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PRESENTAZIONE Il volume che qui si presenta costituisce la quarta edizione del testo pub- blicato per la prima volta nel 2011. L’idea di scrivere un manuale di introduzione allo studio del diritto pub- blico, come dicevamo nelle precedenti edizioni, è nata dalla comune espe- rienza didattica dei due autori che, ormai da molti anni, insegnano diritto pubblico nelle Facoltà di economia. L’insegnamento di una materia giuridica a studenti che non seguono un curriculum formativo prevalentemente incentrato sullo studio del diritto rappresenta una sfida appassionante tanto sul piano concettuale che su quel- lo didattico. Infatti, come si intuisce, non si tratta semplicemente di proporre a stu- denti “non giuristi” un riassunto di quello che si studierebbe in un insegna- mento omologo di giurisprudenza, bensì occorre ripensare alla radice ogget- to e metodo del proprio insegnamento. La singolare carenza nel panorama della manualistica di testi di diritto pubblico specificamente concepiti per i corsi non giuridici dimostra quanto questo ripensamento sia ancora in una fase iniziale. Ad oggi il supporto testuale alla didattica del diritto pubblico nei corsi di studio diversi da giurisprudenza si realizza normalmente selezionando parti di manuali pensati e scritti per gli studenti di legge. Proprio muovendo da tale carenza, gli autori hanno tentato un approccio innovativo, quanto a tecnica espositiva e contenuti, cercando di “imparare” dalla propria esperienza didattica. Per questa ragione il manuale dedica una attenzione particolare all’in- troduzione del fenomeno giuridico, alla sua distinzione rispetto agli altri fe- nomeni sociali ed offre definizioni specifiche ed accurate per ogni concetto. Piuttosto che un dizionario enciclopedico, esso aspira ad essere una sorta di “navigatore” per orientare lo studente che si muove nel mare magnum del- l’ordinamento pubblicistico della nostra Repubblica. Quanto ai contenuti, gli autori, anziché offrire una sintesi degli argomenti trattati nei manuali tradizionali di diritto pubblico, hanno scelto di focalizza- re l’attenzione su alcune parti specifiche.

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PRESENTAZIONE

Il volume che qui si presenta costituisce la quarta edizione del testo pub-blicato per la prima volta nel 2011.

L’idea di scrivere un manuale di introduzione allo studio del diritto pub-blico, come dicevamo nelle precedenti edizioni, è nata dalla comune espe-rienza didattica dei due autori che, ormai da molti anni, insegnano diritto pubblico nelle Facoltà di economia.

L’insegnamento di una materia giuridica a studenti che non seguono un curriculum formativo prevalentemente incentrato sullo studio del diritto rappresenta una sfida appassionante tanto sul piano concettuale che su quel-lo didattico.

Infatti, come si intuisce, non si tratta semplicemente di proporre a stu-denti “non giuristi” un riassunto di quello che si studierebbe in un insegna-mento omologo di giurisprudenza, bensì occorre ripensare alla radice ogget-to e metodo del proprio insegnamento.

La singolare carenza nel panorama della manualistica di testi di diritto pubblico specificamente concepiti per i corsi non giuridici dimostra quanto questo ripensamento sia ancora in una fase iniziale.

Ad oggi il supporto testuale alla didattica del diritto pubblico nei corsi di studio diversi da giurisprudenza si realizza normalmente selezionando parti di manuali pensati e scritti per gli studenti di legge.

Proprio muovendo da tale carenza, gli autori hanno tentato un approccio innovativo, quanto a tecnica espositiva e contenuti, cercando di “imparare” dalla propria esperienza didattica.

Per questa ragione il manuale dedica una attenzione particolare all’in-troduzione del fenomeno giuridico, alla sua distinzione rispetto agli altri fe-nomeni sociali ed offre definizioni specifiche ed accurate per ogni concetto.

Piuttosto che un dizionario enciclopedico, esso aspira ad essere una sorta di “navigatore” per orientare lo studente che si muove nel mare magnum del-l’ordinamento pubblicistico della nostra Repubblica.

Quanto ai contenuti, gli autori, anziché offrire una sintesi degli argomenti trattati nei manuali tradizionali di diritto pubblico, hanno scelto di focalizza-re l’attenzione su alcune parti specifiche.

XIV Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

Ampio spazio è riservato alle fonti del diritto, al fine di offrire una busso-la capace di guidare nella ricerca delle norme e nella comprensione delle di-sposizioni, nonché alla “costituzione economica” e alle autorità indipen-denti.

Inoltre, considerato che spesso gli studenti ai quali il manuale è dedicato si trovano a studiare anche altre discipline sociali, si è privilegiato un ap-proccio storico-comparato agli istituti, che li contestualizzi nella loro evolu-zione. Questo punto di vista ha portato ad una impostazione in cui si sotto-linea in modo peculiare la trasformazione subìta dal diritto pubblico nel pas-saggio dallo Stato liberale allo Stato costituzionale, specie di fronte alle sfide della internazionalizzazione e della globalizzazione.

Sempre muovendo dalla concreta esperienza didattica, si è voluto man-tenere il numero complessivo delle pagine ragionevolmente contenuto, in modo da consentire, ai docenti che lo ritenessero necessario, di affiancare altri testi di approfondimento o su tematiche speciali.

Gli autori sono ben consapevoli che tutte le scelte comportano, da un la-to, sacrifici ed omissioni e, dall’altro, preferenze o enfatizzazioni e proprio per questo motivo tali scelte sono intrinsecamente criticabili.

D’altra parte, come sa bene chi insegna, quando si espone un argomento le scelte sono inevitabili e spetta al docente innanzitutto comunicare in ma-niera trasparente le sue ragioni, consentendo a chi ascolta (o legge) di verifi-carne l’utilità nello studio.

Il dialogo ed il confronto sono gli strumenti più fruttuosi per verificare l’adeguatezza delle ipotesi scientifiche e didattiche, per migliorarle, cambiar-le o rivederle del tutto.

Questo manuale ha voluto essere, dunque, fin dalla prima edizione, lo strumento per innescare un dialogo del genere, innanzitutto con chi vi stu-dierà il diritto pubblico e le sue fonti. Sarà inoltre particolarmente gradito agli autori il dialogo che, anche su questa quarta edizione, potrà avviarsi con i colleghi che vorranno leggere o utilizzare questo testo nei loro corsi.

La presente edizione, pur mantenendo inalterata la struttura e la metodo-

logia del volume, presenta numerose ed importanti novità nei contenuti, re-se necessarie dai diversi interventi normativi e giurisprudenziali che hanno investito il diritto pubblico negli ultimi due anni. In particolare, è stato tenu-to conto del voto popolare nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha respinto la revisione costituzionale approvata dalle Camere nell’aprile del 2016. Sono stati di conseguenza eliminati tutti i riferimenti a tale revisione, compresa l’appendice che era presente nella edizione del 2015. Inoltre, sono state aggiornate le parti sulla legislazione elettorale, sulle procedure di bilancio nel contesto dei vincoli europei, sull’Unione europea.

Presentazione XV

Il volume si presenta arricchito da nuovi grafici e tabelle, sulla revisione co-stituzionale, sugli atti normativi del governo, sulle procedure di bilancio.

Sottoponiamo anche questo nuovo testo all’attenzione dei nostri lettori, fiduciosi che ancora una volta le loro osservazioni possano rappresentare un’opportunità preziosa per correggerlo e migliorarlo ulteriormente.

T.G. – A.S.

Siena-Firenze, febbraio 2017

XVI Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

RINGRAZIAMENTI

La prima edizione di questo libro, nel 2011, è stata frutto di due anni di lavoro di équipe e della partecipazione attenta e creativa di un gruppo di giovani studiosi che collaborano (o collaboravano all’epoca) all’attività delle cattedre di Istituzioni di diritto pubblico nelle Università di Macerata, Firen-ze e Siena; Serena Sileoni, Erik Longo, Nicola Vizioli, Maria Dicosola hanno prima di tutto portato linfa vitale; in concreto, hanno svolto ricerche e fatto verifiche, trascritto appunti, redatto draft di interi capitoli, realizzato tabelle e partecipato ad innumerevoli riunioni e discussioni con gli autori, avanti e indietro sull’Autopalio.

Per la seconda edizione al gruppo iniziale si è aggiunta Marta Cerroni. Hanno collaborato alla terza edizione Giammaria Milani, Erik Longo,

Serena Sileoni, Marco Antonio Simonelli, Irene Spigno, Nicola Vizioli. Per la quarta edizione hanno collaborato Giammaria Milani, Simone Cal-

zolaio, Erik Longo, Serena Sileoni, Nicola Vizioli. A tutti loro va la nostra più sincera gratitudine, nella convinzione che

l’Università può continuare a vivere soltanto attraverso il dialogo tra le ge-nerazioni di studiosi e con l’apporto fattivo degli studenti, ai quali questo manuale è dedicato.

Siamo inoltre debitori, anche per la redazione di questa quarta edizione, a tutti quei colleghi docenti – che non possiamo qui citare singolarmente – dai quali sono giunte osservazioni e proposte di modifica.

Al dottor Giammaria Milani va un particolare ringraziamento per la revi-sione finale del testo, svolta in stretta collaborazione con la Casa Editrice Giappichelli, che ha lavorato con straordinaria professionalità e con la con-sueta cortesia.

XVIII Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

CAPITOLO I

COS’È IL DIRITTO?

SOMMARIO: 1. Cos’è il diritto? (Qual è lo scopo di questo manuale). – 2. Il diritto come “fenomeno”. – 3. Il punto di partenza: l’“esperienza” giuridica. – 4. “È un mondo di norme”. – 5. Il diritto come una particolare forma di organizza-zione sociale. – 6. La sanzione come ulteriore elemento di specificità del diritto. – 7. Il diritto tra positivismo e giusnaturalismo. – 8. La pluralità degli ordinamenti giuridici. – 9. Il diritto pubblico.

1. Cos’è il diritto? (Qual è lo scopo di questo manuale)

Classicamente i manuali giuridici si aprono con un capitolo dedi-cato alla definizione del proprio oggetto. Altrettanto classicamente il primo capitolo tende ad essere il meno letto dell’intero volume. Ciò dipende dal fatto che quasi sempre in esso gli autori si limitano a ri-proporre questioni teoriche ovvero a stipulare premesse che rara-mente influenzano in modo sostanziale gli argomenti affrontati nel prosieguo del manuale. Sono, quindi, premesse teoriche (com’è inevi-tabile), spesso anche astratte (questo, invece, potrebbe essere evitato), ma che finiscono per diventare inutili.

In questo manuale vorremmo tentare di ovviare a tale limite, cer-cando di rendere utili anche queste pagine d’introduzione.

In cosa consiste l’utilità di questo capitolo? Come si vedrà, tutti sappiamo che oggi il tasso della produzione di leggi, regolamenti, atti normativi è talmente vasto e rapido nei cambiamenti che pensare di studiare il contenuto del “diritto” intendendo conoscere l’insieme completo delle regole che disciplina la nostra società sarebbe un’am-bizione del tutto assurda.

Non solo l’insieme delle regole giuridiche (per ora definiamole così, genericamente) oggi si estende su materie sempre più vaste e tra loro differenziate (si va dal diritto civile a quello pubblico, dal diritto

Lo studio del diritto come questione di metodo

2 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

commerciale a quello internazionale, da quello dell’ambiente a quello europeo, etc.) ma la stessa velocità con cui queste regole cambiano rende del tutto velleitaria la pretesa di comprenderle in uno sguardo che, seppur sintetico, sia al tempo stesso completo ed aggiornato.

Quello che invece è realmente necessario è possedere una sorta di “bussola” – oggi si direbbe un “navigatore” – per orientarsi in tale mare magnum.

Pretendere di conoscere tutte le regole applicabili ai più diversi ca-si è non solo oltremodo difficile, ma irrealistico; quello che, invece, si può cercare di realizzare con un manuale è aiutare a comprendere come nascono queste regole, cosa le caratterizza come tali – cioè co-me regole di diritto – distinguendole da altre regole simili (quali quelle della morale, della tecnica, etc.), cosa ci consente di capire dove cer-carle e, una volta trovate, come intenderle correttamente.

Questa è l’idea di fondo che sorregge il manuale. Se questo è lo scopo, allora dovrebbe comprendersi agevolmente

che un capitolo dedicato alla domanda “cos’è il diritto?” non è quello in cui si confinano tutte le considerazioni teoriche per poi passare ai contenuti concreti; bensì, per rimanere all’esempio della bussola, è la parte in cui si fissano i punti cardinali e si rilevano le coordinate di fondo senza le quali non è possibile orientarsi. Chiarito ciò, è possibi-le iniziare la navigazione.

2. Il diritto come “fenomeno”

«Poche questioni riguardanti la società umana sono state poste tanto insistentemente e sono state risolte da pensatori seri in modi tanto diversi, strani e perfino paradossali come la questione “che cos’è il diritto?” […] Non esiste una così ampia letteratura dedicata alla risoluzione del problema “che cos’è la chimica?” oppure “che cos’è la medicina?”, come quella rivolta alla soluzione della questione “che cos’è il diritto?”».

Con questa pagina – intitolata Persistent questions – si apre uno dei libri più importanti per la teoria contemporanea del diritto (Il concetto di diritto di Herbert Hart).

Essa rende in maniera efficace e diretta il problema che oggi vi-viamo dinanzi al “fenomeno” del diritto: è diritto il regolamento del condominio in cui abito e la Carta delle Nazioni Unite, è diritto par-cheggiare l’auto nell’apposito spazio e l’acquisto della verdura dall’or-tolano, è diritto salire sul treno e il processo che si conclude con la

Scopo di questo manuale: come nasce il diritto, dove trovarlo,

come intenderlo

Le molteplici facce del diritto

Cos’è il diritto? 3

sentenza del giudice, è diritto il contratto e la dichiarazione dei reddi-ti. Ma cosa collega, cosa accomuna fatti tra loro così differenti? E da dove partire per studiare un fenomeno così complesso e variegato?

Ovviamente i punti di partenza che si possono proporre per stu-diare il diritto sono tra loro molto diversi e questa scelta è tutt’altro che neutrale.

Soprattutto perché molto spesso la nostra conoscenza è distorta da “pregiudizi”, cioè da idee che ci derivano dal contesto in cui viviamo e che assorbiamo quasi per osmosi, ma che non rispondono necessaria-mente ad una osservazione realistica e disincantata del fenomeno.

Ad esempio, è frequentissimo il “pre”-giudizio – che potremmo definire “statalista” – secondo cui il diritto ha a che fare esclusiva-mente con il potere e, soprattutto, con quello che i giuristi chiamano il potere pubblico: lo Stato, le autorità costituite, insomma le istituzioni abilitate all’uso legittimo della forza, come vedremo meglio nel capi-tolo II.

«Il diritto presuppone lo Stato», era la frase con cui si apriva un ma-nuale di diritto privato degli anni Venti del XX secolo.

Seguendo questa impostazione, lo studio del diritto coincide, in mi-sura maggiore o minore, con l’analisi delle regole, dei comandi e degli ordini che vengono dallo Stato o da altre autorità dotate di potere.

Questa idea – come vedremo – ha certamente un fondamento, lo Stato gioca un ruolo del tutto peculiare e rilevantissimo nella produ-zione odierna del diritto, ma essa è anche una pesante riduzione.

