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TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°7 - EURO 6,00 Redazionale: PARLIAMO DI SCULTURA E DI UN GRANDE ARTISTA E DOCENTE: ALIK CAVALIERE Ex docenti: MINO CERETTI DAVIDE BENATI RAFFAELE DE GRADA ROBERTO SANESI Docenti: LUCIANO MASSARI NICOLA SALVATORE PAOLO LAUDISA Accademia di Roma: GERARDO LORUSSO ROMACCADEMIA: “Un secolo d’arte da Sartorio a Scialoja” Accademia di Napoli: PREMIO NAZIONALE DELLE ARTI Accademia di Foggia: PIERO DI TERLIZZI Accademia di Macerata: DIPLOMA ACCADEMICO A ENZO CUCCHI XXX ANNIVERSARIO DELLA N.A.B.A. ELISABETTA GALASSO Ex studenti: ENRICA BORGHI Fondazione Maimeri: GIANNI MAIMERI

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Redazionale:PARLIAMO DI SCULTURA E DI UN GRANDE ARTISTA E DOCENTE: ALIK CAVALIERE

Ex docenti:MINO CERETTIDAVIDE BENATIRAFFAELE DE GRADAROBERTO SANESI

Docenti:LUCIANO MASSARINICOLA SALVATOREPAOLO LAUDISA

Accademia di Roma:GERARDO LORUSSOROMACCADEMIA: “Un secolo d’arte da Sartorio a Scialoja”

Accademia di Napoli:PREMIO NAZIONALE DELLE ARTI

Accademia di Foggia:PIERO DI TERLIZZI

Accademia di Macerata:DIPLOMA ACCADEMICO A ENZO CUCCHI

XXX ANNIVERSARIO DELLA N.A.B.A.ELISABETTA GALASSO

Ex studenti:ENRICA BORGHI

Fondazione Maimeri: GIANNI MAIMERI

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REDAZIONALEDistruggere l’Accademia di Brera

Intervista a MICHELANGELO PISTOLETTOLa sua esperienza all’Accademia di Vienna

Intervista a DANILO ECCHERDirettore della GAM di Torino

Intervista aENZO INDACOPresidente dell’Accademia di Catania

PREMIO NAZIONALE DELLE ARTIAccademia di Catania

Intervista a MARTINA CORGNATIDocente all’Accademia Albertina di Torino

Intervista a NICOLA MARIA MARTINOArtista e Direttore dell’Accademia di Sassari

Intervista aALESSANDRO GUERRIERODesigner e Presidente della NABA, Milano

UNICREDIT & ARTL’esperienza con l’Accademia Albertina

Una mostraGIUSEPPE MARANIELLO

Ex studentiMICHELE GIANGRANDE

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Redazionale:C’É UN’ITALIA ROVESCIATA CHE..

Maestri storici: LUCIANO FABRO

Testimonianze:GIANNI CARAVAGGIOPIETRO COLETTAHIDETOSHI NAGASAWA

Sulla Scultura:ACHILLE BONITO OLIVA

Patrimonio storico:LA PINACOTECA ALBERTINA DI TORINO

N.A.B.A. MILANO

L.A.B.A. BRESCIA

Docenti: GIULIO DE MITRIGABRIELE DI MATTEOBARBARA TOSI

Sul Restauro:DUILIO TANCHIS

Fondazione Maimeri: TRATTATO SULLA PITTURA

Ex studenti dell’Accademia di Roma

Recensioni

Redazionale:ECCO LA NUOVA ACCADEMIA DI BRERA!

Maestri storici: TOTI SCIALOJA

Testimonianze:EUGENIO CARLOMAGNOALBANO MORANDIBRUNO CECCOBELLIMARCO TIRELLI

Docenti artisti:PAOLO ROSATULLIO BRUNONEGABRIELE GIROMELLARADU DRAGOMIRESCUMARCELLO CINQUE

Accademia di Sassari:ANTONIO BISACCIA

Accademia di Bari:PRE-VISIONI

Ex studenti:MOIRA RICCI

Ex docenti:GUIDO BALLO

Fondazione Maimeri: GIANNI MAIMERI

Recensioni

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Redazionale:PARLIAMO DI SCULTURA E DI UN GRANDE ARTISTA E DOCENTE: ALIK CAVALIERE

Ex docenti:MINO CERETTIDAVIDE BENATIRAFFAELE DE GRADAROBERTO SANESI

Docenti:LUCIANO MASSARINICOLA SALVATOREPAOLO LAUDISA

Accademia di Roma:GERARDO LORUSSOROMACCADEMIA: “Un secolo d’arte da Sartorio a Scialoja”

Accademia di Napoli:PREMIO NAZIONALE DELLE ARTI

Accademia di Foggia:PIERO DI TERLIZZI

Accademia di Macerata:DIPLOMA ACCADEMICO A ENZO CUCCHI

XXX ANNIVERSARIO DELLA N.A.B.A.ELISABETTA GALASSO

Ex studenti:ENRICA BORGHI

Fondazione Maimeri:

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Sommario ragionato

A DEMY OF FINE ARTS A

L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE.

1

02 Redazionale di Gaetano Grillo

04 Sulla Scultura

08 Biennale Internazionale della Scultura, Carrara

12 Maestri storici: Alik Cavaliere

22 Ex docenti: Mino Ceretti

26 Ex docenti: Davide Benati

30 Docenti: Nicola Salvatore

34 Docenti: Paolo Laudisa

38 Accademia di Roma

44 Accademia di Napoli, PNA

48 N.A.B.A., Milano

50 Accademia di Foggia

51 Accademia di Macerata

52 Ex studenti: Enrica Borghi etc..

HANNO COLLABORATO*

Bellini RolandoCampi TizianaCassese GiovannaCerritelli ClaudioCiavoliello GiulioColetta PietroDel Guercio Andrea B.Di Gennaro PinoDi Stefano MassimoFacchini FedericaFerrari VincenzoGalasso ElisabettaGalbusera RenatoMassari LucianoNotte RiccardoPasserini SilviaPizzi StefanoPontiggia ElenaProvezza MelissaPulejo RaffaellaSaccomandi MonicaVarga Miklos N.Zocchi Francesca

di Elisabetta Longari

In copertina:Alik Cavaliere

ACADEMY OF FINE ARTSIscritto al Tribunale di Tranin.3/09Fondato da Gaetano Grillo

NUMERO 7 dicembre 2010

SEDEViale Stelvio, 6620159 Milanotel. 02 87388250fax 02 [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILEClaudio Cugusi

DIRETTOREGaetano Grillo

VICE- DIRETTOREElisabetta Longari

REDAZIONEGaetano GrilloElisabetta LongariAlessandro Gioiello

GRAFICA E PUBBLICITÀMarcella Renna3397880296

EDITRICEL’IMMAGINE SRLZona Industriale Lotto B/1270056 Molfetta (Ba) Italy

FOTOLITO E STAMPAL’IMMAGINE AZIENDA GRAFICA SRLVia Antichi Pastifici Lotto B/12 - Z.I.70056 Molfetta (Ba) Italy

tel. +39.0803381123fax +39.0803381251

[email protected]

Iniziativa editoriale adottata come progetto dall’Accademia di Brera

SOMMARIO

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L’ultimo numero del secondo anno di vita della rivista è dedicato specialmente alla scultura, a partire dall’omaggio ad Alik Cavaliere, uno degli artisti più esuberanti e generosi che Milano ha avuto la fortuna di ospitare, esuberante e generoso tanto dal punto di vista del flusso creativo quanto da quello del pensiero sull’arte, la cultura, la vita. Due le interviste agli ex docenti: Mino Ceretti e Davide Benati, mentre si ricorda Raffaellino De Grada, scomparso di recente, e si documenta il lavoro di Enrica Borghi come ex allieva. Il numero segnala importanti iniziative di diverse accademie, tra cui la grande mostra al Vittoriale che ripercorre la storia dell’Accademia di Roma attraverso i lavori dei suoi docenti, la Biennale di Scultura di Carrara, il premio Nazionale delle Arti tenuto

presso l’Accademia di Napoli, mentre ricorre il cinquantenario dell’Accademia di Lecce e si saluta il nuovo direttore dell’Accademia di Foggia. Per Academy è tempo di bilanci, e credo che potrei essere difficilmente smentita se affermassi che il segno + ne caratterizza la crescita e lo sviluppo dal primo numero a questo; anche se ovviamente siamo coscienti del fatto che molti aspetti possono essere potenziati: ad esempio ci auguriamo di continuare ad ampliare le collaborazioni estendendole anche all’estero. Confrontarsi con altre realtà internazionali sarebbe essenziale in questo momento così difficile per la scuola italiana in generale e per il nostro comparto in particolare.

Albero per Adriana, 1970, bronzo, cm 195x87x67

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Parliamo di Scultura e di un grande artista e docente ancora sottovalutato: Alik Cavaliere.

Foto Ranuccio Bastoni

Di Gaetano Grillo

Nel novembre del 1970, all’età di diciotto anni, sono partito dalla Puglia per venire a studiare Pittura alla mitica Accademia di Brera, avevo in tasca una lettera di presentazione che l’editore barese Vito Macinagrossa mi aveva dato per il direttore dell’epoca, Domenico Purificato. Al mattino sono entrato nella sua aula ma il maestro non c’era, c’erano però tanti studenti che dipingevano come lui, figure dalle carni flaccide con colori sporchi, quadri che mi avevano fatto inorridire. Mi hanno detto: il maestro è molto occupato in direzione, è lì che devi andare per cercare di parlare con lui!Ho superato la porta di vetro (che ancora c’è) e mi sono messo in coda per entrare nell’ufficio del Direttore, la solita porta a destra. Vedevo entrare e uscire questuanti indaffarati e dopo un’ora è apparso sull’uscio lui, Purificato, vestito elegante, da notabile, avvocato, politico, elargiva sorrisi e pacche sulle spalle; in un attimo ho capito che con quell’uomo io non volevo averci nulla a che fare, era arrivato il mio turno ma sono andato via portandomi in tasca quella lettera che non ho mai presentato e che posseggo ancora.Avrei potuto iscrivermi alla Scuola di Pittura di Domenico Cantatore perché era di origine pugliese come me, sono entrato nella sua aula ma anche lì gli studenti replicavano odalische sdraiate sotto corpulenti alberi di ulivo e nulla poteva allora il suo giovane assistente Gottardo Ortelli. Deluso dall’epigonismo diffuso, mi sono affacciato nell’aula di Scultura che era stata di Marino Marini e che da un paio di anni, dopo una breve parentesi di Lorenzo Pepe, era passata ad Alik Cavaliere; di lui come artista non sapevo nulla ma in giro si diceva un gran bene e soprattutto che la sua didattica era aperta a molti linguaggi, anche alla pittura, tanto che quasi per paradosso il suo assistente, Mino Ceretti, era un pittore; decisi dunque di iscrivermi al suo Corso (allora si chiamava “Scuola di Scultura”).Ho sentito in quel luogo una straordinaria energia stimolante, Alik ci aveva riuniti intorno a un tavolo per parlare di arte e sociologia dell’arte, erano tempi in cui l’attenzione al ruolo dell’artista nella società era molto forte, il ’68 appena passato e Brera era infuocata politicamente, occupata dagli studenti per rivendicare la sua identità universitaria. Alik aveva abbattuto le barriere del rapporto allievo-maestro, era un compagno nel senso comunista e nel senso umano; si parlava di arte tutto il giorno con quella sua spasmodica propensione a smontare e

rimontare le idee con un’inquietudine straordinaria che per noi giovani era una palestra di esercizio dialettico veramente formativo. La nostra aula era frequentata spesso da Arturo Schwarz, Emilio Tadini, Enrico Baj, Gianni Colombo, Luigi Pestalozza, Francesco Leonetti, Dario Fo, Luigi Veronesi, Roberto Sanesi, Mauro Staccioli, Giangiacomo Spadari e Antonio Paradiso; oltre a noi allievi, come ad esempio Michele Zaza, Pietro Coletta, Pino Di Gennaro, anche altri studenti iscritti a Pittura, quali Stefano Pizzi, Italo Bressan, Renato Galbusera ecc., convergevano lì da Alik perché in quegli anni, a Brera, era quello il luogo del rinnovamento. La povera modella (Susy) si era rassegnata a essere ignorata e passava le sue giornate inutilmente distesa sul materasso, il bidello (Salvatore, di Matera) arrotondava il suo stipendio vendicchiando nel quartiere i nostri disegni avuti in cambio di un sacco di gesso scagliola. Molti artisti e anche molti studenti abitavano allora nel quartiere di Brera, si andava al Giamaica, a mangiare alla Libera, c’erano molte più gallerie d’arte di ora e intorno all’Accademia si respirava un fermento e un’energia fantastica.Erano arrivati gli artisti del Nouveau Réalism, Jean Tinguely, Martial Raysse, Daniel Spoerri, Christo, guidati da Pierre Restany, Mimmo Rotella aveva fatto un grandissimo decollage su una parete diroccata di fronte alla Chiesa di S. Carpoforo, le trattorie erano piene zeppe di quadri e disegni, in via Fiori Chiari ci si sentiva al centro del mondo. Tutto stava cambiando, la società e il mondo della cultura erano in continua trasformazione, ogni mostra apriva nuovi orizzonti visivi, ogni inaugurazione era una sorpresa, c’era un dibattito incredibile e voglia di mettersi in gioco. Alik ci parlava di Duchamp (che aveva conosciuto), ci spronava a intervenire nel tessuto urbano (avevamo fatto degli interventi per strada) a discutere dei nostri progetti, a lavorare in gruppo, a frammentare le cose per ricomporre i frammenti con un altro ordine; ci insegnava a ribaltare i punti di vista, a sconfinare fra linguaggi diversi, a documentarci.Quei magnifici anni ’70 a Brera e a Milano in generale, sono oggi come un sogno e Alik Cavaliere insieme a Mino Ceretti è stato per noi il riferimento per antonomasia, la loro attenzione verso noi giovani allievi era davvero straordinaria, io stesso devo a loro la mia prima mostra personale alla Galleria Solferino di Milano nel 1974, furono loro a propormi.

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redazionaleEro andato volontariamente ad aiutare Alik durante l’allestimento della sua bellissima installazione alla Biennale di Venezia, Mino Ceretti era venuto a trovarmi in Puglia, c’era un entusiasmo in tutto ciò che si faceva e Milano era bellissima, vivace, attenta.La scultura per Alik era gioco, ironia, scenografia, spettacolo, teatro, racconto, installazione, filosofia, scienza, poesia, colore, pittura, disegno, materiali e gioia di sperimentare. Questo ci ha insegnato! Alik ha svecchiato la scultura retorica e novecentista e ha aperto una dimensione nuova dalla quale penso sia partita la vitalità della scultura in Italia negli ultimi quattro decenni. Per me, che venivo a Milano dalla Puglia, con il mio amore per Pino Pascali, la Scuola di Scultura di Cavaliere è stata la conferma di quel percorso artistico che ha fatto dello sconfinamento dei linguaggi una modalità fertile di contaminazione, che ha visto nell’ironia, nella dissacrazione e nel gioco il riscatto di un’Italia culturalmente depressa dal fascismo.Se guardiamo i lavori realizzati da Alik nei primissimi anni ’60 possiamo trovare i germi dell’Arte Povera, possiamo facilmente capire che il suo lavoro può essere considerato il collegamento della generazione fra quella di Lucio Fontana e appunto quella dell’Arte Povera. Al contrario di Fontana e degli artisti dell’Arte Povera, Alik non era un calcolatore, si divertiva moltissimo a “inventare” e si annoiava a “gestire” il suo lavoro, lo disturbava il “potere”, lo disturbavano i “baroni”, lo disturbava il “mercato”.Pensava, rifletteva, scriveva ogni giorno (preziosissimi i suoi taccuini, così amorosamente rivalutati da sua moglie Adriana); alle strategie del sistema artistico preferiva la freschezza dei giovani di Brera, le oche del suo cortile, i lunghi pomeriggi a lavorare a quattro mani con Vincenzo Ferrari. Alik amava l’arte, molto meno il sistema dell’arte e l’idea di successo che invece sembra essere oggi la prima preoccupazione degli artisti.Cosa sono oggi la pittura e la scultura? Sono ancora sapèri separati e specifici oppure sono spesso una cosa unica? L’opera di Alik Cavaliere risulta oggi così fresca, così in sintonia con il presente che la risposta è semplice e immediata.

Sono stato recentemente a Carrara, nelle cave di Michelangelo, accompagnato da quella roccia di uomo chiamato Barattini e da quell’appassionato scultore chiamato Massari; visitare con loro quei luoghi è un’esperienza assolutamente straordinaria così come lo è attraversare il percorso della scultura “statuaria” dalla montagna, al blocco di marmo segato, alla levigatura del finito. La bottega con i suoi segreti tecnici, con lo spessore delle esperienze tramandate da generazioni, la sensibilità affinata nella polvere e nei gomiti, è ancora oggi fonte di grande fascino e trasporto. Viene subito voglia di mettersi a lavorare.Infatti artisti da tutto il mondo si recano a Carrara per realizzare le loro opere con il marmo estratto dalle Cave Michelangelo e con l’ausilio dell’esperienza che Luciano Massari mette a disposizione nello Studio d’Arte Cave Michelangelo.La scultura contemporanea, che per molto tempo ha privilegiato materiali poveri, precari, fragili e deperibili, sembra oggi riscoprire la bellezza del marmo, la classicità dei materiali nobili e duraturi come il bronzo. Nella mostra curata dal nostro collega Marco Meneguzzo alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, persino Vanessa Beecroft propone un’opera realizzata con materiali e tecniche classiche, lo stesso Maurizio Cattelan in Piazza della Borsa a Milano e anche alla Biennale di Scultura di Carrara espone opere realizzate in marmo di Carrara ma è altrettanto vero che Vanessa utilizza anche il disegno, l’acquerello, il video, la performance, che Maurizio si serve anche di tanti altri materiali e linguaggi.L’arte “contemporanea” (mi disturba questo termine), preferisco dire l’arte, oggi, si esprime senza gerarchie rigide e con molta libertà, mobilità, capacità di entrare e uscire dai percorsi specifici. L’arte, oggi, è pittura, scultura, decorazione, scenografia, grafica, nuove tecnologie, filosofia, teatro, poesia, scrittura ma in un “tutto contaminato”.Questo è l’insegnamento che io e molti come me abbiamo ereditato da Alik Cavaliere ed è giunto il momento che la sua opera sia

rivalutata dalla critica e dal mercato dell’arte. È giunto il momento di capire che il tempo e la dedizione che Alik ha dedicato all’insegnamento in accademia, se da un lato è stato un impedimento a un suo più incisivo riconoscimento sulla scena dell’arte, dall’altro è stata una semina fertilissima che oggi, a distanza di diversi anni dalla sua scomparsa, gli viene riconosciuta da tutta la nostra generazione.Il lavoro coerente che Alik ha svolto come artista e come docente è stato intuitivo, rinnovatore e lungimirante; una vera riforma dovrebbe partire dal suo modello di Accademia. Quell’Accademia per la quale si è speso tantissimo, sovente incompreso e ostacolato dagli stessi suoi colleghi.Quell’Accademia che lui sognava aperta ma allo stesso tempo legata all’arte e alle sue dinamiche, non certo eterogenea e creativa in senso effimero.La critica e il mercato dell’arte non dovrebbero più trascurare una figura d’artista così pregnante e significativa. Alik è stato una grande risorsa, oggi è un altro motivo di orgoglio dell’Accademia di Brera.

Alik sta saldando

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A cura di Gaetano Grillo

Luciano, che cos’è la scultura?E’ un’opera tridimensionale, solo tridimensionale, che ha un’energia in movimento fortemente in relazione ai materiali usati dall’artista che talvolta non sono neanche specifici e possono sconfinare in quelli usati da altri linguaggi come la fotografia, il video ecc. La scultura implica molte pratiche, tecniche, soluzioni, coinvolge molti soggetti e si sviluppa nello spazio fisico.

In questo momento la scultura, con la sua storia millenaria non può essere considerata un linguaggio obsoleto? Che senso ha pensare ancora al marmo, alla monumentalità, alle tecniche manuali, in un’epoca fortemente connotata dall’avvento delle tecnologie?Io credo che stiamo invece assistendo alla rinascita della scultura intesa come linguaggio tradizionale, basti pensare all’utilizzo della scultura da parte di grandi artisti come Tony Cragg, Jake e Dinos Chapman, Murakami, Anish Kapoor, Antony Gormley, Maurizio Cattelan o anche i più giovani artisti come Gianni Caravaggio ecc. tutti artisti che adoperano materiali diversi, da quelli tradizionali come il marmo ad altri come le resine, gli acciai specchiati, il laser e via dicendo. Direi però che di recente c’è proprio un forte recupero dei materiali tradizionali della scultura, mi riferisco proprio al marmo o al bronzo. Materiali che l’arte contemporanea aveva snobbato in favore di materiali più effimeri e che ora invece gli artisti stanno riscoprendo, basti vedere le opere più recenti di Maurizio Cattelan. Abbiamo assistito negli ultimi anni ad un forte e costante processo di

smaterializzazione della scultura sino all’atomizzazione dell’opera intesa nella sua fisicità e invece ora stiamo riscoprendo la bellezza della forma e dei materiali di cui è composta; stiamo rivalutando i materiali durevoli che sono portatori di valori. Maurizio Cattelan ha sdoganato la presunta inattualità del marmo. Non è la stessa cosa per l’opera “boy with frog” di Carles Ray installata all’esterno di Punta della Dogana a Venezia, in quel caso il materiale è troppo bianco e uniforme, è piatto e non attribuisce preziosità alla scultura; sembrerebbe marmo ma non lo è e la differenza è visibile all’occhio esperto.

A proposito di quell’opera di Ray è giusto parlare di scultura oppure sarebbe meglio dire che si tratta della realizzazione tridimensionale di un’immagine, di un’idea?Decisamente è un’immagine che mi rievoca anche il bambino pesatore Gemito con tutto il sapore della scultura ottocentesca…

Si ma il modellato non ha quella sensibilità che aveva la scultura di Gemito, è un’esecuzione fredda e asettica, ecco perché preferirei parlare di una realizzazione tridimensionale dell’immagine piuttosto che di una scultura sensibile e partecipata, io la vedo piuttosto come un oggetto concettuale.Secondo me la scultura deve trasmettere un’energia, forse è più forte l’immagine bidimensionale di quella scultura che la scultura stessa; almeno secondo quello che io intendo per scultura. Luciano tu sei una figura singolare nel panorama accademico

La Sculturadalle Cave Michelangelo a...

Luciano MassariL’esperienza di docente di scultura a Torino e di direttore dello studio artistico “Cave Michelangelo” di Carrara.

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sulla scultura

italiano poiché oltre ad essere docente di scultura all’Accademia Albertina di Torino sei uno scultore dotato di grande competenza tecnica specifica che metti anche a servizio di altri artisti per realizzare le loro opere attraverso lo studio-laboratorio di Cave Michelangelo di Carrara. Tu sei depositario di un sapere antico che torna ad essere utile nell’arte contemporanea, è giusto che l’opera di un artista contemporaneo spesso sia completamente realizzata da altri?Bisogna dire che anche in passato la scultura ha avuto bisogno di una grande organizzazione e del concorso di più figure che hanno lavorato a fianco e dietro l’artista, talvolta senza apparire ma avendo un ruolo determinante. Anche Fidia aveva il suo cantiere con tanti giovani scalpellini, Michelangelo stesso e anche Bernini ad esempio, delegavano gran parte delle loro esecuzioni. Tutti gli scultori si sono sempre serviti della bravura, dell’abilità manuale e dell’intelligenza di altri per realizzare le loro opere.

Luciano tu hai voluto che la ditta Barattini, estrattrice di marmo nelle stesse cave che furono di Michelangelo a Carrara, impiantasse in azienda un grande studio per la lavorazione artistica di questo materiale, ci parli di questa iniziativa? Com’è nata?Barattini è un uomo dotato di un’energia incredibile e di un’intelligenza intuitiva velocissima, ha iniziato a lavorare nelle cave Michelangelo a

soli dodici anni come garzone e ha realizzato nel tempo, da solo, un’attività imprenditoriale straordinaria. E’ una persona molto sensibile e vicina all’arte, ha capito che bisognava fare qualcosa di più e ha accolto la mia proposta di realizzare questo laboratorio artistico proprio quando i laboratori stavano scomparendo insieme a tutta una generazione di persone che avevano un sapere preziosissimo e radicato nel nostro territorio. Noi abbiamo cercato giovani che avevano voglia, qualità e passione per fare questo mestiere, e dico il mestiere dello “scultore”, avvicinandoli agli artigiani anziani per il trapasso del mestiere con tutti i suoi segreti. Oggi abbiamo un laboratorio dove lavorano solo giovani dotati di grande competenza e motivazione. Siamo dotati di settori gestiti con grande professionalità negli ambiti della post-modellatura, sbozzatura, ornatistica, pannistica, ci sono i formatori, i finitori i lucidatori ecc. ma sono settori aperti e interscambiabili, tutti sanno fare tutto benché con preferenze e specializzazioni. Se abbiamo bisogno di modellatori a compasso, per esempio, tutto il nostro personale è in grado di smodellare a compasso, la polivalenza del mestiere è essenziale ed è un nostro punto di forza. In passato, sul territorio, c’erano solo piccoli laboratori artigiani, magari senza essere dotati di carroponte all’interno, senza servizi igienici a norma, non erano in grado di fornire ospitalità all’artista, non aveva una struttura amministrativa adeguata ecc. A noi giungono dei progetti da tutto il mondo, per esempio mi è giunto un disegno di Bob Morrison per fax e da quello abbiamo sviluppato

Studio Artistico Cave Michelangelo, Carrara

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il modellato sino ad arrivare ai dettagli dell’opera comunicando via mail da una parte all’altra dell’oceano; poi è venuto lui di persona, abbiamo fatto gli ultimi ritocchi ed è nata l’opera.

Con quali altri artisti avete lavorato in passato o state lavorando attualmente?Abbiamo lavorato per Giò Pomodoro, Daniel Buren, Parmigiani, Mario Merz, Nagasawa, Penone, Jan Fabre, Wan Host, Cattelan, Gianni Caravaggio, Gennari ecc.

Possiamo dire che Carrara ha il primato sicuramente italiano ma forse anche mondiale per la scultura?Si, Carrara ha sempre avuto questa centralità, da Henry Moore in primis, passando per Arturo Martini, Viani, Nicolaj, Pistolfi ecc. ne sono passati tantissimi di scultori. Gli scultori carrarini sono andati a lavorare anche San Pietroburgo e in tutto il mondo, nelle varie epoche dal ‘500 ad oggi. Nella Cappella di san Severo c’è una scultura memorabile realizzata da un certo Pelizza da Carrara che quasi nessuno conosce; spesso dietro la scultura ci sono le mani preziose di sconosciuti che sanno concepire e realizzare la scultura, ci sono persone dotate di una tecnica incredibile, di quella conoscenza indispensabile per fare la scultura.

Stiamo riflettendo sul fatto che la cultura della scultura da essere un sapere organico si sia atomizzata in tanti micro-saperi? Se l’artista quando concepisce l’opera deve avere una conoscenza a tutto tondo delle problematiche relative, da quelle del linguaggio a quelle tecniche, è giusto scindere l’idea dall’oggetto finale? Voglio semplicemente dire che se è pur giustissimo che l’artista si avvalga della collaborazione di tecnici è altrettanto necessario che l’artista conosca profondamente il linguaggio che adopera. T’immagini come può un direttore d’orchestra dirigerla se non conosce profondamente la musica e le caratteristiche di tutti gli strumenti musicali adoperati? Quello che succede oggi è che l’artista spesso non ha quella competenza specifica e si rivolge a te per realizzare la sua idea; l’artista oggi è accreditato tale se ha una competenza strategica e questa non è altro se non l’ennesima conseguenza del pensiero duchampiano.Vuoi dire che l’artista non ha più una conoscenza tecnica specifica?

No, questo sarebbe riduttivo! Intendo dire che l’artista spesso non ha la conoscenza specifica del linguaggio che adopera o che, ancor peggio, sceglie di volta in volta di adoperare. L’aspetto tecnico è consequenziale.Da noi vengono artisti che hanno approcci diversi con la scultura, c’è

chi ha un’ottima conoscenza del linguaggio e c’è chi si avvicina per la prima volta ad essa. Molti di loro sanno cosa vogliono ma sanno anche cosa gli manca per realizzare quello che cercano ed è proprio in quel frangente che diventiamo utili noi con la nostra offerta di competenza tecnica e direi anche interpretativa.

Tu diventi il punto cardine fra l’autore e gli scultori che realizzano l’opera, in qualche modo entri nel pensiero dell’artista e gli proponi delle soluzioni, vero?Io svolgo un ruolo delicato che da un lato cerca di rispettare al massimo l’idea iniziale dell’artista e dall’altro deve trovare dei risvolti tecnici con l’ausilio di qualsiasi tecnologia. Noi operiamo infatti nel solco della grande tradizione della scultura, con metodi tradizionali

ma ci avvaliamo anche di strumenti sofisticati come possono essere l’elaborazione in 3D, la robotica ecc. Noi suggeriamo soluzioni ma non di tipo formale perché l’opera è concepita dall’artista e non vogliamo entrare nel merito, quando ci viene chiesto anche il modello noi lo eseguiamo, che abbiano sentori, barocchi, neoclassici o del trentennio, noi cerchiamo di farli percepire con accorgimenti talvolta molto sottili ma lo facciamo perché ci viene richiesto, perché abbiamo una competenza non solo manuale ma anche storico-culturale; i nostri ragazzi hanno un buon livello di scolarizzazione perché quasi tutti vengono dall’Accademia e si informano anche sull’artista quando devono lavorare per lui,

Luciano Massari, Arcipelaghi , installazione nella Fortezza di Firmassede, Sarzana

Luciano Massari

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sulla sculturalo studiano. Noi abbiamo molta responsabilità per il lavoro che eseguiamo perché questi oggetti, nel momento in cui escono da questo laboratorio sono opere d’arte che finiscono nei musei e che contribuiscono alla crescita dell’arte contemporanea; siamo felici di contribuire a nostro modo alla storia dell’arte.

