raccolta di poesie e racconti

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PREMIO LETTERARIO 5ª edizione 2020 RACCOLTA DI POESIE E RACCONTI

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P R E M I O L E T T E R A R I O

5ª edizione 2020

RACCOLTADI POESIE E RACCONTI

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PREMIO LETTERARIO

Federica “Le parole della vita”

5a edizione 2020

Raccolta di poesie e racconti dei vincitori

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INDICE INTRODUZIONE 7 FOTO DEI VINCITORI 9 POESIE E RACCONTI DEI VINCITORI 17 POESIE - SEZIONE A: PAZIENTI 19 - Giovanna Menini (Sedico - Belluno) - 1° classificato 21 - Ciro Fondacaro (Acerra - Napoli) - 2° classificato 23 - Michela Pezzani (Verona) - 3° classificato 27 POESIE - SEZIONE B: FAMILIARI DI PAZIENTI E OPERATORI SANITARI 29 - Sabrina Venturi (Verona) - 1° classificato 31 - Rita Mazzon (Padova) - 2° classificato 36 - Giuseppe D’Andrea (Pignola - Potenza) - 3° classificato 38 RACCONTI - SEZIONE A: PAZIENTI 43 - Tommasa Sansone (Messina) - 1° classificato 45 - Rosalba Acquaviva (San Giovanni Lupatoto - Verona) - 2° classificato 49 - Michela Lovato (Montagnana - Padova) - 3° classificato 52 RACCONTI - SEZIONE B: FAMILIARI DI PAZIENTI E OPERATORI SANITARI 59 - Gabriella Giannetto (Messina) - 1° classificato 61 - Cinzia Manetti (Poggibonsi - Siena) - 2° classificato 65 - Novella Bernardelli (Maggiora - Novara) - 3° classificato 73

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INTRODUZIONE

Continua il percorso del Premio Letterario “Federica” - Le parole della vita, dedicato a Federica, simbolo di tutti i pazienti oncologici che durante la malattia oncologica continuano a vivere e progettare la loro vita.

Federica ha affrontato con coraggio, determinazione e talora anche con

ottimismo la sua malattia, continuando a scrivere, lavorare, sognare, amare, progettare e insegnando a molti “come” affrontare la vita e i periodi di difficoltà.

Questo Premio mira a incentivare e valorizzare la magia delle parole di

molti pazienti che hanno o hanno avuto a che fare con la malattia oncologica, ma anche dei familiari di pazienti oncologici o di operatori professionali del settore oncologico.

Perché scrivere aiuta a guardare nel proprio intimo senza essere travolti dalle emozioni, permette di condividere e comunicare esperienze vissute.

A questa Quinta Edizione del Premio Federica sono arrivati testi da tutta

Italia che sono stati valutati da una apposita giuria, nominata e coordinata da Fondazione AIOM.

La giuria ha individuato i finalisti tra i moltissimi manoscritti pervenuti da tutta Italia e suddivisi in due sezioni: la sezione A riservata ai pazienti e la sezione B, riservata a familiari e operatori sanitari dell’oncologia.

Purtroppo, a seguito dell’emergenza COVID-19 e delle regole emanate

dal Governo e dal Ministero della Salute e per il protrarsi di una situazione epidemiologica COVID-19 ancora critica, per tutelare sia i pazienti oncologici che i familiari, amici, conoscenti che avrebbero potuto partecipare alla Cerimonia di Premiazione si è ritenuto opportuno annullare la cerimonia di premiazione prevista per il 25 ottobre 2020.

Durante la cerimonia di premiazione era prevista la consegna di un

Premio Speciale alla Memoria di Nadia Toffa, altra giovane e coraggiosa donna, giornalista, che ha rappresentato un esempio per molti pazienti

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oncologici. Un Premio che doveva essere consegnato alla mamma di questa giovane donna: oggi Nadia non è più tra noi ma a lei va il pensiero di tutti noi.

In questo volume sono raccolte le produzioni letterarie che sono risultate

vincitrici (sia della sezione A che della sezione B). Il libro è disponibile sul sito di Fondazione AIOM

www.fondazioneaiom.it

[email protected] Grazie a tutti coloro che hanno partecipato! Arrivederci al 2021!

STEFANIA GORI Presidente Fondazione AIOM

Novembre 2020

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FOTO DEI VINCITORI

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GIOVANNA MENINI ­ 1o classificato Poesie Sezione A ­ Pazienti

MICHELA PEZZANI ­ 3o classificato Poesie Sezione A ­ Pazienti

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SABRINA VENTURI ­ 1o classificato Poesie Sezione B ­ Familiari di pazienti e operatori sanitari

RITA MAZZON ­ 2o classificato Poesie Sezione B ­ Familiari di pazienti e operatori sanitari

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GIUSEPPE D’ANDREA ­ 3o classificato Poesie Sezione B ­ Familiari di pazienti e operatori sanitari

TOMMASA SANSONE ­ 1o classificato Racconti Sezione A ­ Pazienti

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ROSALBA ACQUAVIVA ­ 2o classificato Racconti Sezione A ­ Pazienti

MICHELA LOVATO ­ 3o classificato Racconti Sezione A ­ Pazienti

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GABRIELLA GIANNETTO ­ 1o classificato Racconti Sezione B ­ Familiari di pazienti e operatori sanitari

CINZIA MANETTI ­ 2o classificato Racconti Sezione B ­ Familiari di pazienti e operatori sanitari

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NOVELLA BERNARDELLI ­ 3o classificato Racconti Sezione B ­ Familiari di pazienti e operatori sanitari

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POESIE E RACCONTI

DEI VINCITORI

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POESIE SEZIONE A Pazienti

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GIOVANNA MENINI

1° classificato Crepe e fiori

...ed ora, dopo qualche anno da quell’ottobre in cui mi sei piombato addosso, oso guardarti negli occhi e chiamarti per nome... Tu Drone che sorvoli il mio quotidiano e che vorresti dipingerlo di grigio affamato divoratore di sicurezze vitali sabotatore silente del mio rapporto con Dio. Io Nel dolore scopro vibrazioni sconosciute della mia umanità, preziosi approdi comunicativi. E mentre un setaccio trattiene nel palmo della mia vita ciò che veramente conta, mi avvolge il profumo dei fiori nati nelle crepe di quel dolore.

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Spicchi Di ogni momento posso godere anche solo un piccolo spicchio. Lo prendo tra le mani, lentamente lo assaporo, cogliendo dei sensi e delle emozioni gli echi più profondi... Nel silenzio quieto dell’autunno (al dolore) Mi hai assalita, morsa, invasa e io, smarrita, ho provato a resisterti, nonostante tu mi abbia accartocciata, ammutolita... Quando allenti la stretta mi ritrovo diversa: hai allargato le sponde, scavato, fatto spazio. Hai dilatato la capienza interiore che stimola ad accogliere, ascoltare, condividere... Ora, come albero che in autunno accetta di impoverirsi, mi lascio spogliare, consapevole dei numerosi non più che rendono così diversa, oggi, la mia quotidianità. E tutto si decanta nel silenzio quieto dell’autunno. Racconto tutto d’un fiato di una metamorfosi L’asportazione di una parte del tronco stimola un diverso germogliare: albero amputato con esili piante fra le radici e nidi ancora tra rami rinati... Metamorfosi profonda che, oltre il dolore, mi fa essere grata per quello che ancora ho, dimenticando per un po’ quanto ho perso e mi manca.

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CIRO FONDACARO 2° classificato

Ingombrate pure il mio corpo... ma separatemi da esso vi prego, acché grida lontane giungano a portare lamento e dolore, dove io possa sotterrare i ricordi in attesa di librarmi in volo, farfalla per una vita.

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Le ore (s)contate ...gli dei non c’entrano hanno già dato, quanto ci spetta non è il destino ma solo l’onta di ciò che resta... Argini maledetti sostengono l’ira dei santi, respiri affannosi e rauchi pensieri distanti tra loro... non già procellaria funesta che reca sull’acque la fame nascosta... gli dei non cantano, dormono incolumi... Han già parlato.

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Non è vero, io sono coraggioso... ...e vorrei sorprendere la vita. Un giorno arrendermi e ad essa regalare la stanchezza di chi non è mai domo. Le gesta di uomini semplici bandiera di battaglie sospese al vento di sentimenti nascosti a un coro di respiri affannosi. Ridere a squarciagola, la timida pelle ai cimeli passati e un sorriso di bimbo quando la gioia mi assale, prudente. Vorrei passare il muro, oltre l’amore e gridare la voglia, dopo la pelle, indenne, senza fatica, senza sforzo. E riposare, guerriero tra l’erba dei prati.

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Una “nuova vita” E io, che non ho pianto le lacrime che conservavo, ho respirato l’aria che mi opprimeva. E poi, senza coraggio, ho disfatto tutti i sogni, mentre attendevo lune più belle. Un involucro ibernato, un’attesa che non morde, un’ombra che non allunga la propria figura. Ma il dolore era là, che aspettava, indifferente maledicendo, una ad una, le mie speranze. Non c’era un’isola, laggiù e non un battello per salvare i sogni. Piangerò, tutte le mie lacrime, adesso e saranno lacrime di rinascita di convivenza, di voglia di non soccombere. Va via Ho ballato ancora con te perpetua immagine dell’ore mie più tristi. Insieme a te mi sono incamminato verso le foglie morte d’alberi goffi e mesti. Non già perché tu incuta ancora a me timori ma destami adesso dal sonno a te proficuo.

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MICHELA PEZZANI 3° classificato

Stella dei miei occhi Non spegnerti. Nulla ti renderà mai buia perché emani una luce che illumina le tenebre. Non lasciarla spegnere. La lampada scarseggia di petrolio ma c’è riserva in cantina. Trascinati con i palmi delle mani nude se i piedi calzati non vogliono più fare fatica. Ridai fiamma allo stoppino. Asciuga col fiato i cerini se la pioggia caduta dalle ciglia li ha bagnati. Non dirmi però che è già mattina mentre ancora respiriamo l’odore della notte che finalmente ristora i condottieri stanchi. Abbiamo bisogno di tenere sempre la luce accesa. Segui con me il puntino all’orizzonte, stella dei miei occhi, per ritrovare la casa del sollievo al confine del bosco.