Basta, infatti, guardare la propria esperienza umana per accorgersi, invece, che lo Stato è solo uno dei produttori del diritto e che, a fianco dell’autorità statale, il diritto e i suoi obblighi spesso nascono da atti dei privati (si pensi ai contratti e a tutto ciò che produce la co-siddetta autonomia negoziale degli individui) o da istituzioni non sta-tali (si pensi alle regole che provengono dall’Unione europea).

Se, dunque, lo Stato non è l’unico soggetto che produce diritto, da dove occorrerà partire per studiare questo fenomeno?

3. Il punto di partenza: l’“esperienza” giuridica

Il punto di partenza che proponiamo in questo manuale non è di tipo teorico-deduttivo, cioè non muoveremo dalle diverse teorie o fi-losofie che spiegano la nascita e i caratteri specifici del diritto (ap-procci che richiederebbero ciascuno un corso universitario a sé per una disamina corretta ed esauriente).

Il diritto è sempre e solo prodotto del potere pubblico?

Privati e istituzioni non statali producono diritto

4 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

Il nostro punto di avvio, invece, è quello tipico delle scienze sociali, orientate in maniera empirico-induttiva, che hanno cioè come proprio oggetto le azioni umane, i comportamenti del singolo uomo e, più propriamente, degli uomini assieme: è lì che chi intende studia-re il diritto (qualsiasi tipo di diritto: pubblico o privato, nazionale o comparato) deve fissare lo sguardo, in primo luogo.

E la domanda cui rispondere è quella propria di ogni conoscenza: perché?

Perché ci sono quei comportamenti? Cosa spiega quei comporta-menti? Quale ragione può essere addotta come motivo di quella certa condotta o di quella omissione?

Proviamo a partire dall’osservazione. Ci sono quantomeno due “strati” nell’osservazione dei comporta-

menti umani. Ad un primo livello, la constatazione comune è che i comporta-

menti degli uomini, essendo normalmente liberi, sono, quantomeno ad uno sguardo esterno, imprevedibili, casuali, caotici. Caotici nella definizione propria che la fisica dà di questo termine: è caotico un fe-nomeno in cui l’effetto non dipende (o dipende in maniera minima) dalle sue condizioni iniziali.

Se una particella si comporta in modo caotico, questo vuol dire che, anche se in questo istante di tempo si conosce la sua posizione, è difficilissimo (se non impossibile) prevedere dove si troverà nell’i-stante di tempo seguente.

Dunque, a prima vista il mondo delle azioni umane appare “caoti-co”.

C’è però un secondo “strato” dell’esperienza giuridica. Se osserviamo meglio, alcuni comportamenti si ripetono. La stessa persona o persone diverse in determinate situazioni ten-

dono a comportarsi nello stesso modo. Esistono cioè delle regolarità, ovverosia delle ripetizioni costanti,

che rendono meno caotico il comportamento. L’osservazione, quindi, ci dice che in certe condizioni gli uomini

tendono a comportarsi in un certo modo, sia pure con eccezioni, e questo fa sì che, nelle stesse condizioni, diventa prevedibile che si comporteranno ancora nello stesso modo.

È tra queste regolarità e tra queste eccezioni che si colloca il feno-meno del diritto; meglio, è tra le possibili spiegazioni di questi com-portamenti, costanti o devianti, che si nasconde la regola, la norma di diritto; è lì che bisogna andare a scovarla.

Il diritto come fenomeno sociale

Primo sguardo sui comportamenti

umani: sembrano caotici

Ad una osservazione più attenta, si notano

le regolarità

Cos’è il diritto? 5

4. “È un mondo di norme”

C’è una pagina scritta da uno dei più grandi giuristi italiani (e non solo), Norberto Bobbio, nel suo libro Teoria generale del diritto, che aiu-ta molto bene a comprendere questa intersezione tra il diritto e la mi-riade di regole che guidano la condotta di ognuno di noi.

«La nostra vita si svolge in un mondo di norme. Crediamo di esser liberi, ma in realtà siamo avvolti in una fittissi-

ma rete di regole di condotta, che dalla nascita sino alla morte dirigo-no in questa o quella direzione le nostre azioni. La maggior parte di queste regole sono diventate ormai tanto consuete che non ci accor-giamo più della loro presenza.

Ma se osserviamo un po’ dall’esterno lo sviluppo della vita di un uomo attraverso l’attività educatrice compiuta su di lui dai suoi geni-tori, dai suoi maestri e via discorrendo, ci rendiamo conto che egli si sviluppa sotto la guida di regole di condotta. Per quel che riguarda l’assoggettamento a sempre nuove regole, è stato giustamente detto che la vita intera e non solo l’adolescenza, è un continuo processo educativo.

Possiamo paragonare il nostro procedere nella vita al cammino di un pedone in una grande città: qua la direzione è proibita, là la dire-zione è obbligatoria; e anche laddove è libera, la parte della strada su cui egli deve tenersi è in genere rigorosamente segnata.

Tutta la nostra vita è cosparsa di cartelli indicatori […] molti di questi cartelli sono costituiti dalle regole del diritto […].

Uno dei primi risultati dello studio del diritto è renderci consape-voli dell’importanza del “normativo” nella nostra esistenza individua-le e sociale […] le norme giuridiche, alle quali dedicheremo in modo particolare la nostra attenzione, non sono che una parte dell’esperienza normativa. Oltre le norme giuridiche vi sono precetti religiosi, regole morali, regole del costume, regole di quella etica minore che è l’“etichetta”, regole della buona educazione e così via.

Tutte hanno in comune un elemento caratteristico che consiste nell’essere proposizioni aventi il fine di influenzare il comportamento degli individui e dei gruppi verso certi obiettivi piuttosto che altri».

Le regole giuridiche, dunque, attengono alle ragioni dei compor-tamenti umani, prima che ai comportamenti stessi.

Questo è uno degli aspetti più intriganti che sono correlati allo studio dei fenomeni giuridici: il diritto, pur muovendo da effetti visi-bili sul piano concreto, non appartiene al mondo degli effetti, ma a quello delle cause.

Una “fittissima rete di regole di condotta”

Il diritto come spiegazione dei comportamenti umani

6 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

5. Il diritto come una particolare forma di organizzazione sociale

Fin qui abbiamo detto che il diritto costituisce una delle possibili ragioni per cui un uomo agisce.

Così facendo, l’abbiamo assimilato a quell’infinità di regole – a quel “mondo di norme”, come direbbe Bobbio – che orienta, guida o solo influenza le azioni umane.

Ma cosa distingue le regole giuridiche da tutte queste altre norme? Qual è la loro specificità?

Anche qui, le risposte sul piano teorico-dogmatico e filosofico po-trebbero essere moltissime e tra loro opposte.

Proseguendo però nel nostro intento di muovere dall’esperienza giuridica e dall’osservazione del diritto come “fenomeno”, due aspetti emergono invariabilmente nel caso della “norma giuridica”; aspetti che, invece, non necessariamente troviamo presenti nelle altre forme di regolazione.

Innanzitutto il diritto è una forma di organizzazione sociale. C’è un esempio illuminante che Paolo Grossi propone nella sua

Prima lezione di diritto: la fila di fronte ad un ufficio pubblico. «Un insieme di povere formiche umane senza nessun collegamen-

to sostanziale tra di loro, occasionalmente accomunate in un minimo spazio per una frazione minima di tempo.

È tanto poco consistente quell’incontro che nemmeno il sociolo-go si sentirebbe di occuparsene; collocato nell’estremamente effimero sembra non avere alcuna rilevanza sociale.

Tutto vero, sia per il sociologo, sia – tanto più – per il giurista. Però, se, tra la confusione che serpeggia nella fila, un soggetto in-

traprendente fa sentire la sua voce, fa alcune proposte per organizzare meglio la fila tumultuosa, e tutti i componenti le ritengono buone e le osservano, ecco che, in quella minima unità di tempo, in quei pochi metri di territorio della Repubblica Italiana, noi abbiamo avuto il mi-racolo della genesi del diritto.

Quell’agglomerato effimero, che è la fila, è diventato, sia pure nell’effimero, comunità giuridica, giuridica perché produttrice di dirit-to.

L’esempio paradossale serve ad illuminare intensamente il mo-mento e la ragione in cui e per cui una amorfa e indistinta realtà so-ciale si trasforma in realtà giuridica e per ciò stesso si diversifica dalla incandescenza del semplicemente sociale.

Nell’esempio or fatto i fattori diversificanti sono due: il fatto del-l’organizzazione – o per meglio dire della auto-organizzazione; il fatto del-

Il diritto: definizione

Organizzazione e auto-organizza-

zione

Cos’è il diritto? 7

la osservanza spontanea delle regole organizzative. Il mistero del diritto è tutto qui».

Le regole giuridiche si distinguono dalle regole morali o religiose o di buona educazione innanzitutto perché esprimono delle forme di organizzazione.

Tale punto di vista è stato sviluppato da una corrente di giuristi definiti “istituzionalisti”, il cui principale esponente è uno studioso italiano, Santi Romano, secondo i quali il diritto è ordinamento giu-ridico. Il diritto, in altri termini, è un insieme di norme (normazione) che può esistere e funzionare solo se c’è un gruppo umano organiz-zato (plurisoggettività), dotato di una organizzazione incaricata di produrre le regole e di farle rispettare (istituzione).

È quel legame che si suole esprimere con la celebre frase latina ubi societas, ibi ius.

6. La sanzione come ulteriore elemento di specificità del diritto

Inoltre, se il diritto è una forma di organizzazione, va precisato che si tratta di una forma di organizzazione che, a differenza di altre, deve, e non solo può, essere rispettata. Deve vuol dire che esiste un “meccanismo” – per ora diciamo solo così – che incentiva tutti a ri-spettarla.

In qualche maniera, il diritto è una via di mezzo tra le leggi fisiche (del tutto inviolabili e involontarie per l’uomo) e le leggi morali (del tutto violabili e volontarie).

La via di mezzo sta nel fatto che, pur essendo “violabili” (come le leggi morali e a differenza di quelle fisico-chimiche), in realtà è auspi-cabile che le persone non le trasgrediscano.

È fondamentale cioè che le regole, per essere giuridiche, siano “osservate”, nel senso che, da un lato, le persone spontaneamente le rispettino, ma dall’altro vi sia qualcosa che assicuri questo rispetto anche se non ci dovesse essere un’adesione spontanea. Le norme giu-ridiche, quindi, nascono dall’organizzazione sociale; sono forme dell’organizzazione sociale; e la giuridicità sta proprio nel fatto che queste regole, esprimendo tali forme di organizzazione collettiva, è bene che siano rispettate, cioè debbono essere osservate anche se il singolo decidesse di non cooperare o le ritenesse, soggettivamente, ingiuste o svantaggiose.

Ma in un secondo senso, per così dire “prescrittivo”, la “doverosi-tà” del diritto sta a significare che esistono procedure ed organizza-

Differenza tra rego-le giuridiche e altre regole sociali: il diritto come ordinamento giuridico

Segue: il diritto: definizione

La natura coercitiva del diritto

8 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

zioni le quali, in caso di violazione, tendono a garantire comunque il rispetto del sistema giuridico nel suo complesso.

Com’è intuitivo, siamo tutti convinti che sia sufficiente la ragione umana per capire che non si dovrebbe mai uccidere un uomo per per-seguire un proprio interesse (a meno che non sia l’interesse a salvare la propria vita: è il caso della “legittima difesa” dell’art. 52 del codice pe-nale e dello “stato di necessità” dell’art. 54 del medesimo codice) e, proprio per questo, è statisticamente probabile e quindi prevedibile che il comando “non uccidere” sia diffusamente rispettato nelle relazioni sociali, anche quando nascano conflitti tra interessi di più persone.

Ma cosa succede se, per mille motivi, questa “ragione” del com-portamento non viene compresa ed accettata come persuasiva?

Per far sì che queste regole siano rispettate, non possiamo confi-dare solo su meccanismi di convinzione interiore o sul costume so-ciale o sull’abitudine; per queste norme occorre prevedere anche meccanismi che ne garantiscano il rispetto. Qui si innesta sovente la considerazione sulla statualità del diritto alla quale facevamo riferi-mento: ovvero la convinzione che soltanto le norme accompagnate da una sanzione coercitiva siano “veramente giuridiche”. E, visto che in epoca moderna soltanto lo Stato è in grado di porre tali san-zioni, l’idea che il diritto sia un fenomeno essenzialmente statuale.

Esistono, concludendo sul punto, due modi di concepire il diritto: uno fa riferimento all’idea di ordinamento giuridico, di gruppo sociale organizzato; l’altro, invece, fa essenzialmente riferimento allo Stato e alle regole che questo produce.

7. Il diritto tra positivismo e giusnaturalismo

Fin qui, abbiamo fatto riferimento al diritto come a una serie di regolazioni e norme che vincolano tutti (o alcuni de) i soggetti che vivono all’interno di una certa comunità o territorio. E abbiamo cer-cato di indicare alcuni possibili punti di vista sull’origine di tali regole e sulla loro giuridicità.

Tuttavia, nella lingua italiana, accanto a questo significato la parola diritto ne assume anche un altro: quello di una sfera garantita di pre-tese e di facoltà che il soggetto può vantare nei confronti di tutti gli altri o di alcuni. Per tenere distinti questi due aspetti essi vengono de-signati, rispettivamente, come diritto in senso oggettivo e come di-ritto in senso soggettivo.

Ci sono lingue diverse dall’italiano in cui questa differenza è molto

Come assicurare il rispetto delle

regole giuridiche? Il ruolo dello Stato

Diritto oggettivo e diritto soggettivo

Cos’è il diritto? 9

più chiara. In inglese, ad esempio, il diritto in senso oggettivo si chiama law e quando parliamo di diritto pubblico parliamo di public law. Per esprimere il diritto in senso soggettivo si usa una parola completamente diversa, right (ad esempio l’espressione “diritti umani” in inglese è human rights).

Tra diritto oggettivo e diritto soggettivo c’è uno stretto legame: i di-ritti soggettivi esistono, spesso si suole dire, solo in quanto c’è una norma che li riconosce, in quanto c’è, dunque, diritto oggettivo che li riconosce. Uno studente può dire: “Ho diritto a non pagare le tasse universitarie”, perché c’è una norma che dice che coloro che hanno un certo reddito e che hanno una certa media negli studi non pagano le tasse. Se non ci fosse quella norma, occorre chiedersi, ci sarebbe il di-ritto soggettivo? No, è la risposta spontanea, ma immediatamente ci sorge un dubbio: “Ma è proprio così? Ci vuole sempre una norma per avere un diritto (soggettivo)?” La risposta a questa domanda costitui-sce uno degli snodi fondamentali nella teoria e nella pratica del diritto; esistono, infatti, due punti di vista, sulla base dei quali possiamo ri-spondere: quello del positivismo giuridico e quello del giusnaturalismo.

Secondo il positivismo giuridico (che si afferma soprattutto a partire dal 1800) non esiste altro diritto (oggettivo) che quello posto da chi ne ha l’autorità, e i diritti soggettivi sono soltanto quelli qualifi-cati come tali dal diritto oggettivo. I diritti soggettivi sono meri “ri-flessi” del diritto positivo, termine con il quale si intende il diritto “posto”, ovvero lo ius positum (da qui l’espressione).