Abbiamo parlato della formazione dei giovani che lavorano all’interno dello studio artistico “Cave Michelangelo”, parlaci ora della formazione dei tuoi studenti all’Accademia Albertina di Torino; come intendi il tuo lavoro didattico? Che significa oggi insegnare scultura?Io credo che in accademia ci debba essere lo stesso livello di professionalità che ho cercato di realizzare con questa esperienza a Carrara, questo però vuol dire che l’accademia deve necessariamente disporre spazi, mezzi e tecnologie adeguate altrimenti, senza retorica, non si potrà mai formare i giovani così come facciamo qui. Barattini ha creduto in questo progetto e ha investito; lo Stato non crede nelle accademie e non investe in esse, anzi continua a tagliare finanziamenti. Le accademie italiano possono rappresentare un’eccellenza straordinaria e il mondo sarebbe pronto a riconoscerla ma i nostri governanti non credono nella formazione in generale e neanche nella cultura, non credono che queste cose possano davvero rappresentare il futuro del nostro Paese.Uno studente d’accademia deve essere veramente preparato sia tecnicamente sia culturalmente anche perché se non è dotato di questi strumenti viene manipolato da qualsiasi artigiano. Le aziende devono poter andare nelle accademie per trovare il massimo della ricerca e della competenza, dobbiamo formare generazioni di giovani che siano davvero competitive e per esserlo bisogna attuare una vera rivoluzione di qualità e di rigore dell’insegnamento; le accademie devono tornare ad avere quel prestigio che hanno perso negli ultimi decenni. Noi sappiamo che solo una minima parte dei nostri allievi riuscirà ad inserirsi nel mondo dell’arte, con tutti i disagi e le sofferenze che questo comporta ma tutti gli altri allievi, se ben formati, potranno trovare lavoro in tanti campi di applicazione dell’arte. Inutile parlare di titoli che danno sbocco all’occupazione, l’unico sbocco possibile è attraverso una riqualificazione professionale.Dobbiamo avere professori bravi, gratificati da retribuzioni adeguate e strutture idonee a fare della didattica artistica una formazione davvero alta.L’Accademia Albertina di Torino per fortuna ha un direttore capace di proiettare l’occhio oltre i limiti della siepe però, come in tutte le altre accademie mancano i finanziamenti adeguati per essere attrezzati come dovremmo.Noi dobbiamo formare una generazione di ragazzi che abbia la conoscenza profonda degli strumenti e dell’alfabeto della scultura.

Stai parlando di grammatica?Prima tu stesso hai fatto l’esempio del direttore d’orchestra, come fai ad essere il regista come fai a coordinare i vari strumenti di un insieme se non li conosci profondamente?

Domanda provocatoria: Se l’arte contemporanea si riduce all’idea e se l’oggetto dell’arte può essere eseguito da altri, ha senso ancora avere delle accademie? Tanto vale formare dei bravi tecnici senza pensare di formare dei bravi artisti!Io penso che le accademie non sono una moda e avranno sempre un ruolo importantissimo, io ho studiato all’Accademia di Carrara con il prof. Ticò, Edgardo Abbozzo e poi con Floriano Bodini con il quale ho avuto un’intensa amicizia e lui con quel carattere un pò burbero che aveva mi ha insegnato molto. Io ho fatto tutto, ho raspato, lucidato, ho attraversato tutti i passaggi, da quelli più umili sino poi alla concezione dell’opera; ho fatto davvero la gavetta, con quegli uomini di sessant’anni negli anni ’70, uomini che venivano da una conoscenza ottocentesca della scultura, non intesa come linguaggio ottocentesco ma come profondità di conoscenza dei mezzi specifici del linguaggio stesso. Loro avevano il rispetto dei materiali, il rispetto delle modalità e anche un senso di umiltà nei confronti dell’arte. Io andavo a lavorare anche di domenica nei loro studi, si lavorava con la mazzuola in mano e con il ritmo, la musicalità dei rintocchi degli scalpelli sul marmo e contemporaneamente loro cantavano le opere.

Ma ci rendiamo conto dello spessore che avevano queste persone, della loro cultura e della loro sensibilità nella polvere di un laboratorio? Nel nostro mestiere non si può prescindere assolutamente dalla conoscenza profonda degli strumenti e allora ecco che le accademie diventano insostituibili perché sono gli unici luoghi dove questa formazione si può fare.

Stiamo affermando la necessità di avere laboratori veri ma la tecnica della scultura può essere insegnata separatamente da quella culturale? Il sapere deve essere organico oppure è meglio che sia settoriale?Assolutamente no! La formazione deve essere anche culturale ma l’artista deve avere una conoscenza a 360 gradi della sua professione, il suo deve essere un sapere organico. Per risolvere un problema devi prima di tutto conoscerlo! La nostra disciplina è complessa e non può essere atomizzata; il medico di base deve conoscerti e individuare la tua malattia, solo dopo ti può mandare da uno specialista per approfondire la diagnosi. Noi abbiamo la stessa funzione, siamo come i medici di base ma dobbiamo avere anche competenze specifiche almeno in un ambito.Non dobbiamo frammentare troppo, come abbiamo fatto di recente nelle accademie, andiamo a sovrapporre le stesse informazioni e non ha senso. Il monte ore attuale previsto dalla riforma prima e dal contratto dopo, è assolutamente ridicolo, sembra concepito per distruggere le nostre accademie. Il laboratorio è il cuore dell’accademia e gli studenti devono poterci lavorare tutti i giorni, indipendentemente dall’orario del professore, nei laboratori devono esserci anche i tecnici, gli assistenti, i tutor.Nelle accademie noi stiamo lavorando come dei volontari ma dobbiamo ristrutturare dall’interno il senso del nostro lavoro.

Dobbiamo rifondare le accademie?Dobbiamo veramente rifondarle!

Quali sono i valori principali nel tuo lavoro di scultore?La leggerezza. Ho fatto un’isola di marmo bianco galleggiante in un’altra isola di marmo. Il centro nel centro della terra. Amo il bianco statuario delle apuane e il marmo nero della profondità che viene estratto nelle miniere di carbone. Voglio togliere peso alla scultura e voglio entrare nei sentimenti delle cose, non nella forma.

Sei quasi uno scultore romantico!Voglio sentire l’energia e voglio ridurre al massimo i virtuosismi. Quando ero sull’isola di Pasqua sentivo l’istinto di togliermi le scarpe per sentire l’energia che scaturiva dalla terra e dall’aria, sentivo che la mia pelle si apriva e si sviluppava dentro di me un “sentire” sensibile che abbiamo perso.

Chi è lo scultore che ti piace di più?Non riesco a rispondere, sono tanti, posso dire che da bambino ho conosciuto e lavorato con Henry Moore e poi credo che la scultura sia fatta di piccole cose…

Di piccole cose? E la statuaria? E le montagne con le loro cave dove le mettiamo?La scultura è fatta di ritmo, di musicalità, di suoni, non è fatta di forza ma di intelligenza; noi abbiamo persone nerborute ma con una sensibilità straordinaria

Come Franco Barattini?Franco ha la corazza del gladiatore, i segni che ha nel volto sono le tracce del lavoro duro che ha fatto sin da bambino ma ha un’intelligenza straordinaria e anche un grande cuore.

Per concludere, cosa vogliamo farne di queste accademie? Le chiudiamo?Sarebbe un grande errore! Dobbiamo far frutto del passato ma dobbiamo rinnovarci, forse nessuno se ne accorge o fa finta di non accorgersene ma nonostante tutto siamo invidiati nel mondo.

* Luciano Massari è scultore e titolare di Scultura all’Accademia Albertina di Torino nonchè Direttore dello Studio Artistico Cave Michelangelo

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A cura di Luciano Massari

Qual è il concetto di scultura oggi?Fino a non molto tempo fa poteva sembrare che la scultura fosse silenziosamente sparita dal panorama artistico. Mentre ci si affannava a dibattere sul futuro della pittura, sulla perdita o meno della sua centralità, quella che veramente nel frattempo si era volatilizzata era proprio la scultura. Prova ne sia che una mostra ancora recente, Italics, curata da Francesco Bonami a Palazzo Grassi nel 2008, tra oltre cento artisti italiani dal 1968 ad oggi, non includeva alcuno scultore. Non c’era Spagnulo, non Staccioli, non Mattiacci, Nagasawa, Mainolfi... Non c’erano tutti quegli artisti che negli anni Settanta e Ottanta avevano riportato l’attenzione sulla scultura realizzata con materiali e tecniche artigianali.Del resto Rosalind Krauss, ancora nei primi anni Settanta, aveva scritto Sculpture in the Expanded Field, rilevando come ormai la scultura si stava annullando in due direzioni diverse: l’architettura (divenendo installazione) e il paesaggio (diventando Land Art). E in fondo questa ipotesi è ancora attuale, in quanto oggi la ricerca sulla tridimensionalità si può avvalere di mezzi assai più ampi, che comprendono anche le tecnologie virtuali. Tuttavia, in un momento di ripiegamento, di ripensamento come quello attuale, si assiste anche a un nuovo interesse per la scultura tradizionalmente intesa. Ma tutte le esperienze trascorse nel frattempo

non possono essere passate invano. Ne è un esempio Maurizio Cattelan, che primo tra gli artisti concettuali degli anni Novanta ha recuperato il marmo, come nel caso di All, nove corpi sdraiati come ricoperti da drappi: un monumento orizzontale a un’umanità distrutta. La scultura non è stata qui un vezzo, una decisione peregrina, ma è dettata dalla necessità: il marmo torna quando si cita l’idea di monumento.

Cosa emerge da questa Biennale? Puoi tracciarci un bilancio.Emerge che il tema della tridimensionalità, dello spazio, è ancora vivo e vitale. E in un momento di ripiegamento, in un momento in cui piuttosto che al futuro si preferisce guardare alla storia, questo tema si può dare ancora come investigazione sulla scultura. Molti giovani, per esempio, stanno tornando alla realizzazione di manufatti, anche se spesso non usano le materie auliche della tradizione, ma per esempio il prosaico polistirolo, come Ohad Meromi e Huma Bhabha. Oppure il gesso, il legno e il metallo, come Thomas Houseago.

La tua biennale si intitola Postmonument. Il monumento è morto o ha fatto posto a una nuova monumentalità? Quali sono i nuovi monumenti?

Biennale Internazionale di Scultura CarraraIntervista al direttore Fabio Cavallucci

Maurizio Cattelan Untitled 2010, XIV Biennale internazionale di Scultura di Carrara photo Zeno Zotti.

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sulla scultura Il tema del monumento è un tema forte per chi voglia seguire gli sviluppi della scultura, e allo stesso tempo la storia di Carrara, città che in senso metaforico può essere vista come il luogo in cui i monumenti sono nati, dal David di Michelangelo in poi, e con essi si è sviluppato l’intero sistema simbolico, politico ed economico occidentale.Emblema del potere forte, catalizzatore della memoria collettiva, il monumento ha rappresentato spesso uno strumento in mano ai totalitarismi. L’arte contemporanea, sorta nell’ambito della democrazia, l’ha combattuto, così come spesso le società democratiche nate dalle rivoluzioni libertarie l’hanno abbattuto. L’arte degli ultimi decenni è stata principalmente unmonumental, come recita il titolo della recente mostra di apertura del nuovo edificio del New Museum a New York, dalla quale provengono anche alcuni degli artisti presenti a questa edizione della Biennale di Carrara, come Carlos Bunga, Sam Durant, Urs Fischer. Ma in questo clima di crisi dei valori, e di fine forse della storia, nel deserto delle ideologie che si è ormai creato, qualcuno cerca anche di ritrovare dei punti di riferimento. E’ il caso di Maurizio Cattelan o di Gillian Wearing. E’ il caso anche di Paul McCarthy, che a Carrara ha consolidato in pesante travertino un monumentale escremento che altre volte aveva realizzato in resina. E in questa quantità di produzioni monumentali o antimonumentali, si sono scoperti degli aspetti molto interessanti. Maurizio Cattelan a Carrara ha tentato la sostituzione di un monumento: ha proposto di cambiare la statua di Mazzini collocata da più di un secolo in Piazza dell’Accademia con quella di Bettino Craxi. E’ stato come una cartina di tornasole dell’importanza

del monumento al giorno d’oggi: di solito nessuno pare prestare attenzione ai monumenti, di cui spesso non sappiamo nemmeno chi sia il soggetto rappresentato. Ma se qualcuno prova a toccarli, andando a sfiorare le radici ideologiche più profonde di una comunità, allora si scoprono cose interessantissime. A Carrara, per esempio, i mazziniani sono risorti, si sono moltiplicati, hanno avviato proteste, aperto gruppi su facebook, minacciando di incatenarsi al monumento se qualcuno avesse provato a spostarlo. Insomma, un tema che sembrava estinto, si rivela invece ancora importante per indagare lo sviluppo, non solo dell’arte, ma dell’intera nostra società.

L’uso del marmo nell’arte contemporanea: fine di un’epoca o nuovo vigore?Non credo che il marmo tornerà ad essere un materiale centrale della scultura: purtroppo le sue qualità si scontrano con l’economia e con la necessità di tempi brevi di produzione. Certo, quando un artista vuole significare qualcosa che lo ricollega al passato, alla storia dell’arte, alla storia stessa dell’umanità, allora il marmo è uno strumento fondamentale: non solo una materia, ma un mezzo concettuale.

Antony Gormley, 2x2, 2010, veduta dell’installazione, ex laboratorio Corsi-Nicolai, Carrara, ph. Valerio E. Brambilla

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Marco Meneguzzo “La scultura italiana del XXI secolo”, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano

Curata da Marco Meneguzzo, La scultura italiana del XXI secolo presenta le opere di 80 artisti, tutti nati nella seconda metà del secolo scorso, dagli ormai storicizzati Nunzio e Dessì, agli esponenti delle generazioni più recenti, quali Cattelan, Bartolini, Dynys, Esposito, Arienti, Moro, Beecroft, a quelle ancora più giovani, con Cecchini, Sissi, Demetz, fino alle ultimissime come Sassolino, Simeti, Previdi, Gennari. L’esposizione, che si pone in linea di ideale continuità con quella del settembre 2005, testimonia delle più diverse espressioni di quella che si potrebbe configurare come “la nuova tendenza della scultura”, oggi la disciplina più difficile da definire: i linguaggi si sono definitivamente ibridati, i codici tradizionali sono stati rapidamente abbandonati negli ultimi trent’anni, e quella che era la disciplina artistica più “certa” nelle definizioni è divenuta di fatto la più incerta.Infatti, la scultura oggi rientra nel campo del transitorio tanto che quella pretesa di durata, segnata dall’uso di materiali quasi eterni come il bronzo e il marmo, rischia di essere percepita come anacronistica non solo dall’artista, ma anche dal suo pubblico.

Intervista a cura di Giulio Ciavoliello

GIULIO CIAVOLIELLO Persistono, anche se meno che in passato, i generi: pittura, scultura, fotografia, che non sono più nettamente identificabili. Da sempre la scultura è la categoria artistica più aperta. E’ tridimensionalità, spazio, ambiente, fino a includere la temporalità, nei casi in cui è anche performativa, quando si fa corpo e azione. La tua mostra ne prende atto.

MARCO MENEGUZZO Certo, l’ipotesi critica pone come assunto iniziale la fusione dei linguaggi e delle discipline linguistiche, che ormai viene da lontano, ma l’intenzione è stata quella di verificare

se, nonostante i confini linguistici siano stati erosi, confusi, nascosti, esistano ancora categorie critiche, magari prese da quelle tradizionali suddivisioni, che possono ancora essere usate per una nuova, più ampia, e più vaga definizione di una disciplina. In una frase: si può ancora parlare di scultura? Oppure, ancor più radicale: esiste ancora la scultura?

Come hai scelto artisti e opere da includere? Comprendo come tu ti sia orientato in una scelta, particolare e variegata, dei più giovani. Faccio fatica a comprendere come ti sei orientato nella

Vanessa Beecroft, Gambe nere, VB.M.03.2010, marmo, cm 113x121x93Courtesy Galleria Massimo Minini, Brescia. Foto Reinhold Kohl

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sulla scultura

scelta dei meno giovani, i nati negli anni Cinquanta. Fra l’altro, il dato anagrafico potrebbe essere fuorviante: un ottantenne potrebbe essersi affacciato al XXI secolo con una freschezza di linguaggio che un trentenne non necessariamente ha. Hai ragione nel dire che il dato anagrafico può essere fuorviante, ma in una mostra a così ampio respiro è assolutamente necessario ritagliare un ambito “oggettivo” entro e da cui operare, e il dato anagrafico è in questo senso il più neutro che esista. E’ vero che potrebbe esserci un ottantenne, come dici tu, più “fresco” di un trentenne, ma al massimo questa potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola. Che so, nel panorama americano mi viene in mente Louise Bourgeois. Ma se non esiste questa eccezione, o se ne esistono molte, come ad esempio gli artisti dell’Arte Povera, che in questo panorama mostrano di essere i maestri di molti giovani, il rischio è quello di fare un’altra mostra, non più tagliata sull’assunto iniziale. Se metto Penone devo mettere anche Zorio, e se metto Zorio devo mettere anche … La mostra del XX secolo l’ho già fatta.

Lo spazio della Fondazione Pomodoro è molto bello, nella sua evidenza di luogo industriale che ha cambiato destinazione d’uso. Tuttavia è uno spazio difficile dal punto di vista curatoriale. Credo che anche un artista che vi deve preparare una personale abbia delle difficoltà a interagirvi. Tu lo conosci bene, anche perché vi hai lavorato sin dall’apertura, con la mostra “La scultura del XX secolo”, ideata dal padrone di casa, il maestro Arnaldo Pomodoro, e realizzata con te. Come ti sei regolato, allora ma soprattutto ora?Lo spazio della Fondazione è difficilissimo, perché l’architettura è potente, ed è stata esaltata dal recupero operato dall’architetto Pier Luigi Cerri. Così accade che gli scultori si sentono spesso in dovere di misurarsi con l’architettura, e il confronto è sempre rischioso. Arrivo a dirti che lo spazio è forse più adatto a mostre di pittura! Per questo motivo, sia cinque anni fa che adesso, ma adesso ancor di più, ho optato per un “non allestimento”, per assemblare cioè una sorta di “deposito”, dove le opere fossero ben visibili ma non necessariamente isolate. Avevo in mente le foto del Deposito d’arte presente, a Torino nel 1967, che mostravano le opere in questo modo, e mi pareva di poter usare la stessa meditata “disinvoltura”.

Sia la mostra di allora che quella di adesso sono incentrate sull’arte italiana, un’arte che soffre del limite di non essere adeguatamente riconosciuta fuori dai confini nazionali. E sappiamo che questo accade anche indipendentemente dalla qualità del lavoro.

Esiste forse ancora qualche peculiarità culturale italiana, ed è per questo che mi sono basato sull’arte italiana. Se poi aggiungi il fatto che vorrei sostenere l’arte che si produce qui, e che merita anche a mio avviso maggior visibilità internazionale, credo che l’assunto si rafforzi. C’è poi un’analogia con la mostra di cinque anni fa, e il desiderio di fare il punto su una situazione in modo duplice: orizzontale, con l’assunto culturale, geografico, politico italiano, e verticale, con una scelta di qualche generazione. Il che mi permetteva di andare più a fondo su certe questioni, e sai che le questioni delle mostre sono anche le opere e gli artisti. Se avessi optato per una scelta internazionale, si sarebbe trattato della solita mostra coi soliti nomi, e non avrei potuto inserire anche degli outsider come ho fatto qui. Invece, la scelta di cercare in Italia mi pare possa consentire anche da parte di chi non conosce appieno la nostra situazione di conoscerla meglio. Magari questo permette di approfondire la conoscenza di artisti che non hanno avuto la fortuna di essere in pochissime gallerie italiane di respiro internazionale, che hanno perciò qualche possibilità di proporre le proprie scelte in mostre collettive ampie, o con personali in qualche galleria europea e americana. Infine, ma non ultimo nella considerazione, una mostra internazionale avrebbe comportato costi insostenibili.

Per le difficoltà di un sistema italiano dell’arte non si può parlare solo di limiti economici, ma sicuramente le grandi limitazioni economiche di questo momento creano difficoltà enormi. La Fondazione Pomodoro vive un momento difficile. La mostra è stata prodotta con sforzi.La mostra è stata prodotta con grandi sforzi e con pochi mezzi economici. Del resto, anche in cucina, si sopperisce alla mancanza di ingredienti costosi e “ricchi” con la qualità e la quantità del lavoro del cuoco. Devo dire che in questo caso tutti gli artisti presenti, che sono stati contattati, messi al corrente delle intenzioni e coinvolti nella mostra, hanno compreso perfettamente la situazione e, insieme ai loro galleristi e collezionisti, ci hanno dato una mano per alcuni costi tecnici, come i trasporti. Non ho preso nessun lavoro senza che gli artisti lo sapessero. Ma proprio per questo, in un momento in cui Milano mostra di avere un progetto debole di esposizioni, se non debolissimo, abbiamo voluto dimostrare che prima viene il progetto, poi i soldi. Prima viene l’idea e, se questa è buona, la realizzazione trova il consenso di molti. In tempi di crisi non si può far altro che rilanciare, come al poker.

*Marco Meneguzzo e Giulio Ciavoliello sono entrambi docenti di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Brera

Perino & Vele, Don’t disturb, 2000, cartapesta, ferro, gel coat, lampadina,cm 129x420x180. Art Collection UniCredit

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Alik, Il racconto dell’universo di Elena Pontiggia

Mi racconta Vincenzo Ferrari, che di Alik è stato amico e compagno di lavoro per anni: “Ero arrivato a Brera da due giorni e lui ha voluto subito conoscermi. Quell’interesse è l’indizio di un’umanità che oggi è raro trovare. E, intendiamoci, come faceva con me faceva con tutti. Tra noi, certo, è nato un sodalizio che poi è durato tutta la vita, ma la sua disponibilità si indirizzava a tutte le persone che incontrava. Alik è stato in disaccordo con tanti, ma ha sempre rispettato tutti, ha avuto stima di tutti”.Posso anch’io confermare il racconto di Vincenzo. E potrei raccontare (ma meglio di me potrebbero farlo gli amici Giuseppe Bonini, Gabriella Di Milia, Corinna Ferrari, Luisa Somaini, coinvolti anche loro, un paio di decenni fa, in un ottuso cavillo burocratico, per cui il Ministero ci aveva improvvisamente privati della cattedra in Accademia, dopo che insegnavamo da anni e avevamo anche vinto un concorso) quanto Alik ci sia stato vicino in quell’occasione. E in tante altre.Del resto la sua opera, ripensata oggi in tutta la sua complessità, ci appare come una meditazione tra le più vaste della scultura del dopoguerra. Nella sua ricerca Alik ha considerato l’uomo, avvicinandosi a una filosofia che potremmo definire esistenziale; ha osservato la natura nel suo slancio vitale, nella sua vulnerabilità, nella sua metamorfosi; ha riflettuto sul rapporto fra l’arte e la memoria, fra il cosmo e il caos, fra la verità e l’artificio. Se più di un artista si è definito pictor-philosophus, Alik ha incarnato la figura dello sculptor-philosophus, tra i più profondi e insieme lievi e ironici della sua generazione.Pochi artisti, come lui, hanno allargato lo sguardo su tanti temi. E il dato è ancora più singolare se pensiamo che il suo lavoro non si traduce mai in un contenutismo letterario, in un concettualismo disinteressato all’esecuzione dell’opera, ma coltiva un’attenzione ostinata alla concretezza della scultura e alla suggestione dei vari materiali. “In quarant’anni ho usato le stoffe, il legno, la carta, le

parole, l’acqua (più volte), la luce, la fotografia, i metalli (e nel campo dei metalli: ferro, bronzo, acciaio, rame, argento, ottone, alluminio, piombo, ghisa, similoro e anche l’oro[…]), la porcellana, la ceramica, la terracotta, la terra refrattaria, gli ingobbi, il vetro, lo specchio, la plastica (e nel campo delle materie plastiche: poliestere, poliuretano, polimetilmetacrilato, polivinilcloruro), il marmo (graniti, arenarie, beole, lavagna), materiali lucidi e opachi, oggetti trovati, recuperati saldando, fondendo, assemblando”, ha scritto lui stesso. L’uomo, dunque. Dagli esordi fino alla metà degli anni sessanta abitano nelle sue opere figure di lavoratori, ma anche bambini, antenati, protagonisti di una preistoria visionaria o comparse di un presente familiare, come nel ciclo di Gustavo B. che racconta la giornata di un Ulrich dei nostri giorni. Eppure l’interesse per le vicende e il destino degli uomini, che si esprime in un esistenzialismo venato di ironia, affiora nella ricerca di Alik anche quando l’uomo non compare. Negli anni sessanta, che costituiscono una delle sue stagioni espressive più alte, i soggetti delle sue opere riguardano soprattutto la natura, ma l’uomo vi è costantemente adombrato. Cavaliere scolpisce ora un mondo insieme vegetale e minerale, un universo di fiori, radici, cespugli, frutti, una vita germinante anche se insidiata dalla morte. Per lui però la natura non è l’altro da sé, come pensavano i romantici, ma è il nostro stesso io. La natura è l’uomo: la sofferenza e il male di vivere di una foglia o di un albero ci rivelano il nostro stesso male, come la loro energia che insiste a perpetrarsi, nonostante l’asprezza delle circostanze, è una metafora della nostra energia, dei nostri ideali, delle nostre illusioni.L’uomo, poi, è il soggetto sottinteso anche dell’ultima stagione espressiva di Cavaliere, quando, dalla fine degli anni settanta, la sua opera si concentra sui temi della memoria e del tempo, della classicità e del mito, dell’arte e del simulacro.

ALIK CAVALIERE

Immagine ripetuta, 1966, bronzo, 49x70x32,5 cm

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maestri storici

Il lavoro di Alik, insomma, si configura come un’enciclopedia dell’uomo che si allarga fino a diventare un’enciclopedia dell’universo: un’indagine concitata e stupefatta su ogni aspetto del divenire. In questo senso tutta la sua ricerca è animata da un’aspirazione all’infinito. Alik esplora prima di tutto l’infinito della natura: quella che i filosofi chiamano la natura naturans, che genera la vita e la trasforma, suscitando incessanti metamorfosi. Ma esplora anche l’infinito dei miti: i miti inesauribili di Apollo e Dafne, di Pigmalione, di Narciso, oltre a quelli, più dimessi, nati dall’esistenza quotidiana. E non dimentica l’infinito della memoria, attraversando il tempo e dialogando con la classicità, il Rinascimento, il barocco, l’illuminismo, sentendoli vicini e contemporanei. Perché, come diceva Picasso, in arte non esiste passato o futuro, ma solo un eterno presente. L’infinito a cui tende Cavaliere non è mistico, ma vitalistico: è l’infinito di un poeta da lui amatissimo come Lucrezio, per il quale la natura non ha limiti e ogni cosa, anche la più piccola, è formata da particelle inesauribili; è l’infinito di filosofi altrettanto amati come Giordano Bruno e Campanella, per i quali terra e cielo non hanno confini, e immensi sono il numero dei mondi e la sensibilità delle cose vive; è l’infinito fantasioso dell’Ariosto, che arriva sulla luna cinque secoli prima degli astronauti e tesse un racconto d’arme e di amori che non ha termine.Per esprimere quel senso di infinito, che per un italiano di sangue russo come lui (sua madre era di Yalta) coincide anche con un senso barbarico e mediorientale di horror vacui, Cavaliere ha coniugato realismo e surrealismo, fisica e metafisica. Ha guardato a De Chirico, a Magritte, a Duchamp, comprendendo precocemente che il significato dell’opera è tanto più inafferrabile quanto più l’imitazione della realtà è precisa. Il mestiere prodigioso con cui ha trattato, in particolare, il bronzo (che per sapienza artigianale può richiamare i maestri del Liberty e dell’Art Nouveau), gli è sempre servito per potenziare la dimensione di

ambiguità illusionistica della scultura. Perché in arte solo la falsità è vera, anzi è più vera della verità.Se il soggetto è infinito, anche il linguaggio deve esserlo. La scultura, allora, non può essere un oggetto o una forma chiusa: deve essere una forma aperta, anzi una scena aperta. L’opera, amava dire Alik, è un “non concluso”, come ogni cosa che vive. In questo senso la sua ricerca, che prende le mosse da Picasso, dialoga con l’esistenzialismo di Giacometti, ha punti di contatto con il neo-dada, la Pop Art e il Nouveau Realisme, rimane un episodio singolare nel panorama artistico del suo tempo perché, più che una forma di scultura, è una forma di teatro, anzi un teatro della scultura. E’, insomma, un racconto e un racconto scenico. E, come ogni opera teatrale nasce da numerosi artefici, così Cavaliere lavora spesso a più mani, a cominciare dalle opere nate dall’intenso sodalizio con Vincenzo Ferrari.Ma, potremmo chiederci a questo punto, a quali conclusioni approda tutta la sua meditazione, tutto il suo racconto, tutto il suo teatro? Forse a un sistema filosofico, a uno scrutinio razionale, a una verità ultima? Tutt’altro. Come si coglie soprattutto nelle opere più tarde, l’approdo estremo di Alik è la constatazione della sostanziale incomprensibilità delle cose.Per esprimere il loro enigma, allora, adotta come metodo l’anarchia, il “lasciatemi divertire” di ascendenza palazzeschiana e dada, in un caos rigoroso che mantiene inalterato il suo fascino.

*Elena Pontiggia è titolare di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Brera.

Bozzetto per Metamorfosi, 1957, bronzo, 16x34x11cm

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Conversazione tra Vincenzo Ferrari ed Elisabetta Longari

E.L: Senti Vincenzo, questa mattina mi sono recata all’Hangar Bicocca a vedere la prima fase, il primo capitolo di “Terre vulnerabili”, una mostra prevista in quattro diversi momenti e concepita come un organismo vivente, come una pianta o un albero, che cambia con il tempo, che non si cristallizza il giorno dell’inaugurazione, come ha ricordato la curatrice Chiara Bertola. Non ho potuto fare a meno di pensare immediatamente alla mostra tenuta da Alik e da te nel Salone Napoleonico del Palazzo di Brera, “Le eterne leggi dell’arte” (1993). Era una macchina espositiva in progress, qualcosa di strabiliante che immetteva lo spettatore in una fitta rete di rimandi, e anch’essa, se non sbaglio, si sviluppava in quattro diversi momenti.V.F: Quella mostra è stata uno dei momenti conclusivi del nostro sodalizio iniziato poco dopo il mio arrivo a Brera. Questo tipo di

incontri è ormai difficile che possa accadere in un’accademia così grande come la Brera di oggi, ma allora fu possibile poiché il corpo insegnanti era ridotto e anche perché personaggi come Alik sono rari se non irripetibili…

Che anno era?Eravamo nel Settanta. Pochi giorni dopo il mio arrivo, Alik ha voluto conoscere il nuovo “acquisto”. Ci siamo presentati e ricordo che mi sono sentito perfettamente a mio agio con lui. Mi ero diplomato all’Accademia nel 1965 con Usellini… un altro personaggio straordinario.

