ tutto passato, era solo una brutta bronchite”, quasi minimizzando. La paziente mi guardò in modo intenso e rifece la domanda: “Come sta?”; un po’ irritata e tentando di sfuggire a quel suo sguardo che sembrava volesse aprire il mio corpo e la mente replicai “Bene, ma perché insiste?"; fu allora che lei decisa, con tono pacato, iniziò a parlarmi dolcemente “Ho guardato nei suoi occhi tempo fa ed ho visto la paura, la stessa, inconfondibile, che ho conosciuto io”; sorpresa e volendo ancora sostenere un tono dal retro della mia scrivania, continuai decisa “lei non mi aveva mai riferito di questa sua paura nelle nostre precedenti visite”; con un disarmante sorriso contraccambiò “Nemmeno tu dottoressa”. Ci alzammo entrambe, io dalla scrivania, lei dalla sedia e ci abbracciammo, una lunga e meravigliosa stretta,

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non so quanto tempo sia durato, insieme abbiamo capito. Come un tenero amante mi sussurrava “E’ passato, su dottoressa forza, ormai è tutto passato”. Siamo uguali, fragili, senza ruoli e nelle mani di Dio! Spunti di riflessione La professione medica ha un ruolo importante ma, l’umanità è tutto. Il rapporto medico-paziente spesso dovrebbe uscire da quei canoni rigidi di visita medica e controlli successivi, a volte sono i miei pazienti a farmi la visita e toccano il mio cuore. Il rapporto medico-paziente deve essere soprattutto amicale, uno scambio d’amore, una speranza di vita. All’Università ti insegnano a diventare un bravo medico, a riconoscere e curare le malattie, ma i nobili sentimenti, sensibilità, umanità, altruismo, dedizione e disponibilità non si apprendono dai libri ma nascono con la persona. Tutti noi dovremmo essere prima pazienti e poi medici, la sofferenza è maestra di vita. Basterebbe dedicare al paziente un minuto in più, dare una spiegazione chiara, un incoraggiamento, elargire un sorriso per alleviare le sue pene. Un buon medico è prima di tutto una persona capace di ascolto e rispetto, capace di costruire delle relazioni interpersonali toccando sfere intime e delicate. Oltre la professionalità si chiede capacità di analisi e grande sensibilità. Caratteristica fondamentale è l’empatia. Solo se dentro ad un camice c’è una persona si può sperare in un rapporto che vada oltre il dovere e l’avere, concretizzandosi in un essere. La compassione per il prossimo e l’azione spontanea per lenire la sofferenza ha qualcosa di divino. Le sofferenze che ci accompagnano, ma anche quelle superate felicemente imprimono allo sguardo una particolare espressività, segno di una nuova consapevolezza: siamo fragili e senza ruoli. Se si ha l’umiltà di porsi in un rapporto amorevole con gli altri, quando questo accade, al distaccato dialogo professionale, o comunque formale, subentra un solidale abbraccio, una condivisione che annulla distanze e pregiudizi e ci pone sinceramente in un contatto con l’esistenza e le tribolazioni di chi è il nostro occasionale o abituale interlocutore. Non c’è cosa più bella che confrontarsi, con serenità, con la nostra fragile ma bella umanità. Il dolore non sempre separa, spesso unisce e ci permette di trovare, insieme a coloro che come noi stanno soffrendo, una medicina buona a guarirci: una comunicazione onesta e contraddistinta dall’Amore. Nessuno è immune all’impietoso tempo, sono la solidarietà, la condivisione a fare di noi delle persone vere!

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Lorena Gurrieri - Sono quel che sono, la Malinconia ∞

Io sono la Terra, arresto il cadere delle foglie abbraccio fango contemplo la rifrazione della rugiada sazio lupi, figli della carne respiro aghi di pino ondulanti fastidiosi, insidiosi cingo radici, slanci di fradici sogni nascondo miei bisogni coloro i dolori di gigli recisi inventandone sorrisi. Io sono l'Aria, calda e umida nei passi, schiva sulle fondamenta delicata sulle colline matide di garbo e oro. Abbaglio se mi temi, la carezza che da solo contieni le lacrime che giù giù giù divori i pensieri pensanti dei miei umori così rotolo e spiazzo rimpiazzo polvere con cenere, veloce un'ara dopo il delitto un ladro di soppiatto il contrasto del tramonto sul tetto. Io sono il Fuoco, divampo nel rancore mi appiattisco nel rimpianto, schianto, l'attesa resa nel propagare miccia nell'esporsi, brivido nella carne di chi non ha pelle, cicatrice sulla pelle schiacciata dalla carne, sono la Luce della memoria e l'Oblio del torto cancello e non aspetto. Io sono Luna, in un viaggio a intermittenza nel solfeggio delle mie azioni lo spreco e l'avanzo, lo sgarbo alla mia stessa Vita, il furto del pezzettino di cielo che mi compete, schiacciata nel fondo del pozzo da un Male ho due occhi come feritoie pronte ad annegare nella crudeltà che mi rende Malinconia.

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Barbara Hugonin - Diario di bordo controvento

n.d. Michael, 12 anni, una zazzera bionda che scendeva sbilenca sulla fronte, due occhi verdi come i boschi con chiazze color nocciola ed un sorriso grande come un sole, nonostante tutto, nonostante lei. Ho conosciuto Michele, detto Michael (per scelta estetica come ama dire lui), quando ho iniziato a studiare ed occuparmi di fibrosi cistica, una malattia genetica rara, in particolare durante l’ennesimo ricovero per lui ed il primo approccio ad una nuova ricerca per me. Era un lunedì mattina di marzo, freddo, un nuovo inizio di settimana, un giorno di un periodo per me molto buio, mio papà se n’era appena andato, sfinito da una lunga malattia ed, io ogni nuovo giorno sentivo la fatica ed il peso di un dolore continuo, di lunghe attese in ospedale come parente di un paziente e di ore nelle corsie e nei laboratori come ricercatore, giorni di un’ impotenza assoluta, fin quando i nostri occhi si sono incrociati, mi colpì la sua allegra serenità nonostante non riuscisse a respirare senza ossigeno ed il suo pancreas fosse malandato, ma la sola omonimia con il mio papà Michele, mi fece capire che non era solo una coincidenza. - Ciao dottoressa, come mai mi sembra di vedere i tuoi occhi tristi? - Occhi tristi? E dove li vedi tu gli occhi tristi? Immagino tu sia Michael, mi avevano detto che eri piuttosto... curioso - mi venne spontaneamente per rompere il ghiaccio. - Scusa sai faccio fatica a parlare, mi manca l’aria, ma mi dispiace se sei triste per qualcosa. Pensai subito che ci fosse un motivo dietro il nostro incontro, un bambino straordinario, come poteva un ragazzino di 12 anni, provato da una malattia molto seria, nella sua forma più severa, che lo aveva limitato moltissimo nella sua vita, che gli toglieva il respiro, avere attenzione per chi neanche conosceva, tanto da notare piccoli particolari. Era nata subito una particolare simpatia, con un occhio sbirciavo, mentre stavo controllando i suoi esami, e lo vedevo curioso seguirmi con lo sguardo, attendendo che mi avvicinassi. Dopo la visita gli spiegai che avremmo dovuto sottoporlo ad alcuni esami per poter iniziare una nuova cura sperimentale, una nuova terapia per addolcire un po’ la “sorellastra". E così lui mi fece: - Ma ci sarai tu con me quando iniziamo la nuova terapia? - Si ci sarò io, ti seguirò io- risposi con un sorriso, almeno speravo fosse tale. - Sono contento sai - una piccola pausa, la maschera dell’ossigeno si sa non ti permette di sforzarti molto - mi sei molto simpatica, sei gentile e con te non ho paura e poi mi sembri anche studiosa- fece piuttosto serio. Queste parole, molto più adulte che da dodicenne francamente, mi avevano lasciata basita, forse perchè arrivavano come un balsamo su ferite molto profonde. Non so spiegare che cosa fosse scattato in me quel lunedì ma dopo tanto tempo ero tornata a sorridere e a sentirmi utile sul serio. - Allora posso contare su di un capitano coraggioso?- Mi venne di usare un linguaggio marinaresco, retaggio della passione trasmessami da mio padre per i modellini di velieri. - Non chi comincia ma quel che persevera- rispose Michael. Io rimasi un attimo ferma, poi non riuscii a non farmi venire gli occhi lucidi, e allora capii che per me stava iniziando un nuovo viaggio, con me stessa, con i miei dolori, con i piccoli e grandi eroi che la vita stava mettendo sulla mia strada. - Allora conosci l’Amerigo Vespucci?- chiesi in tono interrogatorio. - Certo “Non chi comincia ma quel che persevera” è il motto della nave Amerigo Vespucci, sai io e mio nonno costruivamo sempre i modellini di velieri insieme e mi aveva promesso che saremmo andati a vedere l’Amerigo Vespucci, quella vera però. Lo sai che è la nave più bella del mondo? - Si lo so, anche il mio papà costruiva modellini di velieri ed io lo aiutavo sai, avremmo dovuto costruire anche noi l’Amerigo Vespucci. - Lo potete sempre fare no? Esitai, non sapevo cosa rispondere o forse facevo solo fatica a dirlo – Non c’è più ha deciso di andar via per un lungo viaggio. Ci fu un momento di silenzio, mentre controllavo il dosaggio degli enzimi pancreatici e il livello della flebo che stava per terminare, Michael mi scrutava sornione ed attento. - Ho capito perché hai gli occhi tristi, ti manca molto vero? Annuii. Si chiamava come te pensai tra me e me, coincidenze? Chissà.

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La giornata andò avanti e la nuova sperimentazione avrebbe coinvolto 5 ragazzi, il primo sarebbe stato Michael, poi nei giorni successivi sarebbero arrivati anche gli altri, ma non riuscivo a togliermi dalla testa quella zazzera bionda e quelle innumerevoli coincidenze..forse era un messaggio, forse qualcuno da lassù voleva dirmi qualcosa, che la vita doveva andare avanti e che nel momento più duro per me io sarei potuta essere importante per qualcun altro. Era l’ora di pausa, il vento pungeva, le punte dei cipressi si stagliavano nel cielo terso del primo pomeriggio, uscii fuori e quel senso di fame d’aria che mi aveva preso fino a due minuti prima, sparì. Il vento sbatteva in faccia, mi trovavo come dire controvento, ma non mi dava fastidio anzi mi sentivo leggera e pronta ad affrontare un viaggio lungo, incerto magari anche pieno di ostacoli ma sicuramente da qualche parte avrebbe portato me, Michael e tutti coloro che avrei incontrato. Quella che solo 6 ore prima mi sembrava ancora una scelta dubbiosa, forse più a causa della paura che delle difficoltà, ora senza rendermene conto era diventata una sfida con me stessa e per questi ragazzi. Ero pronta ad imbarcarmi in questo lungo viaggio, sicuramente controvento, ma avrei avuto un equipaggio di tutto rispetto. Andai avanti tutto il pomeriggio a lavorare, e ad organizzare il day hospital per gli altri 4 ragazzi coinvolti nella nuova sperimentazione. Ci sono momenti e sensazioni che non si possono spiegare, eventi che ti fanno salpare, senza paura, quando sembri arenato, quando non si vede via d’uscita, per me quel lunedì è stato il momento in cui pian piano ho lentamente levato l’ancora. I giorni a venire si susseguirono tra esami, day hospital, e la visita extra a Michael, dopo pranzo, era diventata d’obbligo, aveva sempre qualcosa da raccontarmi, un posto sul suo magnifico atlante geografico da farmi vedere, una cosa da chiedermi, una nuova canzone da farmi ascoltare. Finalmente era arrivato il grande giorno, i cinque ragazzi erano tutti idonei alla nuova terapia sperimentale, Michael sarebbe stato il primo anche perché aveva una situazione più delicata e visti i risultati positivi in un caso molto simile negli Stati Uniti, non volevamo perdere altro tempo… ed infatti non persi tempo. Quel giorno anche la mia proverbiale diffidenza per l’ascensore a favore della scala fu superata, entrai, spinsi il tasto 2 ed eccomi arrivata. Arrivai in reparto, stanza 15 mi appoggiai allo stipite della porta gialla, la zazzera bionda copriva gli auricolari bianchi, non so cosa sparassero al momento credo... Justin Timberlake, rigorosamente consigliato da me, all’improvviso si girò verso di me. Alzai il braccio e mostrai il libro che avevo trovato giù in libreria, raccoglieva la storia dei più bei velieri del mondo e delle rotte più avventurose. - Siamo pronti a salpare capitano? - Prontissimi. - Ti avverto che siamo controvento, ci sarà da faticare, ci stai? - Ci sto! - e mostrò il cinque. - Allora siamo pronti, domani si salpa, mi raccomando studia bene la rotta perché dobbiamo andare fino a Capo Horn! - mi diede il cinque ed un sorriso sotto quella odiosa ma vitale maschera si allargava sempre più. L’indomani sarebbe stato un gran giorno, un giorno nuovo, un giorno speciale, una pagina bianca del diario di bordo da riempire con i successi, con i fallimenti, con le paure, con i sorrisi dei miei piccoli pazienti, con le speranze dei loro genitori, con la passione per un lavoro che non finisce mai, con l’amore per lo studio che non basta mai. Soprattutto con la consapevolezza che la vita con i suoi dolori, con le sue sciagure, con i perché proprio a me ti manda dei messaggi inequivocabili, a me ha detto che sono importante per tante persone, che ci sono istanti, incontri che in un secondo ti cambiano la vita e ti salvano. Non so se arriveremo davvero a Capo Horn o a vedere l’ Amerigo Vespucci ma siamo partiti e non abbiamo intenzione di fermarci, ci saranno giorni migliori e giorni peggiori ma andremo avanti sempre con il vento in poppa, guardando in faccia la nostra nemica, non so se riusciremo ad abbatterla ma ci impegneremo a farla addormentare un po’ negli abissi.

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Giovanna Iacovone - IL VIAGGIO

E’ quell’orbita che ti spinge a vagare e poi a tornare sempre alla meta originaria , è quel peregrinare continuo tra dossi e pianure fino ad arrivare al punto massimo del tuo sentire, proprio lì dove non puoi fingere, ma solo vivere o morire.

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Luigi (in arte Gino) Iorio - VIAGGIO D'AMORE

(versi per una canzone) E mentre chiedevo di vederti tu eri nel letto e mentre aspettavo la risposta dicevi non so ed io pensavo e ingannavo i miei stessi pensieri e quando ti ho chiesto rispondi vagavi nei dubbi parlando con me poi ho capito che non volevi vedermi più. (ritornello) Ma perché… questo viaggio d’amore è finito dove hai voluto tu seppellendo l’amore nel campo che hai scelto tu. E mentre pensavo alla strada che hai percorso con me e mentre ricordavo i panini divisi a metà credevo e gioivo nell’animo mio e quando hai colpito il mio petto mi hai fatto volare col vento lontano da te adesso che volo vorrei fuggire da te. Ma perché questo viaggio d’amore è finito dove hai voluto tu seppellendo l’amore nel campo che hai scelto tu. Ora volo e ti penso lasciandoti là a cercare pensare e trovare quello che volevi tu. Ma perché questo viaggio d’amore è finito dove hai voluto tu seppellendo l’amore nel campo che hai scelto tu.

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Giovanni La Mantia - Viaggio

Io Viaggio spesso Con la fantasia, Percorro spazi Sconfinati, Nell’universo Intero. M’immagino A scrutare Il limite Infinito Del creato. Ammassi di Galassie, Altri universi, Altre creature, Altre vite Che, senza forma, Impalpabili, Sfuggono Alla vista. E immagino Un’orchestra Smisurata Di musica Celeste Che pervade Ogni cosa E fa vibrare L’anima. E un tessuto Mirabile, Etereo, E luminoso, D’indescrivibile Abbagliante Bellezza, Che riveste L’estrema Immagine Dei miei Pensieri.

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Carmelina Lambiase - LA PRINCIPESSA SENZA TASCHE ∞

C’era una volta, in un paese lontano lontano, una bellissima Principessa dai capelli rossi come il fuoco e la pelle chiara come la luna. Sul viso un po’ di lentiggini e negli occhi tanta bravura. Viveva in un castello ricoperto di edere rampicanti, insieme al Re, la Regina, sei fratelli tutti suoi gemelli e tre cani parlanti. Il suo nome era Orazia, ma tutti la chiamavano Azia. Un giorno il Re si ammalò di una malattia molto rara e misteriosa chiamata “raffreddino”, e siccome gli sternuti erano sempre più forti e la paura di morire cresceva insieme ad essi, decise di nominare il suo successore. Ma poiché eran tutti gemelli e nessuno si ricordava chi fosse nato prima, si stabilì che il nuovo Re sarebbe stato il vincitore di una sfida. “Figli miei... etciù... come vedete... etciù... vostro padre è molto malato… etciù. Tra due settimane vi saprò dire… etciù… chi sarà il nuovo incoronato”. Tutti i sei fratelli iniziarono a immaginare lotte contro i draghi, corse nel deserto e duelli coi folletti, ma poi il Re aggiunse: “Un buon Re deve conoscere il suo Regno… etciù… quindi il vincitore sarà colui che tra quindici giorni esatti mi porterà le tre cose più belle del Reame… etciù”. I sei gemelli ammutolirono, mentre Azia che da sempre sognava di viaggiare e oltrepassare l’edera del suo castello, balzò in piedi e gridò: “Parteciperò anch’io!”. Nella sala calò il silenzio e anche il Re rimase sconcertato. Chiamò i consiglieri intorno a sé, poi chiuse gli occhi per qualche minuto, si alzò in piedi e con aria solenne disse: “…etciù!”. La sfida incominciò e i sette fratelli lasciarono il castello di gran fretta, con così tanta fretta che Azia sbagliò cappotto e ne prese uno senza tasche. “Poco importa” pensò tra sé “troverò una soluzione”. Era una ragazza molto attenta e curiosa, osservava ogni cosa e ogni cosa la incantava. Dopo una giornata di cammino raggiunse un paese tutto fiorito. Fiori nei campi, fiori nelle strade, fiori nei ruscelli e tra i capelli delle spose. Quella era sicuramente una delle cose più belle del Reame, così raccolse qualche fiore, ma non avendo tasche nel suo bel cappotto rosso, decise di usare le sue guance come aveva visto fare ad un leprotto. Iniziò a sentirsi un po’ diversa e gonfia in volto, e quando si specchiò nel lago brillante che incontrò lungo il cammino, quasi non riconobbe la sua faccia ancor più bianca e tumefatta. “Mmm... se non mi riconosco io, nemmeno il Re mio padre saprà chi sono, e di certo non mi metterà sul trono”. Così dopo tre giorni di cammino, scoprì un grande albero dalle foglie dorate e il tronco forato. Appoggiò i preziosi fiori nell’incavo segreto, e il suo viso tornò disteso. Il suo viaggio proseguì, e fuori dal bosco, al di là del ponte e del monte rosso, raggiunse un nuovo villaggio con gente sempre allegra, vivace e gentile anche con chi era solo di passaggio. Passeggiavano fischiettando tra le strade del paese, lavoravano canticchiando ed un enorme sorriso era sempre lì sul loro viso. “Queste persone sono felici davvero” pensò. “Questa è di sicuro la seconda cosa più bella del Reame. Parlerò con loro e chiederò un dono per mio padre”. Andò dal prete del villaggio raccontando la sua storia e questo buffo signorotto, un po’ panciuto e un po’ bassotto, non esitò neanche un momento ad aiutare la bella Principessa. Rovistò entusiasta nella sua grande tasca destra e le porse un sacchettino, color lilla e con un bianco nastrino. “Qui al villaggio siamo tutti felici perché in ognuno di noi brilla sempre l’arcobaleno. Eccolo!” disse aprendo il sacchettino, dal quale uscì una luce accecante e coloratissima. “Prendine un pezzo e sii felice anche tu!”. Gli occhi di Azia brillavano di gioia, ringraziò il signorotto per quel dono così prezioso e meraviglioso, e non avendo tasche nel suo cappotto decise di custodirlo gelosamente nel suo pancino. Salutò il villaggio e si diresse verso l’albero dalle foglie dorate e dal tronco forato per posare il suo tesoro, ma lungo il cammino la sua pancia si gonfiò e iniziò a dolerle un po’. “Dev’essere lo stress” pensò Azia "o questo arcobaleno che mi occupa la pancia. Forza Azia, non mollare, presto all’albero devi arrivare!”. Così ad ogni passo si faceva coraggio, e i due giorni di viaggio passarono in fretta. Poi all’improvviso, ecco l’albero tanto sognato, posò l’arcobaleno vicino ai fiori variopinti e mentre si rilassava annusando quel dolce profumo che ancora emanavano, tutto si sgonfiò e tornò il sereno.

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Riprese il suo viaggio e questa volta si diresse verso il mare, piatto e lucente come una tavola di cristallo. Ad un tratto udì una voce così bella e delicata che subito se ne innamorò e pensò: “Questa è di sicuro la terza cosa più bella del paese”. E in effetti, così era. Si trattava di una sirena, sorridente e bellissima che, appoggiata ad uno scoglio in riva al mare, e rinfrescata dalla spuma bianca delle onde, cantava la sua canzone con la quale ogni giorno salutava l’amico Sole. Azia si avvicinò, e dopo averle raccontato la sua storia, la sirena le rispose: “Ecco un po’ della mia voce. Prendila tu che sei così giusta e carina, ed anche per me diventa Regina”. A quelle parole e al suon di “Regina”, la giovane Principessa un po’ si commosse, baciò la sirena e prese la sua voce. Non avendo tasche nel suo cappotto, la sua gola le sembrò il posto migliore per custodire una voce, ma lungo la strada del ritorno essa si gonfiò, e la fanciulla spaventata, quasi non poteva respirare. Non riusciva a capire cosa le stesse succedendo, e proprio nell’istante in cui intravide la sagoma del suo albero, custode di segreti, e quella di un cavallo e un bel mantello, chiuse gli occhi e svenne. Al suo risveglio tutto le sembrò diverso e bellissimo, finalmente si sentiva bene e iniziò a guardarsi intorno. Indossava il suo C1, il suo Cappotto numero 1, quello che lei più di tutti preferiva e che tante tasche possedeva. Vicino a lei vegliava il Principe Filippo, suo grande amico e amante in segreto e timidamente gli domandò: “Come sapevi che ne avevo bisogno?” Lui l’abbracciò forte e dopo averle dato un bacio iniziò a spiegarle: “Non è tuo padre ad avere una malattia rara, ma tu. Si chiama Angioedema Ereditario, e colpisce 1 persona ogni 50.000. Ci sono stati dei cambiamenti nella sequenza del tuo DNA e questo ti ha portato ad avere una quantità ridotta di C1 inibitore nel sangue. Tutto ciò rende difficile il controllo dell’attività della callicreina che, se troppa, libera la bradichinina. La porosità dei vasi aumenta, determinando la fuoriuscita di acqua in una parte del tuo corpo e un gonfiore chiamato angioedema. “E questo che vuol dire?” chiese la Principessa un po’ confusa. “Vuol dire che a volte, una parte del tuo corpo potrebbe gonfiarsi e farti un po’ male. Dovrebbe capitare circa dieci volte l’anno, ma nessuno può dirlo e se è la gola a gonfiarsi, ricordati di chiamare subito aiuto perché come hai visto, potresti non respirare più”. “Ma non c’è niente che posso fare per evitare tutto questo?” “Si, certo. Il mago me l’ha spiegato. Puoi interrompere un attacco come ho fatto io, indossando il tuo C1 così da ridurne la durata e la gravità (terapia al bisogno). Oppure usare altre pozioni magiche per prevenire gli attacchi prima che compaiano (profilassi a lungo termine), e in determinate situazioni di stress, come un ballo a palazzo o un viaggio nel reame (profilassi a breve termine). Nel laboratorio del mago Magotto ci sono due inibitori plasmatici della C1 esterasi, un inibitore ricombinante e l’antagonista dei recettori B2 della bradichinina, l’acido tranexamico e il danazolo. Quindi tutto il necessario per le tue pozioni magiche. “Allora il mago che sa tutto, potrà anche dirmi quando avrò gli attacchi, così sarò pronta per combatterli”. “Purtroppo no. Ci sono alcuni fattori che possono facilitare l’insorgere degli attacchi, come stress, traumi fisici, interventi chirurgici, infezioni, sbalzi ormonali e alcuni farmaci. Ma nella maggior parte delle volte essi si manifesteranno senza nessun motivo, quindi tu, mia bella Principessa, dovrai sapere cosa fare e portar sempre con te un po’ della pozione magica per poterti curare. Stai tranquilla e non ti spaventare. Se imparerai a riconoscere gli attacchi e sarai pronta per fermarli, la tua vita sarà salva e persino Regina potrai diventare. Ma ora presto, torniamo a Palazzo, c’è un’altra sfida da affrontare”. I due innamorati si rimisero in cammino verso il castello del Re Bianchino, e quando giunsero al suo cospetto già tutti i fratelli si eran tolti il berretto. Essi avevano delle monete, alcune pietre, tessuti, tappeti, vino e gioielli, ma niente di tutto questo entusiasmò il Re, che ormai non sternutiva più, ma molto annoiato ed anche un po’ deluso, sbadigliava di continuo. Ma appena vide Azia, i suoi occhi si illuminarono, si ricompose dritto sul suo trono, e curioso le chiese: “Figlia mia, bentornata! Che doni mi hai portato dal tuo viaggio nel Reame?”. “Del tuo splendido Reame, ti ho portato la sua bellezza, e questo fiore la rappresenta. Ti ho portato la sua gioia, e questo arcobaleno ne è la prova. Ti ho portato la sua arte, e questa voce ne è una parte. Ti ho portato anche il mio amore, e una bella notizia sul tuo malore”.

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Azia gli raccontò tutto ciò che le aveva detto il Principe, e nonostante il Re non fosse più in pericolo di vita, decise di lasciare lo stesso la Corona al vincitore della sfida, poiché aveva già prenotato un viaggio su un’isola tropicale insieme a sua moglie, una Regina assai dolce e gioviale. Tutto era pronto per l’incoronazione. La sala era piena di persone, musica, balli, bei vestiti e leccornie. L’orchestra suonava e la festa incalzava. Tutti i gemelli erano in riga in ansia e speranzosi di aver vinto la sfida. Solamente Azia non era agitata, col suo bel vestito da festa e così tanto innamorata, guardava il suo Filippo e quasi non si accorse che il Re pronunciò il suo nome… e la Corona le porse.

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Pietro Lapiana - SPERANZA FRUSTRANTE ∞

Con robuste braccia e callose mani assiduamente lavorava per ore e ore in fabbrica e negli ubertosi campi senza mostrare alcun tremore. Nei boschi, come lepre, s'inoltrava con passi veloci e superando inciampi, con occhi di lince i funghi cercava piegando il busto sempre in avanti. Procedeva a forte andatura, con il fucile e la bisaccia a tracolla, tra la fitta boscaglia e in pianura, mirando alla beccaccia e alla quaglia Continui erano i suoi spostamenti, all'estero per lavoro molto viaggiava, pronti e svelti i suoi riflessi come un pilota l'auto guidava.