Esiste però un altro modo di concepire il rapporto tra diritto og-gettivo e diritti soggettivi, ed è quello che classicamente va sotto il nome di giusnaturalismo (le teorie giusnaturalistiche sono molto più risalenti nel tempo: esistono già nel pensiero antico greco-romano e nella Scolastica medievale, anche se tra il 1600 e il 1700 vengono riproposte in chiave razionalista). Il giusnaturalismo è quella corrente di pensiero secondo la quale il diritto non è riducibile alle sole leggi umane, poiché è legato alla stessa natura/ragione dell’uo-mo, la quale è caratterizzata da alcuni elementi “strutturali” ovvero “elementari” dai quali si possono desumere non direttamente regole, ma principi (sulla distinzione si veda più avanti, il capitolo IV, par. 11) sulla base dei quali valutare o ispirare le regole.

La contrapposizione tra chi crede che il diritto venga prima delle istituzioni umane e chi, invece, dice che il diritto è solo quello posto, è antica: celebre, nell’antichità greca, è il caso di Antigone (protagoni-sta di una nota tragedia di Sofocle), la giovane che vìola le leggi della città e viene messa a morte poiché seppellisce il fratello, caduto in

Teoria positivistica del diritto

Teoria giusnatura-listica del diritto

10 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

battaglia combattendo contro la sua stessa città. Quando Creonte, il sovrano di Tebe, le domanda se conosceva l’editto che vietava la se-poltura del fratello, Antigone risponde che certamente sì, lo conosce-va, ma lo aveva ugualmente trasgredito, poiché comunque tale atto non ha la forza di consentire a un mortale di «violare le leggi non scritte, incrollabili, degli dei, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce».

Una chiara traccia di questa concezione è rinvenibile nella Costi-tuzione italiana, quando all’art. 2 si afferma che: «La Repubblica rico-nosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo».

Decisiva è l’espressione “la Repubblica riconosce”: si può ricono-scere, infatti, soltanto qualcosa che già c’è, che viene prima, come spiegheremo meglio al capitolo VI, par. 2.1.

Entrambi questi punti di vista oggi sono problematici. Il positivismo giuridico, infatti, rischia di trasformarsi in supina

obbedienza alla legge, anche a quella più inumana, come è accaduto (e potrebbe ancora accadere) in regimi autoritari e oppressivi. Basti pensare ai numerosi casi nei quali coloro che hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani si difendono dicendo: “ma io ho solo ob-bedito alla legge!” (ovvero al diritto positivo).

Il giusnaturalismo, d’altra parte, apre un altro problema: chi indi-vidua le norme di diritto naturale? Oggi, a differenza di epoche passa-te, c’è un profondo disaccordo culturale sull’idea di natura umana ed esistono diverse concezioni di questa natura; qual è quella che do-vrebbe essere seguita? Nel Secondo dopoguerra – dopo le atrocità perpetrate in nome della legge dai regimi totalitari – si è assistito al tentativo di superare questi problemi “positivizzando” il diritto na-turale. E ciò è avvenuto attraverso due strumenti, sui quali ci sof-fermeremo meglio in seguito: le Costituzioni rigide (capitolo II, par. 13) e i trattati internazionali sui diritti umani (capitolo III, par. 2).

8. La pluralità degli ordinamenti giuridici

Di qui in avanti, dovremmo proseguire ponendoci la domanda su cosa sono – analiticamente – questi ordinamenti giuridici, quanti or-dinamenti esistono, di quali contenuti (norme) sono composti, in quali parti e funzioni sono articolati.

Ma questo sarà il contenuto dei prossimi capitoli del manuale. In chiusura di questo capitolo introduttivo, invece, vorremmo

evidenziare una particolare conseguenza tra le innumerevoli implica-zioni di quanto abbiamo detto sinora.

Differenza tra i due punti di vista:

l’esempio di Antigone

La “positivizzazione” del diritto naturale

nel Secondo dopoguerra

Cos’è il diritto? 11

Se il diritto è l’organizzazione o, per meglio dire, l’“ordinamento” di una società, allora ci saranno tanti diritti quante sono le società.

Da questa constatazione derivano perlomeno due fondamentali direttive per lo studio del diritto.

La prima: se una società cambia, inevitabilmente cambiano (o cambieranno) le regole e i principi giuridici che la organizzano.

Ogni ordinamento giuridico è “situato” in ben precise coordinate spazio-temporali.

Da un lato, infatti, nello stesso spazio – pensiamo al continente europeo o a quello nordamericano – cambieranno nel tempo le forme dell’organizzazione giuridica; d’altro lato, nello stesso tempo – pensia-mo alla nostra epoca contemporanea – possiamo veder coesistere or-dinamenti giuridici profondamente differenti a seconda dell’area geo-grafica che consideriamo (si pensi alle differenze tra il diritto europeo continentale e quello anglosassone, oppure quello dei paesi di cultura islamica o, infine, quello dei paesi asiatici).

La seconda: lo Stato, quantomeno in senso moderno – argo-mento al quale dedicheremo il prossimo capitolo –, è solo uno dei possibili ordinamenti giuridici. E questo innanzitutto perché – sul piano storico – abbiamo avuto intere civiltà che, sebbene dotate di raffinati ordinamenti giuridici, non erano organizzate secondo quella particolare forma che si è affermata dalla fine del medioevo sul con-tinente europeo, per poi espandersi nel pianeta, e che chiamiamo “Stato”. Ed in secondo luogo perché oggi è sempre più evidente che gli ordinamenti giuridici statali debbono fare i conti con altri ordina-menti giuridici (normalmente “sovrastatali”) la cui forza crescente dev’essere tenuta assolutamente in considerazione.

È indubbio, però, che, nonostante queste indicazioni di metodo og-gi ci impongano di “relativizzare” la pretesa monopolistica dello Stato rispetto agli altri ordinamenti, lo Stato stesso rappresenta ancora il si-stema giuridico più rilevante e condizionante la vita dei cittadini che vivono al suo interno e questo, in particolare, con riferimento a quella parte delle norme che siamo abituati a definire “diritto pubblico”.

9. Il diritto pubblico

Il termine diritto pubblico presuppone il suo antagonista diritto priva-to. La differenza tra le due definizioni sta nell’oggetto.

Il diritto pubblico è quell’insieme di norme che ha per oggetto l’ordinamento giuridico dello Stato. E, di conseguenza, con tale defi-

Il diritto cambia quando cambia la società

Lo Stato è uno degli ordinamenti giuridici

Diritto pubblico: definizione

12 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

nizione indichiamo anche la disciplina di studio che di tale insieme di norme si occupa. Ma cerchiamo di precisare meglio.

Abbiamo visto che un ordinamento giuridico è un gruppo umano caratterizzato dall’avere un’organizzazione e che tre sono gli elementi che lo connotano: innanzitutto un gruppo di soggetti (plurisoggetti-vità), poi un apparato organizzativo (istituzione) e infine le norme giuridiche (normazione).

Se esaminiamo più da vicino quest’ultimo elemento, vediamo che in ogni ordinamento giuridico esistono:

a) norme sulla plurisoggettività (1): le norme che individuano chi sono i suoi membri;

b) norme sulla plurisoggettività (2): le norme che regolano i rap-porti tra i soggetti dell’ordinamento giuridico;

c) norme sulle istituzioni: le norme sull’organizzazione, che indivi-duano gli organi e disciplinano i loro poteri;

d) norme sui rapporti tra le istituzioni e la plurisoggettività: le norme che regolano i rapporti tra l’organizzazione e i soggetti dell’ordinamento;

e) norme sulla normazione: cioè norme che stabiliscono come si producono le norme in questo ordinamento;

f) norme che regolano i rapporti con altri ordinamenti giuridici.

Considerando lo Stato come ordinamento giuridico, al diritto pubblico appartengono cinque di questi sei gruppi di norme. In al-tre parole, troviamo: le norme che definiscono chi sono i soggetti dello Stato (ovvero le norme sulla cittadinanza); le norme sull’or-ganizzazione dello Stato; le norme sui rapporti tra lo Stato e i citta-dini; le norme sulla produzione del diritto (ovvero le norme sulle “fonti del diritto”); le norme sui rapporti dello Stato con gli altri or-dinamenti giuridici. Rimane fuori soltanto un insieme di norme tra quelli indicati sopra: ovvero le norme che regolano i rapporti tra i soggetti dell’ordinamento (quelle che abbiamo indicato come norme sulla plurisoggettività (2)). Esse costituiscono oggetto del diritto privato.

Tutto il complesso delle norme giuridiche può essere ricondotto a questi due grandi settori: diritto pubblico e diritto privato. Non esi-stono nel nostro ordinamento norme giuridiche che non facciano parte dell’uno o dell’altro dei due settori. Le norme di diritto pub-blico e le norme di diritto privato si differenziano, lo ripetiamo, per l’oggetto della disciplina, in quanto nelle norme di diritto pub-blico compare sempre lo Stato, quantomeno in uno dei suoi elementi.

Gli elementi dell’ordinamento

giuridico: in specie, la normazione

Differenza tra diritto pubblico e diritto privato

Cos’è il diritto? 13

Da ciò un’altra distinzione: i rapporti regolati dal diritto pubblico sono sempre diseguali, poiché, come vedremo, lo Stato si colloca in una posizione di supremazia. Mentre i rapporti di diritto privato sono tendenzialmente rapporti paritari: i soggetti privati si collocano infatti in una posizione di parità.

Ma non c’è differenza tra diritto pubblico e diritto privato quanto al soggetto produttore delle norme: se aderiamo al filone della statua-lità del diritto, esse sono sempre riconducibili in qualche modo allo Stato o a soggetti da esso autorizzati, anche quelle di diritto privato. Ad esempio, in Italia i rapporti tra i privati sono regolati principal-mente dal codice civile: esso è una legge dello Stato che rientra nel settore di studio del diritto privato.

Va aggiunto che questa ripartizione non è data una volta per tutte, ma può mutare: un oggetto di studio può oggi collocarsi nel settore del diritto pubblico e poi può spostarsi nel settore del diritto privato, o viceversa. Un esempio è costituito dalla disciplina dei rapporti di lavoro degli impiegati pubblici, che in Italia è stata regolata da norme di diritto pubblico per molti anni, poi dal 1993 è stata trasportata nel diritto privato perché questi rapporti hanno assunto la stessa natura dei rapporti fra privati.

All’interno del diritto pubblico troviamo vari settori: ad esempio il diritto internazionale riguarda i rapporti dello Stato con gli altri Stati; il diritto ecclesiastico i rapporti dello Stato con la Chiesa; il diritto pe-nale e il diritto processuale vari aspetti dei rapporti dello Stato con i cittadini; il diritto amministrativo si occupa della organizzazione dello Stato.

Nel nostro studio ci soffermeremo in particolare su quel settore del diritto pubblico che è il diritto costituzionale: ovvero sull’insie-me di norme che sono contenute, come vedremo, nella fonte deno-minata Costituzione e, in particolare, su quelle relative all’organiz-zazione dello Stato e alle fonti del diritto. Pertanto, nei capitoli che seguono non sarà trattata esaustivamente tutta la materia del diritto pubblico, ma ne saranno esaminati soltanto alcuni aspetti fondamen-tali. Ciò in corrispondenza alle esigenze di un corso di istituzioni di diritto pubblico, che si occupa unicamente dei “primi elementi, primi rudimenti” della materia. La parola “istituzioni”, infatti, ha qui un si-gnificato profondamente diverso da quello visto poc’anzi, quando stava a designare l’elemento “organizzazione” di un ordinamento giu-ridico. Si può in tal modo avere un primo esempio della complessità del linguaggio giuridico, che è un linguaggio tecnico, del quale occor-

Il diritto costituzionale: definizione

14 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

re che lo studente impari piano piano ad impadronirsi nell’ambito di questo corso.

Sulla base di queste considerazioni, per introdurci allo studio del diritto pubblico, non possiamo che prendere avvio da quella partico-lare forma di organizzazione giuridica che chiamiamo “Stato”.

CAPITOLO II

LO STATO E LE SUE FORME

SOMMARIO: 1. Stato e sovranità: definizioni. – 2. Le forme di Stato. – 3. Evoluzio-ne storica delle forme di Stato. L’ordine giuridico medievale. – 4. Lo Stato asso-luto. – 5. Lo Stato liberale di diritto. – 6. Gli strumenti dello Stato liberale di di-ritto: a) il principio di legalità e il ruolo della legge. – 7. Segue: b) la nozione di Costituzione in senso moderno. – 8. Segue: c) il principio della separazione dei poteri. – 9. La crisi dello Stato liberale di diritto. – 10. L’inarrestabile espansione dello Stato contemporaneo nel XX secolo. – 11. La forma di Stato contempo-raneo: uno Stato pluralista. – 12. Segue: uno Stato democratico. – 13. Segue: uno Stato costituzionale. – 14. Segue: uno Stato sociale. – 15. Segue: uno Stato decentrato; in particolare, lo Stato regionale in Italia.

1. Stato e sovranità: definizioni

Un corso di diritto pubblico, per quanto si è detto nel primo capi-tolo, non può che iniziare dallo Stato, che è già emerso nel nostro di-scorso tanto come uno dei principali produttori del diritto, quanto come oggetto di studio.

E non può che iniziare da una definizione di che cosa s’intende per Stato, o meglio, da due definizioni, da mettere a confronto.

Una prima definizione è quella classica della dottrina italiana di Sta-to come ordinamento giuridico: «Lo Stato è un ordinamento giuridico a fini generali, esercitante il potere sovrano su un dato territorio, cui sono subordinati in modo necessario i soggetti ad esso appartenenti».

Una seconda definizione è invece quella che vede lo Stato come una particolare forma storica di organizzazione del potere politico nata in Europa tra il XV e il XVII secolo, che si caratterizza perché esercita il monopolio della forza legittima su di un territorio su cui vive una popolazione e che si avvale di propri apparati amministrati-vi. Si tratta di una definizione vicina, anche nel linguaggio, alla scien-za della politica più che al diritto, come mostrano le espressioni “po-

Lo Stato: due definizioni

16 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

tere politico” e “monopolio della forza legittima”. Questo ci ricorda quanto il diritto pubblico sia intrecciato con altre discipline, ad esempio la scienza della politica, la sociologia, la storia.

Nelle due definizioni balzano all’occhio, poiché comuni ad en-trambe, una serie di elementi fondamentali: il territorio; i soggetti che ci vivono (il popolo); il potere sovrano (cui corrisponde il monopolio della forza legittima). Ma ci sono anche delle differenze. La prima de-finizione ci dice che lo Stato è un ordinamento giuridico a fini ge-nerali. Ovvero un ordinamento giuridico che può perseguire qualsia-si finalità propria del gruppo umano di riferimento e che pertanto si differenzia dagli ordinamenti giuridici a fini particolari, che hanno la cura soltanto di interessi settoriali (si pensi ad esempio a una federa-zione sportiva o a un sindacato).

La seconda definizione ci dice che lo Stato è una forma di organiz-zazione del potere politico, cioè di quel tipo di potere sociale che si basa sull’uso della forza per convincere i soggetti a tenere certi compor-tamenti. E anche che esso non è l’unica forma possibile di organizzazio-ne del potere politico, ma una tra le tante, quella nella quale si realizza il monopolio della forza. E che nasce in un determinato momento stori-co e in una precisa area geografica, anche se questa forma di organizza-zione del potere si è diffusa dall’Europa al resto del mondo, per cui, og-gi, non esistono parti del pianeta che non siano “coperte” da Stati.

Se dei tre elementi che contraddistinguono lo Stato ne dovessimo prendere in considerazione uno solo, quello più qualificante è – in-dubbiamente – la sovranità.

