“pace e lavoro” allegati al documento congressuale

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PACE E LAVORO Allegati al Documento Politico Autori: Emiliano Alessandroni Fabio Frosini Salvatore Tinè Ruggero Giacomini Domenico Losurdo Cheng Enfu Stefano Fassina Antonino Galloni Antonio Mazzeo Mariella Cao Marinella Correggia Tommaso Di Francesco Yousef Salman Alessandra Riccio Umberto Lorenzoni Piergiovanni Alleva Giuseppe Morese Alessandro Belardinelli Sergio Cararo Rolando Giai Levra Maria Luisa Boccia Giorgio Nebbia Edoardo Castellucci Massimo Villone Domenico Gallo Norberto Natali Pierpaolo Capovilla Enrico Capuano Marino Severini Tammurriatarock Blond Records

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Questi contributi, queste “schede”, non fanno parte, in senso stretto, del dibattito congressuale; esse non sono sovrapponibili alle Tesi del documento congressuale; dalle nostre Tesi esse possono persino divergere, ed esse non saranno, dunque, né messe ai voti né saranno emendabili: sono già, e saranno – appunto – contributi provenienti dalla sinistra italiana, dalle fabbriche, dai fronti di lotta più avanzati, in difesa della Costituzione nata dalla Resistenza, contro le guerre imperialiste e contro la basi NATO e USA in Italia, contro le politiche liberiste dell’Unione europea, contro le politiche del governo Renzi. Queste “schede”, però, non sono solamente un contributo, non transitorio, al nostro dibattito congressuale: abbiamo voluto allegarle al nostro documento anche per dare un segno chiaro, tangibile, di cosa vorrà essere, domani, il partito comunista che ci accingiamo a costruire.

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PACE E LAVOROAllegati al Documento Politico

Autori:Emiliano AlessandroniFabio FrosiniSalvatore TinèRuggero GiacominiDomenico LosurdoCheng EnfuStefano FassinaAntonino GalloniAntonio MazzeoMariella CaoMarinella CorreggiaTommaso Di FrancescoYousef SalmanAlessandra RiccioUmberto Lorenzoni

Piergiovanni AllevaGiuseppe MoreseAlessandro BelardinelliSergio CararoRolando Giai LevraMaria Luisa BocciaGiorgio NebbiaEdoardo CastellucciMassimo VilloneDomenico GalloNorberto NataliPierpaolo CapovillaEnrico CapuanoMarino SeveriniTammurriatarockBlond Records

“PACE E LAVORO” ALLEGATI AL DOCUMENTO CONGRESSUALE

Una premessa Le assemblee costituenti per la ricostruzione del partito comunista, da quelle territoriali a quelle regionali, sino all’assembla nazionale, organizzeranno la loro discussione politica e teorica sulla base di un documento congressuale (“Ricostruiamo il partito comunista”) già licenziato - e votato all’unanimità - dalla commissione nazionale dell’Associazione per la ricostruzione del partito comunista. Quello è il documento congressuale, che il dibattito potrà, eventualmente, modificare ed emendare. In quel documento vi è la sintesi sistematizzata della vasta, lunga e profonda discussione che i vari soggetti “costituenti” – per circa due anni - hanno aperto tra loro e al loro esterno ( tra i cittadini, i lavoratori, gli intellettuali) per giungere all’assemblea nazionale volta a costituire il partito comunista. Sarà sulla base di quel documento politico e teorico – arricchito dalla discussione congressuale – che nascerà il partito comunista. Ciò per chiarezza estrema. Tuttavia, la commissione nazionale dell’Associazione per la ricostruzione del partito comunista ha voluto immettere, nel dibattito congressuale, un forte elemento di innovazione politica: l’aggiunta – al documento congressuale - di “schede” su temi specifici, “schede” che rappresentano, in buona parte, contributi alla discussione politica di intellettuali, quadri operai, leader di movimenti di lotta che non fanno e non faranno parte del partito comunista che stiamo costruendo, ma che sono già stati, nel nostro lungo percorso costituente, nelle tante iniziative pubbliche che abbiamo organizzato in tutto il Paese, “compagni di strada” e tali resteranno nelle lotte future, sociali e politiche.

Questi contributi, queste “schede”, non fanno parte, in senso stretto, del dibattito congressuale; esse non sono sovrapponibili alle Tesi del documento congressuale; dalle nostre Tesi esse possono persino divergere, ed esse non saranno, dunque, né messe ai voti né saranno emendabili: sono già, e saranno – appunto – contributi provenienti dalla sinistra italiana, dalle fabbriche, dai fronti di lotta più avanzati, in difesa della Costituzione nata dalla Resistenza, contro le guerre imperialiste e contro la basi NATO e USA in Italia, contro le politiche liberiste dell’Unione europea, contro le politiche del governo Renzi.

Queste “schede”, però, non sono solamente un contributo, non transitorio, al nostro dibattito congressuale: abbiamo voluto allegarle al nostro documento anche per dare un segno chiaro, tangibile, di cosa vorrà essere, domani, il partito comunista che ci accingiamo a costruire: un partito di massa, di lotta, volto all’unità dell’intera sinistra italiana, volto all’interazione con le forze sociali, politiche, sindacali e culturali più avanzate del paese. Un’unità vasta e di classe per la trasformazione sociale.

SCHEDE

MARX E IL CONCETTO DI DEMOCRAZIA

di Emiliano Alessandroni *

* dottore di ricerca in “Studi Interculturali Europei” presso l’Università degli Studi di Urbino, dove collabora alle cattedre di "Storia della Filosofia Politica" e di "Letterature comparate".

Una delle formulazioni più autorevoli relative al concetto di democrazia è stata espressa dall'economista austriaco Joseph Schumpeter che sul suo libro Capitalismo, socialismo e democrazia definisce il metodo democratico come «quell'assetto istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare»[1]. Si tratta di un giudizio che a tutt'oggi continua a suscitare approvazione. Secondo Gianfranco Pasquino, allievo di Norberto Bobbio, le teorie di Kelsen e di Schumpeter sono quelle che «costituiscono tuttora i punti più elevati della visione democratica» e come tali risultano immuni ai cambiamenti storici, ovvero «dotate di persistente validità». La discriminante della democrazia risulta la competizione elettorale: «le elezioni sono un gioco interattivo che si ripete nel tempo con periodicità prevedibile spesso chiaramente sancita, altrimenti non saremmo in democrazia». Quest'ultima costituisce, dal canto suo, un organismo mobile in cui «l'elemento dinamico è rappresentato dalle preferenze degli elettori»[2]. È un tema quello della facoltà decisionale elettiva che stava già molto a cuore a Marx il quale considerava la lotta per il suffragio universale un importante passo emancipatorio e democratico e denunciava quelle forze che tentavano di opporvisi mediante l'introduzione di restrizioni censitarie e clausole di esclusione che colpivano gli strati sociali meno abbienti[3]. La lotta per il suffragio rientrava dunque per Marx a pieno titolo all'interno della lotta per la democrazia. Cionondimeno, sebbene la conquista del suffragio universale determinasse, specie in rapporto ai tempi, una sorta di democrazia giuridico-politica, quest'ultima non costituiva agli occhi di Marx una democrazia compiuta, espressione istituzionale di un'emancipazione compiuta, ma soltanto una rifrazione dell'«emancipazione politica» la quale costituiva «certamente un grande passo in avanti» e tuttavia non «la forma ultima dell'emancipazione umana»: essa era invero soltanto «l'ultima forma di emancipazione umana entro l'ordine mondiale attuale»[4]. Eretta sul fondamento del sistema di produzione capitalistico, la democrazia politica poteva svilupparsi solo «là dove le sfere private [avevano] acquistato un'esistenza indipendente»[5], determinando una separazione tra Stato e società civile, in cui i conflitti politici non rispecchiavano l'interezza dei conflitti sociali, l'uguaglianza nei confronti della sfera giuridica era revocata dall'iniziativa autonoma delle forze economiche private, le quali incoraggiavano a loro volta la più pesante disuguaglianza nella sfera sociale, e l'individuo, anziché in un modo reale, finiva per emanciparsi «in un modo astratto e limitato, in un modo parziale»[6], l'unico possibile sul presupposto di quel sistema produttivo. Ma a ben vedere, la democrazia giuridico-politica, nella sua sopravvivenza separata e indipendente da ogni forma di democrazia economico-sociale, oltre che riduttiva finisce per rivelarsi altresì inefficace. Marx sa bene che quello che Pasquino chiamerà elettore e che costituirà a suo giudizio l'elemento dinamico della democrazia è in realtà un'entità astratta, inerente all'empireo della

sfera politica. Nella società civile gli elettori sono sociologicamente diversi fra loro, dispongono di strumenti materiali sproporzionati per la diffusione delle proprie idee e occupano posti non-equipollenti nella vita del paese. Tale disparità e stratificazione sociale a monte fa sì che nessun voto elettorale sia mai realmente uguale ad un altro e che mai le singole preferenze abbiano tra loro lo stesso peso. È una questione di cui, sulla scia di Marx, tratterà Gramsci in carcere, sottolineando come «la razionalità storicistica del consenso numerico», nelle società a base capitalistica, venga «sistematicamente falsificata dall'influsso della ricchezza»[7]. Il filosofo di Treviri sapeva d'altronde benissimo che il suffragio non cancellava il dislivello sociale e che, già a suo tempo, «la borghesia» poteva «regolare il diritto di voto in modo che esso [avesse] a volere ciò che è ragionevole, cioè il suo dominio». Così configurata la presenza o meno della democrazia giuridico-politica, non eliminava mai l'essenza dittatoriale della struttura sistemica reggente nonché la supremazia del gruppo sociale dominante, potendo unicamente stabilire se tale «dittatura» dovesse essere consolidata «in forza della volontà popolare» o «contro la volontà popolare»[8]. La questione della democrazia assumeva dunque già in Marx i tratti di quella che diventerà in Gramsci la questione dell'egemonia.

2. Democrazia e questione nazionale.

Se Marx ed Engels parlano fin dalla prima pagina del Manifesto delle differenti configurazioni che la lotta di classe e il conflitto fra oppressori e oppressi assume nella storia, nel 1920 dopo un'attenta analisi sulla situazione geopolitica formatasi in seguito alla comparsa dei monopoli e allo sviluppo del capitale finanziario, Lenin traccia i nuovi contorni del conflitto sociale affermando la necessità di operare «una distinzione...netta tra le nazioni oppresse, soggette, private dei loro diritti e le nazioni sovrane che ne sfruttano e ne opprimono altre»[9]. Diversamente dalla prospettiva liberale per la quale la riduzione in condizioni di semi-schiavitù o il completo assoggettamento di una nazione debole da parte di una nazione forte non costituisce alcun elemento che possa incidere sul livello di democrazia della nazione forte, secondo lo statista russo «instaurare la completa democrazia» significa realizzare «l'assoluta eguaglianza dei diritti delle nazioni» nonché «riconoscere il diritto di autodecisione delle nazioni oppresse»[10]. Egli non si stanca di sottolineare come già a suo tempo la teoria di Marx fosse «lontana come il cielo dalla terra, dall'ignorare i movimenti nazionali»[11], ricordando il sostegno del filosofo tedesco alle lotte di liberazione dell'Irlanda e della Polonia. D'altronde fin dal Manifesto si preannuncia l'orientamento inter-nazionale che la conflittualità inerente al nuovo sistema produttivo è destinata ad assumere:

Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia su tutto il globo terrestre. Ovunque essa deve insediarsi, ovunque stabilirsi, ovunque allacciare collegamenti […] All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra un commercio universale, una interdipendenza universale tra le nazioni[12].

Si tratta di una tendenza aggressiva ed espansiva, quella del nuovo gruppo sociale in ascesa, che il Manifesto sottolinea con insistenza:

I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per poter contenere la ricchezza creata dalle forze produttive. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Per un verso imponendo la distruzione di una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e conquistando più intensamente quelli già disponibili[13].

Nei successivi decenni, fino ai giorni nostri, la conquista di nuovi mercati si esprimerà nel concreto con la conquista di nuove aree geografiche, la sottomissione dei paesi recalcitranti, e la violazione

delle sovranità nazionali. Operazioni di cui Marx scorge la protagonista nell'Inghilterra del proprio tempo. Se infatti la massima opera del filosofo denunciava come «il vecchio continente» inviasse «nelle colonie capitale ansioso di sfruttamento» nonché la «fabbricazione di salariati nelle colonie»[14], scrivendo sulla stampa tedesca, Marx polemizza continuamente contro il cosiddetto «umanitarismo...d'esportazione»[15] inglese, ovvero contro quella «grande disumanità» dell'Inghilterra nascosta «sotto una fraseologia filantropica».[16] E allorché l'esercito francese di Napoleone III, col sostegno delle forze inglesi e spagnole, si appresta all'invasione del Messico, in quell'impresa che diverrà nota come l'Affare Massimiliano, sul New York Daily Tribune del 23 Novembre 1861, Marx esprime in questi termini il proprio giudizio a riguardo: «L'intervento in Messico preparato dall'Inghilterra, la Francia e la Spagna è, per me, una delle imprese più mostruose che gli annali della storia internazionale abbiano mai registrato»[17]. D'altro canto allo scoppio della Guerra di Secessione, nel sostegno economico che l'Inghilterra garantisce al Sud separatista, Marx individua un elemento fortemente antidemocratico, non soltanto in ragione della schiavitù razziale che si sarebbe continuata a perpetrare nel caso di vittoria degli Stati Confederati, ma in ragione altresì del dominio che l'Inghilterra si proponeva di esercitare per tale via sugli Stati Uniti, della violazione cioè della sovranità nazionale americana che tale atto designava. È evidente che, come poi avverrà in maniera più manifesta in Lenin, la violazione delle sovranità nazionali costituisce già in Marx un parametro misuratore del grado di democrazia di una data nazione.

Oggi, ad assetti geopolitici radicalmente mutati, se col parametro riduttivo della democrazia giuridico-politica Pasquino designa «la democrazia inglese» e «la democrazia americana» come gli esempi più concreti di «democrazia competitiva à la Schumpeter»[18], con l'apporto delle categorie di democrazia sociale e democrazia inter-nazionale desumibili dall'analisi di Marx, proprio quelle nazioni indicate da Pasquino si rivelerebbero agli occhi del filosofo tedesco come gli esempi più manifesti di imponenti dittature. Nel complesso, d'altronde, il compimento della democrazia è ad avviso di Marx incompatibile con il sistema di produzione capitalistico: le due strutture costituiscono istanze ossimoriche che ci impongono a tutt'oggi di riconsiderare il loro giudizio: la realizzazione della prima non concerne il nostro presente storico, ma deve esser necessariamente rimandata a tempi futuri in cui potrà apparire più realistico e indispensabile, l'abbandono della seconda: il processo deve ancora, direbbe Hegel, farsi essoterico.

[1] J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, 1955, Edizioni di Comunità, p. 252.

[2] Gianfranco Pasquino, Nuove teorie della democrazia? In Ibid. (a cura di), Strumenti della democrazia, Il Mulino, 2007, p. 154.

[3] Cfr. su ciò Marx, Le lotte di classe in Francia, Editori Riuniti 1970.

[4] Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti, 1954, p. 59.

[5] Karl Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, 1950, p. 43.

[6] Marx, La questione ebraica, cit., p. 56.

[7] Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, 2001, p. 1625, ma cfr. tutto il paragrafo, Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi, p. 1624-1626.

[8] Marx, Le lotte di classe in Francia, cit. p. 276.

[9] Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in Ibid., Opere scelte, Editori Riuniti, 1975, Vol. VI, p. 85.

[10] Ivi, vol. II, p. 439.

[11] Ivi., p. 261.

[12] K.Marx, F.Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, Laterza, 1999, pp. 10-11.

[13] Ivi., p. 14.

[14] K. Marx, Il Capitale, NewtonCompton, 2006, pp. 550-552.

[15] Marx-Engels, La guerra civile negli Stati Uniti, Del Bosco 1973, p. 147.

[16] Ivi., p. 141.

[17] Ivi., p. 115.

[18] Pasquino, cit.

MARX, PER L’OGGI di Fabio Frosini* *studioso di Marx, saggista 1. Dire cosa rimane del marxismo presuppone una conoscenza certa di cosa il marxismo sia, e anche di come questa “cosa” che è (o si presume che sia) il marxismo possa o meno avere delle strutture permanenti, che lo rendano identificabile come tale, ed eventualmente, disfacendosi queste strutture, scomparire, estinguersi. Se pensiamo al marxismo come a qualcosa di solido e riconoscibile, che ha avuto una identità forte e in questo senso una permanenza – ebbene quel marxismo è effettivamente scomparso, estinto. Mi riferisco – questo punto è molto importante – all’unico vero “marxismo” che sia a mio avviso mai esistito: quello della Seconda Internazionale, fondato da Engels e Kautsky. Di questo marxismo ben poco, se non echi distorti, rimane oggi; né si può dire che nel corso del Novecento abbia goduto di buona salute. Infatti quel marxismo iniziò a morire con il revisionismo di fine Ottocento e l’atto di morte definitivo ne è l’inizio della Prima guerra mondiale.

Essendosi strutturato come una “Chiesa”, con un’ortodossia e un’eterodossia, dei “testi sacri” e delle eresie, degli iconoclasmi e delle scomuniche, il marxismo seppe sviluppare una straordinaria potenza pratica – la socialdemocrazia tedesca e l’avvio della formazione dei partiti socialisti in Europa, inclusa l’Italia. Ma pagò questa potenza a un prezzo altissimo: la separazione tra teoria e strategia e la connessa giustapposizione degli enunciati teorici generali con strategie politiche particolari. L’organizzazione ecclesiastica del marxismo fu responsabile insomma tanto della sua potenza, quanto della sua sterilità. Il segno che lo caratterizza è infatti la separazione di teoria e pratica: la teoria serviva a leggere nella storia, intesa come processo universale, unitario e necessario, i segni dell’avvento di un’epoca nuova; mentre la pratica doveva barcamenarsi tra la passività dell’attesa di quella nuova epoca e un imparaticcio di rivendicazioni corporative e di capitolazioni di principio. Potremmo parlare di una concezione “platonica” della teoria che spingeva a un disperato “pragmatismo” sul terreno politico. 2. Chi vide bene l’essenza di questa dinamica fu Benedetto Croce quando, nel 1911, pubblicò un articolo significativamente intitolato La morte del socialismo. Qui con soddisfazione Croce

registrava la graduale uscita del socialismo dall’“utopia” e la sua entrata nella “storia”, che era poi (per Croce) storia delle classi dirigenti (dunque l’integrazione subalterna del socialismo alla leadership della borghesia). Il clima era favorevole: la guerra di Libia aveva fatto entrare il PSI in una fase di crisi interna, dalla quale uscì solamente con l’espulsione dei riformisti. Le cose non andarono precisamente – quella volta – come Croce, con Giolitti, auspicava, ma la congiuntura è significativa: la guerra coloniale del 1911-1912 scatenò una serie di conflitti dentro il PSI, che furono l’espressione di conflitti interni alle classi popolari italiane, e che videro il delinearsi di una nuova tendenza di matrice sindacalistica, capeggiata da Mussolini, che avrebbe poi condotto alla dissoluzione del partito. Croce aveva cioè ben visto che la struttura “ecclesiastica” del marxismo di quell’epoca non poteva reggere l’urto rappresentato dall’entrata della dimensione internazionale – con la guerra imperialistica – dentro la politica statale.

Il significato dell’imperialismo, per il marxismo, sta effettivamente nella rivelazione del fatto che il modello di sviluppo del capitalismo ricavato da Il capitale non conteneva la dimensione internazionale, cioè dei conflitti tra borghesie nazionali, e quindi tra stati nazionali. Quando questi divennero troppo evidenti per essere negati, la teoria dell’imperialismo non si limitò a integrare questo nuovo momento nel “marxismo”, ma di fatto lo fece esplodere, perché il suo presupposto (che ne fossero coscienti o no, in un primo momento i suoi, estensori, da Luxemburg a Lenin) era un’idea di “teoria” completamente diversa dalla precedente. Se la “teoria” del “marxismo” era il modello generale di una “logica”, al quale la storia doveva prima o poi adeguarsi, al contrario la teoria dell’imperialismo nasce dall’intreccio tra potere politico nazionale (statale) e distribuzione internazionale del lavoro, laddove la nozione di un mercato mondiale integrato – in modo conflittuale e potenzialmente catastrofico – nasce come nozione allo stesso tempo, e irriducibilmente, economica e politica, logica e storica, universale e particolare.

Il “marxismo” lavorava dunque con una nozione di “internazionalismo” del tutto irrealistica e quindi inefficace, perché incapace di vedere l’elemento di “nazionalità” presente nelle masse popolari e, in particolare, la posizione che queste venivano ad assumere nel nuovo contesto imperialistico (l’invenzione della “nazione proletaria”, infatti, nasce quasi contemporaneamente da un nazionalista di destra come Enrico Corradini e da un socialista come Giovanni Pascoli proprio nel 1911, in occasione della guerra di Libia). Riformulare l’internazionalismo voleva dire abbandonare quell’idea di teoria come universale logico dominante sulla storia (politica), a pro di una concezione del “pensiero marxista” come qualcosa che s’intreccia da cima a fondo con la storia e con la politica, da cui costantemente estrae nuove conoscenze corrispondenti ai cambiamenti dai rapporti sociali (basti pensare a Stato e rivoluzione). 3. Se il pensiero marxista è questa “cosa” – che nasce con il naufragio della Seconda Internazionale e che postula un legame diretto tra teoria e pratica – e non la struttura “ecclesiastica” e “platonica” della Seconda Internazionale – alcune conseguenze ne derivano necessariamente , al di là dello stesso modo in cui sono state interpretate. La prima, è che il pensiero marxista non è immutabile, al contrario, esso necessariamente cresce e cambia, traversando crisi e rotture, e conoscendo nuove sintesi, in relazione ai rapporti sociali, cioè alla lotta di classe, di cui è una espressione. La seconda, è che il pensiero marxista non è espressione meccanica di questi rapporti. Al contrario: è la negazione di qualsiasi riflesso o derivazione diretta. Il pensiero marxista nasce solamente dal fatto che un duplice evento ha avuto luogo: primo, una rottura profonda dentro l’idea più alta e consapevole di “cultura”, tale che questa “idea” viene messa in contatto diretto con qualcosa che, per definizione, esorbita dal suo statuto: la politica, intesa come lotta e conflitto, come presa di posizione, come “parzialità”; secondo, e come conseguenza di questo primo evento, l’assunzione, da parte di questa teoria così ridefinita, dell’angolo visuale (come

diceva Antonio Labriola) del proletariato, cioè di quel “ceto” che in sé rappresenta l’impossibilità della società, cioè dell’ordine sociale dato.

Questo duplice “evento” si realizza con Marx, tra il 1844 e il 1848, e segna tutto il suo itinerario. Ma deve tornare a realizzarsi in ogni “situazione” specifica, in ogni “congiuntura”. Dunque senza una nozione precisa, forte di cosa sia una “situazione” e una “congiuntura”, e in cosa consista la loro “specificità”, il pensiero marxista è destinato a depotenziarsi e a banalizzarsi in una tradizionalissima “scuola di pensiero”, molto meno interessante di molte altre. Ciò conduce a una terza conseguenza: il pensiero marxista esiste solamente nella pluralità di “marxismi”, senza con ciò negare – anzi confermando – l’esistenza di una specificità del pensiero marxista in quanto tale. La molteplicità degli approcci non è dunque necessariamente segnale della mancanza di un’unità del pensiero marxista. Questo può accadere, ma è un fatto secondario, a petto della necessità che il pensiero marxista si nutra di un’analisi strategica costantemente a contatto con le specifiche situazioni e congiunture. 4. In cosa allora consiste il marxismo di cui qualcosa oggi rimane? e cosa ne rimane? Ancora una volta è il Croce de La morte del socialismo, che dà indicazioni preziose. Se il marxismo non è una scienza, argomenta, esso è “una previsione, grandiosa senza dubbio, ma sostanzialmente simile alle tante previsioni analogiche che facciamo di continuo innanzi ai casi che colpiscono la nostra fantasia”. Così Croce riteneva di aver liquidato per sempre il marxismo e con esso il socialismo, non sapendo che appena sei anni dopo, in un opuscolo intitolato La Città futura, uno sconosciuto giornalista socialista gli diede da Torino la risposta decisiva: che la teoria – scrive Gramsci –, quando è intesa in modo realistico, appunto altro non è che “previsione”, perché è il punto in cui il pensiero si fa reale, storico; in cui il pensiero, prendendo parte alla lotta, assume una prospettiva particolare in vista dell’affermazione, del trionfo di questa prospettiva; e che solo nel marxismo questo meccanismo è consapevolmente posto alla base della teoria, della conoscenza.

Il “marxismo”, nel senso definito all’inizio, non è morto ieri, ma molto tempo prima, all’inizio del secolo Ventesimo. Ma questo altro marxismo (che sarebbe il caso di non chiamare “marxismo”, per non incorrere in equivoci; Gramsci lo chiama “filosofia della praxis”, ma basta intendersi), si può dire che anch’esso sia morto con l’Internazionale alla quale corrispondeva, con l’Internazionale comunista? Se la Terza Internazionale ha avuto il suo punto d’origine dalla necessità di spezzare il binomio costituito da struttura “ecclesiastica” e teoria “platonica”, per poter accedere a una realtà che da quel binomio era resa indecifrabile, e se questo rinnovato e plurale marxismo altro non è che la conseguenza di quella rottura, esso non necessariamente è morto con quella esperienza. Tutto il contrario: quanto meno questo marxismo ha un ancoraggio istituzionale solido e chiuso, tanto più esso riesce a penetrare gli aspetti inediti della realtà.

C’è però un limite di dispersione, oltre il quale questa creatività si rovescia in uno sterile gioco di sofismi. Assistiamo oggi a qualcosa del genere: sulla scena intellettuale globale una serie di pensatori comunisti, di sinistra ecc. si danno battaglia tra di loro con teorie audaci, che sembrano pensate più per conquistare un pubblico ed épater le bourgeois che per contribuire all’elaborazione di una lotta comunista. Ma anche qui – nonostante che il pensiero corra alla “critica critica” messa in satira da Marx ed Engels nella Sacra famiglia – ci sono degli elementi preziosi: in quella stessa dispersività e litigiosità si annida il germe del pensiero marxista, come ho tentato di enuclearlo. Si tratta però di strapparlo di nuovo a chi se ne è appropriato, impoverendolo e banalizzandolo. Si tratta cioè di ritradurre quei discorsi in un linguaggio e in un discorso realistici, che abbiano un ancoraggio concreto a forze reali. Su questo piano il pensiero marxista ha molto lavoro davanti a sé. I conflitti si moltiplicano, infuria la lotta di classe, sovradeterminata nelle sue forme nazionali, culturali e religiose. E vanno rinascendo, di nuovo, quei partiti politici che si erano dati per persi. Per ora questo accade, in Europa, sopratutto a

destra, con populismi e movimenti di reazione regressiva alla globalizzazione. Sta a noi saper dare una risposta da sinistra – qualcosa si è iniziato a vedere –, che non sia un tentativo di riportare nostalgicamente in vita un qualche passato, ma di ripensare il presente alla luce del “duplice evento” che ho tentato di tratteggiare: introducendo la “parzialità” dentro la “cultura” e collegandola al proletariato di oggi, nell’area geopolitica in cui ci troviamo in questo momento attuale. Punti di riferimento (2) Il testo di Croce è: Falea di Calcedonia, La morte del socialismo (Discorrendo con Benedetto Croce), «La Voce», III, 1911, n. 6 (9 febbraio), pp. 501-502, quindi in B. Croce, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza, 1914, pp. 169-179. Sulla congiuntura del 1911 cfr. P. Favilli, Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra, Milano, F. Angeli, 1996, pp. 335-336. (2) Sul nesso tra teoria dell’imperialismo ed elaborazione di una teoria della nazione, e sulla mancanza di tutto ciò nel modello fornito da Il capitale, cfr. C. Luporini, Le politique et l’étatique: une ou deux critiques?, in E. Balibar, C. Luporini, A. Tosel, Marx et sa critique de la politique, Paris, Maspero, 1979, pp. 53-106. (2) Su internazionalismo e nazione cfr. La nazione in rosso. Socialismo, comunismo e “questione nazionale”: 1889-1953, a cura di M. Cattaruzza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. Dal punto di vista latinoamericano la questione nazionale (e la connessa dimensione populistica della politica) sono stati tradizionalmente affrontati con grande acume e innovatività. Cfr. A. M. Rivadeo, El marxismo y la cuestión nacional, México D.F., Edit. Unam, 1994.

(3) Sull’“angolo visuale” in Labriola cfr. A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in Id., La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1965. (3) Sulla nozione di “congiuntura” cfr. J. C. Portantiero, Gramsci y el análisis de coyuntura (algunas notas), in Id., Los usos de Gramsci, México D.F., Folios Ediciones, 1981, pp. 177-193. (4) Sulla ricerca da parte del giovane Marx di un collegamento con “forze reali” cfr. G. Lukács, Il giovane Marx, trad. it. A. Bolaffi, Roma, Editori Riuniti, 1978 (titolo originale: Zur philosophischen Entwicklung des jungen Marx. 1840-1844, «Deutsche Zeitschrift fur Philosophie», II, 1954, n. 2, pp. 288-343). (4) Sulla sovradeterminazione della lotta di classe cfr. E. Balibar, I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, tr. it. di O. Vasile, Roma, Edizioni Associate, 1996. Sul concetto di sovradeterminazione cfr. L. Althusser, Contraddizione e surdeterminazione. Note per una ricerca, in Id., Per Marx, trad. it. di F. Madonia, Roma, Editori Riuniti, 19742, pp. 69-107. (4) Sui nuovi populismi europei cfr. Populismes. L’envers de la démocratie, sous la direction de M.-C. Esposito, A. Laquièze, C. Manigand, Paris, Vendémiaire, 2012.

ATTUALITA’ DEL PENSIERO DI LENIN

di Salvatore Tinè*

*storico del movimento operaio

Nessuna crescita e sviluppo del movimento comunista nel mondo del XXI secolo può darsi prescindendo dall’imponente eredità storica e teorica rappresentata dal pensiero e dall’opera di Lenin. L’assoluta importanza di tale opera nella storia politica del movimento operaio e in quella del marxismo teorico è consistita in primo luogo nella capacità di Lenin di ricavare dall’enorme corpo della “dottrina” di Marx e di Engels il suo nucleo vivente, ovvero un metodo di analisi scientifica della realtà storico-sociale e di costruire sulla base di esso gli elementi fondamentali di una teoria politica della rivoluzione adeguata all’epoca dell’imperialismo. È questo nesso vivente tra scienza e politica, tra teoria e movimento di classe il nucleo rivoluzionario del marxismo di Lenin.

Già a cavallo tra XIX e XX secolo, sulla base di una studio scientifico delle peculiarità nazionali dello sviluppo del capitalismo in Russia egli elaborava una strategia rivoluzionaria fondata sulla teoria dell’egemonia del proletariato e sul nesso dialettico tra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista. Ma Lenin venne via elaborando e precisando tale strategia, base teorica e politica della vittoria dell’Ottobre, nel contesto di una più generale e fondamentale analisi delle tendenze di sviluppo del capitalismo europeo e mondiale. Il rivoluzionario russo seppe infatti individuare gli elementi essenziali dei processi di trasformazione in senso monopolistico ed imperialistico del modo di produzione capitalistico, particolarmente avanzati già a cavallo tra XIX e XX secolo. La sua analisi coglieva lucidamente propria nella novità di tali processi e nella loro enorme rilevanza storica e politica per i destini dell’Europa e del mondo la più clamorosa conferma dell’esattezza scientifica dell’analisi marxiana del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi di funzionamento. La crescita di enormi concentrazioni economiche insieme industriali e finanziarie e il loro intreccio sempre più stretto ed organico con gli Stati e i governi capitalistici, nel contesto di un continuo allargamento del mercato mondiale, confermavano la giustezza dell’analisi di Marx, tutta incentrata sul nesso tra “sviluppo” e “crisi” come carattere fondamentale del processo di accumulazione capitalistica.

È su questa rigorosa base analitica che Lenin venne conducendo una duplice polemica sia contro i teorici revisionisti sostenitori della tesi secondo cui l’imperialismo avrebbe modificato le leggi stesse della produzione capitalistica e posto così posto le basi per un per un suo pacifico e graduale sviluppo in senso socialista, sia contro ogni lettura superficialmente crollista e catastrofista della “crisi generale” del capitalismo monopolistico. Emergeva così una complessa teoria della “rivoluzione mondiale” in grado di unificare sul terreno economico e politico la lotta per il socialismo delle classe operaia nei paesi imperialisti con quella per l’indipendenza nazionale e la democrazia dei popoli coloniali soggetti al dominio imperialista. La sua dura polemica contro chi anche nelle file bolsceviche sosteneva che la “questione nazionale” fosse da considerarsi anacronistica nell’epoca del pieno sviluppo mondiale del capitalismo è in tal senso emblematica del carattere storico e dialettico del marxismo di Lenin. Lo stesso carattere “globale” del capitalismo contemporaneo conferma la sostanziale giustezza della teoria leniniana dello sviluppo capitalistico e del suo carattere “ineguale”.

Èalla luce di questa concezione profondamente dialettica, radicalmenteanticastrofista della crisi del capitalismo e dell’attualità storica della rivoluzione socialista, che occorre intendere la sua teoria del partito e la sua teoria dello Stato. Non a caso la teoria del partito fu elaborata dal Lenin sul terreno di una dura polemica contro “l’economicismo”, ovvero contro la tendenza a chiudere l’azione del movimento operaio dentro gli angusti confini della “lotta economica” così smarrendo il nesso dialettico tra quest’ultima e la “totalità” del processo rivoluzionario scandito dal rapporto tra la classe operaia e l’insieme delle masse oppresse e sfruttate. La rivendicazione della necessità di una avanguardia esterna e centralizzata lungi dal discendere da una visione “blanquista” del processo rivoluzionario, scaturiva proprio da questa complessa concezione del carattere “popolare” e di massa della rivoluzione operaia. Non a caso la concezione del rapporto tra Stato e rivoluzione che Lenin fissa in forma sistematica proprio alla vigilia della rivoluzione d’Ottobre individua nello sviluppo dal basso di una democrazia di massa il terreno principale della rivoluzione, intesa come distruzione della vecchia macchina statale borghese e costruzione di uno Stato di tipo nuovo. Il rapporto tra il momento della direzione centralizzata, del partito come reparto avanzato della classe, e quello della costruzione di un nuovo Stato, fondato sul massimo sviluppo della democrazia, come autogoverno dei produttori associati e dell’insieme delle masse oppresse e sfruttate, è il cuore del marxismo di Lenin, ciò che fa di esso di un patrimonio irrinunciabile per il movimento operaio e per i comunisti.

LA LEZIONE CHE CI VIENE DA GRAMSCI, IN OTTO PUNTI

Ruggero Giacomini *

*storico del movimento operaio e pacifista

1. Che rapporto dobbiamo avere noi – comunisti italiani del XXI secolo - con la tradizione del partito comunista italiano, nato col primo congresso a Livorno nel 1921 e finito per autoscioglimento col XX congresso a Rimini nel 1991?

Io credo che noi abbiamo il diritto e il dovere di recuperare questa tradizione e non lasciarla nelle mani del PD a cui per altro pesa sempre di più. Quali che siano stati i limiti e gli errori del Pci – e ce ne sono stati che altrimenti non si sarebbe lasciato suicidare, e vanno perciò analizzati e corretti -, tuttavia, e anche questo è un fatto, il PCI in quanto tale non era utilizzabile per un passaggio di campo come quello che i dirigenti che ne hanno promosso lo scioglimento volevano fare, e ha dovuto essere rimosso.

Il PCI cioè per come si era incarnato nella tradizione italiana, per quello che aveva rappresentato e rappresentava ancora agli occhi di milioni, non era credibile e proponibile come forza di governo organica al capitalismo. E che dovesse essere tolto di mezzo per una tale operazione, è un segno anche della forza resistente, nonostante tutto, del partito gramsciano e della tradizione comunista.

Purtroppo quando si è cominciato il cammino della rifondazione comunista, nel generale sbandamento hanno preso campo tesi liquidatorie di tutto il comunismo del Novecento, che

venivano dal massimalismo e dai gruppuscoli trockisti; emarginando di fatto anche la tradizione gramsciana.

2. Gramsci non è un santo. E’ l’intellettualità borghese che solitamente rielabora e propone in forma santificata i capi rivoluzionari alle masse per renderli inoffensivi, o utilizzarli magari contro le loro stesse idee e il loro movimento. Gramsci è stato il più grande teorico e rivoluzionario marxista d’Italia, un combattente e un organizzatore comunista, imprigionato con il colpo di stato del novembre 1926, con cui il fascismo soppresse il parlamento rappresentativo e i partiti. Ed è morto per la coerenza delle proprie idee.

Considerato giustamente da molti il pensatore “più profondo e originale” dell’Italia del Novecento, Gramsci ha legato la sua vita al partito comunista e il tema del partito è al centro della sua attività politica e teorica: il nuovo principe collettivo, ricollegandosi al pensiero di Machiavelli, è per lui il soggetto moderno e necessario della rivoluzione italiana.

3. Un concetto da fissare è che “ogni partito – come Gramsci sottolinea in una nota dei quaderni del carcere – non è che una nomenclatura di classe”. Cioè al di sotto della superficie su cui si agitano i partiti, si raggruppano e muovono le classi sociali, le quali possono esprimersi e si esprimono politicamente in tale modo. Quale che sia il volto e il nome con cui i partiti si presentano.

Curando la prima dispensa per la scuola di partito per corrispondenza, promossa nel 1925, Gramsci analizzava la definizione che si dava comunemente di un partito: "un gruppo più o meno numeroso di cittadini che tendono alle medesime riforme politiche, che hanno gli stessi ideali politici, e che sono organizzati per la realizzazione o per la difesa di queste riforme e di questi i-deali". Questa definizione, apparentemente "innocente" e "vicina alla verità" – egli osservava - , è in realtà mistificante, perché cela il rapporto con le classi e la lotta di classe.

"Noi – chiariva dunque Gramsci - intendiamo per partito la organizzazione politica di una determinata classe, e non semplicemente un gruppo di cittadini che la pensa alla stessa maniera e che si sono messi d'accordo su una ideologia comune."

4. Il partito comunista in particolare, è sempre Gramsci che parla, “non è una società di mutuo soccorso”, anche se taluno può scambiarla per tale, e “non è un’accademia in cui ognuno si batte per le sue idee personali”. E’ un’organizzazione della lotta di classe.

In una celebre relazione al comitato centrale del maggio 1925 Gramsci sintetizza in 5 punti il dovere del buon comunista:

a. curare la propria formazione “marxista-leninista”;

b. “essere in prima linea nelle lotte proletarie”;

c. “aborrire dalle pose rivoluzionarie” ed essere non solo “rivoluzionario, ma anche un politico realista”;

d. giudicare le situazioni e gli accadimenti dal punto di vista della propria classe e del proprio partito;

e. essere internazionalista.

5. E’ sotto la direzione gramsciana che nel 1924-26 si realizza quella straordinaria e duratura impresa che va sotto il nome di “bolscevizzazione”, che è la traduzione in linguaggio nazionale dell’insegnamento della rivoluzione d’Ottobre.

E’questo il periodo più dinamico e ricco della storia del partito comunista italiano, anche se il meno studiato, che imprime un sigillo duraturo al processo formativo e alla capacità operativa del partito.

I punti fondamentali di questo processo sono: la centralità del radicamento all’interno delle fabbriche, la strutturazione alla base in cellule, il rafforzamento della disciplina ideologica e operativa.

Obiettivo strategico cui tendere è la conquista della maggioranza della classe. Per questo il partito comunista non accetta la divisione dei compiti vigente nella seconda internazionale, per cui i partiti socialisti non si occupavano del sindacato ma solo delle elezioni, con una concezione tutta elettoralistica della politica. Bisogna invece occuparsi di tutte le manifestazioni di vita della classe proletaria a cominciare dal sindacato, operandovi in maniera intelligente e organizzata, per cercare di influenzarlo, contrastarne la burocratizzazione, orientarlo alla lotta, conquistarne la direzione. E tendere a unificare la classe operaia, oltre l’ambito sindacale, valorizzando e collegando le istituzioni rappresentative che essa si dà, come potevano essere le commissioni interne, i consigli di fabbrica o i comitati di lotta. Far sì che la classe si ponga al centro della situazione politica, uscendo dalla difensiva economica e corporativa, costruisca alleanze attorno a sé, si ponga le grandi questioni nazionali: il problema contadino, la questione meridionale, il rapporto con i ceti medi e gli intellettuali, la sovranità.

6. Per Gramsci l’arte politica è molto complessa e impegnativa, richiede studio, passione, dedizione. Occorre saper fare ogni volta l'analisi concreta della situazione concreta per poter adeguare la propria tattica, comprendere i punti di forza e di debolezza propri ed altrui, distinguere tra democrazia e fascismo, patriottismo e imperialismo, individuare nella determinata fase il nemico principale e cercare di isolarlo, costruire un blocco di forze il più ampio possibile per produrre mutamenti favorevoli nei rapporti di forza.

7. Oggi siamo certo in una situazione storica diversa da quella di Gramsci, ma il valore esemplare di tanti aspetti della sua esperienza politica e della sua elaborazione teorica è innegabile. Fondamentali, mi sembrano, in questo momento, soprattutto:

- la difesa intransigente dell'autonomia ideologica, politica e organizzativa del Partito comunista e la sua costruzione come avanguardia della classe,

- una pratica rigorosa del centralismo democratico, che esige il rispetto delle opinioni e il franco confronto ma anche la subordinazione della minoranza e la disciplina nell’azione,

- la comprensione che i nemici non si possono battere tutti insieme e da soli, e volerlo fare è come cercare di far cadere un muro sbattendoci la testa: il muro resta e la testa si spacca.

L’esperienza storica ci fornisce precedenti di strategie che si sono dimostrate nel tempo praticabili ed efficaci: il fronte unico proletario anticapitalista, il fronte popolare democratico antifascista e contro la guerra, il fronte nazionale di liberazione, per la sovranità e l’indipendenza.

8. Siamo in un’epoca diversa da quella di Gramsci, ma con aspetti che presentano indubbie analogie. E’ un fatto che il lungo periodo di sviluppo relativamente pacifico del sistema mondiale capitalistico seguito alla seconda guerra mondiale è finito. Siamo entrati in un’epoca nuova segnata dalla crisi strutturale del capitalismo, turbolenze, crisi della democrazia e del parlamentarismo, una rinnovata aggressività dell’imperialismo e spinte neocoloniali, la riorganizzazione di sistemi autoritari e la rinascita dei fascismi, una guerra dalle modalità inedite e sotterranee e dagli sviluppi imprevedibili in pratica già in atto. In una fase siffatta per incidere occorrono consapevolezza, determinazione e compattezza.

In questo quadro anche va considerato l’anacronismo di organismi dirigenti pletorici. Può essere utile ricordare che il Partito comunista d’Italia nel 1921 con quasi 60mila aderenti aveva un CC di 15 membri, e che 15 erano ancora i membri della Direzione del Partito durante la guerra di liberazione.