Ora un'insanabile malattia lo allontana dalla società, ai suoi gesti causa rallentamenti, provoca continui segni di bradicinesia e impacciati sono tutti i movimenti. Il suo moto si blocca all'improvviso, i piedi a terra sembrano incollati, inespressivo diventa il suo viso. Grave e permanente infermità combatte con determinazione, immeritata per lo zelo e la bontà, per il lavoro e il suo agire deciso. Come la luce svanisce nella nebbia, l'autonomia perde progressivamente, non la fiducia e l'indomito coraggio e dei farmaci non fa sospensione. Tutto abbandona dolorosamente costretto dal morbo invalidante, i familiari lo assistono con amore, pur se la speranza appare frustrante, offrendogli di vita una qualità migliore.

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Stefania Laus - TI LASCERÒ ANDARE ∞

Prenderò quello che mi è rimasto di te e ti lascerò andare. Ti lascerò scorrere con l'acqua del tuo torrente e ti sentirò nel profumo del tuo maglione trasportato dal vento. Ti lascerò salire oltre le nuvole bianche o ti lascerò scendere dentro la terra. Ti lascerò andare ovunque tu possa sentirti leggera. Non penserò più al legame che c'era e non penserò più alla corda che ormai s'è spezzata. Ti lascerò libera dai nodi che ho provato a formare attorno al tuo spirito. Lascerò che le dita attorno alle tue si liberino della mia stretta e lascerò che il tuo corpo si disintegri in frammenti di sabbia. Non vorrò più sentire l'eco della tua voce chiamarmi nel sonno e non lascerò che il dolore per averti perduta mi accompagni nelle giornate a venire. Voglio renderti libera dalla mia sofferenza. Mi lascerò dietro alle spalle i ricordi, anche quelli più vivi. Ti lascerò andare senza il peso dei miei pensieri. Smetterò di pensare ai tuoi ultimi giorni, chiuderò gli occhi sulle mie lacrime e non avrò più nella testa il ricordo del tuo ultimo anelito. Ti lascerò come è giusto che una figlia lasci sua madre in un giorno qualunque. Ti lascerò ritornare alla luce e se un giorno ti dovessi incontrare ancora una volta, in una vita lontana, saprò riconoscerti ancora perché i gesti d'amore restano impressi in eterno come eterno è l'amore che sento per te.

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Francesco Lena - Il viaggio

Inizio un viaggio da sogno, Sento dentro di me un grande bisogno. Mi abbandono alla fantasia pura, Immagino di essere leggero come una piuma. Mi lascio trasportare dall’aria verso il cielo, Galleggio nello spazio con un dolce pensiero. Da lassù guardo il mondo con assoluta libertà, Scopro le meraviglie della vita e le sue belle qualità. In questo stupendo viaggio sogno un mondo pieno di umanità, Dove ogni persona trova tutta la sua dignità. In questo fantastico viaggio, immagino che son tutti amici con infinita bontà, Convivono e condividono con naturalezza la solidarietà. Da lassù faccio il pieno di quell’energia che ravviva la vita, Per poi tornare nella realtà, carico di positività. Quell’energia che aiuta a superare con amore, Le paure, le difficoltà e ogni timore. Il mio viaggio continua con grande creatività, Vivendo bene la realtà, non smettendo mai di sognare, che mi dona speranza e serenità.

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Grazia Maria Litrico - Marta è morta

Da giorni Marta vagava per le campagne circostanti. Era relativamente serena. All’inizio si era illusa di essere ancora viva: dopo aver perso conoscenza si era risvegliata, attorniata da un gruppo di persone, e istintivamente aveva iniziato a correre. Queste però non l’avevano più degnata di uno sguardo, chine su quella che poi capì essere la sua salma inerte. Era uscita dal suo corpo, come i fantasmi dei film. Era diventata invisibile, wow! Ma no, in quel momento non si era fermata a riflettere più di tanto: l’unica preoccupazione era stata fuggire da quegli sguardi allarmati e indagatori, più spaventosi della botta in testa ricevuta, e correre a gambe levate. Detestava essere osservata. Tante volte era stata rimproverata perché non guardava in faccia i suoi interlocutori mentre le parlavano, ma il contatto visivo le metteva troppa ansia. Stavolta aveva avuto un attacco di panico ed era scappata chissà dove, lontano dal paese. Una corsa a rotta di collo fino alle sterpaglie di una palude. Lo specchio immobile dell’acqua, anche se putrida, le mostrò la gravità dell’incidente: sembrava che avesse inzuppato la metà sinistra del corpo in una vasca di ketchup, sebbene non potesse vedere chiaramente la ferita in cima alla testa. Le erano pure rimasti alcuni cocci del vaso fra i capelli biondi, ora in buona parte rossi. Che sfiga: al momento sbagliato, nel posto sbagliato. Non poteva passare qualche centimetro più in là? Era troppo giovane per morire. Non se lo meritava. E invece era morta. Ma poteva andare peggio. Sì, in fondo morire aveva i suoi lati positivi: nessuno l’avrebbe più guardata male, i parenti non le avrebbero più detto che era strana, i compagni di scuola non l’avrebbero più presa in giro. Se non altro perché non potevano più vederla. Per lei era un po’ una liberazione. E finalmente poteva mangiarsi le dita! Un triste pensiero andava di tanto in tanto ai suoi genitori, che erano stati gli unici a volerle bene davvero. Sicuramente erano addolorati per la sua scomparsa improvvisa, ma non volle fargli visita, apposta per non vederli soffrire… Anche perché si era persa. Voleva godersi questa nuova libertà, in mezzo alla natura, senza nemmeno curarsi di mangiare e dormire, perché tanto non serviva più. Il tutto con un look pseudo-punk inedito che le stava da dio, macabro al punto da sembrare trucco horror. “Figo”, avrebbero detto i compagni di classe che tanto si credevano superiori a lei. Niente più regole e convenzioni, né preoccupazioni. E finalmente… poteva mangiarsi le dita! Quelle lunghe protuberanze che sembravano vermetti indisciplinati, soprattutto quando si drizzavano di scatto per i suoi tic nervosi, e che si sarebbe volentieri pappata se non fosse stato per il dolore fisico che avrebbe provato in vita. Ma ora? Quest’impedimento non c’era più. Ed era libera di disfarsene. L’impresa si rivelò più complicata del previsto, perché le sue vittime non volevano saperne di abbandonare le mani. Erano indistruttibili, come il resto del corpo spettrale. E proprio mentre le ciucciava allegramente, all’improvviso, si vide apparire davanti una figura avvolta da una tunica nera, col volto coperto, che tuttavia sembrava trafelata. - Marta! Lei si voltò indietro, stranita dal fatto che quel tizio potesse vederla; ma no, non c’era nessun’altra Marta lì intorno, quindi parlava proprio con lei. - Ti ho trovata finalmente! La ragazzina lo fissò come un animale in trappola, incerta se scappare o aggredire. E continuando a ciucciarsi le dita. Scelse la prima via, puntando dritto verso la palude. - Marta! Aspetta! Si tuffò. L’acqua era profonda pochi centimetri, e vi rimase coricata a pancia in giù per qualche minuto. - …Marta? - disse lui, avvicinandosi, sempre più perplesso. Lei riemerse contrariata: sperava di essersi mimetizzata. Così decise di lasciarlo parlare, seduta a gambe incrociate sul liquame putrido, ondeggiando lievemente avanti e indietro. - Ascolta… Tu sai di essere morta, vero? Hai capito cos’è successo? Lei non lo guardava, ma sicuramente lo sentiva. - So che è terribile quello che ti ha riservato la sorte, avevi solo 13 anni… Ma purtroppo è andata così. Ora però ti è stata concessa una possibilità unica: tu diventerai Mietitrice! Contenta? La ragazzina continuava fissare il vuoto, dondolando.

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- Certo, occorre che io ti spieghi tutto. Dunque… Fare il Tristo Mietitore è un compito importantissimo, che ti è stato riservato proprio perché sei stata così sfortunata in vita… Non mangiarti le dita. Dicevo… No, ferma. E’ un incarico prestigioso di cui andar fieri, nonostante possa sembrarti un premio di consolazione per la tua… Smettila di mangiarle! Ehi. Aspetta, dove vai? Si diede alla fuga, nuovamente. Non ci mise molto a seminare il tipo, che incespicava facilmente a causa del suo vestiario. Mentre lei saltellava tra le frasche, quasi beffarda, lui ruzzolò a terra, col sedere nudo in aria scoperto dalla tunica. Spazientito, agitò un pugno in aria e fece per bestemmiare, fermandosi appena in tempo: - Attento a come parli. - Oh! Chiedo scusa! - rispose mortificato alla figura eretta che si era materializzata accanto sé. - Il nostro compito è anche quello di portare pazienza di fronte a situazioni particolari. - seguitò l’altro. - Particolari… Per non dire difficili! Non ho mai visto un caso del genere! E’ da giorni che inseguo quella piccola peste! Quello gli rivolse un’occhiataccia eloquente. - Scusi… Volevo dire “quella bambina”. Ormai ragazza, diciamo… Eppure… Guardi! - esclamò, indicando Marta che giocava a rotolare giù da una piccola discesa, ormai totalmente incurante del suo inseguitore. - Ti avevano già illustrato la situazione, mi sembra - gli fece notare il compagno irremovibile. - Sì… Tredicenne affetta da sindrome di Rett, morte accidentale a causa di un vaso cadutole in testa da un balcone. Il Mietitore Anziano fece un cenno di assenso. - D’accordo, è stata sfortunata, ma come può una ragazzina così fare la Mietitrice? E’ una grossa responsabilità, ci vuole una certa competenza, disciplina, criterio… Potrebbe anche decidere di prendere l’anima di persone a caso, di punto in bianco… Senza che sia il loro momento! A quel punto Marta si bloccò. Lo aveva sentito, senza dubbio. Era abbastanza vicina. Lui sentì un brivido lungo la schiena, seppur evanescente: immaginava già la bimba pestifera seminare il panico nell’Altro Mondo, portando con sé coppiette fresche di matrimonio, studenti prossimi alla laurea o, ancora peggio, bambini appena nati. Lei lo fissò, così inespressiva da sembrare volutamente sprezzante. Infilò di nuovo le dita in bocca, lentamente, per poi voltarsi e riprendere a saltellare e fare piroette come se niente fosse. Il giovane Mietitore rimase interdetto per l’ennesima volta: cosa significava quell’atteggiamento? Una sfida personale? O forse Marta meditava vendetta contro tutti. - Non capisco… Dobbiamo preoccuparci? - No, non credo. - rispose l’Anziano, assorto ma sereno. - Cos’avrà voluto dire? - Niente, credo che abbia solo voglia di giocare. - … Ma avrà voluto dire qualcosa! - Sì… Forse voleva dire proprio questo: “Lasciatemi in pace tu e la tua mietitura, voglio solo giocare”. -sorrise quello, e si allontanò adagio. Il Mietitore giovane restò ad osservare Marta ancora un po’. Non si era mai trovato di fronte a un caso simile. Faticava ad accettare. Infine capì, e si convinse che forse ai piani alti non avevano avuto tutti i torti. Quella era una ragazzina innocente, che pensava solo a mangiarsi le dita. Non portarla all’Altro Mondo era probabilmente l’unica soluzione: non si resta fantasmi per sempre, l’unico modo per farla restare sulla Terra era darle quell’incarico. Così avrebbe vissuto anche senza vivere. Un’esistenza invisibile, ma senza essere più derisa, criticata, squadrata, etichettata da tutti. Era giusto così, si meritava un’altra chance: una nuova vita, un nuovo viaggio da intraprendere. Così come il viaggio delle anime che avrebbe accompagnato lei stessa al momento del passaggio nell’Aldilà. Le avrebbero insegnato come fare, in qualche modo, con un po’ di pazienza. Per il resto, si apriva per lei

un’eternità di giochi e dita ciucciate, senza pressioni, come piaceva a lei, libera. E con un look da urlo.

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Arianna Lorenzetto - Due punti aperte virgolette ∞

Il viaggio è cominciato. Mi sono da poco messa questa “cosa” in testa. Già questa “cosa” ha un nome. Si chiama “parrucca”. Decidiamo di trascorrere qualche giorno in vacanza: un po’ di mare farà bene sia a me, sia ai bambini e anche al marito. Così prepariamo armi e bagagli. Già i bagagli. E la parrucca? Dove la metto? In testa naturalmente. Però con questo caldo mi parrà di fare la sauna. Mio marito mi consiglia di lasciarla a casa e di utilizzare un cappellino. Lasciare a casa la cofana? E non sia mai! Ma poi come faccio a mascherarmi da persona normale? E così la posiziono in una borsa apposita, che terrò sempre vicina durante tutto il viaggio. Mi sembra di portare a spasso la gabbietta con il canarino. Arriviamo in albergo, disbrighiamo le formalità per la registrazione, portiamo in camera le valigie. Io trotterello sempre con la mia gabbia del canarino e, una volta in camera, la posiziono in un armadio che riservo solo per questo contenuto. Decidiamo di fare una passeggiata. Ed io indosso il mio packaging pilifero. Eccoci quindi a guardare il mare, io, mio marito Antonio, i due pargoli e tanta voglia di sorridere. Il mare è cristallino e trasparente: evoca immagini e pennellate che ritraggono galeoni e pirati. I bambini sono un po’ stanchi, il marito sbuffa e io penso “Cavoli, e sì che volevo un po’ di gioia da questo viaggio”. Così, animata da un sentimento di aspettative, misto a un po’ di nervosismo, la famigliola arriva nel centro storico. E subito inizia la scoperta. E subito i sentimenti ondeggiano nell’animo. E subito l’odore salmastro mi introduce in un mondo, dove tutto parla delle recenti vicissitudini belliche della città. Sì, solo pochi anni fa la città è stata bombardata in ogni sua parte. Rasa al suolo. Praticamente ogni pietra è caduta giù: l’odore di distruzione aleggia nell’aria, ma tutto è stato ricostruito. Il mare, quello, è sempre lo stesso: blu e bello. Anzi, bello e blu. “Ary, hai visto che roba?” Esordisce Antonio in caduta libera dallo stato di noia. E continua: “Il mare è bellissimo, la scogliera risplende, ma quello che sconcerta sono queste pietre così bianche accanto a quelle più scure che testimoniamo la ricostruzione di ogni edificio, di ogni muro, di ogni casa”. “Sì – rispondo – chissà che orrore ci sarà stato dopo i bombardamenti…”. Anche i bambini sembrano percepire la memoria del luogo: il mare incanta i loro occhi e riempie il loro sguardo. Già, lo sguardo. Arriviamo in un punto panoramico della città dove si vede il mare dall’alto. C’è un gabbiano perso nel suo volo e una panchina verde. Seduto sulla panchina verde c’è un signore. È anziano, è assorto nei suoi pensieri. E guarda il mare. Ad un certo punto si volta, guarda il piccolo di casa e gli regala un sorriso. Poi fa cenno a tutti noi di sederci accanto a lui, sulla panchina verde, scostandosi leggermente di lato. Cautamente ci sediamo. E tutti guardiamo il mare. In silenzio. Ad un certo punto l’uomo, che di nome fa Achillios, esordisce “Buongiorno, voi italiani? Io greco”. E così, piano, piano, le sue parole - come se fossero cullate dalle onde di un mare calmo - cominciano ad uscire dalle sue labbra. Racconta, con un italiano un po’ incerto, che lui è greco, ma da tanti anni abita in quella città di mare affacciata nel blu. Inizia a raccontare la storia di questa città. Parla dei primi abitanti. Parla dei Saraceni. Parla dell’impero Bizantino. Siamo rapiti dal racconto e quasi dimentico che devo stare attenta alla brezza marina. Il mio copricapo potrebbe anche lasciarmi il capo “implume”. Ogni tanto Achillios si ferma e guarda il mare, come a voler trarre ispirazione dalle onde che ora si sono fatte impetuose.

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“Sapete – continua – questa città fu dominata dalla Repubblica di Venezia ricevendone l’influenza culturale e amministrativa, mentre da un punto di vista commerciale la città continuò a mantenere una certa indipendenza. Un’indipendenza che solo la gente abituata ad andar per mare ne conosce appieno il significato. E poi la propria flotta navale, potente e avanzata, le consentì di inoltrarsi sino alla Spagna, all’Egitto, alla Siria, alla Francia e alla Turchia”. E intanto l’uomo guarda il mare. Antonio ed io proviamo a chiedere cosa successe in seguito, travolti dal racconto. E Achillios, dopo un istante di esitazione, rapito dal fragore delle onde, continua: “La città, poi, fu quasi completamente distrutta da un terremoto e da allora fu colta da un inarrestabile declino influenzato anche dalla perdita di importanza commerciale del Mar Mediterraneo, dovuta alla scoperta delle Americhe. E poi ci furono altre dominazioni che la misero in secondo piano provocando una forte dissoluzione sociale”. Gli occhi di Achillios sembrano inumiditi dalle onde. Ma continua: “Ci furono tensioni etnico-nazionalistiche che diedero l’avvio alla recente guerra”. Un’onda sembra essersi fermata nei suoi occhi: c’è un velo che copre pupilla ed iride, eppure in fondo alla brezza marina che mi penetra nelle orecchie e nel mio caschetto posticcio, si vede una luce. E il mare blu è sempre lì. Achillios continua a raccontare. Racconta degli orrori provocati dalle bombe, della distruzione, della disperazione, della morte … e guarda il mare. E il mare è sempre lì. Quest’uomo ha visto tanto. Sorride. Sorride apertamente. Sorride con gioia, ma senza allegria. C’è gioia nel suo sorriso. Ed è questo che conta. Ama questo luogo e desidera comunicare emozioni affinché la memoria non abbia mai fine. Ama il mare e dal mare trae la sua gioia, la sua energia, la sua speranza. Un po’ di quella gioia io la mia famiglia la porteremo sempre con noi. Porteremo con noi il ricordo di Achillios. Dei suoi occhi bagnati dalle onde. Dell’emozione di un racconto. Del sorriso di uno sguardo. Della visione di mani che hanno tirato tante corde. Achillios era un marinaio. Anch’io penso che sto tirando le corde delle mie vele, corde ruvide, corde che tagliano la pelle delle mani, corde che fanno sanguinare. Tempeste e guerre si stanno abbattendo nel mio viaggio per mare. Ma è un viaggio che porterà pietre bianche da posizionare accanto a pietre più scure. Il mio presente e il mio futuro. Scuro e Chiaro. Oscuro e lucente. Vedo un presente raso al suolo ma un futuro di ricostruzione. E il mare c’è. Testimone fedele. Ispiratore di gioia. Amico eterno. Il mare è sempre qui. Il viaggio continua - due punti aperte le virgolette -: “La vita c’è”.

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Ornella Mamone Capria - Dillo… che io viaggio sull’amore ∞

Dillo che al mattino sono strana ma tanto strana per l’asimmetrico mio tronco proiettato all’improvviso nello spazio e per i mille ghigni amari; ripeto questi gesti per ore e ore e nel cercare un gorgheggio di dolore il suono mi rimbomba tra il petto e il cuore sentendo alla laringe il mio mancato sfogo. Sono così strana che la terra non mi conta i passi, l’aria riceve da me i calci e dentro l’acqua sento le onde della pancia di mia madre. Non sono matta, sono ladra di bellezza, agli sguardi intensi scippo i più bei sorrisi ma li restituisco quando il mio corpo si quieta. Dillo che alla sera quando tutto tace sul mio greve respiro resiste la dolcezza dei miei cari Dillo che io viaggio sull’amore fino a notte, per qualche ora perdo la stranezza, diversamente quieta dormo come te su un cuscino.

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Elena Maneo - Il volo del gabbiano ∞

L’archiatra luna allevia le note tristi della quiete, solitaria come una muta campana. Storie oscillano, e desideri riposano sul diario del destino. Lacrime di vetro scheggiano le mie gote lattee, producendo linee rosse che rispecchiano nel lago dei pensieri ali troppo deboli per volare. Ma io non devo cedere devo credere, perché tu, madre mia, mi hai donato quella goccia di midollo necessaria per spiccare con ogni mezzo il volo del gabbiano e continuare il viaggio della vita.

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Alberto Mantovani - In una terra corrotta

“... Così deve essere il cielo nel Limbo, con enormi nuvole che si montano facendo castelli e lentamente sfilano su un cielo glauco, non azzurro come da noi. La gente intimorisce. Dai film e dai romanzi mi aspettavo di muovermi in mezzo ad un popolo di gnomi gialli sorridenti e umili; ma qui nel nord della Cina uomini e donne sono piuttosto alti e hanno la pelle chiara e l'aria seria, anche se mi ridacchiano dietro, penso perchè sembro loro un orso peloso con giacca e cappotto. Alti e chiari, ma con le facce mongole, occhietti sottili, senza espressione. Quando bevono si ravvivano e ridono forte. Alti e con la pelle bianca dove non hanno preso il sole, sembrano una razza simile ai nostri contadini della Bassa: come quelli bevono, come quelli molti sono di nascosto dei comunisti. Brutto stare in mezzo a gente che non si capisce: ho un interprete, un tizio locale con una specie di divisa -di quale corpo o esercito proprio non so- che traduce dal cinese al tedesco, e quindi per parlare con notabili e proprietari terrieri uso il discreto tedesco che ho imparato a scuola, confidando che ui l'interprete diamo alle parole lo stesso significato. Per i miei colloqui debbo prendere molti appunti e verificare, dopo, se ho capito. La terra qui è grassa, sotto queste nuvole gonfie, ed il cotone viene benissimo. Il mio viaggio per la Ditta del Comm. Passarelli potrebbe non essere così inutile come sembra. Se si riuscissero a trovare dei bravi tecnici, la materia prima non manca: l'idea di impiantare una grande filanda di cotone si potrebbe, forse anche pure, realizzare. Con questa terra grassa potrebbero mangiare meglio e in modo più variato, piuttosto che abbuffarsi di pane e pannocchie, conditi con un po'di maiale, cipolle o melanzane; una bella terra da mucche anche, ma i cinesi non bevono latte, niente burro o formaggio qui. Come per i cinesi ometti gialli, niente a che fare con i romanzi: di riso se ne vede poco. Ovviamente come ospite mangio meglio della media: anzi, si mangia tanto e pure la gente in campagna sembra ben nutrita. Ma è tutto grosso, pesante e monotono, come questo cielo pieno di nuvole. Monotona è la terra, tutta colline e fiumicelli e campi -coltivano a mano, ma non lasciano un palmo di terra intonso- ma in questo viaggio vi sono momenti di ansia: girano comunisti, sovversivi, briganti, girano militari armati che gridano sempre ordini e minacce -peggio ancora di quegli esaltati cui da noi il Duce ha messo la briglia: la scorta che mi ha trovato il Consolato italiano, e che paga la Ditta, serve, questo è certo. Proverò a consigliare il Comm. Passarelli di non costruire la filanda in questa terra. E'una terra grassa, ma è lebbrosa. Le case sono basse sulla strada, ma entrandovi si entra in sequenze di corti, i tetti strapiombano accigliati, le strade sono fangose come non le ho mai viste. Qui c'erano i tedeschi, poi con la guerra li hanno cacciati nel '15: ma rimangono le loro stazioni, municipi e uffici che spuntano come foruncoloni, in mattone rossigno con le gugliette, sotto le nuvole che camminano pesanti. La gente qui sta male, c'è qualcosa che fa male. Non ne parlano, ma io gli occhi li ho e sono qui da settimane: poi, non parlando con nessuno, passo tanto tempo a guardare. Non so cosa ci sia qui. Ho paura che si attacchi anche a me. Viaggio maledetto. Ma pure da noi in certe zone di campagna, soprattutto in Appennino, se guardi gli anziani, quelli con più di 50 o 55 anni, sembra di stare in ospedale. La razza è temprata, ma lavurér l'è fadìga diceva il babbo; e a lavorare fuori tutto il giorno tutti i giorni tutto l'anno è naturale che il corpo si logori. Qui è diverso: la razza sembra buona, ma è corrotta alla radice, dalla terra in cui vive. Infatti qui si ammalano soprattutto i bambini e le donne giovani in età da figliare. Dei ragazzini con la faccia color della sabbia chiara, tutto perso il giallino della pelle, che non han voglia di nulla. Delle serve di campagna che potrebbero portare sacchi da un quintale come ridere, e invece si accovacciano per terra o contro un muro ogni cinque minuti. Delle ragazze con la faccia sveglia e i fianchi larghi da fattrice che ciondolano su zampe gonfie di vecchia. E muoiono: già in due case che ho conosciuto una ragazzina e un bambino sono morti, chissà a quanti altri sono passato vicino senza accorgermene. Del bambino ho voluto far chiedere all'interprete: stava neanche troppo male, un po'svogliato, poi è caduto in mezzo alla strada fangosa, è stato portato in casa e sdraiato, l'indomani è morto. Ho detto soprattutto ragazze e bambini, perché ti colpisce vederne tanti così. Ma ricordo cinque giorni fa un mandriano che riportava dei buoi dai campi, un uomo maturo, alto con le spalle larghe e le mandibole forti, uno che “guarda mo' Gengis Khan”: ecco che si ferma, occhi vitrei, si curva, comincia a massaggiarsi il petto e a muovere un braccio come fosse indolenzito, e la pelle gli si fa color della sabbia chiara. Io parlavo con l'interprete ma non potevo non guardarlo. In qualche modo si è ripreso e se ne è andato per la sua strada coi suoi buoi. Che ne sarà stato? Non è una epidemia, non è la peste. Ma è qualcosa che è sbagliato nelle famiglie e nelle case di questa terra che è corrotta.