Territorio e popolo, infatti, sono presenti anche in altri ordina-menti giuridici. Il territorio, inteso come la sfera spaziale nella quale si esplica l’efficacia delle norme giuridiche, è elemento costitutivo, ad esempio, di tutti gli enti territoriali (come il comune, la regione, etc.), così come il popolo altro non è che l’elemento “plurisoggettività” (l’insieme dei soggetti) tipico di qualsiasi ordinamento giuridico (co-me si è detto nel capitolo I).

In realtà, è la sovranità l’elemento che caratterizza lo Stato moder-no, designando il peculiare modo di essere del potere statale e distin-guendolo da altre, più antiche, forme di organizzazione del potere politico.

Per definire la sovranità occorre distinguere un aspetto “esterno” e uno “interno” (in riferimento all’ordinamento giuridico dello Stato). Questo implica considerare che ci sono ordinamenti giuridici esterni e ordinamenti giuridici interni allo Stato, rispetto ai quali esso entra in rapporto e afferma la sua sovranità.

Elementi comuni: territorio, soggetti,

potere sovrano

Lo Stato come ordinamento sovrano

Sovranità: definizione

Lo Stato e le sue forme 17

Gli ordinamenti giuridici esterni allo Stato vengono definiti ordinamenti giuridici extrastatali. Tra essi possiamo richiamare gli al-tri Stati, oppure l’ordinamento internazionale o quelli sovranazionali, come l’Unione europea, ai quali fanno riferimento, nella Costituzione italiana, gli artt. 10 e 11 (come vedremo meglio nel prosieguo, so-prattutto nel capitolo III).

Ci sono poi ordinamenti giuridici interni allo Stato, definibili come infrastatali, tra i quali quelli regionali e locali (dove con la paro-la locale, almeno nel nostro diritto positivo, si indicano comuni, pro-vince e città metropolitane), ai quali si riferisce l’art. 114 Cost., oppu-re gli ordinamenti religiosi di cui all’art. 8 Cost., o, ancora più in gene-rale, le “formazioni sociali” delle quali parla l’art. 2 Cost., tra le quali si collocano i sindacati (art. 39 Cost.), i partiti (art. 49 Cost.) e altre forme di vita associata (dalle associazioni di cui all’art. 18 Cost. alla famiglia, art. 29 Cost.).

La sovranità esterna è tradizionalmente ricondotta alla nozione di originarietà e di indipendenza. È sovrano quell’ordinamento che non deriva la sua esistenza da un altro e che ha la capacità di esclude-re ingerenze esterne: per dirlo con una tradizionale espressione latina, esso è superiorem non recognoscens. Nell’art. 11 della nostra Costituzione, ad esempio, la parola sovranità è usata in questo senso, laddove si af-ferma che l’Italia accetta «limitazioni alla propria sovranità» (esterna) in nome di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le na-zioni.

La sovranità interna è riconducibile alla nozione di supremazia. Essa è forse più facilmente comprensibile se rievochiamo una defini-zione che è stata data agli albori dello Stato da un autore che tra i primi ha cercato di delineare i caratteri della nuova forma di organiz-zazione del potere, il francese Jean Bodin. Egli definiva la sovranità come summa potestas legibus soluta, quindi “potestà suprema sciolta dalle leggi”, svincolata dal diritto. La sovranità interna, quindi, è la capacità di porre comandi giuridici vincolanti nei confronti di tutti i soggetti dell’ordinamento. Se guardiamo la Costituzione italiana, la parola so-vranità è usata in questo senso nell’art. 1, comma 2, ove si afferma che «la sovranità appartiene al popolo».

Le due “facce” della sovranità sono ben sintetizzate nell’art. 7 Cost., che si riferisce ai rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica: sostenere che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel pro-prio ordine, indipendenti e sovrani» significa appunto richiamarne l’aspetto esterno (indipendenti) e quello interno (sovrani).

Ordinamenti giuridici extrastatali

Ordinamenti giuridici infrastatali

Sovranità esterna: definizione

Sovranità interna: definizione

18 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

Come vedremo nel prossimo capitolo, comunque, si tratta di defi-nizioni che sono state ampiamente messe in discussione nel XX seco-lo, al punto che si potrebbe negarne la perdurante attualità. Gli svi-luppi ai quali siamo di fronte attraverso fenomeni come la globalizza-zione, l’internazionalizzazione del diritto costituzionale, la valorizza-zione del principio di autonomia delle comunità locali, hanno portato a parlare di crisi dello Stato, almeno per come era configurato nel momento d’oro del suo successo, ovverosia nel XIX secolo, quando queste definizioni furono forgiate dalla dottrina giuspubblicistica che si assunse il ruolo di supportare e fiancheggiare questa forma di or-ganizzazione del potere.

2. Le forme di Stato

Una volta precisato che al centro del diritto pubblico si colloca lo Stato, dobbiamo introdurre un’ulteriore nozione, quella di forma di Stato, che ci aiuterà a meglio comprendere l’oggetto del nostro stu-dio. Si tratta di un concetto elaborato dalla dottrina, la cui definizione non si trova nel diritto positivo italiano.

Occorre partire dalla parola “forma”, con la quale normalmente si indica, da un lato, l’insieme degli elementi esteriori che servono a de-scrivere l’essenza di una cosa, dall’altro, lo scopo finale per il quale esiste una data cosa. Pertanto possiamo dire che, in una prima ap-prossimazione, la forma di uno Stato è, sul piano descrittivo, l’insie-me degli elementi esteriori che servono a coglierne l’essenza, mentre, sul piano prescrittivo, è l’insieme delle finalità per le quali lo Stato stesso esiste.

Della espressione “forma di Stato” possiamo quindi dare due di-stinte definizioni.

Una prima definizione, più strettamente giuridica, qualifica la forma di Stato come il modo attraverso il quale la sovranità si distri-buisce personalmente e territorialmente, cioè si distribuisce rispetto agli altri due elementi, popolo e territorio.

Sulla base di questa definizione e con riferimento al popolo, pos-siamo individuare due forme di Stato: quello autoritario e quello de-mocratico.

Nello Stato autoritario la sovranità è concentrata in un unico soggetto, sia esso un partito unico (come è accaduto nello Stato fasci-

Forma di Stato: due definizioni

a) come rapporto tra sovranità,

popolo e territorio

Stato autoritario e Stato democratico

Lo Stato e le sue forme 19

sta o nello Stato comunista), oppure un’unica persona fisica (come nello Stato assoluto). Nello Stato democratico la sovranità è distri-buita tendenzialmente su tutto il popolo: tale forma di Stato è quella delineata dall’attuale Costituzione italiana, secondo la quale, come si è appena detto, «la sovranità appartiene al popolo» (art. 1, comma 2).

Sempre in base a questa definizione, ma con riferimento al territo-rio, possiamo distinguere lo Stato federale e lo Stato unitario.

Lo Stato federale, almeno nella sua originaria impostazione, è quella forma di Stato in cui la sovranità è distribuita sul territorio, cioè tra due livelli territoriali diversi, la Federazione e i singoli Stati membri. Esso si differenzia dalla Confederazione di Stati, che rap-presenta una forma di organizzazione del potere politico diversa dallo Stato, in quanto i suoi componenti restano titolari della sovranità.

Lo Stato unitario è quella forma di Stato nella quale la sovranità non è distribuita sul territorio, ma spetta a un unico livello di gover-no, lo Stato centrale. L’art. 5 della Costituzione italiana, laddove si ri-ferisce a «La Repubblica, una e indivisibile», esprime proprio tale forma di Stato. Ciò non esclude che, anche nello Stato unitario, il po-tere possa essere esercitato secondo modalità che lasciano uno spazio di decisione (autonomia) per enti territoriali infrastatali, esponenziali (in quanto dotati di organi elettivi) di comunità locali, cioè di popola-zioni insediate su porzioni del territorio. Si parla al riguardo di Stato decentrato. Una particolare sottospecie dello Stato decentrato è co-stituita dallo Stato regionale, come quello italiano. In tale forma di Stato, alle regioni è riconosciuta la potestà legislativa: si tratta quindi di uno Stato unitario caratterizzato da un livello di decentramento particolarmente accentuato, come vedremo meglio nell’ultimo para-grafo di questo capitolo, al punto che da alcuni autori esso è stato de-finito come “intermedio” tra lo Stato unitario e quello federale.

Una seconda definizione di forma di Stato, invece, può essere individuata in relazione ai rapporti che, in un certo momento storico, esistono tra autorità e libertà, tra chi ha il potere e chi è soggetto a quel potere, tra governanti e governati, considerando dunque l’insie-me degli obiettivi, delle finalità impresse all’ordinamento statale dalle forze politiche dominanti, fini che di solito sono scritti nelle Costitu-zioni.

Sulla base di questa definizione abbiamo elaborato una classifica-zione che esamina le forme di Stato in prospettiva storica consenten-do, così, di inquadrare l’evoluzione nel tempo di molteplici istituti.

Va tenuto presente che nella nostra sintetica ricostruzione segui-remo essenzialmente l’esperienza europea continentale, soprattutto

Stato federale e Confederazione di Stati

Stato unitario, Stato decentrato, Stato regionale

b) secondo la prospettiva storica

20 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

quella francese, in quanto è la più vicina a quella italiana. Non pos-siamo però ignorare che esistono, nel mondo occidentale, tradizioni ed esperienze profondamente diverse, come quella britannica o quella degli Stati Uniti, caratterizzate dal non aver sperimentato forme di “Stato assoluto” (vedi più avanti par. 4).

3. Evoluzione storica delle forme di Stato. L’ordine giuridico medievale

Lo Stato moderno nasce tra il XV e il XVII secolo in Europa, in un contesto nel quale il potere era organizzato secondo gli assetti dell’ordinamento che viene definito feudale o patrimoniale.

Con l’espressione ordinamento patrimoniale si vuole fare riferi-mento alla rete di rapporti privatistici che lo reggevano, in cui popolo e territorio erano parte del patrimonio personale del re, e all’assenza di distinzione tra diritto pubblico e privato.

Questo ordinamento non aveva i caratteri propri dello Stato, in quanto i regni medievali non erano sovrani, né dal punto di vista della sovranità esterna né di quella interna.

Verso l’esterno, essi non riuscivano ad affermare la propria indi-pendenza, ovvero ad evitare le interferenze dei due grandi poteri esterni, l’Impero e la Chiesa.

Sul piano interno gli ordinamenti medievali non erano in grado di stabilire la propria supremazia nei confronti della complessa varietà di soggetti che componevano la società feudale. Esisteva una serie di centri produttori di norme giuridiche autonome (libere città, borghi, comuni, comunità religiose, abbazie, corporazioni) ai quali il re, ben-ché si facesse chiamare “sovrano”, non riusciva ad imporre un diritto uniforme. Questo fenomeno è definito particolarismo giuridico ed è ampiamente studiato dagli storici del diritto.

Perché ad un certo punto questo ordinamento muta? Le grandi trasformazioni economico-sociali che stanno alla base della nascita dello Stato moderno sono riconducibili allo sviluppo dei commerci e dei trasporti, nonché al rimettersi in moto dell’economia, che aveva mantenuto per molti secoli, dopo la caduta dell’Impero romano d’Oc-cidente, un carattere statico: si trattava di un’economia chiusa, basata essenzialmente sull’agricoltura e sull’autoconsumo, in un mondo dalle comunicazioni insicure, ove la rete stradale era andata in rovina e le vie di trasporto erano infestate da briganti e predoni. L’epoca delle scoperte geografiche, la necessità di organizzare i commerci su scala mondiale, di stabilire una rete di trasporti e di comunicazioni sicure,

L’ordinamento patrimoniale:

definizione

Trasformazioni economiche e sociali:

verso la modernità

Lo Stato e le sue forme 21

di superare l’instabilità e l’incertezza, comportarono esigenze del tut-to nuove anche sul piano bellico. In particolare, l’invenzione della polvere da sparo trasformò la guerra da scontro fra pochi manipoli di uomini, che potevano essere forniti dai feudatari al re nell’ambito di rapporti privatistici, in un conflitto combattuto con le armi da fuoco, e ciò rese necessaria la nascita di eserciti possenti e ben armati non-ché l’investimento nella ricerca tecnologica, sia per la balistica che per la costruzione di strutture difensive.

Le nuove esigenze della guerra moderna e la necessità di infrastrut-ture adeguate per i commerci richiedevano ingenti risorse finanziarie. Ma dove trovarle? L’unico sistema per il re fu quello di imporre tributi a tutti i soggetti residenti sul territorio, concetto questo sconosciuto nell’ordinamento feudale. Lo Stato moderno, dotato di apparati am-ministrativi e coercitivi, nacque proprio intorno al fisco: primo appa-rato pubblico ad essere creato, esso era l’insieme di funzionari che avevano lo scopo di raggiungere ogni angolo del territorio per cercare di ottenere il pagamento dei tributi.

Dinanzi a una trasformazione di tipo economico-sociale (lo svi-luppo di un’economia di tipo dinamico basata sui commerci) fu ne-cessaria una risposta in termini istituzionali: ovverosia, la concen-trazione del potere in apparati che facevano capo al re, il quale si trasformò in sovrano assoluto (“ab-solutus”, cioè sciolto da qualsiasi vincolo). Il re, tramite i suoi funzionari, cercava di ottenere che ovunque nel suo regno si pagassero le imposte; attraverso le risorse così reperite poteva costruire un esercito formato da professionisti alle sue dipendenze, completamente diverso dai raccogliticci eserciti feudali; grazie alla forza militare di cui riuscì a disporre fu in grado di affrancarsi dai poteri esterni e di imporre la propria supremazia sul complesso dei soggetti dell’ordinamento feudale.

4. Lo Stato assoluto

Lo Stato assoluto – che possiamo ritenere la prima forma mo-derna di Stato – nacque tra il XV e il XVII secolo (spesso si fa sim-bolicamente riferimento alla Pace di Westfalia, del 1648, che chiuse la Guerra dei trent’anni) e tramontò alla fine del XVIII secolo, con la Rivoluzione francese.

Esso si caratterizzava per la concentrazione del potere nelle mani del sovrano assoluto e dei suoi apparati amministrativi. La “legittima-zione” del potere (per riprendere un’espressione di Max Weber, rela-

Guerra e fisco: le origini dello Stato moderno

Lo Stato assoluto: definizione

22 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

tiva alla giustificazione del potere dei governanti agli occhi dei gover-nati) era chiaramente di tipo trascendente e dinastico: il sovrano era tale perché figlio del precedente sovrano e, in ultimo, per volere divi-no. Quanto alle finalità, lo Stato assoluto perseguiva essenzialmente quella dell’affermazione della propria potenza, ovvero della propria sovranità, esterna ed interna.

Si trattava, però, più di una linea di tendenza che di un risultato de-finitivamente e stabilmente conseguito, anche nell’esperienza in cui l’affermazione dell’assolutismo fu più chiara, ovverosia quella francese.

L’intera parabola storica dello Stato assoluto si condensa nel tenta-tivo del monarca di imporre la propria sovranità: tuttavia, egli non riu-scì mai del tutto a prevalere sul precedente particolarismo giuridico.