IMPERIALISMO E ANTIMPERIALISMO di Domenico Losurdo* *filosofo L'imperialismo non si è rassegnato al crollo del sistema colonialista mondiale iniziato con l'appello lanciato dalla Rivoluzione d'ottobre agli «schiavi delle colonie» perché spezzassero le loro catene e proseguito con la vittoria conseguita contro il tentativo dell'imperialismo tedesco, giapponese e italiano di riprendere, estendere e radicalizzare la tradizione coloniale (una vittoria di cui sono stati protagonisti in primo luogo l'Unione sovietica e il movimento comunista mondiale a cominciare dal Partito comunista cinese). La lotta tra anticolonialismo da un lato e colonialismo e neocolonialismo dall'altro continua. In Palestina il colonialismo di manifesta ancora oggi nella forma classica dell'espropriazione, deportazione e marginalizzazione del popolo oppresso. Nel resto del mondo assistiamo invece al rilancio del neocolonialismo: agitando la bandiera dell' "intervento umanitario" e arrogandosi il potere sovrano di scatenare, anche senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, guerre militari ed economiche e colpi di Stato in ogni angolo del mondo, l'imperialismo statunitense e i suoi alleati e vassalli pretendono di cancellare o minare la sovranità dei paesi e degli Stati che perseguono una politica internazionale e uno sviluppo economico indipendente. Il disegno criminale di Washington e dei suoi alleati, che rischia di scatenare una nuova e più devastante guerra mondiale, non può essere contrastato e sconfitto senza l'apporto dei paesi e delle forze ispirati o direttamente influenzati dalla teoria e dalla storia comuniste. Oggi è la Cina, diretta da un forte e sperimentato Partito comunista, a costituire il punto di riferimento della lotta

contro l'imperialismo,il colonialismo, il neocolonialismo e la guerra. Di questo schieramento progressista fanno parte potenzialmente i paesi del Terzo Mondo, soprattutto quelli che avvertono l'influenza diretta o indiretta della teoria e della storia comunista (si pensi al ruolo di Cuba in America Latina). Di questo schieramento può far parte anche la Russia: il paese che con la Rivoluzione d'ottobre e con la disfatta inflitta al Terzo Reich ha impresso un impulso poderoso allo sviluppo del movimento anticolonialista mondiale, in seguito alla restaurazione del capitalismo e l'avvento al potere di un fantoccio (Eltsin) ha rischiato di divenire una semicolonia dell'Occidente, voglioso di mettere le mani su un enorme patrimonio energetico. Alla luce di queste considerazioni, l'unità e lo sviluppo dell'unità dei comunisti risultano più impellenti che mai. Mentre, orgogliosi della loro storia, rilanciano la lotta contro l'imperialismo, il colonialismo, il semicolonialismo e la guerra, i comunisti italiani sono ben consapevoli dell'assoluta necessità di promuovere su questo terreno la più ampia unità possibile delle forze che hanno realmente a cuore la causa della pace, della democrazia, dell'indipendenza nazionale. E' agendo in questo modo che i comunisti italiani riprendo e attualizzano la lotta contro il fascismo, la lotta che è stata la bandiera del partito di Gramsci e di Togliatti

Come ringiovanire e sviluppare il socialismo

SULLE STRATEGIE E TATTICHE PER SVILUPPARE IL SOCIALISMO MONDIALE

di Cheng Enfu *

*dipartimento di studi marxisti, Accademia Cinese delle Scienze Sociali

Quali mezzi possono essere utilizzati per ringiovanire e sviluppare il socialismo mondiale? Per riassumere con una frase, si può raggiungere tale fine utilizzando il marxismo scientifico e innovativo, sia cinese che straniero. Il futuro del socialismo mondiale dipende in larga misura dal livello e dall’efficienza del lavoro nel quale il proletariato contemporaneo è unito. Questa è dunque una componente importante delle strategie e tattiche per sviluppare il socialismo mondiale. I. Intensificare gli sforzi tramite sei approcci che facciano raggiungere l’obiettivo "Proletari di tutti i paesi, unitevi!"

Con riferimento alla parola d’ordine“Proletari di tutti i paesi, unitevi”,lanciata da Marx nel suo Manifesto del partito comunista, non possiamo semplicemente accettare l’idea di unire solo i lavoratori impiegati nelle imprese private di tutto il mondo; tale parola d’ordine dovrebbe essere interpretata nel senso di unire tutta la classe operaia in tutto il mondo, così come le diverse organizzazioni che la rappresentano. Per fare ciò,si potrebbero utilizzare i seguenti sei approcci o modalità.

In primo luogo, occorre unire i partiti di sinistra della classe operaia di tutto il mondo. Dal 1990, abbiamo assistito al fatto che i partiti comunisti e operai di tutti i paesi del mondo hanno tenuto incontri annuali su base regolare. Tra questi, di tanto in tanto il Partito Comunista Cinese (PCC) ha partecipato in qualità di attento osservatore. Nonostante i partiti socialisti, laburisti e socialdemocratici dei vari paesi non siano sempre del tutto d’accordo tra loro, esiste un’Internazionale socialista attivamente impegnata. Pertanto,potrebbe essere creata una nuova Internazionale comunista tra i partiti comunisti, i partiti operai e i partiti del lavoro di vari paesi. La nuova Internazionale comunista dovrebbe basarsi sulle esperienze di tutte le Internazionali di partiti politici, cambiando alcuni modi di agire inefficienti precedentemente usati dal partito mondiale guidato dall'Unione Sovietica, e dovrebbe funzionare sulla base di nuovi principi organizzativi e nuovi modi di pensare.

Il PCC potrebbe non partecipare come membro ufficiale; ma non dovrebbe, per paura dell’America, deliberatamente tenersi a distanza dai partiti comunisti degli altri paesi, dai loro forum internazionali e dalle loro organizzazioni internazionali. Perché? A partire dalla sua riforma, il PCC si è rapportato ai partiti comunisti degli altri paesi e ai loro forum internazionali con un profilo decisamente basso, mantenendo intanto i rapporti con l’Internazionale socialista. Stati Uniti, Europa e Giappone hanno per questo messo fine all’assedio militare e alle provocazioni ai confini della Cina o hanno invece intensificato le loro azioni?Non hanno forse continuato a ricevere i separatisti cinesi? Non hanno forse ricompensato in ogni modo i calunniatori e i nemici della Cina?L’istituzione del Partito della sinistra europea, così come quella del Gruppo parlamentare della sinistra nel Parlamento europeo, sono stati dei segnali positivi. In futuro, gli sforzi dovrebbero essere tesi a rafforzare ulteriormente a livello mondiale le coalizioni con partiti di sinistra che sono notevolmente diversi dall’Internazionale socialista.

In secondo luogo, occorre unirsi coi sindacati dei lavoratori orientati a sinistra al livello mondiale. Attualmente, ci sono due coalizioni sindacali internazionali nel mondo. Esse sono in realtà dominate da coloro che si appoggiano alla socialdemocrazia, e quindi hanno ruoli limitati. Tuttavia ci sono due modi per cambiare tale situazione. Uno è che i partiti comunisti di tutti i paesi e i veri sindacati di sinistra sostengano attivisti sindacali di grande qualità e gradualmente li aiutino a diventare dirigenti delle due organizzazioni sindacali internazionali, in modo da cambiare la loro politica dall’interno, e favorire una migliore rappresentanza dei diritti e degli interessi della classe operaia e di tutti i lavoratori. Questa è la soluzione migliore. Naturalmente, questo cambiamento potrebbe essere realizzato anche dall'esterno, nel senso che i partiti comunisti di tutti i paesi e le organizzazioni sindacali di sinistra si potrebbero unire per fondare un terzo sindacato internazionale, che in tal modo potrebbe opporsi a idee e politiche erronee come il neoliberismo e combattere il peggioramento delle condizioni e del reddito dei lavoratori in tutto il mondo. Per esempio, in Portogallo, il Partito comunista e il Partito socialdemocratico hanno i loro propri sindacati indipendenti. Recentemente il sindacato americano ha votato per il candidato presidenziale democratico Sanders, che ha idee vicine al socialismo democratico; questo è più progressista che appoggiare Hilary Clinton, che sta sostenendo una politica di estrema destra che cerca di accerchiare e contenere la Cina. In futuro, i sindacati di tutti i paesi dovrebbero rafforzare gli scambi e la cooperazione, dare risonanza e co-organizzare movimenti progressisti.

In terzo luogo, occorre unirsi con le associazioni marxiste e di sinistra di tutto il mondo. Da studiosi, metteremo seriamente in pratica tale approccio. Allo stato attuale, un certo numero di associazioni di scienze sociali non sono nelle mani di marxisti e studiosi di sinistra, per esempio la World Economics Association e la International Society for Philosophy. Ma una decina di anni fa, noi economisti marxisti cinesi avviammo formalmente la World Association for Political Economy, soprattutto con esponenti di paesi altamente sviluppati. Teniamo riunioni annuali e abbiamo organizzato dieci incontri internazionali annuali in Cina, Giappone, Francia, America, Messico, Vietnam, Brasile e Sud Africa. Alle conferenze annuali partecipano oltre 100 studiosi provenienti da oltre 20 paesi, e alla fine di ogni conferenza viene sottoscritta una dichiarazione comune. Da cinque anni abbiamo iniziato a pubblicare i documenti dell’Associazione nella Review of World Political Economy, assegniamo due premi l’anno chiamati il 21st Century World Political Economics Outstanding Achievement Award eThe World Marxist Economics Award. In futuro, dovremmo istituire una Federazione mondiale delle associazioni di sinistra.

In quarto luogo, occorre unire i media più vicini a punti di vista marxisti e ai partiti di sinistra in tutto il mondo. Al momento, curiamo e pubblichiamo la rivista World Review of Political Economy. Inoltre, nel 2011abbiamo fondato una nuova rivista accademica internazionale in lingua inglese chiamata International Critical Thought con il supporto dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali (CASS). Curata da studiosi marxisti provenienti dagli Stati Uniti e Francia e dal sottoscritto, è una rivista di scienze sociali che rappresenta su scala globale il pensiero marxista e orientato a sinistra, mentre la World Review of Political Economy è una rivista di economia legata al pensiero marxista e di sinistra a livello mondiale. Queste due riviste sono pubblicate nel Regno Unito, con circa duemila copie in versione elettronica distribuite in tutto il mondo. Al momento sono diffuse in varie università e istituti di ricerca occidentali; speriamo che siano in grado di crescere negli anni a venire. In futuro, dovrebbero essere costituite associazioni globali tra riviste, giornali e network di sinistra, in modo tale da rafforzare gli scambi e la cooperazione e lavorare insieme per creare un ambito internazionale del socialismo scientifico.

In quinto luogo, occorre unire i marxisti e i forum di sinistra di tutto il mondo. Nel corso di quasi un decennio, il Dipartimento di studi marxisti dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali(CASS) ha inviato quattro studiosi a una grande conferenza internazionale ospitata dalla rivista britannica Historical Materialism, alla quale hanno partecipato più di 200 persone, e inviato professori di economia a seminari sui fondamenti teorici dell’economia politica organizzati in Francia da associazioni di economia politica francesi e britanniche. Io stesso ho preso parte al Forum globale della sinistra nel 2006 a New York, a cura della rivista International Critical Thought, e partecipato a diversi forum internazionali e conferenze organizzate dal Dipartimento di studi marxisti e dall'Accademia di marxismo della “CASS”. Il Centro di ricerca sul socialismo mondiale della “CASS” ha tenuto più di una dozzina di forum socialisti internazionali. Nell’ autunno del 2015, il Dipartimento di studi marxisti CASS ha ospitato il "Primo Forum culturale mondiale", che ha visto confrontarsi diversi punti di vista. L’Università di Pechino ha ospitato la "Prima Conferenza mondiale di marxismo", che pure ha avuto una certa influenza. Negli anni a venire, dovremmo impegnarci in una maggiore cooperazione e scambi con vari forum internazionali.

Infine, occorre unire i movimenti della classe operaia e della sinistra globale e dare maggiore importanza ai movimenti internazionali formati dal Forum sociale mondiale e del Forum sociale europeo. Oltre che nel World Economic Forum supportato da neoliberisti e multinazionali, la Cina dovrebbe anche essere presente nel Forum sociale mondiale. Come grande paese socialista governato dal PCC, la Cina tende a partecipare ad alcuni forum di stampo moderato più che a quelli delle sinistre, e leader cinesi si incontrano solo con economisti neoliberali ben noti come Friedman e Lucas che pagano le visite in Cina piuttosto che tenere incontri con marxisti ed economisti di sinistra di fama internazionale. Tale orientamento accademico e politico non è appropriato; è suscettibile di essere frainteso dall’opinione pubblica in patria e all'estero e non è nemmeno conforme alle pratiche internazionali di reciproca accoglienza tra grandi potenze.

Il movimento "Occupy Wall Street", il quale ha subito una violenta repressione da parte degli Stati Uniti, è l’evento di protesta di più vasta scala e di maggiore intensità dal 1970 e presenta molte caratteristiche diverse da quelle di altri movimenti sociali. A differenza dei movimenti contro la guerra, per la tutela dell’ambiente, di movimenti rivendicativi e di altre proteste comuni che si limitano a una o poche città, il movimento "Occupy Wall Street" è ampiamente diffuso. A partire da New York, da Wall Street, l’ondata di protesta si è rapidamente in grandi città come Los Angeles, Boston e Chicago e in più di 80 paesi, tra cui i principali paesi europei, e quasi 1.000 città, sviluppandosi come un movimento sociale globale. Con proposte molto chiare, il movimento di protesta sembra puntare il dito contro le “avide” oligarchie finanziarie di Wall Street, gli effetti negativi del sistema finanziario, l'elevata disoccupazione e le deboli regolamentazioni dei governi; è un movimento che in realtà ha espresso insoddisfazione per il sistema capitalista. Indipendentemente dalle differenze ideologiche e sociali dei suoi membri, gli esponenti del movimento hanno dichiarato tutti assieme: “Rappresentiamo il 99% della popolazione totale; non possiamo più tollerare l'avidità e la corruzione del rimanente 1%”. A questo proposito, due economisti americani ed io abbiamo lavorato ad un’analisi marxista in forma di dialogo che è stata pubblicata nel Chinese Education News, mentre la rivista International Critical Thoughtha pubblicato articoli di ricerca e di commento.

In seguito alla campagna internazionale "Occupy Wall Street", il 31 marzo 2016a Place de la République a Parigi molte persone e organizzazioni progressiste francesi hanno lanciato il movimento "Night Stand". È iniziato a causa delle riforme di diritto del lavoro elaborate dai neoliberisti ed è in corso in numerose città di paesi sviluppati come Francia e Belgio. L'evento ha anche ricevuto l'attenzione dei nostri marxisti cinesi. Nei giorni a venire, dovremo rafforzare la copertura di tutti i tipi di movimenti, rafforzare la cooperazione e la partecipazione attiva.

II. Nove strategie e tattiche alle quali marxisti e la sinistra dovrebbero prestare attenzione

In primo luogo, bisogna rafforzare reciproci scambi di teorie, strategie e tattiche orientate a sinistra, alla ricerca di un terreno comune, pur in presenza di differenze, e ridurre le discussioni inutili. Dobbiamo imparare le lezioni del dibattito cino-sovietico del passato. Anche se alcuni dei problemi teorici e strategici coinvolti nel dibattito non potrebbero essere considerati privi di significato, si trattò di un dibattito su vasta scala che riguardò i movimenti comunisti internazionali, sfociando addirittura in un confronto e in una guerra tra i due maggiori partiti

comunisti e paesi socialisti di quel momento. Ciò ha comportato una spaccatura e una scissione nel movimento comunista internazionale globale e nel campo socialista. E in realtà ha fatto più male che bene. Come diretta conseguenza, i paesi imperialisti hanno approfittato di tale dibattito per combattere il movimento comunista e il marxismo. Deng Xiaoping una volta ha fatto un commento a tale proposito, sostenendo che entrambe le parti abbiano detto un bel po’ di sciocchezze in quel dibattito. Dal mio punto di vista, la Cina ha metà delle responsabilità per queste sciocchezze.

Alcuni anni fa, abbiamo osservato dei dibattiti tra il Partito comunista greco e il Partito comunista americano. La mia ricerca su questo aspetto mi suggerisce che le teorie e le scelte politiche per le quali hanno optato entrambi i partiti comunisti siano state scelte sulla base delle loro singole condizioni nazionali e situazioni di partito; esse possono coesistere per scambiare punti di vista e mettendo da parte le differenze, ma occorre prestare attenzione affinché non avvengano di nuovo cose come il dibattito cino-sovietico.

Negli ultimi anni, alcuni partiti comunisti europei non sono entusiasti delle teorie e delle politiche dei partiti di sinistra europei, che possono essere migliorate o conservate attraverso il confronto e la comunicazione. Il Partito del lavoro belga ha rifiutato di invitare il Partito comunista francese (PCF) al Forum Internazionale ritenendo che esso sia seriamente divergente dal marxismo. Di fatto, quello che il Partito del lavoro belga ha fatto rientra tra i diritti del soggetto che invita alle riunioni. Ma certamente su tale punto discussioni teoriche e confronti sono necessari. In India, Nepal, Russia e Gran Bretagna, ci sono due, tre o anche più partiti comunisti e di sinistra. Essi dovrebbero trattare l'uno con l'altro con un atteggiamento di coesistenza e cooperazione piuttosto che combattersi reciprocamente,e contrastare invece, per il loro orientamento di destra borghese, partiti come il Partito conservatore britannico, e forze moderate o centriste come il Partito laburista britannico e l’Internazionale socialista, chesono i nostri principali obiettivi con cui polemizzare.

I partiti comunisti di molti paesi criticano il sistema economico di privatizzazione o la tendenza alla privatizzazione attuata dal PCC come "capitalismo con caratteristiche cinesi". Non per questo, dobbiamo fare storie o tagliarli fuori; dovremmo essere in grado di assumere l’atteggiamento di alto profilo di “correggere gli errori eventuali e stare in guardia contro quelli nuovi”.

In secondo luogo, bisogna prendere la sinistra marxista come nucleo e unire tutte le forze di sinistra che radunate sarebbero capaci di creare un esteso fronte socialista internazionale. Ad esempio, quando si ha a che fare con la Quarta Internazionale di stampo trotzkista, solidarietà e alleanza dovrebbero essere i principali approcci. Una volta ho avuto uno scambio di opinioni su questa con i capi del Partito comunista britannico, del Partito comunista dell'India e del Partito comunista giapponese, nonché con un trotskista giapponese noto professore di storia della scienza. Questo perché la valutazione trotskista dell'Unione Sovietica è cambiata un po' dopo la disintegrazione dell'Unione Sovietica e i Paesi dell'Est e gli obiettivi finali indicati nel loro nuovo programma internazionale differiscono poco nella sostanza da quelli dei partiti comunisti e marxisti. Secondo il nuovo programma, essi valutano l'Unione Sovietica in modo più consonante con le parole usate da Trockij nel 1930, quando affermò che l'Unione Sovietica era uno "Stato

operaio deformato", col che sembrava ammettere che era ancora un paese socialista, pur mancando di una sufficiente democrazia e anche commettendo errori gravi.

Dal nostro punto di vista marxista, siamo dispiaciuti e tristi per la degenerazione dei paesi socialisti dell'Europa dell’Est e dell'Unione Sovietica in nazioni capitaliste e certamente non ne gioiamo. Il PC giapponese invece è felice di aver visto il crollo dei paesi di "egemonia sovietica", sostenendo in primo luogo che l'Unione Sovietica non è mai stata un paese socialista. Su questo ho espresso le mie idee ai leader PC giapponese: tali osservazioni sono troppo radicalizzate, soprattutto in una situazione in cui i paesi occidentali non cessano di demonizzare l'Unione Sovietica, la Cina e gli altri paesi socialisti.

Se dovessimo stilare una classifica degli individui che vissero durante la seconda guerra mondiale e l’interoXX secolo sulla base dei loro effetti negativi sulla storia umana e sul progresso della civiltà, Hitler sarebbe il primo, seguito da vicino da Gorbaciov e dall’imperatore giapponese Hirohito. In un certo senso, Gorbaciov ha creato un impatto ancora più negativo sull’avanzamento e lo sviluppo della società umana. Nel 2011 ho pubblicato un lungo articolo sulla rivista Social Science in China (numero 6) in cui ho analizzato le tre principali ragioni del drastico cambiamento dell'Unione Sovietica e ho fatto una valutazione complessiva di tutti i principali motivi riconosciuti a livello internazionale per il suo collasso. Ho concluso che la maggior parte dei punti di vista sono unilaterali o sbagliati. Le visioni errate sono indicate come segue. Il PC giapponese ritiene che l'Unione Sovietica non è mai stata un paese socialista ed è una buona notizia che abbia collassato. Tra coloro che appoggiano questo punto di vista c’è Buzglin, un mio amico professore presso il Dipartimento di economia dell'Università statale di Mosca, il quale sostiene che "il sistema stalinista avrebbe condotto inevitabilmente al capitalismo". E il professor David Coates, un famoso economista marxista americano, è anch’egli tra queste persone, con la sua tesi di "riforma incontrollata". Secondo lui, in un tentativo di riforma socialista, Gorbaciov a poco a poco ha perso il controllo degli eventi, con conseguenti drastici cambiamenti dell'Unione Sovietica e dei Paesi dell'Est. Ci sono ancora molte persone di buon animo che considerano Gorbaciov un buon uomo che intendeva aderire al marxismo eal socialismo dopo il suo arrivo al potere, ma purtroppo ha fallito. Tuttavia, questa è una dichiarazione ingenua di buona volontà. Se Krusciov era uno spericolato marxista di bassa qualità, Gorbaciov è stato il tipico membro del Partito comunista impregnato di idee socialdemocratiche.

Chavez e SamirAmin una volta dissero di voler fondare una Quinta Internazionale. Nel complesso, allo stato attuale, col socialismo nel mondo a livelli bassi e che stenta a recuperare, è utile costruire più organizzazioni politiche, strutture di ricerca e piattaforme comunicative e per i movimenti socialisti mondiali, purché siano ben gestite. Certo, questo può incontrare l'opposizione di una miriade di forze di destra, il che è assolutamente normale. Attualmente, considerando che gli Stati Uniti sono la principale potenza in grado di ostacolare la pace e lo sviluppo del mondo e di contenere la Cina, formare un fronte unito internazionale per combattere l'egemonia americana è una priorità per la Cina e per il mondo in generale. Pertanto, a mio parere, i marxisti dovrebbe essere una combinazione di "colombe" e "falchi", ed essere "colombe o falchi quando necessario" piuttosto che "struzzi" e funzionari mediocri come denunciato da Wu Jianmin; certamente, essi

non devono essere "traditori" occidentali filo-americani, che agiscono sulla base del pensiero di altri traditori.

In terzo luogo, è necessario incentivare attivamente lo sviluppo di gruppi di sinistra tra i sindacati, tra gli studenti e le organizzazioni di tutti i settori della società, stabilendo legami più stretti con quelli apertamente, riservatamente o potenzialmente di sinistra. Attualmente, il monopolio borghese di alcuni paesi spesso raggiunge i propri obiettivi di attività anti-umana e anti-comunista utilizzando organizzazioni semi-segrete o segrete come la Central Intelligence Agency degli Stati Uniti, la Free Ma sono altri mezzi visibili o occulti.

Gli esponenti della sinistra devono superare un modo di pensare tradizionale rigido e dogmatico, attivare molteplici modalità legali e legittime di lavoro politico, aiutare i sindacati, i sindacati degli studenti, le associazioni femminili e i gruppi ambientalisti in tutti i settori della società,per rimuovere gli effetti negativi prodotti dalla Internazionale Socialista e dare maggiore sostegno alle organizzazioni marxiste e ai partiti comunisti. Come è stato dimostrato sulla base dell'esperienza dei partiti comunisti di alcuni paesi nel mondo, se tra i membri del partito comunista non vi sono insegnanti nelle scuole, e soprattutto nelle università, non ci saranno possibilità minime di formare tra i giovani nuovi militanti del partito comunista e della sinistra.

In quarto luogo,molti sforzi dovrebbero essere fatti per fondare e sviluppare strutture di orientamento marxista, nazionali e globali, che coprano una vasta gamma di discipline delle scienze sociali, organizzare un gruppo di mass-media, come giornali, siti web ed editori, mettere in piedi corsi di marxismo e piattaforme sociali aperte nelle scuole e nelle università e anche tra il pubblico. Oltre ai media direttamente promossi dal Partito comunista, dobbiamo creare diversi tipi di media al livello accademico o di massa (usando la televisione via cavo, i telefoni cellulari e altri nuovi media) attraverso ONG e gruppi no-profit. Anche se ci sono solo circa 2.000 membri del Partito comunista in Gran Bretagna, la rivista The Morning Star giunge a 20.000 copie, il che mostra che è possibile sviluppare positivamente il supporto popolare. Ad esempio, l'Istituto belga del marxismo assume solo 10 ricercatori a tempo pieno, ma è altamente efficiente e influente nell'organizzazione di riviste.

In quinto luogo, bisogna ricercare e promuovere i marxisti convinti e innovativi in tutti i tipi di movimenti di sinistra in modo da renderli leaders capaci di fornire una guida critica. Sono a favore della risposta del presidente del Partito comunista dell'India (marxista) alle mie domande del 2011, il quale ha sottolineato che uno dei punti di divisione tra il loro partito e il Partito comunista indiano è questo: se la leadership nella fase di rivoluzione democratica debba o meno essere nelle mani del Partito comunista. Lenin discusse con i menscevichi questa questione e scrisse un saggio intitolato Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica; questo fu un presupposto importante per il successo della Rivoluzione d'Ottobre. Già negli anni Venti e Trenta all'interno del Partito comunista cinese le discussioni tra Mao Zedong, Chen Duxiu e Wang Ming riguardavano in realtà la questione della leadership nella rivoluzione democratica. Un’importante causa organizzativa del crollo del Partito comunista dell'Unione Sovietica è legata al fatto che esso ha promosso un gran numero di quadri anti-marxisti. Alcuni profondi problemi esistenti oggi in Cina sono strettamente associati a questo punto, ossia se la leadership sia controllata da marxisti.

Sesto, bisogna influenzare positivamente, partecipando e guidandoli, i movimenti di sinistra nazionali e internazionali e le iniziative progressiste in una serie di modi, sia palesi che riservati. La chiave qui è di partecipare e guidare questi movimenti, altrimenti essi difficilmente potranno diventare movimenti durevoli e progressisti. Dopo la fondazione del Partito comunista cinese, tutti i movimenti progressisti sono stati sostenuti e guidati dal PCC, sia in modo aperto che coperto. Ora, se vogliamo sperare di condurre ampiamente per tempo i movimenti come "Occupy Wall Street" e la "Night Stand" in un gran numero di paesi, è fondamentale rendere studenti marxisti, militanti del Partito comunista e della sinistra,attivamente partecipi di tali campagne e che essi ne diventino la spina dorsale, piuttosto che perdere occasioni. La partecipazione attiva e l'organizzazione di tali movimenti da parte dei trotskisti britannici sono comprensibili; mentre è difficile capire perché il Partito comunista del Regno Unito non vi partecipi.

Settimo, i partiti comunisti e le altre organizzazioni di sinistra dovrebbero avviare e far crescere imprese redditizie, ovviamente a condizione di non violare la legge, al fine di fornire, direttamente o indirettamente un sostegno finanziario per le varie attività. Ad esempio, in Giappone il Partito comunista avvia imprese in prima persona. Dal momento che è difficile realizzare molte attività necessarie facendo affidamento unicamente su quote associative, alla Marx Memorial Library a Londra potrebbe essere consentito anche di raccogliere fondi in tutto il mondo. Nel frattempo, essa potrebbe produrre oggetti commemorativi e promozionali per espandere la sua portata e influenza internazionale come ha fatto il museo Casa di Marxa Treviri, gestito dalle Fondazioni del Partito socialdemocratico tedesco.

Ottavo, i paesi socialisti devono dare la massima priorità a tutto il movimento comunista internazionale e affrontare con calma tutti i tipi di conflitti e controversie tra i paesi socialisti. Non è necessario emulare le azioni passate della Cina, che si alleò con gli Stati Uniti contro l'Unione Sovietica. Ora ci sono solo cinque paesi socialisti dove i partiti comunisti sono al governo da tempo. Sia la Cina che il Vietnam dovrebbero avviare questo processo in considerazione della situazione generale. Il Vietnam non dovrebbe adottare strategie e politiche che contrastino la Cina spalleggiando l'America per evitare che il potere dell'egemonia capitalistica semini discordia. Entrambe le parti dovrebbero giungere a un pacchetto di soluzioni per risolvere le controversie riguardanti le isole del Mar Cinese Meridionale. Per quanto riguarda la Corea del Nord, non dobbiamo criticarla per il fatto che continui a perseguire il suo modello socialista pianificato dato che diversi modelli socialisti possono essere ulteriormente sperimentati e appresi reciprocamente (in ogni caso, la chiave per risolvere le difficoltà della penisola coreana è quella di abbandonare i doppi standard e le esercitazioni militari su larga scala in termini di sviluppo di armi nucleari da parte americana e di firmare un patto di pace sul ritiro completo tra gli Stati Uniti e Corea del Nord, o tra sei parti, che dovrebbe essere concluso con un accordo a non impegnarsi nella produzione di armi nucleari da parte della Corea del Nord).

Infine, bisogna fare più sforzi per pubblicizzare le pratiche tipiche di sinistra dei vari paesi in modo che la gente possa capire i valori della sinistra e la possibilità di attuare il socialismo scientifico. A tale proposito vorrei citare tre casi:

1. Il “villaggio Yamagishi” in Giappone. Ha organizzazioni economiche collettive comuniste presenti in sette paesi e migliaia di persone che vivono e lavorano lì. Non si basa su alcuna religione, né dichiara alcuna relazione con l'ideologia socialista. Tuttavia, questo non influisce sulla natura delle sue organizzazioni economiche socialiste e comuniste. Il PC giapponese dovrebbe unirsi ad esso invece di indulgere nell’incomprensione.

2. "Mondragon" in Spagna. Ho visitato questa grande cooperativa quattro anni fa. In realtà, si tratta di una società o impresa multinazionale di tipo cooperativo con le migliori prospettive di gestione e sviluppo. Se Marx fosse vivo, l’avrebbe di sicuro fortemente raccomandata perché nel Capitale le cooperative sono acclamate come "abbandono positivo " del capitalismo, mentre le società per azioni privatizzate vengono ritenute"abbandono negativo" del capitalismo.

3.La Bielorussia. Al modello socialista di mercato bielorusso dovrebbe essere prestata attenzione. Dopo 20 anni di riforma, la proprietà dello Stato ammonta a oltre il 70% del settore industriale in Bielorussia, mentre solo al 20% circa in Cina. Questo verifica un mio punto di vista di circa una dozzina di anni fa: l'economia di mercato socialista con caratteristiche cinesi è solo una modalità del sistema economico di mercato socialista (Vietnam e Laos somigliano alla Cina in questo senso), che non esclude la presenza di altre modalità; la Bielorussia è ora un'altra variante. Il superamento della percentuale di proprietà privata su quella pubblica in Cina ha portato ad una quantità di problemi in campo economico, politico, sociale e ideologico. Tuttavia, se si pensasse che il socialismo mondiale dipendesse in gran parte da alcune storie di successo disperse o frammentate di per sé efficaci contro le organizzazioni e le alleanze internazionali, la cosa sembrerebbe ridicola.

III. Una scuola marxista innovativa può sostenere la prosperità del socialismo scientifico in patria e all'estero

Allo stato attuale, le possibilità di sviluppo economico e politico e le tendenze della Cina socialista sono strettamente legate alla ideologia e teoria. Queste ultime si riflettono oggi nelle seguenti principali sette tendenze sociali di pensiero: neoliberismo, socialismo democratico, nuova sinistra, marxismo eclettico, marxismo tradizionale, “revivalismo” e marxismo innovativo. Le tendenze del pensiero qui sono intese come concetto neutro e il marxismo teorico può essere considerato uno di esse. In termini di fondamenti e teorie relative allo sviluppo sociale, la scuola del marxismo innovativo e il Comitato centrale del PCC sono molto in sintonia tra di loro.

Prima di tutto, per quanto riguarda l’ ideologia guida, secondo il marxismo innovativo la Cina deve rispettare il ruolo guida del marxismo-leninismo e del marxismo-leninismo cinese. Naturalmente i paesi socialisti variano a seconda delle ideologie guida. Il Vietnam abbraccia il marxismo-leninismo e il pensiero di Ho Chi Minh come suo orientamento; Cuba il marxismo-leninismo e il pensiero José Martí; in Corea del Nord,le idee JuchediKim Il Sung vengono adottate come linee guida. Dal mio punto di vista, il fatto che l'ideologia guida e la guida per l'azione non dovrebbero essere separate dovrebbe definire il marxismo-leninismo e la sua teoria del marxismo-leninismo in Cina in modo unitario (il nome completo sarebbe marxismo leninismo, pensiero di Mao Zedong, teoria di Deng Xiaoping, l’importante teoria delle "Tre Rappresentanze", la prospettiva scientifica sullo sviluppo, l’elaborazione sul governo dello Stato e su come intendere la politica; o più semplicemente, il

marxismo-leninismo, il pensiero di Mao Zedong, e le teorie socialiste con caratteristiche cinesi, che si compongono delle teorie di Deng Xiaoping, Jiang Zemin, HuJintao e XiJinping). La forma breve servirà come pensiero guida della Cina e guida per l'azione; forme lunghe non sono raccomandate visto che possono suscitare reazioni negative o anche un senso di ridicolo in alcuni cittadini stranieri.

In secondo luogo, alla luce del sistema politico, il marxismo innovativo ritiene che la Cina deve rispettare la direzione del partito della classe operaia. Dobbiamo anche insistere sulla natura del Partito comunista come avanguardia della classe operaia e sul principio del centralismo democratico e sostenere la leadership del Partito comunista per la causa del socialismo.

Allo stato attuale, la Cina pratica una cooperazione multipartitica e consultazioni politiche sotto la guida del Partito comunista, mentre il centralismo democratico è assieme il principio organizzativo fondamentale e il sistema organizzativo del Partito comunista e del Paese che esso guida, ma anche una norma che regola le relazioni dentro e fuori il partito. Ulteriori sforzi devono essere compiuti per portare avanti le riforme politiche relative al carattere e alla direzione socialista del processo, per razionalizzare il rapporto tra i partiti politici, il Congresso del popolo e il governo, e dare piena attuazione alla democrazia di partito e alla democrazia popolare. Il sistema giuridico socialista con caratteristiche cinesi non deve copiare il sistema giuridico capitalistico - occidentale; dovrebbe invece veramente innovare e realizzare il concetto di democrazia popolare centrata sulle persone, in cui il popolo stesso costituisce la parte suprema, piuttosto che un sistema di democrazia occidentale che si caratterizza come una democrazia del denaro, oligarchica e basata su alcune grandi famiglie.

In terzo luogo, dal punto di vista del sistema economico, il marxismo innovativo sostiene che la Cina deve mantenere la posizione dominante della proprietà pubblica dei mezzi di produzione in modo da formare la superiorità sia in qualità e quantità totale delle attività e beni produttivi. La differenza sostanziale tra il socialismo e il capitalismo alla luce del sistema economico di base si trova nella struttura della proprietà sociale dei mezzi di produzione; nel primo, la proprietà pubblica dei mezzi di produzione svolge un ruolo di primo piano, dominante sia nella qualità e quantità e guidato dalle aziende di Stato, sulla cui base implementiamo un adeguamento strategico per far avanzare entrambi i settori, pubblico e privato, dell'economia, invece di promuovere i settori privati limitando quelli pubblici. Questo comporta un equilibrio nella crescita del Paese, arricchisce le persone e costruisce un socialismo con caratteristiche cinesi. Sia i settori pubblici sia quelli non pubblici dell'economia agiscono come fondamenti economici o elementi economici della società socialista ai suoi primi stadi. Nel contempo, i settori pubblici dell'economia sono il fondamento economico della sovrastruttura economica o socialista. Allo stato attuale, dobbiamo concentrarci sullo sviluppo della proprietà mista con capitale pubblico, affrontare correttamente il ruolo decisivo che il mercato svolge nell'allocazione delle risorse e l’importante ruolo dello Stato (Congresso dei deputati del popolo e governo). Il Presidente Zhang Dejiang ha chiarito nella relazione consegnata durante le due sessioni di quest'anno che dobbiamo

concentrarci sul ruolo del mercato e su quello del governo piuttosto che solo su quello del mercato.

Infine, per quanto riguarda gli obiettivi, il marxismo innovativo sostiene che la Cina deve rispettare l’emancipazione e lo sviluppo delle forze produttive, eliminando lo sfruttamento e la polarizzazione sociale, realizzando l'essenza socialista e il principio della prosperità collettiva e della condivisione che sono i due pilastri di base della proprietà pubblica e della distribuzione del lavoro; e sulla base del socialismo con la massima crescita della produttività, in ultima analisi, lavorare per realizzare il comunismo globale in cui siano superati la proprietà privata (dei mezzi di produzione), le merci, le classi, lo Stato e la guerra.

Il socialismo con caratteristiche cinesi non è un tipo di sistema sociale fondamentalmente diverso dal socialismo scientifico; né è un cosiddetto socialismo originato dalla società feudale (pre-capitalismo). Si tratta di un lascito e di uno sviluppo delle teorie del socialismo scientifico ed è una modalità o uno stadio di sviluppo del socialismo scientifico stesso. La fase primaria del socialismo è destinata a evolvere verso fasi intermedie e avanzate in cui le forze produttive e rapporti di produzione saranno in parte sottoposti ad un cambiamento qualitativo e potrà giungere a una società comunista che si svilupperà e migliorerà ulteriormente. Questo è un processo di evoluzione storica e innovazione istituzionale piuttosto lungo. A partire dal XVIII Comitato centrale,il Segretario generale del PCC ,Xi Jinping, ha più volte sottolineato la fede socialista con caratteristiche cinesi e gli ideali comunisti, che sono della massima importanza e rappresentano un taglio netto coi mali attuali.

Il rappresentante principale della scuola del marxismo innovativo è Liu Guoguang, consigliere speciale, membro ed ex vice presidente della CASS e famoso economista, e io stesso sono tra i suoi esponenti. Studies on Marxism, Journal of Economics of Shanghai School, RedFlagManuscript, Journal of Ideological and Theoretical Education,Journalof Managemente altre riviste cinesi sono tutte promotrici e rappresentative del marxismo innovativo; in particolare, la rivista Digest of Marxism riflette prospettive teoriche e politiche della scuola del marxismo innovativo in maniera sintetica.

Sia io che Liu Guoguang sosteniamo che la ricerca e l'innovazione teorica e la stessa dinamica politica in Cina dovrebbero in definitiva essere incentrate sulle caratteristiche nazionali della Cina, ma al contempo siamo anche tenuti ad avere una buona comprensione dello "stato del mondo". Che si tratti di riforme o dell’avvio o dello sviluppo di importanti iniziative, dobbiamo prima familiarizzare con circostanze globali e nazionali e avere un’analisi precisa prima di attuare progetti pilota o di implementarli. Se questo ordine è invertito, per esempio, attuando incerti progetti di lavoro prima, o svolgendo cosiddetti processi di prova poiché è richiesto da autorità superiori, è probabile che si finisca in una situazione caotica e non pianificata, lasciando una grande mole di conseguenze fastidiose e molti inconvenienti man mano che si va avanti.

In conclusione, la scuola del marxismo innovativo dovrebbe, sulla base del principio “costruire su teorie cinesi, con la teoria marxista come corpo principale e l'apprendimento delle teorie

occidentali adatte all’uso”, condurre una "innovazione globale", imparando dallo stato del mondo, partendo dalle circostanze nazionali e dando priorità alle condizioni del nostro partito.

Successivamente, approfondiremo ulteriormente le teorie e punti strategici della Scuola del marxismo innovativo. Crediamo fortemente che dobbiamo concentrarci sullo sviluppo e il miglioramento del sistema di governance e del sistema istituzionale nel portare avanti il nostro socialismo e la sua direzione scientifica nel XXI secolo.

In primo luogo, nella costruzione del sistema economico, dobbiamo continuare a migliorare il "sistema economico quattro in uno", che è costituito da un sistema plurale di forme proprietà dominato dalla proprietà pubblica, da un sistema di distribuzione dei fattori economici dominato dal lavoro, da un sistema di mercato multi strutturato guidato dallo Stato e infine da un sistema di apertura multidimensionale auto-orientato. Tra l’altro, il socialismo con caratteristiche cinesi pone un accento particolare sul sistema economico di base in cui agisce la proprietà pubblica come una parte principale e diverse forme di proprietà si sviluppano fianco a fianco. Una differenza decisiva tra il socialismo e il capitalismo in termini di struttura di base del sistema economico è la proprietà sociale dei mezzi di produzione (su cui ha riflettuto Deng Xiaoping). La Cina prende come suo fondamento la proprietà pubblica dei mezzi di produzione che domina sia in qualità che quantità, ha l'economia statale che svolge un ruolo di primo piano, sviluppa attivamente l'economia collettiva e l'economia cooperativa e promuove settori non pubblici dell'economia in maniera moderata; questo è di vitale importanza per uno sviluppo sociale ed economico rapido e sano e la crescita del livello di vita delle persone. Questo costituisce inoltre la base economica socialistadella sovrastruttura politica e del ruolo dirigente del Partito comunista (Jiang Zemin, XiJinping).

A causa di forze produttive in Cina ancora in via di sviluppo, in questa fase è impossibile ottenere una proprietà pubblica completa, ma dobbiamo mantenere la posizione dominante del settore pubblico dell'economia, mentre sviluppiamo il settore privato. Solo mettendo la proprietà pubblica in una posizione centrale in un contesto di economia di mercato possiamo veramente migliorare la crescita e il sistema della redistribuzione della ricchezza dominato dalla distribuzione secondo il lavoro, sulla base del quale ci sforziamo di realizzare la prosperità comune e la condivisione, l’equità e la giustizia. Solo in questo modo siamo in grado di mettere realmente in pratica una prospettiva scientifica di sviluppo orientata verso le persone o teorie dello sviluppo incentrate sulle persone e siamo in grado di fornire la base economica per la democrazia popolare e raggiungere rapidamente una modernizzazione socialista che classifichi la Cina tra i paesi sviluppati.

In secondo luogo, in termini di costruzione del sistema politico, dobbiamo migliorare costantemente il "sistema politico cinque in uno", comprendente il Congresso del popolo, il sistema di cooperazione e consultazioni politiche multi partitiche sotto la guida del Partito comunista, il sistema di autonomia etnica regionale, il criterio "un paese due sistemi", e infine il sistema di autogoverno delle comunità. Inoltre, la Cina deve anche sostenere l'unità organica della leadership di partito, l’idea del popolo come padrone del proprio paese e il governo dalla legge, promuovendo positivamente auto-innovazione e sviluppo del sistema politico socialista e

intensificando la dittatura democratica del popolo. Tra l’altro, dobbiamo salvaguardare la natura del PCC come avanguardia della classe operaia,perfezionare il principio del centralismo democratico, migliorare una serie di relazioni significative come quelle tra i partiti politici, il Congresso dei deputati del popolo e il governo, così come l'equilibrio di poteri (per esempio, superando fenomeni di sostituzione del partito al governo e del governo al Congresso), in modo da riuscire a realizzare una leadership ordinata ed efficiente del PCC in conformità con la Costituzione.