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POESIE SEZIONE B

Familiari di pazienti e operatori sanitari

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SABRINA VENTURI

1° classificato Come vorrei ...e vorresti tornare indietro... ...e vorresti ripercorrere i tuoi passi, poggiando le tue orme una dietro l’altra. ...e vorresti riavvolgere una pellicola di un film dal finale già visto. ...e vorresti fare e vorresti vivere cose, che quando avresti potuto non hai vissuto. ...e vorresti parlare e dire parole, che quando avresti potuto non hai avuto coraggio di dire... Vorresti, vorrei... Vorrei prendere l’orologio del tempo e spostare le lancette fino a quell’attimo, fino a quel momento prima, prima che tutto iniziasse, prima che tutto iniziasse a finire, ma le mani si aggrappano al nulla frugando disperate nelle borse dell’Anima, la mente si intreccia e si accavalla a pensieri bislacchi, cercando impossibili soluzioni... E intanto il cuore si stringe e si scalda, avvolto da un velo di tristezza, ricoperto di stelle luminose, belle come Te.

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Cuore spezzato Caritatevoli, del dolore, palliative, esistono forse per un cuore? Esistono forse per quel cuore che all’improvviso si è spezzato? Non esiste cerotto o garza che fermi lo scorrere del male, non esistono fiale e compresse in grado di lenire il dolore, non esistono leggeri infusi che anestetizzino la mente portandola all’oblio. Gli occhi ripercorrono gesti, quei gesti visti e vissuti, rivissuti e rivisti nello scorrere di un attimo. La mente da sola naviga, attraverso ricordi di parole, solcando ricordi di profumi, scivolando sul fiume dell’Io. Il cuore sobbalza, si ferma, poi correre, si affanna, mentre cerca di non soccombere, nell’attesa di rivedere il Sole, Lì nel buio della mia Notte

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Il buio nel cuore Un pensiero, un sospiro, una lacrima, ecco cosa mi resta. Non ricordo il rumore della tua risata, ma ricordo la luce del tuo sorriso. E passo e ripasso quelle fotografie, e mi illudo, mi perdo, pensando che tu ci sia, che tu ci sia ancora vicina al mio fianco. E passo e ripasso in luoghi e per sogni che avevamo deciso insieme. Incespico e traballo al solo ricordo di quanto avevamo parlato di un viaggio, di una grande festa, del mare, di quel disegno sulla pelle. E ripenso a quei fuochi d’artificio, era la sagra, la sagra di casa nostra ed era di Luglio, e tu mi dicesti di non essere riuscita ad alzarti per vedere il cielo di colori alla finestra, e io ti risposi di non aver voluto alzarmi per vedere quello stesso cielo alla finestra. C’era qualcosa di più grande che ci fermava, c’era qualcosa di troppo potente, che non ci faceva andare a vedere quei colori. E io lo sapevo, ho sperato, ho provato e lo sapevo ancora, che non ci sarebbe stata un’altra volta per guardare all’insù, Io e Te quello spettacolo insieme. Ho sperato in qualcosa che non arrivava, ho pregato urlando in silenzio, che Qualcuno mi sentisse, che Qualcuno dividesse con me il tuo Bagaglio, ma non mi ha sentito, non mi ha ascoltato. E mi trovo da sola in questa notte a guardare un cielo buio, dove anche le ultime stelle si sono spente, qui alla finestra, Sola.

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Solo per te Friniscono le cicale laggiù nella pineta, sciabordano le onde che si infrangono sulla roccia. Il sole brilla caldo e trasforma in oro la sabbia leggera, e il mare azzurro profuma di sale la pelle. Quante immagini, quanti suoni, quanti profumi, sentiti insieme anno dopo anno. Insieme di sensazioni, che ci hanno fatto sorridere, che ci fanno fatto piangere, che ci hanno fatto crescere. E ora che cosa ci resta? E ora che cosa mi resta? Rimane solo il ricordo di quei momenti, rimane solo la mente che vaga a ricercare nei cassetti i colori di quegli attimi. Rimane solo il cuore che s’incaglia, come una nave s’incaglia fra le rocce a pensare a Te. E il pensiero vola a Te, come un gabbiano sperduto nel vento di una tempesta, che si solleva fra le nubi cercando serena pace. A te Ornella

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Una sera Una sera, una sera come tante, a guardar le stelle, che rischiarano il buio tappeto della notte, cercando nel cielo qualcosa, spostando qui e lì le folti nuvole, cercando nel cielo il tuo viso illuminato di bianco candore. Vorrei parlarti stasera, vorrei parlarti più di tante altre sere. Il mio cuore si è rotto, è andato in mille cocci. Respiro a fatica quando penso che questo tuo viaggio non finirà, che non vedrò tornare all’improvviso la tua risata, che non sentirò la luce dei tuoi occhi far capolino alla porta. Non esiste cura, non esiste rimedio, a questo vuoto scavato nel cuore con un coltello dalla lama consunta, che strappa un pezzo alla volta tutta la voglia di essere felice. E scende questo male, scende nelle vene nell’anima e risale alla testa, invade ogni parte dell’Io, e accompagna all’oblio la mia mente, perdendosi in una lacrima di cristallo, che cade su questo marmo tuonando di dolore

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RITA MAZZON

2° classificato Le tue dita tra le mie La leggerezza della pioggia calma la sofferenza del tuo corpo. La mano nella mia. Gli occhi sopiti nel ricordo di una preghiera. Nel sonno il male non esiste. Il dolore si acquieta. Siamo persi nel buio dubitando di una realtà troppo crudele. Poi ecco le tue dita tra le mie sciolgono nel contatto l’ombra scura del nostro pianto. E mentre la notte ci avvolge speriamo, anzi sappiamo che domani il sole illuminerà la tua stanza.

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L’ala Non posso condivide con te la goccia trasparente della flebo e mi sento in colpa. Non è mia la tua sofferenza. Ci sono sensazioni che ammalano la vita. Spaccano in fiocchi di neve l’anima. Vorrei essere respiro. Soffiare via il tuo dolore. Lieve, come la brezza sul mare. Impalpabile, come un’ala che sa ancora farti volare. La rosa Il bianco è un vuoto colore. Mancanza. Abbandono. Tra le lenzuola la tua testa emerge. Oggi ti ho portato una rosa. Rossa di quella forza che cede. Rossa di quel credo che ondeggia. Ti prego, Signore non farla mai appassire.

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GIUSEPPE D’ANDREA

3° classificato Presenza Non meravigliatevi se in tanti vi hanno scelto, se vi diranno di restare, se continueranno a cercarvi per sorprendere. Non spiegatevi quanto tutto questo sia così diverso, continuate a regalare attimi di vita per costruire l’inaspettato. Un centrino Ti voglio regalare un centrino per continuare a cercare, a rimanere nello spazio tra desiderio e realtà, dove ogni incrocio del filo racchiude tutte le domande, e i ricordi sospesi nell’aria come fili di ragnatela, legano ogni cosa solo agli occhi di chi non sa vedere, e mentre balli nei giochi dei tuoi ricordi, sulle note dei sogni, non smettere di aspettarti, anche quando il silenzio sembra regalarti il dono dell’immortalità.

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L’Hospice C’è un luogo fatto di dolore composto e dignitoso, di gesti di cura quotidiani, di movimenti minimi, di sguardi ed emozioni evidenti, ma mai esibiti che ci fa muovere verso l’altro, in maniera leggera, e che ci offre una forza capace di infrangere le campane delle illusioni, il castello delle certezze e dei silenzi, nei quali l’uomo è solito trincerarsi: è l’Hospice. L’Hospice è quel palcoscenico dove si intrecciano rabbiosamente, ma anche amorevolmente ricordi, gli istanti, l’azzardo, le emozioni di una vita dove il buio di una stanza ci spalanca la porta di una realtà... e tutto ci appare più chiaro. Un luogo dove persino il dolore diventa poetico, talvolta una carezza, un bacio, un abbraccio, dove le semplici parole evidenziano un bisogno costante, quello di deviare le lacrime per chi è solo, per chi dimentichiamo, per chi trascuriamo... per gli invisibili. Un luogo dove il mistero di esistere e di morire è vissuto intensamente, dove tutto ciò che è stato e che potrebbe essere ancora è capace di far maturare attorno a noi responsabilità, cura, e quella “pietas” che è un’attitudine virtuosa capace di salvaguardare la libertà e la dignità di ogni persona. L’Hospice è quel rifugio nel quale non vuoi entrare, ma nel quale cresce il desiderio di stare ancora accanto. È spazio e tempo di un incontro senza confini dove le parole” amore-fatica” vanno difficilmente a braccetto (sa di antico) ma dove tutti noi siamo pronti a condividere esperienze di stupore, poesia, emozioni e vibranti suggestioni. Se continueremo a donare frammenti di vita, a farci carico di tutto questo, anche la morte si arrenderà... o perlomeno si emozionerà.

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Io, artista Oggi ho bisogno di discorsi fatti male, di ricordi sconosciuti dal sapore amaro, di attesa come limbo di sensazioni e progetti che attendono di divenire realtà, di questa lunga estate che non dura altro che un momento, di questo calpestare la sabbia a passo lento, prima di arrivare a quell’attesa serenità che il corpo non vuole, di ascoltare il disagio di sentirmi debole, di giocare con la mia fragilità per sfuggire dall’archivio dell’oblio, la bellezza del sacrificio. Io, infermiere un po’ bizzarro, folle e un po’ disperato, capace di incollare sorrisi, paure e amore sui finestrini di un treno in corsa con la stessa mano che cura, che conforta, che raccoglie e colora tutta la violenza dei tanti abbracci come opere d’arte, mentre segnano la mia vita così casualmente, così inconsapevolmente. Io, con la divisa impregnata dalle voci e dalle storie dei miei amici ma anche cuoco per gioco e per passione, faccio dei pensieri, poesia e cibo per chi ha fame di coraggio e di speranza. Io, sporco di pittura e coi capelli brizzolati dal tempo e dalla polvere mi metto ad ascoltare il destino, come un bimbo ascolta la favola della buonanotte, con occhi sognanti e un cuore ingenuo che si lascia cullare dalla promessa del vissero felici e contenti. Cosa rimarrà di me? Seduto su questa scala del tempo ad ascoltare l’infinito dove nessuna parola riesce ad essere luce.