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...Il dott. Tsceng (così suona in italiano il suo nome) è tarchiato, ha le guance lisce e gialle senza un pelo di barba, gli occhi come lunghe fessure e la bocca sorridente. Ma parla bene il tedesco. Sia perchè è un uomo colto e curioso, sia perché sua moglie lavorava insieme ad un missionario protestante di cui il dottore ha frequentato lungamente la casa. Nella mia ricerca di un medico cui poter raccontare io direttamente le mie paure, attraverso una vera catena sono arrivato al dott. Tsceng. Per prima cosa, mi ha rassicurato: non gli risulta che gli europei si ammalino. Però io oramai ero curioso di sapere, e lui ha continuato. E'vero, la gente che è nata o vissuta lungo in questa zona si ammala spesso, soprattutto donne giovani e bambini, molto di più in campagna che in città. E'una malattia soprattutto del cuore: vengono gli infarti a ragazzini e ragazzine di famiglie contadine, mentre dovrebbero venire a chi ha capelli bianchi, soldi e lavora da seduto. Il male non è contagioso come il vaiolo o la lebbra, i malati si possono toccare senza pericolo e senza guanti (“Quando non sono troppo sporchi” ride); non è da fame, perché la gente è nutrita, anche se mangia quasi sempre gli stessi cinque cibi (mi venivano in mente i racconti del nonno: zuppa di riso e latte, zuppa di fagioli, polenta e saracche..mica tanto diverso). Il male potrebbe stare nell'aria oppure nell'acqua, ma secondo Tsceng è qualcosa che passa dalla terra al cibo. Questa terra che sembra forte e dà tanto cotone, e per questo il Comm. Passarelli mi ha spedito fin qui. Ma è corrotta. Non conoscendo la causa della corruzione non c'è una vera cura, ma qualcosa si può fare. Tscheng prescrive sempre: mangiare più carne, soprattutto le frattaglie perché hanno più forza, e così pure mangiare più funghi; evitare di bere birra - un uso che i tedeschi hanno diffuso- e quelle specie di vini e grappe rozze e stordenti che qui si fanno; dormire e riposarsi, soprattutto i bambini. Ma la gente? La gente è rassegnata, o meglio vive insieme al male: certo ha paura di ammalarsi, ma qui è così da generazioni. La questione principale che occupa la gente dei villaggi è fare le cose che servono per procurarsi da mangiare ogni giorno “Sinora è stato troppo spesso così in Cina” dice Tsceng e ripete in tedesco “Bisher”. Sinora. Ho paura che sono incappato in un altro bel comunista, come mio fratello. Questo doveva essere un viaggio per mettere su una grande filanda per conto della Ditta...” Sto riguardando una reliquia di famiglia: ben rilegato in cuoio impresso, il dattiloscritto del diario del mitologico viaggio in Cina di zio Giorgio, il fratello ragioniere del nonno nonché uomo di fiducia del Comm. Adelmo Passarelli. Uno nato e cresciuto a Cento, in Cina, nel 1932: zio Giorgio, che ad un certo momento non sapeva più quando (e se) sarebbe tornato, aveva cominciato a scrivere il suo diario come messaggio nella bottiglia. Zio Giorgio è morto prima di saperlo, ma tra i vari fratelli e cugini della mia generazione, avviati professionisti con villa in collina, c'è stato spazio anche per un secchione che fa il biochimico al CNR -io. Da secchione appassionato di biochimica, ma pure di storia, mi sono accorto che lo zio aveva incontrato la malattia di Keshan, sconosciuta da noi, nota e grave in Cina ma piuttosto dimenticata nel vasto mondo. La malattia colpisce chi si alimenta soprattutto di cibi prodotti localmente in aree dove il terreno è povero di selenio. Il selenio è un elemento della terra, uno gnomo che può avere una luccicanza fredda che simula l'argento, appunto lunare: ci bastano piccole dosi ma ci è indispensabile, per far funzionare il sistema immunitario, la tiroide e per difenderci dalle sostanze tossiche. Ce ne basta poco, ma talora il terreno ne ha troppo poco e non lo trasmette a sufficienza agli alimenti: perché è la terra che fa crescere e che nutre gli alimenti. Nella malattia di Keshan l'insufficiente selenio sveglia e lascia libero un minuscola bestiolino, un virus piccinino e cattivo: si chiama Coxsackie, uccide soprattutto le cellule del cuore che vengono progressivamente rimpiazzate da un tessuto fibroso, come una cicatrice che prova a tenere insieme i lembi del tessuto ancora sano ma è priva di elasticità e di vita. Il terreno privo di selenio è la pistola, la dieta composta di alimenti prodotti su quel terreno è il grilletto, la pallottola si chiama Coxsackie: colpito al cuore, cadi. In Cina sanno che la malattia di Keshan va prevenuta arricchendo la terra con fertilizzanti e dando pasticche al selenio a chi ha già i primi sintomi: in aggiunta, è saggio applicare i consigli del dott. Tsceng, che -in fondo- guardandosi intorno e parlando si era avvicinato alla verità. Le cause della malattia di Keshan sono state scoperte progressivamente a partire dagli anni '50, ma la descrizione precisa dell'entità clinica si deve all'opera dei medici cinesi a metà degli anni'30. Il dottor Tsceng non fu tra loro: si conquistò comunque un posto nel grande Pantheon della nuova Cina come pluridecorato ufficiale medico, e successivamente commissario politico, dell'Armata Rossa. Però, questa è veramente un'altra storia.

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Nicoletta Rosa Lucia Marazzi - Il viaggio di Francesco

Improvvisi sbuffi di vento facevano vorticare sciami di foglie gialle e rossastre che si libravano in volo. Francesco le guardava affascinato da dietro la finestra mentre pensava a come svolgere la ricerca che doveva fare: “Il viaggio nella storia, nella letteratura e nella tua personale esperienza”. Francesco frequentava una scuola per diventare giardiniere. Fin da piccolo aveva sempre manifestato una particolare passione per piante e fiori e con il tempo stare in giardino era diventato per lui anche un modo per isolarsi dagli altri che sempre più lo guardavano come fosse un “marziano”. Aveva un temperamento mite e solitario e anche per questo, oltre che per la sua statura fuori dal comune, era spesso oggetto di burle da parte dei coetanei. I risultati scolastici ultimamente erano un po’ deludenti, non perché non studiasse, ma perché aveva difficoltà a ricordare ciò che aveva appena studiato, aveva improvvisi cali di concentrazione ed era sempre insicuro. Al contrario, scrivere e stare in giardino erano per lui momenti magici, in cui riusciva ad esprimere al meglio ciò che aveva nel cuore. Il suo corpo stava cambiando rapidamente e lui si sentiva sempre più diverso dai suoi coetanei. Era alto quasi due metri malgrado non avesse ancora 18 anni, le braccia e le gambe così lunghe e sproporzionate rispetto al tronco, era magrissimo e senza massa muscolare malgrado lo sport che pure faceva regolarmente. Nelle ultime settimane, se possibile, si era rinchiuso ancora più a riccio in un suo mondo del quale anche genitori e sorella faticavano a far parte. Aveva fatto una serie di visite ed esami e la diagnosi ormai era certa: sindrome di Klinefelter. Gli avevano detto che non era una malattia incurabile, unico problema non avrebbe potuto avere figli. Questo per Francesco poteva non essere in realtà un problema, ma nessuno pensava che quel suo aspetto così fuori del comune era invece qualcosa non cui avrebbe dovuto convivere per sempre e questa era per lui la parte più difficile da accettare della sua malattia. Mentre ripensava alla sua breve, ma intensa esperienza personale, Francesco lasciò cadere la penna sulla scrivania e cominciò a rigirare fra le mani un ciondolo che portava sempre al collo e che gli avevano regalato i suoi genitori, raffigurante una bussola. Sì, una bussola, per sapere sempre quale strada percorrere e non perdersi mai nella vita. «Dunque, direi che possiamo partire dal significato della parola viaggio» …Le origini risalgono al provenzale viatge a sua volta derivato dal latino viaticum, cioè l’occorrente per mettersi in viaggio… viaggio, sì, ma verso dove? «Potrei ricercare come la parola viaggio ha assunto significati diversi attraverso i secoli per poi raccontare cosa è per me viaggio, cioè la ricerca che ho fatto dentro di me per arrivare ad accettare la mia malattia, se poi l’ho accettata veramente…» Nell’antichità, terminate le migrazioni dell’era preistorica, i popoli si spostavano per motivi prevalentemente commerciali, militari o religiosi e la letteratura classica, greca e romana, è infatti ricca di opere che trattano il tema del viaggio. Basti pensare alle “Storie” di Erodoto o all’Odissea di Omero in cui Ulisse ha sicuramente rappresentato la figura del viaggiatore per eccellenza, il simbolo dell’andare per terra e per mare, attraverso pericoli, superando prove permeate di magia. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, il viaggio è ancora legato a motivi per lo più politici ed economici. Successivamente, nell’Europa tra il V e l’XI secolo, invece, si riducono i flussi commerciali e i movimenti di persone e solo con il risveglio economico dell’XI secolo riprendono gli spostamenti di uomini e merci per i più disparati motivi. Popolano infatti il Medioevo viaggiatori reali come giullari, girovaghi, pellegrini, mercanti (celebre il viaggio in Cina lungo la via della seta raccontato nel libro “Il Milione” dove Marco Polo si configura come una sorta di antesignano del moderno inviato speciale), ma anche viaggiatori puramente letterari come i cavalieri del romanzo cavalleresco impegnati in un cammino di perfezionamento e affermazione del proprio valore come nell’Orlando Furioso. Frequenti, poi, nel Medioevo, epoca di intensa spiritualità, sono anche i pellegrinaggi verso luoghi santi come Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela, specchio di un Cristianesimo che intende la vita come viaggio. Per il cristiano, infatti, l’esistenza umana è un “passaggio” sulla terra che ha però come mèta finale Dio e il cristiano è viator, viaggiatore/pellegrino in un cammino che diventa strumento di penitenza per scontare i peccati e raggiungere la perfezione morale. Emblematica dell’epoca è la Divina Commedia di Dante che esordisce con le parole ”Nel mezzo del cammin di nostra vita”: dalla nascita fino alla morte la vita

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umana procede attraverso continui cambiamenti sia nel corpo che nella mente che formano il carattere e il modo di essere di una persona, in una sorta di continuo viaggio interiore. Dal Quattrocento in poi l’Italia e l’Europa sono percorse da flussi continui di viaggiatori: artisti e missionari che si spostano di corte in corte o di chiesa in chiesa, soldati che per guerre di religione affrontano viaggi verso Paesi lontani, coloni, esploratori e geografi alla conquista di nuove terre. E’ l’epoca di Cristoforo Colombo (senz’altro uno dei più celebri navigatori di tutti i tempi), del veneziano Sebastiano Caboto che scoprì Terranova e di grandi esploratori come Enrico il Navigatore che circumnavigò le coste africane, Bartolomeo Diaz arrivato fino al Capo di Buona Speranza doppiato successivamente da Vasco de Gama, Amerigo Vespucci che per primo capì che il litorale sudamericano non era l’Asia, ma una nuova terra chiamata in suo onore America, Ferdinando Magellano che oltrepassò la Terra del Fuoco ed esplorò l’Oceano Pacifico. Più avanti, nel Settecento e nell’Ottocento, soddisfatta la sete di conoscenza, il viaggio assume nuovi connotati. A mercanti, pellegrini e diplomatici si aggiungono intellettuali, letterati, poeti, scrittori, artisti e musicisti. Nasce così il viaggio come grand tour, una sorta di rito obbligato nel percorso di formazione di giovani aristocratici: viaggio di istruzione e formazione, ma anche divertimento e svago di giovani rampolli europei alla scoperta di realtà e modi di vita diversi. L’Italia, culla della civiltà e dell’arte, è allora la mèta privilegiata di scrittori come Goethe, Byron, Stendhal, Alfieri. L’esempio più tipico è il grand tour di Alfieri che va da un luogo all’altro rispondendo solo ai capricci del proprio umore ombroso, inquieto e malinconico, preludio dello “struggimento” di epoca romantica. Alla base del viaggio non c’è più la curiosità, ma l’irrequietezza, l’insoddisfazione, una fuga da se stessi alla ricerca di se stessi. Con la seconda metà dell’Ottocento si afferma una nuova figura di viaggiatore che è il “turista”, figura che si diventerà dominante soprattutto nel Novecento parallelamente all’aumentato benessere nel mondo occidentale, alla costruzione di ferrovie che hanno reso più facile, meno pericoloso e più accessibile a tutti viaggiare. Nella letteratura del Novecento il viaggio risponde sempre più da un lato al bisogno di riposo e fuga dai ritmi caotici delle città industrializzate e dall’altro alla necessità di allontanarsi da una condizione di miseria e fame come nel caso dell’emigrazione nel dopoguerra. E arriviamo infine ai giorni nostri nei quali il viaggio ha perso definitivamente il carattere di esperienza conoscitiva ed è diventato sempre più turismo di massa. Nuovi e veloci mezzi di trasporto hanno eliminato le difficoltà materiali, ridotto la fatica e i disagi dello spostamento, mutato la percezione delle distanze. Questo fenomeno ha raggiunto il suo apice con la globalizzazione e l’avvento di internet che hanno accorciato ulteriormente le distanze rendendo alla portata di tutti, anche senza muoversi da casa, luoghi e Paesi lontani. Con il passare dei secoli il viaggio appare quindi sempre più svuotato dei suoi significati originali, quasi banalizzato. Le meraviglie di mondi lontani e sconosciuti sono ormai ostentate come cose alla portata di tutti, in un caleidoscopio di posti da vedere costruiti ad arte da quella che è diventata una industria del turismo. Il turismo di massa è diventato, quindi, sempre più un’esperienza frustrante, perché ovunque si trovano i segni di quella civiltà da cui si cerca di evadere, sintomo di un disagio e disorientamento che caratterizzano l’uomo contemporaneo, viaggiatore alla ricerca di un’identità perduta. «E dopo questo escursus attraverso la storia e la letteratura è ora di arrivare a parlare di me… anch’io ho fatto qualche viaggio inteso come vacanza con la mia famiglia, ma se penso alla parola viaggio mi vengono in mente immagini ben diverse, soprattutto il mio “pellegrinare” da un ospedale all’altro, alla ricerca di una risposta alla mia diversità, un lungo cammino che è passato dalla disperazione, dal dolore e dalla sofferenza di non avere risposte fino alla speranza quando la mia malattia ha avuto per la prima volta un nome, allo sconforto quando ho capito che dovevo confrontarmi con il mio aspetto ed accettarmi così come ero. E’ stato un viaggio che mi ha cambiato dentro profondamente. Per me il viaggio più vero è, allora, quello che ogni persona compie dalla nascita fino alla morte, in una

continua ricerca della felicità, della vera libertà che non deve essere il fine ultimo, ma solo lo strumento per

comprendere cosa conta veramente nella vita. E a questo si può arrivare solo attraverso una profonda

conoscenza di se stessi, delle proprie certezze e paure, e attraverso il confronto con gli altri. E’ un cammino

di crescita interiore, perché solo quando noi per primi siamo capaci di accettarci così come siamo, con pregi

e difetti, possiamo pensare di essere accettati anche dagli altri che riusciranno ad andare oltre il nostro

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aspetto per vedere la bellezza che c’è dentro ogni persona e che fa di ogni essere umano un individuo unico

e irripetibile».

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Raffaella Marolda - Dentro e fuori di me. Il viaggio tra presente e passato ∞

Dietro i monti s’accende l’alba, un fiotto d’azzurro sulla volta del cielo allontana la notte. I colli lontani si coprono di una bianca coltre di nebbia. Un’aria di fiaba e di malinconia mi sorprende l’animo. Il fresco vento del nord rammenta che la primavera è ancora raminga, ma la Terra distende le membra indolenzite dal lungo inverno. La cittadella universitaria del Policlinico si desta dal letargo notturno. Per le sue strade è un fermento di auto, motorini, ambulanze e sirene spiegate. E’ un mondo di dolore e di speranza. Stipa dentro di sé la confusione ed il caos cittadino della bellissima Napoli. Non è un corpo separato. E’un organismo pulsante del sistema metropolitano. E’ il giorno dell’ultima terapia. Reparto ematologia. Saluto le infermiere. Prendo posto sulla poltrona reclinabile. Mi attendono circa quattro ore o poco più di flebo. Piccole gocce lente, sovrane della mia vita, viaggiano in vena per attaccare il terribile nemico, che impietoso ha sconvolto il sistema immunitario. Ha ridotto in esigua pattuglia le mie piastrine. Demolite. Solo 2000 sopravvivono, ma forti e resistenti. Cinque giorni son passati in quel reparto. Non ero sola. Persone di ogni età mi hanno affiancato sulle poltrone vicine. Ognuna chiusa nel suo silenzio assorto. In queste ore qualcuno ascolta la musica nelle cuffie. Qualcun altro legge. Io riposo. Non ho dolore. Di tanto in tanto devo osservare il deflusso della medicina. Quando si svuota l’ampolla, occorre avvisare l’infermiera per la sostituzione con altra flebo. Veglio assopita dal caldo raggio del sole, che generoso attraversa una ampia vetrata. Un altro viaggio s’affaccia alla mente e lo rivivo nella intensità del ricordo come se avvenisse in quell’istante. La vecchia ansimante corriera alla fine della salita s’arresta nella piazza, dinanzi il fabbricato del Comune. Una nebbia azzurrina copre di silenzio le informe case. Gli alberi si stemperano di giallo oro e di rosso. Si sente nell’aria fresca e pungente del mattino l’imminente autunno. Su per i tornanti del colle si scorgono le case abbarbicate alle bianche rocce calcaree, a ridosso una sull’altra, tra strette stradine e salite ripide a gradini. Ti accoglie il benvenuto in un mondo intimo e privato. Un ritmo antico, fatto di silenzi, di ombre, di sole, di dialoghi. Percorro un’erta salita. Giungo su in cima, dinanzi al palazzo settecentesco, di bianca pietra antica. Solerte salgo su per le scale granitiche. Al secondo piano apro la porta. Scopro due vecchie camere annerite dal fumo del camino e dall’incuria. Dall’alta finestra scorgo il giardino, ombreggiato dalla chioma di un albero di melograno. Ascolto i suoni di un tempo, della tua vita, padre, voci di bimbi, rumori di stoviglie, i miagolii del gatto e dalla strada stridii di carretti. Voci risonanti di chi ritorna dai campi alla quiete domestica. Tutto è fermo nel tempo, come mi narravi da fanciulla. Ti vedo ragazzo correre giù nel cortile per nutrire gli animali. Esploro ogni piccolo spazio. Nulla è mutato. Il soffitto a travi di legno, i canti degli uccelli. Sotto la grondaia i nidi delle rondini. Fuori dal palazzo gli alberi di platano ombreggiano la panca di marmo, rude riposo ai tuoi giochi coi fratelli. Solo tu manchi. Dalla finestra, che sporge sull’orto, ti rivedo nel volto di tuo fratello: la fronte, gli occhi, i capelli, gli atteggiamenti del volto e certe tonalità della voce. E’l’immagine vivente di te. Mi delizio a guardare il paesaggio. Credo che anche tu, nella luce rosata dell’alba, osservassi con meraviglia i riflessi del sole sulle bianche rocce degli Alburni, un gigantesco volto adagiato sulla terra, dagli occhi prominenti e le sopracciglia cespugliose. Nella camera da pranzo, dalla parete grigia il ritratto del tuo giovane viso mi guarda mesto. Accanto ti fanno compagnia le foto della mamma e del papà. Dicono che io somigli a tua madre. Di te, certo, posseggo l’identico carattere, taciturno e riflessivo. Ho incontrato il tuo amico pittore. Si è seduto vicino a me, sulla panchina, all’ ombra. Mi racconta degli anni trascorsi insieme nell’Arma dei Carabinieri a Castellammare di Stabia. Sorride. Con un tono di voce dolce e cadenzato ricorda le emozioni della giovinezza, la “poesia” della vita, l’entusiasmo, le passioni. Tanto luminose quanto più s’incede sul cammino del tramonto. Mentre l’ascolto osservo i passanti, i loro volti sereni, disponibili al dialogo. Sono l’immagine di questo mondo lento e pacifico. Cosa scandisce il tempo? Il sole e la luce del giorno,che illuminano la vita. Il buio della notte, che cadenza il ritmo naturale del riposo. Poi il lavoro, il tempo della festa, dell’allegria e del dolore, temperato dal cordoglio comune e dalla solidarietà. Era il tuo modo di vivere, che tu raccontavi a me fanciulla dal magico libro della memoria. Dal balcone di casa, sulle immense distese di campi e colli, vedo nere rondini. Tagliano l’aria con i voli alla ricerca del cibo. Ritornano con pagliuzze, bastoncini e fili d’erba, ai nidi di fango, che sporgono dai sottotetti delle antiche case. Sfrecciano alte sul campanile della Chiesa e sulle case arroccate, sulle pietre antiche,

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sugli archi di sostegno, a corona dell’antico castello medievale. In tanta pace l’animo si rasserena, scopre una dimensione umana del vivere, lontana dalle nevrosi cittadine. Dalle ingiustizie di chi è in lotta contro tutti per difendersi dalla povertà. Per sopravvivere senza regole e diritti. Di chi va alla deriva e non riceve solidarietà, parola che nulla dice all’individualismo. D’improvviso le nuvole invadono le cime dei monti. Al tramonto impallidisce il sole tra i monti rosati. All’orizzonte lontane casupole carpiscono l’ultima luce del giorno. Lenta scende una nebbiolina dorata. I pensieri sorpresi dalla solitudine della sera si aggrovigliano in riflessioni immediate. Amore, vita, dolore. Strane emozioni. Un uomo nuovo? un pensiero libero? E’ il ritorno alle radici della propria vita, all’essenza dell’uomo. In questo luogo ritrovo le mie origini e la tua personalità. Mi hai insegnato ad essere onesta, sincera, umile, forte, per essere solidale con tutti. Colgo un fiore rosso. Lo porterò sulla bianca lapide, per ringraziarti dell’amore che mi hai dato. Un amore silenzioso, poco manifestato, ma che viveva in te. Troppo giovane hai lasciato questa fantastica terra che ti ha dato la vita. Di soprassalto mi desto dal dormiveglia. Le ultime gocce travasano oltre la boccia vitrea. E’ finito il viaggio dentro di me. Chiamo l’infermiera. Staccate l’impianto. Sto uscendo dal tunnel. Dinanzi a me la guarigione. La speranza di una vita rinata alla luce. Non ho parole per ringraziare i medici, le infermiere, che con dedizione mi hanno assistita. Mi sono ristabilita. Certo la sfida è sempre aperta. Il virus influenzale può aggredirmi di nuovo. Ma non potrà distruggere lo spirito dell’animo, rinnovato da nuovo vigore, dalla solidarietà per le sofferenze degli altri uomini. Viaggiamo tutti sullo stesso treno, dentro e fuori di noi. Senza distinzione di colore della pelle, di latitudini, di etnie e religioni diverse. Abbiamo tutti la stessa umanità, che ci rende compagni di viaggio e di nuove avventure, su questa nostra Terra, particella infinitesimale dell’immenso universo. Nel nostro essere piccolissimi nello spazio e nel tempo, possiamo essere unici e grandi se viviamo nella pace e nella solidarietà umana.

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Lucia Marotta - ...............preziosa è la vita!

Che cosa mi succede, io non mi sento bene: gli occhi miei soffrono, la saliva non viene. Ogni giorno che passa un problema mi assale, mi sento molto stanca e tutto mi fa male. Nessuno mi sa dire che cosa sta succedendo: Forse sei depressa, forse stai esagerando? Ma sei proprio sicura che le crisi siano acute, perché a vederti sembri il ritratto della salute! Poi un giorno per caso, presa dalla disperazione, cerco su Internet e trovo A.N.I.Ma.S.S., un’Associazione, l’unica che mi spiega in maniera molto chiara che questi sono i sintomi di una malattia rara. Sindrome di Sjögren, malattia autoimmune anche i medici ne san poco perché non è comune. Subdolo male, lo scopri dopo anni e con l’andar del tempo può portare seri danni. Cerco considerazione e ascolto, ma sono disorientata. Faccio visite specialistiche, ma mi sento abbandonata. Convivo tutti i giorni con amarezza e sofferenza e spesso intorno a me regna l’indifferenza! Per essere visibile che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo stare uniti e non stancarci di lottare! La nostra esistenza a volte è molto dura, ma insieme vinceremo l’angoscia e la paura! Non arrendiamoci mai davanti a questo muro, se ci prendiam per mano miglior sarà il futuro! Questa sindrome strana è una battaglia infinita, ma vogliamo viverla in pieno questa preziosa vita!

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Vincenzo Marra - Era il nostro fato

Erano il giorno e la notte, era il corso delle stagioni, i ciliegi del sol levante, i frutti del nuovo mondo, le lunghe guerre del vecchio, il sole la luna le stelle, l’azzurro del cielo in accordo col mare, il nero degli astri in alto riflessi dal fondo mirati. Era il bacio sul congedo della luce, sulla fiamma appena muta e ancor calda, sulla porta ormai adagiata, sullo spirito soave dei miei lumi, ora soli, un po’ più opachi, in cammino nella notte, la più cupa e tormentata. Era la mia terra, pestata, sfaldata, era il nostro seme, secco e vagante nelle aride ore, che non conobbero più pace né riposo, immobili, in un vortice continuo di colori assordanti e silenti oscurità senza sosta né parole. E trecento inarrestabili soli e altrettante lune recarono in dono l’eterno meritato torpore. Era la fonte dei nostri lumi, eran le labbra incrociate alle mie, l’ultimo sguardo sul letto, la sera, e poi le urla i tremori i sussulti in un oscuro circo di folli, l’aiuto in gola strozzato. Erravamo nell’ignoto infinito, ove tutto si può, tra piacere e terrore, ora della mia amata perpetuo talamo, in me, come negli altri, sì marcio. Solo percorsi la restante via, solo stupore in quegli occhi, finché il mio putrido nucleo m’acquietò in un sonno repentino, figlio di duecento gir di questo mondo, che dissimile alla morte non è.

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Diana Mayer Grego – È TEMPO DI PARTIRE ∞

Il cielo si fa scuro, sento le tue mani accarezzarmi il volto. Percepisco la tua presenza, anche se ci divide il tempo delle cose non fatte. Hai lasciato il tuo tempio, il respiro interrotto, sospeso. Una vita di cose da fare. Un sentiero da percorrere. Il cammino del divino ci separa dal viaggio programmato. Ancora una vetta, ancora una fatica, ancora uno zaino da preparare. Ti avrei insegnato a partire, per poi tornare, più ricchi, con piccoli tesori nel cuore. Occhi di capriolo, gemme di mugo, antichi sapori. Saggezza nelle mani, sapienze di erbe preziosità degli odori. Ma un altro viaggio ci è stato riservato, di rara bellezza. Un ponte, da attraversare, andata e ritorno per tutti lo stesso biglietto. In mezzo la vita, a te così breve io regalo ricordi. Nessun dolore la pietà di chi mente, sapendo di mentire.

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Prego quel camice bianco venuto dall'Oriente salva lei! Salva me ... salva. Silenzio … Sta per piovere. Raccolgo le mie lacrime, è tempo di partire e con te, mai più tornare.

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Luca Memeo - Lontano da qui *

Corro, corro, corro… Corro di giorno per fuggire dalle mani affilate come lame da chi mi bracca per farmi a pezzi dalle catene arrugginite che imprigionano la mia diversità dalle corde ruvide che vogliono legarmi sull’altare del pregiudizio. Corro per creare una distanza fra me e la mia devastante realtà.

Corro, corro, corro… senza sosta, bianco fra neri in questa terra ostile e superstiziosa anche il sole mi è nemico la sua luce mi abbaglia, mi ferisce gli occhi, mi divora la pelle. L’oscurità ferma la mia corsa. Il buio è un dono atteso tutto il giorno è un luogo sicuro che mi accoglie fraterno. La notte è anche solitudine e paura sento ancora i loro occhi neri puntati su di me. L’angoscia, asfissiante compagna notturna, intralcia la mia silenziosa eclissi. In questa fragile intermittente tregua il mio cuore stanco sogna di viaggiare libero lontano da qui da un presente impossibile verso un altrove a colori.

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Marina Modesti - Notte di viaggio ∞

Notte di viaggio, notte di silenzio, immerso tra le luci di questa grande sala, tappezzata di promesse. L'amore non perde la speranza. Ho fame di fiducia, ho sete di conoscenza. Notte di viaggio, notte di desideri, non ci sarà sosta, per ogni sonno agitato, non ci sarà tregua, per ogni lamento soffocato, il viaggio è appena iniziato. Da lontano, risuonano le note di una melodia antica, una per ogni sospiro affidato al vento, una per ogni goccia di sangue, giunta sino al mare. L'amore non perde la speranza. Avanza a balzi la ricerca, ogni lacrima versata, sarà un rivolo del mio sudore, ogni gemito silenzioso, il risveglio dei miei sensi in allerta. L'amore non perde la speranza. Notte dipinta di bianco, notte vestita di luna. Vedo i mille volti incrociati nel cammino, occhi che guardano lontano, oltre i limiti, dentro il mistero. Notte di pioggia, notte di preghiera, la mia notte sognata per te. L'amore non perde la speranza.