Di fronte alla nuova rivoluzione scientifica e tecnologica, la classe operaia rimane la rappresentante delle esigenze di sviluppo delle forze produttive avanzate e dei rapporti di produzione principali e continua ad assumere la missione storica di rovesciare il capitalismo e di costruire socialismo e comunismo. In un nuovo scenario, con la comparsa e la coesistenza di più classi sociali, il PCC deve mantenere la natura di avanguardia della classe operaia e dipendere interamente dalla classe operaia. Allo stato attuale, la Cina pratica il sistema di cooperazione e consultazioni politiche multi partitiche sotto la guida del PCC, mentre un centralismo democratico scientifico è uno dei principi organizzativi fondamentali e organizzativi del PCC e del Paese che esso governa, oltre che una norma politica per gestire correttamente i rapporti dentro e fuori il partito.

In terzo luogo, alla luce dello sviluppo del sistema culturale, dobbiamo incentivare costantemente il "sistema culturale cinque in uno", che comprende il sistema di trasmissione culturale ed il sistema di valori fondamentali socialisti come elemento principale e al tempo stesso consente una diversità culturale, il sistema di diritti di proprietà di beni culturali in cui gli atti di proprietà pubblica sono il pilastro ma a fianco ad essi sono promosse diverse forme di proprietà, il sistema delle imprese e delle istituzioni pubbliche in cui l'industria culturale è forma principale e la cultura senza scopo di lucro prospera, il sistema dell’apertura culturale che rende la cultura nazionale forma principale e consente di assorbire benefiche culture straniere, e infine il sistema di regolazione culturale che ha come pilastro le responsabilità del partito e del governo e incoraggia il mercato a svolgere un ruolo attivo.

Tra gli altri, il socialismo con caratteristiche cinesi promuoverà il sistema di valori fondamentali socialisti con il marxismo come la sua anima così come i valori più importanti in modo da guidare e condurre i diversi tipi di tendenze sociali, di pensiero e di pratiche sociali al fine di stimolare la prosperità culturale. Come visione del mondo e metodologia scientifica, il marxismo è una base teorica dei movimenti socialisti e dovrebbe occupare una posizione di guida nelle pratiche del socialismo con caratteristiche cinesi. Per avere il marxismo-leninismo e la sua teoria del marxismo-leninismo in Cina come guida, è necessario integrare i principi generali del marxismo-leninismo con la realtà attuale della Cina, migliorare le teorie socialiste con caratteristiche cinesi, promuovere pratiche socialiste con caratteristiche cinesi, studiare nuove situazioni, provare nuove esperienze e affrontare nuovi problemi. Il marxismo cinese e internazionale che si mantiene al passo con i tempi è un sistema aperto che si sviluppa di pari passo con i progressi scientifici e le nuove pratiche sociali; è dotato di potente e costante vitalità accademica ed è in grado di spiegare

e rapportarsi con tutti i maggiori problemi della realtà attuale in patria e all'estero in modo scientifico.

Infine, in termini di sviluppo del sistema sociale dobbiamo migliorare continuamente il “sistema di gestione sociale cinque in - uno". Esso è composto: dal sistema di gestione sociale caratterizzato dalla direzione del Comitato centrale del PCC; dal governo come responsabile del coordinamento sociale e della partecipazione pubblica; dal sistema dei servizi pubblici di base che ha come pietra angolare la maggiore uguaglianza possibile e la combinazione di aree urbane e rurali; dal sistema della sicurezza sociale che è multi-livello e sostenibile ed è caratterizzato da un’ampia copertura e garantisce le esigenze fondamentali delle persone; dal sistema di tutela dei diritti e degli interessi della collettività che si caratterizza per il dominio dello Stato, il coordinamento multipartitico e sforzi individuali per tutelare i diritti; e infine dal sistema di gestione della sicurezza pubblica che assicura pari priorità a prevenzione e risposte alle emergenze, con una sinergia del pubblico e del mercato, la posizione dominante del governo e la partecipazione pubblica.

Inoltre, dovremmo fare sforzi concertati per costruire e condividere una società armoniosa orientata alle persone. Dovremmo anche innovare il sistema di gestione sociale. Dobbiamo, guidati dal Partito, incoraggiare una spinta positiva per combinare i meccanismi di regolamentazione del governo con il coordinamento sociale, rendere le funzioni di amministrazione del governo complementari con l’autonomia sociale e fare in modo che forze di amministrazione governative interagiscano coi fenomeni di assestamento sociale, al fine di formare un meccanismo scientifico ed efficace di coordinamento di interessi, espressione di richieste, mediazione di dispute e tutela dei diritti.

Bisognerebbe considerare che,mentre il sistema di democrazia socialista liberale è suscettibile essere migliorato,molte persone che non comprendono il socialismo e sono insoddisfatte della situazione cinese attuale equiparano capitalismo e democrazia liberale e confondono il socialismo con la dittatura. Se ci si limita a criticare l'ipocrisia del neoliberismo, della socialdemocrazia o del socialismo democratico senza migliorare il nostro sistema di democrazia socialista liberale, non riusciremo mai a sradicare il terreno su cui cresce nella nostra terra la democrazia liberale occidentale. Uno dei mezzi per superare la democrazia liberale occidentale è quello di fare in modo che la costruzione del socialismo in Cina contribuisca ancora di più alla libertà delle persone e alla democrazia, all'equità sociale e alla giustizia,alla crescita del paese e al maggiore benessere delle persone di qualsiasi altro paese. Questo dimostrerebbe che il socialismo è superiore al capitalismo.

Oggi, con il “sogno Cinese” come visione strategica e il sistema di governo a modernizzazione socialista come nostro obiettivo strategico, stiamo facendo sforzi su fronti strategici definibili "sette – in -uno", vale a dire l'economia, la politica (tra cui la costruzione del partito), la cultura, la società, l’ecologia, l’elemento militare e la diplomazia, seguendo la disposizione strategica dei "quattro obiettivi generali" e prendendo cinque concetti di sviluppo come nostro pensiero strategico; nelle nuove condizioni in cui perseguiamo uno Stato che governa e una politica che agisce a tutto tondo, siamo pienamente qualificati e capaci di fare questo. Alla luce dello scenario economico da solo la nostra nuova normalità economica socialista non andrà mai incontro a un

"atterraggio duro" a differenza della nuova normalità del dilemma economico occidentale, che è superfluo definire "collasso". Ma se dovessimo seguire i passi di riforma di socialismo democratico in stile Gorbaciov e di riforma neoliberista di Eltsin, ci sarebbero enormi disastri per il paese e la gente. Non dobbiamo ripetere lo stesso sbaglio di commettere errori che sovvertano il sistema.

Infine, va sottolineato che se il marxismo innovativo della scuola cinese diventasse egemone nella comunità accademica, esso determinerebbe la direzione e il destino del socialista cinese nel XXI secolo insieme agli stessi dirigenti politici.

(L'autore è tra i primi membri del Dipartimento accademico dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, membro del Presidium del Dipartimento accademico e direttore del Dipartimento accademico di studi marxisti, direttore del Centro di ricerca per lo sviluppo economico e sociale, presidente dell’Associazione mondiale di economia politica, presidente dell'Associazione cinese di ricerca sulle teorie economiche straniere, curatore della riviste internazionali trimestrali International Critical Thought e Review of World Political Economy)

NON C’E SINISTRA NELLA GABBIA DELL’EURO di Stefano Fassina*

parlamentare Sinistra Italiana

(articolo del 17 luglio 2015, pubblicato subito dopo la capitolazione del governo greco ai diktat imposti dalla Troika. Per l'attualità del contenuto generale pubblichiamo con l'autorizzazione dell'Autore)

Sulla bruciante vicenda greca, partiamo dai contenuti dello «Statement» dell’Eurosummit del 12 luglio scorso, prima di fare valutazioni politiche. È impossibile nasconderne l’insostenibilità econo-mica e di finanza pubblica. Le misure imposte sono brutalmente recessive, oltre che regressive sul piano sociale, nonostante gli aggiustamenti conquistati dalla delegazione greca a Bruxelles. Gli interventi di compensazione macroeconomica sostanzialmente inesistenti. I finanziamenti previsti per il salvataggio sono dedicati alla ricapitalizzazione delle banche e al pagamento dei debiti verso Bce, Fmi e creditori privati.

Nulla va alla spesa in conto capitale. Mentre la credibilità della Commissione europea a aiutare il governo greco a mobilitare in 3–5 anni fino a 35 miliardi di euro per investimenti va pesata in rela-zione all’incapacità di reperire le risorse minime per il Piano Junker. Infine, la promessa di valutare

la sostenibilità del debito pubblico apre una prospettiva comunque priva di ricadute reali fino al 2023, termine del grace period concesso dagli Stati europei sui rispettivi crediti.

Quali lezioni trarre dalla parabola greca? Alexis Tsipras, Syriza e il popolo greco hanno il merito storico, innegabile, di aver strappato il velo della retorica europeista e della oggettività tecnica steso a coprire le dinamiche nell’eurozona. Ora si vede la politica di potenza e il conflitto sociale tra aristocrazia finanziaria e classi medie: la Germania, incapace di egemonia, domina l’eurozona e porta avanti un ordine economico funzionale al suo interesse nazionale e agli interessi della grande finanza.

In tale contesto, i punti da affrontare sono due. Il primo: il mercantilismo liberista dettato e imper-niato su Berlino è insostenibile. La svalutazione del lavoro, in alternativa alla svalutazione della moneta nazionale, come unica strada per aggiustamenti “reali” determina cronica insufficienza di domanda aggregata, elevata e persistente disoccupazione, deflazione e rigonfiamento dei debiti pubblici. In tale quadro, l’euro esige, oltre i confini dello Stato-nazione dominante, lo svuotamento della democrazia e la politica come amministrazione per conto terzi e intrattenimento.

Tale quadro è reversibile? Ecco il secondo punto. È difficile rispondere sì. Purtroppo, le necessarie correzioni di rotta per rendere sostenibile l’euro appaiono impraticabili per ragioni culturali, stori-che e politiche. Le opinioni pubbliche nazionali hanno posizioni contrapposte, allontanate ancor di più dall’agenda imposta dopo il 2008. Le posizioni prevalenti nel popolo tedesco sono un fatto. In Germania, come ovunque, i principi democratici rilevano nell’unica dimensione politica rilevante: lo Stato nazione. Dai primi due punti di analisi deriva una agra verità: nella gabbia liberista dell’euro, la sinistra, intesa come forza impegnata per la dignità e la soggettività politica del lavoro e per la cittadinanza sociale come veicolo di democrazia effettiva, perde senso e funzione storica. È morta. La margina-lità o la connivenza dei partiti della famiglia socialista europea sono manifeste. Continuare a invo-care gli «Stati Uniti d’Europa» o la «riscrittura pro-labour» dei Trattati è un esercizio astratto, vet-tore di autoreferenzialità e di allontanamento dal popolo. Che fare? Siamo a un bivio storico. Da una parte, la strada della continuità vincolata all’euro, ossia della rassegnazione alla fine delle democrazia delle classi medie oppure dell’illusione di «svolte-buone»: un equilibrio precario di sottooccupazione e di rabbia sociale, minacciato da rischi eleva-tissimi di rottura. Dall’altra, il superamento concordato, senza atti unilaterali, della moneta unica e del connesso assetto istituzionale, innanzitutto per il recupero dell’accountability democratica della politica monetaria: un percorso impervio, incerto, dalle conseguenze dolorose almeno nel periodo iniziale.

La scelta è drammatica. Fare l’euro è stato un errore di prospettiva politica. Siamo stati ingenui o, peggio, inconsapevoli degli effetti di marginalizzazione della politica implicati nei Trattati. Oggi la strada della continuità è opzione esplicita dei Partiti della Nazione o delle grandi coalizioni a guida conservatrice. È anche percorsa involontariamente e contraddittoriamente da chi in Italia si mobi-lita contro il Jobs Act ma giustifica, in nome del «no Grexit», l’attuazione dell’Agenda Monti in ver-sione esiziale a Atene. La strada della discontinuità può essere l’unica per tentare di costruire una

forza politica in grado di rianimare la Costituzione della «Repubblica democratica, fondata sul lavoro». La sconfitta subita dal Governo Tsipras, e da noi a suo sostegno, dovrebbe cancellare l’illusione dell’inversione di rotta lungo la strada della continuità. Il tenace attaccamento all’illusione dovrebbe almeno sconsigliare avventure politiche oltre il Pd.

TRE GRANDI QUESTIONI SULLA SCENA MONDIALE

di Antonino Galloni* *economista Almeno tre sono le grandi questioni presenti sul tappeto della scena mondiale, europea e nazionale. La prima é che dopo gli anni '60 - quando l'umanità aveva conseguito il superamento dei vincoli tecnici e materiali della scarsità - il livello di consapevolezza degli Stati, delle imprese, delle banche, dei sindacati, dei partiti non si é evoluto al passo delle grandi potenzialità produttive e tecnologiche che l'umanità stessa aveva raggiunto. Ciò ha determinato la chiusura della grande finestra che già negli anni '70 si era aperta verso il superamento dell'economia capitalistica (cioè prioritariamente orientata al profitto ed alla valorizzazione del denaro); conseguentemente, le forze della conservazione ripreso vigore in nome del ritorno al liberismo ed alla onnipotenza del mercato, hanno distrutto le basi della solidarietà civile nazionale ed internazionale inaugurando un trentacinquennio da incubo, comprendente una lunghissima crisi: solo in seconda battuta - come conseguenze - definita economica e finanziaria. In realtà, più politica (quando la politica stessa ha lasciato il posto primario alla dittatura di un' economia tanto insostenibile quanto contraddittoria) e, appunto dei livelli di consapevolezza: gli Stati hanno abbandonato la loro funzione di tutela delle fasce più deboli della popolazione per ergersi nuovamente ad arbitri della regolamentazione delle ragioni della forza; le banche non hanno più esercitato una funzione di creazione del credito a favore dei soggetti che detenevano sufficiente progettualità economica; le imprese hanno ottenuto la continua riduzione del costo assoluto del lavoro che ha frenato un' adeguata crescita della domanda interna (premessa allo sviluppo delle economie di scala e della riduzione dei costi per unità di prodotto); i sindacati hanno abbandonato - con le buone o con le cattive - la via maestra della difesa dei salari per accettare il devastante scambio tra occupazione e flessibilità che ha trasformato quest’ultima da vincolo da rispettare ad obiettivo da massimizzare e, quindi, in precarizzazione sempre più selvaggia; la politica ha accettato che le presunte necessità dell' economia dovessero prevalere sopra gli interessi generali di tutta la popolazione.

La seconda riguarda il superamento dell'attuale modello capitalistico ultrafinanziario (vuol dire che l'obiettivo non é più tanto quello finanziario della valorizzazione dei titoli ma la massimizzazione della loro emissione che oggi é pari a 54 volte il PIL mondiale); dopo il 2008 collateralizzato: infatti, il sistema si basa sull'acquisto dei titoli tossici (il collaterale) da parte delle Banche Centrali contro l'emissione o la autorizzazione ad emettere illimitatamente mezzi monetari a interessi zero o, addirittura, meno e la sottomissione (accorpamenti, chiusure, commissariamenti, ecc.) delle banche universali che mischiano finanza speculativa e credito. Di tale evidente eccesso di liquidità niente arriva all'economia reale perché chi domanda moneta – compresi gli Stati indeboliti dalla perdita di sovranità - ha rating sbagliato e chi ha rating giusto non la domanda (visto che ci sono deflazione e crisi e scarse prospettive di profitto dalle attività reali). L'ultima spiaggia per questo sistema sarà la helicoptermoney ovvero forme di reddito di cittadinanza slegate dalle attività produttive. Se fossero connesse ad un rilancio occupazionale dove la produttività per addetto é bassa, ma la domanda sociale di servizi intensa, si negherebbe il fondamento del capitalismo stesso ovvero la sua valorizzazione. Il sistema continuerà finché potrà produrre moneta elettronica a costo zero, ma senza garantire né il risparmio, né il lavoro, né le speranze delle presenti e future generazioni. Benché sia possibile ipotizzare vie di uscita da questo sistema (ritorno ad un'economia espansiva voluta da Cina, Russia, India, la parte pensante degli USA e altri; superamento del capitalismo stesso), rimane la sottoquestione di chi debba gestire la transizione: solo e unicamente forze e governi affidabili per chi vuole completare il superamento della democrazia, del welfare universale e dei diritti. La sottoquestione appare particolarmente scabrosa in Paesi come l'Italia dove i ceti produttivi ancora non si sono del tutto piegati alla finanza e dove esistono ancora ingenti risorse da predare. L'Italia é l'unico Paese della stessa Europa dove esistano 650.000 persone con un capitale mobiliare disponibile superiore ai 500.000 euro (dati "Private Banking"); e altri 6 milioni con un capitale mobiliare oltre i 50.000 euro. Ciò fa supporre che il “bail in” sia stato inventato per questi target tutti italiani e spiega, al proposito, il malcelato disagio di Renzi e Visco. Ma sarà Renzi a guidare la transizione italiana o, invece, in nome della difesa dell' euro, dell' Europa e di un reddito di cittadinanza funzionale all'aggravarsi della perdita di sovranità dei cittadini stessi sarà un' altra forza emergente? Non sarà la destra xenofoba, non sarà il neocentrismo berlusconiano ma l'emergente movimento 5 stelle se non saprà ritrovare qualcosa di grande al suo interno. Renzi vuole giocare un' ultima carta col referendum costituzionale; ma anche in caso di vittoria dei Sì la sua sorte sarebbe segnata se chi comanda a livello europeo ed internazionale dovesse intravvedere qualche pericoloso disallineamento nei propositi e nelle dichiarazioni dell' attuale leader. D’altra parte la guida della transizione non é un ostacolo alla transizione (che potrebbe anche essere determinata dai popoli che dialogano tra loro nel rispetto degli interessi generali e di tutti): quindi, su temi che stanno diventando strategici - come il reddito di cittadinanza - occorrerà compiere ogni tipo di sforzo nella prospettiva di forme di superamento del capitalismo che stanno già cominciando a maturare. La terza grande questione riguarda gli USA o, più esattamente, la loro egemonia con le sue conseguenze. L'ordine mondiale dovrebbe essere fallito per ammissione del suo più illustre stratega, Henry Kissinger, che, nel suo ultimo libro - Mondial Order appunto - lo dichiara con disarmante schiettezza: abbiamo devastato popoli e Paesi per disarticolare gli Stati nazionali, ma non ci siamo riusciti; il mondo futuro non sarà a piena guida USA, anzi non si sa cosa sarà, forse emergeranno equilibri regionali, forse no.

In realtà Cina, Russia e India (e non solo) hanno scombinato i piani neocon che credevano di aver trovato nella caduta del muro di Berlino - con le sue conseguenze di breve e medio termine - la prova della direzione che la Storia stava prendendo. Invece, proprio la globalizzazione doveva produrre un tiro mancino alla bieca strategia neocon: proprio quei Paesi che vennero indicati - all'inizio degli anni '90 - come lo strumento di riequilibrio alla deflazione salariale nei Paesi occidentali (che segnò la sconfitta delle forze operaie e democratiche) che poteva venir sostenuta solo importando commodities a basso prezzo, finirono per sfruttare la loro neoacquisita forza allo scopo di rendere plurale e non più singolare il complesso delle relazioni internazionali. Ciò apre a prospettive del tutto nuove e positive per il pianeta, ma il neoconservatorismo sconfitto non é affatto morto. Il conflitto negli USA tra, da una parte, l'emergente realismo che potrebbe trovare nei BRICS e dintorni dei partners importanti e, dall'altra, l'ancor presente progetto neocon appare ancora in corso. I neocon hanno maggiori appoggi in quelle componenti (soprattutto inglesi) che considerano gli USA ancora una colonia (figuriamoci noi!) e nella grande finanza, si pensi ai Sauditi, ma non solo. Paradossalmente, oggi, sono i vertici amministrativi, militari e di intelligence (USA e israeliani) ad opporsi al conflitto primario con la Russia di Putin (solo piegando quest'ultima il progetto neocon avrebbe un senso) perché sanno che le capacità di reazione russe, cinesi e iraniane non permettono una difesa sufficiente dei Paesi della Nato. I neocon riuscirono ad impedire la nomination di Hillary Clinton nove anni fa mettendo in campo una pedina della finanza, ma a distanza di tempo i giochi si sono rovesciati: la Clinton é divenuta guerrafondaia e Obama, pur tra preoccupanti oscillazioni, ha impedito l'irreparabile in Siria, dialogato con Putin, aperto il discorso a potenze regionali come l'Iran in medio oriente contro Sauditi, Inglesi e Israeliani. Dal caso libico - dove ha criticato l'avventurismo inglese e francese - sono giunte aperture ad un ruolo primario dell' Italia nel Mediterraneo. L'Egitto, invece, si era spostato su Sauditi e Inglesi, prendendo le distanze dall'Iran ed é in questo contesto che si é verificata la vicenda Regeni. Se, comunque, negli USA, si imponesse una regia non neocon, per l'Italia si aprirebbe una prospettiva eccezionale da combinare al peggioramento nelle condizioni non solo economiche dell'area euro: l'abbassamento del baricentro dell'Europa verso l'Africa e il medio oriente, unica premessa per la pace, la ripresa economica, il dialogo Est Ovest, il rivoluzionamento infrastrutturale del Mediterraneo stesso e la soluzione dei flussi migratori (oggi arenati su ridicole quanto pericolose dissertazioni - senza futuro o costrutto - su accoglienze e respingimenti). Nel caso di una vittoria dei neocon tutto si complicherebbe, é vero, ma bisogna considerare che i vertici militari, amministrativi e di intelligence opporranno resistenza alle avventure della Clinton (ben meno pericoloso sarebbe Trump!) e che, comunque, l'Italia può alzare il prezzo di una sua fedeltà alla Nato fino a forzare il proprio ruolo nel dialogo Est Ovest comprendente gli interessi ed il ruolo russocinese nel Mediterraneo. Solo lo scontro aperto esporrebbe l'Italia al disastro anche dal punto di vista della incolumità della popolazione, a causa della sua esposizione militare.

LA NATO DEL DOTTOR STRANAMORE

di Antonio Mazzeo *

*giornalista e scrittore; del movimento NO MUOS

Aggressiva, dissuasiva e preventiva; onnicomprensiva, globale e multilaterale; cyber-nucleare, superarmata e iperdronizzata; antirussa, anticinese, antimigrante e anche un po’ islamofoba. Strateghi di morte e mister Stranamore vogliono così la NATO del XXI secolo: alleanza politico-economica-militare di chiara matrice neoliberista che sia allo stesso tempo flessibile e inossidabile, pronta ad intervenire rapidamente e simultaneamente ad Est come a Sud, ovunque e comunque.

La prova generale della nuova Alleanza si è svolta l’autunno scorso in Italia, Spagna, Portogallo e nel Mediterraneo centrale. Denominata Trident Juncture 2015, è stata la più grande esercitazione NATO dalla fine della Guerra fredda ad oggi, con la partecipazione di oltre 36.000 militari, 400 tra cacciabombardieri, aerei-spia con e senza pilota, elicotteri e una settantina di unità navali di superficie e sottomarini.

Presenti le forze armate di 30 paesi, sette dei quali extra-NATO o in procinto di fare ingresso formalmente nell’Alleanza (Australia, Austria, Bosnia Herzegovina, Finlandia, Macedonia, Svezia e Ucraina). In qualità di “osservatori”, inoltre, gli addetti militari di Afghanistan, Algeria, Azerbaijan, Bielorussia, Brasile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Kyrgyzistan, Libia, Marocco, Mauritania, Messico, Montenegro, Russia, Serbia, Svizzera e Tunisia. Ai war games pure i delegati di importanti organizzazioni governative internazionali come l’Unione Europea, l’Unione Africana, la Lega Araba e l’OSCE, di alcune agenzie delle Nazioni Unite (OCAH - Coordinamento degli affari umanitari; PNUD - Programma per lo Sviluppo; UNDSS - Dipartimento di Sicurezza delle Nazioni Unite; UNICEF; PMA - Programma Mondiale di Alimentazione; OIM - Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e perfino di diverse organizzazioni non governative (ONG) o sedicenti tali.

Per la prima volta nella storia delle grandi esercitazioni NATO per Trident Juncture si sono mobilitati infine anche i manager delle maggiori industrie internazionali della difesa, “nell’ottica di un proficuo confronto di punti di vista, prospettive ed opinioni su possibili nuove soluzioni tecnologiche e sull’importanza dell’innovazione e della creatività nello sviluppo tecnologico militare”, come ha spiegato il sottosegretario alla difesa italiano, Gioacchino Alfano. Così l’esercitazione è stata la ghiotta occasione per testare e commercializzare nuovi e più sofisticati sistemi d’arma e i centri di comando e controllo delle future guerre ipertecnologizzate, quelle con i droni e i sistemi d’arma del tutto automatizzati e le armi nucleari appositamente ammodernate.

“La situazione geopolitica è oggi considerevolmente più instabile così come accadeva durante la Guerra fredda”, ha spiegato l’ambasciatore Alexander Vershbow, vicesegretario generale della NATO in occasione della presentazione di Trident Juncture 2015. “La comunit,à politica a Bruxelles è abbastanza preoccupata per la concentrazione militare russa nell’area mediterranea, il sostegno ai separatisti dell’Ucraina orientale e gli attacchi contro i ribelli moderati in Siria. Adesso dobbiamo decidere cosa è necessario, creare deterrenti con la Russia perché non abbia intenzioni aggressive verso la NATO”. Per il vicesegretario NATO, l’Alleanza dovrà essere capace di operare e interscambiare intelligence con i maggiori partner internazionali per poter intervenire nel nuovo arco di crisi che dal Mediterraneo e il Corno d’Africa si estende al Medio Oriente e al Caucaso. “Lo scopo primario della NATO è la difesa collettiva, ma noi dobbiamo guardare aldilà dei nostri confini, gestire le crisi e aiutare i nostri partner a difendersi”, ha dichiarato a fine ottobre Alexander Vershbow. “Non si tratta però di un lavoro che la NATO può fare da sola. Ogni sfida che

affrontiamo, a est o a sud, richiede l’energia e gli sforzi di tutta la comunità internazionale, principalmente da parte dei paesi colpiti direttamente e delle organizzazioni come l’Unione Europea, l’ONU, la Lega Araba e l’Unione Africana. Il nostro sostegno agli altri paesi ha nomi diversi – Resolute Support, Defence Capacity Building, Partnerships – ma serve sempre a riformare i loro settori di sicurezza, professionalizzare le forze armate e stabilizzare i confini. Per questo forniamo supporto concreto all’Ucraina, attraverso cinque Trust Funds in aree come il comando e il controllo, la cyber defence e la riabilitazione medica. Abbiamo programmi di formazione militare con la Georgia e la Moldavia e a sud con Giordania e Iraq. In passato abbiamo lavorato con le forze armate egiziane nel campo della protezione anti-mine e con quelle del Marocco per migliorarne l’interoperabilità con la NATO. Stiamo aiutando la Tunisia a modernizzare le sue istituzioni militari, comprese le forze operative speciali. In Mauritania, chiave di volta tra il Maghreb e il Sahel, un Trust Fund NATO ha contribuito a realizzare depositi munizioni, distruggere gli arsenali obsoleti e favorire il ritorno del personale militare alla vita civile”.

Grazie a Trident Juncture, la NATO ha simulato gli interventi richiesti nelle guerre moderne, come l’abbordaggio di unità navali, la ricerca, il riconoscimento e l’individuazione degli obiettivi, le operazioni d’infiltrazione ed esfiltrazione, ecc.. L’esercitazione ha inoltre consentito di certificare la piena operatività delle nuove forze di pronto intervento NATO, destinate ad intervenire in qualsiasi scacchiere mondiale. Nello specifico, Trident Juncture ha permesso di sperimentare in scala continentale i corpi d’élite della NATO Responce Force – NRF, dotati delle tecnologie più avanzate in campo bellico e posti gerarchicamente sotto il controllo del Joint Force Command di Brunssum e del Comando congiunto per il Sud Europa di Lago Patria, Giugliano (Napoli). Proprio il JCF di Lago Patria ha ospitato il 2 febbraio 2016 una conferenza dei comandanti delle forze alleate per pianificare la certificazione finale della NATO Response Force attraverso un intenso programma di esercitazioni che avranno luogo in tutta Europa nel biennio 2016-17. Quando sarà completato il programma addestrativo, il Comando alleato campano assumerà la guida della NRF.

Attualmente la NRF dispone di una brigata multinazionale con 30.000 militari, supportata da altre due brigate pre-designate all’impiego, due gruppi navali (lo Standing Nato Maritime Group SNMG e lo Standing Nato Mine Countermeasures Group SNMCG), una componente aerea e un’unità CBRN (Chemical, Biological, Radiological, Nuclear). I documenti alleati prevedono a breve un ulteriore rafforzamento della NRF con una brigata da combattimento di 2.500-3.000 uomini (con tre battaglioni di fanteria leggera, motorizzata o aeromobile, più alcuni battaglioni pesanti dotati di artiglieria, del genio, per la “difesa” nucleare, batteriologica e chimica); un gruppo aereo composto da una quarantina tra velivoli da combattimento, di trasporto ed elicotteri “in grado di realizzare sino a 200 sortite al giorno”; una task force navale formata da un gruppo guidato da una portaerei, un gruppo anfibio e un gruppo d’azione di superficie, per un totale di 10–12 navi. Nel settembre 2015 sono stati attivati in Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania sei piccoli quartier generali per le unità integrate nella forza di pronto intervento NATO (NFIU - Force Integration Units) “che consentiranno maggiore velocità ed efficacia nel caso di un loro dislocamento sul fronte orientale”; altre due unità NFIU entreranno in funzione a breve anche in Ungheria e Slovacchia. Il primo dicembre è stato invece inaugurato a Bucarest il quartier generale multinazionale per le operazioni delle forze di pronto intervento sul fronte sud-orientale con 280 uomini.

Che saranno innanzitutto le basi militari ospitate in Italia ad assumere un ruolo fondamentale e insostituibile nelle future strategie di guerra NATO è confermato dal fatto che l’Alleanza Atlantica ha deciso di svolgere la prima fase “simulata” di Trident Juncture presso la sede del Comando Operazione Aeree dell’Aeronautica militare di Poggio Renatico, Ferrara, oggi a disposizione

dell’Alleanza Atlantica per gli interventi della NRF. Nel giugno 2015, a Poggio Renatico è stato attivato il primo sito ACCS che fornisce alla NATO un sistema di comando e controllo unificato per la pianificazione e l’esecuzione di tutte le operazioni di sorveglianza aerea. Altri siti ACCS diverranno operativi in altri paesi dell’Alleanza entro la fine del 2016.

Allo smisurato potere di pronto intervento offensivo della NATO Response Force contribuirà pure il sofisticato sistema di telerilevamento ed intelligence AGS (Alliance Ground Surveillance) che sarà attivato nella base siciliana di Sigonella. L’AGS dovrà fornire informazioni in tempo reale per compiti di vigilanza aria-terra a supporto dell’intero spettro delle operazioni alleate nel Mediterraneo, nei Balcani, in Africa e in Medio oriente. Il nuovo sistema si articolerà in stazioni di terra fisse, mobili e trasportabili per la pianificazione e il supporto operativo alle missioni e da una componente aerea basata su cinque velivoli a controllo remoto RQ-4 “Global Hawk” prodotti dall’azienda statunitense Northrop Grumman. La stazione aeronavale di Sigonella ospiterà sia il Centro di comando e controllo dell’AGS che l’intero apparato logistico e i velivoli senza pilota. Il nuovo sistema s’interfaccerà con l’articolata rete operativa militare e con tutti i centri di comando, controllo, intelligence, sorveglianza e riconoscimento della NATO a livello planetario.

“L’AGS supporterà un ampio ventaglio di missioni NATO come la protezione delle forze terrestri e delle popolazioni civili, il controllo delle frontiere, la sicurezza navale e l’assistenza umanitaria”, ha dichiarato Rob Sheehan, manager di Northrop Grumman. L’azienda statunitense prevede di trasferire i primi droni a Sigonella entro la fine del 2016, mentre per l’avvio delle operazioni si dovrà attendere il 2017. Pure le forze armate statunitensi contribuiranno alla trasformazione di Sigonella in uno dei centri nevralgici a livello mondiale per l’uso dei velivoli senza pilota nei teatri di guerra. La base siciliana è stata prescelta infatti come base operativa avanzata del sistema aereo MQ-4C “Triton”, anch’esso basato sulla piattaforma del “Global Hawk”. Secondo il Comando generale della Marina militare USA, i primi “Triton” inizieranno ad operare dalla Sicilia a partire del giugno 2019. Come se non bastasse, Washington prevede di realizzare a Sigonella uno dei principali centri al mondo per il comando, il controllo e la manutenzione di tutti i droni statunitensi (UAS SATCOM Relay Pads and Facility) assicurando la “massima efficienza operativa durante le missioni di attacco armato e di riconoscimento pianificate dai comandi strategici di Eucom, Africom e Centcom a supporto dei war-fighters”.

La NATO del terzo millennio sarà ancora più nucleare e l’Italia, di conseguenza, vedrà rafforzare il proprio ruolo di piattaforma di lancio per eventuali attacchi con testate atomiche. Attualmente sono due le installazioni utilizzate per lo stoccaggio di armi di distruzione di massa, la base aerea di Aviano (Pordenone) e quella di Ghedi (Brescia). Aviano è sede del 31st Fighter Wing di US Air Force con due squadroni dotati di cacciabombardieri F-16 abilitati al trasporto e al lancio di testate nucleari e in grado di operare regionalmente ed extra-area su richiesta della NATO e del Comando supremo alleato in Europa. Gli F-16 di Aviano sono stati tra i protagonisti di tutti i raid aerei scatenati negli ultimi anni nei Balcani e in Libia. Dall’agosto 2015 sei di questi cacciabombardieri sono stati dislocati in Turchia per contribuire ai bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico in Siria.

Nei mesi scorsi, le forze armate statunitensi hanno dato vita al potenziamento dei sistemi di protezione dei bunker destinati alla custodia delle testate. I lavori di ristrutturazione rientrano nell’ambizioso programma di ammodernamento nucleare varato dall’amministrazione Obama che prevede nel caso specifico di Aviano e di altre basi USA in Europa la sostituzione delle vecchie testate B61 con le nuove bombe all’idrogeno B61-12. Queste saranno disponibili in quattro versioni (da 0.3, 1.5, 10 e 50 kilotoni), tutte a guida di precisione, e potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo, con una capacità di penetrazione nel suolo e una potenza

distruttiva nettamente superiori alle vecchie testate. Per il programma di aggiornamento, Washington ha previsto una spesa compresa tra gli 8 e i 12 miliardi di dollari e le testate potranno essere utilizzate con i bombardieri strategici B-2, i cacciabombardieri F-16 e Tornado PA-200 e, a partire del 2020, anche con i caccia F-35 acquistati da alcuni paesi NATO e Israele.

L’Italia contribuisce alle spese necessarie a potenziare i depositi-bunker per le atomiche aviotrasportabili. Il 12 novembre 2014 il Segretariato generale del ministero della Difesa ha firmato un contratto classificato come riservatissimo, del valore di oltre 200.000 euro, per la “progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3 (Weapon Storage and Security System)”, cioè del sistema sotterraneo di stoccaggio e protezione delle armi nucleari nella base aerea di Ghedi. Nello scalo lombardo sarebbero operativi undici sistemi WS3 sotto la custodia del 704th Munitions Maintenance Squadron dell’US Air Force. L’unità speciale è operativa a Ghedi sin dal 1963 e – come riportato dal Penatgono - ha la “responsabilità di ricevere, custodire ed assicurare la manutenzione e il controllo delle armi nucleari USA in supporto della North Atlantic Treaty Organization (NATO) e delle sue missioni strike”. Secondo quanto previsto dal nuclear burden-sharing, in caso di conflitto le bombe USA possono essere messe a disposizione dei cacciabombardieri “Tornado IDS” del 6° Stormo dell’Aeronautica italiana, anch’essi di stanza a Ghedi e appositamente configurati per l’attacco nucleare. Per addestrarsi allo sganciamento del loro carico di morte, questi reparti di volo dell’Aeronautica utilizzano i poligoni sardi di Perdasdefogu e Capo San Lorenzo e lo scalo di Decimomannu, infrastrutture-chiave per la sperimentazione delle nuove dottrine e tecnologie della guerra globale in ambito NATO ed extra-NATO.

L’ANTAGONISMO DELLA SARDEGNA CONTRO LE BASI DELLA GUERRA

di Mariella Cao*

*Gettiamo le Basi

L’antagonismo della Sardegna alle basi della guerra, noto a livello internazionale grazie a media autorevoli e iniziative istituzionali (Germania, UE), in Italia, paradossalmente, è conosciuto quasi solo nella cerchia dei lettori del rimpianto quotidiano “Liberazione” o della stampa sarda. I media nazionali hanno mantenuto il buio informativo.

In Sardegna è concentrato il 60% del demanio militare, 24.000 ettari di terra a fronte dei 16.000 distribuiti nella penisola. Al demanio si sommano le servitù, circa 11.000 h, L’estensione delle zone aeree e marittime militarizzate non ha termini di raffronto, uno solo dei quattro tratti di mare annessi al poligono Salto di Quirra con i suoi 28.400 kmq supera la superficie dell’isola, kmq 23.821. La quantità va collegata alla qualità. Il 91% del demanio è usato per le devastanti attività life fire, con vero munizionamento da guerra, si articola in tre Poligoni Permanenti: Salto di Quirra (h.13.000 a terra), Capo Teulada (h. 7.200 a terra, 75.000 a mare) i più vasti e a più intenso utilizzo d’Europa, “i gioielli della Corona” come amano definirli gli Stati Maggiori; Capo Frasca (h. 1.416 , non quantificabili gli enormi spazi aerei e marittimi classificati Restricted e Danger). La limpida dicitura in lingua inglese e spagnola, “bombing test areas”, “campos de

bombardeo”, indica con chiarezza le attività di un poligono ed esime dal dettagliare la distruttività.

“Sardegna graziosa pattumiera per mercanti di cannoni”, il titolo di un buon reportage di Radio France1 riassume bene la mortificazione e lo scempio dell’isola. “Il male invisibile sempre più visibile, la presenza militare come tumore sociale che genera tumori reali”, titolo del libro del Comitato Scienziate/i contro la guerra (2005), sintetizza eziologia, diagnosi, prognosi.

La legge italiana (898/76, 104/90) sancisce che le installazioni militari causano alle popolazioni coinvolte un danno economico e sociale, di conseguenza, in base al principio di eguaglianza su cui si fonda tutto l’ordinamento giuridico, impone al ministro della Difesa di provvedere all’equa redistribuzione dei gravami militari su tutto il territorio nazionale. Tutte le Regioni, giustamente, si sono dichiarate indisponibili ad accoglierli, tutti i ministri hanno tranquillamente evaso l’obbligo, sono fuorilegge. Va da se che la soluzione è eliminare il surplus accollato all’isola-colonia non scaricarlo su altri.

Ministri e Stati Maggiori non perdono occasione per asserire che i poligoni sardi sono strutture essenziali per le capacità operative imposte dagli obblighi internazionali Nato e concludono che sono indismissibili, intoccabili. Condividiamo l’analisi ma arriviamo a conclusioni antitetiche: senza le basi di guerra concentrate in Sardegna nessuna guerra, perlomeno nell’area mediterranea allargata, sarebbe tecnicamente possibile, quindi, la Sardegna liberando se stessa dal servaggio militare contribuisce a paralizzare la Nato e liberare l’Umanità dal mostro guerra. Questa è la ragione costituente del comitato “Gettiamo le Basi militari fuori dalla Sardegna, fuori dalla Storia”. Il nostro obiettivo - valutato quasi unanimemente dalle forze sociali e politiche, nei primi anni di vita del comitato, come anacronistico residuato del ’68, velleitario, impraticabile, perso in partenza - adesso “minaccia” di essere vincente. Abbiamo cambiato il clima e la cultura! In Sardegna, da anni, il tema della schiavitù militare è balzato all’odg dell’agenda politica, purtroppo e spesso, per opportunismo o peggio per tenere a bada l’elettorato, di destra e di sinistra, che ha ormai acquisito consapevolezza dei danni causati dall’occupazione militare e della sua funzione di esportazione di guerre contro altri popoli. La grande mobilitazione di risonanza internazionale contro le esercitazioni militari (Capo Frasca 23/9/2014) è stata provocata anche dalla presenza di Israele allora in primo piano per l’orrore dell’ennesimo bombardamento di Gaza. L’opposizione all’imponente esercitazione Trident (autunno 2015), dichiaratamente mirata contro il nemico di turno, la Russia, si è estesa a varie realtà italiane e internazionali per la difesa dei loro territori. La lotta contro i signori della guerra e delle armi con il loro codazzo di truppe di ascari sardi è indicativa, non solo del protagonismo di base vincente, ma anche della variante della legge fisica che in campo sociale e politico prevede che ad ogni azione corrisponde una reazione centuplicata e contraria. Un esempio, la fuga nel 2008 della base atomica US Navy dalla Maddalena a causa del “clima ostile della Sardegna”, come affermano i vertici Usa, gestita in modo demenziale o meglio sapientemente reazionario, dai capi di governo e governatori della Regione (Prodi-Soru, Berlusconi-Capellacci) con il business per il malaffare del G8 (spostato all’ultimo momento in Abruzzo) ha convertito La Maddalena in perfetto esempio di catastrofe per le popolazioni “deprivate” dell’occupazione militare. Adesso anche le forze armate tedesche stanno per abbandonare l’installazione di Decimo-CapoFrasca che gestiscono al 50% con l’Italia, ci dicono che sarà una sciagura, la colpa è tutta del popolo “No gherra No Basis”.

L’articolato dispiegamento delle due forze, azione e reazione, si manifesta nel caso del poligono della morte Salto di Quirra(PISQ). La coraggiosa indagine del procuratore Fiordalisi (2011-2012) ha 1 http://www.franceinter.fr/emission-la-bas-si-j-y-suis-sardaigne-jolie-poubelle-pour-marchand-de-canon

scoperchiato il verminaio, ha confermato la validità del nostro lungo e paziente lavoro, intrapreso nel 1999, di documentazione dei crimini perpetrati dallo Stato Italiano, dalla Nato, dalle multinazionali delle armi con la complicità fattiva e/o il silenzio omertoso della stragrande maggioranza della classe politica e dirigente sarda a tutti i livelli (dai Comuni ai ministeri, passando per il mondo accademico, Asl, sindacati ecc). La richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Lanusei offre un campionario di quella varia DISumanità responsabile e/o complice del disastro ambientale e del lento genocidio del popolo sardo per leucemia, tumore, alterazioni genetiche.