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A mio padre Anche se non mi ascolti non significa che non è successo, prima c’era una volta, oggi ci sono i ricordi che si intrecciano con ciò che potrà essere ancora, non c’è ragione, resta il silenzio assente che continua a farmi emozionare e riflettere senza versare lacrime. Sai papà, ricordo ogni singolo momento di questo nostro lunghissimo viaggio, ricordo ogni parola, ogni gesto, persino i profumi, i rumori, i suoni. Quando pensavi di partire con i tanti problemi di una vita confusa, alla ricerca di un’illusione e di un domani diverso, di una scenografia di sole, magia e colore per dipingere questa nostra vita normale, ma arrivavi in ritardo nel posto dove qualcuno non era abituato ad amare. Quanti misteri in fondo ai tuoi occhi, c’erano i passi di una vita, i segni di una memoria che con fremente attenzione tentava di liberarsi dal velo delle illusioni e quel sorriso dipinto come una vecchia bugia dal sapore che non hai sentito mai. Io e te, ne abbiamo fatti di progetti, tanti discorsi prima di addormentarci senza mai tradire noi, come due amanti, a volte stranieri, cercandoci ogni attimo, fuori da ogni età. Non mi parlavi mai d’amore, talvolta ti frenavi nella tua esibizione per vergogna o per educazione o forse perché non lo hai mai conosciuto. Non hai preteso di essere perfetto e non hai mai sperato la perfezione dei tuoi figli, tu, che davanti a quel camino da riaccendere in successione chiudevi gli occhi per non lasciarti scappare nessun ricordo,

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perché pretendevi dalla vita una sola cosa, la certezza di essere vivo. Da quel fuoco riceverò ancora calore, e ogni fiamma e ogni ricordo si intrecceranno con la vita nuova e tutto avrà un nuovo senso e nuova scintilla. Io vorrei continuare a cercarti, perché non si può guarire da questa facilità di amare, forse ti ho amato così tanto da non amare più, ma vorrei ancora amore... ma l’amore che puoi. Sai papà, io non sarò mai come te.

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RACCONTI SEZIONE A Pazienti

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TOMMASA SANSONE

1° classificato Le parole della vita

Ehi, preparati, scenderai sulla Terra e porterai la speranza. Conoscerai la vita.

Affronterai tante prove, ma puoi farcela! In dono avrai la caparbia e la solarità, che ti permetteranno di riuscire

anche in imprese quasi impossibili. Conserva e custodisci, gelosamente, dentro di te, la luce e la serenità

che ti circondano. Non sprecare nulla del tempo che ti è concesso!

La nascita incombe

Mi sento scivolare come una valanga... Sono un puntino! Ricordo la luce, ma, vedo solo la mia aura, che risplende con meravigliosi colori, mi circonda ed illumina il mio essere.

Sono chiusa in una calda alcova, sembra un’oasi di benessere, l’acqua tiepida mi riscalda e mi culla dolcemente. Sento una voce che, penso, canti per me, ma avverto che qualcosa tocca l’involucro esterno in cui mi trovo. Ma le cose belle durano poco, presto lo spazio si restringe, giorno dopo giorno, attorno a me: sto crescendo!

Sento una voce amorevole che vorrebbe rassicurarmi, ma sembra spaventata! L’involucro si tende, che accade?? Sento una forza che incalza e mi spinge verso l’ignoto. Ho paura!

Improvvisamente mi ritrovo con gli occhioni spalancati sul mondo. Si è ripetuto il miracolo della vita!

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Si cresce

Sono nata ma... chi sono? Sono piccola, mi sento insicura, a volte ho paura, altre volte sono tranquilla e sorrido. Vedo la luce! Mi nutro e dormo. Sono una bimba, mentre dormo beata, mi giungono parole incomprensibili, i sussurri si susseguono, finché una dolce melodia raggiunge il mio essere: è una ninna nanna! Sono parole di vita!

Sono momenti di gioia che, difficilmente, si ripeteranno nella mia vita da adulta, ma non posso saperlo. Il colore del sole è filtrato, ma sento pulsare, attorno a me, ogni cosa che mi circonda. La mia aura è vivida e risplende. Per adesso, la mia mente è una tabula rasa. Non conosco la vita. Se dovessi avere qualche difficoltà, imparerò ad attivare il pilota automatico e rilascerò grossi lacrimoni.

Purtroppo l’infanzia è una meteora, trascorre veloce e presto arrivano gli ostacoli. Scruto il mio essere da adolescente e vedo in superficie un enorme timidezza, che mi schiaccia. Imparo presto che devo sbloccare la mia anima, che è rimasta compressa nella bambina che è in me. I libri, la fonte di ogni sapere, hanno pian piano scolpito le mie insicurezze!

Ho vissuto attorniandomi di amici; certo, occorre riflettere sulla loro sincerità. Se la vita procede su un binario fatto di feste e divertimento, gli amici proliferano e si riproducono, ma se nasce un qualsiasi “problema”, è come se arrivasse, inaspettato, un grande acquazzone, che restringe i peggiori tessuti, ed anche gli “amici”. Sì, ne restano, ma solo quelli veri, che ti vogliono bene per come sei realmente.

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Primi ostacoli

Nei primi anni ’90, il gelo polare si è impadronito del mio essere e mi ha catapultata tra i ghiacci artici. Diagnosi: meningioma frontale, ultimo stadio. Penso che questa esperienza mi abbia cambiato totalmente e per sempre. Ho messo in pensione la timidezza. Ho imparato a gestire lunghi discorsi. Ho tirato fuori dal cilindro, l’umorismo celato dentro il mio essere. Da quel momento, la caparbia si è innestata dentro di me e mi ha permesso di dominare e superare ogni ostacolo. Da allora, vari “problemi” mi hanno accompagnata nel corso della vita. Da sette lunghi anni combatto contro una belva famelica. Nel calendario segno le date di chemio ed esami diagnostici, ma... quando ho letto l’ultimo esito della Risonanza, ho sentito un gancio, sferrato dalla belva e dato con forza, al di sopra dell’ombelico. Sì, un pugno dato col guantone truccato... contenente ferro infuocato! Quattro metastasi in testa, piccole ma infide, ed altre probabili in viso.

Le alternative sono due: o lancio la spugna e permetto alla belva di finire la sua opera di distruzione, o continuo a combattere con ogni arma possibile.

Sono caparbia! Continuerò a fomentare la mia rabbia, per destabilizzare la mia acerrima nemica.

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Lo specchio

Tic, tac, tic, tac... L’orologio scandisce il suo tempo. La sabbia scende inesorabile dalla clessidra del mio tempo. Scende, scivola lentamente, non sbaglia, non tentenna, non può fermarsi. Sono davanti ad uno specchio, ho la possibilità di rivedere il mio passato, il mio presente, ma non il mio futuro. Guardo nello specchio, oltre i miei fantasmi, c’è un lungo corridoio e tante porte, tutte bianche, il pavimento è luminosissimo. Sono tentata ad attraversare lo specchio, ma so che non posso farlo. Apro le porte che mi mostrano giorni pieni di gioia e quelle in cui vedo gli anni irti di ostacoli che, comunque, sono riuscita a superare.

Le immagini scorrono veloci: mi vedo mamma, per ben due volte. Vedo una bella famiglia e molti amici.

Vedo che la caparbia e la forza, racchiusa dentro di me, mi hanno permesso di vincere la paura ed annientarla. Apro un cassettino nella mia memoria, in cui ho racchiuso paesaggi di luce accecante. Sono quasi al capolinea, mi restano ancora alcune porte, non posso aprirle, appartengono al futuro e non mi è permesso sbirciare. In un attimo di angoscia, rivedo delle immagini di vita vissuta: sono calva, con la parrucca, mi mancano le ciglia e le sopracciglia, ma ho delle gambe lisce! Meglio della ceretta! Però... che brutte vene varicose sono arrivate. Rivedo lividi, unghie nere, dita dei piedi con fungi o altro, mi sento una balena! Non posso essere io! Chiudo gli occhi e mi immergo nel mio essere. Sono sempre io! Ho superato molte prove, sono serena, posso ancora farcela... Se l’ultimo granello di sabbia, nella mia clessidra del tempo, segnerà la mia data, la vita si spegnerà. Ma non certo perché la belva ha vinto su di me, la battaglia è stata molto cruenta, ma io ho vinto comunque... rivedrò la luce.

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ROSALBA ACQUAVIVA

2° classificato Vincere il cancro con Dio

«Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio». Salmo 90:12

I giorni della nostra vita corrono veloci e non tornano più indietro. Realizziamo questa realtà quando ogni giorno acquista un valore eterno.

Era il 23 settembre quando ho aperto la lettera con i risultati della biopsia che avevo fatto per la rimozione di un piccolissimo nevo sulla gamba. Subito non ho realizzato il significato delle parole lette frettolosamente in auto. Arrivata a casa mi sono seduta e ho riletto due, tre volte le parole che mi sembravano uscire fuori dalle righe come a volersi imprimere nella mia testa. Avevo un tumore della pelle al terzo stadio. Un melanoma. Non avevo mai considerato l’eventualità che anche io passassi per questa strada dolorosa della malattia. Infatti la conoscevo molto bene. Avevo vissuto tutto il travaglio e l’epilogo che porta la parola “cancro”. Mio figlio aveva solo 10 anni quando gli diagnosticarono una leucemia. L’incredulità lascia presto il posto all’impotenza. Il susseguirsi di paure, speranze presto disilluse, cure e ricadute ti prende e ti strazia il cuore. Cosa può fare una mamma oltre il pianto e lottare contro speranza? Oltre stringere a sé la sua creatura come a volerla rimettere al sicuro nel suo grembo? Pregare. La mia fede riposta in Dio ha messo delle bende d’amore intorno al mio cuore perché non scoppiasse. Ho incominciato a riporre il mio dolore e la mia speranza in Dio. Ho capito che umanamente non ero in grado di fare nulla e purtroppo neanche gli ottimi medici. Leucemia fulminante. Mio figlio stava morendo. Parola spaventosa la morte, nessuno vorrebbe mai sentirla pronunciare. Nel mio cuore è apparsa la rassegnazione per ciò che non potevo cambiare. Volevo vincere il cancro con Dio comunque.