Se tu dovessi dire in una frase la lezione o il ricordo di Usellini, cosa ti ha passato? Che cosa ti è rimasto?

Quanto ci manca Alik e divagazioniL’albero, 1967-68, bronzo, 281x171,5x102 cm

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Se devo dirlo in poche parole potrei dire che mi ha insegnato a guardare il mondo e a capire il valore di una cultura attiva, non da salotto. Anche con Usellini ho avuto un lungo periodo di collaborazione. Andavo nel suo studio e lo aiutavo a disegnare le architetture dei suoi quadri. Da lui ho imparato moltissimo e pur avendo fatto lavori completamente diversi, a distanza di anni mi sono reso conto di quanto invece fossimo vicini.

Ma in che senso? Io a tutta prima non riesco a vedere una relazione tra il suo e il tuo lavoro…Per esempio in Usellini c’era sempre un apparente racconto, ma era un racconto che non aveva né un principio né una fine, era un gioco di elementi simbolici. E, non a caso, gli elementi simbolici attraversano tutta la mia produzione. Rivedendo quello che ho fatto sino ad ora

e quello che sto facendo, riconosco questa eredità intellettuale di metodo di lavoro, oltre a una grandissima eredità culturale.È stato un vero Maestro.

Non sospettavo neppure questo inatteso e interessante legame, che magari approfondiremo in un altro momento, e torniamo ad Alik…Dopo il nostro incontro ci siamo trovati in sintonia e abbiamo subito capito che avremmo potuto condividere prima di tutto tante idee sull’Accademia e sulla sua gestione e al contempo interessi nell’ambito propriamente artistico. E ciò è accaduto. Già nel 1975 abbiamo incominciato la nostra grande avventura che verteva su questa idea di attraversare il tempo.

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Parlane!Devo dire che gli amici ci chiamavano “i fratelli dinamite” perché, da Tadini a tutti gli altri, dicevano: “sono capaci di spendere giornate intere a elaborare idee artistiche per poi metterle immediatamente in crisi e distruggerle …”

Questa è proprio un’attitudine molto presente negli artisti durante gli anni Settanta… favorire il processo d’esperienza e il confronto a detrimento della preoccupazione per l’esito finale, per l’eventuale manufatto, per il prodotto, insomma.Il lato comico è questo, che e distanza di tempo ci si rendeva sempre conto che quello che realizzavamo, per le ragioni più varie, finiva col perdersi materialmente: facevamo lavori che avevano una durata brevissima. Ad esempio, a Palazzo Reale in occasione della mostra sulla Patafisica e il Surrealismo, abbiamo dipinto e disegnato i nostri lavori direttamente sulle pareti delle due sale che ci erano state assegnate, così a fine mostra tutto è stato scialbato e perduto. Oppure, in occasione di altre mostre, assemblavamo pezzi di nostri lavori per costruire opere che a fine mostra venivano smontate e eventualmente riadoperate per altre realizzazioni. Abbiamo adottato questo metodo anche per “Le eterne leggi dell’arte” di cui non è rimasto niente.

Ecco, in questo atteggiamento riconosco un aspetto che connota la nostra contemporaneità attuale. La proposta del fatto che l’esperienza della condivisione, quello che si crea nel momento in cui si vive, la flagranza di quella cosa lì è il fare, dopo di che restano, mi viene da dire, quasi dei detriti che vengono impiegati per fare qualcosa d’altro e poi ancora qualcosa d’altro… gli elementi si trasformano in contesti differenti. Quindi, come dire, un lavoro in netta antitesi con l’idea della grandiosità eterna del monumento, ma vicino invece alla sensibilità attuale, impregnata la coscienza che ogni volta tutto è continuamente da riassestare, da mettere nuovamente in discussione.La qualità del nostro condividere gran parte della nostra esistenza lavorativa consiste nel fatto che abbiamo lavorato cercando di utilizzare io gli strumenti di Alik e Alik i miei, al fine di integrare le esperienze per costruire un metodo di lavoro. Ne abbiamo fatte di cose insieme! Le eterne leggi dell’arte è stata l’opera più eclatante, ma potrei citare anche il Pigmalione, un’esperienza che è durata a lungo. E ancora, il Teatro portatile, il

primo lavoro che abbiamo fatto assieme consistente in un teatrino che cambiava nell’allestimento ogni volta che veniva montato per un evento. L’abbiamo portato molto in giro ma il suo destino è stato quello di finire distrutto sotto le macerie del tetto dello studio di Alik che non resse a una delle grandi nevicate milanesi. Tutto il resto dei nostri lavori era materiale recuperato momentaneamente da altre opere. Ad ogni modo, tornando a quella che io reputo la parte interessante della nostra esperienza, è stata la capacità di fondere l’esperienza amicale e quella lavorativa in un tutto inscindibile. Ecco, il lavoro che abbiamo fatto con Alik è stato questo, ed io trovo di grande attualità questa capacità di costruire un rapporto in cui la parte artistica non è asettica ma si lega all’esistenza dell’altro. Questo secondo me è l’aspetto che gli amici non hanno mai veramente capito e che invece era il nocciolo della questione. Vorrei anche dire che, con un certo anticipo sui tempi, Alik ed io abbiamo cercato tenacemente di riferirci sempre alla memoria e di partire da essa. Dietro a ogni lavoro c’era infatti uno studio, un approfondimento. Per fare un esempio, dietro Le eterne leggi dell’arte c’era tutto il percorso artistico-filosofico della cultura occidentale: il primo momento della mostra (che era in quattro diverse fasi) metteva in scena la classicità divisa in due, in cui Alik interpretava l’aspetto dionisiaco e io quello apollineo; poi seguiva il momento dell’ellenismo in cui l’apollineo e il dionisiaco si mescolano e creano un rapporto di transizione. Il terzo momento metteva in scena la romanità, in cui si attua una ripresa della classicità greca per tentare di ricostruirne, esasperandole, le caratteristiche salienti. Il quarto momento era il Museo, dove abbiamo schedato, catalogato, classificato e inventariato tutti i lavori che diventavano in questo modo reperti, isolati e “congelati” in certi cassetti di legno e smembrati dall’insieme vitale precedente. Io la ricordo come una delle mostre più intelligenti ed emozionanti che ho mai visitato. Rappresentava il percorso estetico del pensiero occidentale con chiarezza espositiva ed esuberante verve narrativa.

Ritratto di Alik Cavaliere

Particolare dell’allestimento “A e Z aspettano l’amore”, 1971 Photo Walter Mori

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Ci muoveva il desiderio di stimolare l’esercizio della memoria e non contribuire a creare una falsa frattura tra la modernità e la classicità, anzi dimostrare la continuità e mostrare il fatto che l’una deriva e dipende dall’altra. La classicità ha un senso che produce il futuro e il futuro ha senso se è in grado di recuperare la memoria.

La complicità tra te e Alik, o meglio, il vostro sodalizio, in che misura si basava sulle differenze piuttosto che sulle affinità? In che misura era trainante non tanto l’effetto-specchio quanto l’alterità ricercata in una pratica metodologica atta a perseguire sistematicamente un’uscita dal narcisismo dell’artista? A questo proposito abbiamo realizzato insieme anche due progetti: Narciso e Pigmalione… Proprio nel Pigmalione, Alik ed io avevamo costruito ciascuno il proprio “autoritratto” (non un ritratto tradizionale ma un oggetto elaborato capace di rappresentarci) con l’uso di frammenti di specchi e poiché erano posizionati quasi l’uno di fronte all’altro, da determinati punti di vista, guardando l’”autoritratto” di uno si vedeva un parziale riflesso dell’altro. Ciò implicava ancora una volta che la memoria completasse il “quadro” sempre incompleto.

Innegabilmente avete toccato dei gangli della nostra cultura e avete sempre obbligato lo spettatore a svolgere un cosciente lavoro di carattere interpretativo.Quello che ci teneva uniti era la convinzione di entrambi che la qualità del fare artistico era determinata dalla qualità delle domande che esso implicava. La verità è proporzionale solo alla qualità dell’interrogativo. Quindi fra noi ci scambiavamo gli interrogativi per smontarli e sostituirli con altri sempre più appropriati. Su questo aspetto sono rivelatori i taccuini di Alik che sono costellati di notazioni sui nostri incontri attraverso le riflessioni che poi lui alla sera, terminata la giornata di lavoro assieme, riportava. Ricorre spesso la considerazione: “Non capisco Vincenzo, con questa sua intelligenza vivace, perché si irrigidisce su certe cose…”: Io non ho mai tenuto diari, ma a mia volta rimuginavo dicendo: “Ma perché Alik ha sempre bisogno dell’interrogativo continuo che comporta che tutto sia sempre gettato sul fronte sociologico?”. Cioè la realtà è molto più astratta di quanto non sia la quotidianità degli oggetti, della cose e della carne.

Ci sono ormai diversi autori che lavorano in coppia, ma voi eravate irripetibili perché insieme eravate molto assidui nel proporre progetti comuni pur mantenendo comunque ciascuno le proprie caratteristiche individuali. Sembravate retti dalla volontà di articolare, amplificare maggiormente i temi attraverso l’interazione.Il sodalizio con Alik è stato uno dei più importanti e intensi della mia vita. Dopo l’incidente sono stato in rianimazione all’ospedale di Sondalo per due mesi e Alik veniva regolarmente a trovarmi. Ma già alla prima visita, la prima cosa che gli dissi fu che avevo pensato che avremmo dovuto fare quanto prima una rivoluzione del nostro modo di lavorare, perché era finita l’epoca del lavoro del manufatto, e gli esposi lucidamente le mie idee. Mi ha riferito poi Adriana che lui, tornato a casa, le disse: “Adriana, io Vincenzo non lo mollo più. Non si sa se viva o se muoia ma pensa solo al lavoro”. E poi invece, nell’ottobre dello stesso anno, si ammalò e ai primi di gennaio

dell’anno successivo, 1998, ci lasciò. È superfluo dire che ancora oggi mi manca moltissimo anche se lo sogno spesso e con lui ancora progetto lavori.

Se ti chiedessero di restituire un’immagine, un momento indimenticabile tra i tanti che avete vissuto…?Ci avevano chiesto di inaugurare un museo a Capo d’Orlando e per questa occasione avevamo realizzato una mostra con Elena Pontiggia sulla classicità. Mentre eravamo lì per l’allestimento, Adriana ci dice che l’indomani sarebbe stato il compleanno di Alik. Allora io ho dipinto d’oro, tutta d’oro, una scala di quelle da imbianchini, di quelle cioè su cui si può salire da entrambe le parti. Poi ho fatto fare una torta che era una spirale tridimensionale, per cui il pasticcere era impazzito. Ho messo la torta in cima alla scala e ho obbligato Adriana e Alik a salire una da una parte e l’altro dall’altra per andare a prendere la torta e tagliarla. Per l’occasione Alik, che aveva capito che qualcosa bolliva in pentola per il suo compleanno, si era sparso sull’abito della porporina… Ci siamo divertiti da matti. C’erano anche Nagasawa, Ceretti, Garutti…

A propostio di Garutti, l’ho visto proprio stamattina, ed esponeva uno dei lavori più interessanti della mostra all’Hangar Bicocca, con un titolo notevole: Opera dedicata a chi guarderà in alto, composta da una fotocopiatrice che dall’alto “sputa” ogni tanto un foglio A4 che volteggia leggera nello spazio, rendendo percepibile il volume, la cubatura, l’altezza vertiginosa del contenitore… ma anche un tempo e un ritmo sempre diversi. Un lavoro fatto “di niente”, che fa i conti con la fragilità e nonostante ciò, o anzi, proprio perciò, riesce a convivere con la grandiosità della “sublime maceria” che sono i Sette Palazzi Celesti di Kiefer. Inoltre Garutti dice che questi fogli caduti possono anche essere utilizzati da chi volesse appropriarsene, magari da Arienti che ha un lavoro lì accanto e che spesso si esprime con una tecnica simile all’origami. Ti ripeto, la mostra inaugurata questa mattina all’Hangar si colloca nell’ambito di una perfetta continuità con le problematiche messe sul tappeto dalle mostre fatte da te e Alik, e specialmente da Le Eterne Leggi dell’Arte. La qualità dell’arte sta nel senso, non nel significato.

Un’ultima domanda su Alik. Che cosa ha rappresentato dentro a Brera?Alik è stato una figura fondamentale. Ha permesso a tutti di avere la consapevolezza che l’Accademia di Brera fosse una cosa importante. È stato veramente un uomo appassionato di Brera.

* Vincenzo Ferrari è artista, è stato titolare di Decorazione all’Accademia di Brera

Alik e Sangregorio Alik e Marino Marini

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Dal taccuino X:

“Marini citava l’esempio dell’albero: ‘io sono vicino alle radici. Non posso allontanarmi e devo trarne sostanza. Ma i ragazzi oggi sono in cima su punte sottili, antenne’. Io ho la fortuna di stare a mezzo, Sento [sic] il vento che piega le punte e le agita e colgo ancora il profumo della terra e la consistenza delle radici. E tutto sommato mi pare che il ramo su cui mi appoggio sia abbastanza solido da reggere al mio peso. Non è un ramo morto”.

Dal taccuino n. 32:

[…] questa mostruosa scuola, immobile, museo immutabile dove io penso (e anche gli altri) di muovermi e sono mummia, sono già una bara, con il golfalone dietro, nell’aula di anatomia e se mi va meglio una targa nel corridoio. Scuola che mi assorbe un tempo ampio, ma che anche mi ‘ruba’ energie”.

Dal taccuino XV:

“Non voglio passare la vita intera nella stessa camera! Veramente come impiegato dello stato, come al catasto, che noia.Eppure mi piace sia insegnare, sia quella stanza. Odio solo i muri dei corridoi, i personaggi che vi sono morti (non quelli delle lapidi) o che morti sembrano già. I ragazzi spesso sono simpatici, con le loro illusioni, i loro entusiasmi - quando raramente ne hanno”.

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onianze“Sono tornato ad Ariosto per guardarmi allo specchio”.Alik ha lasciato molti taccuini che documentano le sue riflessioni sul senso del fare. Sono “diari misti” di grande fascino pittografico: in mezzo a treni di parole improvvisamente si animano forme inattese. Uno di questi, che ha per oggetto principale la figura di Orlando di Aristo, è stato sce]lto dalla moglie Adriana perché venisse sottoposto a un trattamento speciale con l’intento di restituirlo in formato digitale per renderlo mostrabile e consultabile. Ha chiesto consiglio alla sottoscritta che l’ha indirizzata al Dipartimento di Nuove Tecnologie per l’arte dell’Accademia di Brera, nella persona del prof. Tullio Brunone. Il taccuino documenta l’approccio di Cavaliere al tema nel periodo compreso tra il 15/10/1993 e il 18/4/1994. Gran parte degli spunti sviluppati tra le sue pagine rappresenta la prima idea per la creazione degli acquarelli di grande formato presentati a Milano nel 1994 alla Galleria Arcadia Nuova (dal 1/2/1994 al 18/3/1994) con il titolo Res enim est amor quae ipsam imitatur naturam. L’incontro di Alik con Orlando furioso di Ariosto è stato particolarmente fecondo e duraturo, probabilmente, come conferma la frase posta come occhiello al testo, perché sembra sia avvenuto sotto il segno di un riconoscimento, sulla coscienza di una “condivisione a distanza” di una fervida, generosa e ironica immaginazione, particolarmente esuberante nel narrare accadimenti sorprendenti con un gusto spiccato per il sublime e il grottesco.

Elisabetta Longari

“Ho usato le mie mani e quelle degli amici (ho lavorato con Scanavino, Ferrari, Tadini, Piccoli, Sangregorio, e altri artisti) per eseguire opere insieme”.

“Raccontare mi è sempre piaciuto. Raccontare per allusioni, per sottointesi, per metafore usando più strumenti e più possibilità di interpretazione è una cosa che mi ha sempre affascinato, anche per rispetto di chi guarda, che non deve essere posto davanti all’assoluto, al chiuso, al perfetto, ma a qualche cosa che lo coinvolga, lo stimoli; e se trova l’errore tanto meglio, perché è il punto da cui ripartire”.

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Alik Alik apparenel volo dei suoi sognimani leggere nella forza della passioneplasma alberi come fossili antichicon frutti verdi di bronzo remotobruciati dal fuoco del tempo sospesole sue radici affondano nel cielo profondocome contorte saettedi rami recisi

Pietro Coletta

Frammenti per Alik CavalierePlatonica è stata la mia scelta iniziale, risposta a una chiamata mai pervenutaaccolti nell’ambita Scuola il Maestro tra noi ascoltava.Spiazzanti e acuti interrogativi terremotavano i nostri sogni giovanili.Isola felice è stata la nostra aula 47, rifugio partigiano. Svecchiare gli insegnamenti il tuo obiettivocon Boriani, Leonetti, Sanesi e Veronesi a nostro nutrimento.D’ironia surreale ci hai alimentatotra dubbi e contraddizioni servito il sapere quotidiano.Ricordo l’inaspettata paga dopo l’impronta di Rosi modella di tante opere,e ancora mi rimane il ricordo del lutto di un inverno nevoso, di Bocconi era la via, mai più luogo ha colmato la ferita.“Gustavo B”, i racconti, i processi, gli alberi dall’unico frutto luccicantehanno infiammato discorsi di fantasie e rivoluzioni.Ora ti rincontriamo, con Adriana e Fania ad ascoltarele piante bronzee nell’orto giardino.Fortunati noi che abbiamo goduto del sapere moderno di un Maestro generoso.

Pino Di Gennaro

Nel giardino di AlikAbbiamo ricreato nella ricerca calchi e sinopie di sognimutanti forme dell’immaginariocome ipotesi testimonialiall’ombra di possibili veritàdialogando con gli eventinel giardino delle metamorfosidal visibile al pensabiledove l’oblio insemina la menteche rifrange ogni nozionementre dissimuliamo la realtànel groviglio delle ideemeditando sulle contraddizioniall’innesto dei progetticomunicanti figure in diveniresui percorsi disincantatisecondo l’alternanza dei tempil’essere coglie il nullanella messa in opera del mitoper seguire altri destinidietro siepi e rami di memoriefra le cose che adottiamoinsieme ai luoghi circostanticoltivando immemori causedentro un labirinto di specchiqui e altrove a confrontovisioni ritornanti dal vissuto

Miklos N. Varga

Rivoluzionario/ riformatore Alik Cavaliere, Docente all’Accademia di Belle Arti a Brera, è protagonista in assoluto di una stagione, gli anni ‘ 70, arida dal punto di vista legislativo (l’istituzione del Dams di quegli anni è vissuta dalle accademie come una sonora sconfitta) ma irripetibile per la presenza di un nuovo interlocutore quale il movimento degli studenti. Vero docente, Alik Cavaliere instaura un rapporto di vicinanza che non rinuncia ad essere di affettuoso scontro (quando rileva eccessi di ideologismo) e improntato sempre alla massima del “coltivare la contraddizione”. Indimenticabile la sua aula-laboratorio: crocevia di tutti gli intrecci e sperimentazioni, un organismo vitale e ancora oggi di attualissimo modello didattico.

Renato Galbusera

La civetta, 1978, cm 37,5x28,5x37,5

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Alik e Marino Marini

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Longari: Cominciamo dalla Val Sesia e dalla montagna.Ceretti: Sai sono quarant’anni che vengo in questo posto, avrò fatto centinaia di carte dipinte durante l’estate, è sempre stato bellissimo! Così è nata questa mostra all’Università Bocconi, anche in coincidenza del rinnovamento dei suoi spazi espositivi, è venuta qui Elena Pontiggia, ha visto questa serie di lavori, le sono piaciuti e mi sono deciso ad esporli. E’ stata una bella circostanza anche per tutti gli amici che abitano in quella valle, amici che sono venuti tutti a trovarmi ma la mia curiosità era soprattutto quella di confrontarmi su questa idea della natura e del paesaggio montano in relazione alla realtà che vive l’arte contemporanea che sembra aver perso la memoria e l’interesse per il paesaggio e per l’ambiente.

MINO CERETTIQuando eravamo allievi noi, accanto alla nostra aula c’era lo studio di Carpi e noi avevamo il privilegio di studiare da vicino con il nostro maestro, di vederlo lavorare direttamente.

Gli ultimi artisti che hanno avuto questo interesse sono stati forse i Segantini, Fornara, Longoni ecc.Sarebbe interessante ridiscutere di questi temi, allontanandoci un momento dall’avanguardia storica che ha fracassato tutto sebbene abbia anche indicato molte modalità, molte strade. Noi non siamo più capaci di relazionarci alla lezione del vero, ormai immettiamo sulla superficie dei frantumi di qualcosa, li ricomponiamo ma cercando…come dire…l’interfaccia fra l’artista, il pittore e la “cosa”, non fra l’artista e la natura; è come se il processo forse solo ed esclusivamente mentale e manca totalmente la riflessione e l’attenzione nei confronti di questo argomento da parte della critica.

Intervista a cura di Gaetano Grillo ed Elisabetta Longari

Pittore-Pittura, 1977 Olio su tela 150x150 cm

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ex docentiCeretti: Il mercato decide ormai qual è il valore, il mercato è una specie di divinità omnicomprensiva ormai, sembra possedere gli elementi di valutazione di tutto. La mia generazione invece si è confrontata con i processi etici, non con il mercato. La vostra generazione ha visto una sorta di felicità produttiva generale, l’arte è stata anche una maniera per guadagnare del denaro, tutti hanno migliorato la propria condizione economica ma questo ha innescato un processo che non è sano. Ne consegue quello che tu hai appena detto, ne consegue che c’è un sistema delle cose.

Grillo: mi pare di capire che tu metti in dubbio la funzione dell’arte oggi poiché inseguendo il mercato non nasce più dalla critica ma dal consenso, se vuoi “estetico”, nei confronti del sistema. L’arte è vicina alla moda e non si oppone al sistema e se lo fa ciò avviene in maniera dolce, non radicale e comunque all’interno dei codici del contemporaneo.

Ceretti: Il sistema dell’arte così come si presenta mi appare come un meccanismo ben oliato e inarrestabile nella sua efficienza ma non è il deposito delle verità espressive e non può pretendere di rappresentare la totalità delle esperienze, il sistema, come meccanismo, è il corruttore della nostra prassi. In questo scorcio di secolo, dopo tutte le trasformazioni avvenute ho l’impressione che il pittore sia ora una specie di monaco che a fatica e in solitudine tenta di salvare, oltre alle cose ricevute, la propria identità e il senso profondo della sua esperienza.

Longari: Il discorso della vanificazione dell’esperienza può essere il fulcro del problema.

Ceretti: ma si, guarda… ti senti come un naufrago, attaccato ad un pezzo di legno che cerca di sopravvivere al naufragio. Siamo sempre immersi in questo enorme crogiolo che è la vita però chi ha il privilegio di esprimersi tende a credere di essere l’interprete del proprio tempo ed è felice. Chi dipinge è felice di farlo! Quando io dipingo sono felice e lo ero anche quando dipingevo il filo spinato, l’operaio ecc.. perché? Perché è l’operatività che ti appaga, l’operatività, comunque sia, è appagante. Paradossalmente penso che fra coloro che erano nei campi di concentramento, quelli a cui era stato concesso di svolgere operativamente un lavoro erano i più fortunati perché potevano sperare di sopravvivere. In qualche modo avevano rapporto fisico e problematico con la realtà. Courbè anche quando dipingeva gli spaccapietre era felice di dipingere, quando scappa in Svizzera lui dipinge i cervi, le baracche, la natura… si diverte, è felice!

Grillo: ricordi la mia personale alla Galleria Solferino del 1976? L’avevo intitolata proprio “sono felice quando dipingo!”.

Ceretti: ricordo benissimo quella mostra, avevamo apprezzato la secchezza di quella dichiarazione in quel momento.

Longari: Anche tu in questo momento stai dipingendo la natura, la montagna, il paesaggio. Se felice?

Ceretti: Tempo fa hanno fatto la mostra del Barocci, io ho visto un suo quadro a Senigaglia, credo che sia una deposizione, è un quadro fantastico in cui esalta il cangiante cromatico. Recentemente Sgarbi ha collocato nel Palazzo Grimaldi un quadro del Giorgione, “la tempesta”, tu entri in una stanza e vedi questo quadretto e resti impalato.

Longari: si tratta di uno dei quadri più enigmatici della storia dell’arte.

Ceretti: E’ diventato enigma perché noi oggi guardiamo i quadri attraverso problemi iconologici ma noi pittori lo vediamo con altri occhi. Tu dici..la tempesta ma quello è solo il titolo perché invece è tutto tranquillo, lui appoggiato al suo bastone, le due colonne spezzate che simboleggeranno tutto, per carità, è un quadro che forse per lui ha significato serenità, tranquillità, tutt’altro che un quadro drammatico come uno può immaginare pensando alla tempesta. Un quadro di un’intensità straordinaria, dipinto da un pittore che a soli trent’anni muore di peste.

Grillo: stai parlando forse della mancanza della rappresentazione della natura?

Ceretti: Tu che appartieni all’ultima generazione di pittori difficilmente rappresenti, entri in relazione ai processi, adoperi la tecnologia forse interpreti ma non rappresenti; la mia generazione, quella che si è formata nel dopo-guerra. La nostra generazione ha messo veramente uno iato fra il ‘900 e il dopo; ha sempre agito come forma di rinnovamento ma nel solco della tradizione dell’arte. Dalla guerra in poi sono cambiate tante cose, quello che è avvenuto in quel periodo ha sconvolto le fondamenta della nostra cultura. Noi abbiamo dovuto reinventare tutto, non volevamo più imitare nessuno. La nostra generazione pur nel rinnovamento ha conservato la memoria storica del rapporto fra pittura e realtà anche se filtrata dalla riflessione sulla “misura” sul rapporto fra la mano e la superficie, fra il pensiero e la fisicità della manualità che crea l’opera.

Grillo: a proposito di mano, hai visto la mano di Cattelan in Piazza della Borsa?

Ceretti: non ancora, forse passerò ma non m’interessa, cosa vuoi, è una cosa, non la fa lui, la fanno altri…lui non sa fare niente! Sono stato di recente a Venezia con la Giovanna e siamo andati a vedere la mostra a Punta della Dogana e come entri, una delle prime cose che vedi è il cavallo impagliato con la testa conficcata nel muro di Cattelan. Cosa vuoi, sono cose che certamente scioccano ma scioccano altri, non noi! A noi come addetti ai lavori, come persone che hanno sviluppato una particolare esperienza nell’elaborare le proprie possibilità espressive, a noi cose del genere non sembrano neanche sostenibili perché sono piuttosto un colpo di teatralità che hanno anche una funzione spettacolare così come quasi tutte le altre opere che sono esposte in quella mostra ma… sono piuttosto interessanti come una forma di comunicazione legata alla pubblicità, una kermesse del gusto contemporaneo, un luna park, non sento che abbiano un valore intrinseco. Io sono lontano da queste cose, mi sento come un monaco tibetano che si è isolato in un convento in alta montagna per difendere una cosa in cui crede, un valore della pittura e dell’arte lontano da ciò che ci succede intorno in questo momento.

Longari: Tu hai insegnato insieme ad Alik Cavaliere per tanti anni a Brera, cosa pensi del rapporto che Alik aveva con la natura visto che utilizzava così tanto nel suo lavoro?

Ceretti: Alik ha utilizzato la consistenza dell’oggetto naturale reinventandolo in una composizione diversa ma l’oggetto naturale non veniva modificato, lui faceva il calco dell’elemento naturale, accumulava tanti frammenti di natura (fiori, rami, radici, frutti ecc) per rimontarli in una diversa invenzione. Alik non è stato un dadaista, non ha preso la ruota di bicicletta per farla diventare opera d’arte, Alik non ha fatto “speculazione metaforica”, ha smontato e rimontato la realtà per consegnarcela attraverso la sua ide dell’arte e della vita. Sai la nostra generazione che vissuto la guerra si è sentita molto precaria, oggi siamo qui per caso, avremmo potuto morire in qualsiasi momento, si sparava con facilità per strada, quando sono venute fuori le realtà dei campi di concentramento abbiamo avuto davvero la percezione di una vita davvero a rischio, eravamo sconvolti dalla bomba di Hiroshima ecc.. Elisabetta, Gaetano, sono cose che oggi non si immaginano per niente, oggi tutti cercano di arraffare il possibile per goderselo, pensate un po… cos’è questo godimento che ha preso il sopravvento su tutto.C’è una follia nell’attuale realtà dell’arte, ma vi pare possibile che questo sistema possa reggersi sul collezionismo? Per carità!... meno male che c’è ma così s’innesta un processo di emulazione continua; se un giovane artista vede che un particolare linguaggio ha successo di mercato non fa altro che inserirsi in quell’ambito estetico, è una cosa che sconvolge il senso profondo del fare arte.Grillo: infatti l’artista oggi non si misura se non con il sistema dell’arte, è prevalsa la coscienza che l’arte esiste se è registrata dal sistema internazionale dell’arte, se un artista non compare nei rivoli di questo sistema è come se non esistesse!

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Grillo: Accademia di Brera, la tua esperienza di docente, prima come assistente di Alik Cavaliere, poi come titolare di Pittura.

