resoconto delle prime nove lezioni del corso...
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Resoconto delle prime nove lezioni del corso di
Letteratura italiana contemporanea (Prof. sa Elena Salibra)
(a cura di Letizia Del Magro)
Passaggio tra Ottocento e Novecento
Dagli ultimi ani dell’Ottocento fino al 1913 abbiamo una fase di benessere
economico e culturale definito Belle Epoque.
Lo stile simbolo è l’Art Nouveau chiamata, in Italia, anche Liberty da Arthur Liberty
che vendeva gioielli e oggetti ornati con disegni floreali tipici di questo gusto.
L’Art Nouveau propone l’abbellimento degli oggetti quotidiani spesso con arabeschi
e decori di stile esotico e floreale.
La situazione di profondo cambiamento parte dall’inizio del Novecento ma sono
soprattutto i primi dieci anni quelli decisivi nell’attuazione di queste importanti
trasformazioni che vanno dalla scienza all'arte, dalla poesia alla letteratura e alla
linguistica.
C. Rebora, un poeta milanese di quell'epoca, dedica la sua raccolta “I Frammenti
Lirici” proprio ai primi dieci anni del 1900 che sono così decisivi per ciascun uomo
di cultura e che sfoceranno nella prima guerra mondiale e nella rivoluzione russa.
Nel 1905 Einstein parla della teoria della relatività ristretta e poi di quella generale e
ci illustra la quarta dimensione: il tempo.
Il tempo, che non è più una dimensione assoluta (come diceva Newton), ma è
piuttosto una dimensione relativa legata a ciascuna situazione. Esso scivola nello
spazio in una dimensione soggettiva. Spazio e tempo sono una struttura unica detta
“cronotopo” che è sempre in relazione con i corpi presenti in essa.
Questa tesi è ripresa anche da H. Bergson in ambito filosofico e andrà ad influenzare
le opere di M. Proust, in particolare “Alla ricerca del tempo perduto”, nonché quelle
di J. Joyce nell' “Ulisse” e I. Svevo ne “La coscienza di Zeno”.
Durante i primi anni del 1900 avvengono due fatti molto importanti: lo sviluppo della
fisica quantistica (con la quale si spiega come l'energia sia fluida) e la scoperta
dell'inconscio con Freud e la sua “Interpretazione dei sogni” (grazie alla quale si
comincia a fare uso di una logica diversa rispetto a quella di causa ed effetto).
A partire dal 1901 (ma in particolare dal 1904-1905) si affacciano sulla scena nuove
forme d’arte dette di avanguardia, termine militare usato per la prima volta da
Baudelaire.
Con le riflessioni di Baudelaire si era aperta una fase di dibattiti sul ruolo dell’artista
nella modernità che aveva portato allo sviluppo di varie poetiche, tutte trasgressive
nei confronti della letteratura e dell’arte precedente.
Le avanguardie puntano a un superamento dei vincoli della tradizione ancora esistenti
e lo sforzo è di trovare temi e forme incompatibili con quelle classiche e romantiche.
Ne è un esempio lo slogan di E. Pound: Make it new! (Rinnovalo!).
In seguito si comincerà ad attaccare l’arte in sé in quanto istituzione, non
riconoscendo nessuna superiorità all’opera artistica come sistema autonomo e
cercando di estetizzare la vita comune.
In ogni campo sono posti in discussione i principi assoluti in particolare quello
spazio-tempo e quello oggettivo – soggettivo.
L'avanguardia è la rottura con quelli che sono i temi e le forme classiche, romantiche
e decadenti in tutti i campi, ma prima di tutto nella pittura, campo in cui viene messa
in discussione la prospettiva (Picasso) a favore del modo di vedere una stessa figura
da più punti di vista.
Si sviluppa la tecnica del “riuso” per cui oggetti d’uso quotidiano sono impiegati e
usati al rango di oggetti artistici (Duchamp).
Altro artista innovativo nel campo linguistico è il ginevrino F. De Saussure che, nel
suo corso di “Linguistica generale” (trascritto in realtà dai suoi allievi poiché egli non
ha mai pubblicato nulla nella sua vita), parla di opposizione strutturale tra significante
e significato nella parola, cioè tra valore fonico e valore semantico.
E’ la distinzione dunque tra “langue” e “parole”, dove per “langue” s’intende il
sistema linguistico generale mentre per “parole” la lingua come viene usata da
ciascuno di noi.
La trama fonica timbrica di una poesia è legata al significante (come la struttura
metrica), il senso della poesia, invece, è legato al significato.