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Tiziana Monari - Il viaggio ∞

Tutto è sospeso nel viaggio vengono in molti, da tanto tempo e nessuno sa da dove gente dagli occhi senza stagioni, dall'amore consumato da vite che non lasciano ombre c'è un calore dolciastro durante il viaggio terra, arbusti secchi un sentiero a piombo che va a nord un percorso lentissimo ed infinito intorno ad un paesaggio lunare dove cielo e terra sono un'unica cosa e si uniscono all'ocra del niente alla polvere che violenta la gola alle voci rudi dei mercanti di schiavi si diventa sabbia durante il viaggio in un connubio sanguigno di umori insieme agli scarafaggi e agli scarabei del deserto ed intanto la Land Rover arrugginita solca le dune l'infinito tunnel nero del dolore un cielo intriso di astri e di stelle spente si è sempre in ritardo durante il viaggio il deserto prosciuga lacrime e saliva, annulla l'anima,cancella pensieri spalanca il cuore alla follia indecente degli uomini l'alba è sgualcita,bianca d'assenza e manca l'aria anche per i sogni ci si assottiglia durante il viaggio il corpo diventa un filo leggero di memoria le ore si allungano in allucinazioni l'alito della morte sfiora i capelli dei bimbi l'oscurità al centro della storia. E poi alla fine c'è il mare, che si muove adagio il mare che muta e trasmuta sulla soglia del tempo nell'ansia anelante della schiuma, delle sue creste a mezzanotte al largo, senza luci tutto si dilata in un silenzio sospeso s'incendia l'inverno, sgraziato, nel buio della notte ed ancora un viaggio, l'ultimo un viaggio che ronza e si dispera lassù dove ci sono distese di verde irrorate di vento e di rosse farfalle.

L'ultimo viaggio verso il paradiso.

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Vincenzo Mungiguerra - ANTIGONE (viaggio in treno) ∞

All’interno dello scompartimento i posti erano occupati; un militare dalle gote rosso accese, sigillo di un’adolescenza ancora pulsante, dormiva tranquillo. Un anziano avendo sistemato due ingombranti valigie e uno scatolone, fissava con insistenza il portabagagli. “Vanno bene così!” esclamò l’uomo, un trentacinquenne che assieme a una donna occupava i posti di fronte. “Dentro ci sono olio, vino, e arance e melanzane. Tutta roba della piana!” fece il vecchio, che dopo il lungo fischio di partenza del capostazione, inizio a prendere interesse ai compagni di viaggio. Osservando la pelle scura e le fitte sopracciglia dell’uomo, disse tra sé - Frutto d’accozzamento d’arabi e normanni, non mi sbaglio! - e fu certo di non sbagliare quando chiese in un marcato accento siciliano “Lei è di Catania?” “Di Siracusa, ma risiedo a Hannover. I miei erano emigranti …”, ebbe appena il tempo di rispondere l’uomo, che il vecchio volgendosi alla donna domandò: “La signora è la moglie?” La donna, una mora dagli occhi scuri, che un neo alla sommità delle labbra le conferiva qualcosa d’indefinibile, rispose con un “No” fermo, seguito da un “anch’io sono di Siracusa”. Il vecchio non udì, distratto dal giovane militare che lentamente scivolava nel sonno, cui non risparmiò il commento - Dorme beato! -. Cautamente, gli spostò le gambe e chiese ancora alla donna “Và a Milano?”. Lei negò con un cenno: “A Bologna”. “Il viaggio è lungo!” fece il trentacinquenne, incrociando le mani. Sulla fronte del vecchio, comparve una ruga supplementare: “Ogni volta che parto, mi pare d’affrontare il martirio di Sant’Agata … ho un appezzamento di terra. Terra umida, buona terra grassa …” Aveva parlato con calore e l’uomo per un istante immaginò di vederlo chino sulla terra dissodata nell’atto di afferrarla, tastarla, annusarla e decretare tipo e tempo della semina. “Non mi pare contento d’andare a Milano” commentò. “Vado a trovare mia figlia. Che vuole Voscenza, è un piacere smozzicato. I campi danno daffare, hanno bisogno d’acqua e braccia … sincerità per sincerità, lo vuole sapere? Chi come me è nato in un piccolo paese, Milano è e un posto di marziani. ” L’uomo l’ascoltò, e intese che l’olio, il vino, le arance, le conserve che il vecchio considerava i migliori perché della provincia di Catania, erano simboli di un rapporto inscindibile con la sua terra. "Ha detto che è di Siracusa?" riprese il vecchio, e esclamò "Siracusa, storica e bella!" L’uomo sorrise. Aveva deciso di partire, una decisione seguendo un impulso, che a pensare al perché e al percome era nato quell’impulso di andare a Siracusa, aveva in se della follia. Non si spiegava. Un ricordo improvviso, pungente, familiare, diventato un bisogno: l’odore del basilico, cui erano legate memorie umide di terra e di vita. Uno soprattutto ... Siracusa, già di primo mattino l’aveva vista abbacinata dal sole. Ad Ortigia, voci colorate, come quell’intensità di azzurro che scialava tra mare e cielo. Un viaggio dopo tanti anni, per arrivare e fermarsi col naso per aria sotto una finestra con un vaso di basilico sul davanzale! Non c’era più nessun vaso di basilico e le imposte della finestra erano ammuffite di solitudine. La voce del vecchio coprì il rumore del treno. “ Che lavoro fa, ad Annovia?” chiese, sgrammaticando il nome di Hannover. “Il medico ” “Quindi lei è tornato in Sicilia a respirare l’aria natia”. L’uomo assentì e il vecchio inspirò profondamente, come se quell’aria profumata che entrava nel treno da file di limoneti a distesa, da interminabili topazi gialli che venivano loro incontro occupando lo spazio, appartenesse a lui per diritto di nascita. “È molto che manca? ” intervenne la donna che offrì dei mandarini. “La mia famiglia è emigrata in Germania. Allora, avevo quindici anni ”. “È tanto!” fece il vecchio “Eppure, la Germania non è l’America.” Si, non è l’America. - Mi hanno costretto a partire, - diceva suo padre, - e, per dio, morirò dove non mi è stato negato il pane ! - .

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Fosse dipeso da lui, non sarebbe mai partito. Perché allora aveva il cuore nello zucchero e negli occhi, gli occhi verdi di Maria affacciata in una finestra profumata di basilico... “Ha parenti in Sicilia ?” seguitò il vecchio. "Non ne ho più. Sono tornato perché è scappato il mio cane” rispose. “Come?” fece la donna, e il vecchio, che stava portando alla bocca alcuni spicchi, li trattenne a mezz'aria. Gli era venuta così quella battuta, che a fare dello spirito era come cavargli un dente. Come una fantasia, perché l’aria era talmente sapida di vita che si rapprendeva alla pelle come una camicia in un giorno afoso. “Avevo comprato un husky proveniente dalla Finlandia. – continuò - Dormiva sul tetto della cuccia con la testa rivolta a settentrione. Un giorno è andato via. Questi cani, appena possono, scappano, vanno sempre verso nord, seguendo un loro istinto.” “E così è evaso!” rilevò il vecchio “Esatto. Ho pensato anch'io di seguire il mio istinto, però invece di andare verso nord, sono andato verso sud.” Il vecchio borbottò “ Cose dell’altro mondo!”. La donna rise. “Praticamente, ha rivisto la Sicilia in un’età apprezzabile…” “A Siracusa ho visto le Latomie, l'Ara di Ierone, il teatro greco, un patrimonio unico … ero troppo giovane allora per capirlo. ” – rispose “In questi giorni rappresentano l’Antigone di Sofocle”, aggiunse la donna. Lui aveva assistito alla tragedia. Antigone parlava lentamente. Si levava, poi, dal suo torpore, come quegli uccelli che volando dapprima rasoterra, spiccano alto il volo. Il suo grido era l’umano che chiamava l’umano, con voce fiera, possente, più forte di ogni norma, di qualsiasi legge, attraverso i secoli, attraverso il tempo. Capiva il perché di quel viaggio. La sua partenza era la ricerca di un balsamo, di una panacea, la voglia di lasciarsi irretire da emozioni da tempo rimosse a fronte del senso d’inadeguatezza che viveva il giorno e lo coglieva insonne di notte. “Le tragedie, dove scorre il fiume del lamento!” intervenne il vecchio. “Ascolti, - lo corresse l’uomo - la tragedia non è lamento, è grido, lacerazione, scuotimento, contro il limite che impedisce di essere. E' turbamento dell'ordine stabilito dalle leggi, è l'estremo tentativo di superare il confine tra ragione e sentimento, tra noto ed ignoto”. "Mah!" esclamò il vecchio, e quel "Mah!" era un epilogo, la chiusa di un discorso in cui prospettava scarse possibilità d'appello. La donna, rivolgendosi all’uomo disse: “E’ luogo comune usare la parola tragedia per fatti drammatici e violenti, ma la tragedia sta in tutti noi. Rimane in letargo finché, inaspettatamente, per un caso, per uno stravolgimento della sorte non ne prendiamo coscienza creando lo scompiglio nella nostra vita... Alcune storie ci segnano, come quando avviene una separazione improvvisa, non voluta, definitiva... definitiva, che è come dire mai più. Parola amara, spaventosa, perché nega la speranza; bisogna viverla per capirla fino in fondo questa parola… Ricordo che si festeggiava l’anniversario di matrimonio dei miei. Avevo tredici anni. C’erano molti invitati. Successe qualcosa. Iniziò col silenzio. Un silenzio di parole, di frasi di circostanza. Mi accorgevo che ciò che le persone dicevano, equivaleva a dire ‘Io ci sono’, ma anche, ‘non ho niente da dire’. In quei precisi momenti ho scoperto il nulla. Una brutta sensazione. Quella strana rappresentazione del nulla, è stata per molto tempo, dopo la morte di mio marito, la tremenda angoscia che ha accompagnato i miei sogni... Era stato ricoverato in ospedale per una frattura al piede. Una frattura scomposta, per cui fu necessario un intervento chirurgico. L’intervento andò a buon fine. Doveva seguire un periodo di riabilitazione. Mi trovavo in corsia, perché orario delle visite mediche. All’improvviso avverto un gran subbuglio nella stanza dov’era mio marito. Non passa qualche minuto e mi dicono che era morto! Morire così, non mi capacitavo. Ma come, com’è possibile, mi chiedevo, l’intervento è andato bene! Non riuscivo a intendere. Una malattia strana. Poteva colpire all’improvviso, senza nessun avviso, senza un segno premonitore. La malattia di Brugada, una malattia cardiaca occulta, mai sentita, poco conosciuta, tre casi ogni 100.000 abitanti. I medici scuotevano la testa, ma continuavo a non credere, continuavo a ripetermi: - Hanno sbagliato -.

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Tutto si era svolto rapidamente. Il giorno dei funerali mi stupivo, mi sembrava un’esagerazione di solidarietà e, soprattutto, ero sorpresa dalle tante allusioni a mio marito. 'Ma cos'è che dicono?' mi dicevo 'Domani dovrò andare in ospedale, lui mi aspetta'. In seguito e per tanto tempo, all'ora di pranzo, preparavo la tavola per due e spiavo il suo ritorno dal lavoro scostando le tendine della finestra... Perché quella inconsapevolezza? Me lo sono chiesta mille volte. Perché quel velo che ci copre gli occhi e non ci fa distinguere ciò che invece è evidente…? ” Lo sguardo dei tre viaggiatori si perdeva lungo le pendici dell'Etna che s'allontanava, quando il medico disse “Forse il dolore per quella privazione era così grande, perché talmente inaspettato da non potere essere tollerato; era necessario arginarlo, difendersi, e di fronte a un impatto così tremendo, cosa meglio della negazione? Capita così, in situazioni del genere, di evitare di sapere, vedere, sentire, di crearsi degli alibi, nascondendo ciò che può essere spiacevole, perché non pronti, non preparati ad accettare la realtà nella sua tragicità”. Il giovane militare si era svegliato da poco, aveva ascoltato le loro ultime parole ed era contrariato ‘Ma

sono questi i discorsi da fare in un treno?’ pensò. Poi, come ricordando un impegno, accese la radio

portatile e disse “Qualcuno di voi sa cosa ha fatto il Milan?”

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Marina Napoleoni - Una giornata insieme a te

Quella era la mattina in cui andavo a trovare mia madre. Tutta la giornata insieme. “Ti voglio portare a vedere il Colosseo, ti va?”. Si, le andava. Le faccio indossare, nonostante il caldo estivo, la giacca con le maniche lunghe ed il cappello a larghe tese, perché, come le ha detto il dermatologo, per lei il sole è come la bomba atomica! Me la scarrozzo in macchina, senza farla scendere mai, come in un pullman panoramico che fa il giro turistico della città. Lei non cammina molto ed è depressa da una vita. Ormai è anziana e invalida, ripensando al passato posso dire che è stata anche felice. Tutti sappiamo com’è la vita, succedono tante cose… Ecco sua maestà. “Mamma ti piace?” “si”, piangendo, “ questa probabilmente sarà l’ultima volta che lo vedo!”. Come è difficile “schiarire un’anima invasa dalla tristezza”, mi dico pensando alla felicità raggiunta di Montale. Intanto l’auto continua ad andare, il Colosseo non si vede più… ma questa non sarà l’ultima volta, mi dico, perché trovo il coraggio di fare un’inversione ad U pazzesca per poi ritrovarci di nuovo li a guardare quella meraviglia che, faccio notare a mia madre, per poterla ammirare, tante persone da tutto il mondo affrontano viaggi lunghi e costosi. Alcuni poi non la vedranno mai, invece a noi che viviamo a Roma basta uscire di casa. Lei non mi risponde ma io so cosa sta pensando… Sta pensando che questo non le basta neanche per sentirsi un po’meno infelice. Torniamo a casa, c'è il pranzo da preparare, faccio un sughetto con pomodoro e basilico, mangiamo un bel piatto di bucatini. Poi ci stendiamo sul letto a riposare, prima di chiudere gli occhi parliamo un po’e lei mi dice "sono stata bene insieme a te, è una vera fortuna abitare a Roma", "si mamma lo penso anch'io", in fondo “la felicità è una piccola cosa”.

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Lorenzo Piccirillo - Dio ∞ Adesso tu mostri meraviglia per i miei calzari “unti” di sudiciume le caviglie lacere e piaghe infette di pustole tumide Dov'eri quando il giorno chiudeva gli occhi e il lupo nero sgranava le mascelle con denti aguzzi per mordermi l'anima Dov'eri se la puzza di pesce avariato mi ostruiva la gola prigioniera della salsedine e sputava granchi crudi e nomi di santi islamici agnostici e oscuri Dov'eri se la luna era sempre rossa e l'inchiostro della piovra anneriva gli abissi dove la luce degli occhi era torcia di speranza persa [Ma tu ...?] Dov'eri quando ho raccolto il fiore del nostro prato gonfio di acqua e sale Quando il mio grembo si è ucciso mozzando le sue radici Dov'eri quando ho intravisto la patria di Circe e i maiali non erano amici di Ulisse Lo stabbio del gommone era il mio artiglio da leone [Ma tu c'eri …?] sulla roccia sicula dove si è schiarito il cuore con le ginocchia conserte e a mani tese aggrappata alla lucciola del mare per non protrarsi alla resa Quando ho raccolto il fiato dei nostri petali chiudendoli in una bara Lì è fermo il mio <<Viaggio>> [“Tu … dove eri?”]

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Laura Pingiori - IPPOCRENE ∞

Cammino su piedi insicuri Cado nell’inferno dei limiti Arranco, cercando un passo che sia il mio, soltanto mio, per raggiungere ogni parte del mondo, con le mie gambe flosce. Avanzo sul cuore del mondo e viaggio attraversando l’inferno, trovando ragioni per sorridere di me. Ho trovato un porto, dove mi hanno regalato un sole, che ho riposto nel profondo del cuore, viaggio sui suoi raggi, viaggio oltre ogni limite, avvolta nel calore dell’universo, che non si ferma davanti alle mie gambe mute. Urlo davanti ad ogni viso che incontro, urlo, perché ho voce da far ascoltare, ho storie da raccontare, che superano ogni muro. Viaggio e tutto mi avvolge. Mi ha colpito il male, come Pegaso colpì con lo zoccolo il monte e da esso nacque sorgente luminosa. Ogni giorno mi tuffo nella mia Ippocrene, cantano e danzano le muse intorno a me.

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Anna Maria Piria - Quando vorrai che io parta - Vorrei!!! - Illusioni ∞ Quando vorrai che io parta Fammi incontrare l'aurora, voglio chiedere un raggio al nuovo sole che scaldi del mio amore chi rimane ---- Vorrei ancora una volta, riappropriarmi del desiderio di vivere, per continuare a dispensare Amore, senza che una briciola se ne perda, prima di traghettare... ---- Vivono con noi inquiete viaggiatrici Anche se vecchie e cenciose, tentano ogni giorno di non farci restare soli.

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Manuela Priolo - 9.551 ∞

Kim era nervosa dinanzi alla zona arrivi dell’aeroporto internazionale di Ho Chi Minh City. Sbirciava le porte scorrevoli smerigliate e non capiva. Lavorava ormai da anni come referente locale per una associazione italiana che si occupava di adozioni internazionali. Era una bella donna di quasi 50 anni e quel giorno continuava a sistemare infastidita la sua lunga coda di cavallo stringendo il nodo. Era nervosa. Non capiva perché la sua responsabile in Italia qualche mese addietro l’avesse chiamata annunciandole l’arrivo di un medico in visita come osservatore per 15 giorni. Che bisogno ci sarà di far venire dall’Italia un medico osservatore? Si era subito detta. Il dubbio che la Sede volesse controllare il suo operato le era balenato e l’ansia era montata. Eppure aveva sempre lavorato con grande scrupolo e aveva condotto a buon fine un numero ragguardevole di adozioni nel corso degli ultimi anni. Riflettendo si era tranquillizzata ed aveva preparato per la straniera un programma massacrante. “Vediamo se resiste a questo - si era detta - non le farò riprendere fiato; visiteremo tutti gli orfanotrofi con i quali collaboro e la porterò negli ospedali per mostrarle le condizioni nelle quali i suoi colleghi lavorano”. La straniera le stava già antipatica; chi era lei per arrogarsi di venire a controllare il suo operato? Cosa faceva nella vita? "Sarà un’altra delle tante pie donne che vengono con le migliori intenzioni e poi hanno paura di insozzarsi i piedi nelle stanze comuni” aveva borbottato mentre sbucciava un chom chom e cercava di mordere la polpa succosa. Ma ora, mentre aspettava il suo arrivo in una afosa serata di Luglio, l’ansia era rimontata. Non aveva alcuna voglia di incontrarla. “Forse – pensò – se mi volto e faccio finta di non vederla lei riprenderà il primo volo di rientro e tutto sarà finito”. Ma sapeva che non poteva nascondersi. Per i prossimi quindici giorni sarebbero state giocoforza insieme e lei avrebbe mostrato alla straniera tutto ciò che era previsto nel fitto programma. Beveva dalla bottiglietta d’acqua che aveva acquistato da un venditore ambulante, una sola però, la straniera se la sarebbe dovuta comprare da sé, e stava maledicendo quel caldo appiccicoso e straordinario per la stagione delle piogge in Vietnam, quando le porte si aprirono e la riconobbe subito. Una occidentale immersa in un fiume di connazionali, stralunata dal fuso orario e dall’ umido che l’aveva aggredita appena uscita. Vide un cespuglio di capelli ricci che seguiva una traiettoria sghemba verso destra per via di un assurdo taglio asimmetrico che la dottoressa pareva portare con grande fierezza. Kim abbozzò un sorriso e la straniera si avvicinò. Caricarono la pesante valigia su di un taxi e si avviarono. Lungo il tragitto non parlarono ma quando arrivarono a casa, dinanzi ad una grossa caraffa di acqua ghiacciata, le parole fluirono più semplici. Fu la straniera a parlare per prima spiegando che aveva chiesto alla Associazione di potersi recare in Vietnam per aiutare le coppie che avevano deciso di adottare un bambino. “Ho bisogno di sapere – disse – quali sono le condizioni dei piccoli prima di essere adottati, ho bisogno di conoscere i medici che stilano i report clinici - e questo a Kim fece una grande impressione; come poteva permettersi la straniera di mettere in dubbio i loro medici di riferimento? – ma soprattutto – aggiunse la straniera - voglio conoscere quali sono i bisogni di chi resta qui, dei bambini che nessuno vuole, degli ultimi fra tutti. Voglio fare qualcosa per loro anche quando tornerò in Italia”. Le cose cambiavano, pensò Kim. La straniera era qui per i bambini non adottabili, ma che senso aveva? Perché la Sede sprecava energie per far valutare dei bambini che non avevano futuro? Continuava a non capire. I giorni si susseguirono e Kim rimaneva sempre più meravigliata nel vedere la dottoressa accettare di buon grado l’intero programma senza battere ciglio. La vide giocare con i bambini di pochi anni, fare foto alle stanze, accoccolarsi in un angolo con i piccolini e passare una mano sulla testa degli allettati. Ma non riusciva a capire perché le interessassero così tanto i bambini malati, quelli con le teste dilatate come enormi palloncini e con gli occhi che quasi schizzavano dalle orbite. La vide chiedere più volte ai medici “perché non li derivate? L’idrocefalo si può trattare” e la vide arrabbiarsi quando il collega faceva spallucce dicendo che non era possibile in Ho Chi Minh City. Le vedeva il rossore salire sulle guance e sul collo, su quella pelle così chiara che le aveva invidiato non appena l’aveva vista in aeroporto. Poi la straniera si accucciò accanto ad una bimba e cominciò ad accarezzarla sorridendole. Anche Kim si avvicinò e rimase stupita. La piccola aveva una testolina completamente schiacciata, con gli occhi deviati che le cascavano ai lati del viso e respirava a fatica. Ma le mani ed i piedi erano ancora peggio, pensò Kim. Le dita erano fuse insieme, come se si trattasse di un unico moncone, solcato in mezzo da una

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profonda incisura, tanto da farle sembrare mani e piedi come le chele di un granchio. Kim credette che la dottoressa si sarebbe stritolata i denti a furia di irrigidire le mascelle mentre ascoltava la collega che dinanzi alle sue richieste di curare la bimba con la craniostenosi (fu quello l’unico termine che acciuffò in mezzo alla concitata conversazione tra i due medici) rispondeva che anche se l’avessero operata nessuno avrebbe adottato una bimba con le mani tanto malformate. Nel dirlo la dottoressa dell’orfanotrofio sollevò un piedino della piccola con tanto disgusto che la straniera spalancò la bocca scandalizzata. Passarono dei giorni di silenzio. La straniera guardava assente dal finestrino dei taxi e si lasciava portare docile negli ospedali a vedere file interminabili di persone in attesa, famiglie sdraiate da giorni su stuoie di cocco dietro la porta degli ambulatori per una visita. Non parlava, ma si vedeva che era triste. Kim non chiedeva nulla, si limitava a descrivere. Mentre aspettavano, Kim si accorse che la straniera stava giocando con un bimbo con la faccia e le manine gonfie. Il piccolo cercava di afferrare il buffo orologio pieno di farfalle della dottoressa, lei lo copriva con una mano per poi scoprirlo con un sonoro “Bhuuu” che divertiva molto il bambino. Vide la dottoressa rabbuiarsi mentre dava una carezza al bimbo e si faceva ricambiare con un grosso bacio sbavato e sorridente. Forse era certa che anche lui non aveva possibilità di guarire. Kim pensò che la straniera doveva avere un gran coraggio a farsi baciare da un bimbo malato. E comunque non la capiva proprio. Un medico che qualche giorno prima inorridiva per la scabbia ora si faceva baciare da bambini HIV positivi? La scabbia si curava con una pomata in una notte, di cosa aveva paura? Ma per la dottoressa la scabbia, la peste, i pidocchi evocavano le paure più nascoste ed era da quelle che lei fuggiva. Ma questo Kim non poteva saperlo. Poi un giorno cambiò. La dottoressa tornò a casa sorridente. Le disse di essere stata al Museo della Guerra. Le disse di aver visto le stesse malattie dei bimbi in orfanotrofio nelle fotografie appese ai muri. Si era documentata e ora sapeva che gli effetti devastanti dell’agente Orange si vedevano anche nei nuovi nati. La diossina si era infiltrata come un cancro nel DNA ed inquinava tutto, i raccolti, i pesci, la terra. Non era una grande scoperta, ma almeno si era data una spiegazione. Il sollievo della straniera aprì un nuovo dolore in Kim. Non voleva parlare della guerra. Lei la conosceva, c’era stata. Il dolore divenne insopportabile quando la dottoressa le chiese: “Come e’ stata la tua guerra Kim?” Non voleva farlo, ma sentì le parole uscire dalle labbra come se scappassero senza poter fare nulla per trattenerle. “Avevo 7 anni ed era il 1975. Mio papà era disperso e ogni giorno mia madre si recava con mia sorella maggiore sulla riva del mare per vedere i soldati morti. Ce ne erano a centinaia, ogni giorno diversi. Un giorno andai anche io. Mia madre e mia sorella li guardavano ad uno ad uno aprendo le palpebre. Poi li seppellivano assieme a tutte le altre donne. Mia madre diceva che lo facevano perché ognuno di quei soldati poteva essere il mio papà e lei sperava che se fosse morto lontano qualcun’altra donna lo avrebbe seppellito. Ricordo anche un’altra cosa. Nel 1974 eravamo sfollati nelle campagne. Avevamo perso tutto: la casa, i soldi, i vestiti. Dormivamo in una chiesa assieme a tanta altra gente ed ogni mattina preparavamo un pentolone di patate bollite. La gente che scappava dai bombardamenti per addentrarsi nella foresta passava dinanzi a noi, prendeva alcune patate e scappava. Lo facevamo tutti i giorni... io non riesco più a mangiare le patate”. Kim parlò ad occhi bassi ma quando li sollevò incontrò quelli della straniera; vide che brillavano come i suoi ed ascoltò la sua voce malferma risponderle: “ Tutti dovrebbero ascoltare le tue parole, Kim, e vedere questi bambini: perché non succeda ancora”. Qualcosa era cambiato tra loro. La straniera non era più così lontana. A Kim era bastato far galleggiare i suoi ricordi di bambina perché l’altra li acciuffasse al volo. Anche se parlavano due lingue diverse, ora si comprendevano. Le legava il filo della guerra, della diossina che si insinuava maligna nel corpo e nei ricordi, delle bombe scoppiate sulla sua testa e della sua paura che ora rivedeva negli occhi dei bambini malati dopo quaranta anni, quasi che le stesse bombe scoppiassero anche sulle loro teste e si ritrovassero di colpo deformi. La straniera lo capiva e sapeva di non poter impedire che quelle bombe agissero ancora, ma forse poteva ricordarlo a chi non le aveva mai viste. Promise che lo avrebbe fatto in Italia. Sorseggiarono un caffè vietnamita ghiacciato e risero insieme, mentre mandavano giù le ultime lacrime che entrambe trattenevano a stento. Alla fine dei 15 giorni si lasciarono esattamente dove si erano incontrate: al limitare delle porte scorrevoli smerigliate dell’aeroporto. La valigia della straniera si era fatta più pesante di ventagli, oggettini in legno, bacchette per il riso, vasi laccati, cappellini di bambù, magliette colorate e magnetini, ma lei la trascinava allegra. Quello che pesava di più era il suo cellulare, zeppo di immagini del Vietnam e della sua

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gente, di bimbi sofferenti e di altri allegri che si rotolavano sui grandi tappeti delle stanze comuni. C’erano le foto di Notre Dame, dell’Ufficio Postale, della loro gita sul delta del Mekong in un giorno di sole che aveva esaltato tutti i colori intorno mentre si ritraevano sorridenti con il cappello a cono su di una piccola imbarcazione. C’erano anche quelle del Museo della Guerra che Kim non aveva voluto vedere ma che la straniera aveva studiato e sulle quali aveva trascorso un intero pomeriggio. Stava andando via; c’erano voluti 9.551 Kilometri di viaggio per farle incontrare e quindici giorni per farle avvicinare, per azzerare quella distanza inevitabile e cercare di entrare l’una nell’altra. “Sono felice di averti incontrata, Kim. Sei una persona speciale e so che lavori per il bene dei bambini” le disse. Kim rispose con un sorriso ed una stretta di mano “Thanks, you are special, too”. Le porte smerigliate si aprirono e l’ultima cosa che Kim vide fu il grande sorriso della dottoressa sul volto arrossato ricoperto di efelidi per il sole eccezionale di quel luglio Vietnamita.