Ceretti: Io ho vissuto la dequalificazione e il degrado continuo, quando sono tornato dall’Accademia di Torino, nel ’93, e ho visto che non c’era più uno spazio personale per il docente, il laboratorio per gli studenti, è stato drammatico. Mi sono chiesto: io come posso fare a insegnare pittura se non c’è lo spazio minimo vitale per farlo? Il direttore ci ha detto che avremmo dovuto alternarci negli stessi spazi, ho dovuto mio malgrado accettare e quello è stato l’inizio della

fine di una concezione dell’Accademia, ideata nel ‘500. Se tu non sei in grado di consentire all’allievo di eseguire la propria ricerca formale nel laboratorio allora diventa squallidamente come l’Università, un insegnamento solo teorico e impersonale.Tu Gaetano appartieni alla generazione che è stata forse l’ultima a essere concentrata, quando tu eri studente con me e con Alik ancora era possibile lavorare in aula, vivere di confronti continui e di crescere, di essere stimolati. Erano anni in cui c’erano tanti problemi, c’era l’occupazione ma eravate ancora concentrati sulla possibilità personale di elaborare un vostro linguaggio artistico. Subito dopo

Frammenti, 1966-1967 Olio su tela 146x125 cm

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di voi tutto è andato scemando, si è persa la funzione profonda dell’accademia, oggi non c’è più una centralità, ci sono un sacco di materie, anche inutili, e lo studente deve saltare fra una lezione e l’altra senza potersi più concentrare. Io sono stato l’ultimo a opporsi ai semestri, per me era inconcepibile svolgere il lavoro in quella maniera così frammentata. All’inizio il Vincenzo Ferrari mi aveva convinto ma poi ci ho ripensato, sono andato dal De Filippi e gli ho detto che avrei continuato a fare l’orario annuale, sono fortunatamente riuscito ad avere l’aula 48, che era stata prima di Manfredi e prima ancora era stata di Carpi e prima ancora era stato lo studio di Hayez. Quando eravamo allievi noi, accanto alla nostra aula c’era lo studio di Carpi e noi avevamo il privilegio di studiare da vicino con il nostro maestro, di vederlo lavorare direttamente. Con Alik poco la volta sono stati eliminati gli studi dei maestri ed è iniziato lo sfascio, l’insegnamento è diventato sempre più teorico e ha perso il senso che aveva avuto per secoli. Il 1999 è stato l’ultimo mio anno d’insegnamento e già gli allievi non frequentavano più perché dovevano fare tutti questi giri fra una lezione e l’altra, lì ho capito che era finita.Me ne sono andato e il direttore ha tirato il fiato, era andato via l’ultimo rompiballe.Con Alik era diverso, si pensava e si credeva che sarebbe stato possibile reperire spazi, la sperimentazione era molto sentita, eravamo stimolati, la sperimentazione era al centro del progetto didattico di Alik, lui emanava questa sua idea.Anche il mio rapporto con lui è stato curioso perché lui mi ha chiamato come assistente alla sua cattedra di scultura ma io non ero uno scultore, ero un pittore ma lui, con degli argomenti molto convincenti, forti, mi ha detto: noi dobbiamo aprire ai linguaggi alla loro contaminazione e allora, alla fine degli anni ’60 quegli argomenti

erano davvero una novità ma il resto dell’accademia era refrattaria, non è stato facile.Si può dire tutto sulle accademie ma…porco Giuda! Sono l’unico luogo dove si può ancora parlare dei problemi dell’arte perché fuori dell’accademia si può parlare solo del sistema dell’arte! Non è possibile! Bisognerebbe rifondarle! Bisognerebbe partire da un’idea nuova, bisognerebbe fare una critica dell’attualità e trovare le ragioni forti per ripartire con nuovo impulso. Gli artisti escono come i funghi, da qualche parte, ogni tanto esce un ragazzo che chissà perché ha quel talento, quella curiosità, quell’intelligenza per fare arte, oggi invece arrivano tutte queste ragazze che stanno lì, sperano di fare qualcosa con la creatività ma l’arte è un’altra cosa!Dalle accademie così come sono oggi possono solo uscire dei Cattelan

Longari: Nenache perché di Cattelan ce n’è uno solo

Ceretti: ma no! lui faceva il pubblicitario come Warhol, Rosenquist, Lichtenstein, la Pop Art americana esce dalla pubblicità e tutti quegli artisti escono da quell’idea della realtà, noi no, noi no! Noi proveniamo da un’esperienza millenaria! Noi siamo persone che convivono continuamente con il passato, c’è sempre la possibilità di estrarre qualcosa dal passato e noi sentiamo una forte responsabilità per ciò che sta accadendo perché abbiamo una coscienza accumulata nel tempo. Io ho 80 anni, adesso!

* Mino Ceretti è stato assistente alla cattedra di Scultura di Alik Cavaliere e poi titolare di Pittura all’Accademia Carrara, Venezia, Torino e infine all’Accademia di Brera.

Provvisorio, 2001 Olio su tela 116x97 cm

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“Scelgo una forma semplice che trasporti il colore nello spazio, come una nota musicale ripetuta e che nella ripetizione infinita diventi ritmo, tessitura, nenia. La tela è orizzontale e dall’alto la guardo. Come un monaco che si accinga a disegnare un mandala, come un monaco che intoni un mantra. Dopo giorni i colori si faranno corpo, avranno saturato lo spazio ma continueranno a rivelare per sempre la loro trasparente illusorietà.”

DAVIDE BENATI

Conversazione a cura di Elisabetta Longari

Approfittando dell’allestimento di una grande mostra in quattro sedi che la sua città natale, Reggio Emilia, gli dedica, raggiungo Davide Benati in mezzo ai suoi quadri. L’esposizione dal titolo DIPINTI IN PALMO DI MANO, distribuita nella città tra la bilioteca, la sinagoga, la Galleria Parmeggiani e i Chiostri di San Domenico, in quest’ultima sede trova la più sostanziosa e significativa selezione di opere realizzate fra il 1980 e il 2010. Davanti ai quadri è impossibile non parlare di pittura, dei problemi e delle relazioni che gli elementi scelti da Benati, già tanti anni fa e continuamente messi al vaglio, instaurano sulla superficie ogni volta che incomincia l’avventura dell’occupazione della tela. Durante il percorso nei chiostri, i quadri, ritmati e pausati nello spazio in modo che ciascuno abbia un respiro necessario alla sua vita, sono accompagnati da alcune vetrine che ospitano una scelta di quaderni di viaggio, in cui le forme e i pensieri si depositano in modo immediato, costituendo l’embrione di molte opere più articolate e finite. La carta è la materia d’elezione di Benati, o sarebbe meglio dire, le carte che nel corso del tempo ha incontrato e scovato durante i suoi viaggi fino a sceglierne definitivamente una, di riso prodotta artigianalmente in Giappone. La componente organica della carta si sposa in modo particolarmente felice con i pigmenti trasparenti e al contempo corposi e con le forme che, sensibili, lente e mobili come meduse nelle profondità del mare, si orientano in diverse direzioni sulle superfici.I titoli, evocativi come il suono del mare dentro una conchiglia, tornano e ritornano nel tempo, perché la maggior parte dei cicli di lavori di Davide è aperta, potenzialmente infinita, come per Monet Le ninfee, richiamate apertamente da Davide nei dipinti dal titolo Azzorre. La pittura è una storia di passione e dedizione. Davide parla fluentemente, quasi non devo domandargli, racconta la genesi della mostra a della sua pittura con il suo timbro di voce calmo e caldo.

D.B:“Mi sono rifiutato di partire proprio dalle prime opere della fine degli anni Settanta e di ordinare cronologicamente i lavori. Non è una retrospettiva, è un modo per ripensare il lavoro attraverso pezzi che per me oggi sono significativi privilegiando quelli che magari non sono mai stati esposti. Una delle storie possibili che i mei quadri raccontano, non certamente l’unica. Ho soprattutto privilegiato gli utlimi dieci anni del lavoro perché sono pressocchè inediti in Italia, in quanto mostrati soprattutto a Marlborough e li ho accostati, mescolati a gruppi di opere degli anni Ottanta e Novanta. La prevalenza dei pezzi è realizzata tra il 2000 e il 2010 e rappresenta per me una nuova maturità. Ho giocato lo slancio procuratomi dal fatto di lavorare per questa grande multinazionale nella direzione della rivisitazione, del ripescaggio di alcuni motivi messi a fuoco negli anni Ottanta, rivedendoli e rinforzandoli anche dal punto di vista della tecnica, dove l’acquarello adesso diventa sontuoso, in cui i passaggi sono centinaia e dove si irrobustiscono gli spessori cromatici, se così si può dire perché gli spessori dell’acquarello sono tutti interni, fatti di trasparenze che si moltiplicano e si sovrappongono le une alle altre. Le trasparenze continuano a far intravvedere il processo di accumulazione delle superfici cromatiche. Si tratta di una storia nuova con elementi del passato, una storia appena rincominciata”.

“Riconosco alcuni lavori storicizzati…”In questa prima sala c’è un Doppio Sogno esposto alla Biennale di Venezia del 1982 (ad “Aperto ’82)) e anche Soledad, dove compare per la prima volta la foglia della Ginko Biloba, motivo che riprenderò sia negli anni Novanta che poi nei successivi Duemila, organizzandola sulla superficie in nuove tessiture… E poi ho approfittato di questa occasione espositiva per tirare fuori dai cassetti tutti i taccuini di viaggio, molti dei quali inediti perché appunto di mia proprietà. In queste teche quindi sono conservate le fonti, i luoghi della nascita del lavoro. Come vedi la mostra è tutta composta con opere di grandi o addirittura grandissime dimensioni, ma alle pareti sopra le bacheche

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dove sono conservati i taccuini ho voluto appendere dei piccoli formati che funzionano come segnali. In questa bacheca ci sono i quaderni degli anni Ottanta, molti dei quali di Kathmandu1, che, come sai, è uno dei luoghi da cui ho portato a casa fortissime suggestioni che hanno comportato l’immissione nel mio lavoro di motivi come le bandierine triangolari colorate che sventolano intorno allo Stupa e che contengono testi di preghiere… Gli elementi appuntati, fermati nei taccuini sono una continua fonte di nuova ispirazione. È come rileggere lo stesso libro a distanza di anni, cambia l’incidenza dell’ottica con la quale guardi…”.

Trovo la ritmica dell’esposizione straordinaria, queste lunghe pause che lasciano parlare il vuoto che da senso alle opere presenti. Hai fatto un grande lavoro di allestimento…Ho guardato e ascoltato lo spazio, nonché ovviamente i lavori. Certo ho creato dei dialoghi tra opere contando anche molto sulle interlocuzioni di vuoto, mischiando, come dicevo, sempre le carte a partire anche dal punto di vista della cronologia. Qui vedi Paese del calmo mattino, un pezzo esposto da Marconi in occasione della mia prima mostra da lui nel 1984, poi c’è un lavoro che testimonia la mia presenza alla Biennale del Novanta dove nella mia sala personale ho esposto opere dipinte ad olio e all’acquarello, c’è il quadro del 2010 che è stato utilizzato come manifesto della mostra e c’è uno strano lavoro, questo Neve a sera. Ogni tanto mi capita di deviare dal solco principale del lavoro, che è rappresentato dall’acquerello. Qui avevo in qualche misura voglia di bianco, perché essendo la mia carta paglierina e coincidendo il bianco dell’acquerello con il bianco della carta, io non lo uso mai… questo lavoro era nato nei primi anni Novanta perché ricevetti una cartolina dal Giappone da un allievo di Brera, giapponese, che sapendo della mia passione per l’arte giapponese, mi mandò l’immagine di quel famosissimo giardino di Kyoto dove ci sono i monaci che pettinano la ghiaia a forma di onde fluttuanti, con le rocce che fuoriescono a imitare la terra, il tutto

coperto di neve. Allora sentii un desiderio di far nascere un lavoro che è un po’ un incidente di percorso in quanto utilizzai una tecnica un po’ aliena (serigrafia su tela ritoccata con bianco ad olio) . Mi capita di deviare leggermente per poi tornare sulla stada maestra con un’esperienza in più.

l sapore dell’erbario, certo, ma anche quello delle Mille e una notte…Il dipinto là in fondo appartiene alla serie Terrazze del 1995 che è abbastanza emblematica di come possano nascere alcuni miei dipinti. La serie deriva da due viaggi che feci simultaneamente agli inizi del ’95, uno in Nepal e l’altro, subito dopo, in Portogallo. In Nepal avevo rivisto le bandiere buddhiste contro il cielo, fluttuanti, leggere, colorate; un mattino a nord di Oporto, presto sulla collina vidi stagliato contro il cielo un enorme glicine nera, controluce, contorta. Al ritorno da questi due viaggi feci questa serie di opere ad olio e acquerello in cui misi insieme questi due segni così distanti fra loro, concepiti in due luoghi geografici diversi ma entrambi con per sfondo il cielo, con due temperature molto diverse fra loro. A volte ho lasciato gli elementi da cui ero stato impressionato isolati e singoli, a volte li ho fatti convivere in una serie di opere doppie dove il grande segno nero a olio si contrapponeva per potenza e grevità alla leggerezza delle bandiere dipinte all’acquarello, così delicate, così impalpabili. Insomma, mettere insieme come ho sempre fatto nel corso di questi trent’anni, due polarità, due luoghi, due concetti, due densità e cromatiche e gestuali.

Dai la sensazione di divertirti nella scelta dei titoli e ti concedi di scherzare: Lotus Solus, fa evidentemente il verso al romanzo di Raymond Roussell (Locus Solus)… mentre Paese del calmo mattino è forse tratto da un verso di Pessoa o di qualche suo eteronimo?No, Paese del calmo mattino è il nome antico della Corea, però l’ho

Doppio Sogno - 2001

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2828scelto perché aveva un bellissomo suono, come di qualcosa che nasce e si apre lentamente e dolcemente cercando la luce.Nell’ultima sezione ci sono opere degli ultimi anni: Cantico fa da preambolo alla sala. Questo dipinto è una sorta di spalancamento dove tutti i colori sono chiamati a concorrere a un movimento di squarci che dalla tenebra aprono alla luce. È proprio una fantasmagoria. Qui ho utilizzato come veicolo per portare il colore nello spazio la forma della foglia della GInko Biloba che ritorna dopo tanti anni, che allora là, chissà perché, avevo intitolato Soledad, e qui diventa come una nota di una partitura musicale che in un crescendo di vorticosità spalanca e frantuma fino a squarciare la superficie. Ecco, qui c’è tecnicamente una nuova soluzione che è quella di poter sovrapporre centinaia e centinaia di passaggi in trasparenza fino a creare con l’acquerello quel corpo di cui ti parlavo…

Insisto… Hai curato il ritmo dell’allestimento nei minimi dettagli.Qui per esempio, in questo lungo canocchiale, insidiosissimo dal punto di vista del montaggio, anche qui ho scelto delle contrapposizioni con il vuoto per lasciare che ogni opera avesse intorno a sé un grande bianco che potesse in qualche misura valorizzarne anche la densità cromatica. C’è una versione ulteriore dell’opera Azzorre, che diversamente dall’altra, si apre, sta lentamente transitando nello spazio della tela, sta facendo intravvedere… ecco in quest’opera c’è rispetto all’altra una dinamica diversa. Vedi come variando la tessitura delle forme che utilizzo si ottengono anche diversi impatti emotivi?.

A proposito delle diversità e dei contrasti, ricordo alcuni tuoi lavori in cui mettevi sulla superficie dei ritmi modulati degli spessori accentuati anche attraverso elementi estroflessi. Come mai hai ritenuto di non esporre neppure un esponente di quella famiglia di opere?.Quello era un periodo, fine anni Ottanta-primi anni Novanta, che caratterizzò anche la sala della Biennale di Venezia, in cui accostavo superfici oscure e turgide a olio, contrapponevo a queste superfici la leggerezza e la luminosità dell’acquerello. I rilievi che fuoriuscivano dalle superfici ad olio funzionavano quasi come dare corpo ai fantasmi

dell’acquerello. In quel momento sentivo, chissà perché, forse anche ormai un acquerello allo stremo, una debolezza. Avevo desiderio di qualche cosa di più potente, di più forte, di più sostanzioso…Non che l’acquerello non lo fosse… però nella ripresa successiva, dopo questo passaggio “tridimensionale” attuato in conflitto con olio e acquerello insieme, sono ritornato all’acquerello con una durezza e una potenza molto più insidiosa rispetto ai lavori degli anni Ottanta. Ciò è stato anche il frutto di quel passaggio.

E allora, se è stato un punto di snodo importante, perché non dargli uno spazio nel percorso della mostra?Guarda, è successa una cosa curiosa… Io, per questo spazio, che come vedi è così complesso da un punto di vista anche architettonico, avevo radunato moltissime opere. Succede che una volta che tu le cominci a disporre ce ne sono alcune che o fanno saltare tutto o sono talmente vistose o talmente aggressive che rischiano di turbare quello che io ho cercato di fare con questa mostra, che era raggiungere un grande equilibrio anche di natura formale. Quindi dei dipinti che testimoniano alcune mie trasgressioni di questi trent’anni, o quegli abbandoni della via maestra, come li ho chiamati prima, alcuni sono riusciti a trovare il proprio equilibrio con questi nuovi quadri che non conoscevano (perché loro non si conoscevano tra di loro). Altri proprio non hanno trovato spazio qui dentro, C’è stata come una forma di ribellione da parte di certe opere nei confronti di altre opere. Io l’ho trovato molto curioso; è come se a un certo punto i miei quadri qui dentro si fossero presi delle libertà scavalcando anche le mie stesse intenzioni. Insomma, sono stati in una certa misura loro stessi che mi hanno costretto a tralasciare alcune parti del mio lavoro in favore di altre. Io questo lo trovo molto bello. Torno a dire che qui dentro è successo di tutto, che queste opere si son messe a fare un po’ le “carognette” e hanno preteso certi spazi rispetto ad altre che invece sono stato costretto a sacrificare perché creavano degli squilibri. Insomma ci sono state delle forme di rivolta e di gerarchia da parte di certe opere che non mi sarei sinceramente aspettato.

Dove lavori? Com’è il tuo studio?”Ho un nuovo studio in un vecchio luogo: ad agosto sono tornato al punto di partenza che è la casa in cui sono nato sulla via Emilia vicino

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Frangipane - 1991

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29a Reggio Emilia perché stavo cercando uno studio più grande a Modena che non trovavo e poi andando tutti i pomeriggi a trovare mia madre che vive ancora lì nella casa di famiglia, ho visto al piano terra uno spazio di mio cugino che si era reso disponibile dopo tanti anni, un vecchio mulino del fratello di mio nonno, e ho immmediatamente capito che quello avrebbe dovuto essere il mio nuovo studio. Un gigantesco loft con l’anima: un luogo dove giocavo da bambino…

Svolgi i tuoi giochi da adulto dove facevi i tuoi giochi da bambino, sei fortunato! E adesso dimmi della tua Ogni volta che parlo di Brera ho un groppo alla gola, perché è stato il luogo nel quale io ho studiato…

Con chi hai studiato?Io mi iscrissi a Brera nel 1968, quindi immagina... Mi ero iscritto da Cantatore, poi “saltò tutto per aria” e cominciammo a fare i nostri gruppi di lavoro ospiti nell’aula di quella meravigliosa e indimenticabile figura di Alik Cavaliere, con Franco Fizzotti, Mino Ceretti… Arrivavano i manifesti del maggio francese. Per noi Milano era come adesso per i nostri studenti andare a Berlino. Milano era lontana… Io sono entrato a Brera con Van Gogh e quattro anni dopo siamo usciti con Andy Warhol… Io feci la tesi con Guido Ballo sulla Pop inglese e andai a intervistare due dei protagonisti: Peter Philips, che allora viveva a Zurigo perché aveva un contratto con Bruno Bischofberger, e andai anche a Londra a intervistare Allen Jones. Sembravano appartenere al gruppo dei Rolling Stones! Philips è arrivato a prendermi vestito di serpente, con i capelli lunghi fino alla schiena. Io avevo vent’anni e lui ne aveva trenta ed era già un idolo. Allora uno scatenamento generale nel 1972. Quando sono entrato a Brera c’erano Cantatore e Messina, che erano entrambi uomini dell’Ottocento. Dopo sei mesi abbiamo occupato tutto e quattro anni dopo eravamo degli altri, umanamente, culturalmente… A Milano si svolse anche il festival del Nouveau Realisme con Christo che aveva impacchettato il monumento a Vittorio Emanuele II e i monarchici gliel’hanno fatto spacchettare, allora lui ha impacchettato Leonardo… in Galleria Niki de Saint Phalle sparava da lontano a sacchi di colore che eplodevano… Circolava una splendida allegria che Milano non si ricorda più di avere avuto, non ha più memoria di quello che è stata, del coraggio che ha avuto

trent’anni fa. C’era l’universo a Milano e noi siamo usciti da Brera nel 1972 che eravamo appunto altre persone. Poi, dopo un passaggio al Liceo Artistico di via Milazzo arrivai all’Accademia come docente nel 1984 chiamato da Franco Fizzotti come assistente, poi ho fatto per quattro anni l’assistente di Fabro, quindi di Gottardo Ortelli (tutte persone che mi mancano molto) e a un certo punto ho avuto la mia cattedra di Anatomia. Ho finito nel 1999 a Brera, quando mi sono trasferito all’Accademia di Bologna. Che differenze hai rilevato tra le due istituzioni?Bologna è stata una delusione, ma sai perché? Perché Brera mi mancava troppo! Adesso, da pensionato, l’unica cosa che mi manca è il rapporto con i ragazzi. Per quanto riguarda Brera la cosa che ricordo con maggior interesse era che è sempre stata cosmopolita, se non sbaglio anche oggi ci sono allievi rappresentati di 59 diversi Paesi. Quando da Brera mi trasferii a Bologna dovetti salutare questa realtà cosmopolita… Ricordo di avere accolto vent’anni fa a Brera la prima studentessa proveniente dalla Repubblica Popolare Cinese, la famosa Zeng Rong, con la quale diventai poi amico e ci sentiamo ancora oggi. Lei allora era una docente mia coetanea che si iscrisse a Brera mandata dal Partito Comunista Cinese, aveva rapporti ovviamente con il consolato e ricordo che Quaglino fece una geniale battuta: - Sa, signora Zeng Rong, se veniva qui vent’anni fa la facevamo direttrice! Quel che mi mancò a Bologna fu proprio il multiculturalismo, soprattutto Giapponesi che io amavo e con cui corrispondo ancora oggi, e tutto questo movimento implicava che la dinamica della docenza fosse tale da costringermi a essere aggiornato continuamente seguendo gli interessi degli allievi, anche tra i più disparati. Non che adesso non mi guardi attorno, ma era diverso…La mostra è accompagnata da una preziosa monografia, bilingue (italiano-inglese) edita da Skira, in cui sono raccolti i testi dei fedeli compagni di viaggio di Davide: la regista Cristina Comencini, Walter Guadagnini (docente di Storia dell’arte presso l’Accademia di Bologna), Flaminio Gualdoni (docente di Storia dell’Arte presso l’Accademia di Brera), il critico Sandro Parmiggiani e il poeta Antonio Tabucchi. Inoltre si segnala che alla sede della Galleria Marlborough di Madrid è attualmente allestita una personale di Benati dal titolo Doppio gioco, in cui sono raccolte 14 opere che riassumono i cicli di lavori esposti nelle due mostre tenute nella sede di Montecarlo nel 2006 e nel 2010.

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Bassifondi del cielo - 2003

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Intervista a cura di Melissa Provezza

Melissa Provezza: Il 7 novembre si è conclusa presso la Galerie Venise-Cadre di Casablanca una tua mostra personale, rispetto alla quale ho avuto il piacere di redigere il testo in catalogo. L’accoglienza marocchina al tuo lavoro pare sia stata ottima. Cosa si è perso chi non ha visto la tua mostra?

Nicola Salvatore: È vero che il Marocco mi ha accolto: sia come artista, che come uomo. Questo paese mi ha conquistato con le sue terre e le sue atmosfere ed è direttamente lì che ho realizzato le opere in mostra. Ho presentato dunque la mia più recente produzione artistica, che in fondo è la continuazione naturale di una ricerca maturata durante anni. Au sud de mon sud. Passage à Casablanca è un’esposizione che sembra ricominciare dalle origini della culla mediterranea, dove cerco radici e similitudini, interpretando i segni dei luoghi che mi circondano. In mostra ho presentato una rilettura e uno stravolgimento di quelli che sono stati i periodi principali del mio percorso artistico: dai Mestoli ai Cavalli, dalle Ombre alle Balene, il mio bagaglio visivo si è arricchito anche di soggetti quali Cammelli e Palme, proprio in quanto suggestioni del territorio.

Tuttavia sembri prediligere l’iconografia della Balena; perché questo amore?

Nella fase attuale vedo con piacere ritornare all’interno delle mie opere questa figura che in passato accompagnò i primi passi della mia ricerca artistica. Tale soggetto fa intimamente parte del mio immaginario, un immaginario che ho costruito metodicamente e spontaneamente allo stesso tempo e che mi ha permesso di affrontare numerose sfide, sia a livello tecnico, che concettuale. L’immagine della Balena a volte è solo evocata attraverso la rappresentazione del suo stesso scheletro. Si tratta di una figura potentissima, dotata di una notevole plasticità e di un bagaglio simbolico di grande forza. Anche le dense e ben delineate Ombre, accanto alle serie di Cavalli e Mestoli, sembrano vivere della stessa materia e possedere un uguale potere evocativo.

Per dar forma alle tue creazioni utilizzi diversi mezzi e strumenti, spazi dalla pittura alla scultura, sino ad opere video e digitali; quali le motivazioni nella scelta di determinati materiali?I metalli, i legni, le terrecotte sono i miei materiali: superfici riflettenti e materie che possiedono una solidità quasi atavica, ma accanto a questo mi servo anche dei media attuali, di mezzi video e digitali, mischiando suggestioni arcaiche e contemporanee al tempo stesso. Nelle mie opere do forma ad un discorso intimista e insieme antropologico, dove la materia, i colori e le immagini hanno l’intensità

NICOLA SALVATOREVerso il Marocco:Viaggio nell’arte e nella didattica di Nicola Salvatore

Visione della personale alla Galerie Venise - Cadre di Casablanca

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della terra e del simbolo. Dall’Italia al Marocco e viceversa, ho ormai intrapreso un viaggio creativo che è arricchimento umano e artistico, tra identità e memoria.

A proposito di memoria: credo che questo sia un elemento molto pregnante all’interno del tuo lavoro. Di fronte alle tue opere è come imbattersi in una serie di reperti di archeologia fossile. Affascinanti ritrovamenti emanano quasi un’aura sacrale, in grado di restituirci la forza del mito. Scriveva la filosofa María Zambrano che «all’origine della memoria c’è la ricerca di qualcosa di perduto e d’irrinunciabile […], qualcosa che necessita di essere guardato nuovamente». Che valore ha per te la memoria?

Per sapere ciò che si è, è necessario ricordare, sapere anche ciò che si è stati, in un atto profondo di onestà e verità con se stessi e con il mondo. La memoria storica, la storia dell’arte, il ricordo come consapevolezza o suggestione inconscia: tutto questo è necessario che faccia parte di noi, lo dico a me stesso e anche ai miei studenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, dove insegno Pittura. Non si può e non si deve essere dimentichi della storia, di quella individuale, così come di quella universale. Questo è il cammino e la

base per la costruzione della propria identità, sia personale e umana, che come artisti. Il recupero e la conservazione della memoria è qualcosa di fondamentale, tanto quanto la capacità di rinnovamento e lo sguardo puntato al futuro.

Il tuo fare artistico, durante molti anni di lavoro, ha ovviamente subito cambiamenti e registrato evoluzioni. A che punto pensi di essere giunto attualmente?Se guardo al passato, nelle fasi iniziali, le mie opere apparivano formalmente graffianti e meno rifinite, d’impatto aspro e rugginoso, poiché la materia era lasciata ad uno stato più bruto. In seguito il mio atteggiamento è divenuto maggiormente analitico. La mia opera oggi si spinge quasi a risultati minimali e ciò è specialmente visibile, non solo nel trattamento dei materiali e nella scelta degli stessi (proprio in virtù delle loro caratteristiche precipue), ma anche nella forma generale che racchiude i soggetti-oggetti in modo sintetico e pulito.

Come e perché sei giunto al Marocco?Ci sono scelte e luoghi che sono un fatto di maturità e forse si approda lì esclusivamente dopo un lungo cammino. E quando uno cammina non sa quello che trova. Infatti io mi sono imbattuto nella luce, nei profumi, nella gente marocchina. Del resto queste cose

Visione della personale alla Galerie Venise - Cadre di Casablanca

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sono un po’ come gli innamoramenti, sia nell’arte che nella vita: imprevedibili. Esistono luoghi che ci chiamano, verso i quali siamo irrimediabilmente – a volte anche inspiegabilmente – attratti. C’è una parte di me che valuta e pondera, ma accanto a questa ne vive un’altra che è propria della mia indole ed è istintiva e viscerale. È necessario saper ascoltare anche quella parte, che è il mondo dell’intuizione: senza dubbio più difficilmente sondabile rispetto alla sfera razionale, ma fondamentale soprattutto per un artista. È grazie anche al balenare delle intuizioni che a volte si compiono scelte importanti, sia nella vita, che nella ricerca artistica. Dunque giungere al Marocco è stato questo: una decisione razionale e una spinta viscerale. Far sposare e coniugare questi due aspetti è qualcosa che dà enorme appagamento; una sensazione che sento anche quando mi trovo di fronte ad una mia opera che giudico veramente riuscita. Inoltre ho iniziato a considerare questo paese come un altro possibile luogo in cui vivere e ho progettato quella che sta diventando la mia casa marocchina. Del resto credo che il Marocco possieda fortissime potenzialità e sia in continua crescita.

Pensi che lì ci potrà essere un punto di contatto tra la tua attività artistica e quella di docente?L’ipotesi di una residenza marocchina sta schiudendo nuove prospettive, come per esempio quella di una didattica sul territorio, di un lavoro sul campo, magari unitamente a qualche collega.

Del resto gli stimoli creativi dati dalla permanenza nel nuovo paese possono essere molteplici. Si tratta di un luogo carico di suggestioni, di luce nuova e di cromie calde, di stimoli sensoriali avvolgenti. Tutto questo, all’interno di un confronto multietnico, non può fare altro che arricchire un percorso formativo e di ricerca artistica, a partire da una rinnovata fruizione dell’occidente stesso.

Non mi stupirebbe se arrivassi ad organizzare delle residenze-workshop per studenti in Marocco. Quanto è importante che la didattica “fuoriesca” dalle mura accademiche?