L’intellettuale si trasforma spesso in un lavoratore salariato. I settori in cui trova più
spazio sono l’editoria e il giornalismo da una parte e l’istruzione e la burocrazia
dall’altra.
Si formò così il primo ceto intellettuale moderno di estrazione borghese.
La produzione letteraria dei primi decenni del Novecento enfatizza soprattutto un
disagio narrativo: nei nuovi romanzi i personaggi sono sempre più incapaci di
adattarsi al vivere moderno.
Le principali avanguardie sono: Espressionismo, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo.
L’Espressionismo
L’Espressionismo più che un movimento specifico, fu una tendenza stilistica che
mirava a esprimere aspetti interiori e profondi della realtà o nuove realtà intuite
dall’artista.
Parte da poetiche simboliste per arrivare a sconvolgere linguaggi artistici considerati
fondamentali come la prospettiva, la figura umana, o, in musica, il sistema tonale.
La vera innovazione arriva nel 1904 -1905 con lo svilupparsi in Germania di
movimenti di pittori che puntano alla deformazione dei soggetti.
Importante fu lo svilupparsi a Dresda e poi a Berlino del gruppo “Die Brucke” (Il
Ponte) che a sua volta si rifaceva al pittore Munch (di cui possiamo ricordare L’Urlo).
Contemporaneamente in Francia dal 1905 al 1911 abbiamo il gruppo dei pittori
“Fauves” (le belve).
Si arrivò così all’astrattismo, all’atonalità e alla dodecafonia. Fra gli esponenti più
importanti in pittura vi erano Matisse e Kandinsky e in musica Schonberg.
Il termine espressionismo però è stato anche impiegato a indicare ogni opera di
elaborazione espressiva che fosse originale e violenta o addirittura antirealistica.
Caratteristica dell’espressionismo pittorico è l’uso di colori molto violenti che
sembrano tagliare la tela, mentre in poesia l'espressionismo si esprime con la violenza
nel linguaggio: violenza metrica e linguistica. Le parole si trasformano per diventare
come proiettili proprio allo scopo di esprimere il disagio psicologico del poeta. La
definizione di Contini “l'onomatopea psicologica” (riferita a proposito di Rebora)
rende bene questa idea.
I tre punti cardine di queste suggestioni sono tre poeti: C. Baudelaire, E. Pound e T.
Eliot.
C. Baudelaire
Baudelaire è un esponente del simbolismo francese e la sua opera più famosa è “Le
fleur du mal” - che è una raccolta molto trasgressiva in cui parla del brutto in poesia,
(come il poeta ebbro, inghiottito dalla metropoli che però è come un sacerdote
preveggente ed è depositario di quello che è nascosto dalla realtà poiché riesce ad
interpretarlo). Baudelaire usa la metafora dell'albatros, uccello marino dalle grandi ali
che riesce a volare e comprendere l'infinito mare sotto di sé ma quando viene
catturato questa sua facoltà viene negata perché le sue ali a terra gli creano impaccio
e l'uccello diventa goffo e oggetto di scherno.
Così è il poeta: finché egli fantastica è come se volasse e interpretasse la realtà ma
quando è immesso nella vita comune diviene prigioniero dei ritmi quotidiani, diventa
impacciato e non riesce ad inserirsi, non riesce più a fantasticare ne' ad interpretare i
sogni.
Per Baudelaire il poeta può essere rapito dall'ideale o oppresso dalla noia e
dall'inerzia. E' il primo poeta che travalica gli steccati tra i generi, soprattutto tra
prosa e poesia, e scrive il “poeme en prose” con elementi che sostituiscono gli accapo
del verso.
Gli altri due grandi americani che influenzano queste suggestioni sono: E. Pound e
T. Eliot.
E. Pound
E. Pound (statunitense emigrato in Inghilterra che morì a Venezia) cominciò a
scrivere i Cantos nel 1917 e li portò avanti per tutta la vita. La cosa interessante che
vi si trova è l'imagismo e il vorticismo (il primo è il rapporto tra parola e immagine, il
secondo è quello fra tradizione e sperimentazione).
Egli usa molte citazioni in lingue differenti e poiché studiò molto le letterature
medioevali e barocche fece innumerevoli citazioni (cita spesso Dante) e si ha in lui
uno scritto formato come da tante voci, tanti frammenti dai quali però si riesce a
catturare l'unità (una plurivocità sarà definita la sua tecnica di scrittura).