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La malattia di mio figlio è durata solo 40 giorni. È morto il 23 luglio in una giornata luminosa, piena di vita, di speranza. Il mio cuore aveva cessato di vivere. Parte di me è stata sepolta con lui. Sopravvivere alla morte di un figlio è innaturale ed estremamente doloroso. Non si hanno più lacrime e allora piangi dentro per sempre. Il tempo copre sommariamente le ferite del cuore. I giorni scanditi dal ricordo e dalla mancanza sembrano non passare mai. All’improvviso vorresti che tutto si fermasse nel tuo ricordo più bello per immergerti nell’amore che ti manca. Non sapevo che presto avrei dovuto affrontare un’altra valle dolorosa. Mio marito, dopo la morte di nostro figlio, aveva perso la voglia di vivere. Era scomparso il suo dolce sorriso e i suoi occhi verdi avevano perso la luce e la trasparenza. Si potevano solo intravedere le sue lacrime nascoste. Festeggiammo i nostri primi 30 anni di matrimonio con figli e amici. È stata la nostra ultima festa. Scoprimmo presto, con una radiografia, che mio marito aveva un tumore al polmone. Era uno di quei tumori aggressivi, inoperabile. Non ero sicura di capire. Avevo già dato alla morte la mia parte, il mio dolore. Mi si chiedeva di ripercorrere il cammino della malattia. Iniziò così il nostro percorso doloroso, pesante ma soprattutto in solitudine. Tenevamo per noi le nostre emozioni quasi come un tesoro da custodire. Era il filo sottile che teneva stretto i nostri cuori da sempre e che battevano all’unisono alimentato da quell’amore che avevamo gustato per anni ma anche dal dolore che ci aveva ancora di più unito. Un chirurgo volle operare mio marito e l’intervento sembrava darci nuove speranze. La mia lotta quotidiana era portare mio marito a cercare la faccia di Dio. Sapevo che solo Lui avrebbe potuto operare. La nostra unica strada era quella della fede anche per morire. I mesi sono passati costellati da un altalenarsi di buone e cattive notizie. Tra una chemioterapia e l’altra ci stringevamo forte per non perdere neanche un minuto della nostra vita insieme. Ogni giorno era prezioso e unico. Sentivo il suo dolore dentro di me, i suoi sospiri, i suoi falsi sorrisi rassicuranti mi penetravano nelle midolla. Avrei dato la mia vita per lui ma lui non la voleva. Voleva vivere fino in fondo il suo cammino a testa alta dopo aver vissuto una vita meravigliosa e ricca di quell’amore che gli altri potevano vedere. Contavo i giorni e volevo riempirli solo di noi. Di notte mi fermavo ad ascoltare il suo respiro affannoso e l’unico mio riposo era

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inginocchiarmi ai suoi piedi ed elevare a Dio il mio pianto. Io e mio marito sapevamo nel nostro cuore che la risposta del Signore sarebbe stata dolorosa ancora una volta. Abbiamo iniziato a prepararci per il giorno dell’addio. È importante essere pronti per un giorno così vitale e unico. Bisogna mettere in ordine ogni aspetto della propria vita. Bisogna fermarsi ed essere onesti con se stessi per fare un bilancio obiettivo del nostro vissuto. Lasciare una buona eredità morale non è sempre facile. Le nostre impronte lasciate nel corso della nostra vita terrena devono poter vivere oltre noi per essere incisive. Mio marito lo aveva fatto. Come uomo, come marito meraviglioso, come padre speciale ma soprattutto come figlio di Dio. Era pronto per il suo ultimo viaggio. Dopo 9 mesi di malattia, il 4 Luglio, mio marito raggiunse nostro figlio in cielo. Era una giornata piena di sole e vita. Avevo bisogno di dare un senso alla morte che avevo sconfitto con la forza e la speranza che avevo ricevuta. Ho iniziato a parlare di questa vittoria a tutte le persone che incontravo nella sofferenza e nella disperazione.

Per questa ragione quando ho ricevuto la notizia del mio tumore non ho avuto paura. Ero sorpresa, incredula ma subito ho iniziato a lottare. Avevo ben capito l’importanza di ogni singolo giorno. Avevo acquistato un cuore saggio. Le mie priorità erano cambiate. L’amore per gli altri era diventato il mio obiettivo. Gustavo le piccole cose fin dal mattino quando aprivo gli occhi a un nuovo giorno di vita. Il sole, il profumo dei fiori, il cielo tutto era per me vita. Dopo un intervento approfondito è arrivato l’esito dell’esame istologico. Il tumore era stato rimosso prima che si diffondesse. Ero stata “fortunata” ma la fortuna non esiste. La bravura dei medici è importante come lo è la nostra forza di combattere senza mai arrendersi al male. Ogni nostro giorno è scritto e dobbiamo viverlo come fosse ultimo. Non so quante pagine della mia vita potrò ancora leggere ma di una cosa sono sicura, ogni pagina sarà una lode e un inno alla vita che è il dono più prezioso che ogni uomo ha. Questa è la vittoria sul male. Viviamo pienamente la vita e non avremo alcun rammarico quando andando via resteranno le nostre impronte incise nei cuori di chi abbiamo amato. L’amore è la forza che ci fa vincere ogni battaglia anche la più difficile come il cancro. Chi coltiva l’amore trova la vera vita. Nell’amore non c’è paura perché l’amore è più forte della morte.

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MICHELA LOVATO

3° classificato

Alla soglia dei 40 anni: iniezioni di vita

Sogni un secondo figlio... Credi di avere il tempo... ...tutti ti dicono di aver tempo... Nel contempo ti chiamano Signora e non capisci perché... In realtà ti senti ancora poco più di una ragazzina... Signora io? Le prime rughe si affacciano nel volto e il corpo cambia... Ma io dentro mi sento giovane se pur consapevole che l’orologio

biologico incalza veloce. Tic, tac, tic, tac... non ti accorgi di possedere un secondo orologio,

invisibile agli occhi e al cuore, un orologio a pendolo così predominante in tutto... eccolo i medici lo scoprono... una diagnosi di cancro al seno sovverte tutte le tue priorità.

Ti senti una signorina, tutti ti chiamano Signora e il medico ti anticipa che «l’ormonoterapia sarà coadiuvata da iniezioni di menopausa precoce».

Ecco... ti ritrovi in menopausa quando ancora non ti sei accorta di essere una giovane signora.

Tutto ciò potrebbe devastare, ma non mi lascio devastare.

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L’amore per la Vita può essere così grande e la maternità può assumere mille sfumature preziose: ogni giorno ad ogni bambino, ad ogni persona che incontro nel mio percorso di vita come donna, moglie, madre, insegnante di scuola primaria dono lo stesso amore che offro a mia figlia e perché no... in questo contesto assume rilevanza il gesto dell’adozione a distanza in cui donare amore è salvare una vita.

La mia vita potrebbe diventare depressione a 40 anni, iniezione dopo iniezione, ma per me invece tutto ciò vuole essere uno stimolo per ri-partire, ri-creare un equilibrio nuovo fatto di amore, di gesti semplici e... e di piccole iniezioni di felicità da saper apprezzare e valorizzare ogni giorno.

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Che ora è nella mia vita?

Che ora è nella mia vita? Alba, mattina, mezzogiorno o sera? L’infanzia che dovrebbe essere spensierata e allegra per me si è svolta

su un’alba tinta di VIOLA... ...il viola scuro quasi nero del lutto per la perdita di mia madre... ...il viola chiaro quasi bianco splendente per la fiducia in un futuro

migliore... un po’ come nelle favole. La mattina della mia vita... la mia giovinezza si è tinta di verde e di

grigio... Il verde della speranza e il grigio dell’incertezza nel fare la cosa

giusta nell’amore, nel lavoro, nella vita... il grigio così volenteroso di abbattere il nero dell’infanzia per far risplendere il bianco luminoso della speranza.

Nel mezzogiorno della mia vita si colloca il mio matrimonio con i fiori lilla e bianchi... a riecheggiare i colori della mia vita... che poi hanno trovato riflesso in una vita di coppia bella come una rosa ma ricca di spine nelle mille difficoltà che ci siamo trovati ad affrontare.

Il fiore più bello del nostro matrimonio e della mia vita è la mia bimba forte, bella e semplice come una margherita... e ora che io e mio marito assaporiamo la gioia nel nostro ritrovarsi in una vita di coppia serena... ritorna il viola... il cielo cupo... un forte temporale che getta grandine nel mio corpo sottoforma di noduli che si celano e si nascondono in posti insospettati.

Sono proprio come le palline di ghiaccio che scendono in maniera brutale nel cielo estivo e portano con sè colpi durissimi dove si appoggiano in modo irruento.

Tutto ciò colora la mia vita di grigio... di un grigio dove tutti i colori si mescolano in modo indefinito... ma da questo grigio ne uscirò con la forza dell’amore... l’amore che è forte come il Sole che scioglie il ghiaccio... l’amore che ogni giorno vedo negli occhi di mio marito e di mia figlia... l’amore che ti fa vedere una nuova alba nella tua vita.

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Vi presento Sabina: il medico del mio cuore!

Capelli biondi, rossetto rosso e camice bianco... Uno sguardo che non si limita a curare ma va ben oltre e vuole rassicurare. Uno sguardo che mi dice sono qui con te Un sorriso che aggiunge sono qui per te! Quale valore aggiunto è stata la delicatezza con cui mi hai anticipato

che sarebbe stato un referto istologico positivo... Quale valore aggiunto è stata la tua presenza al risveglio

dall’anestesia... Quale valore aggiunto è stata la tua stretta di mano alle dimissioni... Quale valore aggiunto è essere stata accompagnata dall’oncologo.

Il valore aggiunto...

Il valore aggiunto... una persona, un sorriso, una professione fatta con il cuore!

Grazie...con questo valore aggiunto la malattia fa meno paura!

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Scacco matto

Hai 15 anni... SCACCO MATTO è un amico che ti volta le spalle. Hai 20 anni... SCACCO MATTO è una scelta lavorativa difficile da prendere. Hai 25 anni... SCACCO MATTO è un lutto non elaborato. Hai 30 anni... SCACCO MATTO è una crisi matrimoniale da cui non riesci ad

uscire. Hai 35 anni... SCACCO MATTO è un figlio disabile che ti cambia inevitabilmente

la vita. Ecco SCACCO MATTO è proprio un cambiamento di Vita... un salto

nel vuoto... E ciò fa paura...e quando impari a saltare la vita ti chiede un salto

diverso, ancora più impegnativo... Siamo pedine di una stessa scacchiera... pedine piene di imperfezioni,

di limiti ma pure di emozioni e di sentimenti... Fra le tante piccole pedine emerge “La signora Dama”... che paura...

volgarmente la chiamiamo “il Damone”... emerge imponente e cambia il gioco...

Ecco, il tumore è “il damone” che avanza... ma noi uniamo le forze per sconfiggerlo... e la forza non è solo la terapia, non è solo l’alimentazione, la vera forza è quella del CUORE...

LA FORZA DI NON ANNULARSI MAI MA DI AVERE IL CORAGGIO DI STRAVOLGERE IL GIOCO E INVERTIRE LA PARTITA RIDUCENDO IL NOSTRO TEMUTO AVVERSARIO SENZA PEZZI ... SENZA PEDINE...

RIPRENDIAMOCI I PEZZI DELLA NOSTRA PREZIOSA VITA E TORNIAMO A ESSERE PEDINE LIBERE E FELICI NELLA NOSTRA BELLISSIMA SCACCHIERA CHE È LA VITA!

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La rugiada arriva dopo una notte serena

La rugiada avvolge le piante come un piccolo velo... la scorgi al mattino dopo una notte passata al caldo sotto le coperte e la trovi... all’improvviso... a ricoprire in modo silenzioso i fiori più belli del tuo giardino.