Credo che sia fondamentale muoversi all’interno di una didattica propositiva, che sappia ora più che mai mettere in contatto gli studenti, i giovani artisti in formazione – mi sia concesso usare questa definizione, anche se sono pochissimi quelli che poi arriveranno alla professione – con ciò che accade fuori dall’Accademia. È un passaggio importante e molti ragazzi sono sprovvisti degli strumenti per sapersi muovere nel sistema dell’arte. Insegnare in un Corso di Pittura quindi non significa solo lavorare sulla progettualità e creazione dell’opera, ma anche mettere lo studente nelle condizioni di saper come presentare e far vivere quell’opera – se giunta ad un punto maturo – al di fuori dell’ambito formativo. Per questo qualsiasi contatto con l’esterno può essere utile e stimolante. Sia che ci si muova direttamente, sia nel caso in cui siano i professionisti dell’arte ad essere invitati presso l’Accademia stessa.

In tal senso hai sempre organizzato fitti calendari d’incontri presso l’aula 8 a Brera, dove ormai da anni hai dato vita al tuo progetto didattico: la cosiddetta “Trattoria da Salvatore”. Parlacene.Dal 1996 all’interno dell’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, come docente di Pittura porto avanti “Trattoria da Salvatore”. Si tratta di un progetto didattico che vede protagonista il rapporto tra il cibo e l’arte, due componenti che l’uomo utilizza da sempre per esprimere se stesso e per dare un valore alla propria vita, trasformando una materia in qualcosa di spiritualmente appagante. L’aula 8 dell’Accademia di Brera, attrezzata di cucina, è sede di incontri e discussioni fra studenti e docenti, artisti, collezionisti, curatori, critici e storici dell’arte, ma non solo, anche cuochi, avvocati, medici. Si trasforma così in un luogo metafisico dove senso e intelletto convivono in armonia e dove il cibo, fattore aggregante, è soggetto di pura forma e segnale di un universo simbolico. Guardando la tua attività d’artista riconosco un modus operandi e una forma mentis che credo si riflettano nella tua didattica. Ti

Abitazione - Studio di Nicola salvatore a Marrakech

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muovi liberamente tra pittura e scultura, tra mezzi “tradizionali”e nuovi media e questa tua trasversalità mi sembra palpabile nell’atteggiamento che hai verso l’insegnamento. Ti riconosci in questo?Pienamente, anche perché credo che l’idea di trasversalità, di attraversamento e contaminazione mi appartenga. Oltre ad insegnare e a svolgere la mia attività artistica tra l’Italia e il Marocco, sono anche art director e artista per la Compagnia Costa Crociere. Di fronte alle mie opere amo mettermi in discussione, cercando di stupirmi sempre e di essere intellettualmente animato da un’energia vivace, da un atteggiamento di apertura al nuovo, all’inatteso, in grado di condurre alla scoperta continua. Questo mio approccio nel fare arte si rispecchia anche nelle modalità d’insegnamento. Didattica personalizzata, con un’attenzione particolare al singolo studente e alla sua direzione di ricerca, pluralità di linguaggi: ciascuno deve trovare il mezzo che gli è più consono e che si sposa meglio con l’idea che vuole trasmettere. L’aula di un Corso di Pittura non è solo un luogo dove si usano i pennelli, ma deve diventare una fucina creativa, contaminata da diversi linguaggi e allineata alla contemporaneità.

*Nicola Salvatore: artista e titolare di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.

*Melissa Provezza: artista e insegnante; lavora all’Accademia di Belle Arti di Brera come assistente tecnico. È stata studente e successivamente assistente volontaria presso la Cattedra di Pittura del docente Nicola Salvatore. Nicola Salvatore nella sua casa a Marrakech

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La soglia della visibilitàDi Massimo Di Stefano

I lavori più recenti di Paolo Laudisa hanno molto fascino; come soglie della visibilità, senza però frantumare né dissolvere le cose, danno invece al più piccolo oggetto un accento inedito, uno strano potere di stagliarsi nello spazio e di iscrivervi la sua presenza. Il colore parla con la voce profonda, le immagini dei luoghi si sporgono sullo spazio profondo.

Generalmente di grande formato, sono lavori su tela. Laudisa, attraverso la posizione di immagini reali, struttura la spazialità, costruisce una griglia di ragione, di costruzione a fondamento geometrico. Il colore viene dato mediante l’uso di rulli che filtrano l’emozione percettiva diretta, il colore cambia a seconda della superficie e del supporto che incontra.

PAOLO LAUDISATuffatrice cercatore d’acqua

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La sovrapposizione lenta e meditata, si definisce nella pienezza di una partecipazione evocata.La trasparenza ha la capacità di attirare, di provocare un’altra trasparenza, di suscitare in ogni frammento la sua luminosità fondamentale.La luce richiama il colore, il colore risveglia la luce, l’aria è attraversata da riflessi e da scambi, e questi riflessi si depositano gli uni sugli altri senza per questo velare l’originaria profusione dei colori.Il fascino di queste stratificazioni deriva dalla risonanza che la limpidezza propone a tutte le tonalità di colore sovrapposte, e dalla generosità sensibile a cui essa contemporaneamente le impegna. Ogni passaggio dello stesso colore comunica il suo principio, la sua particolare vibrazione, pur accettando di modificarsi a seconda dei messaggi che gli mandano i successivi passaggi di colore. In tal modo si crea a poco a poco secondo movimenti di eco e di offerta, quella unità sensibile, quell’equilibrio a cui tende Laudisa. Ma il mondo non potrebbe essere un serbatoio di corrispondenze se lo spazio e il tempo non possedessero una certa capacità di riecheggiare, di protrarre, di arricchire le cose. Percepire significa anche riconoscere, nominare, cioè attivare una memoria, un sapere, un linguaggio.Queste soglie della visibilità, che ricalcano quelle della conoscenza, vengono proposte attraverso un’insistenza dell’immagine spesso puntata su i vasti spazi, su lontananze. Laudisa così attiva un processo di astrazione che produce un tempo mentale, una durata propriamente soggettiva, come un’espansione del nostro dominio cosciente. Il colore blu è ricorrente sia come simbolo di vita sia come strumento ottico.L’acqua di tutte le forme, miraggio che riflette, che capta, che rovescia

o traveste quel che lascia apparire. Trasparenze e riflessi autonomi, che partono da chiare immagini di spazi architettonici che vogliono ricordare l’autentica misura della struttura a scala umana del rapporto con l’antico.Allora si sviluppa una narrazione dello sguardo continuamente riattivato dalla densità della scena: dai blu ai verdi, dai gialli ai rossi, gli scenari si sostituiscono agli scenari, i colori sono quelli di un respiro che accelera.Pittura nel pieno godimento immaginativo, fisico, e direi psicologico comportamentale. Laudisa muove quindi soprattutto dalle esperienze che negli anni cinquanta aveva introdotto Yves Klein, ma procede anche dall’espressionismo astratto americano di Rothko e Pollock, da Reinhardt fino ai nostri Burri e Fontana, per giungere ad una densità del linguaggio nel suo spessore evocativo che la pittura è dimensione mentale e non illusione fisica.

* Massimo Di Stefano è docente di storia dell’arte contemporanea nell’accademia di belle arti di Roma .

La luna appare scompare, cm 100 x 120, acrilico e vetrofusione su tela 2005

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nti Un grande gioco dell’Oca

Mi piace pensare alla storia delle accademie in modo figurato come a un grande gioco dell’Oca in 3D. Non so bene a che casella siamo ma i numeri e gli anni si sommano con leggi e decreti.Ricordo qualche anno fa un grande convegno organizzato dall’accademia di Frosinone curato da Nicola Carrino con sindacati, ministeri ecc... Finalmente la riforma era fatta, siamo università! Poi esce il numero sbagliato e bisogna tornare al punto di partenza. Così il tempo è passato tra riunioni CNAM e MIUR. Forse ho capito dove è l’errore: nel nome!Bisogna cambiare Accademia di Belle Arti in Accademia di Belle. Le arti non servono, abitano altri luoghi. E’ con dolore che una storia di artisti e di arte vada trasformandosi in altro. Non sono un tecnico ma è quello che vivo.

Scopro docenti che insegnano quattro materie, altri fermi su posizioni date da concorsi... Uffah! basta con prime e seconde fasce, mi sembra un termine da ospedale. Cerchiamo professionalità e cultura, proviamo a credere che con l’arte si può dare un senso diverso alla società... ecco il senso sociale ed etico del fare arte. Torniamo a Scialoja ed è vero che “l’arte non si può insegnare” ma l’amore per l’arte sì e questo é per me il compito dei docenti: insegnare amore per l’arte in tutte le sue possibilità di espressione. Da docente non voglio essere pessimista, arrivano in questi giorni nomine a direttori che mi fanno sperare nonostante i tagli alla ricerca che ci regala la nostra ministra. Il prossimo numero speriamo ci faccia fare un balzo in avanti verso la soluzione di questo grande gioco dell’Oca.Paolo Laudisa il 31 ottobre 2010

Dalla Terra alla Luna, 30x40 cm, acrilico e polvere di marmo su tela, 2009

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Paolo Laudisa è docente di Grafica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Roma, vive e lavora a Roma.Le sue esperienze pittoriche iniziali confluiscono nella prima personale di rilievo alla galleria Cesare Manzo di Pescara nel 1975, in cui presenta una serie di lavori che mescolano il linguaggio della scrittura vera e propria con quello della gestualità segnica di derivazione informale.Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli 80 espone alla galleria Bonomo di Bari. Nello stesso periodo segue a Parigi un seminario di tre mesi tenuto da Gina Pane Sul corpo e lo spazio. L’esperienza si concretizza con una personale tenuta alla galleria Jean-Luc Forain. Nel ’85 tiene una personale alla Galleria Comunale dell’Università di Belgrado. Nel ’88 realizza due importanti mostre personali. La prima, alla galleria Wessel O’Connor di New-York, la seconda, alla galleria Lidia Carrieri di Roma. Nel ’91 collabora, oltre che come artista invitato, alla realizzazione di Fuori Uso a Pescara con Cesare Manzo curata Achille Bonito Oliva. Nello stesso anno è invitato a Stoccolma dalla galleria Jean-Claude Arnault a lavorare sul luogo ad una doppia personale con H.H.Lim. Lavora in questi stessi anni con la galleria Pasquale Lucas a Valencia dove espone al Museo de la Cultura. Nel ’99 tiene una personale alla galleria Le Pleiadi. Nel 2000 realizza per il Festival del Mediterraneo una grande scenografia. Nel 2003 personale a Roma alla galleria di Elisabetta Giovagnoni. Nel 2004, personale a Benevento, alla galleria Arts Events. Nel 2005 inizia a lavorare con la galleria Arteynaturalezza di Madrid. Nel 2006 entra nella collezione della BNL e partecipa ad una collettiva organizzata dalla BNL a Bari a cura di Enzo BILARDELLO con Claudio VERNA e Teodosio MAGNONI.Sempre nel 2006 realizza una personale alla SALAUMBERTO (teatro storico di Roma)con un omaggio a Carmelo BENE.Con la cura di Antonella MARINO, Michele SCHINO e Paolo LEPORE, nel Chiostro di San Francesco alla Scarpa a Bari, presenta degli ultimissimi lavori.

Nel dicembre 2007 realizza un’opera per L’Albornoz Palace Hotel di Spoleto, a cura di Massimo DI STEFANO.Sempre nel 2007, partecipa ad una collettiva nella Galleria di Mosè de Carolis, Le Pleiadi a Mola di Bari e ad un’altra a Lucera, presso la Cantina Storica di Alberto Longo.

Nel 2008, partecipa ad una collettiva nella Galleria Europart a Pittsburg, USA e a una mostra internazionale di incisione a Sassari al Palazzo della Frumentaria.Sempre nel 2008, tiene una mostra personale da NINNI ESPOSITO arte contemporanea a Bari.

Nel 2009, dopo la collettiva a cura dell’Ambasciata di Turchia a Roma, tiene una personale a Istanbul nella FASSART Gallery della Sabanci Foundation. Partecipa alla colettiva ‘Sight’ al museoLaboratorio di Città sant’Angelo.Tiene una personale a Kuwait City ‘Spacial Dinamic’ a cura del Electronic Art Café di Achille Bonito Oliva e Umberto Scrocca.

Rosso celeste incendia il cuore e purifica, tempera acrilica su tela e vetrofusione 200 x 300 cm

La chiave di tutto (vetrofusione) 40x40 cm

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Di Riccardo Notte

Le aule dell’Accademia di Roma hanno visto sostare e transitare artisti secessionisti, modernisti, divisionisti, futuristi, astrattisti, realisti, neoavanguardisti. Membri dell’Art Club si sono alternati a esponenti di ‘Corrente’, elementi della Scuola romana a quelli dell’Arte povera. Ora la mostra RomAccademia: un secolo d’arte da Sartorio a Scialoja, inaugurata al Complesso del Vittoriano il 20 ottobre e aperta fino al 21 novembre, fa il punto sul rimarchevole patrimonio memoriale e artistico di una tra le più rinomate istituzioni culturali europee.Si tratta della prima ricognizione sulla storia di una grande accademia, nel periodo che corre tra il 1875 e il 1975. Certo, non sono mancate rassegne dedicate alla didattica contemporanea o retrospettive su alcune celebrità; ma nessuno aveva tirato le somme di almeno cinque generazioni consecutive di artisti-docenti in una singola Accademia; cosicché oggi Roma apre una pista che si spera possa essere presto seguita dalle altre istituzioni gemelle.La mostra, curata da Tiziana D’Acchille, Anna Maria Damigella e da Gabriele Simongini (catalogo Gangemi) e realizzata con il contributo dell’Assessorato all’Istruzione, diritto allo studio e formazione della Regione Lazio e della Direzione Generale per l’Alta Formazione Artistica e Musicale del Ministero dell’Istruzione e dell’Università, raccoglie oltre centodieci opere di circa cinquanta artisti. Più di tutto colpisce la continuità fra gli allievi e i maestri, al di là delle enormi discontinuità di stile e di appartenenza culturale dei singoli artisti. Questa potente corrente fa riflettere su un dato dissimulato dalla frammentazione cui oggi siamo tutti esposti: l’incidenza di un’istituzione non sta solo nelle sue personalità di spicco, ma anche e forse soprattutto nel suo essere un organismo, un insieme coerente,

in larga misura autonomo. Non a caso dalla mostra emerge che molti allievi rivestirono poi il ruolo di educatori nella medesima istituzione in cui si formarono. Anche i criteri di selezione del corpo docente erano degni di nota e garantivano l’accesso ai migliori. Per esempio, spesso i maestri provenivano dai ranghi dei vincitori del Pensionato Artistico Nazionale, instituito dall’Accademia di Roma per gli studenti di tutte le Accademia d’Italia. Si trattava di un concorso insolitamente difficoltoso, vinto da un solo candidato per ciascuna sezione (pittura, scultura etc.), che dava diritto a una pensione quadriennale da spendersi nella Capitale. Col risultato che l’Accademia di Roma nella prima metà del secolo evitò la chiusura provinciale, arricchendo il suo corpo docente di grandi talenti, provenienti da tutte le regioni d’Italia. Roma ‘città aperta’ anche nell’arte.Molti gli inediti, tra cui opere di Oppo, Sartorio, Coromaldi, Notte e Fazzini mai prima esposte; ma la mostra si distingue anche perché, in questo delicato momento storico, essa esibisce il valore intrinseco dell’insegnamento, l’importanza cruciale della trasmissione della cultura, della storia, delle innovazioni. E l’Accademia fu ed è nell’arte l’ineludibile ponte fra il passato e il futuro, senza il quale non si partecipa al presente. «La cultura dell’oggi è sempre in gran parte ricevuta dall’ieri – scriveva l’antropologo Alfred Kroeber, citato non a caso da Simongini nel catalogo. Da qui l’articolazione cronologica e quindi didattica della mostra, che si apre con un omaggio a Filippo Prosperi, artista tradizionale ma abile direttore dell’istituzione per un quarto di secolo, dal 1874 al 1901, al quale si deve la prima organica riqualificazione dei criteri didattici. Si trattò di un momento invero particolare, perché nell’immediato periodo postunitario Roma doveva dimostrare, anche nell’arte, di

RomAccademia:un secolo d’arte da Sartorio a Scialoja

Renato Guttuso - Fette di anguria - 1966

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aessere capitale a tutti gli effetti. Fu così istituito il Regio Istituto di Belle Arti, l’attuale Accademia, con il compito di misurarsi ma anche di distinguersi dalla papalina Accademia di San Luca. Compito per la verità quasi impossibile, sulle brevi distanze, perché altrove esistevano solidi punti di riferimento come Brera o come l’Accademia di Napoli. E a conti fatti, almeno per i primi vent’anni, l’Accademia di Roma gravitò nell’orbita della vicina Napoli.Al Prosperi successe Ettore Ferrari, autore di noti monumenti romani, ma anche artista molto più aperto ai vari fermenti europei. Poi la presenza di Giulio Aristide Sartorio, di Giulio Bargellini e di Duilio Cambellotti segna la fondazione di vere e proprie scuole.Il transito fra l’estetica tardo novecentesca e le prime correnti moderne (simbolismo, Liberty, divisionismo) fu poi assicurato tra gli altri da Umberto Coromaldi, Fausto Vagnetti, Vittorio Grassi, Giovanni Costantini, i quali ebbero anche ruoli importanti negli eventi artistici ideati per le celebrazioni del Cinquantenario dell’Unità d’Italia.Durante il Ventennio l’Accademia conservò e accrebbe il suo incisivo ruolo nel sistema delle arti. Furono chiamati a insegnarvi il futurista Ferruccio Ferrazzi, che ne divenne direttore, l’incisore e pittore Liberty Adolfo De Carolis, lo scultore Pietro Canonica, nominato poi senatore a vita da Luigi Einaudi; e ancora Antonino Calcagnadoro, Emilio Notte, Umberto Prencipe, Carlo Siviero, nonché Cipriano Efisio Oppo: critico, storico dell’arte e impareggiabile organizzatore culturale (sua l’ideazione della Quadriennale di Roma) ma anche buon pittore; e Pietro D’Achiardi, anch’egli storico dell’arte e pittore, del quale è esposto l’inedito bozzetto per la decorazione del pavimento della sala del Mappamondo a Palazzo Venezia.Dalla metà degli anni ’40 e fino alla metà dei Settanta si aprì un dibattito serrato, non privo di scontri, tra i figurativi e gli astrattisti. Tra i primi le presenze di Franco Gentilini, Pericle Fazzini, Renato Guttuso (che si dimise nel ’69 sull’onda delle manifestazioni studentesche), Amerigo Bartoli, Alberto Ziveri, Emilio Greco e Venanzo Crocetti; tra i secondi i non meno importanti Umberto Mastroianni, l’aeropittore

futurista Sante Monachesi, Marcello Avenali, Luigi Montanarini (che divenne anche direttore), Lorenzo Guerrini e Rolando Monti. Nella mostra si segnalano tra l’altro le personalità di Mario Ceroli (tra i maggiori protagonisti della ‘Scuola di Piazza del Popolo’), dell’anticonformista Mario Mafai, e infine di Toti Scialoja, a lungo direttore dell’istituzione; dalla sua scuola, tra gli altri, i nomi di Pino Pascali, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Gregorio Botta, e quelli degli esponenti della Scuola di San Lorenzo Domenico Bianchi, Bruno Ceccobelli, Nunzio, Gianni Dessì e Marco Tirelli.

Duilio Cambellotti - Vaso Equites - 1922

Pietro Canonica - Rimembranze - 1916

Mario Ceroli - La scala - 1968

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GERARDOLORUSSO

Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma

La questione del riconoscimento “universitario” è una battaglia legittima da fare e di cui mi occuperò anche a titolo personale. Penso che i tempi siano maturi, in Italia e in Europa. Noi dovevamo dimostrare di essere in grado di recepire l’idea di Riforma. Ora la stiamo attuando, in nome dell’Unità d’Europa. Bene, penso che l’Europa stessa debba farsi carico per renderci pari dignità giuridica ed economica. Punto.

Intervista a cura di Gaetano Grillo

Gerado Lo Russo sei appena stato rieletto direttore dell’Accademia di Roma e la capitale finalmente ospita al Vittoriano una grande mostra su un secolo di storia dell’Accademia da Sartorio a Scialoia. Tutti noi auspichiamo un ruolo forte e prestigioso dell’Accademia di Roma che però negli ultimi decenni si era affievolito, questa mostra sembra avviare un processo di riscatto e d’inversione di tendenza, è così? Che programmi avete?E’ fuor di dubbio che le cose vanno meglio grazie ad una serie di eventi positivi, di cui la mostra Romaccademia appare il segno più evidente. Bisogna dire però, che ci sono altri progetti messi in campo per un rilancio concreto. Per restare nel tema, è di prossimo avvio una mostra che vedrà esposti i lavori dei professori e degli artisti che sono passati per via Ripetta dal 1975 ad oggi. A seguire, è prevista la realizzazione di una galleria-archivio permanente in cui saranno conservate le opere di docenti e studenti di oggi e di domani. Ma queste proposte sarebbero poca cosa se non fossero accompagnate da riforme strutturali che sono state avviate con il Presidente Cesare Romiti e che riguardano la ristrutturazione degli uffici amministrativi, la messa in sicurezza e l’ampliamento degli spazi, e gli scambi internazionali con i Paesi stranieri.

Durante quest’ultimo decennio nel quale ci siamo tutti misurati

con la Riforma scaturita dalla legge 508, l’Accademia di Roma si attardava sulla conservazione di posizioni contrarie alla riforma in un clima di litigiosità interno, divenuto addirittura leggendario. Sino all’ultimo, anche sotto la direzione di Gaetano Castelli, i colleghi romani hanno praticato una sorta di “resistenza”, perché?Roma è particolare. In altre città è più facile fare riforme e andare al passo con i tempi ma spesso per costruire il nuovo si spiana e si azzera il vecchio. A Roma c’è una sensibilità diversa, qui finanche il cambio di un sampietrino, ovvero di un pezzetto di pietra del manto stradale, provoca discussioni ed interventi di questi o di quelli, fino a far sembrare impossibile qualsiasi velleità riformatrice. Tuttavia, la difesa ad oltranza dell’esistente genera un paradosso straordinario. A lungo andare lo spirito di conservazione rende la città “eterna”. Infatti, gli stili, le storie e i costumi di epoche lontane tra loro, si sovrappongono gli uni agli altri in un unicum fatto di intrecci e di vissuti senza fine. Come dire che le testimonianze del passato e i saperi dell’arte viaggiano insieme in una reciprocità di intenti che vanno aldilà dell’effimero temporaneo. Evidentemente, la “resistenza” nel conservare valori accettati è un salto nel futuro più veloce dell’apparente incanto del nuovo. Si tratta di capire e comprendere i meccanismi dell’animo umano nella più ampia complessità. L’Accademia è il luogo per

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aeccellenza in cui si privilegia la cultura delle differenze, movimentata dal particolare spirito che alberga negli artisti. Perciò, per fare una qualsiasi riforma, è necessario trovare la maggiore condivisione possibile, diciamo per crescere dialetticamente insieme. E questa è una cosa difficile, ma che fà grande l’Accademia. Direi anche Roma.

Passata l’euforia dei primi anni subito dopo l’approvazione della legge di riforma, molti di noi hanno iniziato a intravedere i limiti e i danni che quel disegno di riforma adduceva al vecchio ordinamento ad iniziare dal 3+2 che risulta essere fallimentare anche nell’Università auspicando un ciclo unico quinquennale che risulterebbe molto più adeguato alla formazione artistica che, per sua natura, dovendo coniugare la teoria alla prassi laboratoriale necessita di un monte ore assolutamente maggiore di molte altre Facoltà avvicinandosi paradossalmente più a Medicina e Ingegneria che a lettere e Filosofia. Cosa pensi a riguardo?Non penso che ci sia stata una particolare euforia all’avvio della Riforma, anche se era stata avanzata parecchi decenni orsono, almeno da quando ero studente anch’io. Direi piuttosto, che la Riforma ci è stata imposta. In che senso? L’Unione Europea doveva unificare la didattica universitaria dei 27 Paesi membri. Ha introdotto una misura unica - il Credito Formativo - per riconoscere i titoli e i percorsi didattici ed avviare lo scambio di studenti e docenti ma il processo richiede un tempo per essere digerito, accettato e condiviso. Già con la moneta dell’Euro si erano registrate difficoltà, figuriamoci per lo scambio dei contenuti didattici! Eppure, oggi nessuno rimpiange le monete nazionali. Lo stessa avverrà con il Credito Formativo e la Riforma universitaria. Per noi italiani che abbiamo avuto il privilegio di impiantare le prime accademie, le prime università, soffriamo un po’ nel dover subire un sistema prevalente in altri paesi ma è questione solo di tempo. Venendo alla questione se per noi accademici sarebbe preferibile il 3+2 o un quinquennio, dico che la percezione di primo acchito ci porterebbe inevitabilmente a ripristinare un 4+1 oppure un 1+4, se non altro perché ci sembrerebbe di svolgere un Quadriennio allungato ma il problema secondo me è un altro. E’ lo scontro tra la didattica tradizionale che privilegia il rapporto “maestro/discepolo” e quella del “professore/studente”.Ricordiamoci della diaspora verificatasi nel 1873, quando a seguito dell’Unità d’Italia, le “Scuole/Botteghe d’Arte” divennero “Istituzioni Pubbliche”. I docenti artisti dell’allora Accademia di San Luca, che non condividevano la svolta, rinunciarono alla didattica scegliendo di dedicarsi alla valorizzazione del Patrimonio Artistico. Anche oggi, come allora, chi predilige un rapporto stretto con gli allievi, quasi “bocca/orecchio” come direbbero gli antichi, preferisce l’Accademia della tradizione. C’è però, una evoluzione in tutte le cose e il percorso delle Accademie va di pari passi con quella sociale e tecnologica. Tutto sta diventando più parcellizzato, più pubblico, più virtuale. Prevale la cultura delle differenze e per chi ama conoscere, dovrebbe essere un vantaggio. Secondo me le due tipologie di approccio alla didattica sono ambedue possibili, anzi auspicabili. Infatti, l’Accademia per essere tale dovrebbe contemplarli in un mix di comprensione reciproca, poiché “Accademia”, lo dice la parola stessa, è un luogo aperto, luminoso e alto in senso ideale. Perciò, svolgere una didattica solamente di tipo laboratoriale potrebbe essere utile solo per acquisire un insegnamento specifico, non la complessità dei saperi che qui si possono coltivare.

L’altro errore di questa riforma è stato l’aumento smisurato dell’offerta formativa che in sostanza ha frammentato l’organicità dell’insegnamento di discipline fondamentali in una pletora di sotto-corsi che quasi sempre duplicano e spesso scimmiottano la disciplina madre. Si è preferita la quantità ma si è sostanzialmente lesa la qualità inducendo gli studenti a un’inutile rincorsa agli esami. Sembra che per diventare Università abbiamo dovuto importare da quest’ultima tutti i suoi difetti ed ora che abbiamo distrutto i nostri pregi specifici scopriamo di non essere neanche Università e di essere trattati come scuola media. Abbiamo lavorato tutti per dieci anni a titolo gratuito e oggi ci viene dato il ben servito, cosa ne pensi?Qualsiasi riforma, ovvero ricerca di una nuova forma, è come un vestito che ci si cuce addosso. C’è bisogno di un periodo di adattamento per poterci sentire a proprio agio. La pletora della duplicazione delle

attività formative si sta già sgonfiando. Penso che in un paio di anni il processo di riforma sarà ottimizzato e vedrà la rivalutazione degli insegnamenti tradizionali accompagnati solo da quelli innovativi di cui non se ne può fare a meno.La questione del riconoscimento “universitario”, invece, è una battaglia legittima da fare e di cui mi occuperò anche a titolo personale. Penso che i tempi siano maturi, in Italia e in Europa. Noi dovevamo dimostrare di essere in grado di recepire l’idea di Riforma. Ora la stiamo attuando, in nome dell’Unità d’Europa. Bene, penso che l’Europa stessa debba farsi carico per renderci pari dignità giuridica ed economica. Punto.

La sperimentazione è partita con il biennio e l’anno successivo con il triennio, oggi abbiamo un triennio ormai odinamentato ma il biennio è ancora sperimentale, perché?Bisognerebbe chiederlo ai nostri governanti. L’opinione diffusa è che noi artisti produciamo enigmi, non soluzioni. Che perciò i politici al nostro contatto ne verrebbero influenzati lasciandoci nel guado dell’incerto ma penso che sia solo una battuta per giustificare i ritardi tipici dell’andazzo italiano. I politici fanno tutt’altro: legiferano per risolvere i problemi, dunque: c’è da lottare per un cambio di marcia che porti a conclusione quanto è previsto doversi concludere!

La maggior parte degli studenti, dopo aver acquisito il diploma accademico di primo livello non prosegue gli studi per il conseguimento del diploma accademico di secondo livello, come mai avviene questo?E’ indubbio che dobbiamo migliorare la qualità delle metodologie e tecnologie didattiche. Ma il problema più che riguardare il triennio/biennio, necessita di un approfondimento sociologico. Inoltre, bisogna attivare ancora il III livello, dopodiché si può fare una valutazione complessiva dei percorsi didattici.

La formazione triennale, da sola, risulta essere molto fragile e per altro insufficiente anche all’eventuale inserimento professionale nel mondo del lavoro in un momento in cui quest’ultimo ha

E. Notte - L’allievo - olio su tela , 1931

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fortemente alzato il livello di competizione. Che senso ha diplomare tutti questi giovani poco formati e destinati alla disoccupazione?Bisognerebbe risalire alle motivazione per cui ci si iscrive all’Accademia. Se uno viene per acquisire solo professionalità, sarebbe meglio che frequentasse corsi professionali. Bisogna chiarire che l’Accademia è un luogo in cui la priorità si basa sul reciproco confronto dialettico con il docente e con gli stessi compagni di classe. Chi ha frequentato l’Accademia perviene ad una apertura mentale che se la ricorda per tutta la vita. Infatti, il percorso formativo personalizzato vale più della preparazione tecnico-professionale. Ed è suggestivo poter pensare che chi matura la capacità di estrinsecare la propria energia creativa, trovi facilità di comunicazione in qualsiasi contesto si venga a trovare. Per riuscire nei profili professionali emergenti, invece, basterebbe coniugare le conoscenze accademiche con l’acquisizione di qualche esperienza più decisamente specialistica, che si può coltivare parallelamente anche fuori dell’Accademia tramite master, tirocini e workshop. La disoccupazione poi, è un problema da risolvere con la politica, noi possiamo contribuire con la forza delle idee da mettere in campo.