Per tale ragione lo Stato assoluto viene definito anche come Stato per ceti, in quanto spesso continuavano ad esistere le strutture sociali dell’ordinamento feudale. Basta vedere qual è stato nelle singole espe-rienze il peso dei Parlamenti, ovvero degli organi collegiali che rap-presentavano al sovrano il punto di vista della società, nelle sue diver-se articolazioni. Si pensi alla Francia alla vigilia della Rivoluzione: gli Stati Generali – che altro non erano se non le rappresentanze dei ceti: clero, nobiltà, Terzo Stato – non si riunivano da più di un secolo, ma non erano mai stati formalmente aboliti. Il monarca assoluto aveva provato a sbarazzarsene, senza tuttavia riuscirci, a riprova che non aveva sconfitto del tutto il precedente assetto pluralistico.

Al punto che la costituzione dello Stato assoluto è stata definita come la risultante di un insieme di rapporti materiali, ossia dell’in-sieme dei rapporti tra i diversi soggetti – la monarchia e i ceti – che caratterizzavano il particolarismo giuridico dell’ordinamento feudale e che permasero anche nello Stato assoluto.

Nacque in questo contesto lo Stato di polizia. Con questa strana espressione (dal greco politeia, sulla base della radice polis, città: dun-que il bene della città) si evoca il periodo che caratterizzò in alcuni paesi la parte finale della parabola storica dello Stato assoluto, cioè il periodo che solitamente facciamo coincidere con l’assolutismo il-luminato del XVIII secolo. Il fine dello Stato di polizia non era tan-to la potenza dello Stato, quanto il benessere, la felicità potremmo dire, dei sudditi. I motivi per cui lo Stato assoluto si trasformò in Sta-to di polizia sono tanti. Occorre sottolineare che non cambiarono, se non in parte, le strutture dello Stato assoluto, quindi il modo di orga-nizzazione del potere. Quel che mutò furono le finalità perseguite. Il benessere, la felicità dei sudditi diventarono una caratteristica della forma di Stato e a tale scopo si accentuò l’interventismo in molti set-

Lo Stato assoluto come Stato per ceti

La costituzione dello Stato assoluto

Lo Stato di polizia

Lo Stato e le sue forme 23

tori della vita sociale, nell’economia, nell’istruzione, nei lavori pubbli-ci, interventismo che già caratterizzava lo Stato assoluto nel perse-guimento delle sue finalità di potenza.

Tale cambiamento non fu però sufficiente a soddisfare le esigenze che emersero a seguito di una nuova grande trasformazione econo-mica, la rivoluzione industriale, e alla conseguente trasformazione so-ciale, lo sviluppo della borghesia. Ciò determinò la fine, anche violen-ta in alcuni casi, dello Stato assoluto, e l’avvento di una nuova forma di Stato, lo Stato liberale di diritto.

5. Lo Stato liberale di diritto

In Europa, lo Stato liberale di diritto nacque con la Rivoluzione francese, nel 1789, e si consolidò nel corso del XIX secolo in ma-niera più o meno tortuosa (considerati i numerosi tentativi di re-staurazione). Tale forma di Stato entrò in crisi agli inizi del XX se-colo, sotto l’impulso di una serie di fattori riconducibili a trasforma-zioni di tipo economico-sociale, in primo luogo l’ascesa delle classi lavoratrici.

Volendo darne una definizione, possiamo dire che quando ci si ri-ferisce allo Stato liberale si vuole indicare essenzialmente la finalità perseguita dai poteri pubblici, mentre con l’espressione Stato di di-ritto si ha riguardo soprattutto agli strumenti utilizzati. La finalità era la garanzia dei diritti individuali, che si riteneva dovessero essere tute-lati nei confronti delle ingerenze del monarca assoluto e, in definitiva, nei confronti dello Stato stesso.

Alla base dello Stato liberale vi era l’idea secondo la quale l’in-dividuo è titolare di diritti naturali, che lo Stato deve garantire non tanto nei confronti degli altri uomini, quanto piuttosto rispetto al po-tere pubblico.

Lo Stato liberale di diritto, come abbiamo detto, nacque come conseguenza di trasformazioni socio-economiche; in primo luogo l’e-mergere di una nuova classe sociale, la borghesia, composta da sog-getti non appartenenti alla nobiltà e connotati dallo status di proprie-tari. La borghesia richiedeva assetti istituzionali idonei a garantire le libertà economiche, che le consentissero di portare avanti la propria iniziativa imprenditoriale, senza la rete di lacci e laccioli che invece caratterizzavano lo Stato assoluto, il quale aveva un’attitudine inter-ventista nell’economia. Essa chiedeva poi regole chiare, certe, preve-dibili, conoscibili, uguali per tutti, che lo Stato assoluto non era mai

Lo Stato liberale di diritto: definizione

Lo Stato liberale: caratteri

24 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

stato capace di imporre. Chiedeva altresì di partecipare alla gestione del potere, attraverso una rivitalizzazione del ruolo dei Parlamenti, trasformati in organi rappresentativi della nuova classe sociale.

Le finalità di tale forma di Stato, la sua “tavola dei valori”, po-tremmo dire, sono scritte in molti documenti normativi dell’epoca e in particolare nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del citta-dino del 1789, approvata agli albori della Rivoluzione francese. L’art. 2 della Dichiarazione, ad esempio, afferma che il fine di ogni associa-zione politica (e quindi anche dello Stato) è la conservazione dei dirit-ti naturali e imprescrittibili dell’uomo e che questi diritti sono la liber-tà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Gli articoli successivi rafforzano la finalità garantistica dello Stato. L’art. 4 affer-ma che la libertà consiste nel potere di fare tutto ciò che non nuoce ad altri; l’art. 5 stabilisce che la legge può vietare esclusivamente gli atti che possano arrecare danno alla società; l’art. 17, infine, precisa che il diritto di proprietà è inviolabile e sacro.

In altre parole, si perseguivano essenzialmente le finalità che sta-vano a cuore alla classe borghese (basti pensare alla centralità del di-ritto di proprietà): lo Stato liberale era funzionale alle esigenze della borghesia, al punto che è stato definito Stato monoclasse. Questo non vuol dire che esistesse una sola classe sociale, ma che una sola classe sociale era politicamente attiva, ovvero capace di imprimere al-lo Stato le sue finalità.

Attraverso quali strumenti operava lo Stato liberale di diritto? Es-so utilizzava il diritto per limitare l’arbitrio dei titolari del potere pub-blico, come evidenzia la sua stessa definizione. In particolare, gli isti-tuti giuridici dei quali si serviva erano: 1) il principio di legalità; 2) la nozione moderna di Costituzione; 3) il principio della separazione dei poteri. Su di essi ci soffermeremo con una certa attenzione, perché, sia pure con significative differenze, sono stati ereditati dalla forma di Stato in cui viviamo.

6. Gli strumenti dello Stato liberale di diritto: a) il principio di legalità e il ruolo della legge

Secondo il principio di legalità, ogni atto dei pubblici poteri de-ve trovare fondamento e limiti in una norma giuridica previamente adottata.

Tale principio segna una cesura netta rispetto allo Stato assoluto. Infatti, nello Stato assoluto il diritto, inteso come insieme di nor-

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e

del cittadino del 1789

Lo Stato liberale come Stato monoclasse

Principio di legali-tà: definizione

Lo Stato e le sue forme 25

me giuridiche vincolanti, era il prodotto del titolare del potere e quest’ultimo era tale perché dotato di legittimazione trascendente, come abbiamo detto. Tutto questo si riassume nel famoso latinetto Rex facit legem. Il titolare del potere produce il diritto. Il diritto, quindi, è posto dal titolare del potere.

Nello Stato di diritto, sulla base del principio di legalità, si ribalta questo tipo di impostazione e si afferma che Lex facit regem: è il diritto che crea il potere, il titolare del potere è tale perché il potere gli viene attribuito sulla base delle norme giuridiche e perché opera nel rispet-to delle norme giuridiche. In altri termini, la legittimazione del po-tere è di tipo legale-razionale: i titolari del potere sono tali perché c’è una norma che lo attribuisce loro e lo esercitano nel rispetto del diritto.

Per comprendere la valenza garantistica del principio di legalità occorre però introdurre alcune precisazioni riguardo alla “norma previa” sulla quale ogni atto dei pubblici poteri deve fondarsi.

Tale norma, infatti, nello Stato liberale era la legge, intesa sia co-me norma generale e astratta, sia come prodotto dell’organo rappre-sentativo, il Parlamento. In altre parole, al centro di tutta la costruzio-ne giuridica si collocava la legge, considerata, ai sensi dell’art. 6 della Dichiarazione del 1789, come «espressione della volontà generale».

Per comprendere il ruolo garantistico della legge, occorre soffer-marsi sui due aspetti enunciati.

1. Innanzitutto, la legge, nello Stato liberale di diritto, era caratte-rizzata dalla generalità e l’astrattezza (vedremo più avanti, nel capi-tolo V, par. 3, quanto sia diversa oggi, nello Stato contemporaneo).

Le norme generali sono norme che si applicano a tutti i soggetti dell’ordinamento. Al contrario, le norme particolari o settoriali si rife-riscono a un gruppo determinato di destinatari. Le norme astratte so-no suscettibili di ripetute applicazioni nel tempo, a differenza delle norme concrete, ad hoc, che esauriscono la loro efficacia in un’unica applicazione.

Per comprendere meglio questa nozione, si pensi, come esempio di norma generale e astratta, a quella che punisce l’omicidio: secondo l’art. 575 del codice penale «chiunque uccide un altro uomo è punito con una pena non inferiore ad anni ventuno». Si tratta di una norma che si applica a tutti i soggetti che commettono questo tipo di reato; è una norma generale in relazione all’estensione soggettiva; l’astrattezza invece riguarda l’estensione nel tempo della portata della norma, nel senso che chiunque commette quel tipo di reato in qualsiasi momen-to è suscettibile dell’applicazione della norma.

La legittimazione del potere nello Stato di diritto

La legge come espressione della volontà generale

Generalità e astrattezza della legge

26 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

Il carattere della generalità e dell’astrattezza della legge si collega strettamente alla concezione del principio di uguaglianza propria di tale forma di Stato (su tale principio ritorneremo più avanti in que-sto capitolo, al par. 14 e nel capitolo VI, par. 2.2). L’art. 1 della Di-chiarazione del 1789, affermando che gli uomini nascono e rimango-no liberi e uguali nei diritti, introduce un’idea profondamente nuova. Infatti, mentre nello Stato assoluto la società era ripartita in ceti e il trattamento giuridico di ciascun individuo era determinato dall’appar-tenenza ad un certo ceto, nello Stato liberale di diritto tutti gli uomini sono uguali, senza che abbia alcun rilievo la loro posizione sociale. Il principio di uguaglianza è confermato dall’art. 6 della Dichiarazione, dove si afferma – come abbiamo appena visto – che la legge è l’espres-sione della volontà generale e che essa deve essere uguale per tutti.

Pertanto, la valenza garantistica del principio di legalità si com-prende innanzitutto in relazione all’uguaglianza: dire che tutti gli atti dei poteri pubblici, soprattutto quelli limitativi dei diritti, si devono fondare sulla legge significa impedire trattamenti differenziati, ovvero speciali.

Ma c’è di più: così facendo, si rendono gli atti di applicazione della legge “misurabili”, nel senso che, qualora siano difformi dalle norme generali ed astratte, tali atti sono “viziati” (come vedremo meglio nel capitolo X, par. 3) e pertanto possono essere annullati da un giudice imparziale. In altre parole, un corollario del principio di legalità è il principio di giustiziabilità degli atti viziati.

2. In secondo luogo, la legge era espressione della volontà genera-le, in quanto, riprendendo le parole dell’art. 6 della Dichiarazione del 1789, «tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione». Nello Stato di diritto si scelse la democrazia rappresentativa, nella quale la volon-tà dei cittadini si esprime indirettamente, attraverso rappresentanti eletti. La possibilità di realizzare forme di democrazia diretta (ove i cittadini si esprimono senza intermediari nell’adozione delle decisioni politiche), che erano esistite in alcune città-Stato dell’antichità e in al-cuni cantoni svizzeri, fu esclusa in ragione del numero elevato dei cit-tadini.

La legge, pertanto, in conseguenza del principio rappresentativo, era il prodotto di un organo, il Parlamento, in cui almeno una delle due Camere era elettiva. Rispetto allo Stato assoluto, in cui le norme giuridiche erano prodotte dal monarca, si trattava di una novità di-rompente.

Il principio di uguaglianza

formale

Il principio di giustiziabilità

La legge come prodotto della

democrazia rappresentativa

Lo Stato e le sue forme 27

Sulla base del principio rappresentativo ogni membro delle as-semblee elettive rappresentava la nazione. L’art. 3 della Dichiarazione del 1789 stabilisce che «il principio di ogni sovranità risiede essen-zialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa».

L’espressione nazione evoca una entità pregiuridica che esprime una unità, come vedremo meglio più avanti, nel capitolo VI, par. 6.2. Limitandosi qui all’idea di nazione alla base dello Stato liberale di di-ritto, essa può essere compresa soltanto quando si consideri che l’elezione dei rappresentanti avveniva attraverso il suffragio limitato, sulla base del censo e del livello culturale. Le donne, poi, erano esclu-se a priori. Per limitarsi all’Italia, al momento dell’unificazione, nel 1861, la “nazione” che tramite il principio rappresentativo eleggeva un ramo del Parlamento costituiva l’1,9% della popolazione. Questa è la grande “finzione” sulla quale si regge lo Stato liberale di diritto: la semplificazione artificiale del contesto sociale di riferimento, attraver-so il suffragio limitato.

Come conseguenza di tale “artificio”, era possibile: a) individuare la nazione, ovvero un insieme omogeneo di soggetti uniti da un vole-re comune; b) fare del Parlamento l’organo rappresentativo della na-zione; c) configurare la legge come atto che esprimeva la volontà ge-nerale, ovvero la volontà della nazione.

Anche da qui la valenza garantistica del principio di legalità: i dirit-ti potevano essere limitati soltanto attraverso l’atto con cui si espri-meva la volontà dei titolari dei diritti medesimi, ovvero dei cittadini che componevano la nazione.

Tale artificiale semplificazione si collega strettamente al carattere monoclasse di questa forma di Stato e si rivelò impossibile da perpe-tuare quando, agli inizi del Novecento, l’avvento delle classi lavoratri-ci sulla scena politica determinò, come vedremo alla fine di questo capitolo, l’allargamento del suffragio.

7. Segue: b) la nozione di Costituzione in senso moderno

Collegato al principio di legalità è il secondo istituto tipico dello Stato di diritto, la nozione di Costituzione in senso moderno, che si differenzia dalla nozione “antica” di costituzione, risalente già alla civiltà greca e romana: un atto giuridico vincolante per tutti i soggetti dell’ordinamento, che serve a garantire i diritti e costituisce il fonda-mento di tutti i poteri.

La costruzione artificiale della nazione nello Stato liberale: il suffragio limitato

La Costituzione moderna: definizione

28 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

Essa rappresenta un elemento chiave per comprendere la legitti-mazione del potere in questa forma di Stato, quando si consideri che, sulla base del principio di legalità, i titolari del potere sono tali perché esistono norme attributive del potere. Tali norme sono contenute nella Costituzione, intesa nel senso moderno del termine.

È illuminante al riguardo l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che afferma: «Nessuna società nel-la quale la garanzia dei diritti non sia assicurata né la separazione dei poteri sia determinata, ha una Costituzione». La Costituzione come atto normativo, dunque, si caratterizza in quanto è idonea a garantire i diritti e costituisce il fondamento della legittimazione dei poteri.