Il procuratore “scomodo”, come da italica prassi, è stato trasferito. Si intensificano segnali inequivocabili della volontà di mettere in coma o fare abortire il processo in embrione sulla strage di Stato. I mandanti sono passati al contrattacco, non nascondono più la volontà di piegare ai loro scopi, trarre vantaggi dal terremoto causato dall’eruzione delle verità nascoste e negate, convertire il disastro ambientale e sanitario venuto in piena luce in opportunità di consolidamento del bombing test range più vasto d’Europa fonte di milionari guadagni per l’Italia, impoverimento e miseria per la Sardegna. Il Parlamento ha legalizzato l’inquinamento sollevando i valori soglia dei contaminanti, ha ridotto a optional le bonifiche obbligatorie, il Governo ha impresso un accelerata al potenziamento del PISQ, eufemisticamente chiamato riqualificazione. La Regione tiene bordone, ha provveduto a ibernare il processo sollevando un pretestuoso quesito blocca tutto alla Corte Costituzionale. Stato e Regione, insieme, brandiscono come una clava il classico strumento truffaldino “ricerca scientifica infinita” di occultamento della realtà, insieme hanno affinato la tradizionale politica dello struzzo integrandola con la politica del gattopardo,“cambiare tutto perché nulla cambi”. Si diffonde il coro delle sarde sirene di prevalente area PD, prima voce l’on. Scanu, presidente dell’attuale quarta Commissione Parlamentare d’Inchiesta su uranio e inquinanti bellici (la prima risale al 2004, in12 anni d’inchiesta non hanno cavato un ragno dal buco, l’inchiesta della Procura è durata un anno e 2 mesi). Il canto affascina con fantasmagorici miraggi di liberazione di Teulada e Capo Frasca, traduce in linguaggio allettante i progetti Nato-Ministero Difesa: Quirra centro tecnologico, scientifico e culturale, droni militari e “civili” svolazzanti nei cieli, posti di lavoro a profusione, progettazione di case su Marte (non è una battuta! L’incarico è affidato all’Università di Cagliari). Il taglio ecumenico-cerchiobottista è mirato a compiacere tutti i palati, mettere tutti d’accordo pacifisti, militaristi, fans di guerre umanitarie di export democrazia, aree indipendentiste, penta stellate. Il caposaldo dei vari “ragionamenti”, è la “scoperta” di un sindaco-“scienziato superesperto” del nuovo ruolo della Nato incentrato sempre più sul versante politico-umanitario che sta trasformando a ritmo accelerato la Nato in un’alleanza per la cooperazione, la protezione civile, la pace e la solidarietà tra popoli, come dire un facsimile di Emergency e Caritas.

Non abbiamo mai inteso delegare o scaricare alla magistratura la soluzione dell’incompatibilità di un bombing test range con il diritto democratico di autodeterminazione e controllo del nostro territorio, con il diritto fondamentale alla vita, con il diritto individuale e collettivo di vivere in un ambiente salubre, con il ripudio della guerra, quindi delle sue basi, dei suoi arsenali, dei suoi poligoni. Qualunque sia la verità giudiziaria, la scelta sul che fare delle basi di guerra accollate alla Sardegna è eminentemente politica, a noi spetta e su di noi grava il diritto/dovere di decidere e agire.

Il 15 di ogni mese manteniamo il presidio per “ VERITA’ e GIUSTIZIA per gli uccisi da veleni di guerra e di poligono, FERMARE la STRAGE di STATO”, portato avanti dal 2011 con militari, famiglie di militari colpiti dalla “sindrome Golfo-Balcani-Quirra”, comitati di cittadini dei paesi coinvolti dalle permanenti attività di guerra e dall’inquinamento bellico. Esigiamo dal

Rappresentante del Governo di avere risposte e farsi portavoce delle misure, imposte dalla legge, che il Governo deve adottare, riassunte nell’acronimo

SERRAI (CHIUDERE)

S Sospensione delle attività dei poligoni dove si sono registrate le patologie di guerra;

E Evacuazione dei militari esposti alla contaminazione dei poligoni di Teulada, Decimomanno- . Capo Frasca, Quirra

R Ripristino ambientale, bonifica seria e credibile delle aree contaminate a terra e a mare;

R Risarcimento alle famiglie degli uccisi, ai malati, agli esposti, Risarcimento al popolo sardo del danno inferto all’isola.

A Annichilimento, ripudio della guerra e delle sue basi illegalmente concentrate in Sardegna in misura iniqua;

I Impiego delle risorse a fini di pace

L’ITALIA PUO’ E DEVE USCIRE DALLE SUE GUERRE

di Marinella Correggia* *giornalista, ecopacifista, di Rete No War e di www.sibialiria.org «La storia è maestra ma non ha scolari» scrisse Antonio Gramsci. E dunque, di fronte all’ipotesi di un nuovo intervento anche italiano in Libia - «se il governo libico lo chiede interveniamo contro Daesh, per stabilizzare la situazione» , cerchiamo di ricordare la storia recente di 5 anni fa. Una forsennata campagna di propaganda da parte dei media e delle Ong mainstream, ma anche del web, basata su fonti di parte, notizie false, omissioni, indusse ampi segmenti della stessa sinistra in passato pacifista ad appoggiare non le possibilità di mediazione e pace avanzate dai paesi dell’Alba e dall’Unione africana bensì i cosiddetti «partigiani libici». E dunque i bombardamenti aerei dell’operazione Unified Protector della Nato, che i «partigiani ribelli rivoluzionari freedom fighters» a gran voce avevano chiesto e ottenuto per arrivare al potere. Nel silenzio della popolazione, dei movimenti, del Parlamento, l’Italia partecipò per oltre sei mesi a un crimine di immensa portata, con ripercussioni continentali. E fu a 100 anni esatti dall’inizio della colonizzazione fascista della Libia. Eppure chi fossero gli alleati locali, quei ribelli, lo si vide subito: crimini contro l’umanità, caccia ai migranti neri, distruzione di Sirte, pulizia etnica della città di Tawergha, linciaggio di Muammar Gheddafi, proliferazione di milizie. Queste poi - come è ormai noto – contribuirono a nutrire il mostro che sarebbe diventato il cosiddetto Stato islamico. Daesh, ora in grado di massacrare dovunque in Medioriente e Africa, è nato in Iraq da cellule al qaediste grazie all’occupazione anglo-statunitense a partire dal 2003, ed è cresciuto in Siria grazie alla guerra per procura fomentata – sempre con una potente propaganda - da membri della Nato e dalle monarchie del

Golfo, padrini diretti e indiretti dei gruppi armati dell’opposizione (anche in Siria, dove sono i «partigiani ribelli rivoluzionari freedom fighters»?). Nel 2015, al triangolo degli interventi Nato/Golfo (vero Asse della guerra) si è aggiunta l’aggressione delle monarchie sunnite (con armi e training Usa-Nato) allo Yemen, un’altra tragedia umanitaria. La causa costante dell’elemento più nocivo nelle relazioni internazionali, le guerre di aggressione, è il controllo delle materie prime fossili nei paesi preda da suddividere(caso Libia e Iraq) o dei relativi corridoi (caso Siria e Yemen). Certo concorrono altri e diversificati fattori: ogni attore ha un’agenda propria sulla quale costruisce alleanze tattiche o strategiche. Nel caso libico, fra gli agenti francesi infiltrati fra i «ribelli» c’erano rappresentanti della Total: Parigi appoggiò la «ribellione» in cambio della promessa di affidare alla compagnia d’oltralpe il 35% delle concessioni, togliendone all’Eni. Le conseguenze del male – guerra sono incalcolabili. Questo quadrilatero di folli interventi armati, dal 2003 a oggi, ha provocato danni incalcolabili in Medioriente, Nordafrica e Africa. «Paga i danni di guerra che hai provocato», dovrebbe diventare una campagna legale. Non ci si è mai riusciti! Non paga mai nessuno, salvo le vittime. Fra queste i migranti forzati. Flussi «misti», spinti da diverse ragioni: si scappa dalle bombe, ma anche dai disastri legati al caos climatico (la guerra al clima: altra responsabilità del Nord del mondo). E la cura del male? Davanti all’ipotesi di nuovi interventi militari per curare gli squarci aperti, ecco una serie di domande per popolo e potenti: 1. E’ chiaro a tutti che senza il folle e criminale intervento della Nato nel 2011, Daesh e altri terroristi e milizie jihadiste non sarebbero mai arrivate in Libia?

2. Chi ha creato il problema può forse risolverlo senza estirparne le cause, cioè il continuo supporto economico-militare che i terroristi continuano ad avere e senza il quale si sgonfierebbero in poco tempo?

3. Il governo libico nominato dall’Onu rappresenta i libici? E poi, considerato l’enorme numero di milizie e le porte girevoli fra loro e Daesh, con chi e contro chi si interverrebbe?

3. Come mai l’Italia continua a non pretendere – pena la rottura dei rapporti economici – da regimi come Turchia, Arabia saudita, Qatar, Emirati, che smettano di sostenere in molti modi Daesh e altri gruppi come al Nusra ma anche l’Esercito della conquista in Siria o le milizie islamiste Fajr a Tripoli?

4. Chi continua a far passare armi, petrolio e rifornimenti? Perché il Gruppo di lavoro sul contrasto al finanziamento dell’Isis – presieduto da Italia, Usa e Arabia saudita – non risponde quando si chiedono notizie precise sulle sue scoperte?

5. Come mai in Siria i paesi Nato e la Nato dei petromonarchi (il Gcc) spacciano per “ribelli moderati” gruppi di miliziani armati collaterali ad al Qaeda e Daesh?

7. Come mai il governo italiano continua a fornire armi all’Arabia saudita la cui guerra in Yemen sta rafforzando al Qaeda e altre compagini terroriste, che gli Houti bombardati dai Saud combattevano?

9. Il ministro Gentiloni in Parlamento ha recentemente ribadito che Assad va deposto. Il solito regime change. Si rende conto, come ormai ammettono in coro tutti, che l’alternativa è consegnare la Siria ai jihadisti che hanno la stessa visione del mondo di Daesh?

10. Si rende conto, infine, il ministro Gentiloni che la politica dichiarata del “regime change”, oltre a violare il principio dell’autodeterminazione dei popoli – ha prodotto anche in tempi recenti disastri inenarrabili? Ministro, la storia non le ha insegnato nulla? Povero Gramsci.

CRISI UCRAINA : IL PROBLEMA E’ LA NATO*

A bordo dei tank di Majdan si sono posti anche Obama e l'Unione europea

di Tommaso Di Francesco **

**condirettore de Il Manifesto

*(questa scheda è tratta da un articolo pubblicato il 4 maggio 2014 su “Il Manifesto”. Con l’autorizzazione dell’Autore l’ alleghiamo, per la sua totale attualità e pregnanza , agli altri contributi.)

L’offensiva sanguinosa dell’esercito di Kiev non si ferma. Corre sul bordo sottile non solo della guerra civile, perché la portata dell’azione militare rischia l’intervento militare russo. Siamo sul baratro d’una guerra europea. Vanno in fretta i carri armati del governo di Majdan. Devono sventare il referendum convocato per l’11 maggio nelle città della regione orientale del Donbass sull’indipendenza dall’Ucraina, per riaffermare l’autorità di Kiev con la forza dei tank e confermare a ogni costo, contro i «terroristi», la data delle elezioni centrali ucraine del 25 maggio. Fatto singolare, la seconda data richiama quella delle elezioni europee nelle quali, ahimé, l’argomento della pace non ha il benché minimo ascolto. Così la repressione non s’arresta. È più organizzata e perfino peggiore di quella del corrotto Yanukovitch contro i rivoltosi di Majdan, ma è sostenuta da tutto l’Occidente e continua ad essere praticata con il concorso dell’estrema destra che, a Odessa, ha assaltato il presidio dei filorussi, bruciando poi l’edificio dei Sindacati dov’erano riparati in fuga e dove hanno trovato la morte almeno 40 persone. Un massacro che non ferma la repressione. Anche se a praticarla sono gli stessi che si sono legitti-mati per quattro mesi denunciando, in un coro greco di media, la repressione di piazza Majdan.

È voluta dal nuovo potere autoproclamato a Kiev, dove è operativo, ha comunicato Obama, John Brennan il capo della Cia esperto in «guerre coperte» (e sotto inchiesta negli Usa per avere ostaco-lato il lavoro della Commissione del Senato sulle torture). Ma quando mai i carri armati possono convincere una parte consistente del popolo ad andare a votare per obiettivi che considera ostili? E del resto chi, con la politica, li ha convinti del contrario? Eppure sembra troppo tardi. Nonostante i rivoltosi filorussi abbiano liberato gli osservatori dell’Osce sequestrati. Fatto che sottolinea due elementi: che la pressione di Putin sui filorussi ha potuto di più dell’offensiva militare ucraina, perché la Russia altrimenti rischia di essere, nolente, coinvolta direttamente più che in Crimea; e che l’Osce ha storiche ambiguità. Basta ricordare la missione Osce in Kosovo, decisa nell’ottobre 1998 dall’Onu per monitorare il conflitto tra la

repressione di Milosevic e le milizie dell’Uck: il capo della missione, l’americano William Walker, inventò di sana pianta la strage di Racak attribuendola a Belgrado e dando così il via ai bombarda-menti «umanitari» della Nato. Ora in Ucraina il dado purtroppo sembra tratto. Se appena al di là c’è la Russia messa nell’angolo dei suoi confini, a Kiev in campo c’è tutto l’Occidente reale: vale a dire gli Stati uniti e la Nato; l’Unione europea subalterna parla solo con la voce ambigua — per interessi, geostrategia e storia — della Germania. Qui, nell’est ucraino naturalmente, i «terroristi» non vanno sostenuti e armati dall’Occidente com’è accaduto nel 1999 in Kosovo, e poi in Libia e oggi in Siria. Qui invece vanno sanguinosamente schiacciati. Le immagini parlano chiaro: ad Andrijvka, un paese sulla strada delle truppe ucraine, i contadini sono scesi in piazza per fermare con le mani alzate i carri armati di Kiev, che non si sono arrestati schiacciandoli, nonostante in molti avessero cominciato a parlare con i soldati salendo sui carri armati. Scene proposte da Euronews che, a memoria contrapposta, ci hanno ricordato Praga invasa dai carri armati del Patto di Varsavia nel ’68. Il fatto è che su quei tank stavolta è salito Obama e gli Stati europei a controllo Nato. Infatti più avanzavano le truppe di Kiev, più è arrivata forte da Washington la sola minaccia che «la Russia deve fermarsi». Insomma, il massacro non si deve fermare e guai al soccorso militare russo. Quel che c’è sotto lo comincia a scrivere qualche commentatore filo-atlantico: l’obiettivo è minacciare la Russia – che, riannessa la Crimea, fino a prova contraria difende la sua sicurezza e vuole una Ucraina neutrale — di fare di Putin un altro Milosevic. Di sicuro è attivato il meccanismo per una Euromajdan anche nella capitale russa, eterodiretta da John Brennan che ci sta lavorando. Dunque Barack Obama conclude il suo mandato affidandosi all’ideologia del «militarismo umanitario» — tanto cara alla «candidata» Hillary Clinton che pure ancora tace sul disastro americano in Libia (a Bengasi) -, schierando i risultati della strategia dell’allargamento della Nato a est. Ma la Nato non è la soluzione, è il problema. Glielo ricordano gli ex segretari di Stato Kissinger e Brzezinski e perfino il suo ex capo del Pentagono e della Cia Robert Gates che ha scritto «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umiliare la Russia», fino a provocare una guerra. Senza l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia nell’Alleanza atlan-tica — con basi militari, intelligence, bilanci militari, truppe, missioni di guerre alleate, sistemi d’arma, ogive nucleari schierate, scudi spaziali — non ci troveremmo infatti sull’orlo di una nuova guerra europea che fa impallidire i Balcani e la Georgia di soli sei anni fa. Non ci sarebbe stata la tracotanza di una leadership di oligarchi insoddisfatti che ha destabilizzato l’Ucraina con un colpo di mano e la violenza della piazza «buona» perché sedicente filoeuropea, e che ora cavalca la repressione sanguinosa della piazza «cattiva». Esisterebbe una politica estera dell’Unione europea, che invece è surrogata dall’Alleanza atlantica. «Vedete — ammonisce l’attuale capo del Pentagono Chuck Hagel — ce n’è anche per gli europei: imparino a non ridimen-sionare la spesa militare (v. gli F35)». Proprio come ha fatto il presidente della repubblica Giorgio Napolitano che, in dispregio dell’articolo 11 della Costituzione, ha tuonato recentemente addirit-tura contro «l’anacronistico antimilitarismo». Ma visti i tempi che corrono, con l’emergere sincronico della guerra che insanguina i continenti e «non risolve le crisi internazionali», chi è davvero anacronistico?

LA QUESTIONE PALESTINESE E IL DISORDINE MEDIO ORIENTALE

di Yuosef Salman*

* delegato della Mezza luna rossa palestinese in Italia

La Palestina sta attraversando la fase più complessa e difficile, dal 1948 ad oggi. Al livello interno continua la divisione politica, e la separazione di Gaza dalla Cisgiordania rischia di diventare una triste realtà. Da tempo ingerenze esterne e minacce da parte dei Paesi arabi e non, bloccano ogni tentativo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

La situazione dei paesi arabi non è migliore di quella palestinese, anzi, possiamo tranquillamente definirla peggiore. Questa situazione si riversa sulla questione palestinese in modo disastroso, perché distoglie la centralità della Palestina dalle cause arabe e lascia lo spazio aperto a Israele per fare il suo gioco: cancellare ciò che è rimasto degli accordi di pace, portare avanti una colonizzazione strisciante su tutta la Cisgiordania e Gerusalemme, e deportare i sui abitanti, intensificare le pressione internazionale per il riconoscimento dell’ebraicità dello stato di Israele, fino ad arrivare alle minacce di annessione della stessa Cisgiordania, in poche parole sancire la fine della possibile soluzione di due Stati per due popoli. E non solo, il parlamento israeliano sta esaminando nuove leggi discriminatorie verso i palestinesi (nella fascia verde, e verso quanti sono cittadini israeliani) che sono rimasti nelle loro terre.

Tutto ciò accade nell’indifferenza di chi si era autoproclamato padrino assoluto del processo di pace, gli Usa e il quartetto, e nella quasi totale assenza del UE.

La leadership palestinese, malgrado l’empasse della politica internazionale nei confronti di una soluzione politica del conflitto israelo-palestinese, tenta di continuare la sua offensiva politica contro l’occupazione israeliana, internazionalizzando la causa palestinese. Lo fa sollecitando protocolli di riconoscimento formali – molto importante in questa direzione quello raggiunto con il Vaticano nei mesi scorsi - sottoscrivendo quasi tutti i protocolli delle organizzazioni internazionali, compreso il tribunali dell’Aia, denunciando tutte le violazione ed i crimini israeliani contro il popolo palestinese.

Il governo di estrema destra di Netanyahu, dal canto suo,non accenna nessun arretramento delle sue posizione, anzi, alza il tiro, e mentre continua a tappe forzate il processo di ebreizzazione di Gerusalemme e lo sviluppo delle colonie, tiene la riunione del governo nel Golan siriano occupato illegalmente nel 1967, approfittando della situazione di instabilità in Siria, dichiarando che non ritirerà mai le sue truppe da quel lembo di terra araba.

Il popolo palestinese, che da 68 anni vive sotto una occupazione unica nel suo genere, resiste con determinazione e con ogni mezzo contro l’occupante, per la libertà e l’autodeterminazione, ma nello stesso tempo non smette di tendere la mano per una soluzione politica equa e giusta, che garantisca la nascita dello stato palestinese e il diritto al ritorno dei profughi, come previsto dalla risoluzione 194 del Onu.

E’ una situazione difficilissima, sì, e non si può escludere nei prossimi mesi il rischio di un scoppio violento e nello stesso tempo disperato di proteste, per questo occorre che la comunità internazionale, ed in particolare i paesi che riversano sul Mediterraneo, agiscono politicamente con forza e coraggio per placare l’arroganza criminale del governo e del esercito israeliano contro il popolo palestinese.

IMPERIALISMO E AMERICA LATINA

di Alessandra Riccio *

*docente di Lingua e Letterature Ispanoamericane presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Istituto Universitario di Napoli. Già direttrice, con Gianni Minà, di “LatinoAmerica”.

Il filosofo Gianni Vattimo, intervenendo nell’aprile scorso a Caracas in un incontro della Rete di Intellettuali in Difesa dell’Umanità, si è detto convinto che l’America Latina è il futuro della nuova Europa. Un’affermazione davvero scandalosa per il nostro incartapecorito eurocentrismo, eppure piena di verità.

All’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio, da quella parte del mondo sono venuti governi contrari al neoliberalismo, alcuni fautori di un nuovo sviluppo e di una riconciliazione fra le classi, altri, sostenitori dell’integrazione sociale, politica, finanziaria, culturale e di comunicazione. I Presidenti eletti (donne, operai, sindacalisti, economisti, ex militari, politici) hanno creduto tutti, sia pure in diversi gradi, nel progetto di integrazione latinoamericana (ALBA).

Il più rivoluzionario fra di loro, Hugo Chávez, ha sognato addirittura un Socialismo del secolo XXI basato sulla giustizia sociale e sulla dignità umana. Recentemente, il nemico più radicale e convinto dell’imperialismo, Fidel Castro ha rivendicato, per la sua storia personale e per Cuba tutta, il comunismo, avvertendo che si tratta della «parola che esprime il concetto più distorto e calunniato della storia ». Questi due rivoluzionari sanno, meglio di tutti, che il socialismo si mette a prova non contro tutto, ma con tutto contro.

In America Latina, generosi governi senza potere (senza effettivo potere), hanno osato affrontare il potere imperiale che li punisce non per i loro errori ma per i loro successi. I mezzi impiegati sono ormai noti, rivelati da Wikileaks, dagli archivi consultati, e teorizzati in saggi ed analisi. Il metodo è nuovo ma non è una novità né per l’America Latina né per l’Europa, l’implacabile contrasto delle destre interne, poderosamente alleate degli interessi sovranazionali dei colossi finanziari, dei commercianti di armamenti, del settore petrolifero, a qualunque tentativo di governare i nostri paesi.

Quanto sta accadendo in America Latina ci insegna che la lotta è ancora senza quartiere, che – morta l’ideologia- tutto viene tergiversato mentre le lingue si confondono. Il Presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, solidale con il Venezuela e il Brasile, i cui governi sono pesantemente attaccati dall’opposizione, illustra così questa babele: «Bisogna essere obbiettivi, guardate come confondono tutto e chiamano prigioniero politico qualsiasi politico prigioniero». Bisogna prestare attenzione a quel che sta succedendo in America Latina, trarne esperienza per poter valutare le forze, le strategie e la resistenza anche nella nostra vacillante Europa e nel nostro paese.

Enrico Berlinguer aveva tratto dall’amara esperienza del golpe militare in Cile contro il presidente socialista Salvador Allende, la consapevolezza che non fosse consentito uscire dalla Alleanza Atlantica. Oggi la situazione non è migliorata: le forze storicamente contrarie al socialismo, all’integrazione, agli uguali diritti, si sono dotate di nuovi e più sofisticati strumenti, primo fra tutti l’orientamento e la manipolazione dell’informazione in tutti i suoi moltiplicati aspetti.

Segretamente stanno passando nel mondo i Trattati Transpacifico e Transatlantico (TTP e TTIP), imposti dagli Stati Uniti a loro esclusivo beneficio e a costo degli altri paesi. L’impero combatte con i droni, risparmia ai suoi cittadini lo scontro sul terreno e lo lascia agli indigeni esasperati e rabbiosi. L’Occidente ancora ricco diventa meta di emigrazioni disperate: dall’Asie e dall’Africa verso ‘Europa. Dall’America Latina e da tutto il mondo, verso gli Stati Uniti. Ma le frontiere si stanno chiudendo, l’egoismo trionfa, la solidarietà e l’internazionalismo sono valori dimenticati.

In America Latina si sta svolgendo, adesso, una battaglia per la democrazia, per la libertà e per la giustizia sociale.

PROPOSTE PER UN NUOVO STATUTO DEI LAVORATORI

di Piergiovanni Alleva *

*professore ordinario di Diritto del Lavoro

1 - Danni ed insidie del Jobs Act

È opportuno muovere da una ricognizione ragionata dei guasti e delle conseguenze del Jobs Actper individuare le linee di una possibile ricostruzione del diritto del lavoro che non sia peraltro limitata ad una operazione di restauro o di riparazione dei danni, ma metta a frutto riflessioni e proposte che, se pur talvolta in maniera episodica, sono state oggetto di dibattito negli ultimi vent’anni.

Bisogna avere ben presente non solo il contenuto dei portati normativi dei vari decreti (8) che nel loro insieme costituiscono il Jobs Act, ma anche i modi della loro sinergia che fanno prevedere che l’ulteriore e ultima fase della grande controriforma del lavoro è destinata a incentrarsi sulla sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con quella meramente aziendale, derogatoria di ogni altra disciplina, e sull’abbassamento dei livelli salariali sancito, per quanto possa sembrare paradossale, proprio dalle proposte di salario minimo intercategoriale.

Si può dire, onde chiarire in sintesi la ricordata sinergia tra mezzi di offesa, che il primo terreno della sfida portata dal Jobs Act alla civiltà del lavoro è quello dei rapporti di forza contrattuale tra il datore di lavoro, che ora ha riconquistato un’indiscutibile superiorità, e il lavoratore, ricacciato in quelle stesse condizioni di debolezza e ricattabilità tipiche della situazione pre-statutaria.

1.1 Cosa cambia nelle tutele all’interno del rapporto di lavoro

Senza ombra di dubbiol’arma principale per la ricostituzione della superiorità (72) datoriale è stata la quasi completa abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ossiadella tutela di stabilità reale contro i licenziamenti ingiustificati, norma simbolo di lunghe stagioni di confronto e di lotta tra le parti collettive e tra le forze della sinistra politica e i governi di centrodestra. Dall’entrata in vigore del D.lgs N. 23/2015 la tutela di reintegra è limitata a pochissimi casi di licenziamento, quasi casi di scuola, ed è così venuta meno la vera garanzia antiricatto che ha

contrassegnato per 40 anni i rapporti tra le parti; anche se occorre ricordare che, per la grande maggioranza dei lavoratori, per quelli cioè assunti prima del marzo 2015, la garanzia della “tutela reale” sussiste ancora, seppur con le menomazioni indotte dalla Legge Fornero. La corsa alla sostituzione dei vecchi contratti stabili con i nuovi, detti per ironia, a tutele crescenti sarà però molto veloce grazie anche a specifici incentivi,il più delle volte illeciti, come quello della decontribuzione, a meno che non intervengano fattori esterni, quali un referendum abrogativo, che cambino integralmente il deprimente quadro attuale. In tale quadro, peraltro, non vi è solo il contratto a tutele crescenti disciplinato dal Dlgs 23/2015: l’arma con cui il governo Renzi ha aggredito i diritti dei lavoratori non è paragonabile ad una lancia, quanto piuttosto ad un tridente, dal momento che, accanto a quel contratto, operano ora altri strumenti non meno letali, come, da un lato, il contratto di lavoro a termine, e dall’altro le rinate collaborazioni coordinate e continuative (nuovamente senza progetto).

Con riguardo a questi strumenti,va sottolineato che ogni studioso ed ogni operatore del diritto del lavoro ha perfettamente compreso che la vera svolta è avvenuta nel momento in cui la parte datoriale è riuscita ad ottenere,prima dal governo tecnico di Monti e poi definitivamente dal governo Renzi, quel vero e proprio ossimoro rappresentato del contratto a termine senza causale, poiché porre un termine finale di operatività al contratto di lavoro ha senso solo quando l’esigenza di impiego dell’energia lavorativa abbia essa stessa un termine, ossia sia temporanea. Se il contratto risponde invece ad un’esigenza continuativa il termine non ha altro scopo che quello di porre la controparte contrattuale sotto il ricatto di un mancato rinnovo e nessuno, per quanto ci consta, è mai riuscito a trovare una diversa giustificazione. La contraddizione non è senza effetto giuridico perché lo stesso Dlgsn.Sl/2015, che ha dato rinnovata e compiuta disciplina al contratto a termine acausale, ha anche proclamato, all’art. l, che il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma (73) normale dell’erogazione della forza lavoro. Da ciò discente una “irragionevolezza” della legge, rilevante in sede di verifica di costituzionalità, visto che lo strumento teoricamente preferito nel concreto può essere eclissato da quello che dovrebbe invece essere del tutto marginale.

La terza punta del tridente è costituito dal ritorno, quasi per un malefico gioco di prestigio, delle collaborazioni coordinate e continuative libere, e cioè del lavoro cosiddetto parasubordinato, che essendo invece giuridicamente lavoro autonomo sottrae al lavoratore tutta la protezione stratificata in decenni di legislazione e contrattazione collettiva in favore del lavoro subordinato, senza che sia poi davvero possibile distinguere una tipologia dall’altra. La differenza invero sarebbe costituita solo da una “sfumatura”, nell’intensità del potere direttivo del datore di lavoro, penetrante nel lavoro subordinato e limitato invece a direttive di massima nelle collaborazioni coordinate e continuative. E poiché da questa quasi impalpabile differenza deriva la macroscopica differenza dell’applicazione dell’intero corpus del diritto del lavoro non meraviglia che, da quando nell’anno 2000 il rapporto di collaborazione fu consentito per tutte le mansioni lavorative e non più solo per quelle artistiche e di alta qualificazione, esse dilagarono fino a inondare il mercato del lavoro ed i tribunali, obbligando il legislatore ad intervenire per porre un freno. Invero, con l’art. 61 e seguenti del Dlgs n.297/2003, la possibilità di ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative fu limitato all’ipotesi in cui la collaborazione desse un risultato specifico (v. lavoro a progetto),e salvi ancora i casi particolari dei rapporti con la pubblica amministrazione o di intese tra committenti e pensionati di vecchiaia o con gli iscritti agli albi professionali.

Si noti allora l’insidiosa tecnica con la quale si è consentito e determinato il ritorno in massa delle collaborazioni coordinate e continuative “libere” ovvero senza progetto; da un lato, infatti, il Dlgs n.81/2015 ha abolito i contratti a progetto ed ha così eliminato il “tappo”, e dall’altro alle

collaborazioni stesse è stato posto un nuovo limite ma del tutto illusorio. L’art. 2 del Dlgs 81/2015 riconduce sotto le norme del lavoro subordinato solo le collaborazioni coordinate e continuative che il committente organizzi anche con riferimento ai tempi e al luogo della prestazione. La novità normativa è stata molto pubblicizzata e sbandierata come strumento di eliminazione di forme dubbie e sottotutelate di impiego dei lavoratori, ma si tratta, invero, di un inganno, perché quella vantata riconduzione (74) alle regole protettive del lavoro subordinato non opera ogni volta che il committente segua l’elementare avvertenza di prevedere nel contratto individuale di collaborazione una certa flessibilità nei tempi e nei luoghi della prestazione, come già scontatamente avviene nella maggior parte delle collaborazioni coordinate e continuative.

Si può così acquisire il primo dato caratterizzante l’attuale panorama: all’interno del rapporto di lavoro il lavoratore non ha reali difese e non solo perché non opera più l’articolo 18 nei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma anche perché possono stipularsi contratti a termine senza una ragione plausibile (che non sia, appunto, quella di intimidirlo con la minaccia di mancato rinnovo), e perché quando si tratti di lavoro caratterizzato da un minimo di contenuto intellettuale potrà sempre essere utilizzata la forma della collaborazione coordinata e continuativa che si sottrae alla disciplina lavoristica di tutela.

1.2 Cosa cambia nelle tutele al di fuori del rapporto di lavoro

Veniamo però al secondo scenario di questo desolante panorama. Esso riguarda la situazione del lavoratore non più all’interno del rapporto di lavoro, ma nel mercato del lavoro e tutti ricordano, crediamo, le speciose polemiche che l’opinione di centrodestra e governativa hanno condotto per anni sulla seguente dicotomia: le “tutele nel rapporto di lavoro” possono essere vantaggiosamente sostituite dalle “tutele nel mercato del lavoro”, ovvero dalla cosiddetta flexsecurity giacché, secondo questa tesi, la facilità del licenziamento sarà ripagata da sostanziosi aiuti pubblici per garantire al lavoratore licenziato sia il reddito che una nuova occupazione, con finale vantaggio per tutte le parti. Basta però leggere i decreti legislativi (Dlgs N.92/2015 e N.148/2015) che hanno riformato sia l’indennità di disoccupazione, ora detta Naspi, sia la cassa integrazione per rendersi conto dell’enormità della falsa promessa. Sono stati abrogati, salvo poi necessitate proroghe temporanee, istituti fondamentali di salvaguardia dei diritti elementari dei lavoratori e anche della pace sociale quali l’indennità di mobilità per i lavoratori licenziati con licenziamenti collettivi e la cassa integrazione in deroga, mentre per la Naspi è stato adottato un criterio previdenziale di tipo assicurativo che punisce gravemente i lavoratori precari e discontinui, dal momento che la Naspi viene erogata solo per un periodo pari alla metà delle settimane di lavoro e quindi di contribuzione effettuate negli ultimi 4 anni. Sul versante invece degli ammortizzatori conservativi dell’occupazione (75)

Scompaiono importanti causali della cassa integrazione, quali quella per procedura concorsuale, e le altre vengono pesantemente ridotte, tanto che anche la Cigs per riorganizzazione non potrà superare i due anni all’interno del quinquennio.

Non c’è dunque alcuna tutela nel “mercato del lavoro” che sostituisca la protezione e le tutele e i diritti “nel rapporto di lavoro”, ma un doppio peggioramento e una doppia debolezza, dentro e fuori dal rapporto di lavoro, il cui scopo reale è quello di ridurre i lavoratori in una situazione di timore, soggezione e rassegnazione come premessa per il raggiungimento di un traguardo, vanamente inseguito per decenni dalla parte datoriale: sostituire in pratica integralmente alla contrattazione collettiva nazionale la contrattazione solo aziendale, e nell’ambito di questa sostituire i minimi retributivi nazionali con un insieme di “premi aziendali di produttività” da distribuire all’insegna della discrezionalità e di sotterranee discriminazioni tra “ubbidienti” e

“recalcitranti”. Si vocifera che nel complesso l’obiettivo sia quello dell’abbassamento del 30% delle retribuzioni lorde e quindi anche delle retribuzioni nette, salvo l’effetto di aliquote fiscali di favore sui premi di produttività, che addolcirebbero il sacrificio dei lavoratori ma premierebbero politicamente i datori di lavoro, da sempre contrari alle tariffe nazionali e desiderosi di avere le mani libere nell’amministrazione del salario.

Il panorama di rovine da cui si parte è pertanto quello di una precarizzazione generalizzata al di là di ogni apparenza e di un abbassamento vertiginoso della dignità e dei diritti dei lavoratori, che inducono a ricercare le vie del riscatto in una nuova legislazione. Si pongono però a questo punto due problematiche parallele: quella di definire l’ambito che la legge deve proteggere, ossia l’area del lavoro dipendente, da riconsiderare al di là delle vecchie distinzioni tipologiche, e il problema prettamente contenutistico di stabilire in che cosa debbano oggi principalmente consistere le protezioni, alla luce di una quarantennale elaborazione in materia statutaria.

Per il lavoro dipendente, possiamo anticiparlo, si intende qui quello caratterizzato dalla cosiddetta “doppia alienità”, ossia dall’essere prestato nell’ambito di una organizzazione produttiva altrui e con appropriazione immediata dell’utilità lavorativa da parte del soggetto committente, a prescindere dalla intensità delle direttive che da questi possano intervenire sull’esecuzione della prestazione lavorativa. Direttive che, ovviamente, (76)

possono variare moltissimo da caso a caso senza che venga meno la sostanza socio - economica, ma anche giuridica, della dipendenza. In quest’area oggi convivono il lavoro cosiddetto subordinato, ovvero eterodiretto “in senso forte”, e il lavoro coordinato e continuativo. Non vi è più motivo alcuno a nostro avviso di applicare alle due forme diversi apparati normativi e protettivi, anche perché a ben vedere il lavoro eterodiretto è solo una specie, tra l’altro storica-mente datata, laddove il lavoro “dipendente”, che prevede una continuità della collaborazione e il suo inserimento nel processo e progetto produttivo altrui, costituisce il genere e dunque il vero punto di riferimento delle tutele.

Al di là di questo ambito, peraltro, non vi è il vuoto ma una esigenza di tutela, seppur diversa, per i lavoratori autonomi in senso proprio, riguardati dall’art. 2222 del c.c. e che, a differenza di quelli dipendenti, dispongono di una propria organizzazione di mezzi, sopportano il rischio della produzione del lavoro e agiscono secondo un loro progetto di impresa, eppure necessitando anche loro di una qualche protezione ,sia nei riguardi dei loro committenti e clienti,che potrebbero variamente vessarli con il loro maggior potere contrattuale, sia nell’ambito della realizzazione dei diritti primari e sociali comunque collegati alla disponibilità, per nulla scontata, di un livello di reddito. I cerchi concentrici della tutela del lavoro restano però due e non tre, perché alla protezione dei lavoratori autonomi veri fa seguito il cerchio stretto delle tutele più pregnanti riguardanti il lavoro dipendente,non ulteriormente divisibile, a nostro avviso, tra il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative.

2 –Linee guida per un nuovo Statuto dei lavoratori

Ricostituire un diritto del lavoro a partire dal devastato panorama conseguenteall’emanazione del Jobs Actsignifica certamente un’ampia normazione di problematiche vecchie e nuove, disciplinate dallo Statuto del 1970, ma anche evolutosi dopo di esso o addirittura emerse con il progresso economico sociale. I temi tradizionali e fondamentali sono quelli, certamente, della tutela contro i licenziamenti ingiustificati e della stabilità del posto di lavoro, della garanzia e del miglioramento delle capacità e della collocazione professionale, della libertà sindacale in azienda, della tutela della salute e della sicurezza ed innanzitutto della figura morale e della dignità del lavoratore.

Sono ancora quelli di una rete di garanzie per sopravvenienze di vario tipo come malattie, infortuni, contrasto a pratiche di sfruttamento quali si verificano tipicamente nelle catene di appalti, ma anche esigenze e problematiche di nuova emersione quali quelle connesse al mobbing, alle molestie, alla spettanza e quantità del risarcimento non patrimoniale per violazioni dei diritti primari della persona.

Vi è ancora il problema, riacutizzatosi a causa di un ritorno all’indietro della legislazione, della omogeneità di tutele e diritti tra lavoratori del settore pubblico e del settore privato, e della piena fruizione del corredo di diritti del lavoratore anche qualora egli assuma· il ruolo di socio lavoratore di una società cooperativa. L’elenco è ovviamente assai lungo ma soggetto ad una questione preliminare che oggi sembra riaprirsi in modo quanto mai preoccupante: la questione, cioè, di quali siano i lavoratori che potranno in concreto fruire delle tutele siano esse rinnovate o di nuova istituzione. Per stare solo al campo dell’impiego privato infatti appare chiaro, per le considerazioni svolte al paragrafo precedente,che buona parte del mondo del lavoro non potrebbe in concreto fruirne se non si effettua una preventiva rideterminazione del campo di applicazione e delle figure sociali che si intende tutelare.

I lavoratori precari, infatti, il cui rapporto è destinato a decadere automaticamente alla scadenza, incontrano spesso difficoltà non solo psicologiche, ma oggettive e materiali, al godimento dei diritti vecchi e nuovi: ad esempio la tutela del reddito e dell’occupazione in caso di malattia non ha senso per il lavoratore precario che cessa dal rapporto per pura e semplice scadenza anche se ammalato, o per quel lavoratore che vorrebbe certamente valersi di percorsi di formazione professionale sul lavoro, ma deve subire la frustrazione della sua aspettativa per la scadenza del rapporto.

Ai lavoratori parasubordinati addirittura, semplicemente quel complesso di garanzie e di diritti non troverebbe applicazione salvo specifiche previsioni normative a loro dedicate come ad es. come già avvenuto per la tutela della maternità.

La riunificazione e l’allargamento dell’area di fruizione delle tutele è dunque l’operazione preliminare che va realizzata in più direzioni, quali la marginalizzazione del lavoro precario e la trasformazione (78)

dei lavoratori precari in lavoratori a tempo indeterminato, salvo la restituzione a questi ultimi della tutela della stabilità reale,ed ancora la riunificazione dei lavoratori del settore pubblico e di quello privato nonché delle collaborazioni coordinate e continuative sotto la comprensiva fattispecie del lavoro “dipendente”.

In particolare per quanto attiene al lavoro precario, anche se subordinato, è assolutamente necessario reagire contro l’assurdo del contratto a termine acausale e tornare per via di verifica di costituzionalità o per semplice innovazione legislativa ad un principio tanto semplice quanto efficace, e cioè che il carattere temporaneo dell’esigenza lavorativa deve sussistere concretamente ed essere specificato nella lettera di assunzione. È, in verità, lo stesso principio che veniva accolto, seppur in maniera non del tutto esplicita, nel Dlgs 368/2001 e che ha consentito in questi anni una possibilità di efficace resistenza contro l’abuso del precariato. Altra misura necessaria per il controllo della percentuale massima (20%) di rapporti a termine utilizzabili in ciascuna unità produttiva è costituita dalla consultabilità da parte di chiunque, in primis dalle organizzazioni sindacali, di un’anagrafe pubblica del lavoro (per la quale esistono già tutti i database) che consenta di “fotografare” in ogni momento la composizione organica, per tipologie contrattuali, dell’occupazione in azienda.

Più complesso è il problema delle riunificazioni del lavoro pubblico e privato dopo la produzione legislativa di impostazione reazionaria che ha caratterizzato l’ultimo decennio. Da un punto di vista di principio non vi sono difficoltà a ripetere l’operazione di privatizzazione attuata durante gli anni Novanta e a perfezionarla con il definitivo superamento, in sintonia peraltro con la giurisprudenza europea, di antichi e paralizzanti moduli organizzativi della pubblica amministrazione (piante organiche inflessibili, divieti di conversione per contratti illegittimi ecc.).

L’altro imperativo dell’ora però è quello di superare definitivamente, e di non consentire comunque il consolidamento e l’allargamento, di una distinzione tra lavoro subordinato e parasubordinato. Di ciò si è già trattato nel precedente paragrafo e qui occorre solo dedicare una nota di attenzione alla problematica specifica delle cosiddette “false partite IVA” sulle quali il legislatore ha tenuto fino ad oggi un atteggiamento oscillante ed incerto (si consideri la confusa normativa dell’art. (79)

69 bis Dlgs 297/2003) perché consapevole, da un lato, delle illusioni realizzate tramite le false consulenze professionali in favore di soggetti quasi unici committenti del professionista, ma incapace, dall’altro, di prendere una posizione precisa in questa materia, caratterizzata d’altra parte da una normativa di diritto tributario non poco equivocata e complessa.