Molti ci rimproverano e io sono d’accordo con loro, che i nostri studenti si diplomano con medie altissime. Si elargiscono trenta e lode con facilità, sembra quasi che un risultato sufficiente venga apprezzato come un risultato straordinario; cosa può fare un direttore per evitare che accada questo?Uhm, penso che il criterio migliore sia di precisare quanto detto poco prima. Ritengo che il rigore debba essere applicato a quegli insegnamenti di tipo tecnologico, scientifico e professionale, in cui vale saper fare due più due quattro. In altri ambiti, dove la creatività è manifestazione del dubbio, che al contrario genera il fascino del messaggio, sarebbe auspicabile una maggiore larghezza di vedute. Basti pensare come i parametri del giudizio sul senso del Bello nell’Arte siano mutati nel corso del tempo, per capire che a volte

si dovrebbe essere meno assolutistici per evitar inutili paradossi. Penso che l’attribuzione dei voti dovrebbe essere rigorosa sugli insegnamenti professionistici, elastica sugli insegnamenti creativi.

Cosa si può fare per tornare ad avere nelle accademie un corpo docente di maggior prestigio professionale?Prima di tutto mi preme affermare che il corpo docente è già di qualità. Semmai, c’è bisogno di una maggiore autonomia istituzionale per scegliere i docenti degli insegnamenti innovativi, a meno che lo stesso Miur non fornisca presto nuove regole di reclutamento.

Dopo aver raschiato il fondo alle botti delle vecchie graduatorie, inserendo nelle accademie docenti non sempre di primo profilo, quest’anno si è esaurita anche la graduatoria nazionale di scultura e allo stesso tempo il Ministero non ha programmato altri concorsi, come regolarsi? Bisogna procedere con i contratti? Abbiamo abbastanza autonomia per attivare queste procedure?Riprendo il concetto precedente con un esempio. A Roma abbiamo fatto un bando di selezione per tutti gli insegnamenti “innovativi” a contratto, in modo da avere a disposizione una graduatoria di riserva triennale, onde attingere in caso di bisogno. Ciò al fine di garantire una programmazione didattica regolare. Ma è ovvio, che è un’emergenza e come tale deve essere considerata transitoria.

Autonomia didattica e amministrativa, sono scatole vuote? Attualmente più che vuote, sono scatole fibrillanti, nel senso che, mancando regolamenti certi e contributi economici adeguati, chiunque è portato ad interpretare di tutto e di più. Né vale il detto che bisogna documentarsi doverosamente sulle norme per agire meglio, poiché noi artisti per natura non diventeremmo mai degli esperti burocrati. Infatti, il groviglio di norme su norme che si è venuto a creare tra vecchi e nuovi ordinamenti, può essere superato solo con il ritorno all’essenza del perché facciamo i professori nel campo

Franco Gentilini - Autoritratto - 1945 Luigi Montanarini - Strisce -1967

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exfabbricadellebamboleassociazione culturale

via dionigi bussola, 6 - milano377.190.2076http://exfabbricadellebambole.jimdo.com/Presidente:Gustavo BonoraOrganizzazione e programmi mostre/eventi: Rosy MentaUfficio Stampa&Relazioni Esterne:Daniela Basadelli Delegà

dell’arte. Io penso che sia una missione prima ancora che un lavoro e ritengo che, nonostante tutto, sia un privilegio sociale. Per me essere un docente dell’arte è più soddisfacente che fare un’opera d’arte, poiché elaborare e conoscere insieme le anime umane è qualcosa di unico ed irripetibile. Lo scambio di conoscenze deve essere stato il motivo originario per cui è nata l’Accademia, ne sono convinto. Dopo vengono tutte le altre problematiche: voti, diplomi, assegnazioni di posti, ruoli, e quant’altro ma ripeto: bisognerebbe tornare all’origine e rilanciare i saperi dell’Arte per un futuro migliore.

Cosa c’è da fare ancora per concludere la riforma? Unificare buona parte dei percorsi didattici di tutte le Accademie e caratterizzarsi secondo le migliori tradizioni e potenzialità collegate al territorio. Contemporaneamente, i governanti dovrebbero regolamentare definitivamente l’attuazione della Riforma.

Alla luce dell’esperienza che abbiamo fatto in questi anni, quali correzioni faresti alla riforma?Secondo me, la dialettica è diventata troppo spesso mera retorica confusionaria. Torniamo ai valori originari: mettiamo al centro più spirito di ricerca, più applicazione per “Fare Arte”, e lasciamo in periferia le chiacchiere demagogiche. In sintesi: più atti e meno discussioni, è venuto il momento in cui bisognerebbe parlare meno di 3+2 e di calcoli ragionieristici sui crediti formativi e quant’altro.

Questa rivista (Academy) ha come primo obiettivo la circolazione delle idee nel circuito, l’informazione su quello che fanno le accademie, la valorizzazione delle nostre professionalità e la visibilità del nostro patrimonio storico ma anche contemporaneo; la vostra accademia apprezza il nostro operato?Si apprezza tutto ciò che consente uno sviluppo sui valori delle Accademie. La rivista ha un taglio d’immagine buona per la valorizzazione del patrimonio artistico e Roma potrebbe essere

un buon referente per “Academy”. A me piacerebbe esaltare oltre l’immagine, anche i contenuti filosofici dei saperi dell’Arte che sono a monte della produzione di immagini. E penso che in un contesto globalvolgarizzante come quello attuale, parlare di valori veri sia un prezioso contributo dialettico.

Cosa possiamo fare tutti insieme per concludere e migliorare il nostro stato giuridico?Si sa che lo scibile umano si manifesta con i segni e simboli. I segni sono usati da matematici e scienziati per elaborare calcoli, inviare astronavi nel cosmo e mini strumentazioni nel microcosmo. Si sa che i sacerdoti e i curatori della psiche usano i simboli per indagare nella profondità dell’animo umano. Noi artisti, produciamo segni e simboli. Siamo una sorta di braccio destro della prima manifestazione dell’intelligenza e del divino inconscio. Siamo organici per aiutare ad indagare il mistero della vita. Il ruolo che occupiamo nella società è centrale. Basta guardare ciò che rimane nella storia dell’evoluzione umana: tutto è saputo grazie ai graffiti, sculture, pitture. Ottenere il riconoscimento giuridico ed economico pari ad un docente universitario è anch’esso un segnale. Chiediamolo tutti insieme: Collegi dei Professori, Consigli Accademici, Conferenza dei Direttori, Organizzazioni sindacali. Per chi ci governa, che sia Italia o Europa, è un atto dovuto. Se, inoltrando la richiesta unitaria ed istituzionale non si hanno risposte certe, inviamo un ricorso alla Corte di Giustizia d’Europa. Il ragionamento è semplice: noi stiamo contribuendo all’unificazione della didattica in Europa. Siamo in credito con chi ci ha imposto questa pur giusta riforma. Ma l’UE sia coerente: se interviene per portare la pensione delle donne italiane da 60 a 65 anni per uniformarle al resto dei Paesi membri, ci riconosca pari diritti come per il resto dei docenti universitari europei. Sarebbe un pur piccolo ma prezioso contributo fatto in nome dell’Arte. Questo nostro Paese trae tanti benefici in suo nome, forse varrebbe la pena investire di più in ciò in cui siamo veramente primi al mondo.

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A cura di Giovanna Cassese

Napoli, antichissima città di mare, grande porto ed epicentro delle rotte del Mediterraneo, vocazionalmente città che vive di scambi culturali ed è terra feconda e vitale per le arti visive contemporanee e dello spettacolo, è lieta di ospitare il Premio nazionale delle Arti, giunto alla sua settima edizione, grande vetrina per i giovani talenti selezionati dalle Accademie italiane ed operosi nei campi della pittura; scultura; arti grafiche; decorazione; scenografia teatrale, cinematografica e televisiva; arte elettronica; opere interattive; videoinstallazioni; produzioni audiovisive di narrazione e di creazione. Le arti riflettono da sempre le identità dei valori più rappresentativi di ogni società e di ogni età.In una fase così difficile dell’Italia e del meridione, il Premio nazionale delle arti a Napoli ha anche una forte carica simbolica, in una città complessa e al tempo stesso tanto ricca e ne riconferma il ruolo non solo di città d’arte, ma di città d’arte per il contemporaneo. Forse la più ricca di creatività. Dall’inizio del nuovo millennio, ci troviamo in un momento di trasformazione epocale per le Accademie in Italia in seguito all’emanazione della Legge 508/99 e dei successivi decreti. Riforma attesa da decenni e purtroppo non ancora compiuta. Tale trasformazione epocale coincide, chiaramente, anche con uno scenario storico, politico e sociale profondamente mutato ed in continua e rapida trasformazione. Credo, però, che non esista “una questione dell’accademia” in quanto tale, ma una questione dell’arte contemporanea. Le Accademie sono parte determinante e fondante del sistema dell’arte e solo nella complessità del sistema possono ritrovare il loro senso e il loro ruolo. Occorre riportare il dibattito in seno alla questione dell’arte

contemporanea in Italia, che è una questione anche (o soprattutto?) di formazione, convinti come siamo che la didattica dell’arte incida fortemente sulla produzione e sul destino delle arti. Infatti, le accademie di belle arti in Italia e in Europa fin dal loro momento istitutivo non sono mai state mere scuole. Hanno invece costituito uno dei principali gangli istituzionali atti a regolare il rapporto dialettico tra arte e società. Organismi complessi, plurifunzionali e polidisciplinari, il loro fine principe era e rimane tuttora la promozione delle arti nel senso ampio del termine, in quanto luoghi per una didattica d’eccellenza, dove è centrale la cultura laboratoriale come sintesi tra teoria e prassi. Tra alterne vicende le Accademie sono fin dalla fondazione luogo eminente del dibattito sulle arti dove le contaminazioni trovano il loro humus privilegiato di espressione. Simboli della complessità culturale tout court, affascinanti e contraddittorie, ricchissime e misconosciute, le Accademie d’Italia alla fine del primo decennio del terzo millennio si confermano in ogni caso quali luoghi imprescindibili per una didattica d’eccellenza delle arti. L’ampliamento dell’offerta formativa, consentito dai nuovi ordinamenti, ha inciso profondamente sulla produzione come sugli sbocchi occupazionali. E in questi anni di svolta epocale, mentre si ridisegnano geografie e cadono ideologie, mentre sempre più labili si fanno i confini e le definizioni dell’opera d’arte e del suo statuto disciplinare, le Accademie restano cardini all’interno del sistema contemporaneo delle arti e si assumono la responsabilità di collaborare attivamente per le definizioni dei percorsi e dei destini delle arti del futuro.Cosicché, In questo panorama, costituisce una sfida affascinante ed un momento imprescindibile di crescita il mostrare la fresca produzione. Ma in effetti, da sempre, le esposizioni hanno avuto il

PREMIO NAZIONALE DELLE ARTI2009 - 2010 nell’Accademia di Belle Arti di Napoli: una mostra e una festa per gli artisti del futuro

La Commissione giudicante a lavoro, al centro in fondo la Direttrice Giovanna Cassese e il Presidente dell’Accademia di Napoli Sergio Sciarelli

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loro luogo ufficiale di nascita proprio nelle Accademie. D’altronde è chiarissimo quanto sia necessaria la mostra, il suo momento formativo e informativo per una seria didattica delle arti e quanto il mostrare non può che avvenire nel luogo del fare, almeno nel momento iniziale del percorso dell’opera. E’ proprio l’atelier, lo studio dell’artista il luogo della prima epifania dell’opera, il luogo dove l’opera si mostra prima al suo autore già nel suo farsi, e, quindi, alla prima cerchia di amici, maestri e mercanti. Le mostre hanno sempre costituito per gli artisti un momento importante di analisi, aggiornamento e ripensamento, dunque un momento didattico per eccellenza.E’ in questo quadro che si inscrive la grande occasione di organizzare il Premio Nazionale delle Arti ed una grande mostra come quella che si apre con la settima edizione qui a Napoli, con circa duecentocinquanta opere, innanzitutto espressione dei fermenti e dei cambiamenti. La produzione delle Accademie sta cambiando di anno in anno e prova ne è la grande difficoltà di fare rientrare i lavori presentati in generi precisi (come prevede il bando). Più giusto è parlare di sconfinamenti e contaminazioni, di superamento dei generi e di complessità dei linguaggi.Una grande mostra, quella che prevede il Premio delle Arti, che di anno in anno consente un momento in cui è possibile avere il polso della capacità creativa ed espressiva delle accademie, costituisce occasione di conoscenza, di confronto e di scambio, opportunità per stabilire relazioni e sinergie, opportunità per fare bilanci e progettare nuovi eventi o diverse strategie culturali.L’Accademia di Napoli, che è in un momento di grande espansione e ricchezza, aperta alla società e al territorio, unica ad avere tutto il suo grande patrimonio di beni culturali esposto e fruibile, si offre ogni giorno agli allievi e al pubblico esterno con i suoi grandi laboratori ammodernati, la sua magnifica Galleria, l’importante Gipsoteca, la Biblioteca Anna Caputi in continua crescita e tutta in sbn, il suo elegante e prezioso teatro ora ristrutturato, la galleria del giardino per la promozione e valorizzazione dell’opera dei suoi migliori giovani artisti, e il suo unico Archivio Storico. Particolarmente attenta alle nuove esigenze, alle nuove possibilità, al desiderio delle/dei nostre/i giovani di trovare una dimensione in cui riconoscersi, idee e, perché no, ideali da scoprire o inventare, entusiasmo di progettare e realizzare, bellezza di creare, oggi l’Accademia è a pieno titolo

tra le istituzioni culturali cittadine più vivaci e feconde, grazie ad una politica culturale che favorisce gli scambi e tende a costruire reti di conoscenza, anche se da sempre una gran parte degli avvenimenti delle cose dell’arte è passata per l’accademia. Viviamo un periodo particolare e complesso per la formazione delle/dei giovani e l’accademia rappresenta e può sempre più rappresentare sempre più, una chance, una scelta importante, il luogo dove è possibile non tanto trovare risposte, quanto porre e porsi domande, dove è possibile pensare e fare, sentire ed esprimere il sentire, ragionare ed al tempo stesso creare, comunicare, formarsi con serietà e spirito critico, avendo esito e prospettive di futuro.Napoli riconferma con la settima edizione del Premio delle Arti il suo ruolo e ha scelto simbolicamente di allocare la grande esposizione nei suggestivi e antichi spazi dell’ex Convento di San Giovanni delle Monache che Errico Alvino all’alba dell’unità d’Italia trasformò con un felice progetto ad hoc in Accademia.. Come nel 1951, quando ospitò la grande mostra delle Accademie Italiane e i corridoi si riempirono di opere (oggi restano le foto ingiallite a memoria di un evento memorabile poco dopo il secondo conflitto mondiale), o ancora, come nel 1993 quando la grande mostra internazionale ed itinerante Quando le Accademie scelgono le arti, a cura di chi scrive e di Gianni Pisani, riempì la Galleria di opere di giovani artisti scelti dalle Accademie e facoltà di undici paesi d’Europa, l’Accademia di Belle Arti di Napoli ha deciso simbolicamente di organizzare la mostra nei suoi spazi e si mostra per ribadire quanto sia importante non solo l’opera, ma la scelta degli spazi per la sua epifania. Una mostra in Accademia e scelta dalle Accademie restituisce valore alle istituzioni pubbliche per un progetto culturale a lungo termine e propone le arti non solo come spettacolarità multimediale ma come lavoro che induca a pensare e a riflettere. E a differenza del museo, esporre l’opera in Accademia significa in prima istanza riconnetterla con il momento del fare e dell’insegnabilità dell’arte., Ancora una volta, dunque, l’Accademia di Napoli si apre e si svela: si offre ad un vasto pubblico e per un evento di rilevanza nazionale ed internazionale e nei suoi antichi spazi si è allestita una mostra ricca e polifonica, affinché si svelino le nuove forme dell’arte. In un allestimenti complesso e vario si offrono le opere dei giovani talenti, i loro work in progress, la produzione più interessante da venticinque accademia di tutta Italia da nord a sud, da est ad ovest della penisola,

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da guardare principalmente alla luce dello spirito di ricerca che le anima. E ribadire con forza il diritto e la necessità della ricerca artistica, che è alla base di una produzione interessante, è un altro dei meriti di questo prestigioso Premio Il premio diventa rassegna per i creativi del futuro, occasione di analisi e luogo di sintesi delle espressioni e delle qualità delle Accademie, luogo simbolico per eccellenza; grande momento di festa e di incontro tra studenti di istituzioni diverse, tra il pubblico vasto e vario del mondo dell’arte contemporanea, che con sguardo critico e carico di curiosità verrà a vedere gli esiti della giovane creatività italianaQuesto Premio e l’Accademia di Napoli vogliono contribuire contestualmente a tessere i fili di una trama, a dare un futuro ai nostri giovani fondato sui processi d’innovazione e internazionalizzazione. In quest’ottica, dunque l’apertura al Mediterraneo, con alcune opere (foto e video) fuori concorso, scelte da quattro importanti istituzioni, e per la quale intendo ringraziare le sinergie con La Fondazione Campania dei Festival e il Napoli Teatro Festival pensando ad ulteriori sviluppi nell’ambito del grande evento Le città del mediterraneo previsto per il settembre del 2011 ed in vista di una grande mostra che possa offrire un panorama sulla giovane arte nei paesi del Mediterraneo per creare dei reali canali di comunicazione e di scambio culturale tra i diversi Paesi dell’area del Mediterraneo, ahime’ cosi’ poco uniti,.e per far sì che, da questi scambi, possa emergere una volontà di dialogo e di competizione “inter pares”, possa nascere un confronto dialettico per nuove mappe.A giudicare le opere in mostra nelle 8 sezioni (pittura, scultura, grafica, decorazione, scenografia, installazioni, fotografia e video) del Premio delle Arti 2009-2010, una prestigiosa giuria presieduta dal Direttore MAXXI Arte Anna Mattirolo – e composta da Laura Cherubini, Sergio Fermariello, Giovanni Girosi, Luciano Romano, Marco Tirelli, Massimiliano Tonelli – che ha scelto: per la pittura Carmelo Fabio Romano (Bologna); per la grafica Caterina Roberta Cardillo (Bologna); per la scultura Edoardo Basile (Catania); per la decorazione Silvia Naddeo (Ravenna); per la scenografia Agostino Sacchi (Brera); per l’installazione Silvio Combi (Brera); per la fotografia Paola Di Domenico (Napoli); per i video Giselle Fernandez (Brera). In più, anche delle menzioni speciali che sono state attribuite per la grafica a Michela Sperindio (Sassari), per la scenografia a

Paolo Puliserti (Brera), per l’Installazione al gruppo di lavoro autore di “Insert scorie” (Napoli), per la fotografia a Francesca Rao (Napoli) e Turiana Ferrara (Catania).

*Giovanna Cassese, Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli(Dal testo di presentazione al catalogo Premio Nazionale delle Arti 2009-2010)

Paolo Puliserti (Accademia di Brera) segnalato per Scenografia

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Agostino Sacchi (Accademia di Brera) vincitore per Scenografia

Paola Di Domenico (Accademia di Napoli)vincitrice per Fotografia

Francesca Lamina (Accademia di Napoli)sezione Pittura

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NABA sta per Nuova Accademia di Belle Arti, dopo 30 anni dalla sua fondazione, ha ancora senso la definizione di nuova?Quando l’Accademia è stata fondata, 30 anni fa, il termine “nuova” intendeva marcare una precisa scelta di campo, la presa di distanza da un modello formativo che si riteneva superato e che si voleva riformare. Il progetto originale era fortemente radicato nei cambiamenti che la città di Milano attraversava in quegli anni, con l’emergere delle industrie artistiche che ne avrebbero trasformato radicalmente l’assetto produttivo. Questo confronto con il contesto è ancora molto forte, ma anche le altre accademie sono nel frattempo cambiate. Il termine “nuova” ha quindi perso parte della sua valenza polemica, ma continua a identificare una tensione, che non è necessariamente ricerca del nuovo, ma una disponibilità al cambiamento in cui ci riconosciamo.

Dirigi la NABA da sette anni cosa è cambiato nell’accademia e nelle sue relazioni con il contesto? Da un punto di vista didattico, l’introduzione della riforma e in particolare l’attivazione dei corsi specialistici ha portato una maggiore complessità nella progettazione e gestione dei percorsi formativi. L’apporto di studenti provenienti da diversi contesti formativi italiani e internazionali (oltre il 50% degli studenti di questi corsi proviene da studi universitari e quasi il 30% è straniero) ha contributo nel contempo ad arricchire la qualità dei nostri progetti e delle nostre produzioni. Siamo riusciti a farci riconoscere come interlocutori a pieno titolo dalle istituzioni e ad entrare a fare parte dei principali network cittadini della formazione universitaria, che prima ci erano preclusi in quanto accademia privata. Questo non era un risultato scontato.

Nell’attuale contesto di riduzione dei finanziamenti e di delegittimazione della formazione pubblica, NABA intende proporsi come modello alternativo?Credo che sia pericoloso costruire modelli a partire da singole esperienze, spesso legate a fattori contingenti e a equilibri che non si possono riprodurre. Sono consapevole di questo rischio e cerco sempre di evitare questa forma di strumentalizzazione. Nel contempo, mi piacerebbe avere la possibilità di un confronto più aperto e meno ideologico con le accademie pubbliche, credo che questo potrebbe aiutarci ad affrontare con maggiore consapevolezza i nostri problemi, mettendo a frutto la diversità delle nostre esperienze. La NABA festeggia i 30 anni dalla sua fondazione. Come avete pensato di celebrare questo passaggio?Quest’anno ha segnato un passaggio ancora più importante, che ci ha portato a diventare parte del network internazionale di università, Laureate International Education, un cambiamento la cui portata stiamo ancora sperimentando. Forse anche per questo motivo abbiamo scelto di metterci in gioco, proponendo un programma non banalmente autocelebrativo, in grado di affermare la nostra identità in un confronto più ampio sul tema della formazione artistica a partire dai modelli e dai concetti in cui ci riconosciamo e che ispirano la nostra esperienza. Con Marco Scotini e Alessandro Guerriero stiamo organizzando una mostra e un convegno. Inoltre stiamo lavorando ad un volume collettivo che presenteremo più compiutamente nel prossimo numero della rivista: un lessico di cento parole che raccontano l’universo NABA.

30° COMPLEANNO

Intervista a Elisabetta Galasso a cura di Francesca Zocchi

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30 ANNI NABA: LEARNING MACHINES. ART EDUCATION AND ALTERNATIVE PRODUCTION OF KNOWLEDGE

CONVEGNO: LEARNING MACHINES. DISCORSIIn occasione del suo trentennale, NABA organizza e ospita, dal 9 all’11 dicembre 2010, “Learning Machines. Discorsi”, un convegno internazionale sulla relazione tra arte e educazione. Il convegno, aperto al pubblico, partirà il 9 dicembre in Triennale e proseguirà nei giorni successivi all’interno del Campus NABA. Parteciperanno al confronto autorevoli studiosi, teorici e curatori internazionali, da Nikolaus Hirsch (direttore della Städelschule di Francoforte) a Koen Brams (direttore della Jan Van Eick Academie) e Eyal Weizman (direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths di Londra), da Tomas Maldonado ai designer e architetti Andrea Branzi, Alessandro Guerriero, Italo Rota, Gianni Pettena, John Palmesino oltre a Florian Schneieder, Clementine Deliss, Pascal Gielen, Pelin Tan, Gediminas Urbonas, Gerald Raunig.

9 dicembre 2010 TRIENNALE – Via Alemagna 6, Milano10 e 11 dicembre 2010NABA - Nuova Accademia di Belle Arti Milano – Aula MagnaVia Darwin 20, Milano

MOSTRA: LEARNING MACHINES. FIGUREREADING MACHINE. TEMPORARY LIBRARY“Learning Machines. Figure”, una mostra di arte contemporanea curata da Marco Scotini sul tema dell’educazione e la formazione artistica che attraverso foto, video, installazioni, maquette architettoniche, manifesti, riviste, materiali documentari, intende tracciare alcuni percorsi didattici alternativi dal secolo scorso a oggi sulla produzione di conoscenza. In esposizione lavori di artisti internazionali, tra cui Joseph Beuys, R. Buckminster Fuller, l’Atelier Poupoulaire, Guy Debord e il

Situazionismo, Roy Ascott e Stephen Willats, Francesco Jodice, Erick Beltràn, Jean-Luc Godard, Huit Facettes, Tim Rollins & KOS, Luca Frei, George Maciunas, Rainer Ganahl, Alison e Peter Smithson, Giancarlo De Carlo, Cedric Price, Niels Norman e altri architetti che hanno progettato scuole sperimentali, insieme a uno screening video con materiali di Eyal Sivan, Frederick Wiseman, Darcy Lange, Nomeda & Gediminas Urbonas, Basil Wright e artisti che hanno affrontato i temi dell’educazione radicale.

Nel campus NABA verrà inoltre allestita “Reading Machine”, una Temporary Library su progetto di Alessandro Guerriero, una biblioteca temporanea dove sarà aperta alla consultazione del pubblico una selezione di pubblicazioni e cataloghi che intendono rappresentare il corpo docente NABA dal 1980 ad oggi.NABA - Nuova Accademia di Belle Arti Milano Via Darwin 20, MilanoDal 10 dicembre 2010 al 14 gennaio 2011Per orari e chiusura natalizia: www.naba.it

PUBBLICAZIONE: IL MANUALE. UN’ACCADEMIA IN 100 PAROLECo-progettazione, Autoeducazione, Public Art, Interaction Design: questi solo alcuni dei lemmi che compaiono nella pubblicazione “Il Manuale. Un’Accademia in 100 parole”, una sorta di vocabolario che ripercorre e celebra i momenti salienti dei primi trenta anni di storia della Nuova Accademia di Belle Arti Milano (NABA). Cento parole chiave sviluppate in altrettanti argomenti da docenti e collaboratori che negli anni hanno costruito un percorso formativo in costante evoluzione. Uno strumento per comprendere a fondo cosa significhi educare all’arte (al design, alla grafica, alla scenografia, alla moda e ai media) oggi, e s’indirizza a un pubblico di non soli addetti ai lavori, con il presupposto che per comprendere a pieno una società fondata sulla produzione e circolazione di conoscenza, bisogna partire appunto dalla sua educazione.

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L’Accademiadi Foggiaha un nuovodirettore:

PIERO DI TERLIZZI

A cura di Gaetano Grillo

L’Accademia di Foggia ha un nuovo direttore: Piero Di Terlizzi, finalmente un direttore artista! Piero ci fai una sintesi del tuo percorso come docente d’accademia?Giovanissimo inizio a Bari come professore di 2° fascia di Anatomia, segue Frosinone e Bologna, poi concorso da docente e quindi cattedra all’accademia di Brera per cinque anni dal 1992 al 1997 direttore F. De Filippi si respirava già un’aria nuova e stimolante, con colleghi come V. Bucciarelli, E. Grisanti, P. Salvi ecc., che parlavano già di anatomia come una disciplina che si occupava del corpo non solo dal punto di vista scientifico, ma ne ampliava il significato sensoriale in senso più ampio e interdisciplinare, quindi Accademia di Roma 1998 e infine sede definitiva Foggia.

La tradizione accademica voleva che a dirigere queste istituzioni fosse un artista di chiara fama, un addetto ai lavori, capace di conoscere a fondo le ragioni specifiche del fare artistico. Negli ultimi vent’anni gli artisti hanno snobbato questo compito perché è divenuto molto burocratico, fare il direttore equivale a non avere più tempo per fare l’artista; come pensi di riuscire a conciliare questi due ruoli?Nel mio peregrinare ho incontrato spesso direttori che erano degli artisti come Antonio Passa, Mario Colonna, e appunto Fernando De Filippi, persone che comunque erano presenti nella vita artistica e non abdicavano al loro ruolo di artisti, certo questo comportava per loro molto sacrificio, con l’abbattimento del primato della tecnica, credo che oggi non ci sia più questo bisogno fisico di passare molto tempo dentro il proprio atelier, che potrebbe sinceramente diventare una gabbia dorata, trovo invece più stimolante empaticamente “ascoltare come vivono gli altri”, e confrontarmi con i diversi saperi e le nuove tecnologie che agitano il panorama dell’arte contemporanea, rottamando il cliché dell’artista romantico genio e sregolatezza, poco propenso ad occuparsi delle cose materiali, e alcune volte noiose come la burocrazia. Per quello che riguarda la gestione vera e propria sappi che ho studiato per ricoprire il ruolo, ho fatto apprendistato, eletto nel c.a. e nominato pro-rettore diciamo che con la burocrazia da un po’ già ci convivo.

L’Accademia di Foggia è una piccola accademia ma forse proprio per questa ragione potrebbe svolgere la sua attività con maggiore agilità, quanti professori v’insegnano? Quanti sono gli studenti? Quali indirizzi sono attivati?Foggia in effetti è un’Accademia a misura d’uomo tra docente e allievo si stabilisce subito un rapporto umano con una frequentazione giornaliera, attualmente abbiamo 41 docenti ordinari e 26 docenti a contratto, con un numero di studenti iscritti che si aggira intorno ai 540-550, agli indirizzi tradizionali di Pittura, Scultura, Decorazione

e Scenografia, da quest’anno si sono aggiunti: Decorazione con indirizzo Arredo Urbano, Progettazione Artistica per l’Impresa con indirizzo Graphic Design e Moda e Costume più ancora Nuove Tecnologie dell’Arte.Foggia è una città con scarsa inclinazione all’arte, come pensi di potenziare l’attività dell’accademia nel territorio? Quali iniziative vorresti realizzare?Concordo con la tua affermazione relativa a una scarsa sensibilità del territorio, nei confronti dell’arte contemporanea, questa lacuna la estenderei un po’ polemicamente all’intera regione, una tra le poche regioni che a fronte della presenza di 3 accademie d’arte, non ha ancora un museo d’arte contemporanea, anche se, pochi conoscono gli insospettabili legami di un grande artista del secolo scorso come Beuys, gli stimoli collegati alla frequentazione nel dopoguerra col nostro territorio e il fascino suscitato su di lui dalle tradizioni antropologiche, proprio da queste parti sono stati concepiti due importanti lavori come “Grassello” e “Prima prova che la gente di Foggia è roba buona”, purtroppo di queste operazioni non rimane traccia ne consapevolezza. Sono stato eletto da appena 2 giorni, ma questo non m’impedisce di pensare che quest’anno ricorrono i 40 anni dalla nascita dell’istituzione dell’accademia in capitanata e mi piacerebbe, per dare visibilità e rilanciare l’attività, riproporre la testimonianza del lavoro dei docenti che hanno contribuito alla crescita dell’istituzione, artisti come I. Legnaghi, L. Lucchetti, G. Albanese, V. Capone, in un confronto con gli artisti e docenti che tuttora sono presenti nel nostro istituto.Contemporaneamente stiamo seguendo con molta attenzione, gli sviluppi del progetto che il Prof. Sgarbi ha illustrato questi giorni a Roma per la Biennale del 2011, con la prospettata partecipazione delle accademie e dei giovani artisti a questa che è la più importante manifestazione d’arte italiana, sarebbe una buona opportunità per far conoscere la vitalità creativa dei giovani talenti presenti nella nostra istituzione.