Il cancro è come la rugiada... trascorri sereno le tue giornate, preso dalla quotidianità, talvolta ci si dimentica che ci si potrebbe risvegliare all’improvviso e trovare la rugiada...

Eccola... non lo sai ma sei nell’inverno della tua vita...ritrovi la rugiada in un referto istologico inaspettato e rabbrividisce il cuore. Tutto ciò crea un intorbidimento nella tua vita simile alla nebbia più pesante e al gelo più penetrante.

In mezzo a questa nebbia trovi tante mani e una dopo l’altra la stringi... ogni stretta di mano è ricca d’affetto e ti aiuta ad intravedere un piccolo raggio di sole.

C’è la stretta di mano di mio marito che rassicura il cuore e condivide in pieno il mio dolore... quella mano che accarezza il mio viso dopo ogni intervento e cura con gran dolcezza le ferite e allenta ogni cicatrice...

C’è la stretta di mano della mia dolcissima bambina... una mano che ha voglia di coccole, di baci, di mille tenerezze ed è ignara della malattia...

C’è la stretta di mano del mio caro papà ... genitore carissimo che non esprime a parole ma con lo sguardo il gran bene che mi vuole...

C’è la mano invisibile della mia mamma... ora in cielo... che mi accarezza nei sogni e mi protegge da lassù...

Tante mani... alcune famigliari... altre no... alcune indifferenti e fredde... altre calorose e presenti... e poi c’è la mano dell’anestesista... del chirurgo... dell’oncologo...

Ogni stretta di mano mi aiuta, mi solleva dalla nebbia e dalla fredda rugiada che ha avvolto la mia vita.

Ogni stretta di mano è un sorriso che arriva dritto al mio cuore... un’iniezione di vita che mi fa riscoprire il coraggio di far splendere il fiore che c’è in me, di farlo liberare dalla rugiada e farlo brillare di mille colori nei miei occhi e in chi mi ricorderà.

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RACCONTI SEZIONE B

Familiari di pazienti e operatori sanitari

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GABRIELLA GIANNETTO

1° classificato “Flashback”

La guardavo. Cercavo di cogliere, dietro il suo sguardo, il vero colore dei suoi pensieri, che lei si ostinava a dipingere di rosa, per non star male e non far star male.

Ma nonostante il luccichio dei suoi occhi da bambina, il suo sorriso aperto, il suo fermo e costante «... va tutto bene», riuscivo a percepire un latente velo di disperazione, di paura dell’ignoto, di rabbia. Difficile, anzi impossibile coglierlo se non lo hai provato, se non lo hai vissuto, se non ti è rimasto marchiato a fuoco sulla pelle.

Mi mostrava, con orgoglio, i suoi capelli nuovi, appena spuntati, fonte di immensa felicità. Già, felicità. Per i più è incomprensibile anche solo accostare la parola felicità ad una testa di donna poco meno che pelata! Ma di questo si trattava. Felicità.

E in quel momento volevo piangere di gioia con lei e per lei, ricordando la medesima sensazione che provai quando iniziò a spuntare la mia prima peluria, dopo la chemio.

Erano scuri e “timidi” i primi capelli, poi, incredibilmente diventarono duri e ricci, come non li avevo mai avuti.

“Soldato Jane”, un vecchio film con Demi Moore in versione marines, con il cranio rasato e grinta da vendere. Soldato Jane mi chiamarono per mesi in ufficio, dalla mattina in cui, dopo avere esibito per mesi una chioma tanto sbarazzina quanto posticcia, al culmine di una discussione accesa con i soliti ometti, sulla presunta inadeguatezza delle donne di fronte ai grandi mali della vita, mi strappai la parrucca e la feci volare sul tavolo delle riunioni. E mi sentii fiera della mia testa pelata, quasi felice, come a dire... «Sono qua! La chemio mi ha portato via i capelli ma non la vita, non la grinta, non la forza. So

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bene cosa sia il male oscuro, conosco le cicatrici, il dolore e la disperazione di non farcela, non avete proprio nulla da insegnarmi. Sono qua».

La guardavo. Ricominciava a riprendere i vecchi progetti lasciati nel cassetto, a rimettere in moto la sua frenetica attività, con ingordigia, come una bambina che per troppo tempo non ha mangiato il gelato o è rimasta lontana dai suoi amati giochi e viene improvvisamente catapultata in una stanza colorata e piena di sorprese.

Occhi lucidi, mani nervose, toccava tutto quasi come a volere riconoscere gli oggetti, accarezzandoli per dire ... «sono tornata».

La guardavo. E avrei voluto abbracciarla per condividere la sua sensazione di leggerezza; pensavo al mio sollievo provato nel tornare a fare, uscita dal tunnel, i piccoli gesti di ogni giorno; guidare, fare spese, fermarsi a guardare le vetrine.

Il mondo corre e non concede, a molti, il privilegio di capire che anche dietro le banali ordinarie attività quotidiane, si nasconde la vita, quella vera, quella fatta di piccole cose. Io e lei lo sapevamo, lo avevamo sperimentato e sarebbe stato per sempre, parte di noi.

Vedevo il suo sguardo illuminarsi ogni qualvolta incontrava dei bambini. Forse pensava... «bello essere piccoli, sei in tempo per fare qualunque cosa, hai sempre qualcuno che si prende cura di te, che ti protegge e ti preserva dal male».

Proteggere, prendersi cura, avere tempo... ecco le parole la cui eco riempie il cuore! Parole piene, tonde, rassicuranti.

Le parole che ognuna di noi vorrebbe sentire ripetere all’infinito, come un mantra; le parole che dovrebbero accompagnare ogni esperienza di sofferenza, di dolore, esorcizzando la paura dell’ignoto, di un domani vuoto, privo di contorni, ma che assume la fisionomia di una macchia nera e mobile, che fa ombra e toglie il respiro. Ed è proprio in quei momenti che vorresti sentirle quelle parole, dolci come la musica e potenti come un uragano che passa, spazza via tutto e riporta il sole, la luce, la vita.

La guardavo. E vedevo, ogni giorno, allontanarsi il colorito verdastro,

il gonfiore e tutti i segni che ben conoscevo, che mi avevano tristemente

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accompagnata e che, per fortuna, si erano quasi cancellati, tanto da essere indecifrabili per gli altri. Ma non per me.

Le terapie oncologiche lasciano tracce a volte impercettibili sul corpo, ma indelebili nell’anima. È un’eredità pesante, che da un lato ti marchia come il più macabro dei tatuaggi, dall’altro ti dà il privilegio di riconoscere la sofferenza, ponendoti, rispetto agli altri, in una posizione di superiorità. Strano meccanismo, quasi grottesco.

La malattia, in particolare quella oncologica, nell’immaginario collettivo ti disegna addosso un abito su misura, fatto di pregiudizi, di presunte inferiorità o addirittura “contagi”, di fragilità estreme, come se fossimo di cristallo. Invece siamo roccia, anzi diamante! La nostra forza splende, surclassa, acceca e spezza, come solo un diamante può fare.

Lei era proprio forte e splendente come un diamante. Aveva energia per sé e per gli altri, da dare a piene mani. E adesso che aveva ripreso possesso della sua vita, chi avrebbe mai potuto fermarla? Nessuno, davvero nessuno.

I giorni passavano e nonostante la drammaticità di quanto vissuto e sofferto, era come se niente fosse mai accaduto. Conviveva “allegramente” con gli esiti disgustosi della chemio, felice di avere comunque vinto, di avercela fatta, di essere tornata a godere dell’esistenza.

Ogni tanto qualche “fantasma” faceva capolino nei suoi pensieri, magari alla vigilia di un controllo, ma niente di che, neve al sole.

Aveva sperimentato gli effetti della sua forza, aveva imparato ad intrappolare le sue paure, a dominare la rabbia, incanalandola tutta contro la malattia e uscendone libera, felice e pulita.

La guardavo. Da qualche tempo i suoi occhi sembravano meno

luminosi del solito, la sua pelle meno trasparente, il suo cuore più cupo. A volte, per quanto impegno, forza e cura ci possiamo mettere,

l’incubo si ripete, le tenebre coprono la luce ritrovata e le gambe vacillano sotto un peso intollerabile.

La malattia era tornata. E ancora una volta, come in un ennesimo flashback, ripercorrevo con la mente sensazioni mai sopite e tornate adesso prepotentemente nella gola, nella mente e nel cuore.

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Come se vedessi un’altra me sprofondare, risucchiata dal vortice, mi tornavano vertigini, nausea; sentivo l’odore acre di quel “veleno” che ti salva, la sensazione olfattiva era potente, come se ne avessi un flacone aperto sotto le narici. Un odore aspro, acido, tanto forte da farti lacrimare. E lo senti salire su per le vene, mentre intorno tutto sembra gelare; sai che è veleno, sai che i suoi effetti saranno devastanti sul tuo corpo, ma devi crederci, non hai alternative, non sei tu a condurre il gioco. Puoi solo chiudere gli occhi e affidarti.

La ascoltavo e le piastrelle bianche e nere del pavimento mi sembravano sbiadirsi, deformarsi, come quando stai per perdere i sensi ma devi resistere. Infatti devo.

Lo devo innanzitutto a me, che porto dentro i segni di una battaglia vinta, ma anche di una guerra sempre pronta a scoppiare, come un nemico perennemente nascosto nell’ombra, pronto a colpire.

Lo devo a lei, che ha bisogno di sentire amore e fiducia, ma anche forza, allegria e speranza.

Lo devo a tutte le donne/persone che percorrono questo sentiero impervio, accidentato; un luogo dove si mangiano polvere e fango; dove si respira poco e male. Un luogo dove cadere è facile, rialzarsi un po’ meno, dove le forze sembrano abbandonarti, ma se ti aggrappi alla vita puoi venirne fuori e conservarlo tra i ricordi come una vittoria, un trofeo.

D’un tratto, forme e colori tornano ad essere reali, sento un profumo fresco di lavanda e vedo una strana luce calda che entra da una finestra e illumina lei.

La guardo. Un senso di benessere torna a riscaldarmi; il suo improvviso sorriso mi comunica, silenziosamente ma in modo chiaro e deciso, che vuole vincere, anche stavolta.

La guardo... e so che sarà così.

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CINZIA MANETTI

2° classificato Fili d’amore

Grazie. Dovremmo iniziare e terminare ogni nostro giorno con questa magica parola. Grazie perché? Perché anche oggi è stata una giornata speciale. Sì, “speciale” penso guardando la maestosa luna piena ormai altissima nel cielo. È grande, sublime maestosa e illumina con la sua luce eterea questa notte di maggio inoltrato.