Ma qual è il fondamento della Costituzione? La Costituzione è un atto del potere costituente. L’idea di potere costituente si sviluppa – in forme diverse – in Francia, nel contesto della Rivoluzione del 1789, e negli Stati Uniti, negli anni Ottanta del XVIII secolo. Il pote-re costituente è il potere che pone la Costituzione, cioè l’atto sul qua-le si fondano tutti i poteri costituiti.

Il potere costituente, nello Stato liberale di diritto, si manifestava in varie forme, ad esempio attraverso l’elezione di un’assemblea costi-tuente, come negli anni della Rivoluzione francese, oppure attraverso una concessione da parte del monarca assoluto, che in tal modo si au-tolimitava. In questo secondo caso la Costituzione si dice “ottriata”, usando un termine che deriva dal francese “octroyée”, cioè Costitu-zione concessa. Essa rappresentava il risultato di un patto tra il mo-narca assoluto e gli emergenti ceti borghesi, sulla base del quale il so-vrano concedeva la Costituzione, mentre la borghesia rinunciava alla rivoluzione e all’instaurazione di una repubblica. Tanto è avvenuto nel Regno di Sardegna, con la concessione dello Statuto albertino nel 1848 da parte del re sabaudo Carlo Alberto: tale Statuto diverrà, dopo l’unificazione del 1861, la prima Costituzione del Regno d’Italia.

Dunque il potere costituente è diverso dai poteri costituiti. Per poteri costituiti si intendono i poteri che si fondano sulla Costituzio-ne e che, quindi, incontrano i limiti che questa pone loro. In base al principio di legalità, la Costituzione non è solo il fondamento di tutti i poteri, ma anche di tutti i limiti che questi incontrano. Il potere co-stituente, invece, non è limitato dalla Costituzione né da nessun’altra norma giuridica: la sua origine si colloca al di fuori del mondo del di-ritto, nel mondo dei fatti, dei rapporti di forza. Esso rappresenta l’unico potere veramente “sciolto dal diritto”, per riprendere la defi-nizione di sovranità di Bodin.

La Costituzione in senso moderno, come atto del potere costi-

Il potere costituente: definizione

I poteri costituiti: definizione

Lo Stato e le sue forme 29

tuente, è una norma giuridica vincolante, anche se, come vedremo tra poco, non sempre essa riuscì, in quell’epoca storica, a imporsi su tutti i poteri costituiti: nello Stato liberale di diritto la Costituzione si rivelò incapace di vincolare la legge, che assunse la posizione di fonte su-prema e onnipotente, al punto che a volte viene definito anche “Sta-to legislativo”. Ma su questo torneremo tra poco.

8. Segue: c) il principio della separazione dei poteri

Infine, il terzo principio sul quale si fondava lo Stato liberale di di-ritto è la separazione dei poteri. Secondo tale principio le diverse funzioni dello Stato, legislativa, esecutiva e giurisdizionale, devono essere conferite a organi o gruppi di organi diversi.

Nell’impostazione di Locke, poi ancor più in quella di Monte-squieu, tale assetto è funzionale alla garanzia dei diritti: si ritiene che, limitando il potere per garantire i diritti individuali, sia essenziale di-viderlo. La separazione dei poteri è una reazione allo Stato assoluto, nel quale, al contrario, tutti i poteri erano concentrati nelle mani del monarca.

Ma cosa si intende per potere? In tale contesto, l’espressione vie-ne utilizzata in senso tecnico-giuridico, ad indicare il prodotto dell’e-sercizio di una funzione da parte di un organo. Quando si parla di potere legislativo, di potere esecutivo e di potere giudiziario, si fa rife-rimento a organi o gruppi di organi che esercitano certe funzioni.

Anche l’espressione “organo” è utilizzata in senso tecnico-giu-ridico: secondo questo significato, per organo si intende un insieme di uffici pubblici che svolge un’attività a rilevanza esterna. Gli uffici a loro volta, nel linguaggio giuridico, sono un insieme di mezzi perso-nali e materiali organizzati per realizzare un determinato compito. Or-gani e uffici sono articolazioni interne agli apparati pubblici dei quali lo Stato si avvale per perseguire i propri scopi e che caratterizzano lo Sta-to moderno, come si è detto nel par. 3 di questo capitolo.

La “funzione”, invece, è un’attività preordinata ad un fine. In par-ticolare, la dottrina all’epoca dello Stato liberale individuava tre fun-zioni pubbliche che, nello Stato assoluto, erano concentrate nelle mani del sovrano: la funzione legislativa, la funzione esecutiva e la funzione giurisdizionale.

La funzione legislativa era l’attività volta a predisporre norme giuridiche generali e astratte ed era attribuita al Parlamento (sia pure con l’intervento del re attraverso la sanzione regia delle leggi).

Separazione dei poteri: definizione

Potere: definizione

Organo: definizione

Funzione: definizione

30 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

La funzione esecutiva consisteva nell’applicazione della legge generale e astratta. Nello Stato liberale di diritto tale funzione era at-tribuita al Governo, o meglio al re e al suo Governo.

La funzione giurisdizionale consisteva anch’essa nell’applica-zione della legge, ma, a differenza di quella esecutiva, con esclusivo riferimento alle controversie. Essa era svolta dalla magistratura che nello Stato liberale di diritto, almeno sul continente europeo, non riu-scì mai ad affrancarsi pienamente dal potere esecutivo.

Quel che veramente interessava, al di là della formale tripartizione dei poteri, era distinguere il potere legislativo, rivolto alla creazione delle norme, dai poteri che tali norme erano chiamati ad applicare in modo subalterno, quasi ancillare: esecutivo e giurisdizionale. In tal modo il “nuovo sovrano”, il Parlamento, era in grado di vincolare e tenere sotto tutela il “vecchio sovrano”, ovvero l’ex monarca assolu-to, i suoi apparati amministrativi e i suoi giudici.

Sulla base del principio di legalità e di separazione dei poteri si de-lineò un ulteriore principio, quello della tipicità degli atti, secondo il quale ogni atto ha una forma tipica, in quanto prodotto a seguito di un certo procedimento. Alla forma è collegata la capacità dell’atto di produrre effetti giuridici, che costituisce a sua volta una manifesta-zione della sovranità statale. L’atto del potere legislativo – la legge – si caratterizza per la forza, intesa come capacità di innovare l’ordi-namento giuridico. L’atto del potere esecutivo – l’atto amministrativo – si connota per la esecutorietà, cioè la capacità di imporsi immedia-tamente ed autoritativamente ai destinatari. L’atto del potere giudizia-rio – la sentenza – produce l’effetto del giudicato, ovvero fa stato tra le parti del giudizio, in modo definitivo.

La forma dell’atto è importante anche perché consente ai destina-tari di riconoscerlo, di comprenderne gli effetti e, eventualmente, di impugnarlo nella sede idonea qualora adottato in violazione del prin-cipio di legalità. Ma su questo ritorneremo più avanti, soprattutto nel capitolo X.

9. La crisi dello Stato liberale di diritto

Lo Stato liberale di diritto non riuscì a resistere all’allargamento della base sociale determinato dall’estensione del suffragio.

Si tratta di un processo che avvenne nei vari paesi con tempistiche e modalità diverse, nel periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e il Primo dopoguerra.

La tripartizione dei poteri nello Stato liberale di diritto

La tipicità degli atti: definizione

L’estensione del suffragio universale

Lo Stato e le sue forme 31

In Italia, dopo le riforme di Giolitti del 1912, il suffragio si estese al 23% della popolazione. Dopo la Prima guerra mondiale si ebbe un ulteriore allargamento: in particolare, nelle elezioni del 1921 il diritto di voto era riconosciuto al 28% della popolazione. Si tratta di cifre molto basse (oggi, per dare un termine di paragone, siamo circa al 77% della popolazione: bisogna infatti tener presente che nella popo-lazione sono compresi anche stranieri e minori, sprovvisti del diritto di voto, come vedremo nel capitolo VI), sufficienti però a scardinare la struttura dello Stato liberale di diritto. Va ricordato che, fino al 1946, restarono escluse le donne e che la maggiore età venne abbassata a 18 anni soltanto nel 1975.

Grafico 1 – Percentuale degli aventi diritto di voto in Italia

100

80

60

40

20

0

1861

1865

1876

1882

1890

1900

1904

1913

1919

1921

1924

1946

1948

1968

1975

Fonte: elaborazione propria.

Tale trasformazione mise in evidenza le molteplici contraddizioni sulle quali si reggeva lo Stato liberale di diritto.

Ne possiamo richiamare fin da ora almeno quattro, anche se su al-cune di esse ritorneremo nei paragrafi seguenti.

In primo luogo, è vero che la sua finalità era la garanzia dei diritti, ma, dovremmo chiederci, quali diritti? I diritti di chi? A ben vedere, i diritti che si volevano garantire erano assai pochi, soltanto quelli che oggi chiamiamo libertà negative, ovvero le pretese di escludere in-gerenze esterne nella sfera personale dell’individuo. E tra esse trion-fava il diritto di proprietà. Quanto al titolare dei diritti, il “cittadino”, era visto come un individuo astratto, svincolato da qualsiasi contesto sociale e in sostanza riconducibile al proprietario, maschio, borghese: erano i suoi diritti quelli che si volevano tutelare.

Le contraddizioni dello Stato liberale di diritto:

1. Quali diritti? I diritti di chi?

32 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

In secondo luogo, risaltava una grande contraddizione circa il principio di uguaglianza. Questo era il vero cardine della forma di Stato, in quanto da esso discendevano la regola della generalità e del-l’astrattezza delle norme, il principio rappresentativo, la legge come espressione della volontà generale, etc. Nello Stato liberale di diritto il principio di uguaglianza veniva solennemente proclamato, ma in real-tà si mantenevano e si preservavano le disuguaglianze. Il carattere li-berista di questa forma di Stato – e dunque l’astensione dall’inter-vento pubblico nella sfera economica – consentiva il perpetuarsi delle disuguaglianze sociali.

In terzo luogo, una contraddizione riguardava il principio della so-vranità della nazione. Come affermato nella Dichiarazione dei diritti del 1789, il principio di ogni sovranità risiedeva nella nazione; tuttavia, il suffragio limitato faceva sì che la nazione fosse composta solo dai sog-getti dotati del diritto di voto e che di conseguenza la legge, espressione della volontà generale, fosse il prodotto della volontà di pochi. Dunque, lo Stato liberale di diritto, pur accogliendo i principi della sovranità della nazione e della legge come espressione della volontà generale, era in realtà, come abbiamo detto, uno Stato monoclasse: solo la borghesia poteva partecipare alla vita dello Stato, mentre la grande maggioranza della popolazione era esclusa dal processo di decisione politica (ritorne-remo sulla nazione nel capitolo VI, par. 6.2).

Infine, una quarta contraddizione riguardava i caratteri della Co-stituzione. Essa, prodotto del potere costituente, pretendeva di porsi come atto giuridico vincolante per tutti i poteri pubblici: ad esempio, nel preambolo dello Statuto albertino si affermava che lo Statuto è «legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della monarchia». Tut-tavia, nei fatti, ciò non accadde, per due ragioni.

Una prima di ordine politico-sociale: emerse con evidenza la diffi-coltà per il Parlamento, detentore del potere legislativo, di accettare il limite rappresentato dalla Costituzione, in quanto egli si riteneva il solo titolare della sovranità.

Una seconda ragione di tipo tecnico-giuridico. Le Costituzioni del periodo liberale non erano assistite da garanzie nei confronti delle leggi incostituzionali (cioè leggi che violavano la Costituzione): esse entravano in vigore e prevalevano sulla Costituzione, senza che ci fosse alcuna possibilità di privarle di efficacia.

Pertanto, le Costituzioni dello Stato liberale di diritto diventaro-no flessibili. Per Costituzione flessibile si intende una Costituzione che non si pone al vertice del sistema delle fonti, in quanto può es-sere modificata con legge ordinaria. Le Costituzioni liberali guarda-

2. Quale uguaglianza?

3. Quale nazione?

4. Quale Costituzione?

Costituzione fles-sibile: definizione

Lo Stato e le sue forme 33

vano al passato, all’assolutismo, affinché non ritornasse, ma non erano in grado di limitare il potere del nuovo “sovrano”, ovvero il Parlamento.

Queste sono alcune delle contraddizioni che contribuiscono a spiegare perché lo Stato liberale di diritto non resistette alla grande trasformazione di tipo economico-sociale avvenuta alla fine del XIX secolo: l’affacciarsi sulla scena politica di tutti gli Stati occidentali, sia pure con modalità diverse l’uno dall’altro, delle classi lavoratrici. Tali soggetti, esclusi dai processi decisionali nello Stato liberale, rivendica-vano il diritto di partecipare alla vita politica, ovvero l’allargamento del suffragio, attraverso l’abbassamento dei requisiti di censo, di red-dito, culturali, fiscali, necessari per essere titolari del diritto di voto.

E lo facevano per mezzo di forme di organizzazione sconosciute alla borghesia, come associazioni, sindacati e partiti politici.

Con l’ingresso della classe lavoratrice sulla scena politica nacque lo Stato pluriclasse, nel quale agiscono soggetti portatori di interessi diversi e contrapposti. I Parlamenti ottocenteschi, ambienti ovattati in cui pochi notabili si confrontavano amichevolmente, non riusciro-no ad essere il luogo di conciliazione di tali interessi. La legge cessò di configurarsi come espressione della volontà generale, semplicemente perché non esisteva più una volontà generale da esprimere, ma inte-ressi contrapposti che si fronteggiavano, molte volte in forme violen-te, nelle strade e nelle piazze.

In un contesto di scontro frontale tra lavoratori e proprietari, lo strumento del diritto si rivelò impotente, come testimonia l’esperien-za della Costituzione di Weimar: la Germania, dopo la Prima guer-ra mondiale, cercò di dare una risposta in termini giuridici alle esigen-ze delle classi lavoratrici, provando a integrarle nello Stato per mezzo del riconoscimento dei diritti sociali (ci ritorneremo nel capitolo VI, par. 4.7). Ma la contrapposizione era troppo violenta per poter essere arginata attraverso strumenti giuridici: basti pensare che la Costitu-zione di Weimar si chiama così perché l’Assemblea costituente si riu-nì in quella piccola città in quanto la capitale, Berlino, era in preda agli scontri violenti tra fazioni armate contrapposte.

Per effetto di tale fenomeno sociale, in alcuni paesi – tra cui l’Italia e la Germania – la forma di Stato liberale di diritto crollò dopo la Prima guerra mondiale e venne sostituita da forme di Stato autoritarie oppure totalitarie.

Lo Stato autoritario, di cui lo Stato fascista in Italia è un esem-pio, è una forma di Stato che rifiuta i caratteri propri dello Stato libe-rale di diritto e recupera alcuni aspetti dello Stato assoluto, come la

Dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse

Il conflitto sociale agli inizi del XX secolo: l’esperienza di Weimar

Stato autoritario: definizione

34 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

concentrazione dei poteri o l’interventismo nella sfera economica. La legittimazione del potere è di tipo carismatico, non esiste la separa-zione dei poteri, che sono concentrati, come si è già accennato, in un soggetto unico, né il principio di legalità. In Italia il passaggio ad una forma di Stato autoritaria dapprima e totalitaria poi fu possibile gra-zie al carattere flessibile dello Statuto albertino, che poté essere viola-to impunemente, prima per consentire la nomina di Mussolini a Pre-sidente del Consiglio e poi per permettere lo smantellamento del si-stema delle garanzie, a partire dal carattere rappresentativo del Parla-mento.