Cosa pensi della riforma? Quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi dell’attuale impostazione?La riforma a distanza di oltre 10 anni presenta una sua incompletezza, con diverse innegabili opportunità legate alla nuova struttura dei dipartimenti e alla ricerca, al richiamo attento e costante al confronto con la struttura didattica universitaria, allo sviluppo di un percorso sempre più legato all’autonomia dell’istituzione con le inevitabili ricadute nel ripensare gli inscindibili legami col territorio, tutto questo però scusa la franchezza non può essere attuato a costo zero, con scarsi investimenti e con i continui tagli al fondo d’istituto imposti anche dalla crisi economica.

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Si contano a dieci i maestri onorari proclamati con il titolo di accademico honoris causa e la consegna del premio Svoboda, dall’Accademia di Belle Arti di Macerata. Il riconoscimento viene conferito dal 2005 con l’intento di formare un consiglio accademico di interpreti eminenti del mandato istituzionale e l’ultimo, assegnato all’inizio dello scorso giugno e attribuito al talento artistico e creativo di Enzo Cucchi, rappresenta il primo fin’ora destinato ad un artista visivo contemporaneo. Infatti sul registro d’onore dell’Accademia maceratese in ordine cronologico sono stati annoverati: il regista Giampiero Solari, il drammaturgo Marco Paolini, il poeta Edoardo Sanguineti, lo scenografo Dante Ferretti, il light designer Vittorio Storaro, il fotografo Mario Dondero, l’autore di fumetti Milo Manara, l’illustratore Roberto Innocenti e il critico d’arte Achille Bonito Oliva, la cui proclamazione ha preceduto quella di Cucchi di soli tre mesi. La cerimonia avvenuta nell’aula magna dell’accademia, che porta il nome del celebre scenografo a cui è titolato il premio, si è aperta con i saluti di accoglienza delle rappresentanze istituzionali, dall’assessore ai Beni culturali del Comune di Macerata Stefania Monteverde, al presidente del consiglio provinciale Umberto Marcucci che ha ricordato la recente donazione di Cucchi di un mosaico all’Istituto scolastico Itas Matteo Ricci, dall’assessore alla Cultura della Regione Marche Piero Marcolini a Franco Moschini e Anna Verducci, rispettivamente presidente e direttore della stessa accademia. Si è trattato, in modo molto suggestivo, del ritorno di uno dei “figliol prodighi” dell’Accademia maceratese, essendosi Cucchi diplomato nella stessa istituzione culturale «un’accademia sicuramente diversa da quella conosciuta da Enzo Cucchi nel corso di decorazione a Palazzo Bonaccorsi (ex sede dell’Accademia maceratese, ndr), diversa ma nel solco della tradizione. Misurare la nostra trasformazione con un maestro della contemporaneità rappresenta una delle motivazioni dell’odierna proclamazione » ha tenuto a sottolineare la direttrice, arch. Anna Verducci che ha definito poi la presenza del maestro della Transvaguardia come “un incontro importante per il nostro apprendimento”. Successivamente la prolusione introduttiva di Salvatore Lacagnina, curator siciliano e responsabile artistico dell’Istituto Svizzero di Roma, ha chiamato in causa tre nobel per la letteratura, Eugenio Montale, Joseph Brodsky e Seamus Heaney, per descrivere con slancio poetico, passaggi della vicenda biografica e umana dell’artista e ricordando l’importante sodalizio culturale e intellettuale creatosi tra

l’artista di Morro d’Alba ed Ettore Sottsass . « Cucchi e il suo lavoro – ha affermato Lacagnina - sono dei produttori inesauribili di immagini, egli continua a proporci delle immagini impreviste, imprevedibili. Lo ringrazio – ha poi concluso - perché continua a scavare la terra e a cercare nuove immagini che ci possono offrire una piccola sosta momentanea contro la confusione dell’esistenza: sono immagini, sono favole, sono menzogne…». E se Lacagnina ha indagato l’aspetto più poetico, personale e umano della personalità di Enzo Cucchi, la laudatio di Stefano Chiodi, docente di storia dell’arte contemporanea presso la stessa accademia, ne ha ripercorso le tappe fondamentali del suo percorso artistico e pubblico: «l’arte di Cucchi – ha spiegato - trova la sua dimensione in un’invarianza, in un’arte che resiste alla corrente del tempo, all’obsolescenza, per non coltivare le proprie certezze né i propri lasciti ereditari, quanto piuttosto le proprie ossessioni, le oscurità, le zone d’ombra, quelle che non appaiono a prima vista e forse è questa la natura della fedeltà di questo artista straordinario, che non interroga soltanto il nostro io collettivo o pubblico ma i nostri stessi fantasmi. Il segno del meccanismo che Cucchi ha messo in moto nel suo lavoro è l’accensione di quelle favole nere che avremmo, forse, tutti noi dimenticato». Da parte sua, il 10° Premio Svoboda ha abilmente dribblato la lectio magistralis con un: «se vi fa piacere fatemi qualche domanda altrimenti vi ringrazio tantissimo» finendo per fare gli elogi della città «è diventata più bella – ha dichiarato - era un po’di tempo che non venivo» e a ricordare, in un brevissimo momento di maggiore apertura, il suo interlocutore più speciale e compagno di scambi intellettuali Ettore Sottsass (scomparso nel dicembre 2007, ndr). Ma il gioco di sottile provocazione è culminato solo alla domanda di una studentessa liceale, che gli chiedeva quale rapporto avesse la Transavanguardia con le avanguardie storiche, limite ultimo, queste, di un programma scolastico affrontato, in quel caso, sul testo dell’Argan, con la risposta perentoria e spiazzante: «Continua pure a studiare sull’Argan!». Poco dopo però, in uno slancio repentino si è ridonato non esitando a promettere di ritornare a Macerata per tramutare quella lectio magistralis in un più fattivo workshop con gli studenti. Vedremo…

*Federica Facchini è docente di Teoria della Percezione e Psicologia della Forma - Accademia belle arti Macerata

L’Accademia di Belle Arti di Macerata conferisce il titolo di Accademico Honoris Causa all’artista Enzo Cucchi.di Federica Facchini

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ENRICABORGHI

Intervista a cura di Elisabetta Longari

Hai frequentato l’Accademia di Brera. Che ricordo ne hai?La mia frequenza in Accademia è stata molto stimolante. Ricordo una sensazione di smarrimento iniziale ma poi, il desiderio di conoscere, capire, guardare e curiosare quello che accadeva nelle varie aule è diventato uno stimolo inesauribile. Ricordo inoltre le ore passate in biblioteca a studiare gli artisti contemporanei, le avanguardie, l’Arte Povera... Alik Cavaliere, uno spirito libero dotato di una possente verve immaginativa e sempre rivolto al confronto e al dialogo, ricco di spunti coinvolgenti e capace di porre sul tavolo questioni di grande importanza affrontandole con sguardo acuto e coraggioso. Cosa ricordi di lui in rapporto alla didattica? Qual è la sua eredità che ritieni di aver fatto tua?Ricordo che i miei primi lavori erano tentativi di sperimentazioni con diversi materiali. Alik è sempre stato disponibile a discutere sui progetti ma anche capace di riproporre il lavoro come “indagine” su diversi fronti: filosofico e letterario oltre che artistico. La mia continua frequentazione della biblioteca è stata anche merito suo, forniva sempre suggestioni nuove che mi coglievano impreparata. La sua eredità? L’implicazione con la natura, una rappresentazione sempre “fuori scala” rispetto all’uomo e un senso di “nostalghia” presente anche nei film di Tarkovskij... Quello che forse non riuscivo a cogliere allora, e che oggi invece mi sentirei di condividere, è la capacità di avere un senso collettivo nell’approccio artistico. Ricordo che Alik era presente a tutte le assemblee degli studenti, era pronto al confronto e al dialogo... oggi, con il progetto dell’associazione Asilo Bianco è ciò che crea un senso nel mio procedere artistico. Ricordo che alla tua prima mostra (di cui tra l’altro scrissi il testo introduttivo) presentavi lavori fotografici. Quando e in che circostanza ti sei “trovata” ad aver messo a fuoco la tua “poetica”, ormai orientata e matura, e a utilizzare i tuoi materiali plastici di riciclo? Ricordo una mostra sorprendente da Claudia Gianferrari…I miei primi lavori erano fotografici ma avevano un approccio molto materico in quanto il mio intervento consisteva nel bruciare la pellicola (ancora diapositive) e andarle a stampare poi in laboratorio. L’idea della trasformazione del materiale era già alla base della mia poetica, e la trasformazione implica una coscienza nel ri-utilizzo. La plastica, e

ancor meglio il packaging alimentare, m’interessa per la sua natura di contenitore. L’idea di trasformare la quantità di rifiuti che ci assalgono in elementi seducenti, che hanno la forza di una nuova narrazione, è la sfida che mi pongo come obiettivo. Perciò mi sono imposta l’utilizzo di materiali che si avvalgono di una manualità femminile dichiaratamente sottolineata ed evidente. Una quotidianità urlata... Nella mostra da Claudia Gianferrari avevo esposto un abito realizzato con fondi di bottiglia blu uniti tra loro da sacchetti in polietilene. Le sue dimensioni erano volutamente enfatizzate, quasi una citazione pop, un dinosauro; ecco... quella mostra voleva proprio narrare la presenza di un animale ancestrale giunto con le sue scaglie sintetiche fino a noi, con la sua coda di otto metri accasciata in galleria.

Le tue ultime opere sono biodegradabili o sbaglio? Non desideri invadere il mondo di oggetti ingombranti, aggiungere al pieno della società contemporanea che intasa la nostra percezione altro che forme effimere e temporanee? Una sorta di ecologia artistica che sarebbe piaciuta a Beuys…Sono molto interessata alla ricerca tecnologica nel campo delle materie plastiche. La ricerca dei polimeri derivati dal petrolio, all’inizio novecento, era finalizzata a un’idea di “eternità”, basti pensare che una bottiglia di polietilene si decompone in un milione di anni... La creazione di materiali sintetici che prendano coscienza della morte, di una fine dichiarata, credo rappresenti uno sviluppo tecnologico che si rapporta alla società, e quindi all’uomo, in maniera egualitaria. Utilizzare del materiale biodegradabile significa accettare la decomposizione dei nostri corpi, della nostra vita. Oltre a questo sicuramente ritengo determinante l’emergenza “rifiuti”, l’ammasso e il cumulo di materiali che eliminiamo e produciamo senza preoccuparci del loro smaltimento è ormai inaccettabile! Nella mia installazione (Bioboutique) ipotizzo una boutique in cui gli abiti sono monouso e vengono gettati nella terra, nel proprio giardino oppure in appositi contenitori, dopo averli indossati.Credo che Beuys sia il padre spirituale di molti artisti della mia generazione e di quella precedente. Il suo approccio “universale” all’arte continua a essere un punto fisso, dichiarato e inesauribile, di confronto. Il suo utilizzo dei materiali, le sue performance, i suoi lavori con il grasso (un materiale così vivo e ancestrale) e la sua capacità demiurgica sono continue fonti di riflessione.

La mia frequenza in Accademia è stata molto stimolante. Ricordo una sensazione di smarrimento iniziale ma poi, il desiderio di conoscere, capire, guardare e curiosare quello che accadeva nelle varie aule è diventato uno stimolo inesauribile.

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ex studentiLa sua splendida retrospettiva dello scorso anno presso l’Hamburger Bahnhof di Berlino mi ha entusiasmato come una bambina di fronte allo zucchero filato !!!

Berlino, tua città di adozione al momento: hai uno studio e ci vai spesso. Com’è questa città nei confronti dei giovani artisti? Materna? Cinica? Rispettosa?Berlino è una città dove la qualità della vita è molto buona, questo indipendentemente dall’essere artista o cittadino. I costi sono contenuti ed è possibile avere degli spazi anche per i giovani, è una città giovane, piena di studenti, creativi e gente curiosa.Per ognuno di questi c’è un mondo, una dimensione ed uno spazio di azione oppure semplicemente di tempo, di prendersi ed appropriarsi di un tempo.Non è materna e protettiva ma ti accoglie senza problemi; senza problemi di razza, estrazione sociale....ha un grande senso di democrazia e... si prova la sensazione che la cultura interessi e sia apprezzata, la sensazione che non sia una città opprimente e claustrofobica ma dinamica...e “veramente” con un grande senso libertà.Dinamica perchè continua a muoversi, si muovono le gallerie, i quartieri si modificano, i restauri si succedono e non è mai uguale... Si prova la sensazione che il divenire è tangibile e tangente a un futuro prossimo ravvicinato. Non è stagnante, è una “vita liquida”... per usare un termine caro a Zygmunt Bauman. Mi piace non viverci sempre per tenere una tensione continua con la città... come un’ amante che raggiungi con il batticuore !

L’Associazione Asilo Bianco, una realtà attiva e feconda che hai inventato e messo in piedi insieme a Davide Vanotti, il tuo sposo “letterato”, e altre forze sul territorio, praticando il dialogo tra le diverse arti.Racconteresti come e in che circostanze è nato, ne preciseresti tappe e obiettivi?Asilo Bianco è nato nel 2005, quando io e Davide ci siamo trasferiti in questo piccolo paese situato sulle colline del Lago d’Orta.Nasce da un gruppo di amici artisti, scrittori e filosofi, e il nostro desiderio è stato quello di rapportarci con il luogo e la sua memoria. Operiamo sinergicamente a diversi livelli, ovviamente dialogando con le amministrazioni locali. Abbiamo uno spazio per ospitare e creare delle residenze per realizzare dei lavori specifici che si rapportino con l’area territoriale situata tra le colline dei due laghi Orta e Maggiore.Dal 2009/2010 è nata una convenzione con il Comune di Ameno per seguire la programmazione dello Spazio Museale di Palazzo Tornielli, da cui sono nate diverse esposizioni.Abbiamo realizzato due mostre internazionali per creare momenti di dialogo con realtà molto diversificate, Atena Nera con l’Africa, Anima(e) con la Svezia e la mostra Piano piano, in collaborazione con il Mamac di Nizza, in Francia. Siamo giunti inoltre alla sesta edizione di Studi Aperti, arts festival tra i due laghi, che vede coinvolte diverse discipline e cui l’intero paese si presta aprendo spazi pubblici e privati.

*Enrica Borghi è artista e ha studiato all’Accademia di Brera con Alik Cavaliere

Robe Bleu, 1999, bottiglie di plastica e sacchetti in polietileneCollezione Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Nizza

Regina, 2006, bottiglie di plastica e sacchetti in polietileneMuseo delle Belle Arti di Bordeaux

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Il Salon Primo all’Accademia di Brera

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Il mestiere dello scenografoA cura di Tiziana Campi

Il Salon Primo a Brera è l’esposizione che per eccellenza raccoglie campionature e frammenti di opere di giovani artisti Scenografi facendo di quest’ultima una curiosa mostra d’avanguardia. Una manifestazione che costituisce un appuntamento ormai consolidato nella tradizione dell’Accademia, ma rimane ugualmente innovativa e curiosa per la freschezza di sempre nuove proposte, esempio significativo di percorsi personali che diventano nella loro specificità dimostrazione e manifestazione dei primi approcci ad un lavoro e a una professione, quella dello scenografo, affascinante ma complessa, che richiede una preparazione concettuale e creativa ma che, ancora oggi, esige sensibilità pratica e abilità artigianale.Una sorta di prova d’esame di quello che avviene negli studi dell’Accademia a chi lavora con passione, a chi rivela il proprio talento, a chi vuol verificare le proprie esperienze conoscitive, le nuove conquiste di tecniche e di stili. La progettazione di uno spettacolo, di un evento o di un racconto cinematografico, prevede l’apprendimento di un codice tecnico, di un linguaggio per la comunicazione delle idee e per la loro riproducibilità: il mestiere dello scenografo non è solo una professione creativa e individuale.

Il Salon Primo mostra un immaginario infinitamente promettente nel quale Brera esibisce i suoi giovani artisti per proporli, attraverso convegni, incontri, conferenze con docenti, critici e intellettuali, al mondo del mercato e delle mostre, alla pratica del lavoro e della professionalità. L’esposizione costituisce una finestra sul panorama formativo dei corsi di scenografia dell’Accademia in cui viene dato spazio a produzioni, sia interne sia in collaborazione con realtà esterne, nelle quali la scenografia non rimane solo intuizione creativa ma si scontra e si confronta con la fisicità reale di uno spazio, tra effimero e realtà, tra peso e assenza di gravità. Il silenzio, la luce, il colore e la materia che lo sostiene, in una sola parola: lo “spazio”.Lo spazio è la luce e il luogo di unione delle diverse parti di un’opera teatrale, cinematografica o di un evento. In questo luogo viene compreso il gesto interpretativo di un testo e del suo racconto.É la scenografia dunque un punto d’incontro dei diversi momenti della ricerca artistica recuperati ad una nuova specificità, quella dello spettacolo o dell’esibizione, che nasce dalla presenza contemporanea della parola, del gesto, del suono, del colore, del volume, della luce. Lo scenografo resta colui che possiede un sapere interdisciplinare

Paolo Puliserti - Gran Torino: studio televisivo (modello)

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che gli permette di affermarsi non solo nel campo della scenografia, ma anche dei costumi, dell’illuminotecnica, nella direzione della fotografia, della decorazione o del modellismo, siano essi adoperati per il teatro di prosa o d’opera, per il cinema o per la televisione. Il Salon Primo costituisce un’indagine sullo spazio scenico visto da sguardi diversi da cui inevitabilmente scaturiscono soluzioni espressive e linguaggi differenti ma accomunati da un lavoro sulla forma che mette al centro il rapporto fra immaginazione e intuizione creativa. La metamorfosi degli spazi, il pieno e il vuoto in un movimento reale e illusorio. La scena come luogo di meraviglia e di stupore ma anche come continua ricerca per orientarsi verso la contemporaneità seguendo costantemente l’evoluzione delle tecnologie.Ne scaturisce un confronto particolarmente interessante sia per la

verifica dei risultati sia per garantire nuove tipologie di proposte, che maturano all’interno dei laboratori per un affinamento “in progress” di linguaggi nuovi e strategici. Un invito e un’occasione a saggiare e sperimentare nuove possibilità del linguaggio teatrale pur sempre attraverso un’ attenta considerazione delle specificità storiche. Diretto ed evidente è l’influsso esercitato sull’evoluzione dei codici teatrali. Questa edizione tende a rivelare una figura dello scenografo in senso moderno, un vero e proprio direttore dell’allestimento che si occupa del materiale, del palcoscenico, delle attrezzerie, ecc. Si potrebbe definire lo scenografo un artista che si occupa di più linguaggi sempre ben distinti e definiti, legati tra loro da sottili trame.A Brera si definisce una esigenza interdisciplinare nella figura dello scenografo, che unisce le mansioni di architetto, pittore e macchinista in una concessione unitaria, delegata a questa nuova figura specifica che progetta, disegna e a volte realizza uno spettacolo teatrale e che si definisce già come coordinatore. Nei lavori esposti si potrà notare come rapporto mano-mente, che rappresenta il contributo didattico primario e la novità fondamentale che le Accademie portano nel nuovo comparto universitario, è fedelmente proposto e risolto. In questi ultimi anni grazie all’avvento di una nuova generazione di docenti ed ai conseguenti risultati raggiunti dai nostri giovani, l’Accademia è tornata ad acquisire quel valore proposito, d’avanguardia, avanzata nel contesto internazionale, portatrice di un nuovo rapporto tra arte e scuola, tra ricerca e didattica, sperimentando nuovi strumenti e tecniche innovative che, spinte da forti tensioni emotive, permettono visioni di immagini con effetti sorprendenti. La scenografia aggiorna la propria grammatica senza snaturarla attraverso il confronto con grammatiche di altri linguaggi, evolvendo la comunicazione scenica attraverso il confronto con altre forme comunicative o conoscitive extrateatrali. Lo spazio che non è più solo quello del palcoscenico diventa una possibilità di luoghi alternativi con cui si deve confrontare.

Agostino Sacchi - Carmen di G. Bizet : bozzetti di scena e di costume

Progetto formativo del Bienno specialistico di Scenografia Teatrale(coordinamento prof.ssa G. M. Manigrasso Orlando Furioso di L. Ariosto raccontato da I. Calvino

Eveline Catelotti - Porgy and Bess di G. Gershwin (modello)

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di Renato Galbusera e Monica Saccomandi

L’iperbole del titolo, forse, questa volta non è del tutto mal spesa. Il 150° anniversario della fondazione dello Stato Italiano, di quella tanto cruciale unità territoriale, politica, mette in campo le categorie dell’epica, riferite alla nascita della nazione, “intrecciate” all’affermazione di una visione politica, che lega inscindibilmente quel dato (l’unità nazionale) agli sviluppi del secondo dopoguerra, l’Assetto Repubblicano e la Costituzione.Inevitabilmente quindi le manifestazioni, che prenderanno l’avvio a Torino dal 17 marzo 2011, si muoveranno su questo fondale, marcando una prima differenziazione rispetto a Torino ’61 (i cento anni) celebrazione tutta protesa, dopo la ricostruzione e in pieno “boom”, a prefigurare scenari per il futuro (la famosa monorotaia).Il tema “chi siamo”, e quindi lo scenario identitario così come si è venuto costruendo, appare centrale nella riflessione collettiva, richiamando la dimensione della “memoria”, che sicuramente a quello s’intreccia, al di là di ogni tentazione celebrativa.A questa impostazione appaiono ispirarsi la serie di video installazioni di Studio Azzurro, pensate per lo spazio delle OGR di Torino, le pagine di Scurati, il film di Martone, presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia.Una delle “tappe” del racconto identitario è rappresentato dalla scuola, la formazione che, in tutti i suoi gradi, da quello di base all’ università, ha concorso a determinare la nostra identità.Non è quindi per spirito celebrativo che le istituzioni dell’Alta Formazione (e alcune Facoltà di Architettura) abbiano pensato a una propria significativa presenza nell’ambito della progettualità che si è definita per Torino 2011. (*)L’occasione si presta per fare “rete”, per prospettare una capacità di queste storiche istituzioni di immaginare progetti di scala nazionale, facendo convergere, intorno a tematiche complesse, la ricerca che viene attuata nelle diverse sedi.La proposta comprende un intervento coordinato di arte pubblica da attuare su una grande area verde, frutto di deindustrializzazione di uno storico insediamento (ad inizio ‘900 le Fonderie Acciaierie Riunite, la Società Anonima Ansaldo, la Società Anonima Industrie Metallurgiche poi FIAT dagli anni ’20) a Torino, in zona Spina 4, fra le Vie Cigna e Valprato. L’intervento è in relazione ad un processo progettuale attualmente nella fase di “progetto esecutivo” riferito all’ambito di Spina 4 in particolare sull’area del “Parco di Spina 4” di circa 45.000 mq, collocato all’interno della parte nord di Torino nel quartiere Barriera di Milano, un’area in attesa di grandi trasformazioni (Programma di riqualificazione urbana ex art.2 L 179/92 – Spina 4 – Z.U.T. 510/1 – PRU)Il futuro parco di Spina 4 nasce in un punto strategico, il completamento del tratto contiguo del passante ferroviario previsto per il 2011, permetterà il collegamento grazie al nuovo boulevard, tra il parco e il quartiere Borgo Vittoria ad ovest, mentre la nuova stazione prevista di

anniversario della Fondazione dello Stato Italiano, un grande evento, una grande occasione150°

Torino Rebaudengo un po’ più a nord, consentirà un sistema integrato fra percorrenze veicolari e la futura line 2 della metropolitana.Accanto al progetto pubblico si prevedono alcuni interventi che accompagneranno quelli già previsti (70% della superficie a verde, tracciato dei tre viali alberati, presenza di copertura per ombreggiatura, giochi per bambini, zona fitness, piazza per la socialità, presenza di due struttura testimonianza dell’industria preesistente) e per i quali si è proposto un concorso di idee che coinvolge gli istituti di alta cultura (Accademie di Belle Arti italiane) e le Facoltà di Architettura per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

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Lo spazio pubblico per ricostruire relazioni microurbane (I. Belkina, G. Cavoto, G. Cesario, E. Malvicino, J. Obrist, M. Paolicelli, L. Rizzo)

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anniversario della Fondazione dello Stato Italiano, un grande evento, una grande occasione

La qualificazione del parco attraverso interventi che coinvolgono l’arte, l’architettura e il paesaggio come valore aggiunto in un quartiere molto provato da disagi e promesse mancate.Su tali tematiche, nei giorni 26 e 27 del febbraio scorso, si sono ritrovati a Torino, all’Accademia Albertina, rappresentanti di docenti e studenti delle Accademie di Torino, Milano, Bologna, Firenze, Urbino, Venezia, Genova, Brescia, Sassari, Carrara, Foggia, Lecce, Reggio Calabria, Catania ( con adesioni da Roma, L’ Aquila, Napoli).Una rappresentanza significativa del settore, che per due giorni ha discusso e organizzato i termini di una complessa operatività,

ascoltando progettisti ( Ferruccio Capitani), storici ( Luigi Amato), rappresentanti della Città di Torino (Gianni Limone), della politica (Francesco Salinas), storici dell’ arte (Maria Teresa Roberto), promotori culturali (Andrea Iovino, Luigi Ratclif).Il meccanismo organizzativo, che è monitorato dalla Commissione Arte Pubblica della Città, prevede una progettazione per tappe (la seconda si è tenuta il 7 di giugno) per approdare, al workshop di novembre per un confronto fra le diverse proposte progettuali.Ovviamente non si tratta solo di inventare “una scatola organizzativa”; operazioni come questa vivono solo mettendo in campo una forte carica contenutistica, un laboratorio d’idee prima ancora che di forme. Una prima di queste è già stata delineata: la rete tra le diverse Istituzioni in grado di pensare progetti di grande scala che si misurino con il territorio, che poi vuol dire la vita delle persone.Altre le troviamo espresse nei diversi “concepts“ presentati dalle Accademie per esporre le caratteristiche del proprio intervento.Marcello Madau, (Accademia di Sassari): “…si va, mi pare, a costruire un bene comune, uno spazio urbano per sua natura complesso, stratificato e meticcio, permeato nel proprio essere contemporaneo da dense storie precedenti. Un contributo all’organizzazione dell’identità urbana, rivolta alla contemporaneità, ma in grado di dare cittadinanza alla storia della gente sui luoghi.Interrogando anche il passato e rendendolo esplicito, ciò che, è mia convinzione crea città migliori e costruisce cittadini e cittadinanze più ricche.Penso che la cultura, e in essa l’arte, possano rendere diverse e sostenibili le nostre città, che sono l’ambiente più immediato per le moltitudini”.E ancora Salvatore Lovaglio, e Liliana Fracasso, (Accademia di Foggia): “..nell’ arte pubblica oggi intesa come insieme di pratiche artistiche eterogenee nella quali spesso si produce la smaterializzazione dell’ opera e si attivano pratiche di community art, questa esigenza di anastilosi appare ancora più evidente soprattutto quando è “l’ esperienza” ,”il contatto” fisico con lo spazio, la realtà sociale e la memoria degli abitanti a guidare in primis il concepimento ed il compimento dell’opera”.E infine Rosario Genovese, (Accademia di Catania): “Torino, a 150 anni dall’Unità d’Italia, appare una città tecnologica, moderna e multietnica, pur mantenendo nella memoria del presente le origini e il passato delle sue industrie.” Buon lavoro a tutti!

* Renato Galbusera è docente di Pittura all’Accademia di Brera*Monica Saccomandi è docente di Decorazione all’Accademia Albertina

(*) Per ulteriori informazioni: Labaea – Laboratorio Arte & Architettura – “ A Torino è nato un laboratorio..” articolo in Academy settembre 2009 e il sito www.labaea.org

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Nel Tempo, progetto di Cristina Raisi

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Intervista a cura di Stefano Pizzi

Ho conosciuto Gianni Maimeri nel corso degli anni ’70 del secolo scorso, eravamo giovani, lui molto più di me, esuberanti e smaniosi di contribuire ai cambiamenti sociali che in quel periodo vedevano impegnati centinaia di migliaia di ragazzi come noi. Ci siamo ritrovati pochi anni dopo: lui come collezionista ed imprenditore nel campo delle belle arti, io come artista e docente di pittura a Brera. Da allora siamo più o meno rimasti sempre in contatto: ci si frequenta con amici comuni e riusciamo anche tramite la sua Fondazione ad organizzare delle iniziative a favore dei giovani artisti che ci coinvolgono sempre con entusiasmo.Gianni è, come si dice a Milano, una bella persona. Per questo, sollecitato dalla redazione, l’ho intervistato per Academy.

Allora sciur Maimeri qual’ è oggi il tuo ruolo nell’azienda?Da molti anni ho il ruolo di Amministratore delegato.A partire dal 2004 condivido questo ruolo con l’ingegnere Giovanna Agostoni, che ho convinto ad affiancarmi nella conduzione dell’azienda per riproporre oggi quell’antico sodalizio che a partire dagli anni cinquanta ha visto le nostre famiglie governare l’azienda con armonia e successo.Armonia che oggi si realizza nella complementarietà dei nostri ruoli operativi, all’insegna della continuità generazionale, già ereditata da mio padre, che si trasferisce quotidianamente a noi: strategie in comune, orientamento alla produzione e alla logistica per Giovanna, al mercato e alla comunicazione per me.