Esistono interi settori produttivi o di servizi, come ad esempio gli studi tecnici e le case di cura private, che utilizzano medici, ingegneri architetti ecc. pagando la loro prestazione con fattura mensile o bimensile come se si trattasse di normali professionisti entrati in occasionale rapporto professionale con il committente, con l’ulteriore danno di esser poi destinatari di forme previdenziali, ossia di casse professioni private, spesso ben più avare della stessa gestione separata che I’Inps ha istituito per i co.co.co. Qui la questione deve essere risolta in maniera molto netta, chiarendo una volta per tutte che è soggetto IVA chi esercita un’ arte e una professione in maniera indipendente, cosi come espressamente richiede la sesta direttiva Cee ed oggi direttiva 2006/112/Cee. Proprio per questo, e cioè perché il collaboratore coordinato e continuativo non è realmente indipendente nell’esercizio della sua arte o professione dal momento che opera all’interno di un’organizzazione e strategia di impresa altrui, egli non è soggetto IVA, come espressamente detto dall’art. 5 comma Ilo Dpr n. 633/1972 (legge suii’IVA), a monte del quale non si considerano effettuate nell’esercizio di arti o professioni le prestazioni di servizio inerenti ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. L’apparente frontale contraddizione con l’articolo 50 lettera c bis Tuir, che invece consente che si possa essere titolari di partita IVA e fatturare collaborazioni coordinate e continuative rientranti nell’oggetto dell’arte o professione, si può risolvere evidentemente solo chiarendo che la collaborazione coordinata e continuativa non può essere l’unica, o quasi unica, attività di quel soggetto, bensì una tra le molte prestazioni di lavoro autonomo da lui compiute e fatturate.

Ci sembra molto opportuno a questo punto precisare che si ha perfetta coscienza del fatto che l’assorbimento senza residui delle collaborazioni coordinate e continuative nelle regole del rapporto di lavoro subordinato, se da una parte risolve casi numerosissimi e scandalosi di falso utilizzo della partita Iva, dall’altro può esser considerato da alcuni eccessivamente cogente, e quasi un’ espropriazione di libertà dei giovani professionisti o lavoratori intellettuali, i quali vorrebbero, sì,essere protetti nei loro bisogni e diritti come lavoratori subordinati ma intendono anche mantenere un’autonomia operativa nell’esplicazione della loro attività professionale. Ritorna allora ciò che sopra si diceva circa il carattere ormai inessenziale per la tutela del lavoro dipendente di tutto l’apparato di disciplina paramilitare che avvolgeva la prestazione lavorativa di stampo fordista, e che ancora trova nel nostro codice civile diverse espressioni, quale l’ articolo 2104 in tema di gerarchia aziendale, quale l’art. 2106 ( e art. 7 Statuto dei lavoratori) in tema di

sanzioni disciplinari e l’art. 2108 e susseguente legislazione speciale in tema di orario di lavoro. Di questi contenuti normativi si può fare a meno nella moderna prestazione lavorativa, ed invero esistono categorie di lavoratori subordinati come quadri e dirigenti che non sono soggetti ad una specifica gerarchia aziendale né ad orario di lavoro, mentre per altro verso la graduazione delle sanzioni disciplinari cosiddette conservative (biasimo orale o scritto, multa, sospensione) appartengono ad una realtà del mondo del lavoro assai simile ad una vecchia caserma.

Questa antiquata normativa di eterodirezione può essere eliminata, o quantomeno resa del tutto derogabile per accordo tra le parti, anche per fatti concludenti, senza che nulla cambi nelle condizioni di produttività dei lavoratori di qualifica media e medio alta. In definitiva, nulla osta ad una unificazione invece assai necessaria sotto l’egida del lavoro economicamente dipendente tra l’attuale lavoro subordinato e l’attuale collaborazione coordinata e continuativa, preferibilmente con eliminazione dei risalenti profili di autoritarismo datoriale.

Così come nulla osta alla riduzione del lavoro precario a quella dimensione marginale e transeunte che gli è propria e che per meglio dire è propria dell’incidenza percentuale delle esigenze lavorative temporanee sulle esigenze lavorative complessive: una percentuale stimata del 13/14% che rende assolutamente anomala una percentuale di conclusione dei contratti a termine superiore ai due terzi del totale dei rapporti accesi, così come avvenuto in tutti questi anni. Infine una revisione nel senso di una vera omogeneizzazione tra regole del rapporto di lavoro pubblico e privato metterebbe fine a quel poco commandevole gioco a nascondino tra la nostra magistratura e la Corte di giustizia europea con riguardo alla fruizione da parte dei lavoratori pubblici di diritti non diversi e non inferiori a quelli dei lavoratori privati. Ci si può solo augurare che questa necessità di riunificazione sia correttamente apprezzata e accolta dalle proposte di riforma di diritto del lavoro, e dunque di superamento del Jobs Act, che cominciano ad affacciarsi in particolare da parte della maggiore organizzazione confederale. Ci auguriamo non si cada nell’errore di accettare una tripartizione dannosissima, e che si ritiene ormai superata, tra lavoratori subordinati, coordinati e continuativi e lavoratori autonomi in senso proprio, sotto l’egida di principi di tutela comune di tutte le forme di lavoro che costituirebbe un concetto in sé tanto affascinante quanto poco praticabile. Il lavoro economicamente dipendente deve invece es-sere unificato anche allo scopo di segnare con nettezza la differenza rispetto all’autentico lavoro autonomo svolto con propri mezzi, propria organizzazione e a proprio rischio, che necessita sì anch’esso di tutele, ma di diversa consistenza ed intonazione, non solo nei confronti della clientela, ma anche in quelli del sistema di sicurezza sociale.

3 - Riformulazione e innovazione dei principali contenuti statutari

Una volta ricostituita la platea dei destinatari di una nuova legislazione statutaria non è difficile individuare i provvedimenti di maggior importanza ed anche urgenza, tra i quali il primo posto non può essere negato alla reintroduzione della tutela di stabilità reale per il contratto di lavoro dipendente “a tempo indeterminato” nell’accezione comprensiva sopra chiarita. Va ribadito in primo luogo che, in ogni caso, a tale scopo occorre da subito proporre il referendum abrogativo della disciplina del contratto a tutele crescenti, ossia del Dlgs 23/2015. Questa iniziativa referendaria si presenta anche concettualmente come molto agevole, proprio perché si è introdotta una nuova disciplina peggiorativa decorrente da una certa data senza eliminare la disciplina precedente. Ne consegue che una volta abrogato per via referendaria il decreto 23/2015 la vecchia disciplina valida per i contratti stipulati fino al marzo 2015 si estenderebbe a tutti i rapporti in essere da qualsiasi data costituiti. Non bisogna dunque temere una rassegnazione o uno scarso interesse da parte dei lavoratori ex precari che comunque hanno conseguito il “beneficio” del contratto a tutele crescenti e a tempo indeterminato, proprio perché sarebbero

essi, in primo luogo, ad avere interesse al successo di quei referendum, in quanto il loro rapporto lavorativo verrebbe sostanzialmente rinforzato dall’introduzione anche per loro di una tutela reale. Probabilmente, però, il ritorno alla disciplina di licenziamenti, come risultanti dalle modifiche peggiorative della legge Fornero all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non dovrebbe essere l’unica misura, pur essendo la prima e la più importante. Infatti lungo un arco di 40 anni la disciplina dell’art. 18 ha subito una troppo lunga serie di rimaneggiamenti e pertanto una volta recuperata la tutela di stabilità reale sarebbe del tutto auspicabile riportarla alla sua linearità e coerenza, quale emergeva ancor prima dello Statuto dei lavoratori nella vecchia legge sulle clausole di nubilato (cfr. art. 2 legge 7/1963).

Il licenziamento, in altri termini, non può che essere nullo se il recesso, che è negozio causale, manca nella specifica fattispecie della causa in concreto, e dunque il rapporto non si risolve ma continua con decorrenza della retribuzione. Non vi è mai stata ragione di allontanarsi da questa conformazione che, ad esempio, è anche quella accolta nel diritto tedesco, salvo eventuali temperamenti su regimi ulteriori di regolazione degli interessi concreti, una volta dichiarata la nullità del licenziamento. Tale potrebbe essere per le piccole aziende, il potere del giudice di apprezzare la permanenza di condizioni di effettivo attrito e contrasto con potere risolutorio del rapporto di lavoro, ma con indennizzo davvero adeguato. Soprattutto importante sarebbe la reintroduzione della tutela reale per licenziamenti collettivi illegittimi, che anch’essi verrebbero travolti dalle conseguenze della nullità della causa per qualsiasi motivo, mentre con riguardo al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo prima ancora che della sanzione è necessario rivedere il concetto stesso di giustificazione; invero non è possibile, per motivi di elementare giustizia, identificarlo con la semplice volontà del datore di lavoro di effettuare una modifica organizzativa che elimini un lavoratore che risulti per qualche motivo sgradito.

Altra tema di cruciale importanza è quella della tutela della professionalità che il Jobs Actha manomesso in modo rozzo con riguardo soprattutto alle modifiche di mansione a parità di inquadramento in qualifica. Si tratta di un intervento soprattutto ideologico perché non è probabile che un datore di lavoro, ad esempio, invii un disegnatore tecnico ad espletare le mansioni di un gruista, e viceversa, anche se i due profili appartengono allo stesso livello di qualifica. Lo scopo vero è quello di negare attraverso la previsione di una possibilità di tal genere quello che è il cuore stesso della tutela professionale, ossia per dirla con la massima della Cassazione: “il mantenimento del bagaglio di conoscenze professionali acquisito nella fase precedente del rapporto”. Il legislatore per conto della Confindustria ha voluto lasciare intendere che quel piccolo tesoro professionale personale ha in realtà così poco valore da poter essere legittimamente disperso dal datore di lavoro anche per semplice capriccio, ma non si tratta qui soltanto di contrattaccare sulla base del riconoscimento costituzionale e comunitario del diritto alla professionalità come parte del diritto al lavoro, bensì di sanzionare, con una certezza che fino ad ora è mancata, le lesioni della figura professionale consumate non solo tramite spostamenti ingiustificati, ma anche soprattutto tramite deprivazione di mansioni. Occorre in altre parole prevedere positivamente, per questo come per altri diritti della personalità del lavoratore (alla salute, alla dignità personale, alla riservatezza, alla libertà di espressione ecc.), la possibilità del risarcimento del danno non patrimoniale nella triplice accezione di danno morale, biologico ed esistenziale. In particolare non si può assolutamente ritenere soddisfacente l’elaborazione giurisprudenziale in tema di mobbing che postula, chissà perché, un vero e proprio piano persecutorio, la continuità e la ripetitività degli attacchi, la variata tipologia degli stessi, laddove la fattispecie illecita dovrebbe ritenersi comunque consumata con l’accertamento del carattere volontario e non occasionale delle vessazioni. Per altro verso in questa materia non può essere considerata bastevole la tutela di tipo risarcitorio, dovendosi invece consentire ad una intrusione

più forte nel sistema organizzativo aziendale e prevenire il ripetersi dei comportamenti lesivi predisponendo ulteriori sanzioni in caso di recidiva.

Anche sotto il profilo della giusta remunerazione è ormai matura l’esigenza di importanti interventi, a cominciare da un’esplicitazione in sede di legislazione ordinaria della norma dell’articolo 36 Cost. Se infatti è vero che questa norma costituzionale è direttamente applicabile e ha costituito un validissimo baluardo contro le pratiche di sotto salario è, però, altrettanto vero che tale funzione si è scolorita negli anni per una serie di successivi restringimenti giurisprudenziali che, ad esempio, hanno puntato quasi esclusivamente sulla sufficienza della retribuzione e sul riferimento alle tariffe di contratto collettivo nazionale, le quali, come si sa, da molto tempo si limitano a perseguire (non certo a raggiungere) la cosiddetta invarianza salariale, ma certamente non distribuiscono nessun aumento di produttività. L’introduzione di un salario minimo garantito intercategoriale non sarebbe di per sé espressione dell’articolo 36 Cost. il quale ,a nostro giudizio, comunque andrebbe riferito alla media dei guadagni contrattuali per sommatoria delle contrattazioni di ogni settore lavorativo, bensì un suo cattivo surrogato sicuramente di tipo peggiorativo. Appare del tutto ovvio che la retribuzione minima per legge non potrebbe che essere allineata alla possibilità di pagare della impresa marginale di settori arretrati. Si noti che di un obbligo legale di adeguato compenso può ragionevolmente parlarsi anche al di là dell’area del lavoro economicamente dipendente, comprendenti l’attuale lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative, estendendosi altresì al lavoro autonomo in senso proprio con modifica dell’articolo 2225 cc. Norma quest’ultima profondamente equivocata e svuotata dall’interpretazione giurisprudenziale neo liberista secondo cui qualsiasi compenso concordato tra committente e lavoratore autonomo è valido indipendentemente dal suo ammontare, anche se in ipotesi contrario alla dignità della professione, che costituirebbe - assurdamente - un criterio vincolante per il giudice, se le parti per ipotesi non avessero stabilito nulla, ma non per le parti stesse in sede di trattativa.

Una revisione delle discipline legali appare ugualmente necessaria per la materia delicatissima degli appalti e dei subappalti e, in connessione ad essa, della interposizione di manodopera che l’articolo 29 della legge Biagi ha finito con il rilegittimare accordando, almeno nell’interpretazione giurisprudenziale, valore discriminatorio tra il lecito e l’illecito, alla circostanza della direzione da parte dell’appaltatore dei suoi lavoratori, ancorché l’appalto si riduca alla mera fornitura di manodopera. Si è trattato di una degenerazione molto grave, di una vera e propria legittimazione del caporalato, che si è diffusa come una malattia infettiva in particolare nel mondo cooperativo, rendendo ormai abituale l’affidamento di appalti di servizi a cooperative che pagano compensi assurdamente bassi, anche di tre euro l’ora ai loro soci lavoratori. Fenomeno degenerativo che è tanto più grave in quanto i committenti sono il più delle volte enti pubblici che in questo modo credono di porre rimedio alle varie leggi di blocco delle assunzioni.

Tra i tanti temi da sviluppare adeguatamente per la corretta gestione dei rapporti vi è poi sicuramente quello della prestazione di lavoro nei gruppi di impresa, in presenza di una giurisprudenza che non è stata in grado di compiere quel minimo progresso di “superamento del velo” della separata personalità giuridica, che è del tutto normale nella giurisprudenza dei principali paesi europei.

Degli altri tre grandi campi di intervento è qui possibile solo indicare quello già devastato dal Jobs Act degli ammortizzatori sociali, che deve comportare a parer nostro una vera e propria ripartenza per definizione di fattispecie e di istituti, tra i quali va ormai annoverato anche il cosiddetto reddito minimo garantito al quale è stato negato per lungo tempo, e forse teoricamente a ragione,

la natura di ammortizzatore sociale in senso proprio, ma che è ora candidato a tale ruolo grazie alle restrizioni legislative del sistema degli ammortizzatori sociali di tipo assicurativo.

L’altro settore è quello fondamentale della contrattazione e della rappresentanza sindacale. È stato oggetto negli ultimi anni di non poche “prove d’orchestra” sotto specie di accordi sindacali di livello confederale che hanno definito istituti di rappresentanza e un sistema di contrattazione con previsione di efficacia degli accordi. Resta però insuperabile al momento la critica di ineffettività di tali intese discendente dalla fonte di regolazione scelta, e cioè della fonte contrattuale che, per ragioni antologiche, non potrà mai avere quella inclusività tipica solo della legge. Legge assolutamente necessaria oggi che il sindacalismo confederale non costituisce affatto la forma esclusiva di organizzazione dei lavoratori. L’importante è, a nostro avviso, che una legislazione in tema di rappresentanza e di livelli di contrattazione, nonché di efficacia dei contratti collettivi nazionali ed aziendali, adotti come sua stella polare la validazione degli accordi stessi da parte dei lavoratori interessati attraverso forme anche differenziate di referendum. Non meno importante, però, è che gli accordi aziendali, anche se confermabili da referendum, non possano mettere in discussione il sistema di contrattazione in quanto tale e dunque portare deroghe discrezionali ai contratti nazionali e alle leggi. Il pericolo è, evidentemente, che, indeboliti e ricattati dal Jobs Act, i lavoratori della singola azienda finiscano con il sancire anche attraverso il referendum la totale indipendenza, dell’azienda stessa e del suo contratto collettivo particolare, dall’intero sistema della contrattazione, dai suoi rinvii dall’uno all’altro livello e dalle stesse leggi fondamentali in materia di lavoro.

Non può essere sottaciuto, ancora, quello che è purtroppo divenuto ambito di grande interesse per interventi di ricostituzione e miglioramento delle tutele, ovvero la tematica stessa dei modi della difesa stragiudiziale e giudiziale dei diritti. La principale preoccupazione dei legislatori, sia di centrodestra sia tecnici o di centrosinistra che si sono succeduti da oltre un lustro a questa parte, sembra infatti quella, non di ridurre, ma di reprimere il contenzioso del lavoro, impedendo di fatto, o rendendo estremamente difficile per i lavoratori, la tutela dei loro diritti. Intanto si è avuta, come si è visto, un notevolissimo indebolimento dei diritti sostanziali, ma soprattutto si è abbattuto su quella capacità di difesa un’arcigna serie di decadenze e di implicite sanatorie di ogni genere di illegittimità (si pensi alle sanatorie previste dall’art. 32 legge183/2010). Si è affermata la premeditata tendenza a punire con pesantissime condanne per spese legali i lavoratori che hanno osato rivolgersi ai giudici, evidentemente perfettamente in sintonia su questa materia con l’intenzione repressiva del legislatore.

Il programma delle forze politiche democratiche dovrebbe dunque essere quello di perseguire anzitutto la riunificazione del mondo del lavoro dipendente e di ridare vita ad un sistema di tutele superiore a quello che il Jobs Actha voluto distruggere, concependo però questo perimetro di difese e di tutele non come un campo trincerato, ma come il punto di irradiazione di principi di sicurezza e garanzia del contraente debole capaci di espandersi anche verso il mondo del lavoro autonomo e delle piccole imprese.

DAL ROGO DELLA THYSSEN-KRUPP ALLA LOTTA DI CLASSE

di Giuseppe Morese*

*già operaio RSU FIOM Thyssen-Krupp Torino; attuale presidente dell’Associazione “Legami d’Acciaio”, Associazione delle famiglie degli operai della Thyssen morti nel rogo del 2007

Sono un ex operaio della Thyssen-Krupp, oggi presidente di “Legami d'acciaio”, Associazione fondata dopo la tragedia del 6 dicembre 2007 avvenuta nella stessa Thyssen-Krupp di Torino, nella quale morirono, bruciati vivi, sette operai : Antonio Schiavone, Angelo Laurino, Bruno Santino, Giuseppe de Masi, Rosario Rodino', Roberto Scola e Rocco Marzo.

La mia esperienza nelle acciaierie torinesi e' durata trent'anni. All'inizio lavoravo alla Fiat Ferriere, poi alla Teksid e, in ultimo, alla Thyssen-krupp. Il lavoro in acciaieria e' quotidianamente pericoloso e usurante, l'infortunio e' frequente, sempre in agguato, nonostante l'attenzione, piena di paura, da parte degli operai. L'ambiente di lavoro non è certo dei migliori: io e i miei colleghi siamo andati in pensione con la legge sull'amianto, al quale siamo stati esposti per un tempo lunghissimo, dagli anni ‘70 al 2000. All'inizio degli anni ‘80 gli operai delle acciaierie erano 13.000; quando sono andato in pensione, a Torino, gli operai erano 500. Da quando siamo passati alla Thyssen la situazione lavorativa, invece di migliorare, è peggiorata di anno in anno, fino alla tragedia del 2007, nella quale persero la vita i sei operai e il caposquadra, colleghi e amici. Negli ultimi due anni l'azienda speculava sulla manutenzione degli impianti e metteva gli operai in brutali condizione di rischio. Nell'ultimo anno molte figure professionali di manutentori avevano cercato un'altra collocazione, in previsione della chiusura della fabbrica. Queste figure non sono state sostituite con personale all'altezza, lasciando allo sbando lo stabilimento: costavo “troppo”, ai padroni. Purtroppo su una linea molto complicata, come la Linea 5 – la Linea della morte - lunga 200 metri e alta 15, l'azienda non ha approntata la sicurezza necessaria. L'anno prima, in Germania, nella Thyssen casa madre, si era verificato un incidente analogo a quello che avrebbe poi causata la strage torinese, però, fortunatamente, senza conseguenze. Dopo il pericolo nella fabbrica tedesca, erano stati stanziati, per la sicurezza, dei fondi anche per Torino: ma la direzione di Torino-Terni della Thyssen decise di risparmiarli, preparando, così, l’assassinio dei nostri colleghi. Sarebbe bastato installare uno spegnimento automatico, nella Linea 5, in quel luogo che sarebbe divenuto per sempre il luogo dell’orrore capitalista, invece che lo spegnimento manuale. Gli operai avrebbero evitato di tentare di spegnere l’incendio con gli estintori a mano, di spegnere un inferno con un bicchiere d’acqua, quell’inferno che trasformò in torce umane i nostri amici. Gli estintori manuali, peraltro - e tutti lo devono sapere, perché la verità è lotta di classe – erano per la metà vuoti: i padroni risparmiano sempre, in ogni passaggio del processo produttivo. E lo fanno, strategicamente, a partire dalla pelle degli operai. E questa non è retorica: è la verità nuda e cruda. E se qualcuno stenta a crederlo, entri in fabbrica, a vedere con i propri occhi.

In questi giorni – maggio 2016 - dopo quasi nove anni e quattro gradi di giudizio, c'e stata la condanna definitiva dei dirigenti della Thyssen, non solo per l’assassinio dei sette operai, ma anche per tutte le morti sul lavoro. Una condanna mite, rispetto all’orrore antiumano che essi hanno provocato; ma, anche, una condanna importante, che poteva anche non esserci, rispetto ai rapporti di forza tra capitale e lavoro, rispetto alla dittatura del capitalismo, in Italia, in Germania e ovunque: una dittatura, come sappiamo, come sanno innanzitutto gli operai delle fabbriche, che viene esercitata, dai padroni, sui governi, sui media, sulla società, sulla magistratura.

II lavoratori, in questa fase segnata, in Italia, dalla mancanza di un sindacato di classe e di lotta e dalla mancanza – socialmente e politicamente, drammatica - di un partito comunista di massa,

sono subordinati, oggi più che mai, al dominio feroce dei padroni e del profitto, sono privi di diritti, di salario sufficiente a vivere ed esposti ( non solo nelle fabbriche del fuoco vivo e continuo, ma ovunque) a mille infortuni e alla morte.

Per questo siamo per la ricostruzione di un partito comunista, un partito di lotta, che sia all’altezza dei tempi e dello scontro di classe: lo siamo a partire dalle nostre, brutali, condizioni di vita, a partire dall’attuale, ottocentesca, condizione di sfruttamento dell’intera classe operaia.

INDUSTRIA ITALIANA E MULTINAZIONALI USA (A PARTIRE DAL CASO WHIRLPOOL-INDESIT)

di Alessandro Belardinelli *

*operaio, RSU FIOM “ Whirlpool – Indesit” Fabriano

La produzione italiana di elettrodomestici ha registrato, negli ultimi 30 anni, il protagonismo della famiglia Merloni che da azienda locale si è trasformata in una multinazionale “tascabile” conquistando il primato di vendite in UE, UK, Polonia e Russia, crescendo in modo esponenziale in tutti i mercati del medio oriente e in varie parti del mondo. Dapprima con il nome di Merloni Elettrodomestici SpA e successivamente (2006) con Indesit Company SpA ha rappresentato il principale produttore di el.do. in Italia seguita da Elettrolux. Questo settore, ancora oggi, rappresenta il secondo nell’industria italiana per numero di occupati dopo l’autotrazione.

La perdita occupazionale del settore, conseguente alla globalizzazione, è di enormi proporzioni.

- Assetto produttivo nel 2006 Indesit Company ITALIA:

None (TO) 700 dipendenti – lavastoviglie (1 MLN di pezzi annui);

Brembate (BG) 700 dipendenti – lavatrici carica dall’alto ( 1 MLN di pezzi annui);

Refrontolo (TV) 110 dipendenti – blocchi su misura per grandi cucine;

Comunanza (AP) 900 dipendenti – lavatrici carica frontale (1,5 MLN di pezzi annui)

Albacina (AN) 730 dipendenti – cucine libera istallazione, piani cottura, forni incasso (2,3 MLN pz/anno)

Melano (AN) 870 dipendenti – frigoriferi libera istallazione( 1,5 MLN di pezzi annui)

Teverola (CE) 800 dipendenti – lavatrici (1,2 MLN pezzi annui)

Carinaro (CE) 850 dipendenti – frigoriferi incasso (1,5 MLN pezzi annui)

Fabriano (AN) 2000 impiegati tra la sede centrale, laboratori di progettazione e laboratori tecnici.

Dopo anni di de-localizzazioni in Polonia, è stata concentrata la maggior parte della produzione di Indesit con il maggior numero di operai rispetto a qualsiasi altro paese.

- Assetto produttivo nel 2016 con la vendita di Indesit Company a Whrilpool EMEA:

Fabriano fabbrica Melano con 800 dipendenti di cui 250 dichiarati in esubero – (piani cottura e blocchi speciali 2,3 MLN di pezzi annui) cassa integrazione straordinaria a rotazione fino al 31/12/2018;

Fabriano sede centrale con 830 impiegati in progettazione di cui 230 dichiarati in esubero, oggi in regime di solidarietà fino al 31/12/2018.

Comunanza 630 dipendenti in Contratto di Solidarietà fino al 31/12/2018 (lavatrici e lavasciuga)

Carinaro 320 dipendenti in CIGS e Contratti di Solidarietà fino al 31/12/2018 (centro ricambi)

Tutti gli altri siti sono stati chiusi nel processo di de-industrializzazione iniziato nel 2008 e ancora in corso mentre in Polonia il numero di occupati ha raggiunto le 6000 unità in dieci anni.

La Fiom ha da sola denunciato la vendita e il disimpegno della famiglia Merloni già nella vertenza di Giugno 2013, conclusa al MISE (Ministero dello sviluppo economico) con la chiusura di tutti i siti del nord Italia, lasciando gli altri in cassa integrazione fino al 2018. Le maestranze hanno deciso di votare SI al Referendum sull’Accordo del 2013( come chiedevano Cisl, Uil e Ugl)e la Fiom ha dovuto firmare solo in secondo tempo, per volontà dei lavoratori, messi alle strette sul Referendum da una procedura di mobilità aperta da Indesit per legittimare l’Accordo separato al MISE.

Oggi nel fabrianese si sta dentro un processo di smantellamento totale della grande industria che per scelte miopi e viziate dai poteri forti locali, hanno disincentivato, nei decenni scorsi, qualsiasi diversificazione produttiva al di fuori dei Merloni e dell’el.do. cosicché il distretto registra il 50% di disoccupati di cui la metà mascherati da ammortizzatori sociali.Il territorio vede una continua perdita di residenti e non emigrano più solo gli stranieri e i lavoratori provenienti da altre regioni d’Italia ma sempre più giovani marchigiani lasciano la propria terra per il nord Europa nella speranza di un futuro.

Nella Whirlpool – Indesit si vivono periodi di grande incertezza tra gli operai con CIGS e perdite salariali di notevole entità, nella fabbrica non si intravede la più pallida ripresa produttiva; sono in corso gli incentivi all’esodo di 50.000 euro lordi per licenziarsi che poi scenderanno a 40.000 nel 2017 ed a 30.000 euro lordi nel 2018. Molte maestranze (oltre 80) hanno scelto la strada dell’incentivo anche se è sconsigliabile per chi pensa di ricollocarsi in zona visto che tutte le cittadine del circondario vedono crollare gli abitanti (per esempio Matelica è scesa sotto i 10.000 abitanti dopo mezzo secolo che non accadeva).

La de-industrializzazione di Fabriano che è iniziata nel 2006-2007non ha origine con la crisi economica del 2008 in quanto l’obiettivo dei padroni era ed è di massimizzare i profitti, allocando altrove le produzioni dove i diritti, i salari ed il sindacato hanno un peso specifico molto inferiore del nostro.

La vendita del Gruppo Indesit agli americani si poteva immaginare da quando nel 2006 sono crollati gli investimenti in processo e prodotti e da quando l’azienda ha concentrato le spese solo su un “maquillage” dei siti che alla fine dovevano essere alienati. Anche i cinesi si erano fatti avanti con offerte del 30% più alte ma la geopolitica dei poteri forti non ha permesso loro di insediarsi con produzioni fatte in Italia e di conquistare quote di mercato europeo a discapito dei principali marchi occidentali.

Unica nota positiva è che Whirlpool oggi è il principale produttore per numero di pezzi venduti in Italia e in UE seguita da BosheElettrolux. In Italia ha deciso di investire centinaia di milioni di euro (513 MLN in tre anni) per rilanciare le produzioni rimaste oggi nel nostro Paese dove la Whirlpool ha i seguenti siti produttivi:

Cassinetta (VA) 2000 dipendenti tra impiegati e operai (frigoriferi e forni incasso, microonde);

Siena 450 operai (congelatori a pozzetto);

Napoli 600 operai (lavatrici carica frontale alto di gamma);

Carinaro 320 operai a part-time obbligatorio (centro ricambi);

Comunanza 630 operai in Solidarietà (lavasciuga)

Melano 800 operai i cigs a rotazione (piani cottura);

La Fiom è in attesa nei confronti di Whirlpool , la quale dovrà rispettare gli impegni di rilancio produttivo e salvaguardia occupazionale anche se gli esuberi ad oggi non sono stati riassorbiti perché gli incentivi all’esodo non sono la soluzione alla mancanza di lavoro; personalmente penso che solo una riallocazione in Italia, dei siti oggi in Polonia, potrà risollevare le sorti di migliaia di operai come il sottoscritto.

SOGGETTIVITA’ DI CLASSE, BLOCCO SOCIALE E AREE METROPOLITANE di Sergio Cararo * *Rete dei Comunisti La credibilità e le possibilità di una opzione comunista nel XXI Secolo e in una realtà come quella italiana, non possono non fare i conti con le modificazioni sociali e produttive intervenute in questi ultimi tre decenni nella realtà di classe e nella società. Modificazioni oggi nuovamente e fortemente scosse dalla nuova fase della crisi sistemica dell’economia capitalista. In questi anni di lavoro di inchiesta e confronto ancora in corso sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista - di cui i comunisti dovrebbero tornare ad essere espressione politica e ipotesi strategica di affermazione degli interessi nel nostro paese - abbiamo cercato di individuare i punti in cui la quantità delle contraddizioni può diventare qualità sul piano della lotta per il cambiamento. La concretezza della crisi – in un certo senso – sta spazzando via molte rendite di posizione e molte teorie deformanti – vedi le baggianate sulle “moltitudini” – e sta riponendo concretamente la

discussione sulla struttura di classe della società e sulla centralità del conflitto capitale-lavoro che assume in se anche la contraddizione ambientale. Gli elementi che attengono alla sfera della sovrastruttura sono stati troppe volte sottovalutati o affrontati in maniera subalterna rispetto alla capacità egemonica della borghesia sulla società italiana. Se è vero che siamo in presenza di un pesante processo di polarizzazione sociale e di acutizzazione delle contraddizioni sociali non è affatto scontato che da queste emerga una coscienza di classe più avanzata rispetto a quella che abbiamo conosciuto nei decenni scorsi. Questo è un terreno su cui il capitale lavora con la stessa sistematicità con cui affronta le contraddizioni del proprio modo di produzione. Non basta più domandarci perché ampi settori di proletariato metropolitano nelle periferie votino per la destra o perché nel Nord quote consistenti di lavoratori salariati ed autonomi affidino la propria ambizione di cambiamento alla Lega La dialettizzazione tra condizione sociale e coscienza di classe, dentro le modificazioni intervenute e dentro quelle in corso, non può essere un alibi per i peggiori riti della realpolitik ma deve diventare un terreno di indagine rigorosa e di riflessione sulle forme dell’intervento politico e sindacale. Gettare lo spugna o farsi illusioni non è serio. E’ ormai evidente come le città-fabbrica del vecchio triangolo industriale (Torino, Milano, Genova) abbiano cambiato fisionomia e non solo sul piano urbanistico con il boom delle cosiddette bonifiche delle aree industriali dimesse (secondo alcuni dati già 100 milioni di metri cubi di aree industriali dismesse sono stati bonificati e ristrutturati nelle grandi metropoli). E’ sufficiente guardare a cosa è accaduto nell’area metropolitana milanese in previsione dell’Expo del 2015. L’inserto scientifico del “Sole 24 Ore” prova così a disegnare lo scenario post-industriale di alcune città-fabbrica del modello italiano: “Il paesaggio della conoscenza comincia materialmente dove finisce l’industria pesante. Le forme di molti insediamenti siderurgici o petrolchimici, lasciano il posto a nuove iniziative: fiere, centri congressi, mostre, imprese di software, centri di ricerca”. Sul piano della composizione sociale, le concentrazioni di classe – le grandi fabbriche leninisticamente intese – in cui agiva concretamente l’oggettività, l’identità e la soggettività di classe, sono state disperse, sono distribuite sia lungo le filiere internazionali di produzione sia nella dispersione territoriale attraverso i distretti industriali, che trova però nelle aree metropolitane un nuovo fattore di centralizzazione verticale. Come diventa possibile allora cercare di individuare ed intercettare gli elementi di ricomposizione degli interessi di classe, la loro rappresentanza politica, la loro identità e soggettività politica che permettano di riaprire con qualche chance di vittoria il conflitto lavoro-capitale in un paese a capitalismo avanzato? Dov’è che oggi si concentra il blocco sociale antagonista che può re-ingaggiare una lotta vincente per l’egemonia contro il capitale? A nostro avviso, per i comunisti oggi la scelta dell’organizzazione e del rafforzamento del sindacalismo di base, conflittuale e metropolitano, è diventata un progetto strategico. Un fondamentale punto di programma politico generale che costituisce, a nostro giudizio, un elemento di linea fondante per il rilancio di una moderna opzione comunista che vuole rapportarsi alle dinamiche vive e conflittuali agenti. Il problema non è quello di sancire uno “strappo”con un tessuto di compagni e delegati combattivi ancora all’interno delle fabbriche e dei sindacati concertativi (per quanto la normalizzazione stia riducendo ferocemente i margini di agibilità democratica e rappresentatività di questi compagni dentro quella realtà). Si tratta invece di prendere atto che i comunisti e i militanti anticapitalisti devono costruire e rafforzare gli strumenti concreti di relazione con i settori di classe nel nostro paese per orientarli ed affrontare in modo organizzato il conflitto sociale. Per troppo tempo i comunisti si sono limitati a fare agitazione

politica dentro questi sindacati o si sono fatti assorbire da una interminabile battaglia interna di minoranza che non ha mai concretizzato livelli reali di organizzazione autonoma sul piano delle lotte e della successiva tenuta organizzativa. Una fotografia della realtà ci fa vedere che il valore aggiunto della produzione aumenta e che aumentano anche i lavoratori salariati impegnati a far crescere questa ricchezza, vediamo anche come l’introduzione delle nuove tecnologie, dopo aver rafforzato in una prima fase l’aristocrazia salariale per giocarla contro il resto del blocco sociale antagonista, sotto la spinta della crisi e di una sfrenata competizione globale sta producendo una crescente proletarizzazione di parte dell’aristocrazia salariale e dei ceti medi, ma sta introducendo anche una precarizzazione del lavoro nei settori più avanzati sul piano della conoscenza (i knowledgeworkers) e dell’uso delle nuove tecnologie (vedi, i ricercatori a contratto, gli operatori dei call center, gli ingegneri della Motorola o della Nokia sottopagati o gli stessi giornalisti). Una delle conseguenze per noi più è che siamo di fronte ad un processo di polarizzazione sociale e “proletarizzazione” del lavoro assai più accentuata che rispetto a dieci anni fa. Se il ventennio liberista aveva giocato e imposto gran parte della sua egemonia sul carattere progressivo del suo modello, la crisi economica oggi rende evidente e tangibile a molti il suo carattere regressivo. Per la sinistra di classe – sul piano oggettivo – è una situazione eccellente. Ma su quello della soggettività e della rappresentanza politica del blocco sociale antagonista le cose stanno diversamente ed appaiono assai più arretrate. Per questo c’è bisogno di un approfondimento teso ad individuare la geografia politica e sociale di questa nuova fase del conflitto Capitale-Lavoro nella nostra realtà. Da qui è nata la riflessione sulle aree metropolitane come “territorio politico e sociale” dove quantità e qualità delle contraddizioni di classe possono delinearsi con più forza e con capacità egemoniche sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista fortemente frammentato dalla riorganizzazione capitalistica di questi ultimi trenta anni e reso privo di identità di classe dall’egemonia esercitata dal Capitale e che ha sorretto e accompagnato la sua visione di lotta di classe contro il Lavoro. Come notava già Engels nel suo saggio su “La questione delle abitazioni”, le concentrazioni urbane ammassano quantità sovrabbondante di forza lavoro. In questa nuova concentrazione, la produzione flessibile trova i “requisiti ambientali” idonei per il suo massimo decentramento (e per il massimo accentramento dei poteri decisori) e per la mobilità completa che oggi è la necessaria condizione per la competizione globale capitalistica di questa fase storica. La massa della forza lavoro delle metropoli, quello che potremmo definire il proletariato metropolitano, vive oggi una condizione di crescente degrado che è la diretta conseguenza dell’abbattimento dei costi di riproduzione. Un dato per tutti la crescita quantitativa dei lavoratori immigrati inseriti nel mercato del lavoro (oggi 1,6 milioni di contribuenti all’Inps non lavoratori stranieri). Si scatenano le guerre tra poveri per poter vincere meglio la guerra contro i poveri, l’esercizio ormai evidente di un odio di classe dei padroni contro i lavoratori e il proletari. Agiamo politicamente, sindacalmente e socialmente dentro un degrado acutizzato dalla precarietà del lavoro, dalle privatizzazioni e dallo smantellamento dei servizi sociali, dall’aumento delle imposte locali, dall’aumento delle tariffe e delle abitazioni, dalla difficoltà di poter usufruire di forme di reddito diverse dal lavoro (sempre più insicuro). Una situazione che diventa ancora più visibile, disgregante e strumentalizzabile nelle periferie metropolitane.

In sostanza le metropoli e la condizione sociale del proletariato metropolitano, rappresentano un terreno importante di sperimentazione e verifica per i sindacati, i movimenti sociali e per l’azione politica dei comunisti, perché potrebbe rivelare quasi “naturalmente” il fronte di lotta sulla riproduzione sociale complessiva proprio lì dove il Capitale ha nuovamente concentrato i settori di classe dopo averli frammentati, delocalizzati, dispersi ed egemonizzati con lo smantellamento dei grandi stabilimenti e della grandi concentrazioni industriali, ma soprattutto lì dove il suo carattere regressivo si manifesta con maggiore violenza. Per tali motivi e sulla base di questa analisi, sul piano dell’organizzazione concreta del blocco sociale antagonista, viene assumendo crescente interesse la sperimentazione sul campo dell’idea/forza di una sorta di “sindacato metropolitano” che verifichi le possibilità di ricomposizione di un proletariato metropolitano fortemente intrecciato – ma diversificato – dal mondo del lavoro tradizionale che abbiamo conosciuto e dentro cui ci siamo battuti in questi decenni. Sulla base di queste considerazioni – che spesso ci hanno visto divergere e discutere con altri compagni in Italia e a livello internazionale - la Rete dei Comunisti intende contribuire a tutti i progetti tesi alla costruzione di un vasto ed articolato schieramento anticapitalistico nel nostro paese, alla ridefinizione di una funzione strategica nel rapporto tra comunisti e blocco sociale di riferimento, al consolidamento del sindacalismo di classe. Per questo c'è bisogno che nel dibattito sulla ricostruzione di un blocco sociale antagonista al capitale, i comunisti tornino ad utilizzare appieno un metodo di lavoro e di lotta basato sull’inchiesta, il confronto e la sperimentazione, sperimentazione che significa innanzitutto recupero di credibilità e piena internità alle lotte sociali e sindacali.