Nello Stato totalitario i caratteri dello Stato autoritario sono an-cora più accentuati assumendo il volto di una ideologia “totalizzante” pervasiva di ogni aspetto del vivere sociale.

Il crollo dello Stato liberale di diritto, tuttavia, non è stato l’unico esito possibile delle trasformazioni economico-sociali dell’inizio del XX secolo: sotto l’impulso di tali nuovi fattori, ovvero dopo la scon-fitta bellica degli Stati totalitari, la forma di Stato liberale si è trasfor-mata, dando luogo alla forma di Stato che viene, di volta in volta, de-finita come Stato pluralista, se ci si sofferma sulla sua base sociale e sulle finalità perseguite dai poteri pubblici; Stato democratico, Stato costituzionale, Stato sociale, Stato decentrato, se ci si riferisce agli strumenti giuridici utilizzati. Parleremo qui, sinteticamente, per sem-plicità e per indicare complessivamente questi caratteri, di Stato con-temporaneo: ad esso sono dedicati i paragrafi che seguono, nei quali una particolare attenzione sarà riservata alla forma di Stato italiana come introdotta dalla Costituzione del 1948.

10. L’inarrestabile espansione dello Stato contemporaneo nel XX secolo

Quando ci riferiamo, in modo sintetico, allo Stato contempora-neo, intendiamo quella forma di Stato nella quale la finalità principale perseguita dai pubblici poteri è il mantenimento dell’unità in un con-testo pluralista. Per fare ciò, si sottopone il potere delle maggioranze politiche alla Costituzione e si promuove la coesione sociale attraver-so il perseguimento dell’uguaglianza sostanziale.

Tale forma di Stato in molti paesi si è sviluppata come una conse-guenza dell’evoluzione dello Stato liberale di diritto, che, sotto l’im-pulso dei fattori dei quali abbiamo parlato nel capitolo precedente, ha adeguato le sue strutture alle nuove esigenze. Questa trasformazione, ad esempio, avvenne negli Stati Uniti negli anni tra le due Guerre

Stato totalitario: definizione

Stato contempo-raneo: definizione

Origini storiche e forme di Stato contemporaneo

Lo Stato e le sue forme 35

mondiali, attraverso l’introduzione, in via legislativa, di nuove politi-che sociali (note sotto il nome di New Deal) che, dopo qualche diffi-coltà iniziale, vennero ritenute dalla Corte suprema conformi alla Co-stituzione: e così si realizzò una nuova interpretazione della Costitu-zione, senza, però, modificarla formalmente. Mutamenti analoghi av-vennero anche in Francia, nel Regno Unito, in Canada, in Australia, in Scandinavia, in alcuni casi per mezzo della revisione della Costitu-zione scritta.

Al contrario, altri paesi, come l’Italia, la Germania, la Spagna, gli Stati dell’Europa centro-orientale, hanno instaurato tale forma di Sta-to dopo aver attraversato esperienze autoritarie, come quelle del fa-scismo, del nazismo, del franchismo, del comunismo.

A partire dalla seconda metà del XX secolo questa forma di Stato ha dimostrato una capacità di attrazione molto forte nei confronti di quasi tutti i paesi del mondo, anche provenienti da tradizioni giuridiche diverse da quella occidentale, che approdano allo Stato contempora-neo senza aver vissuto l’esperienza dello Stato liberale di diritto.

Essa si propone, oggi, come la forma di Stato “ideale” a cui tende-re: le poche eccezioni nel mondo sono rappresentate dal persistere di forme di Stato socialista a Cuba e (quel che oggi più conta, in virtù della sua potenza economica) in Cina, nonché di forme di Stato isla-mico in una parte del mondo musulmano.

La diffusione di questa forma di Stato è avvenuta attraverso vari “cicli costituzionali”. Per ciclo costituzionale si intende un periodo storico caratterizzato dalla produzione di Costituzioni che presentano caratteri simili, anche in virtù delle reciproche influenze verificatesi nel momento della loro scrittura (ad esempio, la Costituzione italiana appartiene al ciclo costituzionale immediatamente successivo alla Se-conda guerra mondiale, insieme alla Costituzione giapponese del 1946, alla Costituzione francese del 1946, alla Costituzione tedesca del 1949, alla Costituzione indiana del 1950).

Alcuni paesi hanno introdotto lo Stato contemporaneo per “imi-tazione” delle esperienze occidentali nel momento della decolonizza-zione (come è accaduto a molti Stati africani o dell’Estremo oriente) o a seguito di transizioni costituzionali e processi di democratizzazio-ne (come i paesi dell’America latina, dell’Europa centro-orientale, o la Tunisia a seguito delle “primavere arabe”). Altri sulla base di scelte “eterodirette”, cioè imposte da potenze straniere (si pensi, dopo la Seconda guerra mondiale, al Giappone, o, più di recente, alla Bosnia-Erzegovina, al Kosovo, all’Iraq, all’Afghanistan). Va tra l’altro ricor-dato che molte organizzazioni internazionali o sovranazionali chie-

Sviluppo e diffusio-ne della forma di Stato contempora-neo

Ciclo costituzionale: definizione

36 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

dono agli Stati membri (o che aspirano a diventare tali) di adottare questa forma di Stato: ad esempio, essa è indispensabile per entrare nell’Unione europea.

Nei paragrafi che seguono andremo ad esaminare le diverse defi-nizioni date all’inizio, facendo riferimento alla Costituzione italiana che è una tra le prime e più antiche Costituzioni espressive di tale forma di Stato.

11. La forma di Stato contemporaneo: uno Stato pluralista

Con l’espressione Stato pluralista si fa riferimento all’elemento plurisoggettività dell’ordinamento giuridico statale, per evidenziare che esistono, e sono politicamente attivi, soggetti o gruppi di soggetti profondamente diversi tra loro, e che questa loro diversa soggettività è riconosciuta dall’ordinamento.

Possiamo capire meglio questo carattere se facciamo riferimento, a contrario, allo Stato liberale ottocentesco. Quest’ultimo, come si è detto, era definito monoclasse, in quanto vi era una sola classe sociale politicamente attiva: i soggetti dotati di diritti politici erano seleziona-ti attraverso il suffragio limitato, di conseguenza erano profondamen-te omogenei quanto a cultura, appartenenza sociale, interessi econo-mici.

Nello Stato contemporaneo pluralista questo non è più vero: l’allargamento del suffragio ha fatto sì che la quasi totalità dei sog-getti dell’ordinamento sia politicamente attiva e, di conseguenza, che affiorino sul piano politico le differenti istanze di cui sono portatori. Peraltro, quel che emerge non è soltanto la presenza di diversi inte-ressi economico-sociali: non possiamo definire lo Stato pluralista semplicemente come Stato pluriclasse, in contrapposizione allo Stato monoclasse, in quanto nello Stato pluralista vengono in rilievo anche altri elementi di differenziazione, come il sesso, l’età, la religione, gli stili di vita, le convinzioni etiche, la lingua, la cultura, etc.

La Costituzione italiana esprime il suo carattere pluralista in vari articoli, a partire dal fondamentale articolo 2, secondo il quale la per-sonalità dell’uomo si sviluppa nelle «formazioni sociali» delle quali fa parte: l’individuo non è visto come una monade astratta, ma è inseri-to in una rete di rapporti sociali nei quali si svolge la sua esistenza. Si possono poi richiamare, a scopo esemplificativo, l’art. 6, dove si rico-nosce il pluralismo linguistico, l’art. 8, dove si riconosce il pluralismo religioso, l’art. 29, sulla famiglia, l’art. 39, relativo alle organizzazioni

Stato pluralista: definizione

L’allargamento del suffragio all’origine

dello Stato pluralista

Il principio pluralista nella Costituzione

italiana

Lo Stato e le sue forme 37

dei lavoratori, l’art. 49, sull’associazione in partiti politici (vedremo questi aspetti più in dettaglio nei capitoli VI e VII). L’esistenza di soggetti così variegati determina nello Stato contemporaneo un pro-blema che non esisteva nello Stato liberale, e che esige una risposta dal diritto: quello della convivenza pacifica fra soggetti portatori di interessi diversi e a volte contrapposti. Il problema della convivenza nello Stato liberale era stato risolto alla radice attraverso l’esclusione delle differenze, per mezzo della creazione, con la limitazione del suf-fragio, di una omogeneità artificiale. Nello Stato pluralista il problema della coesistenza dei diversi soggetti del pluralismo si fa pressante e viene affrontato attraverso quattro tipi di strumenti, che esaminere-mo nei paragrafi che seguono: a) la previsione di processi decisionali basati sul principio di maggioranza; b) la sottrazione di alcune deci-sioni alla sfera delle maggioranze; c) il perseguimento della coesione sociale per mezzo della promozione dell’uguaglianza sostanziale e del dialogo tra le culture; d) il riconoscimento dell’autonomia delle co-munità locali per le decisioni di interesse locale.

12. Segue: uno Stato democratico

Lo Stato democratico è quella forma di Stato nella quale esiste una tendenziale corrispondenza tra governanti e governati: per usare le parole della Costituzione italiana, secondo cui «L’Italia è una Repub-blica democratica» (art. 1, comma 1), è quella forma di Stato nella quale «la sovranità appartiene al popolo» (art. 1, comma 2), come ab-biamo già accennato nel precedente capitolo.

A differenza di quanto si pensa, non basta che ci siano libere ele-zioni per poter sostenere che uno Stato è democratico, ma occorre che sia presente un complesso di caratteristiche, che consentano ef-fettivamente al popolo di esprimere la sovranità.

1. La prima caratteristica è il principio di maggioranza. Nello Stato democratico si adottano soltanto le decisioni che dispongono di un verificato consenso della maggioranza dei soggetti politicamente attivi.

2. È garantito il rispetto di coloro che non sono maggioranza, ov-vero delle minoranze, e ciò si sostanzia nei due punti seguenti.

3. Deve sussistere una possibilità per gruppi politici diversi di con-correre liberamente per il governo del paese. Ciò vuol dire che deve essere assicurata alle minoranze la possibilità di diventare, un giorno,

Stato democratico: definizione

Caratteristiche necessarie dello Stato democratico

38 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

maggioranze. Questa libera competizione politica implica libere ele-zioni, che a loro volta implicano una serie di garanzie che vanno ben oltre il momento elettorale: è necessaria la garanzia di tutti i diritti poli-tici, della libertà di riunione, di associazione, di espressione. In questo terzo punto rientra il tema delle campagne elettorali e della gestione dei mezzi di comunicazione di massa. Non si può parlare di possibilità di concorrere liberamente per il governo dello Stato se non è assicurata una parità di condizioni (par condicio) in questi settori della vita collettiva.

4. Le decisioni delle maggioranze vanno adottate ed eseguite sotto il controllo delle minoranze: le minoranze debbono poter attivare strumenti di controllo delle decisioni delle maggioranze, affidati ad organi indipendenti dalle maggioranze.

Da tutto ciò deriva una nuova separazione dei poteri, diversa rispetto a quella propria dello Stato liberale.

Il tipo di separazione dei poteri che più interessa nello Stato de-mocratico è una bipartizione, che distingue il circuito della deci-sione politica, dove le maggioranze decidono, da quello delle ga-ranzie, che è sottratto alle maggioranze. Significativo al riguardo è l’art. 1, comma 2, Cost., secondo il quale “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Nel circuito della decisione politica, che prende avvio con le ele-zioni ed è guidato dalla sovranità popolare, rientrano il potere legisla-tivo e il potere esecutivo (vedi il capitolo IX). Nel circuito delle ga-ranzie, che attiene ai limiti posti alla sovranità popolare, dei tre poteri dello Stato liberale ritroviamo soltanto il potere giudiziario, ma – ve-dremo tra poco parlando dello Stato costituzionale – vi sono altri po-teri oltre ai tre tradizionali (vedi capitolo XI).

Saremo pertanto, a quel punto, in grado di articolare meglio il di-scorso sulla “nuova separazione dei poteri”.

13. Segue: uno Stato costituzionale

Con questa espressione intendiamo la forma di Stato caratterizzata da una Costituzione rigida. Al confronto, come abbiamo detto, lo Stato liberale potrebbe essere definito “Stato legislativo”, poiché in esso la fonte suprema dell’ordinamento era la legge.

La Costituzione rigida è quella Costituzione che si pone al vertice del sistema delle fonti. Anche la legge, cioè l’atto prodotto dal Parla-mento (organo che in questa forma di Stato è interamente elettivo,

Una nuova separazione dei

poteri: circuito della decisione politica e

circuito delle garanzie

Stato costituzionale: definizione

La Costituzione rigida: definizione

Lo Stato e le sue forme 39

espressione pertanto del principio rappresentativo), deve rispettare la Costituzione.

La Costituzione riesce a prevalere sulla legge grazie alla presenza di due garanzie: a) la giustizia costituzionale, cioè un istituto che consente di eliminare le leggi contrarie alla Costituzione; b) un pro-cedimento “aggravato” di revisione costituzionale, diverso da quello legislativo, nel senso che sono richieste, per modificare la Costi-tuzione, maggioranze più ampie di quelle che possono approvare una legge.

Nella Costituzione italiana queste due garanzie sono previste in un’apposita parte (il titolo VI della parte seconda, intitolato giustap-punto “garanzie costituzionali”): in particolare, nella sezione I, “La Corte costituzionale” è disciplinata la giustizia costituzionale (vedi capi-tolo XI, par. 1); nella sezione II, “Revisione della Costituzione. Leggi costituzionali” è regolato il procedimento di revisione costituzionale (vedi capitolo V, par. 1.2).

Detto con altre parole, la Costituzione rigida è una Costituzione “garantita”, una Costituzione la cui supremazia è assicurata per mezzo di appositi strumenti giuridici. Per comprendere meglio queste garanzie, però, è indispensabile soffermarci sulla funzione che svolge la Costituzione in questa forma di Stato.

Il punto di partenza è la constatazione che nello Stato pluralista, a differenza di quanto avveniva nello Stato liberale, la volontà generale non c’è più. Il Parlamento non è più il luogo dove si esprime la vo-lontà della nazione, bensì quello dove si esprime, attraverso la legge, la volontà della maggioranza. Il “luogo” della volontà condivisa di-venta la Costituzione, ove si scrivono i valori unificanti dello Stato pluralista che sono sottratti alle maggioranze politiche del momento, grazie alle modalità con cui essa viene approvata.

Nello Stato costituzionale, la Costituzione è il frutto di un potere costituente che si esprime nella forma pattizia, attraverso un “com-promesso costituzionale” tra le diverse componenti della società pluralista che, nel momento fondante dello Stato, si accordano sulle regole del vivere insieme, su principi e valori condivisi, e li scrivono in una Costituzione rigida, proteggendoli in tal modo dalle maggio-ranze politiche contingenti, quelle che, di volta in volta, vincono le libere elezioni. Si tratta di un patto molto diverso rispetto a quello, tra monarca e classe borghese, che era alla base delle Costituzioni libera-li: in quel caso si trattava soltanto di un pactum subiectionis, un patto cioè in base al quale la classe borghese accettava la monarchia, purché essa rispettasse una serie di regole di condotta; nello Stato costituzio-

La funzione “unificante” della Costituzione rigida

Il compromesso costituzionale

40 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

nale le Costituzioni sono anche un pactum societatis, cioè un accordo sui principi del vivere insieme.