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Marina Priorini - Finalmente figlia ∞

Aspiro la sigaretta e mi maledico per questa debolezza come fosse la sola che mi riguarda. Passeggio avanti e indietro contando i passi. Mi rilassa e allontana i pensieri. Uno sguardo al cielo: non promette nulla di buono e l’aria puzza di umidità. L’edificio alle mie spalle è grigio e si confonde con il colore delle nuvole. E’ un mostro gigante che accoglie le persone con le braccia spalancate. Ma è un’illusione, non le accoglie, le divora. E’ sera e il via vai di persone è cessato. Sono sola davanti al piazzale e ascolto il rumore del silenzio. So che devo rientrare, percorrere i lunghi corridoi, accelerare il passo per passare veloce davanti alle porte socchiuse che lasciano intravedere immobili figure sdraiate sul letto. Posso rimandare. Ho bisogno ancora di aria fresca. Accendo un’altra sigaretta. Eppure avevo promesso che non avrei più fumato, che avrei cercato di salvare quel che resta dei miei polmoni. Invece non sono riuscita a difendermi dalla dipendenza pur conoscendo i danni che provoca. Amo i vizi. Mi piace bere, fumare,mangiare,amare. Amo la vita e le sono grata per tutto quello che mi ha concesso. Ho preso quello che potevo prendere. Ho dato quello che potevo donare. Ho vissuto fregandomene del futuro per vivere il presente. Ho una storia, mi sono ripetuta sempre, ho lasciato un’impronta, ho buttato dietro di me insignificanti episodi di sconfitta. Il mio viaggio è iniziato tanto tempo fa e ancora non si è concluso. Non tornerò indietro per cercare la riga mancante del mio libro. Ciò che sta accadendo tuttavia mi costringe a riflettere. Cammino avvolta da una piccola, azzurra, nuvola di fumo. Vorrei voltarmi, prendere la macchina e andare via. Ma la freccia mi indica il percorso da seguire. Linea gialla. Mia madre è al settimo piano. Ematologia oncologica. Mia madre! Ciò che resta di mia madre, perché ogni volta che la vado a trovare è più magra e più piccola. Ho notato lo spazio che aumenta tra i suoi piedi e il bordo del letto. Il male la sta consumando. So che non manca molto e segretamente mi auguro che giunga la fine perché nonostante le cure, nonostante la sua forza, nonostante l’attaccamento alla vita, la sofferenza è tale che se c’è un Dio deve smettere di farla soffrire. E’ ora di gettare il mozzicone di sigaretta e di entrare. Il reparto è come sempre avvolto dal silenzio della sera. Metto la cuffia, il camice, i guanti e sospiro. Entro nella sua stanza. Lei si volta e mi sorride. Io vorrei dirle tante cose ma l’unica domanda che le rivolgo è “come stai?” Sussurra qualcosa che non riesco a comprendere. Mi avvicino e le sue parole mi giungono chiare” non ce la faccio più, voglio morire”. Le prendo una mano incapace di rispondere che deve continuare a lottare, che presto la porterò via dall’ospedale per tornare a casa. Resto in silenzio e la osservo. Prima che peggiori voglio scattare una fotografia che ci ritragga insieme. Prendo il cellulare, le chiedo di sorridere per me. Scatto. Oggi a distanza di due anni quando guardo quella fotografia mi sento un’idiota. Ho scattato un selfie del cazzo con mia madre moribonda. Non me lo perdonerò mai. Quel giorno però ho compreso che la fine era davvero vicina e sono stata sopraffatta da un dolore insopportabile. Impotenza, rabbia, disperazione, commiserazione, si sono mescolate insieme in un cocktail micidiale. La sua mano era abbandonata nella mia e il tempo si è fermato. In un mondo che esalta la perfezione io ho immortalato l’imperfezione. Esseri imperfetti, quindi fragili, incompiuti. La foto di mia madre è ora un ricordo indelebile di immensa bellezza. Mi viene in mente una frase di Coelho “abbiamo bisogno di morire per rinascere”. Non so se condividerla. Io nel momento preciso in cui ho avuto la consapevolezza della sua fine ho compreso che mia madre soffriva ma era viva e che sperare che tutto finisse avrebbe significato augurarle la morte. Senso di colpa, angoscia, tristezza. Deciderò io per lei? Neanche fossi Dio posso prendere una decisione così importante senza pagarne le conseguenze?

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Lei ha gli occhi chiusi. Respira a fatica. Osservo il petto abbassarsi e alzarsi. Il tempo che intercorre tra un respiro e l’altro è sempre più lungo. Quando cesserà di battere il cuore tutto si fermerà. Resto in silenzio avvolta dal silenzio. Non c’è motivo di parlare. Il dolore è così drammaticamente misterioso che si può comprendere solo nel silenzio , si elabora con ciò che le parole non possono esprimere. Costringe alla riflessione che conduce altrove, che impone di abbandonare la via delle certezze e ti spinge a porti domande a cui non sai rispondere. Inizia così il viaggio della ricerca di ciò che siamo, dei ricordi, delle emozioni, di ciò che potremmo essere. Diversi, migliori, peggiori. Non ha importanza. E’ un vagare emotivo che dilata lo spazio e il tempo, che ci fa sentire piccoli, inutili, vigliacchi. Una realtà diversa, inattesa. La sua sofferenza è così evidente mentre la mia è taciuta, soffocata, nascosta. Ho paura di ammettere di avere paura. E’ la prima volta che ho tempo per vedere la fine delle cose, la realtà del nostro essere mortali. La dimensione in cui fluttuo si dilata e desidero soffrire per essere certa di essere viva. Entra un’infermiera. Deve sostituire la flebo. Il braccio di mia madre, scarno e con la pelle che ha ceduto, è coperto di lividi bluastri. Si lamenta. Non posso restare a guardare ed esco. Ha iniziato a piovere e penso che per molte persone il tempo meteorologico è l’ultimo dei pensieri. Domani magari ci sarà il sole, poi nuovamente la pioggia. Per mia madre ci sarà la stessa sofferenza, forse di più, e il mio strazio per non riuscire a porre fine a tutto questo. Vado via senza salutarla. Non ce la faccio a restare senza poter fare niente. Seguono dieci giorni tutti uguali e assisto impotente alla sua volontà di resistere. Poi qualcosa mi costringe a prendere una decisione. La faccio trasferire in un centro per malati inguaribili dove so che potrò aiutarla a lasciarmi. Lei non comprende, non si accorge di nulla. Mi confermano che ha i giorni contati e che, considerate le sue condizioni e l’età, è un miracolo che abbia vissuto così a lungo. Questioni di giorni. Io speravo di ore. E’ sedata, mi dicono che ora non soffre più. Mi trasferisco da lei perché voglio parlarle di me, di noi, anche se non può rispondere so che può ascoltare. Scopro di essere capace di aprirmi, di perdonare, di ricordare, di essere figlia. Le accarezzo una mano, i capelli, le dico continuamente che non è sola. Io sono sola. Il respiro è sempre più debole e in ogni rantolo un po’ di vita l’abbandona. C’è un balcone e ne approfitto per fumare. Insieme a me c’è il medico di turno. Parliamo e scopro che ha un tumore, che sta facendo la chemio, che viene a lavorare ugualmente. Ha una moglie e due figli piccoli. Finalmente piango. Per lui, per mia madre, per la crudeltà della vita, per la mia stupidità, per l’arroganza che ci fa credere di essere immuni dal dolore, per l’incapacità di accettare la debolezza. Piango senza nascondermi riuscendo a liberarmi dall’indifferenza. Lo abbraccio e gli dico che ammiro il suo coraggio. Ne avessi io, anche una piccolissima parte, sarei migliore di come sono. Sono tornata da mia madre e le ho chiesto di smettere di lottare per lei e per me. Mi ha accontentata. L’ultimo respiro, un suono sinistro, indimenticabile e poi niente più. E’ morta poco dopo trafitta da un arresto cardiaco. Speravo di sentirmi liberata dall’angoscia invece dentro di me si è fatta largo la paura di aver peccato. Ancora oggi mi chiedo se sia stata la scelta giusta, se avevo il diritto di decidere per lei. Se, se, inutili se. Ogni tanto guardo la foto che ci ritrae insieme. Tutto sommato, per quanto stupida sia stata a scattarla, ancora oggi mi regala il suo ultimo sorriso.

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Camilla Pugno - Il tuo corpo nasconde posti sconosciuti e bellissimi

Cammina verso di me, le tue caviglie sono radici, c'è una foresta dentro di te, mamma, chiudi gli occhi ora, dammi le mani, hai i polsi che sembrano onde, onde del mare, - potrei sciogliermi con te - . Ogni giorno di digiuno ti rende più leggera, ora dimmi, sei pronta per volare?

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Lorenzo Raffaini - Giocarci dentro ∞

Ciao a tutti, sono una bambina di nome Jara e ho una malattia che non è considerata rara, ma nella scuola in cui studio sono l’unica ad averla, così al corso di ginnastica artistica, così al catechismo, ad equitazione, e quasi in ogni dove. Uffa! Essere l’unica ad avere questa malattia è un’infamia, alcune volte mi piacerebbe quasi che qualcun altro vicino a me l’avesse, mi sentirei meno sola in questo viaggio assurdo, che io non ho scelto, ma poi capisco che è meglio così. Forse la mia malattia, il diabete 1, è dichiarata non rara perché c’è un’altra malattia simile alla mia, ma lo è solo nel nome, infatti cambia soltanto un numero: il diabete 2. So che tante persone grandi l’hanno, e forse è per questo che la gente, le maestre, perfino alcuni dottori e infermieri non specializzati nel diabete e tutti quelli che mi stanno attorno (a parte mamma, papà e il mio fratello maggiore) non capiscono la mia. Forse chi ha stabilito che il diabete 1 non è una malattia rara (qualcuno addirittura crede che non sia nemmeno una grave malattia, ma io senza la mia medicina nel giro di poche settimane morirei… ) non ha tenuto conto di tante cose, come per esempio il fatto di quando ad averla è una bambina. La mia è veramente una malattia schifosa, la odio e anche se ho solo 9 anni so che non ha nulla a che vedere con il diabete 2, se non che è legata al pancreas e alla produzione di insulina. Io sono forte e non voglio fare la figura di lamentarmi, chi mi conosce bene sa che non mi lamento mai, sono consapevole che come la mia ci saranno, e ci sono, tantissime altre malattie più o meno schifose, più o meno rare, più o meno gravi, ma credo che alla fine il concetto sia lo stesso, il viaggio da intraprendere è similare: fatto a sua volta di tanti piccoli percorsi per cercare di raggiungere una grande destinazione, che, come nel mio caso, a volte è già preclusa in partenza. Tutti dobbiamo “giocarci dentro” in questo nostro viaggio, infiniti trasferimenti per controlli più o meno di routine, in ospedali e studi medici dalle sedie colorate, odori di ascensori, distributori di bevande che puntualmente non tengono conto di chi hanno di fronte. Ma il viaggio più faticoso è paragonabile a una via crucis, dove molte volte si cade e ci si rialza, bisogna tenere duro a trecentosessanta gradi, e con noi i nostri familiari, e a volte non è facile “giocarci dentro”, bisogna essere davvero bravi e impegnarsi, soprattutto ad andare d’accordo, anche con se stessi, perché molte volte è più facile girare i piedi e prendere un sentiero diverso, più facile, ma privo d’amore. Io nonostante tutto sono felice. Sono felice perché anche con le difficoltà che la mia malattia comporta posso fare tutto quello che fanno i miei compagni, inoltre i miei genitori si sobbarcano giorno e notte tutto “il lavoro” che comporta la gestione della malattia, e non è poco credetemi. Ma è vero, di me e della mia malattia sapete ben poco! Ora se riesco vi spiego meglio. Io ho solo 9 anni, ma ho capito che in fondo qualunque cosa ci accade nella vita, piccola o grande che sia, comporta un viaggio, e questo viaggio, o meglio, la strada di questo viaggio, mi piace immaginarla come una tastiera di un pianoforte, dove quando i tasti vengono schiacciati, in base al nostro carattere, alla fortuna o sfortuna, alle conoscenze o alle inconsapevolezze, alle emozioni o alla razionalità, tutto viene amplificato in quella tavola armonica che è la nostra vita. E in ogni caso sta a me e a nessun altro andare avanti. Mi sono ammalata a 6 anni, è da allora che sono insulinodipendente, in realtà ognuno di noi lo è, la differenza tra me e un non malato consiste nel modo in cui l’insulina arriva nel corpo. Certe cose ho dovuto impararle in fretta, quando tocca a te è così che accade, prima non sapevo nulla e anche io, come tutti, credevo che il diabete fosse uno solo e venisse perché si mangiano troppi dolci, ma non è per nulla così, credetemi. Ora proverò a spiegarvelo bene questo maledetto diabete 1, mi piacerebbe che tutti potessero capirlo meglio, in modo da non averne né troppa paura né troppa leggerezza, soprattutto nell’avvicinarsi a me. Forse vi stancherò un po’ parlando in modo dettagliato e scientifico della mia malattia, ma è necessario per riuscire a capire una volta per tutte la differenza tra il mio diabete e l’altro diabete. Il mio sistema immunitario, e quello dei diabetici come me, per ragioni ancora ora piuttosto ignote, invece di riconoscere come amiche le cellule-beta del pancreas le ha classificate come nemiche, estranee al proprio organismo alla stessa stregua di batteri nocivi, corpi esterni, virus e le ha annientate, bloccate, distrutte. Le cellule-beta del pancreas di ognuno di noi producono insulina ogni qual volta percepiscano un aumento della percentuale di glucosio nel sangue e fanno ciò perché l’insulina è la chiave che permette agli zuccheri di essere assimilati dalle cellule, da tutte le cellule (muscoli, occhi, polmoni, derma… ) tranne quelle cerebrali.

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Senza insulina non si vive, il corpo non riceve nutrimento, gli zuccheri ingeriti col cibo si accumulano nel sangue alzando velocemente la glicemia e a causa di ciò l’organismo patisce a tutti i livelli, aumenta uno stato di torpore e sonnolenza, si ha una sete implacabile, i reni compiono un lavoro improbo fino ad andare in grave sofferenza… intanto, registrando una carenza di zuccheri a livello cellulare, l’organismo (ignaro della mancanza di insulina) da l’ordine di scindere grassi e proteine (muscoli) per trasformarli in zuccheri, il dimagrimento che ne consegue è velocissimo (quando a 6 anni ho scoperto di essere ammalata il mio peso in pochi giorni era tornato uguale a quello dei 4 anni), ma questo processo oltre a essere inutile è dannoso perché crea degli scarti (chiamati corpi chetonici) che intossicano tutto l’organismo danneggiandolo ulteriormente anche a livello cerebrale, lo step successivo è il coma iperglicemico e poi la morte. L’unica terapia possibile, terapia e non cura, è la somministrazione di insulina. L’insulina non può essere ingoiata, né spruzzata né spalmata: va iniettata sottocute. Senza insulina non si vive, lo ripeto, e così un diabetico di tipo 1 come me deve costantemente mimare il funzionamento della parte di pancreas che è stata distrutta, per fare ciò è tenuto a controllare anche 10 volte al giorno la propria glicemia attraverso l’utilizzo di un glucometro che analizza una goccia di sangue e di rimando permette di visualizzare il valore relativo al contenuto di glucosio al suo interno. A seconda dei valori glicemici del proprio sangue ogni diabetico controlla, rivede, modifica, aggiusta la propria terapia insulinica. Se i valori sono alti (iperglicemia) deve iniettarsi insulina, se sono bassi (ipoglicemia) deve assumere zuccheri. Lo zucchero nel sangue arriva per due vie differenti, la prima è attraverso il nutrimento, ciò che si mangia: tutti gli alimenti che contengono carboidrati vanno calcolati prima di essere ingeriti ed a seconda del proprio fabbisogno individuale stabilito con il diabetologo e a forza di tentativi, un diabetico di tipo 1 deve iniettarsi la quantità di insulina necessaria alla loro assimilazione a livello cellulare, non di meno e non di più… questi fabbisogni però cambiano spesso e volentieri, pensate, a me basta la puntura di una zanzara o un’emozione un po’ più forte, o uno sforzo fisico più sostenuto del solito per cambiarli, perciò, in tal senso, ogni giorno per me non è mai uguale all’altro, è un continuo rincorrere i valori glicemici giusti, un continuo “giocarci dentro”, ma sono convinta che è così per tutte le persone affette da malattie gravi e rare come la mia. L’altra via in cui lo zucchero arriva nel sangue è attraverso il fegato (che è una sorta di magazzino di zuccheri): esso “sbriciola” glucosio nel sangue con cadenza variabile durante tutte le ventiquattr’ore in modo da garantire una copertura “basale” di nutrimento giornaliero: il diabetico deve imparare a capire come funziona il proprio fegato e tenendo conto di ciò inserire nel proprio corpo anche l’insulina necessaria a coprire il suo lavoro. La mia malattia di per sé causa dunque un innalzamento della glicemia che a lungo termine risulta nocivo a tutto l’organismo, questo innalzamento viene chiamato iperglicemia. Per combattere l’iperglicemia non si può far altro che introdurre insulina, ma bisogna stare molto attenti perché troppa insulina somministrata potrebbe far abbassare eccessivamente il contenuto di zuccheri all’interno dell’organismo portando alla condizione inversa chiamata ipoglicemia. In coma iperglicemico ci si arriva mantenendo dosi massicce di zuccheri nel sangue per periodi lunghi, in coma ipoglicemico basta sbagliare dosaggio una sola volta. L’ipoglicemia per un diabetico è molto più pericolosa, nell’immediato, dell’iperglicemia. Pensate che a 6 anni già ero capace di farmi le iniezioni nella pancia da sola, la quantità d’insulina però veniva calcolata, e tutt’ora viene calcolata e stabilita, dai miei genitori. A quell’età ero anche convinta di essere una bambina più fortunata delle altre ad avere preso il diabete 1: siccome seguivo una dieta equilibrata indicata dalla dietista sarei vissuta più a lungo di tutte le altre persone che invece si nutrivano malamente. Ma un giorno non molto lontano da questo mio scritto, navigando in internet, ho scoperto cose sconosciute, cose che ora ho cercato di riassumere brevemente. Papà e mamma hanno sempre cercato di farmi percorrere questo viaggio il più serenamente possibile, per questo mi hanno sempre lasciato sognare e ora che ho capito definitivamente che il mio è un viaggio senza fine (perché non esiste ancora una cura definitiva al diabete 1), niente e nessuno mi impedisce di continuare a sognare.

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Paola Ricci - IL VIANDANTE ∞

Appariva, agli occhi degli altri, disorientato. Forse lo era, oppure stava cercando solo la via. Lo osservai meglio. Smarrito, il labbro che gli tremava come il bastone del cieco vibra nel vuoto del buio. Sembrava alla ricerca di un suono e che a captarlo le orecchie sue si tendessero. Posava lo sguardo sugli altri intorno, ma neanche riusciva a sfiorar loro la pelle. Nel viaggio fino a lì vissuto aveva inciampato nelle illusioni, tante volte, perso l'equilibrio per una buca nata dalla rabbia, rischiato di annegare nelle proprie lacrime. Aveva legato al soffitto del cielo che era suo soltanto, due lunghe funi per farne un'altalena. E seduto sulla tavola di legno che faceva da sedile, certi giorni ne sentiva l'odore del cipresso, mentre in altri, il profumo della mimosa lo portava in alto, fino a toccare la luce della speranza. Ma in un mattino di nebbia oltre la finestra si era destato e cercato il biglietto del viaggio. Lo aveva guardato e gli aveva sorriso, poi tenendolo con la mano sinistra, con la destra lo aveva strappato. Nessuno poteva insegnare a lui la via, non c'erano cartelli indicatori da seguire, non più. Nel suo campo ormai i frutti non maturavano ma quelli rossi del vicino non li voleva. Nessun dio e nessuna legge avrebbe cercato perché tutto era in lui, la vita era in lui. Il viaggio era iniziato da molto tempo ma solo adesso aveva compreso che solo la sua via poteva portarlo alla meta, là dove dimora il segreto del nascere e del morire. Aveva capito che avrebbe dovuto capire ancora e ancora e ancora. Solo così l'Anima sua lo avrebbe riconosciuto e solo così raggiunto.

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Margherita Rimi - DISTURBO RARO ∞

(Una lettura mancata)

Parla poco

Confonde le lettere

Salta i punti

Neanche vede le virgole

E quando ascolta:

mette una “ vvi” dove non c’è

dice “ssa” al posto di “stra”

toglie dalle parole l’inizio e la fine.

C’è ancora da rifare tutta la lettura

il dettato da incominciare

Io so quanto pesa

sulla lingua

orecchio e occhio.

Quando non corrisponde

dx e sn

sopra /sotto.

Quando tra neuroni e muscoli rovesciata

esce anche la voce.

Guardate bene occhi

Ascoltate bene orecchie

Ri-pe-te-te

prima o poi

mi fanno fare

«Il compito in classe».

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Ornella Sala - I due alberi innamorati

E’ la storia di due alberi innamorati, che racconteranno il vissuto di una coppia che volle rimanere avvinghiata come le loro radici per sempre. Un lungo VIAGGIO affrontato con temerarietà. L’amore non è un sentimento, ma è volere il bene degli altri, perché i due sposi, nella vita, hanno pensato di vincere le loro antipatie, non disperandosi, in quanto l’antipatia è un istinto, cercato nell’altro tutto ciò che vi è di amabile, diventando tollerante. Il loro amore si poteva considerare uno che fa giri immensi e poi ritorna, basta un bacio e la fiamma si riaccende, il centro dell’universo di questo affetto era la loro casa, quel piccolo appartamento, come se le lancette della vita non si fossero mai mosse dal loro primo incontro, dove hanno avuto una passione fisica pazzesca, una passione irrefrenabile. Erano compatibili, semplicemente perfetti, c’era una alchimia sessualmente e intellettualmente, cercandosi continuamente, senza conoscere un eventuale stop del cuore. Praticamente verrà narrata la storia con le dinamiche familiari, abitudini, conosciute e, di conseguenza prevedibili, cercando appunto di ricordare i momenti belli del passato, facendo riaffiorare le emozioni positive. E’ chiaro che dopo i primi tempi era stato inevitabile fare i conti anche con l’altra faccia della medaglia, ovvero i lati negativi, i difetti del consorte, atteggiamenti che potevano mettere in crisi un rapporto. Poi la mancanza di fiducia bisognava abbandonare, investendo sempre speranza e aspettativa, appunto dare sempre fiducia che “è “ in fondo un processo rapido e semplice, tenendo conto che ciascuno ha una propria personalità, con tempi e modalità diversi, non sottovalutando l’importanza della sicurezza o l’insicurezza che trasmette l’amato partner. Prendere coscienza di questi aspetti era importante, tralasciare di ripercorrere una strada spinosa per non ripetere gli stessi errori e incappare nelle antiche crisi. Mamma mia che paura se la delusione poteva trasformarsi in odio, perché quando si ama tanto, si odia nello stesso modo, anche un piccolo tradimento poteva togliere la voglia di relazionarsi, magari vedendo la persona amata diversa, cattiva, intrigante; allora bisognava farsi coraggio, superare certe paure, combattere, esplorare territori allora sconosciuti nei meandri dell’amore riconoscendo nuove opportunità. Insomma un lavoro su di sé. Questi due alberi tratterranno nelle loro radici parole di vita, di alti e di bassi della esistenza di questa coppia umana, rischiando di far concludere la loro storia anche per troppa invidia, in quanto l’oggetto maschile era affascinante, ma anche psicologicamente distrutto. Così la coppia chiese di essere trasformata in due alberi perenni in modo da non rimanere mai isolata: ecco la sua storia. Forse, la ragazza, era troppo giovane per sentire aria di matrimonio felice, dove si parlava di certi viaggi nella serenità?. La fecondità fisica è un dato di fatto, ma esiste anche quella morale che forse risulta più esaltante. Tutte saranno avventure eccezionali, ma purtroppo da considerare come un vezzo d’avanguardia, mentre lei, la sposa fedele, entrava nella vita vera, dove si troveranno occhi accesi, imperlati di lacrime e carichi di tristezza. Giovane, quindicenne, ragazzina tutta casa e chiesa, per intraprendere un’attività lavorativa nel settore dell’industria con mansioni impiegatizie, viene trasferita in una metropoli lombarda; l’impatto è traumatico, il nuovo ambiente presenta anche tentazioni pericolose e se non si ha la testa sulle spalle è facile perdersi. E’ normale trovare l’intruso fuori dal casting che la vuole invitare a certe feste particolari con il rischio di cadere in certe trappole, si presenta come una persona importante, che lavora nel suo settore, ma in realtà, nella quotidianità, faceva tutt’altro. Nonostante avesse un aspetto da sbarazzina, dentro è molto riservata con forti valori, sempre creduto nel matrimonio e nella famiglia e vuole iniziare a dedicarsi a un progetto a due; però anche consapevole di incontrare cocenti delusioni, ma nel suo lui desidera vedere principi di onestà, rispetto; sincerità, in un rapporto di coppia.