L’ORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI NEI LUOGHI DI LAVORO E DI PRODUZIONE

di Rolando Giai – Levra*

*direttore “Gramsci Oggi”

Credo che alla base della ricostruzione del Partito Comunista Italiano è necessario porre come discriminante la centralità della classe operaia (definita da Gramsci, classe dei produttori) e delle masse lavoratrici. Una classe a cui il partito deve dare il massimo di visibilità all’interno dei processi che attraversano il nostro paese e il mondo e che oggi vengono identificati con la cosiddetta “4ª Rivoluzione Industriale”, caratterizzata dall’inserimento di macchine intelligenti, che riducono sempre di più il lavoro manuale, che sono connesse a Internet e con processi informatici complessi e sempre più sofisticati. Dalla prima rivoluzione industriale fino a quella attuale, il denominatore comune continua ad essere caratterizzato dai rapporti di produzione capitalistici che mantengono il comando del capitale e del profitto sul lavoro e la produzione. La centralità della fabbrica va rilanciata in tutta la sua modernità analizzata scientificamente da Marx nel Capitale e Lenin nelle sue opere. Essi hanno affermato che la fabbrica non è la singola unità lavorativa e produttiva (indipendentemente dalle sue dimensioni) delimitata dai muri costruiti dai capitalisti lungo il confine che determina la loro proprietà privata. Lo stabilimento piccolo, medio o grande stabilimento che sia è semplicemente

un reparto di una fabbrica che è costituita (dal punto di vista scientifico) da relazione, rapporti, processi e cicli lavorativi-produttivi a livello planetario in cui si intrecciano tutto le branche dell’industria. Per i comunisti questo significa che ovunque ci sia un processo lavorativo e produttivo che dà origine alla produzione di oggetti, che si trasformano in merce nel momento che vengono immessi in circolazione nel mercato, è necessario costruire l’organizzazione di classe adeguata a quella realtà concreta. È lì che si genera e si forgia la democrazia operaia che in prospettiva si esprimerà nella sua forma storica che sostituirà la democrazia borghese nella sua forma rappresentativa e parlamentare che oggi conosciamo. In pratica la democrazia sul lavoro si potrà riaffermare organicamente nel momento in cui la classe operaia esprimerà nuovamente i propri Delegati (indipendentemente dalla iscrizione al sindacato) nei luoghi di lavoro e di produzione per governare complessivamente la fabbrica in tutte le sue articolazioni (unità lavorativa, reparti di lavorazione, depositi, magazzini, uffici tecnici e amministrativi, ecc…), per gestire e controllare direttamente i processi lavorativi e produttivi. Tutto ciò ha bisogno di una articolata, intelligente e disciplinata organizzazione in fabbrica che, nel corso degli anni, ha caratterizzato tutti gli Statuti approvati dai Congressi del P.C.I. A maggior ragione, oggi, dovrebbero essere espressi e scritti a pieno titolo in maniera ancor più evidente anche nello statuto del Partito in fase di ricostruzione (anche se vi è già qualche accenno nello statuto del 2015), per mettere in risalto tutti gli aspetti e i rapporti organizzativi-politici-ideologici fondamentali per la classe lavoratrice e i comunisti. Sostanzialmente si tratta dei seguenti tre elementi: 1- L’organizzazione economica dei lavoratori: il Sindacato

Partendo dal sindacato, che è la più grande organizzazione di massa dei lavoratori che storicamente svolge una funzione di vendita della forza-lavoro nei luoghi di lavoro, i comunisti devono svolgere la loro azione politica all’interno per combattere l’egemonia del riformismo e conquistare la maggioranza del Sindacato stesso per trasformarlo in Sindacato di classe epurato da tutte le tendenze socialdemocratiche e fare crescere la forza contrattuale dei lavoratori. All’interno di questo quadro, la scelta dei comunisti deve essere netta e chiara nell’operare all’interno della storica e più grande organizzazione sindacale di massa che è la C.G.I.L., all’interno delle sue Rappresentanze Sindacali di base (R.S.U e R.S.A.) all’interno della quale i comunisti insieme ai lavoratori, che condividono le proposte dei comunisti nel Sindacato, devono poter coordinarsi a tutti i livelli (dai luoghi di lavoro fino al livello nazionale) dotandosi di adeguati strumenti sulla base di un programma concreto e alternativo al riformismo. Quindi, si pone la necessità di : a- creare un coordinamento nazionale dei lavoratori comunisti. b- elaborare un programma di classe articolato : - un piano di lavoro nazionale in cui rilanciare gli obiettivi di vere politiche industriali fino alle nazionalizzazioni dei settori strategici dell’economia del paese - rivendicazione e lotta per aumenti salariali - ottenere uguale salario ad uguale lavoro - conquistare la riduzione dell’orario di lavoro – sviluppare la democrazia interna - ecc…; ma, anche riorganizzare le stesse categorie della C.G.I.L., compreso il superamento della categoria dei pensionati (oggi strumento efficace del riformismo per determinare le sue maggioranze), rilanciando una proposta della FIOM che indica che i pensionati devono restare iscritti nella categoria industriale di provenienza del loro periodo lavorativo. Infatti lo SPI-CGIL nasce come categoria di pensionati, non a caso, nel 1977 e cioè alla vigilia del 1978 anno storico dell'assemblea dell'EUR di Roma in cui il Segretario Nazionale della CGIL Luciano Lama aprì la strada ad una politica di sacrifici per i lavoratori.

c- autonomia dagli altri sindacati e superamento degli altri sindacati minori (CISL-UIL nati dalle scissioni del ‘48 e ‘50), dei sindacati extraconfederali e naturalmente dall’UGL (ex CISNAL del MSI) per ricostruire un unico sindacato di classe delle lavoratrici e dei lavoratori del nostro paese. 2- L’organizzazione politica dei comunisti e dei lavoratori: la Cellula

La cellula come struttura di base del Partito rappresenta l’organismo fondamentale nei luoghi di lavoro e di produzione con la quale il partito si radica nella classe operaia e ne diventa parte organica. Facendo riferimento a Lenin, Gramsci ci ha indicato che la costruzione delle cellule oltre a rappresentare una soluzione tecnico-organizzativo efficace e generale per il partito, soprattutto è una questione politica che riguarda la direzione delle masse, cioè rappresenta la forma di base con cui si struttura il partito già in previsione della conquista di uno stato socialista in cui la classe dovrà esercitare il suo dominio. Per questa ragione, la costruzione delle cellule nei luoghi di lavoro e di produzione rappresenta la migliore soluzione organizzativa per un Partito Comunista, per il suo radicamento sociale tra la classe lavoratrice, per i compiti che deve svolgere per tutto il periodo fino alla conquista della Stato Operaio. Su questa base di classe che il partito edifica tutta la sua organizzazione con le sezioni, le federazioni provinciali, i comitati regionali fino al comitato centrale. 3- L’organizzazione della Classe Lavoratrice per il controllo e la gestione diretta sul lavoro e sulla produzione : Il Consiglio di Fabbrica

Gli strumenti organizzativi di lotta per il superamento dei rapporti di produzione capitalistici non possono limitarsi al Sindacato, in quanto non adeguato allo scopo e allo svolgimento del controllo e della gestione dirette dei lavoratori sui processi lavorativi e produttivi nei luoghi di lavoro. A tal fine sono stati generati autonomamente dai sindacati e direttamente dai lavoratori, lungo il corso della loro storia, i Consigli di Fabbrica (1918-1920 e del 1969-1991). Queste strutture non sono di tipo sindacale (confederale o extraconfederale) e nulla hanno a che fare con le R.S.U. e le R.S.A. che sono strutture sindacali; perché, la loro natura, appunto, non è “concorrentista “ e “non si basa sull’individuo”, ma al contrario si basa sull'unità organica e concreta del mestiere che si attua nell’organizzazione del processo industriale articolato nei reparti, nelle squadre e nei gruppi omogenei; perciò, la loro funzione storica è di classe, appunto per svolgere il controllo e la gestione della produzione e cioè di qualcosa che accompagnerà la società fino all’estinzione delle classi.

Gramsci ci ha detto che “Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario” (Sindacati e Consigli "L'Ordine Nuovo", 11 ottobre 1919) e cioè sono delle strutture attraverso le quali la classe operaia esprime e manifesta il modello di società che intende costruire.

Queste strutture devono essere dirette politicamente dal partito il quale per mantenere la sua connotazione e identità di classe deve preparare, fin da oggi, il terreno ideologico e politico tra i lavoratori in fabbrica per costruire queste strutture ovunque e a tutti i livelli: - luogo di lavoro, zona - comprensorio, provincia - regione - fino a realizzare una struttura consiliare nazionale diretta dai lavoratori eletti dai relativi C.d.F. e dalle Assemblee nei luoghi di lavoro. Gramsci ci dice che la costruzione delle strutture consiliari resta un compito esclusivo del partito e non del sindacato.

Naturalmente, il riformismo egemone nella C.G.I.L. come tutti gli altri sindacati e gli industriali sono del tutto contrari alla formazione di queste strutture che mettono in discussione il potere e il comando del capitalista in fabbrica e non è un caso che nel momento in cui queste strutture sono comparse sulla scena della storia, il sindacato ha sempre cercato di egemonizzarle per controllarne il movimento e burocratizzarle.

Infatti, nello storico biennio rosso “…..la classe operaia arrivò all'occupazione delle fabbriche senza direzione politica rivoluzionaria …. i riformisti poterono essi dirigere le masse verso la rinunzia alla lotta…” (L'organizzazione base del partito di Antonio Gramsci "L'Unità", 15 agosto 1925. - L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale di Antonio Gramsci "L'Unità", 28 luglio 1925).

“RIVOLTA FEMMINILE”

di Maria Luisa Boccia*

*docente di filosofia politica; già presidente nazionale SEL

“ Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non lo sacrificheremo né all’organizzazione, né al proselitismo. Comunichiamo solo con donne.”

E’ il luglio 1970. Con queste parole “Rivolta femminile” compie l’atto dirompente e inaugurale del femminismo italiano. Sono parole di congedo dal testo del pensiero maschile e di taglio netto con la Politica che sacrifica la presa di coscienza, la soggettività singolare, all’organizzazione e al proselitismo.

Allora la radicalità della scelta - solo con donne - suscitò scalpore e perplessità. In breve tempo divenne la pratica femminista. Oggi non è solo, o tanto, l’ovvio richiamo ad una storia politica. Come tale rischia di risultare un canone, con le sue modalità rituali. Credo invece che oggi torni ad essere un modo efficace di nominare su quale crinale si gioca il conflitto essenziale sulla politica. Detto in una formula: politica della soggettività prima, o piuttosto, che Soggetto politico (nuovo, o vecchio); pratiche di vita politica, prima, o piuttosto, che regole, modelli e programmi di organizzazione; atti di rivolta, prima, o piuttosto, che rappresentanza e decisione.

La lettura, o rilettura, dei testi dell’origine può avere ancora oggi un effetto dirompente, perché mostra che l’ autenticità del gesto di rivolta non solo è possibile, ma può produrre cambiamenti durevoli, incidere in profondità. E, infatti, la rivolta femminista continua a produrre presa di coscienza, a modificare pensiero e vita in giovani donne, molto diverse tra loro.

E rimette in questione, oggi come ieri, la tendenza, presente tra le donne, alla complementarietà, a considerarsi seconde, partecipi e comprese in progetti e sistemi di pensiero, di cui sono autori e protagonisti preminenti gli uomini La radicalità del femminismo della differenza è infatti nel

congedo dall’autorità maschile, non nella richiesta, o aspirazione di condividere alla pari, diritti, poteri, opportunità, scelte di vita.

L’inferiorità, come essenza della Femminilità, non la condizione sociale di sfruttate ed oppresse è la radice prima di ingiustizia e atrocità nelle vite di donne. Che possono colpire anche quelle tra loro che godono diritti, che hanno acquisito posizioni di parità e condivisione dei ruoli e di opportunità con gli uomini.

La differenza non è affatto la conferma e rivendicazione positiva dell’ identità femminile. Dal momento che la Femminilità quella è un’ invenzione dell’uomo. Il femminile classicamente inteso deve scomparire,non perché esprima valori negativi o perdenti. Ma perché “femminile” e “maschile”, le identità di genere, sono prodotti della civiltà e della storia patriarcale.

Nessuna integrazione nel mondo degli uomini, nessuna evoluzione del femminile verso l’uguaglianza potrà produrre autonomia e libertà dell’essere donna e non uomo. Al contrario, la preclude.

La libertà comporta il cambiamento dell’ordine sociale e simbolico costruito sulle identità di genere. Si tratta non solo di cambiare le condizioni di vita delle donne, ma di dare un altro corso all’intera vicenda umana, a una cultura e una storia dominate da uomini. E’ un’ inversione di 360 gradi rispetto al progetto dell’emancipazione e dell’uguaglianza .

“Il destino imprevisto del mondo sta nel ricominciare il cammino per percorrerlo con la donna come soggetto.” Scrive Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel .

E così è stato, se è vero che quella parola ha percorso il mondo, producendo mutamenti profondi, anche se tuttora controversi e contrastati. Come è ovvio,dal momento che ha scosso le fondamenta della civiltà e della storia. Fuori e dentro di noi. Nei rapporti mondani come in quelli con la trascendenza – le idee, la spiritualità, la verità, la conoscenza. Ha messo in questione natura e cultura che fanno l’impasto dell’umano. Ha insomma aperto la crisi del patriarcato. Lunga e violenta crisi, lo vediamo, che riserva colpi di coda imprevisti, come imprevista è stata la presenza della soggettività segnata dalla differenza sessuale.

Incomprensioni, rifiuti e dissensi, tra le donne stesse, si sono manifestati presto, e sono oggi rafforzati, come reazione alla diffusione del femminismo ma anche a causa di un contesto socio-culturale profondamente mutato, e segnato da processi di frantumazione ed individualismo crescenti.

L’accusa più pesante al femminismo è di essere elitario ed autoreferenziale; di indifferenza, o sottovalutazione, delle reali condizioni di vita delle donne. Di non impegnarsi politicamente per le riforme, i diritti, le leggi necessarie e garantire a tutte quello che le donne emancipate - e molte femministe lo sono- hanno già.

Viene così frainteso il cambiamento essenziale prodotto dal femminismo della differenza. Che è di aver aperto la via della libertà per le donne,quale che sia la loro condizione sociale, o il loro rapporto con il ruolo femminile. Le condizioni sociali, i ruoli, le culture, le classi, le etnie, le religioni, e quant’altro, dividono infatti le donne e possono risultare un ostacolo insormontabile per creare, tra donne, una politica di libertà. Per ognuna, la libertà ha infatti un contenuto e un esito diverso. Ma quel che conta è che il femminismo, scartando dalla prospettiva dell’emancipazione, ha dato risposta alla domanda di fondo, formulata fin dal 1791 da Olympe de Gouges, : “ Le donne saranno sempre divise le une dalle altre?”

E’ tuttavia sbagliato pensare che non vi sia attenzione alle condizioni di vita delle donne. Ma la prospettiva non è quella delle riforme, utili ad integrare le donne, a far evolvere i ruoli, ma di un cambiamento radicale, della società, ma ancor prima del modo d’essere dell’uomo e della donna, e dei rapporti umani. Ripropongo alcune delle formulazioni del “Manifesto di Rivolta” che, nella loro assertività, offrono una lettura originale e complessa della realtà e del mutamento che si vuole produrre.

Sull’emancipazione.“Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo, perché è invivibile”..

Sulla famiglia.“Nel matrimonio la donna, privata del suo nome perde la sua identità, significando il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei ed il marito. “Chi genera non ha facoltà di attribuire ai figli il proprio nome” “Siamo contro il matrimonio”.

Sulla maternità. “Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come aut-aut”. “ La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante”. ” In una libertà che si sente di affrontare, la donna libera anche il figlio e il figlio è l’umanità”.

Sulla sessualità. “ Accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme, perché abbiamo smesso di considerare la frigidità un’alternativa onorevole”. “Chi ha il potere afferma: ‘ fa parte dell’erotismo amare un essere inferiore’. Mantenere lo status quo è dunque un suo atto d’amore.”

Sul lavoro.”. “Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dell’egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata.” “Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria.” “ Dare alto valore ai momenti ‘improduttivi’ è un’estensione di vita proposta dalla donna.”

Lascio a chi legge di cogliere le implicazioni per il presente. A me pare evidente la loro fecondità per molte delle questioni oggi al centro del confronto politico: dalle unioni civili, alla procreazione, alla competitività liberista e la precarietà che produce, alla violenza incistata nei rapporti di amore.

Concludo con un altro riferimento a Lonzi. Nel 1978, si parla insistentemente di riflusso nel privato, e il femminismo sembra aver perso la forza dirompente dei primi anni. Lonzi riconferma la rilevanza politica della presa di coscienza soggettiva, ovvero del taglio netto, imprescindibile, con la politica tradizionale. . “La coscienza di me come soggetto politico nasce dal gruppo, dalla realtà che ho potuto prendere da un’esperienza collettiva non ideologica. (…) Ci ha dato la misura della nostra capacità di uscire fuori dalle strutture e dagli schemi maschili, di liberarci dal potere di oppressione, di cominciare ad esistere per quello che siamo. Non è che un passo, ma di natura politica. (…) Quando si dice che la Politica è finita si allude al fatto che è finita la fiducia in una concezione ideologica dell’essere umano, al quale la Politica si rivolgeva e per il quale prospettava sia la restaurazione che la rivoluzione”.

E, dunque, per favore che cessino gli appelli, etici e politici, ai Valori dell’umanità, universalmente validi, alla Natura umana, e alla rispondenza ad essa di questa o quella forma di Vita, di questa o quella forma di società, di istituzione, di rapporto. Di questo o quel Progetto, universalmente valido e al quale occorrerebbe adattare le soggettività. Oggi come nel ’70 vogliamo essere noi, donne e uomini, in carne ed ossa, a dire chi siamo e vogliamo essere, come vogliamo e possiamo

vivere nel riconoscimento della differenza e delle differenze. Continuando a smaltire i residui di quello che ci è stato imposto di essere e dire. Continuando ad affidarci al dialogo e alle relazioni, costruite nelle pratiche di libertà

Per la qualità della vita, in difesa dell’ambiente e del territorio

PER UNA NUOVA POLITICA ECONOMICA

di Giorgio Nebbia *

*Ambientalista; professore ordinario di merceologia; già deputato e senatore , eletto come indipendente nelle liste del PCI.

Supponiamo che un giorno ci riesca di governare l’Italia con un programma di sinistra: che cosa ci sarebbe da fare in questo caso ?

Mi sembra che ci sia ormai un certo consenso sulle seguenti tesi:

(a) in una società capitalistica non è possibile uno sviluppo - dico uno sviluppo, non una crescita - economico compatibile con i vincoli posti dalla natura e dall’ambiente;

(b) per motivi fisici e termodinamici ogni volta che si movimenta la materia e l’energia si fa aumentare la ricchezza monetaria, fine unico del capitale, ma si peggiora la qualità della materia e dell’energia e si impoveriscono la natura, e quindi la salute e le condizioni di vita delle donne e degli uomini. Per cui è privo di senso parlare di sviluppo sostenibile.

Per forza le regole del mercato globale - la possibilità, anzi il “dovere”, di produrre merci e servizi, di sfruttare materie prime, minerali, fonti energetiche, prodotti agricoli e forestali, e lavoro dove questi fattori costano meno, al fine di massimizzare il profitto del capitale - comportano un sempre più intenso e rapido impoverimento delle riserve di beni naturali: della fertilità del suolo, delle riserve minerarie e fossili, delle riserve di acqua, impongono un peggioramento della qualità degli alimenti e dei manufatti, comportano un crescente inquinamento dei grandi corpi riceventi naturali: l’aria, le acque superficiali e sotterranee, il mare, il suolo. La ricchezza monetaria e merceologica odierna di una parte dei terrestri è pagata dalle parti più povere della attuale generazione e dalle generazioni future.

Questo discorso può dare l’impressione che il problema sia così gigantesco e vasto da rendere impossibile qualsiasi passo avanti senza una rivoluzione socialista planetaria che tutti sanno bene (almeno per ora) abbastanza improbabile. Poiché il “pericolo” di mutamenti rivoluzionari incombe comunque sempre, le forze più attente del capitale stanno riconoscendo la necessità di cambiamenti, sia pure graduali, da attuare attraverso accordi internazionali tutti da discutere, approvare e attuare chi sa quando: intanto - esse dicono - lasciateci lavorare perché, anzi, i rimedi ai guasti ambientali richiedono capitali e investimenti che solo il processo capitalistico globale di crescita della produzione e dei consumi possono assicurare.

Energia.

Il dogma del capitalismo globale e, quindi, di quello nazionale, stabilisce che la crescita economica richiede un continuo aumento dei consumi di energia: di energia derivata da combustibili fossili - carbone, petrolio e gas naturale - per i quali l’Italia dipende pesantemente dalle importazioni.

Maggiori consumi di energia comportano crescenti importazioni, crescente esborso di denaro, crescente partecipazione all'impoverimento delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale; comporta crescente partecipazione allo sfruttamento e all’impoverimento dei popoli dei paesi petroliferi, dalla Nigeria al Golfo persico, al sud-est asiatico, all’America latina, che pompano disperatamente petrolio e gas dalle proprie riserve per ottenere denaro che passano alle compagnie multinazionali le quali organizzano eserciti per soffocare i movimenti di liberazione (quelli che chiedono una più equa ripartizione degli utili della ricchezza materiale estratta dal loro sottosuolo), eleggono governi fantoccio, corrotti e compiacenti, tagliano foreste e inquinano il mare e i fiumi. E’ la nostra sete di carburanti, di elettricità, di merci, che garantisce le condizioni di povertà, ingiustizia e sfruttamento delle popolazioni di tali paesi.

Una Nuova Politica Economica per una sinistra di governo presuppone una maggiore conoscenza della qualità e quantità dell’energia assorbita dai vari settori economici di produzione, azioni per diminuire i consumi di energia ottenuta da combustibili fossili e iniziative per l’uso delle fonti energetiche rinnovabili: solare, eolico, residui e sottoprodotti agricoli. Di quelle rinnovabili vere, perché nelle statistiche energetiche vengono spacciate per fonti “rinnovabili” il calore e l’elettricità ricavati dagli inceneritori di rifiuti !

Effetto serra

Strettamente legate ai consumi di energia e alla produzione merceologica sono le modificazioni della composizione chimica dell’atmosfera da cui dipendono i mutamenti climatici e biologici planetari compresi nei termini - molti diffusi, ma alquanto confusi - di effetto serra o buco dell’ozono. Le modificazioni della composizione chimica dell’atmosfera sono provocate dall’immissione nell’aria di numerosi composti chimici che comprendono anidride carbonica, ossido di carbonio, metano, ossidi di azoto, gas solforati, composti clorurati come solventi, clorofluorocarburi, cloruro di vinile monomero, e altri, composti aromatici volatili, fra cui il benzene, “polveri” varie, di composizione tutt’altro che nota, eccetera. Tutte sostanze ”liberate” dall’uso dei combustibili e dalla produzione e dall’uso di merci e macchinari progettati in modo che siano i meno costosi, i più facilmente vendibili, i più facilmente usurabili e ricambiabili, senza alcuna attenzione per possibili future conseguenze ambientali negative.

Gli eventi merceologici dei decenni passati hanno provocato ormai modificazioni dell’atmosfera praticamente irreversibili e tutto quello che si può fare è cercare di rallentare la velocità con cui gli agenti inquinanti vengono immessi nell’aria. Un problema complicato perché l’atmosfera viene inquinata oggi anche da agenti immessi in commercio anni o decenni fa e perché i paesi emergenti stanno producendo e consumando le stesse merci che i paesi industriali stanno abbandonando (dovrebbero abbandonare) e che comportano oggi e in futuro altre gravi contaminazioni dell’atmosfera.

Davanti a questo problema i governi del mondo - e naturalmente anche quello italiano - hanno un comportamento schizofrenico: i dogmi della “crescita” impongono di consumare di più merci inquinanti e nello stesso tempo gli stessi governanti, una conferenza internazionale dopo l’altra,

giurando di voler perseguire uno sviluppo sostenibile e di rallentare il riscaldamento globale che deriva proprio dal crescente consumo delle merci inquinanti.

La crisi delle città

La più insostenibile struttura antropica è rappresentata dalla città capitalistica. La crisi, spesso il collasso, degli ecosistemi urbani appaiono bene nelle città italiane in cui il capitalismo è fonte e alimento della monocoltura dell’automobile e delle motociclette.

Le città possiedono, come qualsiasi ecosistema artificiale, una capacità ricettiva - una “carrying capacity”, come la chiamano gli ecologi - limitata per le persone, per gli edifici e per i mezzi di trasporto. Le strade possono “sopportare” la presenza di un numero limitato di autoveicoli in movimento o in sosta, al di là del quale anche le città vanno incontro a situazioni di collasso: rallentamento del traffico, aumento del consumo di carburanti, aumento dell’inquinamento, paralisi. La carrying capacity è ancora minore nelle città italiane che sono state “edificate”, secoli e decenni fa, con criteri che non immaginavano neanche i problemi odierni del traffico.

Io credo che uno dei compiti di una Nuova Politica Economica dovrebbe essere quello di ridare fiato e cultura all’urbanistica che non consiste soltanto nell’aprire un nuovo museo o teatro o giardino pubblico o una nuova strada di scorrimento “veloce”, ma nel progettare la localizzazione dei servizi integrati con le zone abitative, al fine di minimizzare il numero di spostamenti umani e quindi di autoveicoli in circolazione, il consumo di energia e l’inquinamento. Gli autoveicoli sono un macchinario liberatorio per far spostare le persone da una città all’altra, ma il macchinario più violento per gli spostamenti urbani.

A tale progetto è strettamente legato l’altro di limitare il numero di autoveicoli in circolazione e il consumo di carburanti intervenendo per eliminare le sovvenzioni governative --- pagate con pubblico denaro, anche col denaro dei ceti meno abbienti --- per aumentare le vendite di autoveicoli e di benzina, col falso miraggio di conservare l’occupazione. La quale invece si conserva e accresce con la progettazione di nuovi mezzi di trasporto, pubblici, ma anche privati, adatti ad alleviare il collasso urbano.

Tenendo presente che l’aumento delle vendite degli autoveicoli del tipo attuale, con raffinati strumenti pubblicitari e argomentazioni pseudo-ecologici, comporta l’espulsione dal parco circolante di autoveicoli che, andando alla “rottamazione”, aggravano il problema dello smaltimento dei rifiuti solidi.

Rifiuti

I residui della rottamazione degli auto e moto veicoli, pur ammontando a molti milioni di tonnellate di materiali vari all’anno, rappresentano una piccola parte dei circa 150 milioni di tonnellate di rifiuti che ogni anno vengono “generati” in Italia dalle famiglie, dalle industrie, dall’agricoltura, dalla demolizione di edifici, strade, eccetera.

Una legge europea e anche nazionale prescrive che in ciascun paese debbano essere intraprese azioni per diminuire la produzione di rifiuti e per recuperare materiali dai rifiuti attraverso una corretta raccolta differenziata e attraverso operazioni di riciclo per trarre dai rifiuti nuove merci “riciclate”, appunto.

Di azioni per diminuire la massa dei rifiuti non si parla neanche, essendo esse in palese contraddizione col dogma della crescita capitalistica che impone la produzione e la vendita di più merci e quindi di più imballaggi e quindi la generazione di più rifiuti.

La raccolta differenziata dei rifiuti urbani, come viene praticata, è destinata all’insuccesso se non si separano efficacemente le varie frazioni --- carta, vetro, plastica, metalli --- in modo che possiedano caratteristiche adatte alla loro utile trasformazione in nuove merci. Insuccesso che va alla maggior gloria dei venditori di inceneritori contrabbandati come “termovalorizzatori”; così i governi --- quelli stessi che sbandierano la sostenibilità --- pagano con pubblico denaro i maggiori costi di produzione dell’elettricità ricavata bruciando i rifiuti, con l’effetto che i cittadini, con le proprie tasse, acquistano il diritto di essere inquinati dai fumi e dalle scorie degli inceneritori.

Eppure sarebbe proprio la strada del riciclo di materiali commerciabili da frazioni, appositamente separate, dei rifiuti, la strada per creare nuova occupazione, per incentivare la ricerca scientifica e l’innovazione, per diminuire le importazioni di materie prime e addirittura di rifiuti !

Acqua

L’acqua è la merce più importante, insieme agli alimenti; serve nelle case, per l’igiene personale, serve nei campi e nelle fabbriche. L’acqua è scarsa in Italia e le riserve idriche esistenti nei fiumi e nei laghi vengono, insieme, impoverite con eccessivi prelevamenti e contaminate con i rifiuti per cui in molti casi la loro acqua non può essere utilizzata a fini umani, è come se fosse “distrutta”.

Le leggi contro l’inquinamento emanate a partire dagli anni settanta del Novecento sono state costantemente violate e sottoposte a deroghe e modifiche in modo che non disturbassero gli inquinatori, amministrazioni pubbliche e imprenditori, insieme.

Di risparmio di acqua non si parla neanche, dal momento che le aziende acquedottistiche, pubbliche e private, compresi i potenti enti di bonifica e irrigazione, “vendono” l’acqua e non hanno nessun interesse a minori ricavi. Non solo; la sventurata legge che ha “regolamentato” gli acquedotti, dopo aver dichiarato ad alta voce che le acque sono pubbliche, da usare nell’interesse della collettività e delle generazioni future, garantisce l’assalto all’acqua e il suo sfruttamento secondo regole aziendali capitalistiche, per cui le tariffe risultano più basse dove l’acqua è più abbondante mentre l’acqua costa di più dove è scarsa e dove gli acquedotti hanno maggiori spese di captazione e di trasporto. La quadratura dei conti delle imprese viene prima del dovere che avrebbero i governi di assicurare uguali quantità di acqua --- almeno le quantità essenziali --- a tutti i cittadini italiano allo stesso prezzo, colpendo e scoraggiando gli sprechi e assicurando la efficace depurazione delle acque usate.

Erosione del suolo

Strettamente legato al problema dell’acqua è quello dell’erosione del suolo; l’acqua per le necessità umane è resa continuamente disponibile dal ciclo naturale dell’acqua che assicura lo scorrimento, sulla superficie dell’Italia, ogni anno, di circa 150 miliardi di tonnellate di acqua. L’acqua incontra, nel suo moto di ritorno al mare, terreni nudi o protetti dalla vegetazione, strade asfaltate o edifici o terreni coltivati o pianure e la velocità del moto dell’acqua dipende dallo stato del suolo. Tale veloce flusso può spostare una parte del suolo trascinandolo a valle, con le ben note conseguenze di aumento di franosità, di perdita di terra fertile, di alterazione del corso dei fiumi, di alterazione dei profili di costa.

Per rallentare l’erosione del suolo il territorio deve essere amministrato secondo i bacini idrografici, con poteri di pianificazione sui fiumi, sul territorio, sulle coste. Le autorità e i comitati finora costituiti si sono limitati a spartirsi i soldi disponibili, in modo occasionale e non coordinato, con conseguente crescente erosione del suolo interno e delle spiagge; alla attività di pianificazione sfuggono le decisioni relative al prelievo delle acque, alla costruzione di porti turistici costieri, a molti corsi d’acqua che sono rimasti, di fatto, “di proprietà” di enti locali, di enti di bonifica, di privati, eccetera.

Senza contare la violazione della legge 431 del 1985 (la cosiddetta “legge Galasso”) che giustamente vietava interventi, insediamenti e strade sulle zone di rispetto vicino ai laghi, alle coste, al mare, proprio al fine di difendere le parti ecologicamente più fragili e delicate del nostro territorio e di evitare straripamenti, alluvioni e danni futuri. A questo proposito un passo importante di una Nuova Politica Economica dovrebbe fermare la devastante vendita e privatizzazione dei beni pubblici, collettivi, soprattutto di quelli la cui proprietà pubblica è unica garanzia di difesa contro la distruzione: penso ai beni demaniali delle coste, delle rive dei laghi e fiumi, dei terreni ancora soggetti a usi civici. Riappropriamoci di quello che è nostro per antico diritto e per buonsenso ecologico.

La salvezza va cercata nella diffusione di una cultura e conoscenza del territorio e specialmente in una “cultura di bacino”, che significa poi una solidarietà fra coloro che “appartengono” allo stesso bacino idrografico, indipendentemente dal territorio amministrativo da cui “dipendono”.

Quali merci

Le precedenti considerazioni hanno indicato che il primo dogma del capitalismo globale è la produzione di più merci. E per produrre più merci occorre progettare le merci in modo che abbiamo breve vita, che vengano continuamente sostituite con altre. La martellante pubblicità ha proprio lo scopo di costringere ogni uomo ad una nuova dipendenza dall’universo degli oggetti ostili, le merci --- come ricorda Marx nei ”Manoscritti del 1844”.

Una battaglia anticapitalistica presuppone la critica delle merci, della rapida obsolescenza dei prodotti, mascherata da innovazione tecnica (si pensi al rapidissimo ricambio di telefoni mobili e di computer e ai conseguenti problemi di smaltimento dei relativi rifiuti); la critica e la ridicolizzazione della pubblicità, soprattutto di quella destinata ai bambini e ai ragazzi, la più efficace forma di intossicazione e di asservimento di milioni di persone per decenni futuri alla “società dei consumi”, oggi più arrogante, invadente ed efficace che mai.

La critica delle merci, a mio parere essenziale per una Nuova Politica Economica, potrebbe manifestarsi con un controllo delle violazioni di legge nel campo della pubblicità televisiva, con controlli sulla sicurezza merceologica, e con una analisi e revisione critica delle norme e leggi relative alla produzione quando esse sono contro gli interessi della natura, della salute e dei consumatori. La standardizzazione delle merci e una pianificazione pubblica della produzione - quale industria, quale agricoltura, quali merci soddisfano reali necessità umane, al di là di quanto fanno credere le sirene della pubblicità globale ? -sarebbero altrettanti utili strumenti per diminuire gli effetti ambientali negativi e per ridare significato e valore sociale al lavoro.

Il controllo pubblico e la pianificazione della produzione merceologica dovrebbero evitare scelte produttive, agricole (come nel caso degli organismi geneticamente modificati) e industriali (uso di materie prime e rottami dannosi) nocivi per la salute e per l’ambiente.

Contro il segreto industriale e commerciale

Qualsiasi azione per diminuire gli effetti negativi della produzione di merci e dell’uso violento e inappropriato del territorio presuppone la conoscenza di quello che viene prodotto, di quello che viene importato, di come ciascuna materia è trasformata, dove sono insediate le attività produttive, ma anche dove si trovano insediamenti umani, interventi sulle coste, porti turistici, alberghi, eccetera.

Qualsiasi indagine è ostacolata da innumerevoli vincoli posti dal segreto industriale, militare, dal diritto alla riservatezza, eccetera, tutti strumenti motivati da un reale diritto civile, ma divenuti a poco a poco occasioni per nascondere azioni che spesso si rivelano devastanti per la collettività e per l’ambiente. Non si sa quanti sono i rifiuti, chi li produce, non si sa quanti materiali sono estratti dalle cave, ci sono numerosi vuoti e silenzi nelle statistiche industriali e del commercio estero.

Una Nuova Politica Economica potrebbe utilmente avviare un grande inventario di ”geografia industriale” e di “storia industriale” per riconoscere dove sono localizzate industrie e fabbriche, dove erano localizzate le fabbriche abbandonate, anche al fine di ricercare che cosa producevano o producono, quali materie sono state e sono usate, quali residui si sono formati e si formano nei vari cicli produttivi e dove vanno a finire. Si tenga presente che tali informazioni non rappresentano dei pettegolezzi, un “mettere il naso” nel complesso industriale capitalistico italiano --- anche se sarebbe bene un diritto dei cittadini anche questo --- ma sono essenziali per le opere di “bonifica”, di depurazione delle zone inquinate dalle scorie di attività produttive spesso scomparse, spesso dimenticate.

E’ evidente che alle pubbliche amministrazioni e agli imprenditori fa comodo che si sappia il meno possibile su quello che è successo in un territorio, per poter trasformare le “bonifiche” in un po’ di raschiamento del suolo e in qualche discarica o depuratore, e vendere al più presto i suoli delle fabbriche abbandonate. La non-conoscenza lascia eredità tossiche a chi occuperà in futuro un territorio.

Armi e disarmo

Nell’ambito dell’analisi dei rapporti fra produzione, uso delle, e danno alle, risorse naturali, un posto speciale occupano le armi, le merci oscene per eccellenza. Benché nell’opinione pubblica vengono ogni tanto citate guerre locali, scontri fra minoranze etniche, in realtà la produzione e il commercio delle armi, da quella ”piccole”, individuali, a quelle per eserciti, a quelle nucleari, a quelle biologiche e chimiche, e anche delle piccole, “economiche”, efficacissime armi come le mine antiuomo, occupano un posto rilevante nelle economie dei paesi industrializzati.

Nessuno parla della diffusione di armi nucleari nei paesi Nato --- e anche in Italia, dove, in quale quantità, di che tipo e potenza ? --- delle industrie belliche, delle forniture militari. Anzi le esportazioni di armi sono segnalate come un successo industriale. Finora è stato possibile organizzare una protesta sulla base di informazioni filtrate dai teatri in guerra, come nel caso delle armi all’uranio impoverito. Una Nuova Politica Economica dovrebbe limitare le spese e la produzione militare orientando le conoscenze tecniche e manifatturiere verso beni che aiutino i paesi poveri a liberarsi dalla miseria, premessa per allontanare conflitti e paura.

Per quanto tempo potremo andare avanti ?

“La società di libero mercato è una nave in cui il capitano si è sbarazzato di gran parte dei marinai e ha disposto le vele in modo che catturino tutta la forza del vento, per assicurarsi così i massimi profitti; il capitano ha ordinato al timoniere di togliere le mani dal timone per essere certo che niente venga fatto per deviare il cammino della nave dalla direzione in cui la spinge il vento. La maggior parte dei passeggeri sembrano contenti del viaggio, all’infuori, naturalmente, dei poveri, dei vecchi e dei malati che sono stati fatti scendere in scalcinate scialuppe, tenute fuori bordo, in modo da alleggerire il peso della nave e farla procedere più spedita. Ma il vento sta cambiando, più presto di quanto si creda e gli spensierati passeggeri cominciano a sentire il rumore delle rocce su cui è finita la nave. Saranno prese, certo, misure di emergenza ma, se riusciremo a ritornare in acque profonde, continueremo la stessa politica basata sulle stesse teorie che ci hanno spinto nella situazione attuale ? Speriamo di no, altrimenti entreremo in acque ancora più pericolose di quelle in cui abbiamo navigato fino ad oggi” (Wassily Leontief, premio Nobel per l’economia, intervento al Congresso degli Stati uniti, 1982; cfr. Challenge, 42, (3), 100-103, maggio-giugno 1999)

Le acque pericolose di cui parlava Leontief sono rappresentate dall’impoverimento delle riserve di petrolio, dalla volatilità di un’economia basata sui soldi dietro a cui non c’è niente, dalla crescente fragilità e crisi ambientale, le crescenti tensioni internazionali; è tempo di una svolta dall’attuale capitalismo, forse verso uno almeno meno becero dell’attuale, forse, speriamo, verso una forma di genuino socialismo. Sono questi i compiti che aspettano un nuovo governo, una Nuova Politica Economica.

QUESTIONE AMBIENTALE E TERRITORIALE di Edoardo Castellucci * *architetto, esperto di questioni ambientali e paesaggistiche Premessa Un partito comunista, come insegnava Togliatti, non può accontentarsi di criticare o di inveire, e sia pure nel modo più brillante. Ma deve possedere una soluzione di tutti i problemi nazionali e lavorare nell’interesse di tutti i cittadini. La questione territoriale ed ambientale rientra nelle problematiche nazionali che devono essere indagate per trovare risposte credibili alla loro soluzione. Questa contraddizione, che il sistema capitalistico ha generato nel corso del suo sviluppo, prende le mosse dal tentativo di ridurre gli effetti della privatizzazione del suolo urbano che è la prima forma di contraddizione tra “sistema sociale ed economico” e “città” ed emerge periodicamente in quello che da sempre lo scontro di classe tra “classe egemone” e “proletariato”. Ne sono testimonianza le lotte dei braccianti e dei contadini per la “conquista” delle terre, di fine ‘800 e degli anni 50, e recentemente le lotte dei movimenti ambientalisti e dei partiti di sinistra: contro la realizzazione della TAV Lione-Torino e/o del Corridoio Tirrenico Roma-Latina; contro la dislocazione di centrali a Turbogas e Gassificatori; contro il Ponte sullo Stretto; per la ripubblicazione dell’acqua come bene pubblico; contro l’inquinamento elettromagnetico del sistema MUOS, etc.. Questione ambientale e territoriale

Bisogna rilevare che il tema della tutela dell’ambiente e del territorio è diventato una necessità dello stesso capitalismo che la utilizza per sopravvivere a se stesso ed alle sue contraddizioni, in quanto i costi della distruzione ambientale e territoriale sono di fatto non più tollerabili anche per lo stesso capitale. In effetti è lo stesso capitale che interviene nel sistema delle politiche di difesa del territorio e dell’ambiente basando la politica ambientale e territoriale sulla premessa che: la tutela dell’ambiente e del territorio deve essere subordinata al rilancio dell’economia, pertanto le esigenze delle imprese e del profitto prevalgono sulle esigenze ambientali e territoriali. Questa impostazione si contrappone ad una crescente consapevolezza di massa che ritiene inevitabile ed urgente difendere gli ecosistemi, e con essi l’umanità intera, dai pericoli mortali che lo sfruttamento delle risorse naturali, energetiche e non, e l’uso incontrollato delle tecnologie inducono a livello locale e planetario. Va rilevato che la politica ambientale in Italia (da Berlusconi a Renzi) fa riferimento ad una linea, forte e spregiudicata, già attuata, da maggioranze precedenti, fin dal 1993, quando si affermò, nell'ambito della discussione sui rifiuti, quello che fu definito il "partito del non rifiuto". Proprio in forza di ciò la questione ambientale deve assumere un ruolo centrale all’interno di ogni proposta politica e programmatica. Deve in termini specifici integrarsi nei processi di formazione delle decisioni e nell'azione politica. Questo vuol dire che va affermato il "Principio di Integrazione", come dettato dall'art. 6 del Trattato di Amsterdam (1997) che recita: "Le necessità della protezione ambientale devono essere integrate nella definizione e implementazione delle politiche e delle attività comunitarie (…), in particolare con l'ottica di promuovere lo sviluppo sostenibile". L'ambiente, dunque, non più inteso come settore, sia pure importante, della programmazione, ma come fulcro attorno al quale si articolano e si pianificano le politiche economiche e territoriali per la realizzazione dello sviluppo sostenibile come modello innovativo di crescita socio-economica basato sulla conservazione e l’accrescimento delle principali risorse. E’ quindi necessaria una scelta strategica, ad ogni livello e in particolare nei paesi industrializzati, fondata sull’uso razionale e responsabile delle risorse; il risparmio ed il riciclaggio dei materiali; la drastica riduzione degli sprechi; in grado di assicurare crescita qualitativa e occupazione. Un nuovo modo di pianificare Nel merito, affermare e dare sostanza allo sviluppo sostenibile richiede un nuovo modo di pianificare, in considerazione del fatto che la politica ambientale si lega necessariamente alla politica territoriale, anzi ne fa parte, ne è il complemento, e dunque quando affrontiamo le questioni del territorio immancabilmente mettiamo in campo anche e soprattutto le questioni ambientali. La pianificazione, in altri termini, deve essere assunta come metodo generale delle decisioni degli enti pubblici ed il processo di pianificazione deve attribuire priorità alla salvaguardia ed alla valorizzazione delle qualità ambientali - culturali - sociali ed alla riduzione dei rischi connessi al cattivo uso delle risorse. Questo perché nel nostro Paese, ad alto rischio sismico ed idrogeologico, invece di prevenire i disastri si insegue l’emergenza mentre bisogna pensare a politiche di messa in sicurezza del

territorio dando attuazione alla legge n. 183 del 18 maggio 1989 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo) perché si pongano le basi per una seria politica di difesa del suolo e dell’ambiente soprattutto per quello che concerne le attività conoscitive e le attività di pianificazione, di programmazione e di attuazione dei bacini idrografici. Gli eventi catastrofici che periodicamente si verificano nel nostro Paese (dalle esondazioni del Po nel Polesine al Vajont, per arrivare agli allagamenti di Messina e di parte del Lazio, della Toscana e dell’Umbria, senza dimenticare i sismi dell’Aquila e del modenese-reggiano) non possono essere definiti una “calamità naturale” ma “ricadono nelle colpe ed omissioni di cui sono responsabili politici, amministratori e autorità giudiziarie” cui hanno contribuito anche i governi di centro sinistra che invece di prevenire hanno privilegiato la politica dell’emergenza e non sono stati in grado di assicurare a questo nostro Paese un governo del territorio che ripensasse e ridisegnasse l'idea stessa di pianificazione del territorio e delle città, che sapesse esprimere e rappresentare i sogni ed i bisogni di chi li vive, partendo dalla conoscenza del territorio, dell'ambiente in genere, che deve essere considerato come risorsa da salvaguardare, valorizzare e gestire. Pertanto è necessario prendere in considerazione tutto ciò che in un territorio condiziona la crescita e lo sviluppo e cioè valutare le emergenze che in esso insistono e che debbono essere governate in un quadro organico ed unitario tale che le politiche dei rifiuti, della produzione di energia, della casa, dei trasporti, dell'inquinamento (acustico, atmosferico, elettromagnetico), del turismo, del suolo, dell'acqua, etc., trovino una dimensione ed una definizione a livello territoriale in piccola o grande scala. Un territorio dove le trasformazioni in atto hanno portato ad una crescita quantitativa, non qualitativa, figlia della speculazione, della rendita parassitaria e del profitto, che ha prodotto uno sviluppo esasperato e distorto, che ha saccheggiato risorse umane ed ambientali rendendo il territorio in genere, con esso la città, luogo estraneo alla vita delle persone modificandone tempi e stili di vita, valori ed idealità. Una crescita che non si è accompagnata al potenziamento delle infrastrutture e dei servizi primari ed ha finito per compromettere ulteriormente la vivibilità del territorio, divenuto un contenitore anonimo di nuove e profonde alienazioni e solitudini. Una crescita che ha prodotto, come la definisce il Prof. Salzano, la conurbazione senza confini che, dagli anni del boom edilizio, ha contribuito ad acuire i contrasti socio-culturali e socio-economici di una realtà, la periferia, che presenta forme ed aspetti diversificati, quali: la periferia speculativa, con densità esagerate e priva di servizi e di verde; la periferia pubblica, senza qualità urbana e con servizi mal disposti; la periferia abusiva, senza programmazione e con il rifiuto dell'urbanistica, la periferia suburbana, così definita da Giuliano Cannata, realizzata nelle maglie delle normative agricole. Si tratta, cioè, di passare da una sostanziale non pianificazione, dalla approssimazione e dalla tutela di interessi individuali e particolari, ad una condizione di regole certe e di percorsi democraticamente condivisi. Passaggio non facile da gestire, soprattutto quando si è abituati a non avere fondamenti e regole da osservare, e intorno al quale vanno aperti un confronto ed un percorso che devono necessariamente coinvolgere il mondo del lavoro e della cultura, i movimenti, i Partiti e le giovani generazioni.