Nel silenzio i pensieri uno dietro l’altro si rincorrono senza tregua, simili a onde impetuose si agitano nel mare della mente, per cercare un senso, un perché, una qualche ragione al vissuto di ogni giorno, per sfuggire alla banalità, alla monotonia del nostro tempo.

È possibile trovare un senso ai disegni imprevedibili della vita? Come colmare di dolcezza e amore, pace chi oggi hai incontrato, preso per mano ed accompagnato? Quante volte lo stesso flusso di pensieri, quante volte dinanzi al mistero della vita mi sono ritrovata da sola attonita, in silenzio.

Cercare risposte incomprensibili a domande vane in una creatura, un uomo, una donna, un bimbo, costretto in un letto di astrusa sofferenza, neppure libero di camminare e allontanarsi in libertà, quando alzarsi, sedersi camminare, giocare, correre, pare un miracolo. Quella realtà non l’accetti perché in quegli occhi in quel viso, nell’altro vedi riflesso te stesso, i tuoi limiti e confini, insomma tutta la tua stessa precarietà terrena.

Mi affaccio al lucernario della mansarda e osservo la meraviglia dello spettacolo che si apre dinanzi a me e lì in quell’attimo, proprio come una bimba stupita con il viso appoggiato sui gomiti al davanzale, guardo incantata e con il naso all’insù, il tripudio straordinario e unico della vita, la meraviglia che l’universo mi dona questa notte.

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La mente ripercorre i giorni, gli anni, il tempo trascorso. Ti chiamavi Anna. Ti ho conosciuto solo cinque mesi fa. L’immagine

della tua mano mi appare incrociata alla mia. La prima volta che son venuta da te ho suonato due volte alla porta,

ma nessuno mi ha aperto. Sapevo che c’eri dietro quella porta, ma non sei venuta ad aprirmi.

Son ritornata il giorno dopo e aprendo la porta sei apparsa con il tuo volto bianco, gli occhi emaciati e lo sguardo sospettoso.

Ci siamo presentate; o meglio mi sono presentata sommariamente, ti ho detto chi ero, cosa facevo nella vita e quando ti ho chiesto di te un’ombra è calata sul viso, quasi a voler nascondere emozioni. Ti sei alzata e a fatica, hai versato dell’acqua in un bicchiere e sei rimasta in silenzio. Ho percepito imbarazzo, quasi che la mia richiesta avesse varcato troppo i tuoi confini e la distanza. «Rispetta» ho pensato. Siamo rimaste in silenzio, ma quello è stato forse il nostro primo intenso dialogo.

Dalla finestra una pianta di rosa si inerpicava sul muro del giardino. «Che belle rose!» ho detto rompendo il silenzio. Sei ritornata presente e senza proferire parole sei andata verso la porta, ti sei tolta le pantofole e camminando a piedi nudi sull’erba bagnata ti sei diretta in giardino.

In quel gesto ho sentito profonda similitudine con te. Da sempre amo camminare nell’erba e sulle foglie bagnate. Guardando ammirata le rose e la loro elegante ed eterea bellezza che aprivano la loro corolla al primo sole del mattino, ho aggiunto ad alta voce «Delle rose dobbiamo amare il profumo ma anche le spine».

Ti sei avvicinata alla panchina del giardino e le parole hanno iniziato a fluire impacciate: «La mia spina da un anno si chiama “leucemia”» questa terribile diagnosi in una parola ha ricondotto i tuoi sintomi, la debolezza, la febbre, i dolori. Non avevi tanta voglia di parlare di quella tua “spina”. Poi hai ripreso con rabbia: «Accidenti adesso che finalmente ero alle soglie della pensione. Tu guarda che sorpresa la vita! Tu corri, ti affanni, ti fai in quattro per i figli, per conciliare lavoro e famiglia, gli impegni rimandi la tua gioia ogni giorno, ogni attimo a quando verrà “il momento”. Così che, dopo una vita di panni da lavare, asciugare, stirare, padelle da rigovernare, quando finalmente senti che

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quella felicità è un po’ più vicina, ecco il regalo! Bella sorpresa! Arriva una malattia che mi farà concludere in bellezza questa esistenza di folli corse sfrenate e di gioia rinviata. Pensare che adesso sognavo di vivere in pace. Ho rimandato tutto come aveva fatto prima di me mia madre e poi mia sorella...».

Ho scoperto che avevi una sorella che non vedevi da anni. Rancori per gelosie per futili motivi economici, divisioni dei beni

dei vostri genitori che vi avevano irrimediabilmente separato. Gli anni che erano passati e il tempo trascorso non aveva incrociato

le vostre vite; neppure i figli, i compleanni le comunioni, nessuna interazione solo evitarsi. Indifferenza. Freddezza. Lontananza infinita.

Nei giorni successivi abbiamo parlato ancora di quella tua sorella e della vostra infanzia.

Hai tirato fuori da un cassetto una foto sbiadita che vi ritraeva spensierate in un prato, lei con una corona di fiori in testa tu vicina ad un bel barboncino. «Si chiamava Briciola. Gli volevo molto bene... quanti anni son passati» mi hai detto con una nota di malinconia nella voce. Hai poi aggiunto quanto triste sia stato il vostro rancore, la vostra lontananza di questi anni.

Provo a chiederti se vorresti rivederla adesso. Mi prendi la mano e con voce flebile ed emozionata mi dici: «È ora, devo rivederla. Aiutami». Dietro la foto un numero. La sera stessa lo compongo.

Di là una voce gentile e curiosa. Poche parole per spiegare il motivo della chiamata, che il tempo adesso è davvero prezioso.

Ritorno dopo qualche giorno e ti trovo distesa a letto con cateteri e flebo. Da quel momento il nostro dialogo si è fatto silenzio, un silenzio fatto di carezze e occhi negli occhi e di sguardi che parlano, come quando qualche giorno prima mi hai chiesto: «Sto per morire vero?». Silenzio.

Il Silenzio è come una coltre morbida che ammanta la natura quando vien sera. Si posa di notte come un morbido velluto avvolgendo tutto.

Dona riposo ad ogni tenera pianta o germoglio che non può reggere i raggi dinamici del sole.

Quel silenzio non è un vuoto. È concime che consente metamorfosi d’Amore.

Il silenzio è momento di trasformazione e di crescita.

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Abbiamo bisogno di silenzio più che del pane. Nel silenzio riconosciamo la nostra natura divina. Nel Silenzio possiamo sentire che non siamo separati.

Sentire il cuore dell’altro oltre il tempo e la distanza. ri-conoscere una parte di noi negli occhi dell’altro, ricongiungersi nel cuore sentendosi un po’ più vicini.

Il silenzio consente il perdono delle ferite antiche. Ci fa risorgere come l’Alba, allontana le ombre della notte, è dono per noi stessi e per gli altri, un valore svincolato da qualsiasi religione o appartenenza che non sia la Vita stessa.

Nel silenzio cuori lontanissimi possono sentirsi, riallacciare un filo spezzato.

Pochi giorni dopo tua sorella è venuta a trovarti. Tu distesa nel letto con gli occhi chiusi e circondata da tubi e cateteri respiri a fatica. Si è avvicinata e ti ha preso la mano e tu percependo quel calore d’improvviso hai aperto gli occhi per un breve istante e sorridendo hai detto con voce flebile: «Grazie...». Poi più nessuna parola solo il silenzio. Un silenzio fatto di carezze condivise di mani intrecciate per colmare con dolcezza e tenerezza, tutto il vuoto che c’era stato tra voi.

Il perdono è un dono che facciamo a noi stessi e agli altri quando decidiamo di lasciare andare il carico emotivo ed energetico legato ad una ferita. È atto di guarigione profonda per noi e per gli altri. È atto d’Amore.

Mi sono alzata in silenzio, sono venuta vicina al letto, ti ho accarezzato con le mani i piedi e dal profondo del cuore ho sussurrato in me: «Abbi fiducia Anna. Adesso sei libera. Va’ verso la tua Luce».

Il mio respiro fluisce libero più quieto e la luna maestosa illumina questa notte con il suo splendore.

Tutto intorno assume un aspetto etereo e rilassato. Le onde si sono quietate adesso. Indosso il pigiama raduno gli indumenti come quasi a voler riordinare il groviglio dei pensieri.

La bellezza dell’alba congiunge gli estremi tra cielo e terra con il timido raggio di sole che dall’orizzonte fa capolino facendo quasi scomparire il tratto rotondo della luna nella notte, mescolando nelle giuste proporzioni il finito e l’infinito.

D’improvviso quell’attimo fugace diviene un attimo eterno.

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Il tempo, i pensieri improvvisamente si fermano, le ore, i minuti divengono astrazioni mentali lontanissime e senza neppure accorgermene sono parte integrante di tutta quella beatitudine e non c’è più distinzione tra me quella timida margherita, la luna, le stelle, la notte e ciò che l’accompagna.

Il nostro tempo feroce ha inaridito i cuori, ma ha anche dissodato il terreno gettando i semi della tenerezza, della dolcezza dell’Amore che possono germogliare, solo se rimaniamo aperti e non innalziamo muri.

Nella vita più o meno tutti sperimentiamo la sofferenza e il dolore, ma come le radici della grande quercia secolare sono sopravvissute al più lungo e rigido degli inverni, così che anche dopo la più dolorosa delle stagioni la vita talvolta ci riserva altre possibilità e ricomincia.

Così che l’albero germoglia di nuovo dimenticando l’inverno, il ramo fiorisce senza domandare perché e l’uccello fa il suo nido senza pensare all’autunno.

Perché la vita è speranza e sempre ricomincia. Attraverso le esperienze della vita e queste relazioni ho compreso

che nella vita niente succede a caso e che da ogni persona o esperienza possiamo arricchirci, crescere e migliorarci sia quando ci portano gioia ma anche quando proviamo dolore.

Quelle reazioni sono solo nostre. Siamo qui in questo teatrino a portare noi stessi nel mondo a

comporre con coraggio e pazienza infinita tutte le tessere del “puzzle” della nostra vita.

Ci vuole umiltà, rispetto e tanto amore senza condizioni da offrire a chi attraversa la nostra strada. Ciascuno fa del suo meglio. Sempre. Anche quando quel “meglio” ci ferisce e ci fa del male.

Non dobbiamo mai giudicare gli altri, ciascuno ha la sua missione, il suo mandato da assolvere.

Come le mani di un pianista siamo tutti coinvolti nel concerto che è la Vita.

Ciascuno ha il suo ruolo, ciascuno ha il suo ritmo, ciascuno a suo modo suona il suo canto. Armonizzarsi con l’esistenza e trovare questa nota richiede talvolta tanta fatica. Certe volte ti pare stonata, qualche volta la senti come un contenitore di angoscia. Non importa. Trovarla e farla risuonare forte e chiara è essenziale.