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Sono tutti ricordi di gioventù che fanno pervenire un senso di malinconia e di esultanza nello stesso tempo, inafferrabili e pieni di nostalgia; anni perduti della vita, eppure da essi si impara con saggezza e guardandosi indietro si possono contemplare dei ricordi piacevoli, facendone un passato gratificante. Una sera d’estate, incontra il suo lui, il SOPRAGGIUNTO, che si mostra sicuro di sé, il classico tosto, che non deve chiedere mai, che però da molta importanza all’aspetto che usa come arma per instaurare relazioni, soprattutto con le donne; però il bello è fuori, che il più delle volte trascura l’interiorità, le proprie emozioni. Frequentandolo comprenderà la sua vera natura, all’apparenza una persona in pace con se stesso, infatti metteva in evidenza una apparente serenità e per questo lo faceva accettare ben volentieri dagli altri, ma una parte dentro era tormentato da ogni tipo di paura. Questo suo precario equilibrio psicologico non poteva certo garantire stabilità, perché quando un pensiero lo tormentava, lei non esisteva più, facendola sentire sola e abbandonata; lui sa che lo ama e che lo avrebbe accettato per quello che è. Si sposarono, come usanza, nella chiesa natale di lei; poi, andarono ad abitare in un appartamentino ristrutturato, pensando alle cose belle che sarebbero successe, agli anni a venire, quasi immemori e storditi dalla felicità. D’ora in poi sarebbero stati solo loro a godersi i tramonti e guardarsi negli occhi, con la speranza che il corso degli umani eventi non sarebbe cambiato nel contesto globale delle cose. Lei si concedeva di pensare alle promesse che hanno fatto sull’altare, al coniuge totalmente su misura che forse si era illusa di poter costruire, decisione solide basate su solidi valori, coltivare molti talenti. Inizia così la loro vita da coniugi, me ben presto il tormentato ego di lui “cerca” sempre di farsi strada, mettendo a repentaglio perfino l’attività lavorativa, inoltre da un breve lasso di tempo accusava dolori alla schiena e a volte il dolore era insopportabile: questo tipo di dolore colpisce senza preavviso, provocando un dolore lancinante. All’inizio è localizzato in un punto deciso, ma poi si irradia dappertutto, è terribilmente doloroso, non è facile mandalo via. La causa: un pomeriggio, alcuni giorni prima, lui stava lavorando quando si accorgeva che una bombola di grosse dimensioni, messa in una precaria posizione, stava per cadere. Dato il contenuto di natura esplosiva, pericolosa, pensò bene di sorreggerla, ma quei chili avevano esercitato sui muscoli e sui tendini del dorso un peso molte volte maggiore. A causa della meccanica del corpo umano i chili in più avevano aumentato la pressione sulla sua schiena, così quando cercò di camminare scoprì che il semplice movimento di mettere un piede avanti l’altro era una tortura. Per muoversi la colonna necessita che sia flessibile, ci sono le vertebre che aiutano in questa funzione, ma in questo frangente, la forzatura aveva messo in moto il meccanismo di spostamento dei dischi intervertebrali. Nel suo caso, i dischi, si erano lacerati e la massa glutinosa era fuoriuscita lateralmente ed era andata a premere contro il midollo spinale formando l’ernia, l’operazione si doveva fare con una certa sollecitudine. Doveva essere tutto meraviglioso, lui si asciugò con il palmo gli occhi, in quel momento non vedeva più un futuro, il lavoro, i bimbi che crescevano; allora gli prendeva un’angoscia, il coraggio di non essere in se stesso, ancor peggio non voleva che lei si accorgesse di questa sua debolezza. Se doveva restare infermo, come se la sarebbe cavato con un invalido e figli da crescere?. L’ortopedico invece rassicurò che esisteva un margine molto piccolo che si potesse avverare quello che stava paventando; naturalmente doveva in futuro andare in ospedale per controlli e cose del genere, il personale ospedaliero avrebbe cercato di salvaguardare per quanto possibile l’unità della famiglia, mettendo a disposizione il necessario per la riabilitazione. Quello che disse a sua moglie prima di entrare in sala operatoria, fu un discorso basato sull’affetto che aveva per lei e per i figli; di rimando la moglie dichiarava non idoneo un discorso dove prevalgono le paroline dolci con le dichiarazioni romantiche; ultimamente si era dovuto vedere con le parole e soprattutto di quelle che vengono usate per esprimere l’opposto di ciò che sembrano dire, questo vale per quei momenti dove la tensione tra loro era carica. Le parole sono moneta falsa, contano i sentimenti, azzardò dire a colui che conosce i suoi veri sentimenti, inoltre non è il posto adatto. Ultimamente era come pilotato da una specie di impulso che gli faceva ripetere per infinite volte gli stessi esercizi che non giovavano a nulla,

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proprio a nulla; mentre la psiche veniva sommersa da manifestazioni dettate da una paura incontrollata. Infatti una cieca collera contro un nemico ignoto, che fino allora di nascosto stava avvelenando l’apparente tranquillità della vita di sposi, aveva trovato un bersaglio, nel loro idillio v’era in qualche modo un sottofondo di timore: iniziava una nuova battaglia. Quando si è innamorati, c’è allegria, stordimento e intorno a loro turbinava un sogno di felicità perenne, regale e anche leggermente chimerica. L’inizio di una vita a due, non era la vita quotidiana di tutti i giorni, ma un qualche cosa di magico, pericoloso però potrebbe diventare, perché non permette, non si sente nulla della vita reale e del suo profumo. Infatti la cruda realtà dei fatti si stava profilando, ascoltare il respiro della casa era divenuto penoso, la penuria dei soldi, l’amore per i figli che non dovevano assolutamente accantonare, un affetto che però stava per essere minato. Il sonno aveva disertato lei, lasciando il posto a una inquietudine balorda, lui accanto dormiva sotto l’effetto di sedativi, ma domani? Nell’affannosa dormiveglia lo osservava dormire, sembrava un bambino capriccioso, che necessitava essere guidato e a volte sgridato. Poi le prendeva la preoccupazione e allora gli tastava il polso sentendolo debole, ma conveniva che il tutto sia dovuto al suo forzato dormire, perché pilotato. Quando poi era sopraggiunto il Santo Natale, l’aria si faceva sempre più pesante, la donna sapeva che i loro due angioletti, ignari, ancora piccoli, rimanevano con gli occhietti forzatamente chiusi, in attesa che Gesù Bambino passasse a portare i regali e che se li avesse visti svegli sarebbe passato oltre. Durante quella notte speciale, come una brava genitrice, perché il suo lui dormiva, si preparava per l’evento e faceva di tutto il più in fretta possibile perché al suo risveglio, sarebbe stato di nuovo irascibile e carico di nuovi pensieri negativi. Certo che invece di augurare ogni bene possibile, dalle labbra degli sposi uscivano parole con accenni grugnosi lanciandosi rispettive mancanze, omissioni e verità nascoste. Con le lacrime agli occhi, lei si ricordava dei suoi Natali sereni, si andava alla Santa Messa, si faceva festa, sentiva tutto l’affetto dei suoi genitori, soprattutto della mamma che rimaneva alzata fino a tardi per confezionare gli abiti della bambola, che inspiegabilmente, dopo qualche giorno spariva per ricomparire l’anno successivo con meravigliosi abitini nuovi. La mamma, raccontava delle sue festività, mentre nei suoi occhi si vedeva il riflesso di tante fatiche, tante rinunce, la povertà, perché si era in guerra. Per la situazione che si stava manifestando piuttosto problematica, non riusciva a dominarsi, spaventata a morte, pareva che stessero allontanandosi l’uno dall’altra da non poter più stare insieme, ma bastava essere innamorati, tenuto conto di tutto quello che si doveva sopportare? Gli alberi innamorati dimostrarono invece di affrontare il viaggio della vita con coraggio e determinazione.

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Marialuisa Sangiuliano - Il Viaggio della Speranza ∞

Oggi la mia mente spazia fra l'azzurro di un cielo terso senza nuvole e sentieri boschivi nei colori intensi della natura che circondano il lago di Andalo. C'è un bel traffico di giovani coppie con bambini e anziani che cercano riposo sotto l'ombra di splendidi larici e salici piangenti sulle panchine e nei prati circostanti. Osservo gli anziani con passo a volte claudicante, a volte svelto a voler dimostrare di essere ancora pimpanti e forti. Sereni nello spirito, loquaci, simpaticamente pronti a raccontarti la storia ormai passata della loro gioventù. Soli o in compagnia chiedono informazioni varie e poi si associano volentieri a fare un tratto di strada insieme o magari sedersi sulla panchina vicina intavolando un dialogo improvvisato, fino a raccontarci una vecchia storia dei loro anni passati, a confidarci qualcosa di particolare a loro accaduto, condividendo con noi anche momenti tristi del loro vivere quotidiano magari per cercare conforto e solidarietà. E' successo proprio qualche giorno fa, mentre me ne stavo seduta tranquilla all'ombra di un grosso larice ed Enzo (mio marito) sonnecchiava sdraiato sul prato vicino a prendere un po' di sol. Mi si avvicina una giovane signora chiedendomi se può sedersi sulla mia panchina e appoggiare il suo zaino sul tavolo per riposarsi un po'. Inforca gli occhiali e si mette a leggere il giornale, ogni tanto un sorriso mentre poco lontano sulla strada, suo marito e suo figlio riposano tranquillamente in auto. Passa qualche minuto, mi racconta qualcosa di forte, i suoi occhi sono tristi anche se sorride e cerca la mia attenzione! Quante volte anch'io mi ci sono ritrovata in questa situazione, il bisogno di raccontare, condividere un certo disagio, magari trovare risposte confortanti. Eccomi sono pronta all'ascolto! Se ne accorge, ci ritroviamo a chiacchierare come se ci conoscessimo da sempre. Una storia piena di sofferenza! Mamma di un ragazzo affetto da una grave malattia ancora sconosciuta che lo costringe su una carrozzina “Sindrome Fibromialgica” colpisce i muscoli, i tendini, i legamenti. Dolore cronico diffuso, insopportabile, crea rigidità articolare, vertigini, disturbi visivi, acufeni, pesantezza degli arti, tendini che gonfiandosi diventano dolorosissimi anche nella palpazione. Oggetto di studio, non si riesce a capire bene il meccanismo di questa sindrome, ancora non esiste una cura efficace. Costretti a viaggiare in treno per raggiungere centri e specialisti di riferimento che applicano terapie particolari, esami per monitorare la propria patologia, l'acquisto di parafarmaci che purtroppo non si trovano nel loro paese. Costretti a soggiornare con attese stressanti, eccessiva burocrazia, diagnosi difficoltosa, riabilitazione che spesso genera depressione, stanchezza e costi altissimi per avere alla fine soltanto un supporto psicologico per affrontare il dolore ormai cronico che ha invaso anche la nostra famiglia. Marco è un ragazzo meraviglioso! E' la nostra vita! Ha bisogno di cure particolari sia a livello fisico che psichico. Emarginato continuamente dagli altri, anche se inserito in una struttura religiosa del nostro paese che si occupa di aiutare famiglie come noi, con ragazzi affetti da varie patologie. Siamo volontari, confezioniamo oggetti particolari da vendere nei vari mercatini, il cui ricavato viene impiegato per aiutare altre famiglie con disabili che hanno bisogno di acquistare strumenti costosi che il servizio sanitario non può sostenere... Abbiamo costituito un'associazione, che prevede anche lavori manuali di pulizia, di cucina e alto. Abbiamo anche una giovane psicologa, pagata dal comune, che accompagnata in auto, viene a riscuotere il suo stipendio, con molta arroganza e sempre impegnata altrove. Un forte risentimento verso il parroco che spesso emargina alcuni dei nostri ragazzi disabili, non facendoli partecipare alle varie attività ludiche e religiose, perchè potrebbero creare disagi! Non è nello spirito cristiano, allontanare alcuni di loro, isolarli, metterli da parte. Farli sentire ancora più disabili con gli altri. Non è educativo, contesta questa esclusioni con il parroco che vuole soltanto apparire nella sua forma migliore creando un grosso malessere sia per il ragazzo che per la sua famiglia. Si sente arrabbiata con la chiesa, vorrebbe abbandonare questo suo intenso lavoro di volontariato ma in quel contesto subentra la sua vera e profonda carità cristiana offrendo tutto il suo lavoro con forza e coraggio cercando di superare le tante avversità umane che anche nella chiesa di Dio continuano a proliferare, creando danni a volte irreparabili. Rimango allibita per questo sacerdote che cerca solo di apparire calpestando diritti inalienabili della persona; qualsiasi problema va affrontato nello spirito vero del Cristo Gesù che lì sulla croce muore per amore e perdona tutti nella Sua Misericordia infinita. Ricordo le parole di questa madre che lotta ogni giorno, per suo figlio, il suo unico figlio. Mi dice: io non ho fatto niente di male. Con mio marito abbiamo desiderato e voluto questo figlio che amiamo più della nostra vita, anche quando qualcuno ci suggeriva di sopprimerlo perchè ci avrebbe creato tante sofferenze...

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Viviamo soltanto per lui, per il suo benessere in un mondo che spesso emargina il disabile, non lo accetta e vorrebbe addirittura sopprimere. Abbiamo lottato fin dalla sua nascita, lo abbiamo allevato con tutto l'amore più grande che possa esistere e lotteremo sempre anche per tutti gli altri genitori e figli che vivono la nostra stessa esperienza. Turbamento e rabbia pian piano si spengono, ritorna in lei il sorriso. Quanta forza e coraggio in quella povera donna! Vivere sulla croce con Gesù ogni giorno, affidarsi completamente a Lui e amare, amare profondamente, sapendo anche perdonare l'indifferenza umana che purtroppo la circonda. Ringrazia per averla saputa ascoltare e sorridendo ci saluta con tanto affetto. Una testimonianza profonda che lascia un segno indelebile nel nostro cuore. C'invita a pregare per lei e per tutti coloro che si trovano in situazioni estreme e dolorose della vita. Ascolto, meditazione, condivisione, un sorriso, una stretta di mano, può diventare il più bel regalo da donare con vero amore e trovare la speranza di una pace fraterna nel cuore! Viaggi e ancora viaggi continueranno ancora affrontando disagi continui, attese estenuanti; speranza, infinita speranza nella ricerca di un farmaco, una cura che possa alleviare tutta la vita, la mente ha voglia di costruire certezze, l'amore alimenta il cuore e la speranza di una madre per suo figlio raggiunge una forza e un coraggio senza fine...

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Marco Sasso - Uomini rari per malattie rare: viaggio verso sé stessi

Teodoro giocava a pallacanestro. Era in campo anche quel maledetto giorno. Un contrasto troppo violento gli procurò una frattura del piede destro, niente di grave alla fine dei conti, ma il vero problema sorse qualche mese dopo. L’ortopedico rimosse il gesso e, il piede di Teo, nella sua parte ossea, era tornato come nuovo. Teodoro era, già all’epoca, un ragazzo molto alto e ben piazzato - non a caso eccellente nel suo sport, oltre che per il suo impegno e la sua bravura -. La situazione degenerò, tuttavia, all’improvviso. Da quel momento la sua vita cambiò del tutto e definitivamente. Teodoro cadde appena tentò di alzarsi dal lettino dell’ambulatorio. Non fu per il piede: le gambe non sembravano più essere in condizioni di reggerlo dritto. Le gambe, entrambe. Teo non era un ragazzo che si lasciava trascinare dalle emozioni e tentò subito di rimettersi in piedi per poi effettuare qualche passo. Nulla da fare: ricadde. A quel punto una sensazione di panico cominciò ad attraversare il ragazzo. Era troppo giovane e troppo “atletico” per poter accettare qualcosa di simile. Quando, però, poco più in là gli fu accertata la diagnosi -difficile da sobbarcarsi oltre che da determinare, visto il “giro” di specialisti che fu necessario-, Teo cadde in una profonda e oscura depressione, così, alla sua cartella clinica s’aggiunse anche uno stato psichico pessimo. Teodoro aveva sviluppato una malattia rara che, in realtà, aveva contratto in modo congenito. I medici spiegarono lui e alla sua famiglia che la neuropatia periferica è “in agguato” e attende solo un trauma, uno scossone per “attivarsi”, risvegliandosi dal suo stato di letargia. Teodoro era letteralmente distrutto. I suoi compagni di squadra lo andarono a trovare a casa sua, ma il più delle volte Teo non voleva vederli. Non era per loro: era per sé stesso. Non sopportava l’idea di essere “diventato disabile” e ancor meno di essere visto in “quelle condizioni”. Presto Teo si rinchiuse, letteralmente, in un mondo d’incubo e sofferenza. Non usciva di casa e spesso neppure dalla sua camera, ove passava intere giornate a letto, immobile, a fissare il soffitto senza più lacrime. Le aveva “terminate” per quanto aveva pianto. Un “ragazzone” completamente distrutto psicologicamente da una malattia per la quale nessuno aveva una cura. “Sono così queste malattie… essendo rare non hanno attirato l’attenzione della ricerca abbastanza e quindi se ne sa davvero poco… è già difficile diagnosticarle, figurarsi curarle…”. Ogni medico aveva la sua versione, chi più formale, chi più diretto, ma la manfrina era sempre la stessa. Teodoro non avrebbe più recuperato l’uso degli arti inferiori, ma la peggiore delle ipotesi lo avrebbe visto, presto o tardi, incapace di avere il controllo anche di quelli superiori. Ad una prospettiva del genere, Teo, perse quasi del tutto il desiderio di vivere. Oltre al basket, Teo aveva sempre avuto anche la passione del cinema, ma non l’aveva mai approfondita essendo preso da mille impegni, fra scuola e sport. Iniziò così il suo viaggio, quello interiore e quello esteriore. Cominciò con lo studio, seduto alla sua scrivania, del più interessante, per lui, degli elementi in materia di cinema: regia e sceneggiatura. Presto si interessò al punto da prendere la decisione di specializzarvisi e, in qualche anno, conseguì il titolo di regista presso una scuola telematica riconosciuta. Teo si allenò a scrivere sceneggiature senza mai farle leggere a nessuno. A nessuno a parte i suoi genitori. Fu proprio suo padre, uomo di legge sempre molto impegnato, ma che non aveva mai esitato a trascurare il lavoro e sé stesso pur di aiutare la sua famiglia in ogni situazione, che riuscì a convincerlo a partecipare alla realizzazione di un film, affiancando il regista, che si sarebbe presto tenuto, oltre che nei dintorni, proprio nella loro città. Teo in un primo momento si rifiutò. L’idea di “uscire allo scoperto” lo terrorizzava. Non era mai stato agorafobico, ma dall’incidente in poi si era sempre sentito inadeguato e non perché gli altri non lo accettassero, ma perché era lui stesso a non farlo. In ogni caso, Teo si convinse e partecipò dietro le quinte della realizzazione della pellicola.

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Durante il penultimo giorno di riprese, il quarto effettuato nella città dove Teodoro era nato e cresciuto, il ragazzo notò fra le comparse una vecchia conoscenza. Era Giacomo, un amico conosciuto ai tempi della scuola, con il quale aveva perduto i contatti da almeno dieci anni. I due si ritrovarono e subito cominciarono a raccontarsi a vicenda gli anni che li avevano divisi. Teo raccontò dei suoi studi in campo di regia e sceneggiatura. Giacomo si era sposato, nel frattempo, ed era diventato un istruttore di arti marziali e stuntman. Tempo addietro Teo e Giacomo si erano persino allenati insieme nella stessa palestra, anche se per un breve periodo. Entrambi erano accumunati da due passioni connesse fra loro: il mondo dello sport e quello del cinema. Giacomo non poté non notare la singolare deambulazione del ritrovato amico e, sebbene stando attento a non metterlo a disagio, diretto com’era sempre stato, gli chiese di cosa si trattasse. Teodoro, ovviamente restio a parlarne, rimandò le spiegazioni ad un futuro caffè. Quel caffè non mancò ad arrivare presto, accompagnato da un buon sigaro al rum, e i due vecchi amici ebbero un conciliabolo senza infiorettature e che si rivelò per entrambi illuminante. Teo non aveva più le stesse remore di anni prima nel raccontarsi, almeno con le persone da lui ritenute degne di avere la sua totale fiducia. Giacomo, dalla parte sua, non si dimostrò - come spesso avveniva nell’ascoltare delle sfortunate vicende di Teo - pietoso nei confronti dell’amico. Per lui, “Teodoro aveva solo una differenza e non una problematica”. C’era gente, nel mondo, capace di rialzarsi da stati peggiori. Questo pensiero non era mai stato granché utile a Teo, in realtà, ma il punto di vista di Giacomo lo ravvivò. Secondo Giacomo, Teodoro avrebbe potuto non solo continuare a vivere felicemente e senza farsi influenzare troppo dalla sua malattia, ma persino tornare ad allenarsi! Certo: non avrebbe potuto più farlo come un tempo, ma “l’essere umano è adattabile” e “Teo non faceva eccezione”. Giacomo si prese un po’ di tempo per studiare un piano di allenamento funzionale ed eseguibile dal suo caro, ritrovato, amico Teodoro. Qualche giorno dopo tornò con una scheda che riportava tutti gli esercizi “modificati e non” che Teo avrebbe potuto tranquillamente effettuare in casa sua con l’ausilio di qualche strumento utile al caso. I due si allenarono insieme per qualche tempo, fino a che Teodoro apprese come allenarsi, riuscendo a farne una routine. Il movimento non può far guarire da una malattia rara come la neuropatia periferica, ma può farlo con la depressione. Da quel momento il viaggio di Teo verso la guarigione psicologica fu tutto in discesa. Inoltre riprese a uscire, ritrovandosi con Giacomo e i suoi nuovi amici. Teo, allenandosi ogni giorno, riuscì non solo a vincere la depressione, ma migliorò anche di molto la sua postura e la sua deambulazione, diminuendo di parecchio gli effetti negativi della malattia sulla sua vita. Oggi Teo continua a scrivere sceneggiature e ad allenarsi giornalmente. Ha ripreso a socializzare, a scherzare, ad amare e a sorridere. Realizza cinema indipendente, come regista e sceneggiatore esordiente, assieme al suo amico Giacomo. Il suo processo di accettazione, ma non solo: anche di “battaglia” - e in certi casi vittoria- contro la sua patologia, lo hanno reso un uomo forte e deciso più di prima. Supportato dalla sua famiglia, dai suoi amici e dalla sua ragazza, Teo non teme più nulla. “Sarà piuttosto lei, quella maledetta malattia, a dover avere paura di me” Ci sono malattie rare e uomini rari, Teo è uno di questi.

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Gina Scanzani - All’ombra del vero ti ho incontrata ∞

Ti ho incontrata all’ombra del vero, nel pieno degli anni miei, in quel deserto dell’anima sei entrata, ove nessuna traccia solca il cuore solo un piccolo fiore sulla via del sole. Aspettavi che concedessi al tempo, quella mera quanto grezza, giovane vita! T’accingevi a mostrarmi le tue vesti, mentre ricoprivi di profumo l’aria, la mia mente si stordiva. Titubante ho proteso il passo avanzando il cammino fuggivo da quell’acre odore, con il fare di chi teme o è temuto ma non s’accorge d’esser già posseduto. Solo fuggendo dal vero l’animo mio ha trovato sollievo, nel tempo e in solitaria via si è incamminato in quel mondo aperto e colorito di chi viaggia di chi scruta ogni bene, e non teme il suo domani.

Se quella volta non t’avessi incontrato… questo viaggio non lo avrei mai iniziato, così le vesti che m’avvolsero di netto non avrebbero mai arricchito la vita, nessuno l’avrebbe mai scorte. Con passo felpato affondo i cinquanta passi, che planano, poggiano su un terreno stanco, da un viaggio provato. A te mi rivolgo tempo, che come il vento tormenti il destino che mi rompe dentro. A te che vivi con affannosa tempra mi rivolgo: non sempre il cuore indica la via giusta da seguire! La mente sa che non c’è cura, né alito di vento che potrà fermare questo viaggio tanto rumoroso da andare oltre questo muto silenzio.

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Paola Schiaroli - Echi del mare ∞

Tendo l’orecchio a questo mare mentre echi mi lanciano lontano verso un cielo capovolto dove l’onda si congiunge alla prua della barca e la fatica a sera si raggomitola su mani calde di saggezza; rischia il vento imprigionato dalla vela di non poter scappare come lo zingaro verso l’ignoto, verso nuovi orizzonti: dammi un cenno del tuo scioccare quest’onda dei profumi sovrani come lampada di Aladino, non incantare il tuo sguardo nell’infinito perché troppo sordo è il tuo sentire a tendere l’orecchio a questo mare.

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Maria Sordino - Ti aspetto ∞

E venne sera, e col calar del buio i lineamenti divennero confusi e più non vidi la luce del tuo sguardo. Eri come il mare in una notte di burrasca, eri come il sole in una giornata di calura, eri come la luna, che accarezza dolcemente il mare. Perché, perché così? Vorrei parlarti ancora, ma non posso. Vorrei abbracciare le tue fragili ossa, ma non posso. Sussurro allora nel silenzio frammenti di pensieri al tempo, compagno indifferente del tuo viaggio. Il leone sta dormendo. E la preghiera di chi ama, conforta nell'attesa. Sono qui e ti aspetto, per sentirti ancora cantare. Sono qui e ti aspetto, per gioire del tuo sorriso. Sono qui e ti aspetto, per farmi beffa con te del tempo e del Male. Io sono qui e ti aspetto.

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Assunta Spedicato - Alla velocità dei piedi ∞

Niente più voli in questo cielo estivo battuto dallo scirocco, persino le rondini sfumano all’orizzonte in fuga dagli animi. Nessun sapore di buono nel vago odore di casa, solo liquidi alle caviglie e l’idea di una palude in agguato sul fondo della minestra insipida. Questo tratto è lo snodo dove sento arrancare il treno, dove l’attesa è gremita da impotenza e paura e dove l’arresto induce a ritagliarmi un senso.

L’inerzia del moto smette d’incanto di arrecare distanze; i giorni prendono a scorrere densi sul binario fisso al mio nuovo tempo: ho ancora le gambe per viverlo a piedi!