Per lo sviluppo ed il rilancio del territorio non sono necessari nuovi insediamenti e grandi opere di infrastrutturazione e cementificazione in genere, ma serve avere maggiore sicurezza piuttosto che opere faraoniche. Agricoltura E’ in questa ottica di salvaguardia, di valorizzazione e di gestione che i COMUNISTI devono dare risposte e certezze a cominciare dalla questione agricola. Negli ultimi anni il concetto di agricoltura ha registrato un passaggio dalla centralità della produzione alla centralità dell'ambiente, questo passaggio risulta indispensabile per restituire all'agricoltura il ruolo di cerniera tra città e campagna, tra produzione e territorio favorendo uno sviluppo del territorio agricolo basato sui bisogni realmente espressi per una agricoltura “multifunzionale” che metta al centro l'agricoltura biologica che deve diventare lo strumento di gestione del territorio e delle sue risorse. Questo presuppone la ridefinizione del ruolo dell'agricoltore, inteso come operatore/gestore del territorio capace di garantire la salvaguardia delle risorse agricole e la salute dei consumatori. Ma soprattutto va ristabilita la vocazione produttiva del territorio attraverso la valorizzazione delle risorse, ribaltando il concetto della "produzione senza terra" che ha fatto spopolare le nostre campagne. Per fare questo è necessario che, a chi garantisce la salvaguardia della cultura agricola, sia assicurata una politica di fornitura dei servizi e di infrastrutture, che gli permetta di svolgere l'attività agricola legandola al corretto uso del territorio ed alla salvaguardia dell'ambiente. Particolare attenzione va posta alla questione degli OGM verificando gli aspetti bioetici e di biosicurezza, anche qui va applicato il principio di precauzione, perché pur non essendo accertato il danno che questi organismi provocano vanno verificati tutti i rischi che riguardano: la salute (tossicità, allergie, etc.), l'ambiente, l'agricoltura, etc. Rifiuti Al contempo bisogna intervenire su settori come la produzione di rifiuti che è uno dei segni che distingue la società contemporanea, in quanto alla crescita dello sviluppo produttivo si associa la crescita dei rifiuti prodotti. Una non corretta gestione dei rifiuti determina fenomeni di inquinamento e di compromissione delle risorse come aria, acqua, suolo. Produrre meno rifiuti è diventata una necessità improrogabile, con la quale tutti dobbiamo fare i conti. Dovremmo cercare di abbinare la riduzione della quantità di rifiuti prodotti al riutilizzo e alla riparazione dei beni, recuperando abitudini che non appartengono alla cultura consumistica oggi dominante. E’ indispensabile promuovere il ripensamento e la riprogettazione dei modi di produzione dei beni che utilizziamo, adottando tecnologie che consumino meno energia e impieghino meno risorse, facendo, quindi, attenzione al cosiddetto "costo ambientale globale". Un settore d’intervento fondamentale è la raccolta differenziata, passo determinante per il riciclo dei materiali, ma soprattutto base di partenza per la riduzione della tassazione cui sono soggette intere famiglie. Bisogna dunque intervenire soprattutto a monte della situazione generale, si tratta di produrre meno rifiuti per scongiurare il ricorso all'incenerimento che deve essere inteso come rimedio ultimo possibile nella catena di produzione/riduzione del rifiuto.

Per questo va realizzato un diverso ciclo industriale dei rifiuti senza combustione, realizzabile in tempi brevi, e che parta dall'avvio generalizzato del porta a porta, occupandosi del trattamento della frazione umida con impianti di compostaggio e digestione anaerobica, e del trattamento della frazione secca con impianti di Trattamento Meccanico Biologico e Centri di Riciclo. Energia Alla produzione dei rifiuti è legata anche la questione energetica, l'esigenza di disporre di grandi quantità di energia produce conseguenze negative per la salute e per l'ambiente. Certamente la politica energetica all’indomani del Decreto salvacentrali (2002) del Governo Berlusconi ha di fatto provocato una proliferazione di domande per la realizzazione di attività per la produzione di energia (centrali termoelettriche e/o turbogas, termovalorizzatori, etc.), che mette in pericolo l'autonomia degli enti locali e pone le basi per un aumento indiscriminato dell'inquinamento atmosferico, con le ricadute sulla salute della popolazione e conseguente aumento delle patologie respiratorie se non tumorali. La risposta a questa politica è quella di intervenire attraverso un uso razionale dell'energia: - promuovendo un più ampio utilizzo delle fonti rinnovabili, inesauribili e a ridotto impatto ambientale; - disinnescando la corsa alla realizzazione di centrali a turbogas, di termovalorizzatori e di gassificatori; - privilegiando una politica energetica che favorisca lo sviluppo di energie pulite. Casa La CASA è diventata una vera e propria QUESTIONE SOCIALE perché da EMERGENZA si è trasformata in FENOMENO STRUTTURALE. Il disagio colpisce gli anziani, le famiglie monoreddito, i single, i giovani, gli immigrati. In Italia solo il 19-20% delle case è destinato all’affitto, ciò vuol dire che il mercato immobiliare è caratterizzato dalla casa di proprietà. Il processo di dismissione degli immobili degli enti pubblici ha dilatato questo fenomeno aggravando di fatto la ferita sociale. Dato significativo è il fatto che delle famiglie che fanno domanda di alloggio pubblico il 90% non ottiene soddisfacimento. Ci troviamo di fronte ad un reale problema sociale in quanto il patrimonio pubblico diminuisce mentre la domanda aumenta in quanto la fascia di povertà diventa sempre più ampia aumentando di fatto le famiglie aventi diritto. A fronte di ciò bisogna investire sulla risorsa casa attuando un sostegno economico al nucleo familiare, accompagnandolo alla riattivazione del mercato dell’affitto predisponendo misure ed incentivi che favoriscano: il ritorno sul mercato degli alloggi lasciati sfitti, il recupero degli alloggi, una nuova edilizia finalizzata alla locazione a canoni contenuti. Le politiche abitative sono parte integrante delle politiche urbane, unitamente a quelle relative alla mobilità collettiva e individuale. E’ per questo necessario assegnare alle politiche abitative una priorità, che dia risposte all’emergenza abitativa proponendo un programma per la residenza finanziato con risorse pubbliche e private, utilizzando misure fiscali e finanziarie e orientando il quadro delle convenienze economiche nella gestione del patrimonio edilizio.

La valorizzazione del patrimonio esistente e i nuovi insediamenti residenziali devono diventare l’occasione per riqualificare le periferie della città e per elevare la qualità urbana, per contribuire all’innovazione tecnologica e al ripristino delle condizioni di sicurezza degli edifici. Per il patrimonio immobiliare sfitto è necessario agire sull’imposizione fiscale e contemporaneamente offrire garanzie per i proprietari che sono disposti ad immettere l’immobile sul mercato della locazione. L’offerta privata di abitazioni in locazione, dopo la soppressione dell’equo canone e l’imposizione prima dell’ICI e poi dell’IMU, TASI, etc., si è dapprima riattivata, ma con valori di canoni crescenti ad un ritmo superiore a quello sostenibile da parte delle famiglie. Bisogna rilanciare programmi di edilizia sociale impostati sul recupero della città esistente, soprattutto per le aree periferiche, integrando funzioni diverse, riqualificando il patrimonio dismesso, promuovendo e consolidando procedure che ricomprendano interventi di recupero, sostituzione, completamento e densificazione dei tessuti edilizi, già utilizzate con successo a livello locale. Trasporti e mobilità Altro settore che influenza negativamente la salvaguardia del territorio e dell’ambiente è il sistema dei trasporti che sta divenendo sempre meno sostenibile in quanto la crescente esigenza di mobilità, di cose e persone, determina di fatto un aumento del volume di traffico che è una delle principali cause dell'inquinamento acustico ed atmosferico, di consumo di energia e della congestione rendendo insostenibile la vita nelle nostre città. Bisogna attivarsi per migliorare la qualità della vita nel territorio e nelle città favorendo la "mobilità sostenibile", vale a dire un sistema di trasporto sostenibile che contribuisca al benessere economico e sociale senza consumare e/o distruggere le risorse naturali e l'ambiente, che miri, soprattutto, a potenziare il trasporto pubblico: - rivalutando ed estendendo i percorsi pedonali e ciclabili; - predisponendo piani urbani e territoriali integrati; - migliorando l'offerta pubblica di trasporto; - creando parcheggi interscambio; - coinvolgendo e rendendo partecipi i cittadini nelle scelte di politiche per la mobilità urbana della città. Conclusioni Nasce da tutto ciò l’esigenza di una programmazione/pianificazione che deve essere assunta come metodo generale delle decisioni degli enti pubblici e deve attribuire priorità alla salvaguardia ed alla valorizzazione delle qualità ambientali - culturali - sociali ed alla riduzione dei rischi connessi al cattivo uso delle risorse. E' in questo contesto pieno di contraddizioni, che i comunisti devono intervenire dettando regole certe per una politica di riferimento ai vari livelli (nazionale, regionale, provinciale) elaborando una politica attenta alle questioni ambientali ed alla difesa e salvaguardia del territorio e della sicurezza dei cittadini.

RESISTENZA – REPUBBLICA – COSTITUZIONE

di Umberto Lorenzoni *

*partigiano combattente; presidente ANPI di Treviso; nome di battaglia “Eros”. Ha combattuto nelle Alpi trevigiane; fu Commissario di battaglione nella Divisione partigiana “Nino Nannetti”. Fu proposto per una decorazione al valore, alla quale rinunciò affinché fosse data ad un partigiano caduto.

A settant’uno anni di distanza dalla Liberazione, per capire il profondo significato della Resistenza, non si può fare riferimento soltanto al suo periodo finale, quello della guerra partigiana, che fu la logica e tragica conclusione del ventennio mussoliniano. La Resistenza iniziò quando la monarchia sabauda, abdicando alla violenza fascista della marcia su Roma, segnò l’epilogo del triste destino della classe dirigente risorgimentale. Il fasciamo fu l’ultimo tentativo del blocco sociale conservatore di fermare l’ascesa politica delle classi popolari, che reclamavano migliori condizioni di vita e arrivò al potere con il connivente assenso della monarchia e con la violenza.

In vent’anni di dittatura, sotto la finzione di un ordine di cartapesta, il fascismo ha regalato al popolo italiano: autarchia, guerre di aggressione, leggi razziali contro i propri cittadini di religione ebraica, la perversa alleanza con il nazismo che lo trascinò nella fornace della seconda guerra mondiale ed infine la catastrofe.

Il 25 luglio 1943 questo regime si accasciò sotto il peso delle sconfitte militari e, nei quarantacinque giorni seguenti, il governo Badoglio con i suoi smarrimenti, i suoi tentennamenti, le sue ambiguità, dimostrò a quale punto di squallore politico il fascismo e la monarchia sabauda avessero portato l’Italia. Si arrivò pertanto all’armistizio dell’8 settembre, con il Paese moralmente fiaccato e materialmente distrutto e con il Sud già in parte occupato dagli angloamericani.

Questo fu l’avvio di una immensa catastrofe che si consumò con il collasso delle istituzioni politiche, militari e sociali dello Stato, ben evidenziato dalla ignobile fuga del Re e di Badoglio, dall’abbandono della Capitale a se stessa, dal tracollo degli alti comandi militari che non avevano predisposto nessun piano per contrastare la prevedibile reazione tedesca e che infine si materializzò con la liberazione di Mussolini e la nascita della repubblica fascista di Salò, i cui aderenti si misero subito al servizio degli invasori.

Così tutta l’Italia a nord di Salerno finisce in mano alle truppe tedesche e le forze armate italiane si dissolvono o si arrendono. In questa difficilissima situazione, i partiti antifascisti danno subito vita il 9 settembre al Comitato di Liberazione Nazionale “per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza, per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”. Comunque unità del nostro esercito in tante località del territorio metropolitano si oppongono spontaneamente all’invasione: a Roma. a porta San Paolo, molti popolani si uniscono ai nostri militari in una disperata difesa della Capitale; i tedeschi vengono cacciati dalla Sardegna e, in tutte le isole dell’Egeo si resiste pervicacemente alla pressione tedesca, fino a culminare nell’epopea di Cefalonia dove la Divisione Acqui, con scelta plebiscitaria, combatte fino all’estremo sacrificio, fulgido episodio della nostra Resistenza all’estero. In Grecia e in tutti i Balcani, migliaia di nostri militari scelgono la strada della guerriglia e unendosi alle locali formazioni partigiane, da truppa di occupazione diventano combattenti per la libertà di quei popoli. Una importante pagina di Resistenza viene scritta dai militari italiani catturati e portati in Germania in vagoni piombati.

Quando viene offerta loro la possibilità di tornare a casa solo se avessero aderito alla repubblica fascista di Salò, rifiutano l’adesione al nuovo fascismo e non scelgono la collaborazione con i nazisti, ma la libertà e la dignità del sacrificio. Molto più grave sarebbe stata in Italia la situazione per la Resistenza se non ci fosse stato questo esempio di tenacia, di coraggio di amor di Patria.

Tutti questi avvenimenti trovano origine nell’armistizio e testimoniano la volontà di riscossa degli italiani dal nuovo fascismo di Salò e dall’occupazione tedesca e anticipano una Resistenza molto più vasta e decisa: la guerra partigiana di liberazione.

Il Movimento Partigiano è figlio di questa volontà e nasce dall’incontro di tanti giovani con l’antifascismo dei loro fratelli maggiori reduci dai fronti, che nel crogiuolo della guerra, avevano capito la follia della politica fascista e avevano maturato la loro scelta antimperialista e con l’antifascismo dei vecchi militanti usciti dal carcere o ritornati dal confino di polizia, che si erano opposti per lungo tempo alla dittatura di mussoliniana e molti di loro erano accorsi in Spagna, a combattere nelle Brigate internazionali, in difesa di quella giovane Repubblica democratica che veniva strozzata dai nazifascisti in una prova di forza che preludeva all’aggressione dell’Europa.

E se il primo Risorgimento ebbe per protagonisti molti uomini illuminati della nobiltà e della borghesia di allora, protagoniste della guerra partigiana sono le classi popolari, le prime interessate a battere i presupposti stessi del fascismo. Esse avevano intuito come la Resistenza fosse la strada non solo per conquistare la libertà e la democrazia e non doverle ricevere dalle mani di un vincitore straniero, ma anche per poter realizzare una nuova idea di Patria, meno elementare, meno fisica e geograficamente delimitata, nella quale riconoscersi non soltanto per una comune origine ma per un tipo di società basata sui valori dell’eguaglianza, della giustizia sociale e della solidarietà.

I motivi dello scontro erano chiari: da una parte i miliziani di Salò, illusi di poter far rivivere il regime fascista, ormai stabilmente ancorato al terzo Reich che si batteva per Hitler e per il suo progetto di dominio sull’Europa e sul Mondo, dall’altra i Partigiani, animati dalla volontà concorde di realizzare uno Stato nuovo, aperto alle classi popolari e alle moderne istituzioni di una democrazia basata su una piattaforma costituzionale antifascista.

Lo scontro si giocò, per venti lunghi mesi, su questa netta contrapposizione e a ritmo sostenuto crebbe il Corpo Volontari della Libertà, un esercito popolare di uomini e donne, organizzato in Brigate e Divisioni Partigiane, rappresentato politicamente dai partiti antifascisti nei Comitati di Liberazione Nazionale, sostenuto dai nuovi alleati Angloamericani e che poteva contare sull’aiuto coraggioso e generoso delle popolazioni. E fu aspra guerriglia, contrassegnata da grandi sacrifici, continui atti di sabotaggio, da scontri a fuoco, da rastrellamenti, fucilazioni, impiccagioni, dall’uso da parte dei fascisti e dei nazisti di torture inumane sulle partigiane e sui partigiani catturati e di feroci rappresaglie sulle popolazioni civili, con massacri di vecchi, di donne e di bambini. Il prezzo di sangue pagato dal Movimento Partigiano nella guerra di liberazione fu altissimo.

Il 25 aprile di settant’uno anni fa il C.L.N.A.I. con il messaggio in codice “Aldo dice 26x1”, chiama finalmente all’insurrezione generale tutte le formazioni del Corpo Volontari della Libertà e, dopo una decina giorni di accaniti e sanguinosi combattimenti, la disfatta tedesca trascina con se gli ultimi miliziani di Salò. Così tutto il Nord Italia viene liberato dai Partigiani prima dell’arrivo delle truppe Alleate e di quelle del Corpo Italiano di Liberazione, il ricostituito esercito italiano che aveva risalito la penisola combattendo aspre battaglie a fianco degli Angloamericani.

I Partigiani vengono accolti, nelle città e nei paesi liberati, da folle entusiaste, tra lo sventolio di bandiere rosse, azzurre, verdi, bianche, tricolori e dal suono a distesa delle campane; c’era in tutti la certezza che l’Italia avesse voltato pagina e che fosse finito per sempre l’incubo della guerra e dell’occupazione tedesca. E in quella primavera piena di speranze le componenti più avanzate del Movimento Partigiano andavano avanti interpretando la profonda volontà di riscatto del popolo italiano, non solo dal fascismo ma anche dalle condizioni di arretratezza e di oppressione che erano insite nelle istituzioni dello Stato e nella struttura della società di allora.

Con gli scontri quotidiani, con la partecipazione volontaria di ogni ceto, conquistando finalmente il diritto di voto per le donne, la Resistenza ha aperto la strada alla politica nel senso moderno della democrazia e ha raggiunto l’obiettivo politico dell’inclusione delle classi popolari nello Stato che era sfuggito ai protagonisti del primo Risorgimento. E saranno proprio le classi popolari, con la scelta repubblicana del 2 giugno 1946, a determinare la rottura definitiva con il passato e a seppellire per sempre, assieme allo Statuto Albertino, la monarchia sabauda.

Ma quelle stagioni di lotta popolare avevano radicato nel nostro popolo, oltre a quello della libertà, i valori dell’eguaglianza, della giustizia sociale, della solidarietà e della pace e su di essi l’Assemblea Costituente elaborò la Costituzione repubblicana e antifascista del 1948, nella quale confluirono, le istanze popolari del solidarismo cristiano e i valori di eguaglianza e giustizia sociale mutuati dal movimento operaio e contadino, intrecciati con i principi cardine del liberalismo democratico.

Nel suo primo articolo, la nostra Carta fondamentale chiude con il passato e sancisce; “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo” e nel secondo articolo “….riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” a tutti i suoi cittadini. Nel terzo articolo dopo aver ribadito la parità sociale e l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, ribadisce la necessità dell’indipendenza economica, senza la quale la democrazia è una scatola vuota e afferma: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…….” E nel quarto articolo precisa: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Indicare questi obiettivi tra i principi fondamentali della Costituzione, prefigurò un forte impegno riformista e l’incontro, sulla materia economica, delle culture social-comunista e cristiano-popolare individuò nella funzione sociale della proprietà privata la leva capace di larghe intese unitarie. Conseguentemente i Costituenti, pur salvaguardandola, subordinarono l’iniziativa privata all’esigenza di tutelare i diritti inalienabili della persona umana e, come strumento per raggiungere gli obiettivi fissati, indicarono la natura mista dell’economia italiana, un tipo di capitalismo sociale nel quale i settori industriali, pubblici e privati, dovevano avere pari importanza e dignità. Accettata questa scelta di fondo, le forze politiche presenti nell’Assemblea Costituente diedero il meglio di se nella formulazione degli articoli della Costituzione relativi ai problemi economici. La visione riformista si evidenzia negli articoli dal 35 al 47 dai quali traspare chiaramente come “La Repubblica democratica fondata sul lavoro” sia nettamente schierata a tutela della parte debole nei rapporti di produzione e di lavoro e la sua visione solidaristica informi i rapporti etico-sociali dall’articolo 29 all’articolo34. E’ questa la parte più significativa del grande progetto riformista per la costruzione di una società fondata sull’uguaglianza sostanziale.

Fino alla fine degli anni settanta, l’Italia ha rispettato questo vero e proprio patto sociale e perseguendo il modello di economia mista, coerente con i dettami della Costituzione, ha realizzato profonde riforme di struttura e assicurato per lungo tempo al suo popolo un graduale sviluppo

economico e un significativo welfare capace di assicurare un’equa redistribuzione della ricchezza prodotta. Alla fine degli anni settanta il nostro Paese aveva raggiunto il quinto posto fra le potenze economiche più avanzate del mondo. Purtroppo negli anni ottanta il tema dominante divenne la modernizzazione e, causa la degenerazione morale che aveva investito principalmente le forze di governo, arrivò con tangentopoli la cosi detta seconda repubblica e con essa la svolta liberista che ha avviato un imponente processo di dismissione del patrimonio e delle attività pubbliche e privatizzato eccellenze industriali e finanziarie strategiche per il nostro sistema economico. Inoltre, gli alfieri del capitalismo non si sono accorti che il mondo entrava in una fase di economia della conoscenza e invece di promuovere nelle aziende, ricerca, innovazioni di prodotto e di processo, specializzazione produttiva e puntare sulla qualificazione dei lavoratori, hanno ritenuto di poter farle competere sul costo della manodopera comprimendone il salario e aggredendone i diritti acquisiti. La crisi si è così abbattuta su un Paese privo di strumenti pubblici indispensabili per contrastarla efficacemente e il progressivo smantellamento del settore pubblico ha fatto emergere una costituzione materiale radicalmente opposta al progetto tracciato dai Costituenti.

Dopo quasi trent’anni di gestione capitalistica dell’economia, ci ritroviamo con un debito pubblico che continua a lievitare, una pesante disoccupazione a due cifre con quella giovanile che si consolida attorno al 40%, la presenza di milioni di lavoratori precari, mentre al Sud, gestite dal caporalato, persistono forme orribili di sfruttamento su uomini e soprattutto su donne assoggettate ad un vero e proprio schiavismo. A forza di gridare “basta con le ideologie” siamo rimasti con l’ideologia più vecchia del mondo: lo sfruttamento del lavoro. Cancellato l’articolo 18 non si parla più della dignità del lavoro, eppure se non si riparte da lì, dal diritto ad un lavoro dignitoso non si andrà da nessuna parte e ogni nuovo provvedimento elettoralistico avrà il sapore di un premio di consolazione, un regalo in nome per profitto. Il nostro Paese è, inoltre, nuovamente pervaso da una incontenibile degenerazione morale, da una enorme evasione fiscale e da una devastante corruzione, causa prima del disgusto per la politica che serpeggia nel corpo elettorale, mentre le entrate tributarie dello Stato sono assicurate per circa l’80% dalle tasse pagate dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. Non è certo questa l’Italia che sognavano i Partigiani.

Per uscire da questa pesante situazione economica sono necessarie scelte forti e coraggiose in grado di agire sulla domanda aggregata e di riportare al centro dell’agenda politica il lavoro e la sua dignità. E’ urgente rilanciare investimenti pubblici, ricerca e innovazioni, per allargare la nostra base produttiva, aumentare i livelli di occupazione, incrementare i consumi, far ripartire l’economia reale e aggredire l’enorme debito pubblico che minaccia di travolgerci. Lo stravolgimento della Costituzione che oggi viene perseguito con determinata insipienza deve essere bloccato e non deve distogliere la nostra attenzione dalla situazione nella quale si dibatte il Paese. La nostra democrazia potrà vincere questa sfida solo se potrà contare su una forte partecipazione popolare e quindi è urgente recuperare l’evidente distacco dei cittadini dalla politica restituendo agli elettori il diritto di scegliere i propri rappresentanti.

Dalla crisi attuale che non è solo economica ma anche morale, l’Italia uscirà solo ritornando alla Costituzione e all’etica della buona politica, che è sempre stata l’obiettivo, l’impegno e le speranze della Resistenza. Va salvaguardato l’equilibrio dei poteri sul quale si regge il nostro sistema democratico, equilibrio oggi reso precario dalla presenza di un Parlamento azzoppato, in quanto eletto con una legge dichiarata incostituzionale da una sentenza della Consulta e di un governo che per questo, a colpi di fiducia, si ritiene legittimato a surrogarlo nella funzione legislativa.

Dobbiamo ritornare quanto prima alla normalità democratica, con un Parlamento, che sarà espressione della sovranità popolare e pilastro portante della nostra architettura costituzionale,

solo se sarà eletto nel rispetto dell’articolo 48 della nostra Carta Fondamentale, che, con buona pace delle fattucchiere dell’Italicum”, sancisce: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto”.

Tutti i sinceri democratici devono uscire dal rassegnato silenzio, dalla indifferenza, dal conformismo, per far sentire alta e forte la propria voce in difesa dei caratteri essenziali della nostra Repubblica parlamentare e ricordare sempre che la libertà è partecipazione, non è delega incontrollata della soluzione dei propri problemi ad un uomo solo al comando che la Provvidenza pare voglia regalarci di tanto in tanto.

COSTITUZIONE: LE RIFORME CHE DIVIDONO IL PAESE

di Massimo Villone *

*costituzionalista; professore emerito di Diritto costituzionale nell'Università degli Studi di Napoli "Federico II”.

È forte la Costituzione che unisce un paese; è debole la Costituzione che lo divide. In questo principio trova fondamento il rigetto della riforma costituzionale Renzi-Boschi, che ha visto in parlamento un contrasto frontale su modalità, motivazioni, contenuti. Una analoga divisione si manifesta nel paese, e non può essere superata dal voto plebiscitario su sé stesso chiesto da Renzi.

Con la dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale (Corte cost., 1/2014) il parlamento aveva perduto la sua legittimazione sostanziale. Una elementare correttezza costituzionale avrebbe richiesto che ci si limitasse ad approvare una nuova legge elettorale conforme ai principi stabiliti dalla Corte, procedendo a nuove elezioni e solo poi, nel nuovo parlamento, ponendo mano alla revisione della carta fondamentale. Al contrario, Renzi ha assunto la riforma della Costituzione e della legge elettorale come ragioni dell’esistenza stessa del suo governo. Ha formulato le sue proposte in base al cd patto del Nazareno stretto con Berlusconi e poi naufragato. Ha approfittato dei numeri parlamentari drogati dal premio di maggioranza costituzionalmente illegittimo, senza i quali non avrebbe avuto i consensi necessari all’approvazione. Non ha esitato ad avvalersi del sostegno essenziale di transfughi e voltagabbana, noncurante dell’indebolimento in prospettiva della Costituzione riformata derivante dall’approvazione da parte di una maggioranza raccogliticcia e occasionale. Ha fatto ricorso a continue forzature di prassi e norme regolamentari, ricattando la sua stessa maggioranza con la minaccia di crisi e di scioglimento anticipato in caso di voto contrario. Così come oggi ricatta il paese con il plebiscito su sé stesso.

Su vari punti la riforma ha suscitato forti polemiche: la previsione di un senato non elettivo composto da consiglieri regionali e sindaci; lo squilibrio nel complessivo sistema di checks and balances; la concentrazione e verticalizzazione del potere verso il governo e in particolare verso il premier derivante in particolare dalla sinergia con la legge elettorale approvata; il contestuale indebolimento dell’istituzione parlamento e della sua rappresentatività.

Sul senato non elettivo le motivazioni addotte sono deboli e inconsistenti. Il taglio dei costi della politica si riduce a pochi spiccioli, considerando che la gran parte dei costi dell’istituzione vengono dalla gestione degli immobili, dai servizi, e dal personale. Inoltre, anche i senatori elettivi avranno un costo per la trasferta e la permanenza a Roma. Maggiori risparmi sarebbero ottenuti mantenendo il carattere elettivo del senato e riducendo anche il numero dei deputati.

Ugualmente inconsistente è l’argomento di processi decisionali più semplici e veloci con il superamento del bicameralismo paritario. La proposta approvata non produce semplificazione, ma al contrario maggiore complessità. Sono infatti moltiplicati i procedimenti di formazione delle leggi, con un rapporto differenziato tra camera e senato in ragione della materia oggetto della legislazione. In prospettiva, questo può essere causa di lentezze procedimentali e fonte di inediti conflitti tra le due assemblee. In ogni caso, si potrebbe senza dubbio arrivare a un bicameralismo differenziato mantenendo il carattere elettivo del senato.

Ancora, è inconsistente l’argomento del nuovo senato come camera delle regioni. Il nuovo senato è composto da consiglieri regionali eletti dal consiglio di appartenenza, e da un sindaco per regione, per un totale di 95 senatori. È pura finzione che un consigliere regionale, eletto in un ambito territorialmente ristretto, sia in grado di rappresentare l’istituzione regionale, o voglia farlo, considerando che la sua carriera politica dipende dal territorio che gli fornisce la base elettorale, e non dal seggio senatoriale. Lo stesso può dirsi per il sindaco-senatore rispetto a tutti i comuni della regione. Per il ridotto numero di senatori assegnati a ciascuna regione, solo alcuni territori avrebbero voce in senato. Un senato così composto porta al livello nazionale i localismi, e non la regione nel suo complesso. Come invece avverrebbe con un senato eletto direttamente.

È infine del tutto infondato l’argomento che sarebbe stato alla fine recuperato il carattere elettivo del senato. Le modifiche introdotte per le pressioni della minoranza PD si traducono in dettati normativi confusi, e in ogni caso rinviati a successiva legislazione. Il dato della composizione e della elezione di secondo grado da parte del consiglio regionale tra i propri componenti e i sindaci in ogni caso rimane. Ed è dunque confermato l’ingresso al massimo livello di rappresentanza nazionale di un ceto politico che le cronache di stampa e giudiziarie certificano in prevalenza di bassa qualità, aperto a clientelismi e corruzione. Con l’aggravante che sono mantenute per i consiglieri-senatori e i sindaci-senatori le prerogative e le tutele apprestate in Costituzione per i parlamentari, per quanto riguarda arresti, perquisizioni, intercettazioni.

I rischi derivanti dalla riforma si colgono con chiarezza considerando la sinergia con la nuova legge elettorale già approvata. L’Italicum riprende e ribadisce le caratteristiche del Porcellum già colpite dalla Corte costituzionale con la dichiarazione di illegittimità. La eccessiva disproporzionalità tra voti e seggi censurata dalla Corte può senz’altro vedersi confermata in un sistema che prevede un ballottaggio senza alcuna soglia tra le due liste prevalenti nel primo turno. Tenendo conto che il sistema italiano è ormai orientato in senso tripolare, e che l’area del non-voto prende un terzo del corpo elettorale, è possibile e anzi probabile che il premio di maggioranza vada a un partito ampiamente minoritario per i consensi reali nel paese. Con l’aggravante che per l’Italicum il premio è dato alla singola lista, con preclusione di ogni apparentamento o coalizione. Consegnando così ad un singolo partito di minoranza una Camera blindata per i numeri parlamentari sia pure posticci, cui si aggiunge la prevalente presenza di capilista eletti a voto bloccato. Il leader di quel partito è destinato ad essere il padre-padrone del parlamento, addomesticato e gravemente indebolito nella capacità effettiva di rappresentare il paese. Del resto, l’Italicum è stato pensato e voluto per favorire i due maggiori partiti. Stroncare i partitini, cancellarne il potere di volta in volta definito di interdizione o di ricatto, è stato un obiettivo esplicitamente dichiarato dagli autori Renzi e Berlusconi, che hanno insieme sostenuto l’Italicum nella fase in cui il patto del Nazareno ancora li legava. La rappresentanza non è mai stata tra gli elementi ritenuti essenziali per il sistema politico e istituzionale.

In questo contesto mostrano tutta la propria pericolosità sia l’attribuzione all’esecutivo di poteri sull’agenda parlamentare, con la richiesta di un voto a data certa che la maggioranza garantita certo non rifiuterebbe; sia lo squilibrio nella composizione numerica della Camera e del Senato per

le ipotesi di seduta comune per l’elezione del Capo dello Stato e dei componenti del CSM, dove il pacchetto di voti assicurato dal premio di maggioranza potrebbe collocare saldamente la scelta nella sfera di influenza governativa; sia ancora nelle nomine affidate alla singola Camera, come quella dei giudici della corte costituzionale o dei componenti di autorità, completamente rimesse nelle mani della maggioranza di governo. È dunque evidente lo stravolgimento del sistema di checks and balances dato dal simultaneo operare della riforma costituzionale e di quella elettorale. E va anche ricordato che nel senso della concentrazione del potere verso Palazzo Chigi vanno anche altre riforme di grande rilievo, come quella della RAI o della PA. Persino la revisione della Costituzione sarebbe totalmente disponibile per la minoranza resa maggioranza dal premio, bastando l’appoggio in senato di un pacchetto di consiglieri regionali e sindaci amici del governo, facili da trovare anche solo per i favori al territorio di provenienza che potrebbero essere promessi o dispensati.

In principio, elementi almeno parzialmente correttivi avrebbero potuto essere introdotti potenziando gli istituti di democrazia diretta. Ma ciò non è avvenuto. Al contrario, la proposta di legge di iniziativa popolare vede aumentare da 50.000 a 150.000 il numero delle firme richieste, mentre è puro teatro il richiamo al regolamento per il percorso parlamentare della proposta. Il punto è che l’assemblea rimane assolutamente libera quanto alla decisione di merito. In altri ordinamenti una proposta di legge di iniziativa popolare può anche essere sottoposta direttamente al voto dei cittadini per l’approvazione. Quanto al referendum, forme nuove quali il referendum propositivo o di indirizzo vengono richiamate e rinviate a una futura legge costituzionale, per la evidenteindisponibilità di prevederle e disciplinarle già nella riforma. Rimane dunque il solo referendum abrogativo, che vede diminuire il quorum di validità a una cifra corrispondente alla partecipazione alle ultime elezioni politiche. Questo favorisce il successo dell’iniziativa referendaria, ma – inspiegabilmente – solo se il voto popolare è stato chiesto con 800.000 firme, e non 500.000. Per tale ultima ipotesi il quorum rimane fissato alla metà più uno degli aventi diritto al voto. Ma quale razionalità sostiene un diverso quorum, una volta che il referendum sia stato comunque chiesto con il numero di firme prescritto?

Un insieme di norme, costituzionali e di legge ordinaria, che comprime la rappresentanza politica e non compensa con la partecipazione popolare ci consegna una democrazia asfittica e malata. Perché?

La risposta la troviamo nel pensiero unico dominante che vede nel mercato e nel liberismo senza regole la risposta alla globalizzazione e alla crisi dalla quale il paese fatica ad uscire. Se l’assunto è che il problema si affronta comprimendo i diritti e le tutele costruite nei decenni trascorsi, ne segue che bisogna incidere sulla Parte I della Costituzione, che li prevede e li garantisce. E il modo agevole e occulto per raggiungere l’obiettivo è addomesticare il legislatore, cui è affidato il compito dell’attuazione, concentrando al tempo stesso il potere sul governo e il suo leader. Secondo questa strategia concentrare il potere di comando e marginalizzare il dissenso è il modo migliore per imporre al paese i sacrifici necessari. Un parlamento a ridotta rappresentatività, con una sola camera politica docile verso il governo per i numeri drogati da un mega premio di maggioranza, largamente composta secondo le scelte della segreteria di un singolo partito attraverso i capilista a voto bloccato, con gli organi di garanzia ricondotti nella sfera di influenza dell’esecutivo, è quel che serve.

Che questo sia l’indirizzo in campo trova conferma in quanto è già accaduto e accade. Si pensi alla riforma dell’art. 81 Cost., con l’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio. Si pensi a leggi come il Jobs Act, o la cd. Buona scuola. La riforma costituzionale e l’Italicum sono volti a consolidare e stabilizzare nel tempo una tendenza già in atto. Per questo la via referendaria è

obbligata. È cruciale il voto di ottobre, per il quale è comunque in corso la raccolta delle firme al fine di contrastare con la richiesta presentata da 500.000 elettori la torsione plebiscitaria imposta da Renzi. Uguale importanza assume il referendum abrogativo dell’Italicum, per cui anche è in corso la raccolta delle firme. Solo cambiando il complessivo contesto politico e istituzionale si potranno consolidare i risultati di una vittoria nei referendum cd sociali su lavoro, scuola, ambiente. Il parlamento dell’Italicum sarebbe anche peggiore del parlamento del Porcellum. Un pessimo parlamento si traduce in pessime leggi. E come è accaduto dopo la vittoria nel referendum sull’acqua pubblica di nuovo a rischio privatizzazione, basterebbe poco a mettere nel nulla una volontà popolare pur fortemente espressa.

La proposta Renzi-Boschi comprende altri profili, come la soppressione del CNEL, la de-costituzionalizzazione delle province, la modifica in alcune parti del titolo V sui rapporti tra Stato e Regioni. Ma le strutture portanti della strategia riformatrice in campo sono quelle prima descritte, e conducono senza margini di dubbio a firmare per i referendum oggi, e a votare no in ottobre, sì nei referendum abrogativi nel 2017. Ripristinare le condizioni di una piena partecipazione democratica è presupposto necessario per qualunque revisione della Costituzione nata dalla Resistenza che voglia unire il paese, non dividerlo. A chi vuole comandare riducendo gli spazi della democrazia, bisogna rispondere esercitando i diritti che la Costituzione riconosce.

ITALICUM: LE RAGIONI DEL NOSTRO “NO” di Domenico Gallo* *magistrato Adesso che la riforma elettorale (italicum) è stata trasformata in legge (L. 6 maggio 2015 n. 52) il discorso sul sistema elettorale del nostro Paese non è chiuso. Per l’italicum si è voluto procedere a tappe forzate, ricorrendo addirittura alla fiducia, come avvenne nel 1953 per la legge truffa, evidentemente per nascondere sotto l'asfalto del decisionismo governativo le scorie tossiche (per la democrazia) del nuovo sistema ed evitare ogni reale dibattito. E tuttavia, proprio com'è accaduto per il porcellum, è l'insostenibilità costituzionale e politica del nuovo sistema che rende necessario riaprire il dibattito per far emergere le storture che devono essere corrette. La legge elettorale, lungi dal rappresentare un’asettica tecnica di selezione della rappresentanza, è il principale strumento attraverso il quale si realizza un ordinamento rappresentativo e viene data concreta attuazione al principio supremo posto dall’art. 1 della Costituzione che statuisce: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”.. Orbene la Corte Costituzionale, con una pronuncia storica è intervenuta nel campo del diritto elettorale, riconoscendo che anche questo terreno squisitamente politico deve essere coerente con i principi costituzionali e con diritti politici del cittadino. E' da qui che bisogna partire per giudicare la sostenibilità del nuovo sistema elettorale. La Corte costituzionale con la sentenza 1/2014 ha dichiarato incostituzionali due istituti della legge Calderoli: – le liste bloccate, riconoscendo ai cittadini elettori il diritto di scegliersi i propri rappresentanti esprimendo (almeno) una preferenza;

– il meccanismo che attribuiva alla minoranza “vincente” un premio di maggioranza senza soglia minima. La Corte non ha contestato di per sé qualsiasi meccanismo correttivo dei voti espressi attraverso un premio di maggioranza, ma ha dichiarato costituzionalmente intollerabile che possa essere attribuito un premio di maggioranza “senza soglia” perché l'effetto sarebbe quello di produrre una distorsione enorme fra la volontà espressa dagli elettori ed il risultato in seggi, determinando un vulnus intollerabile all'eguaglianza del voto e al principio stesso della sovranità popolare. Nessun sistema elettorale è in grado di assicurare una perfetta corrispondenza fra i voti espressi ed i seggi conseguiti da ciascuna forza politica che partecipa all'agone elettorale. Questo però non consente di buttare a mare il principio espresso dall'art. 48 della Costituzione secondo cui il voto è libero ed uguale, diretta conseguenza del principio di eguaglianza e di partecipazione espresso dall'art. 3 Cost. La legge Calderoli aveva istituzionalizzato la diseguaglianza dei cittadini italiani nel voto, attraverso il meccanismo previsto dall'art. 83 che prevedeva la formazione di un “quoziente di maggioranza” e di un “quoziente di minoranza”. Nelle elezioni del 2013 il quoziente di maggioranza è stato di circa 29.000 voti, mentre quello di minoranza è stato superiore a 81.000 voti (cioè per eleggere un deputato nei partiti “premiati” sono stati sufficienti 29.000 voti popolari, mentre per eleggere un deputato per tutti gli altri partiti sono occorsi più di 81.000 voti popolari) Il rapporto fra i due quozienti è stato di 2,66. Basti pensare che il PD con 8.646.457 voti (25,42%) ha ottenuto 292 seggi (pari al 47%) mentre il Movimento 5 stelle con 8.704.969 (25,56%) ha ottenuto 102 seggi (pari al 16,5%). Elezioni Politiche del 2013 – distribuzione ineguale dei seggi Coalizione o partito Voti ricevuti Percentuale Seggi Bersani 10.047.808 29,55 340 Berlusconi 9.922.850 29,18 124 Grillo 8.689.458 25,56 108 Monti 3591607 10,56 45 Quoziente di maggioranza 10.047.808/340

= 29.552,37

Quoziente di minoranza 9.922.850+ 8.689.458+ 3.591.607

Totale Quoziente di minoranza

22.603.245/278 =81.306,63

La Consulta ha dichiarato incostituzionale il porcellum proprio per evitare il ripetersi di una simile insostenibile distorsione fra la volontà espressa dal popolo italiano ed i risultati in termini di composizione della Camera rappresentativa. Orbene l'Italicum finge di adeguarsi alle prescrizioni della Corte sia per quanto riguarda le liste bloccate, sia per quanto riguarda il premio di maggioranza, ma in realtà si sbarazza dei paletti che la Consulta ha posto alla discrezionalità del legislatore, riesumando una versione peggiorata del porcellum. L’italicum apparentemente abbandona il sistema delle liste bloccate (in cui i deputati sono eletti in base all’ordine di lista, senza che l’elettore possa mettervi becco), rendendo bloccati “soltanto”i capilista, mentre gli altri deputati vengono eletti sulla base delle preferenze. Però c’è un trucco. Vengono creati 100 collegi di dimensioni variabili da tre a sei seggi. Poiché difficilmente un partito elegge, in collegi così ridotti, più di un deputato, ecco che buona parte dei deputati non saranno

scelti dagli elettori con il voto di preferenza ma saranno direttamente “nominati”dai capi dei partiti. Ma ancor maggiore è lo scostamento dalle prescrizioni della Consulta in tema di premio di maggioranza. Anche in questo versante l’italicum finge di adeguarsi perchè introduce una soglia minima al premio di maggioranza (40%), con ciò legittimando, peraltro, un premio di maggioranza notevolissimo (il 15%, pari a circa 90 seggi), equivalente a quello stabilito dalla legge truffa. Nella realtà quest’adeguamento viene rinnegato con un trucco. Alle elezioni del 1953, la coalizione governativa non raggiunse per pochi voti la soglia minima (50%) ed il premio di maggioranza non scattò. Per evitare questo rischio il legislatore moderno ha risolto il problema, rendendo la soglia minima rimuovibile, attraverso l'istituto del ballottaggio su base nazionale fra le due liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti. In questo modo l'italicum non solo non abolisce il meccanismo del premio di maggioranza senza soglia censurato dalla Corte costituzionale, ma addirittura lo esalta perché attribuisce il premio ad una unica lista, anziché alle coalizioni. E’ questo l’aspetto più preoccupante della nuova legge elettorale. L'italicum smantella ogni possibile coalizione perchè attribuisce il premio di maggioranza ad una sola lista. Per legge viene attribuita la maggioranza politica e la guida del Governo ad un solo partito, a prescindere dalla volontà del popolo sovrano. In questo modo viene reintrodotto nel nostro paese un sistema di governo basato sul partito unico. Per rendersi conto della gravità di questa svolta, basti pensare che dal 24 aprile del 1944 (secondo governo Badoglio) ad oggi si sono sempre e solo succeduti governi di coalizione, o quantomeno sostenuti da una maggioranza di coalizione, mentre un governo del partito unico in Italia è esistito soltanto nel ventennio fascista. Fu proprio la legge elettorale dell’epoca (legge Acerbo) che consentì l’avvento di un partito unico al governo, attribuendo nelle elezioni del 1924 una maggioranza garantita al “listone”. Poichè il sistema politico italiano non è bipolare, né tantomeno bipartitico il meccanismo elettorale congegnato è destinato a produrre naturalmente – soprattutto attraverso il ballottaggio - una fortissima distorsione fra la volontà espressa dal corpo elettorale ed i seggi conseguiti dalle singole forze politiche, istituzionalizzando la diseguaglianza dei cittadini nell'esercizio del diritto di voto. Le due simulazioni che seguono rendono più chiari gli effetti perversi di questo sistema. Distribuzione diseguale dei seggi e diseguaglianza dei cittadini nel voto con l’italicum.