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Facciamo tutti parte di questa vasta orchestra e dall’interazione di note si genera un unica melodia, un’unica composizione musicale universale.

Per camminare insieme all’altro bisogna scegliere una musica da condividere e fidarsi di quel canto.

Quando riconosciamo una creatura per l’Anima che ha dentro le facciamo il regalo più grande che possiamo farle.

Al contempo ogni creatura o esperienza ci arricchisce e ci permette di ampliare la nostra consapevolezza e fare delle scelte più mature.

Se apriamo il nostro cuore, possiamo scorgere tutti i miracoli di questa vita, le cose infinitamente piccole che racchiudono meraviglie.

Così che nel profumo di un fiore che sboccia nel gelo, in uno stormo di uccelli che volteggiano nel cielo, in una piccola ragnatela bagnata dalla rugiada, nell’innocenza degli occhi di un bimbo, in quello stringere le mani, nel sorriso che risorge come un arcobaleno anche se fuori piove, nel nostro cuore che batte, nel respiro che fluisce e ci anima, possiamo gioire e rigenerarci.

Tutto ciò ci fa sentire al sicuro, che ci possiamo fidare della vita, accettare ciò che non possiamo cambiare, smetterla biasimarci e biasimare, di stare in difesa, di sentirci divisi, dentro e fuori.

Se viviamo con il cuore, condividiamo con il cuore, amiamo con il cuore, possiamo delicatamente sfiorare e guarire la nostra anima e l’anima di chi si trova accanto a noi.

Per tutto questo ricordiamo la nostra natura profonda. Facciamo un sorriso a qualcuno che non se lo aspetta, aiutiamo una persona che è in difficoltà, diamo una carezza ad un bambino o un anziano,

doniamo abbracci dal cuore, chiamiamo una persona che non sentiamo da mesi solo per chiederle come sta, prendiamoci dieci minuti per passeggiare al sole, ringraziando per i doni che il nostro pianeta ci fa ogni giorno.

L’essenzialità del povero, i bambini del deserto, i disabili col loro semplice sorriso e mi hanno dato la risposta al mio lungo peregrinare in cerca del senso della vita.

Siamo solo noi a dare un senso alla nostra vita, giorno per giorno con il nostro agire rispondendo alle esperienze che la vita ci pone dinanzi. Scegliere la pace, scegliere l’Amore e la tolleranza è impossibile senza pacificare quelle parti che dentro di noi sono in conflitto.

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A volte un piccolo atto di gentilezza può avere il potere dell’acqua, del fuoco, della terra e dell’aria contemporaneamente. Non risparmiamoci. Mettiamo in circolo il nostro Amore.

E scopriremo che, visto dalla prospettiva dell’Amore che non vuole nulla in cambio, le cose che ci sembrano terribili non lo sono, gli ostacoli che ci sembrano insormontabili possono essere aggirati, la gioia che cercavamo intorno a noi è già dentro al nostro Cuore.

Si chiama Amore incondizionato, è l’energia più potente che c’è, e a volte basta un piccolo gesto per riuscire a percepirla.

L’Amore che abbiamo dentro ci dà tutta la forza di cui abbiamo bisogno. L’Amore e la più potente energia di guarigione dell’Universo. Noi stessi siamo Amore.

Siamo esseri d’Amore che risplendono, frammenti d’Amore che nascono da Amore e ad essere Amore son destinati a ritornare.

Questa forse è la nostra sola ragione e la nostra vera bellezza. Celebrare questo miracolo ogni momento richiede il nostro impegno

costante. Proviamo un po’ alla volta ad abbattere i nostri muri, le nostre

corazze, sentire che non siamo i nostri problemi. Siamo di più di ciò che pensiamo. Siamo niente nel tutto e tutto nel niente.

Siamo qui per sperimentare, per osservare come, qui, tutto si trasforma e nulla ci appartiene.

La vita, la morte sono semplici categorie mentali nel flusso delle esperienze delle Anime.

La vita e la morte sono due aspetti della stessa cosa. Siamo qui per vivere, accettare, comprendere ed amare anche

l’impermanenza, la temporaneità, la separazione. Siamo qui per vivere gioie così grandi che ci fanno allargare il Cuore

e dolori così grandi che sembrano strapparcelo. Siamo qui perché lo abbiamo scelto, per vivere le emozioni che

attraverso il nostro corpo ci conducono all’Anima. Per di lì un bel giorno arrivi a comprendere che le tue gioie, i dolori,

la disperazione, le passioni si rivelano d’improvviso “benedizioni”. Ti succede che un bel giorno ti guardi indietro e comprendi ogni

tessera del puzzle della vita. E ti meravigli perché inizi a sentire chi sei, la tua vera natura, cosa

sei venuto a fare e la vita allora ti “accade” e riempie. Solo allora

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ringrazi dal profondo la tua Anima per tutto quello che hai avuto, per tutti i piccoli grandi doni che hai oggi.

Per tutto ciò ho imparato a lasciare andare a fidarmi della vita e del disegno che ho scelto e che non posso rifuggire. In nome di tutto ciò ho imparato ad ascoltare in profondità il mio cuore nel silenzio e andare incontro alla Vita con fiducia rimanendo aperta e il più possibile autentica e senza veli. Porto con me il mio sogno che è anche la mia missione, quel mio intento profondo di voler lasciare un’orma d’Amore che non importa dove mi porterà.

Ci provo, certe volte anche io come tutti cado, per un attimo perdo la speranza, ma di certo non mi arrendo, così che con forza mi rialzo e con piena fiducia e un meraviglioso sorriso vado incontro alla Vita che verrà fino al giorno in cui anche io, come tutti, dovrò riprendere il volo per ritornare a “Casa”.

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NOVELLA BERNARDELLI

3° classificato Un angolo di cielo

Era una donna semplice e, caratterialmente, molto ironica, allegra e coraggiosa, ma, quando si trattava di malattie, ironia e allegria, s’intensificavano sempre più, sia per se stessa sia verso gli altri. Diceva che sono armi benefiche, tutti noi le abbiamo o potremmo averle a disposizione per esorcizzare paure e aiutarci psicologicamente. Trasformarsi un po’ in giullari aiuta a volersi più bene ed essere più forti e coraggiosi. Soprattutto comunichi, a chi ha il tuo stesso problema, che non è solo, e che lo stare insieme, condividendo la disavventura con un pizzico d’ironia e qualche risata, da sollievo anche quando si cade. Era il 1994. Questo fu il pensiero e l’agire della mia mamma, Maria, durante la sua malattia, la quale, paradossalmente, accentuò queste capacità. Capii, solo alla fine del suo percorso, che quella era la dote che volle lasciarmi.

Accadde a Milano: «Lei ha un carcinoma maligno al seno destro. Solo operando avremo chiara la situazione». Con freddezza e distacco le dissero così. La liquidarono in men che non si dica. Mia madre, che nella sua vita cercò sempre di alleggerirmi le sofferenze, mi comunicò la notizia sorridendo: «È un brutto male (si diceva una volta) ma passerà, mi opereranno e poi finirà tutto, tranquilla». Eseguirono dal 1994 al 2004 ben quattro interventi al seno destro, l’ultimo fu di quadrantectomia. Seguì radioterapia, controlli e medicine. Nel frattempo ci trasferimmo sul Lago Maggiore: i miei genitori nell’Alto Vergante e noi a Maggiora. I miei fecero avanti e indietro da Milano fino al 2004 poiché nel 1997 mia madre fece l’ultima operazione. Iniziò radioterapia e chemio per via orale per cinque anni il tempo necessario per sconfiggere il cancro, pensavano. Da buona Emiliana la sua allegria e

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positività, amplificata per proteggerci, ci convinsero che tutto sarebbe andato per il meglio, anche se vedevo mio padre cambiare di giorno in giorno. Distoglievo spesso lo sguardo da lui. Non volevo vedere. Sembrava stessi vivendo in un film. Mia madre, malgrado ogni tanto le facesse male il braccio, continuò la sua vita coltivando sempre i suoi hobbies: cucina e pesca.

Lo scadere dei cinque anni era prossimo. Ricordo che, nel 2004, ero al mare con la mia famiglia, e come tutte le mattine le feci una telefonata. Quel giorno mi disse ironicamente in dialetto emiliano: «Prolungate un po’ le vostre vacanze va là, che poi non so quando riuscirete ad andare ancora via». Riuscii solo a rispondere: «Ma smettila!». Poi parlai con mio padre il quale, tra i denti, per non rovinarci la vacanza, ci disse che era subentrato un problema. Tornammo dalle vacanze. Mia madre stava male. I cinque anni terminarono e LUI ripiombò nella sua vita. Qualcuno le consigliò un altro oncologo. Era da rioperare. La mia mamma, per la prima e unica volta, s’infuriò poiché si convinse che a Milano avrebbero dovuto farle subito le chemio in vena e non radioterapia. Forse aveva ragione. Affrontò l’ultima operazione. C’erano secondarismi. A quel punto tutto cambiò. Per mia madre, invece, la vita andò avanti come nulla fosse e tentò fino alla fine di rendere la quotidianità il più normale possibile. Le dissi una volta: «Vorrei essere forte come te». Rispose: «Lo sei». Parole di mamma, pensai. All’inizio mi coinvolse poco in questo suo percorso per non farmi pesare la situazione, ma io mi domandai spesso se stessi dando il meglio perché mi sentivo assurdamente “strana”, altro che forte.

All’epoca lavoravo ad Arona in un bar di una mia amica e, appena smettevo, andavo a Nebbiuno ma, ogni giorno che passava, entrare in casa dei miei diventava sempre più pesante. Si respirava un’aria finta, e sembrava ci fosse una sceneggiatura da seguire, anche se gli occhi di mio padre rispecchiavano la disperazione. Ancora non me la sentivo di incrociare a lungo il suo sguardo. Avrà pensato che fossi egoista? Può essere, ma non volevo piangere, soprattutto di fronte a loro. Avrebbe voluto dire rassegnazione e avrei messo a rischio la sceneggiatura che tanto faceva bene alla mia mamma. Ogni tanto i miei passavano a trovarmi al bar. Prima mio padre accompagnava la mamma in ospedale

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e poi, la scusa del caffè, era valida per un saluto e due chiacchere. Entrava sempre sorridendo anche se sfinita dalle chemio. Sì, finalmente trovò una Dottoressa Oncologa brava e preparata la quale iniziò a farle cicli di chemio. Mia madre mi raccontò che la trattava con gentilezza e dolcezza e tutte le volte che andava da lei si sentiva accolta, ascoltata e capita e l’ambiente era tranquillo e sereno. Mi disse: «Dovresti conoscerla». Probabilmente era un invito, senza obbligo, ad andare, così avrei avuto quelle informazioni che lei non osava dirmi. Al momento non feci caso a quella sottigliezza, ma un giorno, senza rendermene conto, mi ritrovai al reparto oncologico e la conobbi. Entrai nello studio. Mi sedetti. Piansi. Lei mi prese le mani e mi guardò negli occhi. Non li distolse mai da me fino alla fine del nostro incontro. Sapeva già cosa provavo, cosa le avrei chiesto, e malgrado dovette mantenere un giusto e sano distacco, fu delicata, dolce e rispose alle mie domande in modo esaustivo. Aveva ragione la mia mamma. Era davvero in mani buone. Ma nessuno fa i miracoli. LUI si stava diffondendo.