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Patrizia Stefanelli - DELIRIUM ∞

Schiaffi sull’anima, questa la percezione del dolore mentre aspettava che ripartisse la corriera. Si avviò verso un grande portone di ferro. Pensò a un giorno di primavera e si vide, sulla terrazza della torre di Pisa. Da lì a poco sarebbe arrivato, magari con gli occhiali da sole, come a Parigi, al Salone del libro. A Parigi c’era anche lei, Emily, aspirante scrittrice, sguinzagliata dalla C.E. Belsito, alla conquista di Giorgio De Cortes, uno dei più quotati scrittori sulla piazza. Non appena lo vide libero si preoccupò di dargli il suo numero di telefono: “Mi chiami per favore, sono mesi che la inseguo.” Dopo un’occhiata al biglietto, mettendolo nel taschino della giacca, dal quale spiccava una camelia rossa, lui rispose: “Ah!” Emily prese il suo libro dal banco e glielo porse. “Una firma, grazie.” Scrisse: A Mimì, con simpatia, Giorgio de Cortes. A Mimì? Perché? Che falso! Non ti sono simpatica affatto e sei arrogante. Togli gli occhiali, fammi vedere come guardi (lui li tolse). Come diamine hai fatto a sentirmi? La guardò a lungo, sembrava comprensivo e lei sciolse il suo cattivo umore. Tornò con la mente a Pisa. Lo vide arrivare, “ Sali!” Disse. Non lo attese, corse giù e strinse a sé Giorgio, le loro bocche si cercarono subito, senza respiro. Non c’era il mondo sulle scale della torre, né le scale e nemmeno la torre. Soli e neppure soli, erano uno. Giorgio la portò ad appoggiarsi alle pietre di quell’antico edificio. Con le mani le cercò le cosce, i polsi, il collo. Avvertiva una fitta alla spalla destra ma non le importava perché era con lui, a vivere il tempo interiore, lo spazio immaginario. Si sentiva la donna di un romanzo, con la sua camicetta rosa che lasciava intravedere il bel seno ancora fresco. “Mimì, non ho mai provato queste sensazioni prima.” disse Giorgio. Mimì. Al paese la chiamavano Emily, come la Bronte, perché a tutti ricordava quella di Cime tempestose. Era di Bronte Emilia Rosalia Meli, il paese in provincia di Catania ribelle nel risorgimento. Si era ribellata anche lei, diventando Emily e poi Mimì; altro da sé per inseguire un sogno. S’incamminarono e ad ogni passo si stringeva a lui per paura di perderlo. Avrebbe dovuto sapere che non si può perdere ciò che non si è mai avuto. Giunsero in Piazza Dante a mezzogiorno. Accanto alla piazza, si trova la biblioteca dove spesso Giorgio si conduceva. Ogni cosa sapeva di lui. Poi, attraverso Piazza San Frediano, giunsero in via del Castelletto, a una pensione molto familiare (così la definì Giorgio). Non che necessariamente fosse una prerogativa che piacesse a Emilia. Rifletté su quest’aspetto, mentre passavano per una sala con specchi antichi e distorti nei quali si vedeva sdoppiata. La proprietaria consegnò a Giorgio una chiave senza neppure chiedere i documenti. Di certo lo conosceva bene. La n° 21 era una bella stanza con uno scorcio sulla torre. Giorgio le scompose i capelli e la baciò agli angoli delle labbra. Le profuse carezze su ogni centimetro del corpo e così fece lei. Amava le sue orecchie e gli diede piccoli morsi. Lo sentiva scostarsi appena per poi tornare. “E’ la fine del mondo Mimì. Mai ho provato queste sensazioni.” Si amarono fino al tramonto, poi si addormentarono. “ Ho fame! Ma che ore sono?” chiese all’improvviso Mimì tirandosi addosso le lenzuola, lasciando Giorgio scoperto che spalancò gli occhi e disse: “Alla buon’ora. Quanto hai dormito!” “E tu no?” “No, io ho dormito pochissimo. Lo sai che hai russato forte? Devi farti vedere i turbinati.” “I che cosa? Non è vero! Io non russo anzi se vuoi saperlo hai russato tu e poi, io non mi sento e dormo benissimo.” “Sei una stupenda russatrice egoista. Vuol dire che dormiremo in camere separate.” “Vuol dire che metterai i tappi, oppure mi farò vedere i turbativi.” “I turbinati!” la corresse Giorgio, e risero a crepapelle. Riuscivano sempre a ridere di nulla, perché quel nulla era tutto. Lo squillo del telefono la distolse dai pensieri. In fondo alla strada la corriera era un’ombra lontana. Guardò le rondini sui fili della luce e i cori delle incredibili composizioni di voli. “Lorenzo, ciao.” “Come stai Emilia? Stai tornando?” “Sto come sto.” e chiuse la comunicazione. Lorenzo, il suo editore, la spronava a scrivere, era la persona che sentiva più accanto. Spesso l’ascoltava parlare a lungo. Le chiedeva della sua infanzia, dei viaggi, degli incontri. Era buono, Lorenzo, somigliava a Don Calò, il prete del collegio. A volte, come Don Calò quando lei gli confessava di aver visto gli spiriti, si segnava la fronte e sudava freddo. Dei ricordi del collegio, delle compagne, conservava le voci: “Oh quante belle figlie madama Dorè oh quante belle figlie…” "Le calze puzzano, sono dure. Ho la tosse." "Dove sono le forbici?" “Fate vedere le mutande. Quella che le ha sporche avrà la testa rasata e camminerà per tutta la camerata con le mutande in testa." “No, io no.” Don Calò : “Pensa alla vita come a un corridoio con tante porte, devi aprirle tutte e guardare dentro ad ognuna." “Ma ci sono i guardiani!” "Le forbici, dove hai nascosto le forbici?" “Le hanno i guardiani! Sono tre, i guardiani delle porte! Me lo ha detto Don Calò.” “La luce, spegnete la luce. Meglio le candele, un altare e la stanza, la mia prigione, per essere libera.” Don Calò: “Apri!” Ciocche di capelli cadono. Palle da tennis cadono da una finestra. La testa è rasata. "Sono piccola, devo prenderne una per giocare. E' mia,

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guardiano.” Qualche suora era buona, come suor Concetta. Si diceva avesse avuto una storia d’amore con Don Calò e fu allontanata. Spesso le dava una fetta di pane con zucchero e olio, sapeva che Emilia mangiava poco. Non le piaceva il rognone, lo schiacciava tra un piatto e l’altro. A volte le suore chiedevano chi fosse stata a far quello e qualcuna parlava, così era costretta a ingoiarlo. Lorenzo la faceva sentire amata, quasi un padre per lei che il suo non l’aveva mai conosciuto. Spesso, durante i loro colloqui, lo vedeva prendere appunti. Un giorno vi lesse: Doppelgänger, un altro: delirium mah. Poi lo vedeva riporli in un cassetto che chiudeva sempre a chiave. In quel cassetto, di sicuro, teneva le schede segrete di tutti i suoi autori. In cielo, le rondini continuavano a disegnare nuvole e le portarono alla mente l’Egitto e un addio nel sole di quella terra lontana. Vi era giunta qualche giorno prima del suo impegno di lavoro, per visitare Il Cairo. Avrebbe dovuto incontrare Giorgio De Cortes. La sua guida era Paride (strano nome per un egiziano), le diceva che era la più bella (ovvio) e che la camicetta rosa le donava molto. L’ultima visita prevista era quella per il museo egizio. Vide la maschera di Tutankhamon i cui occhi erano stati realizzati in quarzo, ossidiana e lapislazzuli. Entrando nel museo aveva provato una strana sensazione che, dopo la visita alla sala delle mummie, si era andata facendo fastidiosa per l’incuria in cui molte di esse versavano. Disse: “Parlami, per favore, non voglio pensare.” Gli occhi attraversarono in un lampo lo spazio tra loro, sfiorarono piano quel che era sacro. “Ho fame d'aria, parlami di te.” E lui lo fece, raccontandole del suo triste amore e del dolore che ancora lo trafiggeva. Lei lo abbracciò e lui la ricambiò, dandole il respiro. Tutto pareva sfiorare l'eternità di quelle mura e del tempo. Il pensiero assente la faceva sentire parte di quell'infinito che sempre aveva considerato. Lo squillo del cellulare la riportò alla realtà: "Allora Emily, sei con De Cortes?" "Lorenzo che tempismo! No, è partito per Parigi. E' un folle, non posso certo inseguirlo per il mondo." “Vai a Parigi, devi farlo”. La sua voce sembrava provenire da un luogo chiuso, come un’eco lontana. "Va bene, partirò oggi stesso, quel De Cortes avrei dovuto incontrarlo questa mattina, l'ho saputo dalla reception che se n’è andato all’improvviso, non puoi mandare qualcun altro?" "Cosa? No, devi andare tu, non dimenticare, il tuo libro…" Intanto Paride era sparito. Aveva lasciato un biglietto per lei all'autista della jeep che avrebbe dovuto riportarli in albergo: Questa sera alle ore 20:00, allo spettacolo delle luci. C’era anche la prenotazione. No, lei doveva partire. Per fortuna l'editore le aveva dato quell’impegno che se non altro le permetteva di viaggiare. L’autista la riportò all’Albatros Hotel non prima di essersi fermato a discutere con il responsabile di un gruppo di turisti. Non appena tornò, chiese: “Ci sono problemi Amid?” “Sì signora. I pullman dei turisti non possono più viaggiare senza scorta. Diversi attacchi di ribelli si sono succeduti negli ultimi mesi.” Appena in albergo si diresse alla reception. “Per cortesia, mi trovi il primo volo per Parigi.” “Il primo è alle 23:05 signorina.” disse la receptionist. “ Lo prenoti, per favore.” In quel momento si voltò verso l’ingresso, con il mento all’aria, come sempre faceva quando qualcosa di nuovo l’aspettava. Paride era lì e la guardava. Ancora, per un lunghissimo istante la incollò ai suoi occhi neri. La sensazione che provò fu un blocco allo stomaco e subito dopo uno strano languore la fece sentire acqua, che correva verso il fiume che l’avrebbe portata al mare. De Cortes poteva aspettare. “Lasci stare per il volo, mi scusi, ho cambiato idea.” Paride non c’era più. Fece un bagno al profumo di glicine che aspirò, fino a portarlo alla mente. Si vestì con cura indossando un abito locale, blu con profili rossi, che aveva comprato al mercato di Khan el-Khalili e sandali allacciati alle caviglie. Si truccò mettendo del kajal che la fece compiacere del suo sguardo. Si sentiva a suo agio, già parte dell’atmosfera che, da lì a poco, l’avrebbe rapita. Amid la lasciò all’area spettacolo. Si sedette mentre le luci laser già disegnavano sulle tombe il carro del Sole e la voce della Sfinge cominciava a raccontare la storia dei re. Ma dov’era Paride? Sentì allora una mano carezzarle il collo e porsi leggera sul suo viso. Stettero in silenzio a guardare e in fine si trovò stretta tra le sue braccia. Era intirizzita, non aveva pensato al freddo delle sere nel deserto e al vento che scendeva a sferzare. La notte in Egitto ha voce di vento, si accosta piano al seshesh che ha il potere di scacciare il male, canta al suono dei crotali, dei flauti di Amon e delle trombe di Osiride. Andando via, lui la trattenne sotto la Sfinge e baciandola le disse: “Sei come lei, enigmatica, hai una vita davanti e non lo sai. I tuoi occhi parlano di una terra calda ma le tue mani sono fredde, non conoscono amore.” Amid li attendeva alla jeep. “A casa mia.” disse Paride. S’immersero nel traffico della città che non si ferma mai. Passarono dalla tragica via Mohammed Mahmoud, e giunsero a Zamalek. Il Nilo era splendido a quell’ora, con i battelli della Belle Époque, che lo solcavano lentamente. Giunsero davanti a una casa degli anni venti. L’auto rallentò, Paride guardò verso una finestra del primo piano in cui in quel momento si spense la luce. Subito fece cenno ad Amid di proseguire e lei non fece domande. L’auto si fermò davanti a un grattacielo di vetro e cemento. Entrando,

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Emily scorse la portineria in cui c’era un signore anziano che salutò cortesemente. L’ascensore li portò al 21° piano. Dalle vetrate vide cori di rondini. Fecero l’amore, alla luce di una candela. Ogni tanto, sentiva le sue guance bagnarsi delle lacrime di Paride che, come le raccontò dopo, non aveva più amato una donna dalla morte di sua moglie. Fumarono il narghilè e le mise al collo un cammeo con un’apertura segreta nella quale, le disse, avrebbe potuto serbare il ricordo del loro incontro. Ecco, quello era l’amore dalle mani calde. Alle prime luci dell’alba Paride fu raggiunto da una telefonata. Lo sentì alterarsi ma non capì molto. Le disse: “Devo scappare, ci sentiamo più tardi.” Emily si accorse che aveva dimenticato il cellulare, così scese in basso giusto in tempo per vedere la jeep, con a bordo Amid e Paride, saltare in aria. L’orrore di quel boato, le sarebbe rimasto addosso, come una seconda pelle, per sempre. Si sentì tirare indietro, era il portiere. Un grande tremore l’aveva pervasa. Il portiere salì con lei su un taxi e con un cenno del capo disse all’autista di partire. Le prese dalle mani il cellulare di Paride e le premette un fazzoletto sulla bocca. L’odore di cloroformio fu l’ultimo ricordo del taxi. Riaprì gli occhi in una stanza illuminata da un maxi schermo e da pc davanti ai quali si alternavano operatori. “Si tranquillizzi, non corre alcun pericolo, lei si trova sotto la protezione della CIA,” disse un uomo, “Attraverso Google Earth controlliamo zone di Europa e Asia. Avevamo bisogno di informazioni sugli ultimi movimenti di Taj Al-Haddad detto Paride e circa il professor De Cortes. Non siamo noi ad averlo ucciso, anzi, abbiamo un accordo segreto con i ribelli per destituire il regime di Mubarak. Chiuda gli occhi. Ascolti la mia voce e si rilassi, si ritroverà su un aereo per Parigi e saprà cosa fare.” Emily non sapeva quanto tempo fosse passato dal 30 gennaio 2011, quando aveva visto Paride per l’ultima volta, neppure riusciva a capire dove fosse e perché. Lesse la data sulla carta d’imbarco per Parigi: 18 febbraio 2011. In seguito, seppe che Mubarak era stato deposto e che Paride aveva lottato contro Al- Qaeda. La corriera era ormai lontana. Il vento spandeva gli effluvi di un glicine, le piaceva. Mentre entrava nel grande portone di ferro, tornò con la mente a Giorgio: Accostata a una finestra, nel fondo della sala dove lui stava tenendo una conferenza stampa, Mimì riusciva a vedere un lago. Non le piacevano i laghi, nella loro immobilità che nasconde segreti. “ Desidero ringraziare tutti voi per i vostri interventi. ” A queste parole di Giorgio sentì il sangue battere sulle tempie senza ragione apparente, toccò il cammeo, prese una bottiglia di champagne, ne versò in due calici e si diresse verso di lui per un brindisi. Prese il suo libro e disse: “Una firma, grazie.” Poi uscì verso il lago. Perché sono qui e faccio cose come spinta da una forza interiore?“ Cin cin acqua morta!” Bevve, cadde a terra e qualcosa le fece sentire un dolore acuto a una spalla. Sorrise, pensando a quella volta sulla torre con Giorgio, era lì che aveva avuto lo stesso dolore? Era confusa. Chiuse gli occhi e si ritrovò in un’altra sera, al mare. Giorgio era felice, aveva vinto un importante premio letterario. La sua scrittura era diretta, mirava ai sensi, si percepiva. A un tratto sentì un pizzicorino a una coscia, scivolò con la mano sotto la gonna, forse un insetto. Giorgio aveva mani fantasiose, capace di stare ore ad amarla per poi andare a scrivere una pagina del suo libro. A Pisa, Parigi, a Montreal, sempre così, ovunque fosse. Quante cose sapeva di lui che egli stesso neppure immaginava di sé. La destò il suono di una sirena. Sentì una voce: “Non si muova signorina”. L’avevano trovata seminuda, con indosso solo una camicetta rosa e una ferita alla spalla destra. Accanto a lei, un manoscritto dal titolo Morte sul lago. Sulla prima pagina una camelia rossa e un appunto: A Mimì con simpatia, Giorgio De Cortes. Alla domanda del dottor Lorenzo Belsito: Come si chiama? Non era riuscita a rispondere. Nessun contatto con la realtà. All’ospedale psichiatrico giudiziario aveva in seguito detto di chiamarsi Emily Bronte. La accusavano di aver indotto al suicidio, versando una potente dose di LSD nel suo bicchiere di champagne, il prof. Giorgio De Cortes, noto psichiatra. L’uomo si era gettato dalla finestra della sua stanza d’albergo, la n° 21 dell’Hotel Eiffel a Parigi, la notte del 18 maggio 2011. Prove schiaccianti furono le impronte sui bicchieri. Il professore, probabilmente, lavorava per il controspionaggio; aveva fatto parte di un comitato di studi della CIA sulle tecniche di Brainwashing, letteralmente “lavare il cervello”. Ancora al vaglio delle indagini i suoi movimenti in Egitto e a Parigi dove presentava il suo libro. La corriera, ormai era un punto all’orizzonte, sarebbe tornata il giorno dopo per riportarla al lavoro nel centro di riabilitazione sociale. Il Dott. Lorenzo Belsito, il medico che la tiene in cura, le pratica l’ipnosi nella speranza di giungere a qualche verità. Cosa davvero lei abbia vissuto e cosa no, non ci è dato saperlo, quello che ci sembra di sapere, lo leggiamo nel suo libro Morte sul lago. Suoi effetti personali furono ritrovati alla pensione “Rinascente” in via del Castelletto a Pisa, dove aveva soggiornato a lungo. Sono certi i viaggi in Egitto e a Parigi ma del resto non v’è traccia. Dopo i fatti di Gennaio in Egitto, il quotidiano inglese The Telegraph, diffuse la notizia riguardante un documento segreto pubblicato da WikiLeaks circa trame tra gli Stati Uniti e presunti capi

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della rivolta in atto nel paese. Paride era tra questi. Oggi, Emilia Rosalia Meli porta un cammeo al collo, scrive, si occupa di grafica e di pittura su ceramica. Spesso, le capita di dipingere camelie rosse.

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Francesco Stolfi - Michele

Sono arrivato in reparto che erano passate le undici. Vedo dal quadrato della finestra un bel cielo azzurro su Roma. Mi siedo in sala d'attesa, dove delle orribili sedie di plastica arancioni devono rallegrare l'ambiente. Non si può certo pensare a qualcosa di allegro in un reparto di oncologia pediatrica. Poco dopo è arrivato Michele con la nonna. Michele è un bambino di nove anni. Ha un retinoblastoma all'occhio destro. È in chemioterapia dal 2012. combatte come un uomo un male che lo porterà, nel migliore dei casi, a perdere l'occhio. Nel peggiore alla morte. Ho provato a parlarci un po'. Lui ha annuito alle mie domande, qualche sorriso. Gli occhiali scuri e l'espressione di un bambino che sa il dolore, i dispiaceri, e un sogno diverso nella mente, quello di guarire. Di non soffrire più. La nonna lo bacia. Ha il volto teso, una donna arrabbiata col mondo, con un Dio che c'è per gli altri ma non per il suo nipotino. La comprendo. Lui chiede una caramella. Si apre la porta, la dottoressa lo chiama per nome, una carezza: - Dai andiamo - gli dice, prendendolo per mano. Lo vedo andar via, si gira un attimo e accenna un saluto, in silenzio. Un eroe. Io mi alzo, mi sposto lungo il corridoio, perché ci sarebbe da piangere. Un bambino dovrebbe giocare nell'erba in un giorno così. Questo è successo.

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Benedetta Storti - Beatrice

Si chiama Painite, ed è talmente rara che sulla Terra per averla fanno a gara i ricchi signori, i re, i papa, i podestà e quanto vale di preciso nessuno sa. Delle dita della mano sono meno gli esemplari venduti al mercato nero e per averla le signore tutto darebbero, case, dipinti e mariti cederebbero spinte dall’ insaziabile desiderio di proclamare a tutto il vicinato: ‘io ho la pietra e tu no, invero e costa come un grattacielo!’ . Sull’aereo racconto a mia sorella questa storia così strana e bella per spiegarle che significato ha la misteriosa parola ‘rarità’. La tartaruga dell’isola di Pinta secondo alcuni è persino estinta ha il collo lungo come una giraffa che piega a becco di caraffa ed è così singolare come animale che se la fotografi finisci sul giornale! Mia sorella felice mi dice che ha capito grazie a queste storie ora è chiarito: il concetto di rarità non è mica male e lei si sente un poco più speciale; in volo sulle Alpi indica le vette innevate mi dice che raramente non sono imbiancate e io entusiasta le sorrido orgogliosa di aver insegnato a Beatrice qualcosa. In Svizzera arriveremo a mezzogiorno il sole abbaglia, i monti tutt’attorno, il viaggio qui comincia, e sarà duro, ma noi ci crediamo al suo futuro, a quello di Beatrice, mia sorella, che è qui con me per far la guerra al tumore di Wilms, questa bestia rara, che le ha trovato il pediatra qui in Italia. Lei mi sorride, esaltata dalla novità, io la contemplo, fiera della rarità che consiste nella contagiosa bellezza della sua infantile spensieratezza.

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Maria Ivana Trevisani - Alla fine del viaggio ∞

Chissà perché il treno si è fermato qui. Un guasto? Uno sciopero improvviso? Sono l'unica viaggiatrice rimasta in questa carrozza e non so a chi chiedere informazioni. Nessun viaggiatore, nessun controllore. Fuori, oltre i binari, una vecchia stazione. Forse dismessa. Lungo il marciapiede, nessuno. Tutto deserto. Silenzio. Scendo e vado a vedere se trovo qualcuno in stazione. Una vecchia porta di legno, gonfiata dalla pioggia è semiaperta. La spingo, scricchiola. Si apre del tutto. Entro. E' una vecchia sala d'aspetto, c'è anche uno sportello per la biglietteria. Chiuso. Chissà da quando. Pareti scrostate, un'ingiallita cartina d'Italia, due panchine di listelli di legno. Mi siedo e mi guardo intorno. Questa sala d'attesa mi ricorda quella della mia vecchia stazione, la stazione della mia infanzia. Quanto tempo… Quanti ricordi! Quanto ho viaggiato! Ho viaggiato su un treno sbuffante di fumo seduta fra i sacchi d’un vagone bestiame, avevo tre anni e piangevo di fame. Andava lento quel treno di ferro fra case distrutte e buche di bombe, poi si fermava; perché non c’era più il ponte. Allora, a piedi, si guadava il torrente per salire su un altro treno che aspettava di fronte. Ho viaggiato su un treno stipato di gente; persone ammassate, in piedi, o sedute per terra, fra mucchi di borse, di valigie e di sacchi. Allora mi fecero entrare dal finestrino e mi sistemarono, in alto, per dormire sulla rete dei pacchi. Mia madre, lontana, in fondo al vagone, seduta su una vecchia valigia di pelle marrone. Dalla “prima classe” del treno giunse, a spintoni, un uomo elegante. “E’ Bartali! E’ Bartali!” Esclamarono tutti. “E’ Bartali! E’ Bartali! Il corridore!! E' Bartali, il vincitore del giro!

“Viva Bartali! Viva Bartali! Viva il campione italiano!"

Lo riconobbero tutti e, a tutti, lui strinse la mano. Mi tirò fuori dalla rete dei pacchi e alla mamma cedette il suo posto. Ci portò nell’altro vagone, quello elegante dove, in silenzio, sedevano alcune signore distinte. Mi addormentai coricata sul rosso velluto, senza più subire né scossoni, né spinte. Eran felici quei treni, divisi in tre classi, con sedili di legno, ben lucidato. Sbatacchiavano allegri fra i boschi e le case martellando, con ritmo, gioiosi fracassi. Come magli pesanti, come mazze di ferro. Si fermavano a ogni stazione, fischiavano a ogni passaggio a livello, a ogni casello. Al passaggio del treno, salutavano i bimbi con le manine. Alzavan la schiena, per un po' riposo, i contadini e le estese schiere delle mondine. Per un attimo, guardavano il rosario di visi sconosciuti che scorreva veloce affacciato ai finestrini. Si stava alla finestra per ricambiar saluti o per vedere altri luoghi, altri mondi: le case, i campi, il mare, i monti. Si stava alla finestra -sempre fuori con la testa- per poi rientrare in galleria. Gallerie strette, nere, ancor pregne d’odore di carbone per poi uscire, all'improvviso, all'abbaglio della luce, all'azzurro del mare, al verde d'una prateria. Sporgersi, rientrare: nero, luce, luce, nero… Sporgersi, rientrare! La Riviera! Il mare! D’inverno, finestrini sempre chiusi, appannati. All'esterno, con arabeschi e felci di ghiaccio disegnati. Si riempivano i vagoni di fumo, di vapori, di canti, di parole e di racconti. Si facevano tante nuove conoscenze, si creavano tanti nuovi imprevedibili rapporti. A diciotto anni, il mio primo viaggio, da sola. Andavo a Rotterdam, dall'amica olandese, per un premio, alla fine della scuola.

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A Milano salirono in tanti. Soprattutto meridionali, operai, migranti. Con valigie di cartone e borse chiuse da spaghi o da lacci improvvisati. Parlavano forte, si salutavano, si chiamavano, si scambiavano i posti. Salivano agitati, sudati. Mangiavano pane cipolle, salame e pomodori freschi. Bevevano il vino, passandosi i fiaschi. Ma quando il treno partì, si fecero muti; la nostalgia li avvolse e un grande silenzio calò in tutto il vagone. Scesero il mattino seguente, a Stuttgard, o in altre sconosciute, nebbiose stazioni. Accanto a me un gruppo di ragazzi egiziani, studenti d'un College, in Inghilterra. A ogni stazione gridavano dal finestrino: "Viva Nasser! Morte a Israele! Ai palestinesi la loro Terra!". Vidi odio nei loro giovani occhi. Una luce terribile, mai vista prima, che sapeva di guerra. Negli anni seguenti ho viaggiato tanto; ho viaggiato seduta in scomparti fumosi, ho parlato, ho letto, ho dormito, ho ascoltato, ho studiato. Ho conosciuto tante persone, mille visi adesso scordati, mille voci ormai perse nel fracasso del ferro. Ho preso treni, sempre più in fretta, correndo, salendo e scendendo da mille stazioni senza rendermi conto del viaggio, senza sapere la mia direzione. Ho viaggiato, ho viaggiato tanto, mentre veloci passavano gli anni: regolari, costanti, come il ritmo del treno, uguali e confusi come gli alberi che mi correvano incontro. Poi, ho viaggiato su velocissimi "Espresso": alberi, case, cartelli e piloni volavano via come strisce indistinte. Come gli anni, i fatti e tante persone. Poco a poco si è svuotato il mio treno; son scesi tutti nelle varie stazioni. S'è fermato il mio treno in questa ignota stazione senza cartelli, né sottopassaggio. Scendo da sola e senza bagagli, non ci sono altri compagni di viaggio. Resto in attesa che il Tempo si fermi, seduta in questa sala d'aspetto. Mentre guardo l'orologio che vedo di fronte, rimasto bloccato a un quarto alle sette.

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Gabriella Vai - Divino ardore

I. Spietata aurora ha trucidato i sogni Negli occhi disperati della notte E versa tra le nebbie arroventate Uno stridente strazio interminato Dolente musa inaugura un calvario Che dagli ardenti abissi invoca e grida Ma cieca si contorce la speranza Tra le feroci fiamme del mistero. II. Del più potente dramma, un segno svela Tutta l'inesorabile sequenza E carica di penitenze e croci Le forme sfigurate del tramonto. Legato dalle stesse sue promesse Si piega un corpo ad un'intenzione E, mentre assolve e libera, nel tempio Si fonde l'infinito con la luce.

III. Trasmutazione eterea e concreta Apre il cammino verso altri livelli Purifica delle memorie il senso Rigenera del cuore la bellezza E l'anima dal secolare viaggio Tornata alla sorgente si riposa L'Eterno si riflette nella gioia Risplendono i sorrisi come stelle.