Simulazione I

Si prenda una platea di 30.000.000 di voti. Concorrono alla distribuzione dei seggi, avendo superato la soglia di sbarramento del 3%, n.5 partiti. Nessuno dei partiti concorrenti riesce a superare la soglia del 40% per cui si rende necessario il ballottaggio. A seguito del ballottaggio l’ufficio centrale nazionale determina il quoziente di maggioranza e quello di minoranza e procede alla distribuzione dei seggi come raffigurato in tabella. Partito Voti ricevuti Percentuale Seggi Lista n.1 7.500.000 25% 340

Lista n. 2 7.500.000 25% 93

Lista n. 3 7.490.000 24,97% 93

Lista n. 4 4.000.000 13,33% 49

Lista n. 5 3.510.000 11,7% 43

Quoziente di maggioranza

7.500.000/340=

22.058

Quoziente di minoranza 22.500.000/278=

80.935

Rapporto fra i 2 quozienti

80.935/22.025=

3,67

N.B. il voto del cittadino di maggioranza vale 3,67 volte in più del voto del cittadino di ” minoranza”

Simulazione II

Si prenda una platea di 30.000.000 di voti. Concorrono alla distribuzione dei seggi, avendo superato la soglia di sbarramento del 3%, n.5 partiti. Nessuno dei partiti concorrenti riesce a superare la soglia del 40% per cui si rende necessario il ballottaggio che vince la lista seconda classificata al primo turno. A seguito del ballottaggio l’ufficio centrale nazionale determina il quoziente di maggioranza e quello di minoranza e procede alla distribuzione dei seggi come raffigurato in tabella.

Partito Voti ricevuti Percentuale Seggi Lista n.1 10.000.000 33,33% 121

Lista n. 2 7.000.000 23,33% 340

Lista n. 3 6.000.000 20,00% 73

Lista n. 4 4.000.000 13,33% 48

Lista n. 5 3.000.000 10,00% 36

Quoziente di maggioranza

7.000.000/340=

20.588

Quoziente di minoranza 23.000.000/278=

82.733

Rapporto fra i 2 quozienti

82.733/20.588=

4,01

N.B. il voto del cittadino di maggioranza vale 4,01 volte in più del voto del cittadino di ” minoranza”

Queste semplici considerazioni dimostrano che l'Italicum è una legge insostenibile poichè aggredisce i fondamenti della democrazia repubblicana e ferisce uno dei principi che non può

essere oggetto di revisione costituzionale: quello dell'eguaglianza dei cittadini. L’ aspetto più preoccupante dell'italicum è che attraverso questo percorso di manipolazione della rappresentanza viene cambiata profondamente la forma di governo e squilibrata ogni forma di contrappeso istituzionale poiché un solo partito - per legge - avrà in mano le chiavi del governo e della maggioranza parlamentare. Senza mediare con nessuno, potrà determinare l’elezione del Presidente della Repubblica e attraverso di lui influire sulla composizione della Corte costituzionale, neutralizzandone la funzione di controllo. L’italicum è una minaccia per la democrazia. Questa minaccia può essere disinnescata soltanto attraverso i due referendum abrogativi proposti dal Comitato per il No all’italicum.

PER L’UNITA’ DELLA GIOVENTU’ PROLETARIA

Liberarsi dal sociologismo e dalle interpretazione interclassiste della questione giovanile. L’essenziale è la conquista e l’organizzazione di vasti strati della gioventù proletaria (e non genericamente dei “giovani”) quella delle borgate, delle periferie e della vasta e peculiare provincia italiana.

di Norberto Natali *

*Iniziativa Comunista

Nell’ultimo quarto di secolo, in linea di massima, la sinistra ha completamente ceduto sul piano della lotta ideologica, passando spesso nel campo opposto; è stata assente o subalterna su quello della lotta politica e si è “rifugiata” solo in quello della lotta economica, ridotta per lo più a mero economicismo. Di quest’ultimo, in estrema sintesi, c’è stata una versione parlamentare-istituzionale (contrabbandata come “politica”) ed una di carattere movimentistico e spontaneistico (presentata come “nuovi movimenti” oppure “nuove forme politiche di base”).

Con riguardo alla prima, c’è stata, nel tempo, una sostituzione dell’etica con l’estetica, del contenuto con la forma e della sostanza con l’apparenza. Alla fine era comunista qualsiasi organizzazione che ne avesse i simboli e il nome, ossia non erano più determinate caratteristiche e requisiti a definire la natura comunista di un partito o di una politica bensì qualsiasi cosa poteva essere definita come comunista per il solo fatto che veniva presentata come tale. In tal modo, gradualmente, si è perso ogni ancoraggio alle radici di classe e poi al rapporto con essa.

La “rifondazione” è nata per contendere al PDS il consenso di elettorato, simpatizzanti e militanti del disciolto PCI: in un certo senso, era congenitamente proiettata al rapporto con quanti, per cause loro, erano “già” orientati verso le posizioni e gli ideali comunisti. In definitiva era inidonea, fin dall’inizio, al rapporto ed alla conquista del consenso con quanti non fossero “già”, in qualche modo, decisi all’impegno e al sostegno di posizioni ed iniziative di sinistra (se non comuniste).

Nel corso del tempo, si sono presentate ed affermate via via generazioni che non avevano esperienza diretta del PCI, del significato concreto della sua presenza nella vita del popolo italiano. Milioni di ragazze e giovani che, per esempio, quando ci fu la Bolognina erano men che adolescenti oppure non erano ancora nati. I vizi suddetti rendevano la “rifondazione” organicamente inadatta a rigenerare la forza dei comunisti tra le nuove generazioni, verso le quali sempre meno faceva presa il richiamo al PCI e alla sua simbologia (a sua volta, peraltro, sempre più generico ed “estetico”). Ne è scaturita la contraddizione principale con cui, oggi più di prima, i comunisti devono fare i conti se non vogliono adattarsi ad un ruolo minoritario, marginale, puramente

predicatorio e testimoniale. La contraddizione tra identità comunista e rapporto (propaganda e proselitismo) di massa, con la classe, la gioventù, le donne.

In breve (semplicisticamente) quando si evoca la propria identità (la storia, i valori ideali, le finalità e le prospettive) non si coltiva il rapporto di massa (con chi non è “già” convinto o sensibile) mentre quando si cerca il rapporto di massa non lo si persegue con la propria identità (storia, valori, finalità) cercando il consenso e il proselitismo tra le nuove generazioni, tra chi è preda dell’ideologia avversaria o è insensibile all’impegno o all’interessamento ma ci si presenta con posizioni ed impostazioni di carattere economicistico e movimentistico, puntando a mere rivendicazioni immediate o accodandosi acriticamente a “movimenti” nutrendo illusioni sulla loro capacità di radicarsi diffusamente tra la classe e la sua gioventù.

In questo modo ci si è ritrovati, alla fine, in posizioni assolutamente minoritarie da cui sembra molto difficile ripartire per conquistare un vasto consenso tra le masse proletarie, specie tra chi ha meno di 40 anni. Da questa contraddizione principale (ma non unica) scaturiscono diversi pericoli, il più grave dei quali è l’illusione opportunistica di trovare il rimedio nei “movimenti” e simili.

Questi, in realtà, oltre a riproporre (a modo loro) tutti i vizi e le contraddizioni della “rifondazione” (o, se vogliamo, della sinistra “politica”) ne affiancano anche il declino quantitativo e qualitativo. Il loro seguito si riduce sempre di più (come l’elettorato per i partiti della sinistra), è sempre più isolato e circoscritto, le manifestazioni sempre meno numerose, le adesioni agli scioperi sempre più scarse. Lo “zoccolo duro” di certi movimenti tende sempre più ad essere subordinato alla garanzia di singoli interessi materiali immediati (la casa, la salvaguardia temporanea di alcune condizioni di lavoro, la gestione di certi “spazi” anche economicamente remunerativi, ecc.) mentre aumentano la frantumazione e la divisione interna ed anche l’inaridimento ideale e la subalternità al quadro politico. Basti pensare al crescente disimpegno verso le battaglie per la pace, per la solidarietà internazionale ed anche a quelle antifasciste, nonché agli accordi e collegamenti con le forze politiche al governo di enti locali e regioni.

Tutto ciò non significa che il Partito Comunista debba negare la propria solidarietà ed appoggio a movimenti e sindacati, tanto meno che debba rinunciare a radicarsi in essi anche sviluppando propaganda e proselitismo al loro interno; tuttavia sarebbe un grave errore -una sorta di completamento dei guasti della “rifondazione”- illudersi che il Partito possa crescere accodandosi (tanto più se acriticamente) ad essi. Sarebbe un errore che finirebbe per nuocere anche agli interessi di fondo e alla forza dei movimenti stessi.

Per brevità, si evita, in questa nota, di ripetere quanto già è stato descritto in altri ambiti dei documenti congressuali, circa i mutamenti economici e sociali intervenuti (unitamente a quelli politici ed ideologici) nell’ultimo quarto di secolo e che hanno investito, crescentemente, le generazioni più recenti e nuove.

Ciò anche perché non sono tali mutamenti, di per sé, ad aver generato le attuali, gravi, difficoltà nostre e della sinistra più in generale, come invece ritengono, erroneamente, alcuni comunisti ed esponenti dei movimenti. Questi dovrebbero, per fare un solo esempio, rileggere le Tesi di Lione del PCdI e come trattavano, tra l’altro, la questione detta della frammentazione della classe lavoratrice, in opposizione alle tesi bordighiste.

Basti pensare che le condizioni che attualmente caratterizzano il lavoro e la vita sociale (specie delle generazioni più giovani) sono straordinariamente simili (per ragioni diverse ed anche opposte tra loro) a quelle prefordiste, ovvero quelle nelle quali il movimento operaio e le sue

organizzazioni nacquero e si svilupparono impetuosamente. Proprio ciò indica che le cause dell’attuale, gravissima, crisi della sinistra è nella sua incapacità a dispiegare la sua vera natura e funzione di fronte a tali mutamenti, anche per le ragioni qui sommariamente esposte.

Non si può trascurare la funzione storica che da quasi trent’anni hanno svolto la FGCI prima (nonostante il suo glorioso passato) e poi le altre organizzazioni giovanili successive. Sono state l’apripista dell’opportunismo e ( benché non si possa generalizzare) “allevamento” di politicanti squallidi e infidi che hanno aggravato la deriva e accelerato il declino delle organizzazioni comuniste (per poi abbandonarle o tradirle, in molti casi, alla prima occasione).

Questo fatto si intreccia con un’altra contraddizione che il Partito Comunista risorgente deve affrontare in modo scientifico: la composizione sempre più borghese dei quadri dirigenti giovanili, da cui deriva una crescente incapacità a conquistare e mobilitare la gioventù proletaria e -di converso- la progressiva estensione (tra la medesima gioventù proletaria) dell’influenza dei fascisti, delle religioni e perfino della malavita e delle mafie.

Senza volerle equiparare (per esempio alcuni ambienti giovanili, del cattolicesimo e di altre confessioni, possono avere, in questo quadro, una funzione positiva) sono queste i riferimenti che più mietono successi.

Dalla sinistra e dai movimenti (salvo alcune eccezioni) sono stati selezionati e promossi giovani politicanti ed intellettuali borghesi, i quali hanno approfondito la frattura tra partiti di sinistra e gioventù proletaria, sia perché non la capiscono, sia perché i giovani proletari disprezzano, sia pure in modo non cosciente ed in forme confuse, questi elementi (sentimento largamente ricambiato).

Si rinuncia, in questa sede, ad affrontare il tema della sinistra borghese che rende oggi l’Italia un’anomalia (negativa) rispetto a tanti altri paesi, anche europei, dove il movimento operaio è ben più forte e saldo e le lotte giovanili sono estese ed incisive. Non si sfugge, però, alla sensazione che i rampolli della borghesia facciano “apprendistato” di come si comandano i proletari e ci si appropria dei frutti del loro impegno per tornaconti personali, in partiti e movimenti che dovrebbero essere antagonisti alla loro classe.

Resta il fatto -per chi scrive- che non si riesce ancora a capire, nonostante tanta accademia e dibattiti impegnati, perché, fra tanti giovani proletari sono i fascisti e la malavita (anziché altri) a costituire una sorta di punto di riferimento. Senza trascurare che il “partito” sempre più seguito è quello dell’indifferenza e del disimpegno, i quali tendono a degradare nell’individualismo e perfino nel cinismo.

Ancor di più, nonostante tanti tentativi ed esperimenti, non si è visto ancora un programma chiaro per strappare alla vuota solitudine dell’indifferenza o all’egemonia avversaria la coscienza e il consenso di tanti giovani e ragazze proletari, conquistandoli agli ideali e all’organizzazione del Partito Comunista e della sua gioventù.

Come farlo deve essere impegno centrale del Partito Comunista che rinasce, in un certo senso la misura della sua credibilità e dell’innovazione rispetto a un recente passato di errori e sconfitte. Ad una situazione tanto grave, le cui cause possono essere ricondotte al movimentismo e all’economicismo (variamente coniugati) non si può rimediare con altro movimentismo ed economicismo, né accodandosi ad illusioni spontaneiste o arrendendosi all’attendismo.

Al tempo stesso, “l’imborghesimento” delle politiche e delle organizzazioni giovanili, non può essere assecondato, accettando i riflessi di un’ideologia borghese (idealista e metafisica) che

disprezza la gioventù proletaria e vi si rapporta con atteggiamenti elitari e snobistici. Per fare un solo esempio, volutamente provocatorio, non serve a nulla (anzi!) tacciare tanti giovani delle borgate o della provincia come razzisti, se si vuole contrastare concretamente la diffusione della xenofobia (il razzismo è un’altra cosa) tra di loro. Chi pensa che il rilancio del Partito Comunista, la ripresa della sua forza tra la gioventù strappando tante ragazze e ragazzi all’influenza di fascisti e criminali possa avvenire proponendo solo “movimenti antirazzisti” nelle periferie, non solo non capisce nulla del marxismo (né del materialismo storico) ma non conosce la reale vita dei giovani e delle loro famiglie e neanche sa come agiscono i fascisti e i mafiosi. L’antidoto alla loro velenosa penetrazione deve essere “preparato” in modo più scientifico.

Siamo in una fase storica molto originale, in un certo senso inedita, nella quale i figli vivono in condizioni (materiali e spirituali) peggiori dei genitori e ciò, finché dura il dominio della borghesia imperialista, si ripeterà di generazione in generazione.

Occorre tener presente (oltre alla precarietà e la disoccupazione) il crollo incessante del prezzo orario del consumo della forza-lavoro ed il conseguente aumento (anche variamente camuffato) dell’orario di lavoro con riduzione del tempo di vita libero dai suoi condizionamenti. Il ricorso pianificato dell’imperialismo al continuo disordine, alla promiscuità, alla destabilizzazione permanente e progressiva al fine di disgregare la coesione sociale di gran parte della popolazione per coprire l’impoverimento generale e prevenire l’insorgenza popolare.

In questo quadro vi è il programma che gli ideologi della borghesia imperialista definiscono di liquidazione dei “corpi intermedi” ovvero dei presupposti della democrazia e dell’intervento delle masse nella vita collettiva e nello Stato: sindacati, partiti (nel senso storico e non odierno del termine), autonomie locali, e varie organizzazioni sociali (perfino la confindustria!). E’ in corso un processo di “verticalizzazione” della vita e dei rapporti sociali per cui ciascuno si dovrebbe trovare da solo ad interagire (più esattamente a sottomettersi) con le varie istituzioni della classe dominante. Questo programma di disgregazione sociale e verticalizzazione è sostenuto dall’impiego scientifico di nuove tecnologie della comunicazione che ne garantiscono anche le condizioni morali e psicologiche.

Nessun mezzo e nessuna tecnologia vanno demonizzate o santificate pregiudizialmente ma considerate ed utilizzate con spirito critico e scientifico. Tuttavia, il rapporto della persona con la natura e la realtà consiste nel riflesso di queste nella mente umana da parte dei sensi fisici. Ora, per una quota eccessiva della giornata, la vista e l’udito non trasmettono nella mente la realtà della natura e l’interazione in costante divenire e mutamento con gli altri esseri umani ma contenuti e stimoli decisi da appositi istituti della borghesia imperialista. In questo modo si rende più incerto il senso della realtà, la coscienza della materia e si deteriora la capacità di organizzare esperienze collettive.

Sembra di assistere ad una lenta atrofizzazione della memoria e della fantasia, della capacità di concentrazione, astrazione, e di pensiero. Si vuole limitare quest’ultimo alla mera funzione di osservazione e giudizio, tendendo a ridurre la capacità di immaginare (progettare) un obiettivo non ancora esistente -se non nei suoi presupposti- e di passare poi dall’astratto al concreto, ovvero la realizzazione pianificata e graduale di quell’obiettivo.

Di tutto questo occorre tener conto nel rettificare gli errori e le deviazioni degli ultimi decenni, considerando che c’è una questione (come già accennato) riguardante il radicamento e la rigenerazione del nuovo PCI tra le fasce più giovani della popolazione e ce n’è un’altra relativa alla gioventù attuale e futura in senso stretto.

In quest’ultimo senso occorre liberarsi dal sociologismo e dalle interpretazione interclassiste della questione giovanile. L’essenziale, ora, è la conquista e l’organizzazione di vasti strati della gioventù proletaria (e non genericamente dei “giovani”) quella delle borgate, delle periferie e della vasta e peculiare provincia italiana. Sono tanti i giovani e le ragazze che lavorano o sono disoccupati, vasto e crescente è il fenomeno dell’abbandono delle scuole superiori e dell’università, molti sono gli studenti e le studentesse degli istituti tecnici e professionali e dei licei di periferia più abbandonati. Insomma non esistono solo i “fighetti” dei licei più eleganti e delle università più blasonate.

Si deve intervenire tra queste masse in primo luogo dando centralità alle loro condizioni concrete di vita, materiali e morali: la disoccupazione e la sottoccupazione (precarietà e lavoro intermittente), bassi salari, orari alienanti, mansioni pericolose e nocive, degrado degli istituti scolastici e della qualità e dei servizi dell’istruzione, abbandono e degrado delle periferie e di zone della provincia sempre più vaste, le quali vengono stravolte e -per cosi dire- “periferizzate” con gravi conseguenze sociali e morali. A ciò si accompagna l’odio e il disprezzo della borghesia imperialista verso i proletari, la sua intensa campagna ideologica che trae spunto da quelle condotte contro gli afroamericani o i nativi americani o contro i palestinesi dei territori occupati, per fare degli esempi volutamente iperbolici.

Ciò provoca nella gioventù un senso di smarrimento e disorientamento, propizio all’egemonia ideologica borghese ma anche suscettibile -se c’è una linea idonea scientificamente definita- di essere trasformato in carica antagonista di classe, potenzialmente rivoluzionaria. Bisogna che i giovani proletari si riapproprino di una coscienza e di una identità di classe, sviluppino esperienze e sedi collettive che valorizzino il ruolo della classe lavoratrice come classe dirigente della società e la prospettiva del potere proletario. L’orgoglio di classe deve essere parte integrante di un programma del PCI che combini tra loro la lotta economica alla lotta ideologica, avendo come centrale quella politica. Ogni tentazione di condurre ciascuno di questi elementi isolatamente è destinata al fallimento. La lotta ideologica si ridurrebbe all’esercizio accademico di chiacchiere fini a se stesse e la lotta politica a mero politicantismo e personalismo, un susseguirsi di liste e campagne elettorali i cui risultati lamentiamo oggi, come quelli dell’economicismo.

In questa fase della crisi dell’imperialismo, con le sue peculiari declinazioni in Europa ed in particolare in Italia, la lotta economica, di per sé, non ha alcun senso si riduce (come è già avvenuto) a scadente economicismo. Essa può essere solo di carattere difensivo, transitorio ed è utile solo se accompagnata da una lotta ideologica che abbia come obiettivo l’imperialismo quale origine della miseria e dell’ingiustizia, la denuncia della putrefazione materiale, morale e spirituale della borghesia e l’individuazione del socialismo come unica, reale soluzione (duratura ed organica) dei mali che incombono sulla società e del proletariato come unica classe capace di liberare l’umanità intera. Tutto ciò finalizzato alla lotta politica, capace così di dare un’identità ed una prospettiva alla gioventù proletaria consentendo al PCI di radicarsi saldamente tra le nuove generazioni, valorizzando con forza il suo schieramento internazionale nel campo della pace, del progresso, della giustizia sociale.

Il Partito Comunista Italiano rinasce con un impegno ambizioso e di lunga lena: dare vita ad una nuova leva di giovani e ragazze proletari, comunisti che studiano, pensano e lottano. Uniti e organizzati. Sarà finalmente, dopo tanto tempo, una nuova avanguardia, capace di riscattare tanti sforzi e tante sconfitte e guidare alla riscossa gli oppressi e gli sfruttati.

Un contributo alla riflessione sul rapporto fra canzone popolare e militanza politica Pierpaolo Capovilla* *Cantautore “Un cantante deve fare il cantante, non il politico! Basta con questa ipocrisia!”. “Non hai il diritto di usare la tua pagina Facebook per fare politica! Così influenzi i più giovani!”. “Usi i social per fare propaganda fra i più giovani. Vergogna”. Qualche giorno fa scrissi un duro post sulla mia pagina Facebook in favore del “no” alla controriforma costituzionale. Questi sopra sono solo alcuni dei messaggi pervenuti alla mia bacheca in quell’occasione. La maggioranza degli altri messaggi era di approvazione e incoraggiamento, certamente scritti da giovani e meno giovani di sinistra, magari iscritti all’ANPI o all’ARCI, o gravitanti nel mondo dell’antagonismo. Altri ancora erano messaggi ingiuriosi. Ma questi tre sopra, scelti fra i tanti, sono particolarmente significativi, e mi offrono l’occasione di fare una riflessione sul senso di fare musica leggera oggi, in Italia. Disvelano infatti un’opinione molto diffusa nella società italiana, e questa opinione cela una visione del rapporto fra spettacolo e politica - che c’è nella società italiana - fors’anche più preoccupante. Penso che l’involuzione culturale manifestantesi nel paese in questi anni, stia raggiungendo traguardi ideologici mai raggiunti prima. L’idea diffusa che musica e spettacolo debbano tenersi lontani dal conflitto politico, pena la loro riduzione a fenomeni “politici” e quindi non più “artistici”, è l’espressione di un’apoteosi ideologica del dominio sovrastrutturale del capitale nelle menti della gente. L’arte, e con essa la canzone popolare, incontrerebbe nella militanza il suo punto di non ritorno, il disconoscimento di quella purezza estetica che farebbe dell’arte la sua ragion d’essere. Si tratta chiaramente di una stupidaggine, ma tant’è, molte persone la pensano proprio così. Dovetti armarmi di pazienza, e rispondere per le rime ai tanti detrattori. Lo feci con calma e circostanza, perché credo fermamente nell'arte della maieutica: prima che nello scontro, credo nel confronto e nella discussione, e nel tentativo di rendere comprensibile a molti o alcuni ciò che sorprendentemente sembrerebbe non esserlo più, nel tentativo non sempre disperato di cooptazione culturale dell’interlocutore: prima di mandarti a quel paese, cercherò di farti comprendere la bontà delle mie idee. Volli quindi rispondere. In primo luogo un “cantante” è un cittadino, cosa più che ovvia, e come cittadino è portatore della sacrosanta libertà di esprimere le proprie opinioni come dove e quando vuole. Secondariamente un “cantante” non è semplicemente un’ugola capace di modulare la propria voce meglio di altri (io poi non lo sono affatto, le mie capacità vocali sono tristemente insufficienti), ma a volte è anche uno scrittore, un autore, a volte un poeta, e in quanto tale un intellettuale: mancherei al mio dovere, se non contribuissi al confronto politico. E poi, e poi come dimenticare la lunga e gloriosa

tradizione cantautorale italiana, quelle di De André, Dalla, De Gregori, Guccini, Lolli, Venditti, Graziani, Gaetano, Pino Daniele, Bennato, gli Area, Finardi, e quanti altri… Tutte queste ovvie considerazioni, sono spesso per niente ovvie anche fra arcinote e blasonatissime figure della musica leggera italiana. Vorrei raccontare una bizzarra esperienza che feci l’estate scorsa. Ero a Roma per la promozione di “Obtorto Collo”, il mio primo disco solista. Fui invitato a cena da Sergio, un manager Universal. Con noi c’erano ben quattro famosissime cantanti pop italiane. Non farò i loro nomi, non avrebbe senso. La più famosa in assoluto, una di quelle che riempiono gli stadi, incominciò una penosa discussione su Suor Cristina, dicendo: "Ma insomma!, Una suora deve occuparsi dei poveri, dei bisognosi, non certo andare in TV a cantare. È inconcepibile!" Le feci notare che una suora è innanzitutto una donna, e come tale è una cittadina, e in quanto cittadina ha il diritto di andare a cantare in TV, come chiunque altro. Poi le spiegai (io sono figlio di un’ex suora dell’Ordine Paolino) che la dottrina sociale della Romana Chiesa Cattolica d’Occidente non soltanto non impedisce, ma sollecita e incoraggia i suoi membri a fare evangelizzazione a tutti i livelli della società, senza escluderne alcuno. Alla fine le feci osservare che anche lei, che sfoggiava un terribile Rolex tempestato di diamanti (lo aveva comprato il giorno stesso, la cena era per festeggiarne l’acquisto) avrebbe potuto, se soltanto avesse voluto, rendersi utile socialmente, magari proprio in aiuto degli ultimi e degli emarginati: avrebbe potuto fare persino di più di Suor Cristina, che… poverina, già non se la fila più nessuno. Ecco in che condizione sono i “cantanti”, quelli dei grandi numeri. Politicamente analfabeti. Artisticamente irrilevanti. Culturalmente inadeguati. Soltanto in un paio di aspetti, così caratteristici della società italiana contemporanea, eccellono come nessuno: nel narcisismo qualunquistico e nell’individualismo economico. Perdonatemi, care compagne e compagni, questo excursus sull’imbecillità epidemica che sembra dominare la musica leggera italiana, per lo meno quella “mainstream”. Io vengo dalla scena musicale indipendente, e di questa sono diventato, malgrado tutto, un protagonista. Da molti anni ho l'impressione che nel mondo della musica leggera italiana, anche di quella “indipendente”, si sia sviluppato un più o meno consapevole processo di autocensura fra gli artisti, gli autori e i parolieri. Sembra che ci sia una certa paura, un timore del e verso il potere. E verso il potente di turno. Guai a pestargli i piedi, perché non si sa mai; oggigiorno farsi dei nemici a livello politico può portare soltanto guai. Molto meglio farsi gli affari propri. Ecco allora non soltanto una sconfinata produzione musicale priva di spirito narrativo e tensione poetica, priva di critica sociale, vuota, inconsistente, superficiale, ignorante, quella "mainstream". Ma anche un'innumerevole produzione "indie" che non ha niente da dire o raccontare, se non le strasolite figure dell'innamoramento giovanile (letto sempre e soltanto attraverso la lente dell'ipostatizzazione del particolare - un'esperienza personale?, un fatto privato dal quale procede il destino del mondo? - in universale, come se l'amore, la coppia, e in ultima analisi ciò che Lacan chiamerebbe "costruzione della famiglia", fossero le uniche cose di cui vale la pena "cantare"). Ecco allora una "nuova canzone italiana" il cui vocabolario è conformisticamente tanto povero da

condurre a narrazioni epigrafiche irrisolte, non perché metaforiche, ma perché incapaci di raccontare alcunché. Ecco allora le piccole, ma straordinarie, vette dell'imbecillità di canzoni come "Ti Pretendo", stupidissimo ma assolutamente esemplare esempio di inconsapevolezza e conformismo autoriale: ve la ricordate? Era di RAF, anni novanta, ma sembra pubblicata ieri: "io non ti voglio, ti pretendo, sei l'unico diritto che ho". Come se l'amore fosse un "diritto", come se "pretendere" fosse un'espressione autentica del desiderio, come se tutti gli altri diritti (come quello di esser lasciati in pace) non esistessero, visto che l'unico diritto è … l'amore. O la pretesa di esso. E poi ci meravigliamo se gli uomini prevaricano le donne, le inseguono e perseguitano, le violentano e le uccidono. Quella canzone di RAF è l'esempio, fra i più calzanti ch'io conosca, dell'ignoranza e della superficialità della canzone italiana, oggi. E in qualche misura, anche della sua "disutilità". Perché una canzone, quando te la trasmettono in radio cento volte al giorno, è un fatto "politico", c'è poco da fare. E gli autori oggigiorno, spesso, troppo spesso, non si rendono conto del ruolo sociale che il loro mestiere incarna in questa società fluida ed errante, naufraga degli ideali novecenteschi, imprigionata nel presente, incapace di scorgere alcun futuro se non quello del tirare a campare. Eppure l'Italia è stata la patria della tradizione cantautorale, di quella "canzone d'autore" che fece della musica leggera italiana un esempio di poesia e cultura, di narrazione e letteratura, di valori e militanza. Cosa è cambiato negli ultimi trent'anni? Perché non scriviamo e suoniamo e cantiamo più canzoni profonde e toccanti? Dov'è finita, dove si è nascosta quella tensione poetica che rese leggendari i repertori di un Fabrizio de André o di un Pino Daniele? Certo, la canzone è pur sempre lo specchio della società e dei tempi in cui viviamo. Ma quando l'arte, e con essa la musica leggera, rinuncia ad osservare e descrivere le contraddizioni sociali in cui viviamo, rinuncia certamente anche a cambiare il paese, e rinuncia così al futuro, accontentandosi ostinatamente di un sempiterno presente, che scorre nelle e sulle nostre vite, indifferente al loro stesso destino. Io, da tempo ormai, me ne sono fatto una ragione. Ma non mi sono mai arreso a questa contemporaneità. Per dirla con Agamben, "è davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo". Ho compreso che fare musica e canzone d'autore, qui e oggi, esige quello "scarto", quell' "anacronismo" e quell' "inattualità", di cui autori e musicisti sembrano non accorgersi più, inconsapevolmente o meno. La musica leggera italiana è stata presa d'assalto da un esercito di analfabeti di ritorno, tutti, dico tutti ignari del significato sovrastrutturale e ideologico delle loro canzoni, della loro musica, delle loro stesse figure pubbliche, delle loro stesse stupide insignificanti e miserabili esistenze. Siamo all' "A-Politica", alla diserzione del significante dal significato, all'analfabetismo narrativo-letterario, e infine, al precipizio etico. La cultura umanistica, nell'Italia dell'oggi, vive il suo momento peggiore degli ultimi cinquant'anni. Lo si evince facilmente proprio ascoltando le canzoni. I grandi "tormentoni" radiofonici sono sempre canzoni sciocche, il cui fulcro

narrativo coincide sempre con lo stesso tema: l'amore e il rapporto di genere, trascurando tutto, ma proprio tutto il resto. Il perché di questa rinuncia e sconfitta poetica non è difficile da rintracciare. È nel mercato musicale stesso, composto di lobbies discografiche e radiofoniche legate al diritto di edizione, nella loro ideologia dell'intrattenimento, che coincide con l'esigenza di vendere canzoni (non importa se fisicamente, o solo attraverso l'ascolto, che comunque genera denaro attraverso il diritto inferente la riproduzione fonomeccanica) che non infastidiscano il pubblico, non lo allarmino, non lo facciano pensare e riflettere, ma al contrario, lo accompagnino quotidianamente nell'indifferenza e nell’individualismo esistenziale che caratterizza più che mai i nostri tempi. È una resa totale a questa contemporaneità, ed è un tradimento esplicito del senso stesso dell'arte, che a questo punto non ha più niente a che fare con la canzone. Di fronte a questo sfacelo culturale, alcuni artisti, i più coriacei e consapevoli, restano fieramente refrattari alle regole e alla logica del mercato discografico, nel segno dell'autenticità artistica, della genuinità dei contenuti, della poesia. Sono quelli che vivono il proprio mestiere in un senso politico. Il progresso sociale, che nel capitalismo non coincide mai con lo sviluppo economico, è per essi (per noi) infinitamente più importante del successo, del blasone, del primeggiare. Il "fare scena" insieme, in concorso e soccorso reciproci, il contribuire e cooperare, aspirando ad un paese più giusto e più uguale, per questi artisti è cruciale. La musica, e la canzone con essa, lo sappiamo, sono importanti nella vita delle persone in carne ed ossa. Lo sono perché inducono l'ascoltatore non soltanto alla riflessione critica, alla presa di coscienza, ma anche alla fratellanza, alla con-passione, a quel "patire insieme" che è cruciale nel processo di coesione sociale. Ma c’è una pavidità di fondo, un timore politico dietro le quinte, che spinge i più a quella pasoliniana prudenza così tristemente tipica dei cattolici. Non me ne vogliano i cattolici, sono battezzato anch’io, ma sono veneto, e ho quasi cinquant’anni: ne so qualcosa. Mia madre mi raccomandava di non espormi mai, mio padre semplicemente mi disapprovava, i parenti credevano fossi un drogato o uno squilibrato. Tutti insieme, pregavano per la mia redenzione. E che redenzione sia! Nel segno di una società più giusta e più uguale, nel segno della democrazia reale, del sostegno reciproco, del mutualismo e della solidarietà fra le persone e fra i popoli. Ecco, io penso, anzi, sono da sempre completamente conquistato dall'idea che la musica, e con essa la canzone popolare, possa contribuire al mutamento sociale. La canzone, infatti, c'è poco da fare, è un potente fattore di rimodulazione dell'immaginario collettivo. Quando essa esprime critica sociale, allora fa esattamente ciò che deve: contribuisce al risveglio della coscienza civile. E della lotta di classe. Ecco perché aderisco convintamente alla ricostituzione del Partito Comunista Italiano. Non soltanto perché sono orgogliosamente comunista, ma perché così facendo getto il mio personalissimo ma arrabbiatissimo guanto di sfida al mondo della musica leggera italiana. Perché noi "artisti" non soltanto non dobbiamo temere il potere, ma lo dobbiamo sfidare e combattere. La canzone popolare può ritornare ad essere compagna di lotta nell'arena politica dell'Italia

contemporanea.

L’ARTE, LA CULTURA E IL MONDO DELLO SPETTACOLO AL SERVIZIO DEL PENSIERO CRITICO, DELLA DIFESA DELLA DEMOCRAZIA E PER UNA PROSPETTIVA COMUNISTA

di Enrico Capuano ( cantautore) Marino Severini (“voce”e chitarra de La Gang) Tammurriatarock ( Gruppo musicale) Blond Records ( Casa discografica )

In questi anni di forte omologazione gestita dal capitale finanziario, la cultura dominante ha imposto un suo immaginario collettivo, di relazioni e di codici anche etici , gli spazi di vera elaborazione culturale si sono ridotti tantissimo . La mercificazione dei rapporti umani si riflette anche nell’ arte e nella cultura. Questo scenario sta creando danni alla creatività e al pensiero critico, c’è un appiattimento complessivo e una grande capacità del capitale di manipolazione sulle masse; persino le culture “popolari e subalterne” di una volta, che avevano una loro autonomia, come diceva Pasolini, sono state massacrate dalla mercificazione. Pasolini aveva avuto delle grandi intuizioni, in anni diversi dai nostri, c’è molto materiale teorico su cui ripartire e aggiornare. L’ arte è ridiventata un privilegio per pochi , una concezione elitaria , qualcosa lontana dal nuovo proletariato moderno: la musica o lo spettacolo in genere sono lo specchio di una rappresentazione edonistica ,competitiva, tipica dell’ apparire. Come comunisti non dobbiamo sottovalutare questi temi, come spesso si è fatto e ancora si fa: ad esempio la stessa musica, nelle ultime feste dell’ Unità dell’ ultimo PCI, era diventava un contorno e il centro della politica diventava il dibattito. Anche nelle nostre file c’è molto da discutere sui linguaggi .

Il nuovo Partito Comunista deve recuperare, comunque, la tradizione delle feste , piccole, magari, con i pochi soldi che ci sono, ma le feste sono un occasione di incontro, per ricostruire rapporti , creare rete, creare scambio, il ritorno di una presenza e una occasione per fare anche cultura. Il vero momento politico della festa comunista deve essere la festa stessa, dalla progettazione alla musica, ad una cena, ai rapporti umani ormai persi nell’ attuale società; il ricrearsi di un senso di una comunità accogliente, fuori da schemi minoritari e rivoluzionaria. Dobbiamo ricostruire una autonomia culturale e di relazioni umane che ci distinguono dalla competizione individualistica che il regime capitalista impone alle masse.

Per una cultura libera , per far veicolare, ad esempio, un’ idea di spettacolo e di arte popolare; dobbiamo essere a fianco e a sostegno del teatro, dell’ espressività in generale; c’è bisogno di uno sforzo collettivo , utilizzare competenze e creare occasioni.

È necessario arricchire un progetto anche di resistenza ai codici imposti; sostenere il pensiero critico nel confronto, anche di culture diverse. Viviamo in una società dello spettacolo dove l’ apparire diventa centrale rispetto alla proposta stessa. Bisogna ricavare luoghi di elaborazione e sperimentazione, difendere e diffondere spazi virtuali e reali e di veicolazione di idee. Sul piano pratico: la difesa di molte delle occupazioni sparse sul territorio nazionale, da dove spesso emergono delle proposte interessanti, deve rientrare nel programma del nuovo Partito Comunista.

Bisogna ricostruire, ad esempio per essere ancora più pratici, una piccola rete di distribuzione di materiale, dai libri ai cd, creando anche un circuito di produzione, distribuzione e promozione. L’elemento promozionale deve avere caratteristiche nuove, servono competenze e formazione. Andare oltre le enunciazioni è importante, ma serve professionalità, soprattutto sugli aspetti tecnici i tuttologi non esistono. Tutti possono contribuire, ma la logica è costruire un progetto complessivo.

È necessario dare corpo ad un processo creativo alternativo alla società dell’ edonismo. Serve una grande capacità di ascolto , studiare i linguaggi con cui ci andiamo a confrontare. La musica , lo spettacolo e la cultura in genere possono essere un ottimo antidoto al niente da regime. all’appiattimento, al mito del successo fine a se stesso che la società ci impone .

Bisogna dotarsi di strumenti di comunicazione capaci di interagire con le persone, con un vasto proletariato disorganizzato, complesso, poco identificabile in alcuni casi. Oggi, tanti intellettuali, artisti, cantanti, scrittori liberi vivono la loro professione in condizioni precarie, spesso emarginati e soli.

Siamo oltre la fabbrica tradizionale: l’ alienazione è in tutto il contesto.

Piccoli segnali ci sono e vanno colti: ad esempio l’ apertura, da parte di artisti della vecchia sacs,società degli artisti comunisti di una radio web chiamata “la radio comunista”, che in meno di un mese ha già intercettato almeno 1000 ascolti o l’esperienza dei compagni di Labaro tv su yuotube: sono esempi importanti, da valorizzare, ottimizzare, ma serve un elaborazione più approfondita . Serve un progetto praticabile, concreto.

Bisogna costruire incontri specifici, anche di studio, di formazione e informazione sull’ importanza della comunicazione e della cultura ; ridefinire attraverso le lotte e la pratica di ogni giorno alcuni concetti.

Lenin fu tra i primi a capire queste tematiche e le sue tempistiche ( agit e prop).

È ovvio che la questione culturale in Italia non può essere solo rinchiusa in uno schema di una progetto partitico ma il nostro segmento,noi comunisti, possiamo dare un contributo teorico e pratico important . Battersi per la difesa del pensiero critico è fondamentale. Contro le città prigione, per una cultura umanistica ,aperta , pluralista.

Per noi comunisti, e soprattutto per chi vive di musica arte e cultura e sa bene che il concetto di cultura non può prescindere dalla moderna lotta di classe, ma bisogna ricominciare da qualche parte per trovare idee spunti ed andare oltre gli slogan, oltre gli eterni dibattiti noiosi e fuori dai temi reali e le priorità del momento. Serve un elaborazione più attenta al nostro interno e saper costruire un progetto ampio di confronto con la realtà.

Marx, parlando di praxis, ha dato interessanti spunti di riflessione e di indicazione; sul concetto di cultura Gramsci ha dedicato molto tempo, e non a caso. Diceva Gramsci “Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno.”

“Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che i nostri rapporti hanno con gli altri uomini”.

Bisogna ripartire con un processo di rivoluzione culturale, avendo coscienza e padronanza della definizione “di struttura e sovrastruttura”, di cui Marx parlava. I due aspetti si intrecciano in un divenire dialettico, dando si centralità alla struttura, cioè ai rapporti economici, ma ricordando che in ultima analisi questa concezione non è meccanicistica , ne schematica.

In un periodo di imbarbarimento dei rapporti umani, in un clima di guerra e di forte egemonia della classe dominante che ha invaso anche la sinistra, segnata dal carrierismo e dall’ individualismo, è importante ricostruire un processo culturale significativo e autonomo .

È difficile. ma necessario .