Rispetto alla tradizione famigliare quali sono state le caratteristiche e/o le innovazioni che hai portato?Penso che la più importante innovazione che ho cercato di apportare sia il tentativo di comunicare, all’esterno dell’azienda, l’unicità e la specificità proprie della nostra industria: passione, cura e

competenza che solo l’indissolubile legame tra arte e industria hanno caratterizzato fin dal suo nascere la nostra impresa “inventata” da un grande pittore. In questa impresa quali sono stati invece i tuoi primi passi?Il mio percorso si è articolato attraverso diverse esperienze sempre nell’ambito della nostra industria.Inizialmente ho affiancato mio padre nel laboratorio, per poi confrontarmi, prima come agente, poi come responsabile commerciale con il mercato. Quando ho assunto la direzione avevo già bene chiaro quanto l’elemento determinante fosse garantire continuità nei valori fondamentali e perseguire la qualità prima di ogni altro aspetto, fattore di successo riuscirlo a comunicare con chiarezza e semplicità.

E salvaguardando l’aspetto qualitativo come si pone l’azienda nazionalmente e internazionalmente?Oggi più che mai, considerando le dinamiche di acquisizione da parte di grandi gruppi e multinazionali orientate al profitto, della maggior parte delle aziende originariamente familiari, con conseguenti fenomeni di delocalizzazione produttiva e di compromissione della qualità, la nostra azienda si pone, sia a livello nazionale che internazionale, come punto di riferimento autorevole e riconosciuto per qualità, tradizione e innovazione dei colori per Belle Arti.Primato certamente in buona parte dovuto alla decisione di mantenere in Italia tutta la nostra produzione, scegliendo la qualità, il territorio e le tradizionali competenze rispetto a poco lungimiranti e facili profitti che vanno a scapito della collettività.

Hai delle novità per i lettori di Academy sulle ultime vostre produzioni?A testimonianza di quanto ti ho detto la nostra azienda è estremamente

GIANNI MAIMERIUn’imprenditore di successo, un collezionista, un figlio d’arte animato da grande passione per la pittura.

Leone e Gianni Maimeri

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fondazione maim

eri

attiva sul fronte della ricerca sul colore in diverse direzioni. Nei soli ultimi due anni abbiamo creato una nuova gamma di colori acrilici “Maimeri Acrilico” che, complice l’ormai storico successo di “Polycolor“, ha ottenuto rapidamente analoga affermazione nel campo di utilizzo più prettamente pittorico. Abbiamo inoltre creato un’innovativa gamma di colori a olio “Terre grezze d’Italia” prodotte secondo antiche metodiche con soli pigmenti naturali provenienti dal nostro territorio, che permettono di ottenere effetti cromatici e materici assolutamente innovativi per una gamma tradizionale di colori a olio.Il successo ottenuto ci ha convinto a proseguire le ricerche che certamente, entro l’inizio del prossimo anno, si tradurranno in una nuova gamma con analoghe caratteristiche di consistenza ma con diversi cromatismi, frutto di ricerche geografiche.Durante quest’anno abbiamo inoltre presentato “Maimeri Olio”, risultato di approfondite ricerche svolte per produrre una gamma di colori a olio con caratteristiche molto ambiziose: un prezzo decisamente “cinese” con tutta la qualità del made in Italy; tubetti in plastica riciclabile, tutti i colori assolutamente non nocivi, di rapida essiccazione e, incredibilmente, grazie al detergente e al diluente ecologici, con facilità di utilizzo da parte di chiunque e ovunque.Sarà però l’inizio del prossimo anno a riservare le maggiori novità: sono ormai in produzione, oltre alla nuova serie di colori grezzi, una gamma tesa a valorizzare la nostra tradizione rinascimentale e, ancora, una nuova linea di colori a olio totalmente orientata al futuro, all’insegna delle nuove forme espressive pittoriche nell’era del video digitale.

Hai sempre sollecitato i giovani, nel corso della presentazione dei tuoi prodotti, a visitare l’azienda, non penso sia solo una forma promozionale.La nostra è un’azienda a “porte aperte”: come ti ho detto, ritengo la comunicazione il nostro fattore strategico di successo. Quindi quale migliore opportunità di comunicare in modo esaustivo se non quello di mostrare senza censure e senza reticenze i nostri laboratori? Opportunità per altro interessante sia per gli studenti che per i docenti per comprendere quanto per Maimeri “tradizione” e “made in Italy” non siano facili slogan pubblicitari. “Vi aspettiamo numerosi” certamente uno slogan pubblicitario che ti prego di considerare un invito gradito.

Raccontaci qualcosa della tua famiglia, un episodio, un aneddoto: io ho conosciuto tuo zio che era una persona davvero speciale vuoi parlarne?

Mi fa molto piacere che tu abbia ricordato con affetto il mio caro zio filosofo. Come sai la nostra famiglia era una grande famiglia. Sotto lo stesso tetto vivevamo io con mio padre, mia madre, mia nonna, i miei zii, i miei cugini e molti amici, alcuni dei quali hanno vissuto con noi per decenni.Purtroppo non ho potuto conoscere mio nonno che certamente ha avuto un ruolo fondamentale nel gruppo.Penso che quel “cenacolo” abbia rappresentato un’esperienza unica e irripetibile: artisti, musicisti, scrittori, filosofi passavano giornate e nottate intere a parlare, creare e giocare e io, prima bambino poi adolescente e ragazzo, percepivo una forza e una energia formidabili.Tantissimi sono i ricordi. Uno in particolare mi torna alla mente soprattutto quando si avvicina il Natale: avevo forse cinque o sei anni e certamente ero più scettico di molti miei coetanei. Era il 24 sera e invece di andare a letto mi nascosi dietro un tendaggio nel salone per scoprire se fosse vero che era proprio Babbo Natale a mangiare i mandarini e lasciare i regali.Il sonno mi vinse fino a quando fui svegliato improvvisamente da schiamazzi e risate: sbirciai da dietro la tenda e vidi tutti i grandi giocare con il trenino richiesto nella mia letterina, scoppiai a ridere e uscendo allo scoperto azzittii tutti. I “grandi”, penso, si sentirono come scoperti e smascherati. Remo Cantoni, il famoso filosofo, a nome di tutti solennemente disse: ”Gianni stai diventando grande e noi, vorremmo essere tutti bambini”.

La Fondazione Maimeri come nasce,perché e quali sono i suoi progetti?La Fondazione Maimeri è nata nel 1997 per volere della famiglia Maimeri. Oltre l’obiettivo di valorizzare la figura di Gianni Maimeri pittore e l’impegno nel realizzare progetti culturali in Italia e nel mondo, la Fondazione Maimeri vuole mantenere e rafforzare quel fattore unico e caratterizzante la nostra azienda: il legame arte e industria.La nostra industria, infatti, destina a supporto delle attività della Fondazione Maimeri, una importante percentuale del proprio fatturato, rinunciando a profitti per salvaguardare e rafforzare la continuità di quel legame originariamente incarnato dalla figura del nostro fondatore, mio nonno, Gianni Maimeri, nel contempo pittore, uomo di cultura e imprenditore.

Ciao Gianni, grazie dell’attenzione.

Leone Maimeri e Giovanna Agostoni

Giovanna Agostoni, Leone e Gianni Maimeri

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Raffaellino De GradaLungo i suoi novanta anni di vita De Grada ha attraversato da primo protagonista le fasi, spesso simultanee, della ricerca e dell’innovazione, ma anche quella della rilettura e della riscoperta delle radici della cultura e della sensibilità artistica moderna.Di Andrea B. Del Guercio

La scomparsa di Raffaellino De Grada segna forse l’ultimo atto della lunga stagione dell’arte moderna e della prima fase contemporanea italiana, dove intendo riferirmi non solo al complesso patrimonio di esperienze espressive critiche nei confronti dell’eredità novecentista e innovative nel solco delle Avanguardie Storiche, tra Espressionismo e Cubismo, tra Munch e Picasso, ma anche e più specificamente sul piano storico-critico nelle fasi di riesame di approfondimento e di riscoperta di un territorio artistico ampio affermatosi nel secondo Ottocento e della persistenza della sua eredità nel XX secolo. Lungo i suoi novanta anni di vita De Grada ha attraversato da primo protagonista le fasi, spesso simultanee, della ricerca e dell’innovazione, ma anche quella della rilettura e della riscoperta delle radici della cultura e della sensibilità artistica moderna; un’azione critica e successivamente storico-critica svolta con gli strumenti proprie della militanza e non dell’accademia, con la passione che anima, con la curiosità della condivisione. Figlio del pittore Raffaele De Grada e della poetessa Magda De Grada, vive subito ed all’interno della cultura artistica novecentista per poi maturare la militanza critica di una nuova ed impegnata politicamente generazione di artisti, da Guttuso a Treccani, con i quali fonda e organizza a Milano il Gruppo Corrente. È all’interno di questa prima stagione e tra questi due ambiti espressivi e di pensiero critico e politico che va riportato tutto il percorso di studi ed i ruoli ricoperti da De Grada; un percorso ed uno sviluppo in cui interagiscono la professione critica e l’impegno politico, lo scrittore d’arte dalla produzione sterminata, il partigiano ed il deputato ed ancora l’uomo costantemente impegnato nelle cause sociali, nel movimento per la pace, accanto al mondo operaio e studentesco.Il mio incontro con De Grada è avvenuto a San Gimignano alla fine degli anni ’70 in occasione della mostra di Giannetto Fieschi, icona tormentata e intensa della Figurazione Critica Italiana. In quel paesaggio a lui familiare, sia per nascita della madre ed avendovi trascorso lunghi periodi in famiglia, ma anche per cultura dell’arte medioevale e rinascimentale tanto intensamente percepita e vissuta, ebbi la percezione sin da quel primo momento di un uomo animato da un moto di partecipazione costante e assoluto al binomio Arte-Vita.A conclusione di quella giornata Raffaellino De Grada mi chiamò come suo assistente alla Cattedra di Storia dell’Arte presso l’Accademia di Brera. Si trattò del mio primo impegno didattico ed all’interno della più straordinaria ‘fabbrica’ dell’arte contemporanea. Del lavoro svolto con De Grada, sia come assistente e poi come collaboratore ed amico, ricordo con esattezza alcuni significativi passaggi: nella didattica era avvolgente, quasi pressante perché lo studente non si dovesse distrarre ma tenuto in costante tensione, perché fosse obbligato a condividere e partecipare; le sue lezioni non erano solo colte e testimoni di una conoscenza ‘familiare’ degli autori e delle opere ma militanti, cioè sempre ricondotte ad un rapporto stretto con l’attualità, sia quella politica e sociale, ma anche quella della sensibilità e della poesia, del rapporto con il paesaggio, urbano e naturale. Comune all’esperienza di quella generazione di storici era lo sguardo che si contaminava tra il paesaggio reale e quello della pittura, che si sdoppiava ed interagiva tra un pomeriggio

di nebbia in Piazza Duomo, la neve al Parco Sempione e la data di un quadro di suo padre nel dicembre del 1938. Quando lo accompagnavo nell’attività critica, per conferenze ed in occasione di commissioni e nell’organizzazione di Mostra, Raffaellino De Grada si caratterizzava per un’indagine severa e rigorosa, a tratti anche dura in corrispondenza con i suoi principi estetici, poi improvvisamente aperta e generosa, quando prendeva il sopravvento la curiosità per fenomeni espressivi nuovi ed autentici. In questo clima accolse il mio diverso contributo critico condividendo, insieme al Maestro Sergio Vacchi, solitario artefice ancora di un Realismo Magico, l’apertura alle ultime tendenza con la sezione ‘Grande Adesione’ della Pinacoteca d’Arte Moderna di San Gimignano intitolata al padre Raffaele De Grada. Una disponibilità ed un’apertura che mi manifestò pochi anni fa invitandomi ad intervenire direttamente sull’arte del padre “ed all’interno delle possibilità del colore come strumento autonomo di comunicazione formale, in grado cioè di svolgere un’elaborazione concettuale distinta dal soggetto reale”, per l’Antologica predisposta dalla Permanente di Milano. Rimane il rammarico che non fu dato seguito alla mia proposta di consegna a Raffaellino De Grada di Socio Onorario dell’Accademia di Belle Arti di Brera che per lunghi anni lo ha visto insigne docente. Assumo l’impegno di promuovere, con i tanti colleghi che con De Grada hanno condiviso eventi espositivi ed esperienze critiche, una giornata di studi ed una raccolta di saggi in suo onore.

*Andrea B. Del Guercio è docente di Storia dell’Arte e direttore della Scuola di Pittura all’Accademia di Brera

Carlo Filodsa, ritratto di De Grada, olio su tela 1989 cm. 150 x 100

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Roberto Sanesiscrittura e immagine, nellabirinto delpensiero.

Di Claudio Cerritelli

Nell’ambito delle attività espositive della Biblioteca Sormani di Milano si distingue la mostra dedicata alla ricerca verbo-visiva di Roberto Sanesi e alla sua complessa figura di scrittore, poeta, traduttore, critico letterario, critico d’arte e, nel caso specifico, artista. Artista anomalo che si è costantemente dedicato, quasi in modo segreto, alla produzione di opere visive composte con varie tecniche, prevalentemente su carta, segni e scritture, inchiostri, collages, colori diretti diluiti o rappresi, ma anche colori derivanti da materie varie, compresa la polvere dei libri.Organizzata da Luigi Sansone, la mostra “Io non dipingo, scrivo” accompagna la recente uscita nella collana degli Oscar Mondadori del volume “Roberto Sanesi. Poesie 1957-2000” a cura di Renzo Cremante. Nel frattempo, si segnala l’ultimo numero (32) della rivista Nuova Meta dedicato allo specifico lavoro visivo dell’artista, con un commento da me proposto nell’ambito della giornata di studio “Parole, immagini e altro” tenutasi nel dicembre 2009 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.La prima questione da affrontare riguarda la posizione di Sanesi all’interno dei contesti artistici sviluppatisi dagli anni Sessanta agli anni Novanta del secolo scorso. Un’identità difficile da definire secondo le consuete logiche che procedono per classificazioni, infatti l’opera di Sanesi è stata oggetto di diverse interpretazioni che ne hanno messo in luce la specifica dimensione di ricerca, il suo carattere irriducibile ad altre logiche espressive. Nel corso del dibattito interpretativo sull’identità delle immagini di Sanesi è stato messo in evidenza il loro scaturire dal processo interno del lavoro di traduttore, l’uso della scrittura come materiale che continuamente si rivela nel divenire della

sua genesi formale. Si tratta di un percorso creativo non assimilabile in modo diretto al gioco delle tendenze linguistiche del secondo novecento, anche se l’aspetto immediato delle sue ricerche verbo-visive evoca quel territorio che si è soliti definire “poesia visiva”. Quest’accostamento è - ad un primo approccio- quello più ovvio, se non altro per il costante desiderio di affidarsi alle relazioni tra scrittura e segno pittorico, tra parola e colore, tra movente grafico ed estensione visiva delle qualità significanti dei singoli codici. Ma è una relazione del tutto impropria e, proprio per questo, essa va indagata per restituire all’operazione di Sanesi il senso che le è più aderente, l’intenzionalità di fondo che si pone oltre la specificità della cosiddetta “poesia visiva”.E’ chiaro che questo tipo di legame tra parola e immagine non è mai orientato nella direzione che hanno intrapreso i poeti visivi storici, è infatti un legame che difficilmente può essere ricondotto alle forme che hanno caratterizzato quella complessa aerea di ricerca. Il disagio che scaturisce da questa difficoltà di inquadramento emerge soprattutto nel momento in cui si cerca di collocare il lavoro di Sanesi nel labirinto di posizioni che riguardano il rapporto tra scrittura e immagine nel corso degli anni Settanta e oltre, con relativi rapporti con la tradizione sperimentale del ‘900.In un lontano libro curato dal poeta visivo e teorico Ugo Carrega che porta il titolo “Scrittura attiva” (Edizioni Zanichelli, 1980) il lavoro di Sanesi viene inserito nella griglia interpretativa basata sull’individuazione di due linee ricerca. Da un lato, la “scrittura materialista” legata al “significato” e, dall’altro, la “scrittura psichica” legata al “senso”. La prima ipotesi serve per testimoniare la presenza

ex docenti

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di una scrittura che comunica un’idea di lingua comune, la seconda per indicare un’assenza di certezze registrabili, l’attitudine a esprimere il non conosciuto e il mistero. La scrittura visiva di Sanesi appartiene a questo secondo versante, infatti Carrega indica che nel nostro autore c’è un abbandonare la poesia come significato per esaltarla come “significante calligrafico”, come “tensione scrittoriale”, in quanto il testo originale è superato nella sua forma visuale. Con questo tipo di individuazione si entra nel campo di riferimenti che sono alla base dell’operazione visiva di Sanesi, senza rischio di generalizzare, anzi sottolineando che l’immagine scritturale scaturisce sempre da una “rilettura dei poeti amati”, operazione di riscrittura dove – scrive Carrega- “i colori, i calligrafemi, hanno la sostanza dell’emozione del senso della poesia ri-visitata”. D’altro lato, chi si è occupato delle immagini di Sanesi ha proposto varie terminologie, Miklos Varga le ha chiamate “carte poetico-pittoriche”, Mario Perazzi le ha definite “poesie disegnate”, Vincenzo Accame parlando di “cosa scritta” ha affermato che “il significato nasce sempre nella parola”. D’altro lato, Guido Ballo ha preferito affidarsi all’idea delle scritture come “fermenti grafici”, Hilda Reich ha detto che “è poesia generata dalla poesia”, Renato Barilli ha proposto di chiamarli “esercizi chirografici”, Carlo Bo ha evocato la “teoria delle corrispondenze” tra poesia musica e pittura. Inoltre, Gilberto Finzi ha parlato di “parole diventate grafemi e pittura-colore”, Franco Patruno ha sottolineato la “vivacità cromatica di una scrittura nervosa”, Vincenzo Guarracino ha colto la valenza di “tatuaggi colorati che inchiostri e solventi imprimono capricciosamente nelle sue fibre più riposte e ricettive”, Gillo Dorfles ha infine privilegiato la definizione di “apparizioni fantasmatiche suscitate dal ricordo di brani poetici a lungo assaporati e studiati ”.Si tratta di affascinanti esercizi di lettura che oscillano tra la definizione di scritture visibili e scritture dell’invisibile, fermo restando che ciò che conta è il divenire della parola come accumulo di segni e colori che vanno oltre i confini del dato letterario, con una tensione a cogliere un diverso universo di senso, una differente sintesi tra ritmi scritturali e valenze visive.Dunque, l’arte visiva di Sanesi esprime la volontà di stare dalla parte della scrittura seguendo totalmente i meccanismi del pensiero, l’idea di accumulazione si trasforma in un sommovimento all’interno della

scrittura, in un evento che allude a quello che viene definito “costruirsi labirintico, contraddittorio, circolare del pensiero”. L’atto della scrittura non ha parametri e dogmi da rispettare, è un’esperienza che corre sempre il rischio di perdere i propri referenti, essa sperimenta le possibilità del suo interagire con i segni specifici di cui l’immagine si fa carico. La genesi dell’immagine verbo-visiva nasce nell’ambito del lavoro di traduzione, da qui scaturisce uno spazio di liberazione dai vincoli filologici per attuare una specie di fantasticazione che trasforma la cosa scritta in materia rivissuta graficamente. Ciò avviene senza porre ostacoli al disegno, al colore, alla contaminazione simultanea delle parole scritte e delle grafie dilatate oltre il loro riconoscibile statuto. In questo modo di procedere si sente il ruolo liberatorio delle tecniche che determinano l’accadere delle forme in atto. In tale prospettiva di lavoro emerge l’unicità delle materie con cui l’artista sperimenta differenti livelli di fisicità della scrittura-immagine, le sfumature, gli aloni, il mistero dell’immediatezza come fonte di suggestione, si potrebbe quasi parlare di rigore delle anomalie.C’è una relazione circolare tra l’identità del segno verbale e la sua necessaria trasformazione, sempre legata ai modi con cui quel segno si rivela a partire da quell’inizio, da quell’origine che non viene mai cancellata in quanto matrice di ogni risonanza della parola, sia essa di William Shakespeare o di Dylan Thomas o di altri poeti fortemente amati.I punti di congiunzione con la poesia corrispondono all’immagine della sua costruzione, non v’è rispecchiamento mimetico ma spostamento interpretativo che allude anche al rapporto con la musicalità, per via di segni colori e ritmi. Come se si trattasse di evocare la stessa straordinaria esperienza del tradurre e del trasporre emanazioni di codici diversi eppure sempre concomitanti, congiunti dallo stesso impulso a rivelare qualcosa di differente rispetto alla specificità delle singole componenti. Questo qualcosa di difficilmente definibile Sanesi lo indica come “ombra del testo, ma non come modello, o riflesso – piuttosto, se possibile- come sua sostanza: intenzionale, visibile, del suo costruirsi ‘durante’. Essendo l’atto della lettura una sua riscrittura interpretativa. E viceversa, nel “continuum” del pensiero”. * Claudio Cerritelli è docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Brera

ALESSANDRO RUSSO

GalleriaAntonio Battagliavia Ciovasso, 5 - 20121 MilanoT/F 0236514048info@galleriaantoniobattaglia.comwww.galleriaantoniobattaglia.com

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FrankoB o della seconda vita

Di Raffaella Pulejo

Le parole grazia ed eleganza non sono le prime che vengono in mente a proposito dell’opera di Franco B, la cui notorietà è legata alle performances degli anni Novanta in cui il suo corpo coperto di colore bianco è tagliato, ferito, sanguinante. Lo choc è la modalità espressiva e l’effetto che tali atti inferti al corpo dell’artista producono nello spettatore. Nel saggio introduttivo del catalogo della mostra I still love in corso al PAC di Milano sino al 28 novembre, la curatrice Francesca Alfano Miglietti (Fam) richiama il concetto di choc con le parole di Walter Benjamin come “ energie troppo grandi che operano dall’esterno” dell’organismo e che irromponno verso l’interno dell’organismo stesso: è questa la forma di trasmissione del informazioni della metropoli, che si sostituisce alla narrazione delle culture premoderne. Lo choc che produce la mostra di Franco B proviene esattamente dall’opposto di quel che uno si aspetta, cioè non dalla violenza o della trasgressività delle immagini associate come codice alla sua opera, ma da un atmosfera di quieto e poetico luogo rituale in cui trovano vita le visoni dell’artista. La quiete è indotta già dal suggestivo, inedito allestimento di Fabio Novembre che ha “lavorato sul corpo dell’architettura come avrebbe fatto lo stesso artista sul proprio”. Un primo vano lasciato all’oscuro ci introduce attraverso una soglia a croce greca delimitata di rosso, ricavata dallo sfondamento di un muro, nel bianco abbacinante di una seconda sala in cui sono esposte le opere appositamente create dall’artista per l’esposizione del PAC, Love in Time of Pain (2008- 2010), gigantografie dell’artista dipinto di nero accanto agli animali imbalsamati, anch’essi coperti di vernice nera. Il biano il rosso e il nero, sono i colori e i fili conduttori delle opere di FrankoB (quasi

“periodi”) che si snodano nella mostra, ma anche gli scenari di luce che si proiettano negli spazi in cui ci muoviamo. Più che in altri casi, questa mostra merita di essere attraversata in solitudine. Perché credo che c’è un aspetto delle opere di Franko B che sfugga, come schiacciato dalla forza delle immagini. Questo aspetto è il tempo. Le opere di Franko B posseggono un tempo lento e inesorabile, come inesorabile è lo scorrere del sangue nel corpo. I movimenti, i passi e i gesti, delle performance, ma anche la scelta di posa delle immagini fotografiche, esprimono un tempo diverso da quello della vita. In questa diversa temporalità dell’atto, per esempio, le performances di Franko B si differenziano dalla violenza furiosa dell’azionismo viennese. Tra quelle e queste sta la stessa distanza che c’è tra un sabba e una messa.La mostra del Pac con l’eccezione dei video e delle foto delle performances degli anni novanta, non contiene immagini scioccanti. Caratteristica delle cose estreme è che non possono essere ripetute, e forzano, dopo avere varcato il confine, ad una ricomposizione. Io ho trovato nelle opere in nero (Love in times of pain) e nelle opere con il filo rosso, un senso di ricomposizione, come di raccolta all’interno, necessità di contenimento. Al taglio che lacera la carne sta qui il gesto del filo rosso che cuce la tela e e genera il disegno, dando corpo alla memoria e al ricordo. Ancora: la vita triste degli animali impagliati, trovati ai mercatini, sono avvolte in una seconda pelle spessa e preziosa di colore acrilico nero, che li trasforma da oggetti mortiferi della cantina di Norman Bates (Psyco) in lucidi, preziosi bronzetti, quasi piccole sculture rinascimentali: “ perché – dice l’artista- pur amandoli erano così tristi e volevo dare loro una seconda vita”. Lo stesso corpo dell’artista così nudo e vulnerabile, come una tela vuota, come carne, quando è coperto dal bianco, assume tutt’altro senso se avvolto nella corazza di nero, lucido come il bronzo. Nella performance della serata inaugurale, l’artista seduto immobile tra le creature a cui egli attraverso il gesto dell’arte “da una seconda vita”, emana impercettibili movimenti sino ad animarsi e animare in una danza il panciuto orso, da un capo all’altro della sala. Come dice la Fam, per ricordarci come sin dal rinascimento la sola possibilità di essere è quella che s’incarna in una carcassa deperibile, e che la sola eternità che conosciamo è quella visionaria dell’arte. E ai maestri che con la loro arte sono capaci di generare in noi visioni, l’Accademia di Brera, conferisce il suo Diploma ad honorem, com’è stato all’insaputa dello stesso artista il giorno dell’inaugurazione della mostra di Milano.

FRANKO BI STILL LOVEA cura di Francesca Alfano Miglietti

PAC Padiglione d’Arte ContemporaneaMilano9 ottobre-28 novembre

recensioni

Visione della mostra all’interno del PAC, Milano

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A cura di Silvia Passerini

Promosso da: Ass.Thara Rothas, etica e cultura materiale (Milano) ; Ass.Varzi Viva (Varzi, Pavia); Ass. Pellizza da Volpedo. La mostra ha l’obiettivo di sensibilizzare la “sostenibilità” progettuale e la salvaguardia delle risorse ambientali e architettoniche. In tal senso la mostra individua il comune impegno fra arte e architettura, che nel percorso della mostra viene rappresentato, dal concetto di recupero e riciclo. Il grande patrimonio architettonico ormai in stato di abbandono è testimoniato dalla raccolta fotografica dell’Associazione Thara Rothas. Parteciperà la Fondazione Nuto Revelli con un esemplare recupero di un borgo dis-abitato, Paralup in provincia di Cuneo; il teatro della Fragola di Reggio Emilia con la proiezione, in anteprima, di alcune immagini del documentario”Case abbandonate”, regia di Alessandro Scillitani.Il concetto di riciclo viene rappresentato dalle opere dei giovani artisti del movimento artistico e culturale Saveart, fondato da Maria Teresa Illuminato, artista e docente di Ecodesign di Brera. La mostra è patrocinata da Brera, Comieco e Legambiente che nel 2007 ha condotto un censimento con Confcommercio testimoniando i 2.831 comuni o aree di “disagio insediativo”.

SAVEARTE’ un movimento artistico e culturale fondato dall’artista Maria Teresa Illuminato con il contributo critico di Cristina Muccioli nasce a Milano nel 2004. Saveart non è una corrente, nè una moda intellettualistica ma un vettore di entusiasmo e condivisione di giovani artisti e creativi provenienti dalle più diverse facoltà universitarie che ne hanno fatto un vitale punto di incontro e di progettualità. E’ nato per dare un corpo nuovo alla creatività artistica sensibile alla salvaguardia e alla riqualificazione ambientale. Quello che infatti oggi è una minaccia di sciagure più che un problema ingombrante, ossia la spropositata quantità di rifiuti prodotti dall’uomo diventerà per Saveart una risorsa preziosissima e garante dell’unica nuova società civile possibile, quella eco-compatibile.

L’albero della sostenibilitàrecupero e riciclo, un impegno comunetra architettura e arteper non dimenticare un patrimonio

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Filippo Scimecae il giuoco dello spaziotempo nell’arte (in una una mostra personale alla Permanente di Milano)

...”Filippo Scimeca è un artista di lungo corso (“ho dedicato all’arte la maggior parte della mia vita – confessa – […] sempre alla ricerca della luce”), con monumenti, mostre personali, una miscellanea di critiche al proprio carico, ed è anche un autentico maestro pedagogo che ama citare ai suoi studenti Eraclito e Parmenide, Platone e Aristotele, e che ha svolto per anni e anni questo duplice e complementare ruolo con la stessa passione, con la stessa meticolosità e intelligenza che Paul Klee ha impiegato nella Bauhaus di Gropius, lavorando in accademia, l’attuale Accademia delle belle arti italiana. La sua “scuola” è stata, sempre, un laboratorio formativo autentico sin da quando ci siamo incontrati in quest’istituzione decisamente inattuale, nel senso nietzscheiano del termine, a Torino, a Milano. La sua cattedra di scultura ha cercato di applicare costantemente, oltre a verità scomode (“Il senso della forma oggi non è più quello che è stato nel tempo passato, ma si è arricchito”), due principi apparentemente contraddittori: la geometria, da quella di Euclide a quella di Hilbert, per esempio, in una incessante revisione e modificazione d’ogni paradigma e la poesia che gode d’una propria e diversa metrica, d’una intima armonia di segno un po’ diverso, saldate da un intento compositivo teso a costruire spazio e forma ora secondando la costante presenza della sezione aurea che è in tanta parte della natura e ora, piuttosto, negandola recisamente per portare fuori e rivelare ciò che altrimenti resterebbe nascosto.”

Comincia così il testo di Rolando Bellini per il catalogo della mostra al Palazzo della Permanente di Milano; una mostra che rende omaggio all’opera dello scultore di origine siciliana e fino all’anno scorso titolare di una cattedra di Scultura all’Accademia di Brera. Per motivi editoriali, su questo numero non potendo dedicare più spazio al suo operato, ci limitiamo a dare notizia di questa esposizione, riservandoci di dedicare in futuro attenzione più adeguata alla sua opera di artistya e di docente.

*Rolando Bellini è docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Brera

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MAIMERI OLIO x red accademy 10-02-2010 17:46 Pagina 1