Una mattina la vidi, in bagno, specchiarsi accuratamente il viso che stava cambiando e, per la prima volta, mi domandò: «Vuoi vedere cosa mi hanno fatto?». Acconsentii. Si tolse la canottiera e il reggiseno, dal quale non si separava mai, e alzò l’ascella. Si girò verso di me. Se ripenso al suo sguardo, mi vergogno di me stessa: avrei dovuto abbracciarla e rassicurarla ma, quando vidi quale scempio le fu stato fatto, rimasi senza parole. Quella carne sembrava cucita senza senso, un groviglio di carne arrotolata che riempiva il vuoto del seno. Era raccapricciante. Sgranai gli occhi e in quel momento avevo solo un ronzio in testa, domande, pensieri, rabbia, confusione e delusione verso tutti, verso la vita. Continuò: «Potrei rifarmi il seno ma non me la sento di andare ancora sotto i ferri e lasciarvi di nuovo soli». Non pensava mai a se stessa, sempre a noi. Finalmente risposi: «No mamma, se non te la senti non farlo, pazienza se hai un seno in meno, va bene lo stesso». Non so se in quel momento dissi la cosa giusta. Ricordo che mi sorrise, si rivestii e tornò nel letto. Mi chiamò subito dopo e con fare spiritoso ma convinto, nonostante gli occhi lucidi, mi disse: «Io da lassù vedrò tutto, tu chiamami quando avrai bisogno che io farò in modo di aprire un angolo di cielo per aiutarti». Quella frase è incisa nel mio cuore.

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Percepiva che stava peggiorando ma non si arrese. Lasciai il lavoro. Io e la mia famiglia ci trasferimmo a Nebbiuno. Fu tragico per tutti vivere quasi un anno accanto ad una persona che vedi combattere per vivere, arrancare per sopravvivere e alla fine, sostenersi a un filo sottile come una ragnatela per restare in vita.

Purtroppo la sorte avversa ci perseguitò. Sembrava davvero un film dell’orrore. Mio padre fu operato d’urgenza per aneurisma addominale e non solo: terminata la convalescenza, si ruppe una gamba. Operazione, gesso e sedia a rotelle. Non poté nemmeno assistere al funerale della moglie. Forse fu meglio così. Se non ci fosse stato mio marito a prendere in mano la situazione con decisione e fermezza sarei crollata all’istante. Tra un’operazione e l’altra e, ancora sufficientemente lucido, mio papà apportò modifiche al bagno poiché mia madre non accettava né la padella né la sedia a rotelle da bagno. Voleva farcela da sola, al più poteva aiutarla mio padre ma, data la situazione in cui era, fummo costretti ad assumere una badante. Venne anche mia zia per aiutarci e stare vicino alla mamma. Erano cognate/amiche. Mia madre si confidò molto con lei e seppi che i suoi discorsi erano improntati solo su di noi. Loro potevano lavarla e cambiarla. Io no. Era pudica, e sarebbe stato umiliante. Io la pettinavo, le mettevo il rossetto che non doveva mancare mai e raccoglievo con la scopa elettrica la tantissima pelle morta causata dalla disidratazione. Chiamai anche un’amica parrucchiera che le lavò la testa, le curò le sopracciglia, le fece manicure e pedicure fino alla fine. Sentirsi in ordine era una gran gioia per lei.

Il tumore, infine, arrivò al cervello. La situazione non fu più sotto controllo. Il medico della mutua e un amico infermiere erano presenti tutti i giorni, sia per aiutarci sia per scambiare due parole con papà tentando di alleggerire la situazione. Il personale dell’ASL era sempre di corsa, forse pretendevamo un po’ di più ma, purtroppo, non eravamo i soli in quelle condizioni, anche se al momento ci sentivamo tali. Affittammo una sedia a rotelle da bagno ovviamente, perché la mia mamma voleva cenare a tavola con tutti noi, ma non riusciva più a camminare. Era diventata gonfia, irriconoscibile, con gli occhi che andavano per i fatti loro, annacquati e spiritati dalla morfina, ma, il sorriso, c’era sempre. Era un sorriso spinto dalla forza e dal cuore per

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raggiungere i nostri volti e convincerci che tutto stava andando bene. Aveva ancora degli obiettivi che la tenevano viva, che le davano speranza. Una vita senza obiettivi che senso avrebbe? Diceva: «Appena starò bene, andremo a mangiare in quel tal ristorante e poi farò il gnocco fritto e andremo a fare un bel viaggio, voglio tornare a Parigi». E intanto appoggiava il bicchiere nel portapane, o il tovagliolo nella minestra. Ciò che diceva e ciò che faceva era incoerente, parte del cervello era spento. In quei momenti ci guardavamo e da ognuno di noi scaturiva rabbia, ansia, disperazione e perdita di controllo ma tutto in silenzio, perché aveva i suoi sogni e noi avevamo il dovere e l’amore di fantasticare con lei. Terminata la cena, si coricava, si metteva gli occhiali storti e faceva i cruciverba. Pensavo come fosse possibile fare i cruciverba con gli occhiali storti. Secondo me voleva mantenere la solita routine oppure, conoscendola, in quel momento pensava a noi ma non voleva che ci accorgessimo. Mio figlio mi aiutò tantissimo, forse fece più lui di me. Averlo lì, per mia madre, era una gioia, un sollievo. Diceva: «Quando compirai diciotto anni, vedrai che festa faremo». Non fece in tempo. La situazione precipitò velocemente e incominciai a girare come una matta per cercare bombole di ossigeno. Correvo da una farmacia all’altra, da un paese all’altro e riuscivo, per fortuna, a trovarne sempre una. Arrivava sera che eravamo tutti stremati. Ci mettevamo davanti alla tv per sviare un po’ la mente, per rilassarci, ma, in seguito, mi pentii: sarei dovuta stare lì con lei tutte le sere finché non si addormentava, ma non sempre ero in grado di farcela. Una notte mi disse: «Quando non ci sarò più, abbi cura di tuo papà, non lasciarlo solo». Così feci.

Una mattina dovetti accompagnare mio figlio a ginnastica ma, nemmeno a metà strada, mia zia mi telefonò dicendomi di tornare immediatamente. Trovai la mia mamma seduta a bordo del letto, la testa china, gli occhi socchiusi, le mani incrociate. Mia zia mi disse: «Ha chiesto di te, vuole salutarti». Credetemi, rivivo la scena come se fosse oggi: le presi le mani, la guardai sorridendole nel modo più dolce possibile, e ancora non volli piangere ma le lacrime scesero, poche, perché avrebbe sentito la mia sofferenza e le avrei causato più dolore. Mi diceva sempre che non avrei mai dovuto piangere per lei, che non voleva sapermi così. Le nostre mani erano intrecciate, ne liberai una

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per accarezzarle la testa. Farfugliò qualcosa d’incomprensibile. Conoscendola immagino cosa possa aver detto. Ricongiunsi le nostre mani, le strinsi di nuovo, poi, ne misi una dietro la sua schiena e, delicatamente, l’avvicinai a me per abbracciarla e riuscii solo a dire un «Ti voglio bene» strozzato dal pianto che stavo trattenendo. Da quel momento tornò in sè poche volte. Non c’era più la donna ironica, forte e pudica. Si abbandonò al suo destino con rassegnazione, senza più vergogna. Dovemmo metterle il pannolone da lei tanto odiato. Accettò tutto. La mia mamma stava andando. Fu messa in coma farmacologico. Dovevamo solo aspettare. Una sera mi misi vicino a lei, in silenzio e la guardai così intensamente tanto da avere la sensazione di esserle entrata nella pelle e, sarà ridicolo per voi, fu come se LO vedessi. E gli parlai: «TU, essere così piccolo ma potente entri nel corpo delle persone e ti diffondi per impossessarti di loro. Hai vinto tu maledetto, hai ridotto la mia mamma a un lumicino le hai tolto la dignità mortificandola in tutto. Io ti vedo che stai girando per il corpo. Ti prendi gioco di noi. Sei un diavolo, sei una cosa nera senza forma. Avrai vinto ma, all’amore nel cuore non ci sei arrivato e mai ci arriverai». So che può sembrare assurdo ma io intuivo ciò che provava mia madre in quel momento, e che sentii tutto, poiché credo, che le persone in fin di vita, comunque qualcosa percepiscono. L’attesa finì la sera del 6 febbraio. Sentii mio padre gridare, voleva abbracciarla ma era sulla sedia a rotelle così mio marito e mio figlio lo presero in braccio e lo adagiarono sul letto accanto a lei. L’abbracciò, l’accarezzò, la baciò. Dovetti uscire dalla stanza, avevo il cuore spaccato. Mi feci forza e rientrai in stanza. La baciai e lo feci finché non la vidi più. Come avrete notato non ho mai parlato di paura. Mi sono portata dentro sensi di colpa per timore di non aver fatto nulla o di non aver agito nel modo giusto o parlato in maniera appropriata. Dopo un percorso capii che tutti noi, io in primis, avevamo paura e la paura, se prende il sopravvento, porta al panico. Il mio sentirmi strana era solo Paura di LUI, paura che la mamma soffrisse, paura di sbagliare, o che lei avesse paura.

Con l’andare del tempo, la paura si trasformò in un grande grazie alla mia mamma che, anche in quel tragico momento mi insegnò a non avere più terrore dei cimiteri, dei morti, dei funerali. Soprattutto mi ha

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insegnato a prendere la vita con ironia, con il sorriso e allegria. Non bisogna mai smettere di avere obiettivi, nemmeno davanti a certe malattie. Si cade, si rimane per terra un po’, va bene! Poi stop. Guardiamoci intorno e rialziamoci per afferrare ciò che la vita può ancora offrirci. Questo mi ha insegnato la mia mamma, ed io, oggi ritrovandomi con la sclerosi sto tentando con tutte le mie forze di reagire come lei e credo di cavarmela abbastanza bene, forse perché ogni tanto mi sbircia dall’angolino del cielo.

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