La parola “compromesso”, che nella vita quotidiana ma anche nel linguaggio corrente della politica a volte appare connotata da una va-lenza negativa, è invece l’asse portante dello Stato costituzionale. L’alternativa al compromesso, nelle società pluraliste, è la sopraffa-zione, la violenza, la guerra civile.

Possiamo ora comprendere meglio la rigidità della Costituzione e le sue garanzie.

a) Quanto alla giustizia costituzionale, le Costituzioni rigide istitui-scono un sistema di controllo della costituzionalità delle leggi. Esse sottopongono la legge, l’atto del Parlamento, al controllo dei giudici. In questo modo la Costituzione riesce ad imporsi sulla legge. In altre parole, il principio di legalità si estende anche al legislatore. Abbiamo detto che nello Stato liberale il principio di legalità (secondo il quale ogni atto dei pubblici poteri deve trovare fondamento e limiti in una norma previa) si rivolgeva essenzialmente al potere giudiziario e al potere esecutivo, nel senso che i loro atti si dovevano fondare sulla legge. Nello Stato costituzionale, anche la legge deve trovare fonda-mento e limiti in una norma previa che è la Costituzione. Si tratta di una novità dirompente: ammettere che il Parlamento può essere sotto-posto ad un giudice era inconcepibile nello Stato liberale, quando nel Parlamento si esprimeva la volontà generale, la volontà sovrana della nazione. Questo cambiamento si spiega con il fatto che i valori e i principi condivisi nel momento costituente devono essere “messi al si-curo” dall’intervento delle maggioranze politiche del momento, che si esprimono attraverso la legge del Parlamento. Lo Stato costituzionale si basa sulla separazione tra il piano della Costituzione, che è di tutti, e il piano della legge, che è quello dove le maggioranze politiche gover-nano e decidono. Il garante della separazione tra i due piani è la giusti-zia costituzionale (sulla quale torneremo nel capitolo XI, par. 1).

b) La seconda garanzia della rigidità della Costituzione consiste nel-la previsione, da parte della Costituzione medesima, di procedure per la propria modifica diverse dal procedimento legislativo ordina-rio. Diverse nel senso che sono necessarie, per modificare la Costitu-zione, maggioranze più ampie della maggioranza politica del momento, ovvero della maggioranza di governo. La Costituzione rigida è quella Costituzione la cui revisione è sottratta alle normali maggioranze poli-tiche: essa non può essere modificata o derogata dalla legge, ma è pre-vista una procedura specifica, che richiede il consenso di maggioranze più ampie (per la procedura di revisione della Costituzione italiana, ca-

Le garanzie della rigidità:

a) la giustizia costituzionale

b) la revisione costituzionale

Lo Stato e le sue forme 41

pitolo V, par. 1.2). Ciò si collega al carattere pluralista dello Stato costi-tuzionale: essendo la Costituzione rigida frutto, nel suo momento ge-netico, di un compromesso tra i soggetti della società pluralista, anche per modificarla è necessario che si ripeta quel compromesso.

Nello Stato liberale molte Costituzioni (ad esempio lo Statuto al-bertino) non prevedevano meccanismi per la loro modifica, in quanto si ponevano come immodificabili da parte del monarca che le aveva concesse, mentre poi, in realtà, finirono per essere modificate, come si è detto, dalla legge, nel momento in cui al vecchio sovrano assoluto si sostituì un nuovo sovrano, ovvero il Parlamento.

In conclusione, lo Stato costituzionale cerca di consentire la con-vivenza pacifica dei soggetti del pluralismo attraverso la Costituzione rigida, con una sequenza di questo tipo: a) Costituzione rigida: luogo dove si scrivono i principi comuni; → b) le maggioranze politiche che vincono le elezioni devono rispettare questo nucleo di principi; → c) se non lo rispettano c’è un giudice; → d) per modificare questo nucleo ci vuole un vasto accordo, simile a quello iniziale.

Al di là di questo schema, che può sembrare alquanto chiaro e li-neare, si tratta di un meccanismo molto delicato, soprattutto perché la Costituzione contiene essenzialmente principi e non regole, quindi la sua interpretazione è difficile e il ruolo che il giudice costituzionale deve svolgere è gravoso. Vedremo meglio, occupandoci della giustizia costituzionale al capitolo XI, quanto sia complicato far “parlare” i principi, verificando se le leggi violano la Costituzione.

14. Segue: uno Stato sociale

Per mantenere unita la società pluralista lo Stato contemporaneo si avvale, accanto alla Costituzione rigida, anche di altri strumenti, e in primo luogo della promozione di politiche pubbliche volte a ri-muovere le disuguaglianze economico-sociali più evidenti. Per questo motivo esso assume il nome di “Stato sociale”. Lo Stato sociale è quella forma di Stato che ha come fine l’uguaglianza sostanziale.

Per comprendere cosa si intende per “uguaglianza sostanziale” dobbiamo fare un passo indietro, ritornando all’affermazione del principio di uguaglianza nello Stato liberale, ricordando che si trattava di “uguaglianza formale”.

Uguaglianza formale, come abbiamo ampiamente visto, vuol di-re che tutti i soggetti sono uguali davanti alla legge e debbono essere trattati allo stesso modo, partendo dal presupposto, espresso nell’art.

Lo Stato sociale: definizione

Uguaglianza formale: definizione

42 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

nell’art. 1 della Dichiarazione francese del 1789, che tutti nascono uguali. Una tale visione dell’uguaglianza era ammissibile nello Stato liberale, quando ci si preoccupava di trattare in modo eguale soltanto quella minima parte del popolo, assai omogenea, che godeva dei dirit-ti politici. In una società profondamente diseguale, dire che tutti de-vono essere trattati allo stesso modo significa perpetuare le disugua-glianze.

Uguaglianza sostanziale significa invece uguaglianza di risultato e consiste nella rimozione delle differenze che ostacolano il raggiun-gimento dell’uguaglianza formale.

In altri termini, l’uguaglianza formale parte dal punto di vista che tutti sono uguali e di conseguenza tutti devono essere trattati allo stesso modo. L’uguaglianza sostanziale parte dal punto di vista oppo-sto, che tutti sono diversi e quindi devono essere trattati in modo ra-gionevolmente diverso: nel senso che occorre rimuovere, se necessa-rio con misure diseguali, le disuguaglianze che limitano il pieno svi-luppo della persona umana, mentre altre forme di differenza possono essere mantenute, o persino tutelate e protette, se attengono a speci-ficità che fanno parte dell’identità dei soggetti.

L’art. 3 della Costituzione italiana ben esprime queste due conce-zioni dell’uguaglianza nei suoi due commi, come vedremo meglio nel capitolo VI, par. 2.2. In particolare, l’art. 3, comma 2 contiene l’ugua-glianza sostanziale e ci mostra come essa sia la finalità centrale dello Stato sociale. La Costituzione italiana sviluppa questo suo carattere in un’altra serie di articoli. Allo Stato sociale può, ad esempio, essere ri-condotta anche l’espressione che troviamo nell’art. 1, comma 1, Cost.: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Strana espressione, molto originale anche nel panorama del diritto compara-to, che vuole esprimere proprio questa caratteristica. Riconducibili alla nozione di Stato sociale sono poi gli artt. 29-47, che disciplinano i rapporti sociali ed economici, introducendo norme che erano scono-sciute allo Stato liberale, quelle relative ai diritti sociali, sui quali ritor-neremo nel prosieguo del libro (capitoli VI e VII).

15. Segue: uno Stato decentrato; in particolare, lo Stato regionale in Italia

Un ulteriore strumento per affrontare il problema della pacifica convivenza nello Stato pluralista è costituito dalla distribuzione di quote di potere decisionale sul territorio, in favore di enti infrasta-tali.

Uguaglianza sostanziale: definizione

L’uguaglianza sostanziale nella

Costituzione italiana

Lo Stato e le sue forme 43

La Costituzione italiana del 1948 segna, sotto questo punto di vi-sta, una netta frattura con il precedente regime fascista e anche con lo Stato liberale prefascista: ad uno Stato fortemente accentrato ha fatto seguito infatti uno Stato regionale.

Fino dalla sua nascita (1861) l’Italia si era caratterizzata come uno Stato unitario accentrato, secondo il modello francese napoleonico: l’idea di dar vita a uno Stato decentrato, di tipo regionale, affacciatasi al momento dell’unificazione, era risultata infatti nettamente minoritaria. Lo Stato regionale, forma assolutamente innovativa nel Secondo do-poguerra, mirava a far fronte alle differenze geografiche ed economi-che esistenti tra le varie parti del paese, e a rispondere a concrete ri-chieste di autonomia provenienti da alcune aree insulari o di confine (come la Sicilia, la Valle d’Aosta, l’Alto Adige), ove si erano insediati governi autonomi ancor prima dell’approvazione della Costituzione.

Già l’art. 5 Cost. esprime la volontà di distribuire il potere sul ter-ritorio: dopo aver affermato l’unità e indivisibilità della Repubblica, infatti, stabilisce che essa «riconosce e promuove le autonomie locali».

Tale principio trova sviluppo nel titolo V della parte II, dove è di-sciplinata l’autonomia dei comuni e delle province (a questi enti la re-visione costituzionale del 2001 ha aggiunto la città metropolitana), ma soprattutto quella delle regioni, dotate della potestà legislativa.

Per quanto riguarda gli enti locali (espressione con la quale si è soliti indicare i comuni, le province e le città metropolitane), la loro autono-mia consiste essenzialmente nella possibilità, per gli organi elettivi di questi enti (sui quali v. cap. VIII, par. 10) di adottare decisioni autono-me nell’ambito delle competenze ad essi riconosciute dalla legge (statale o regionale). A livello normativo, essi dispongono di autonomia statuta-ria e regolamentare, ovvero della possibilità di adottare norme seconda-rie (v. cap V, par. 4), nel rispetto delle leggi statali o regionali.

Per quanto riguarda le regioni, il modello costituzionale di Stato regionale italiano, così come delineato dai costituenti, si fonda su un regionalismo differenziato, obbligatorio, esteso all’intero territorio.

La Costituzione prevede due tipi di regioni, quelle a statuto spe-ciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Ve-nezia Giulia) e quelle a statuto ordinario, occupandosi direttamente soltanto delle competenze di queste ultime, mentre per le regioni spe-ciali sono previste apposite leggi costituzionali (denominate “statuti speciali”) che ne definiscono l’autonomia in termini più ampi, specie in riferimento alle funzioni legislative e all’autonomia finanziaria. Una particolare situazione è quella della regione Trentino-Alto Adige, al-l’interno della quale le due province di Trento e Bolzano (definite

Lo Stato regionale nella Costituzione italiana del 1948

Caratteri del regionalismo italiano

44 Introduzione allo studio del diritto pubblico e delle sue fonti

“province autonome”) dispongono di potestà legislativa, secondo le norme del relativo statuto speciale.

Per le regioni ordinarie (quindici, direttamente individuate dal-l’art. 131 Cost.) le condizioni di autonomia sono definite dal titolo V della parte II.

Lo Stato regionale ha incontrato notevoli difficoltà, tanto che la sua attuazione è stata completata soltanto negli anni Settanta.

È così che, nel 1999 e nel 2001, l’intero titolo V è stato modificato con la più ampia revisione costituzionale della storia italiana, che ha ulteriormente potenziato l’autonomia degli enti territoriali, al punto che nel dibattito politico e sui mass media ha cominciato a fare la sua comparsa la parola “federalismo” per definire la forma di Stato italiana.

Con la legge cost. n. 1 del 1999 è stata riconosciuta alle regioni piena autonomia statutaria, anche per quanto attiene alla forma di governo, attraverso la sottrazione degli statuti all’approvazione par-lamentare.

Con la legge cost. n. 3 del 2001 è stato ribaltato il criterio di ri-parto delle competenze legislative, introducendo un elenco di ma-terie di competenza esclusiva dello Stato centrale e affidando alle re-gioni le competenze residue. L’elenco di materie statali, peraltro, è molto ampio, comprendendo il diritto penale, il diritto civile, la tutela dell’ambiente, la tutela della concorrenza, la garanzia dei livelli essen-ziali dei diritti civili e sociali. Tra le materie di competenza residuale-esclusiva delle regioni, nondimeno, figurano tra le altre agricoltura, industria, commercio, turismo, urbanistica, assistenza sociale. Esiste poi un elenco di materie di competenza concorrente, nelle quali lo Stato detta i principi e le regioni dettano la disciplina di dettaglio (ca-pitolo V, par. 4). Le funzioni amministrative, sulla base del principio di sussidiarietà, sono attribuite in primo luogo ai comuni, che con-tinuano ad avere un ruolo importante nello Stato decentrato italiano (capitolo X, par. 2.5). L’autonomia finanziaria delle regioni è sulla carta accresciuta, ma occorrerà attendere gli esiti concreti dell’attua-zione legislativa, che va sotto il nome di federalismo fiscale.

Gli anni trascorsi dal 2001 ad oggi hanno mostrato il persistere di una forte resistenza da parte dello Stato centrale ad accettare le ri-forme: il Parlamento, infatti, ha continuato a produrre leggi in mate-ria di competenza regionale, in molti casi con il consenso della Corte costituzionale, la quale ha introdotto numerosi meccanismi (primo tra tutti la cd. “chiamata in sussidiarietà” della sentenza n. 303/2003, su cui torneremo al capitolo V, par. 4) per giustificare il ruolo unifi-cante dello Stato centrale, garante del principio di unità; la stessa Cor-

La revisione costituzionale del

regionalismo italiano alla fine del XX secolo

Lo Stato e le sue forme 45

te, d’altro canto, ha cercato in altri casi di delimitare il potere dello Stato centrale applicando il principio di leale collaborazione, in base al quale, quando lo Stato interviene in materie che interferiscono con le competenze regionali, deve farlo assicurando che le regioni siano coinvolte in tali decisioni; coinvolgimento che può andare da forme leggere – le regioni debbono essere solo sentite dallo Stato – a forme più incisive – in cui le regioni debbono essere d’accordo. La sede principale in cui avvengono queste negoziazioni tra lo Stato e le re-gioni è la Conferenza Stato-regioni ovvero, quando sono coinvolti anche i comuni e le province, la Conferenza unificata Stato-regio-ni-autonomie locali. Questi organi riuniscono i rappresentanti del Governo nazionale e di quelli regionali e locali, ma la loro incidenza è limitata in quanto non possono intervenire significativamente nel procedimento legislativo, a causa della loro mancata costituzionaliz-zazione.

A ciò si aggiungano le difficoltà riscontrate a livello di enti locali, sia nella istituzione delle città metropolitane (sulla quale v. capitolo VIII, par. 10), sia a causa della moltiplicazione dei livelli di governo e del confuso intreccio delle competenze, resi particolarmente evi-denti dalla crisi economico-finanziaria mondiale, che imperversa dal 2008 e che ha reso necessarie misure di contenimento della spesa pubblica, che hanno colpito con particolare incisività il livello locale e regionale.

Nel complesso, l’intero titolo V della parte II della Costituzione, così come modificato nel 2001, non è apparso adeguato a delineare un efficiente Stato decentrato di tipo regionale, al punto che sono state presentate molteplici proposte di riforma, finalizzate alla sempli-ficazione dei livelli di governo e alla garanzia degli interessi unitari (in tale direzione si muoveva la revisione costituzionale approvata dalle Camere ma respinta dal corpo elettorale nel referendum costituziona-le del 4 dicembre 2016).

La leale collaborazione