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Gloria Venturini - Il volo infinito ∞

La voce dei ricordi soffiava lenta in questa giornata uggiosa di settembre. Una folata faceva rabbrividire il mio pensiero su Marco, e a ogni sterzata di vento, microscopici cedimenti franavano muti nel mio cuore. Gli occhi della mente avevano addosso il riflesso del suo sorriso tenero e scanzonato. All'epoca indossavo un'apparenza finta di normalità, malamente sorretta da un atteggiamento ossessivo, non riuscivo proprio a elaborare la situazione. Sfoltita delle mie forze, senza alcuna certezza razionale, l'hard disk nella mia testa si era inceppato e la mia anima galleggiava rarefatta in una dimensione indefinita. Lui se ne stava andando, lontano da me, in un posto troppo distante, irraggiungibile in questa vita. Avevo le mani fredde e inumidite quel giorno, Il Giorno dell'Assoluto, grande e possente, imperatore della tenebra, perché quel giorno una vita scivolò via spezzando anche la mia. Non è naturale, non rientra nel ciclo delle stagioni, nel reiterare dell'umana storia che un giovane muoia prima. Marco era il mio piccolo ometto di sei anni, l'unico vero grande amore, l'assolo infinito, il mio canto eccelso d'usignolo. Il dolore senza alcuna via d'uscita esplode dentro lacerando tutto e senza accorgerti diventi un disastro devastante di una te stessa che non riesci più a trovare. Non volevo credere che chi sta per spegnersi intuisca la verità. Lui amava il caldo dell'estate che contrastava con il freddo gelido di un gennaio che speravo non finisse mai, e allora gli raccontavo di come si facessero i diamanti con i ghiaccioli appesi alle grondaie, di come gli angeli ricamavano con la brina i paesaggi azzurri che s'intravvedevano dalle finestre dell'ospedale. Volevo riempire la sua vita di fantasie perché sopportasse meglio la sofferenza della malattia, di quel morbo innominabile che non lascia alcuna via d'uscita e che ancor oggi non riesco a pronunciare. Per profumare di casa la stanza asettica mettevo le scorze d'arancia sopra il termosifone, così il suo sorriso contagiava la mia anima, un mare in tempesta, ero furiosa col destino, con la vita, con la speranza che ancora attanagliava la mia mente. Che speranza si può avere quando pure i medici dicono che non c'è più speranza? In una delle mie corse tra casa e ospedale mi ero imbattuta in un gattino, la paura che mi attanagliò quando frenai di colpo, mi fece bloccare il respiro e impennare l'adrenalina. Per fortuna non era ferito, cercai di prenderlo per portarlo con me, ma il gatto se ne andò correndo sul marciapiede, con un'aria atterrita e irritata. Ho la convinzione che avesse guardato i miei occhi persi da un'altra dimensione, biasimandomi per lo spavento preso. Ero impotente di fronte a un altro andare, come se il micio fosse stato il demiurgo di ciò che mi aspettava, come volesse comunicare un amaro messaggio. Lo guardai scivolare tra le ombre della sera, quasi a dissolversi nel nulla di un istante, nella valenza incerta di una virgola di tempo. Al gatto è stato sufficiente un cambiamento di traiettoria per raggiungere la libertà. Rimasi immobile, delusa e sola nel freddo di un pensiero che non volevo vedere, ascoltare, sentire, osservavo continuamente il palmo delle mie mani vuote, il contatto con l'aria che non riuscivo a prendere, così respirai profondamente, per colmare di più un momento. In questa fase sfasata della mia vita, smarrita in un vortice insopportabile di dolore, il mio fare era completamente lontano da me stessa e il mio agire si compiva quasi senza riflessione. Marco sembrava un uccellino accovacciato e smagrito, grande quanto il suo cuscino. Umettavo la fronte e la bocca con la garza bagnata, mentre lenta scendeva l’ultima goccia di flebo. Le mie mani tenevano le sue, mi stringeva mentre un vuoto, a me non conosciuto, lo inghiottiva. I suoi piedi stavano per oltrepassare il guado, il suo volo si perdeva in un'assenza che infittiva e annebbiava la mia mente. Immenso e indicibile il dolore, la rabbia con me stessa per la debolezza, perché dovevo essere forte per lui, per il mio bambino, resistente più di una mano e di una carezza. Il passaggio nella luce m'ingoiò senza riserva alcuna, la mia mano tremante cercava di sostenerlo mentre attraversava le acque che dividono il terreno dalle alte sponde del cielo. Bagliori selvaggi baluginavano in me, mentre con la carezza dei pensieri lo incitavo a salire sui sassi più saldi, quelli della misericordia divina, pensavo che così facesse meno male. Mi trovai senza accorgermene sulla riva parallela di due mondi. L’esistenza umana era finita.

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Finire, terminare, verbi come altri, parole che… annientano. Un lampo di consapevolezza mi spaccava il cuore, squarciava l’anima e logorava il corpo. La potenza del dolore ridefiniva i confini della realtà, scioglieva i legami e tu bambino mio, eri passato oltre, in un al di là traslato, lasciandomi curva e vuota in un di qua, al quale non volevo più appartenere. Ero io quella viva, quella che doveva tornare a casa, ma la mia casa eri tu. Spalancai le inferriate alle lacrime. La sua testa piegata sopra il cuscino, le piccole mani, quei capelli che tanto avevo coccolato e baciato, erano inermi, bloccati e fermi, impietriti e freddi. "Indossavi il pigiamino con i coniglietti, quello che tanto ti piaceva, il libro di favole era sul comodino, le scorze d’arancia rinsecchite sopra il termosifone, tutto attorno incorniciava il tuo essere stato mio figlio." La sera s’inoltrava pesante inghiottendo ogni attesa, la notte disperdeva i rumori dei ricordi, i colori erano ora, tutti solo nero, e tu, non c’eri più. “Mi hai lasciato sola e pietrificata in una lunga notte d’inverno, in un gennaio senza bucaneve, dove nell’aria echeggiava il tuo silenzio fatto d’assenza. Te ne sei andato senza piangere, senza dire una parola, non hai avuto il tempo di vivere ancora con me, piccolo cuore mio." E ora il solo pensarti non mi consola, è uno strazio ogni giorno, non c’è spazio per la rassegnazione. Rimango qui, ore e ore, fino a non avere più pensieri, a non avere più momenti. Sento il mio universo abbracciare la follia. Odio questo stupido tempo che mi occupa la mente, sino a confondere i miei passi deliranti con la realtà. Vorrei uscire, ma fuori è freddo, proprio come dentro. Un grido silenzioso si perde nei colori inespressi di una vita strappata, nell’ansia imposta da note soffocate nel dolore. Assisto impotente alla mia vita che passa, senza riuscire a cambiarne il percorso, senza un domani. Vorrei fuggire da quest’anima nera che mi tormenta e lacera ferite, consumata da pensieri sovrapposti. Muoio ogni giorno nella calma apparente di un cielo azzurro, nei tuoi sorrisi persi, lontani nella memoria. Figlio mio, perché sopravviverti? Attendo la neve che cancelli il biancore di questo volto spento, trafitto dal desiderio di abbracciarti in paradiso. Vorrei essere luce, ma mi confondo nell’ombra, vorrei avere ancora ali per volare, ma non riesco a vivere un solo momento senza di te. Ora sei foglia nel vento, sussurro senza fine… Momento, è solo un momento, il mio volo infinito.

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Valentina Veronesi - Un viaggio fantastico ∞

Che strano, oggi mio fratello non ha voluto giocare dopo pranzo e adesso è uscito di casa senza portarmi con lui. Di solito, quando sembra così impegnato e non passa del tempo con me, è perché nasconde qualcosa. Secondo il mio intuito, sta preparando una bella sorpresa. Come amo le sorprese! E lui lo sa bene. Inventa sempre giochi favolosi da fare insieme. Ecco, finalmente è tornato sul divano! Ma non vuole restare qui, mi prende per mano e andiamo verso l’uscita. La sua mano suda tantissimo! Mio fratello suda solo in due casi: quando è emozionato e quando ha fatto qualche lavoro faticoso. Me lo sento: una nuova avventura si sta avvicinando! Come si sta bene in giardino! C’è una bella giornata: il sole è caldo ma non scotta la pelle, l’ideale per divertirsi all’aperto. Mio fratello mi ha già preso i fianchi ed è pronto per sollevarmi in aria. È spassosissimo restare in alto e volare sopra la sua testa. Mi fa sempre fare un giro di tutto il giardino volando. Ha delle braccia fortissime: da grande voglio essere come lui. Via, su nel cielo come un missile! Sono veramente in alto ora. Sono sospeso in aria. Volo, volo velocissimo! Volo, no, aiuto... Cado, cadoooo! Atterraggio sul morbido, per fortuna. Accidenti, mio fratello mi ha lanciato in aria. E ora, dove sono? È così soffice. Sembra di essere su una gelatina gigante. Ma il sapore non è quello delle gelatine. Ho capito: sono su una nuvola! Ora proverò ad alzarmi in piedi su questa nuvola gelatinosa. Un colpetto sulla gamba. Un colpetto sul braccio. Si sta mettendo a piovere? No, c’è ancora il sole che scalda e non sono bagnato. Un altro colpetto e un altro ancora. Decine di colpetti. Cosa succede? Ecco, cercando di sollevarmi ho fatto impazzire le nuvole e ora si sta scatenando un temporale: grandina! Ma questa grandine non fa male, fa il solletico! Non è fredda ed è grandissima. Non è un normale temporale allora, è una tempesta di meteoriti! Di sicuro mio fratello ha progettato questo viaggio per mettere alla prova la mia forza, ed io gli dimostrerò che sono fortissimo e ce la farò da solo. Vincerò tutte le prove, non ho paura di nulla! Stanno cadendo milioni di meteoriti. Continuano a colpirmi e finiranno per ricoprirmi completamente. Resisterò fino alla fine, non mi arrendo! Non arriva più nulla dall’alto. Ora è tutto tranquillo: la tempesta è finita finalmente. Sono sano e salvo. Ma più mi muovo e più sprofondo... Le sabbie mobili!! So bene che l’unico modo per uscirne vivo, è tenersi forte a qualcosa. Questa prova è difficile, sono già sommerso fino alla gola! Sono in trappola, le sabbie mobili mi avvolgono come un serpente con il suo pranzo. Cercherò di andare avanti spostando la sabbia con le mani, spero di trovare un ramo dove aggrapparmi. Eccolo... Preso! Che fortuna ad averlo trovato. Ora riuscirò a risalire in superficie, basta che mi tiri su con le braccia. Che fatica! Ma ce l’ho fatta, sono fuori! Adesso andrò avanti strisciando, se provo ad alzarmi in piedi è troppo pericoloso, rischierei di essere risucchiato di nuovo. Uffa, neanche un attimo di respiro: la strada è interrotta da una montagna. Ce la farò a scalarla, ne sono certo! Si scivola, devo trovare un appoggio stabile. Eccone uno, un piede è sicuro. Adesso anche l’altro. Più vado in alto e più si alza il vento, ma né il vento né le rocce scivolose mi faranno arrendere. Sento con le mani il bordo della montagna... Accidenti, si staccano dei sassi, per poco non mi vengono addosso. Manca solo l’ultimo sforzo e... Finalmente sono in cima, che felicità! È altissimo qui. Adesso devo assolutamente riuscire a rimanere in equilibrio, la strada è sull’orlo di un precipizio. Come non detto, scivolo... Cado!! No: mi tuffo in un mare extraterrestre! Riesco quasi a sentire il fondo, arrivo fino a toccare gli abissi del mare e poi risalgo. Non mi batte nessuno nel nuoto! Ecco la superficie. Galleggio perfettamente, mi sento leggerissimo! Sono proprio soddisfatto di questo viaggio, mi sto divertendo un sacco! Ora non resta che nuotare alla ricerca di una riva. Ecco, ci siamo quasi, la riva è vicina. E questo, cos’è? Un muro gommoso! Poteva essere solo questa la riva di un mare extraterrestre. Prendo il bordo della riva gommosa e mi tiro su.

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Un colpo forte in testa, poi un altro. Qualcuno mi sta attaccando dall’altra parte del muro... Gli alieni!! Ora devo afferrare tutto quello che mi capita e lanciarlo verso i miei avversari a più non posso, per sferrare il contrattacco. Vincerò io! Per fortuna, anche se mi colpiscono, non sento male: i sassi alieni sono soffici, è troppo bello lottare così! Accipicchia, questi alieni non si arrendono facilmente, avrò già tirato mille sassi! Non arrivano più colpi. Sembra tutto tranquillo dall’altra parte del muro. Mio fratello sarà felicissimo quando saprà che sono riuscito ad affrontare questo viaggio pericoloso contando solo sulle mie forze. Sarà fiero di me. Ma sarà veramente tutto finito? Questa calma quasi mi preoccupa. Ho paura che sia un trabocchetto. Ma chi c’è dietro di me? Aiuto, due braccia mi stringono con la forza di un gigante. Un attacco alle spalle, non vale! Non riesco a liberarmi. Gli alieni mi hanno preso. Ma... Questo non è un alieno! È mio fratello che mi abbraccia. Si avvicina all’orecchio e mi dice: “Hai vinto tu fratellino! Sei tu il più forte!”. Che sorpresa: allora l’attacco alieno è stato architettato dal mio fratellone! E così i due si ritrovarono a ridere come matti, sdraiati uno di fianco all’altro sotto il sole caldo, nella piscina di palline, a fare “l’angelo” come d’inverno sulla neve. Emanavano entrambi un’immensa gioia: il piccolino, nonostante la malattia, si sentiva forte come il fratello; il grande era contento di essere riuscito a far divertire il fratellino, con la sua presenza non invadente: era lui il ramo che lo ha aiutato a uscire dalle sabbie mobili e l’appiglio necessario per scalare la montagna. Grazie al fratello maggiore, in grado di condividere esperienze, senza porre limiti ed esaltando le

potenzialità, il bambino può sviluppare al meglio la sua gioia di vivere.

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Vito Vetrugno - Invito al viaggio

L'emozione di un ricordo La suggestione di un accordo La sensazione di un traguardo La tentazione di uno sguardo Un Senso Denso Di immenso Un sentiero tra continenti Un pensiero tra sentimenti a volte distanti a volte amanti Il coraggio senza vantaggio del viaggio in un raggio d’amore acceso in un cuore sospeso su un dito tra l'eternità e l'infinito.

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Michela Zanarella - Viaggio a fiato libero ∞

E’ un viaggio a fiato libero questa vita che ci portiamo addosso e ci troviamo a partire per poi tornare chiudendo porte, aprendo cancelli spalancando le ciglia a lacrime e sorrisi allontanandoci da strade che conosciamo da sempre per avvicinarci a cieli mai visti o appena accennati da un sogno. Giorno dopo giorno impariamo a capire dove sorge la luna e dove inciampa il sole senza dimenticare che anche il buio ci appartiene. E mentre l’autunno insegue l’inverno sappiamo che i nostri passi anche se incerti poco sorretti dai muscoli e per lo più deboli e pallidi vanno comunque incontro al tempo così come ogni vicolo ha una sua ragione pari alle nuvole che si sciolgono a pioggia di un nuovo mattino. Andiamo a fibre scalze verso la meta andiamo a fatica come fragili foglie spesso affidandoci al vento spesso inesperti a ciò che nasconde il dolore, in attesa di una terra che sia cura del nostro destino.

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Sezioni arti visive

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Angela Agresti - Aspettative riflesse

2016, Fotografia, 1/200 sec f/6,3 18mm ISO 100, 21 x 30 cm

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Gianfranco Alvisi - In viaggio verso la felicità

n.d. ,Fotografia

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Eva Maria (Evita) Andujar Escribano - Vento vertiginoso o preliquidi 1 ∞

2016, Acrilico, 100 x 120 cm

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Antonio Arnofi - Ulisse

2009, Fotografia digitale post-prodotta, 30 x 30 cm

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Stefania Asunis - On the road to recovery

2016, Acrilico, 120 x 90 cm

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Gianluca Bacconi - Bambina che legge

2016, Olio, 60 x 50 cm

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Giulio Boato - Scilla, o il mito della febbre mediterranea familiare ∞

2015, Fotografia - video - animazione - suono, Durata 10 m

Video disponibile al link: https://vimeo.com/123390611 - password: ScillaIT

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Andrea Boldrini - Pronti a partire? 2016, Foto JPG, 2.9 MB

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Cristina Bonanni - PAGLIACCIO ALLEGRO

2016, Cartapesta su stampo/base legno, 60 x 40 cm

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Lorenzo Bonanni - IL PASSATO CON UNO SGUARDO AL FUTURO

2016, Uso della cartapesta, 40 x 50; base 50 x 70 cm

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Vincenzo Bossis - Homo Viator

1950-2013-2016, Fotografia JPG, n.d. x n.d. cm

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Alessandro Bravi - Il viaggio del palloncino

2016, Acrilico, 100 x 100 cm

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Barbara Calcei - Dal ciclo - Le magie di Scanno - "C'ERA UNA VOLTA" ∞

2015, Olio, 70 x 50 cm

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Samantha Carletti - Prendi la luna, Giacomino!

2016, Photo editing, 52 x 36 cm

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Classe III, Scuola Primaria "C. Sala" di Valbrona (CO) - SALUTI DALLO SPAZIO! *

2016, Digitale, n.d.

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Alessia Condina - SUMMER ON A SOLITARY BEACH

2016, Fotografia, 21 x 30 cm

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Luca Coser - SEGGIOLONE VIOLA ∞

2012, Disegno e vernice, 22 x 30 cm

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Chiara Maria D’Angelo - Il viaggio

2016, n.d., 50 x 60 cm

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Anna Maria De Paola - NEW YORK

2013, Assemblaggio, 40 x 100 cm

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Irena Dombrovskaya - VINCERE LA PESTE

2016, Disegno su carta preparata, 60 x 80 cm

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Ausilia Elce - I mille colori del viaggio

2016, Pennarello e pastello a cera su carta, n.d.

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Emanuela Ferrari - Viaggio verso la guarigione

2016, Disegno con matita e pastelli, 21.2 x 30 cm

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Carla Fiorentini - Il viaggio...

2016, Acquarello, 50 x 70 cm

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Germana Galdi - Soultwo ∞

2016, Acrilico, 50 x 60 cm

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Michele Grimaldi - L'altalena ∞

2013, Illustrazione digitale, 50 x 50 cm

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Laura Grispigni - DIOGENE (cerca l'uomo)

2012, Penna e carta dorata, 29 x 30 cm

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Reanna Gumiero - IL VIAGGIO: UNA SFIDA 2016, Foto, 982 kb

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Metello Iacobini - Thalasso ∞

2016, Acrilico, 100 x 100 cm

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Angela Infante, Fabio Bertoldo, Concettina Donzelli, Patrizio Polisca, Giovanni

Ruvolo - Io... viaggio solo con Marfàn

2016, Installazione di due valigie,45 x 70 x 22 + 42 x 32 x 18 cm

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Giuliana Maggiotti - Il viaggio nel sogno ∞

2016, Scultura, 110 x 37 cm

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Fabio Masotti - PELLEGRINAGGI ∞

2003, Mappe stradali e smalti, 75 x 75 cm

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Rosalba Mele - Viaggiare con la Fibrosi Polmonare Idiopatica: si può fare

2016, Dispositivo: Canon EOS 350D DIGITAL - Scatto: 1/400 sec. f/14 52 mm - ISO: 400, 3456 x 2304

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Serena Muscas - IL MIO SOGNO LIBERO

2016, Polistirolo scolpito e resinato, 90 x 51 cm (spessore da 3.5 a 12)

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Irena Pavlyshyn - Untitled ∞

2016, Tecnica mista, 70 x 70 cm

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Anna Pino - Punti di vista

2007, Fotografia digitale, 30 x 45 cm

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Beatrice Rachello - Franceschino

2014, Olio su tela e imprimitura colla di coniglio, 90 x 120 cm

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Valentina Rimauro - Esalazione del fuoco femminile ∞ 2016, Monocromo e matita su carta, 50 x 70 cm

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Inna Rogatchi - The might of freedom ∞

2014, Authored digital print on cotton paper, numbered and signed by the author. Limited Edition, 48 x 63 cm

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Michael Rogatchi - MEMORY MIRROR ∞ 2011, Multimedia, 65 x 50 cm

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Rossana Ruberti - Il viaggio - cambio di marcia

2016, Fotografia, n.d.

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Francesca Ruta - Orizzonti allargati

2015, Foto JPG, n.d.

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Paolo Sandoiu - Campi di tulipani in Olanda

2016, Tempera, 50 x 70 cm

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Vincenzo Scolamiero - Foglia di salice e corda di ferro ∞

2014, Olio di cartamo su tavola, 60 x 70 cm

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Gabriella Scuderi - Il mio viaggio lontano

2016, Foto digitale, 21 x 30 cm

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Catia Seri - L'INCOMPRESO ∞

2014, Dipinto, n.d

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Edoardo Spallazzi, Ugo Fangareggi - Ragazzi, in Carrozza! ∞

2016, Video digitale, Durata 7 m

Video disponibile al link https://www.youtube.com/watch?v=LZ2SKWrN8pE

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Federico Strinati - Trascorrere ∞

2016, Foto, n.d

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Franceschina Taruscio - Senza titolo

n.d. , Foto, n.d

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Daniele Tenca - On the road

2016, Acrilico su tela, 100 x 100 cm

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Karen Thomas - Il cosmo illuminato ∞

2012/2013, Olio, smalti, acrilici e materiali preziosi, diametro 80 cm

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Federico Toso - Viaggio nei miei ricordi *

2016, Fotografia in bianco e nero, 21x30 cm

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Alfredo Dante Vallesi - Altrove ∞

2010, Fotografia analogica - Kodak Portra 160, 23x30 cm

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Anna Zulla - Oltre ∞

2016, Tecnica mista: acrilico e inchiostro, 60x80 cm

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Mirella Zulla - Costellazione ∞

2015, Olio, 50x08 cm

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Finalisti IX edizione “Il Volo di Pegaso”

ARTI LETTERARIE (S1 Narrativa e S2 Poesia). In ordine alfabetico (per cognome dell'Autore):

• “L'acqua del mio giardino”, Maria Giuseppina Buongiorno • “Mamma e Satumata”, Claudia Cavalcanti • “Il mio viaggio”, Daniela Ceccato • “Lo porterò al mare”, Elena Coppari • “CUOLLO1981”, Marina Cuollo • “LA CONOSCENZA DELLA VITA”, Maria Delvecchio • “Cesare aveva ragione”, Giovanni Di Saverio • “IL VIAGGIO DI ALE”, Francesca Facoetti (alias Gabriel) • “Verso la guarigione…”, Alessandra Ferrari • “BIGLIETTO PER IL GIORNO IN CUI TUTTO QUESTO SARA’ SOLO UN RICORDO”, Margherita Ghiglioni • “Il ‘viaggio’ di un medico attraverso la sua malattia”, Clafiria Grimaldi • “Sono quel che sono, la Malinconia”, Lorena Gurrieri • “LA PRINCIPESSA SENZA TASCHE”, Carmelina Lambiase • “SPERANZA FRUSTRANTE”, Pietro Lapiana • “TI LASCERÒ ANDARE”, Stefania Laus • “Marta è morta”, Grazia Maria Litrico • “Dillo… che io viaggio sull’amore”, Ornella Mamone Capria • “Lontano da qui”, Luca Memeo • “Notte di viaggio”, Marina Modesti • “Finalmente figlia”, Marina Priorini • “Il tuo corpo nasconde posti sconosciuti e bellissimi”, Camilla Pugno • “Giocarci dentro”, Lorenzo Raffaini • “DISTURBO RARO”, Margherita Rimi • “Echi del mare”, Paola Schiaroli • “Ti aspetto”, Maria Sordino • “DELIRIUM”, Patrizia Stefanelli • “Divino ardore”, Gabriella Vai • “Il Volo infinito”, Gloria Venturini • “Invito al viaggio”, Vito Vetrugno • “Viaggio a fiato libero”, Michela Zanarella

ARTI VISIVE (S3-Disegno, S4-Pittura, S5-Scultura, S6-Fotografia, S7-Opera d'arte digitale). In ordine alfabetico (per cognome dell'Autore):

• “Aspettative riflesse”, Angela Agresti • “VENTO VERTIGINOSO O PRELIQUIDI 1”, Eva Maria Andujar Escribano • “Ulisse”, Antonio Arnofi • “Bambina che legge”, Gianluca Bacconi • “Scilla, o il mito della febbre mediterranea familiare”, Giulio Boato • “SALUTI DALLO SPAZIO!”, Classe III, Scuola Primaria "C. Sala" di Valbrona (CO) • “PAGLIACCIO ALLEGRO”, Cristina Bonanni • “Prendi la luna, Giacomino!”, Samantha Carletti • “SUMMER ON A SOLITARY BEACH”, Alessia Condina • “SEGGIOLONE VIOLA”, Luca Coser • “Il viaggio”, Chiara Maria D'Angelo

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• “NEW YORK”, Anna Maria De Paola • “VINCERE LA PESTE”, Irena Dombrovskaya • “Il viaggio…”, Carla Fiorentini • “L'altalena”, Michele Grimaldi • “Io…viaggio solo con Marfàn!”, Angela Infante, Fabio Bertoldo, Concettina Donzelli, Patrizio Polisca,

Giovanni Ruvolo • “Il viaggio nel sogno”, Giuliana Maggiotti • “PELLEGRINAGGI”, Fabio Masotti • “IL MIO SOGNO LIBERO”, Serena Muscas • “Punti di vista”, Anna Pino • “Franceschino”, Beatrice Rachello • “Esalazione del fuoco femminile”, Valentina Rimauro • “The might of freedom”, Inna Rogatchi • “Campi di tulipani in Olanda”, Paolo Sandoiu • “Foglia di salice e corda di ferro”, Vincenzo Scolamiero • “Ragazzi, in Carrozza!”, Edoardo Spallazzi, Ugo Fangareggi • “Trascorrere”, Federico Strinati • “On the road”, Daniele Tenca • “Il Cosmo illuminato”, Karen Thomas • “Viaggio nei miei ricordi”, Federico Toso • “Altrove”, Alfredo Dante Vallesi • “Oltre”, Anna Zulla

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Vincitori IX edizione “Il Volo di Pegaso”

Sezione Categoria PRIMO CLASSIFICATO

S.1 NARRATIVA

S1-C1 MINORI BIGLIETTO PER UN GIORNO IN CUI TUTTO QUESTO SARÀ SOLO UN SOGNO, Margherita Ghiglioni

S1-C2.a ADULTI PRINCIPIANTI

Mamma e Satumata, Claudia Cavalcanti

S1-C2b ADULTI PROFESSIONISTI

Giocarci dentro, Lorenzo Raffaini

S.2 POESIA

S2-C1 MINORI Lontano da qui, Luca Memeo

S2-C2.a ADULTI PRINCIPIANTI

Il tuo corpo nasconde posti sconosciuti e bellissimi, Camilla Pugno

S2-C2b ADULTI PROFESSIONISTI

L'acqua del mio giardino, Maria Giuseppina Buongiorno

S.3 DISEGNO

S3-C2.a ADULTI PRINCIPIANTI

Il Viaggio..., Carla Fiorentini

S3-C2.b ADULTI PROFESSIONISTI

Seggiolone viola, Luca Coser

S.4 PITTURA

S4-C2.a ADULTI PRINCIPIANTI

On the road, Daniele Tenca

S4-C2.b ADULTI PROFESSIONISTI

VENTO VERTIGINOSO O PRELIQUIDI 1, Eva Maria Andujar Escribano

S.5 SCULTURA

S5-C2.a ADULTI PRINCIPIANTI

New York, Anna Maria De Paola (ex aequo)

Io viaggio... solo con Marfàn!, Angela Infante, Fabio Bertoldo, Concettina Donzelli, Patrizio Polisca, Giovanni Ruvolo (ex aequo)

S5-C2.a ADULTI PROFESSIONISTI

Pellegrinaggi, Fabio Masotti

S.6 FOTOGRAFIA

S6-C1 MINORI Viaggio nei miei ricordi, Federico Toso

S6-C2.a ADULTI PRINCIPIANTI

Ulisse, Antonio Arnofi

S6-C2b ADULTI PROFESSIONISTI

The might of freedom, Inna Rogatchi (ex aequo)

Altrove, Alfredo Dante Vallesi (ex aequo)

S.7 OPERA GRAFICA DIGITALE

S7-C1 MINORI SALUTI DALLO SPAZIO!, Classe III, Scuola Primaria “C.Sala” di Valbrona (CO)

S7-C2.a ADULTI PRINCIPIANTI

Prendi la luna, Giacomino!, Samantha Carletti

S7-C2b ADULTI PROFESSIONISTI

Scilla, o il mito della febbre mediterranea familiare, Giulio Boato

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“Opere ammesse alla IX edizione del Concorso artistico-letterario “Il Volo di Pegaso”,

a cura di Antonella Sanseverino, Daniele Savino, Amalia Egle Gentile e Domenica Taruscio, Roma, 2017.