Fondamentale in lui è il rapporto tra versi e immagini (si interessò molto agli
ideogrammi cinesi) e il suo scopo finale fu ottenere una summa di tutta la cultura
mondiale in un linguaggio denso e complesso.
T. Eliot
Thomas Eliot è il terzo importante rappresentante che è molto influenzato e legato a
Pound (entrambi statunitensi e emigrati in Inghilterra) , gli portava, infatti, a leggere
tutte le sue poesie e Pound però gli tagliava moltissimo i versi per cui senza il suo
aiuto non ci sarebbe stato il capolavoro “ Terra desolata”.
Egli parla di metodo mitico: l'importanza del mito nel 1900, la sua rivisitazione che
permette di ricollegare frammenti sparsi sulla base di un mito o archetipo nascosto.
E’ proprio in quest’opera che il metodo mitico porta a una valorizzazione della
tradizione (metodo mitico individuato da lui anche nell’Ulisse di Joyce) rivedendola
in senso moderno.
Solo riappropriandosi della grande tradizione le opere possono ricevere un senso
storico (un patrimonio da poter reinterpretare).
L'accostamento con i metodi cinematografici in lui si ha per il montaggio dei vari
spezzoni come si ha il montaggio degli spezzoni nel cinema.
Walt Whitman con “Foglie d'erba” nel 1855 comincia a usare versi lunghi che hanno
come modello i versi biblici. E' fondamentale perché comincia a valorizzare gli
accenti al posto del numero dei versi; accenti che servono a far sentire il ritornello.
L'isosillabismo è il numero di sillabe uguali (si ha nel verso tradizionale), nella
metrica libera invece si parla di elasticità di misure sillabiche le cui sillabe in un
verso non sono di numero fisso ma variabile.
Quello che conta sono le cadenze degli accenti delle parole. Questo avverrà anche
nelle canzoni.
In Francia, la patria del simbolismo, il distacco con la tradizione non fu così netto
come si potrebbe pensare e un esempio ne è Apollinaire.
G. Apollinaire
G. Apollinaire visse tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e con la sua
raccolta “Alcools” propone dei testi densi e senza punteggiatura ma ancora ricchi di
allusioni alla tradizione e in particolare alla religione cattolica e alla mitologia
romantica e simbolica. La sua ultima raccolta si intitola “Calligrammi” e vi racconta
argomenti drammatici con la tecnica della frantumazione del discorso e combinando
il tutto con un linguaggio prosastico e dai temi bassi.
Cubismo
Le tendenze dell’espressionismo furono in parte superate da un movimento nato a
Parigi pochi anni dopo e denominato cubismo.
La sua caratteristica era la ricerca di un nuovo modo di rappresentare i soggetti di là
della forma visiva scomponendo l’immagine in numerosi punti di vista.
L’opera pittorica che segna l’inizio del cubismo è “Les demoiselles d’Avignon” del
1907 di Pablo Picasso.
Il cubismo si fuse in seguito con il futurismo.
Futurismo
Il Futurismo che rigettava completamente l’arte del passato, privilegiava come
soggetti macchine e paesaggi industriali.
Fondamentale è la ricerca di nuove modalità di spazio-temporale in particolare quella
della velocità (citiamo i dipinti: La città che sale e Forme uniche nella continuità
dello spazio di Boccioni).
In campo pittorico si registrano affinità con il cubismo Di Picasso e Braque.
Marinetti il 21 febbraio 1909 pubblica a Parigi (in francese) il Primo Manifesto
Futurista (che si chiama così proprio per avere un carattere più perentorio).
Il Futurismo è un movimento che nasce in Italia, a Milano, proprio con Marinetti.
Questo movimento si protrae nella prima parte (Primo Futurismo) fino al 1916 e nella
seconda parte (il Secondo Futurismo) fino agli anni ‘30.
Questo movimento guarda il futuro e cerca di distruggere il passato con lo
scardinamento della sintassi, con parole in libertà e senza fili.
Si arriva come al grado zero della figura e si hanno catene analogiche: una parola si
collega ad un'altra per accumulo di analogie e si arriva fino al “nonsense” per poi
ricostruire una nuova poesia.
Il manifesto si svilupperà fino a diventare manifesto pubblicitario legato al prodotto e
al consumo.
Si comincia con manifesti perentori come quelli di Marinetti, attraverso un rapporto
ritmico di parola e immagine con una specifica scelta di codici e linguaggi diversi, ed
entrano in funzione anche i numeri arabi.
Le parole vengono fruite anche nella loro immagine cioè nelle lettere che le
compongono dal punto di vista grafico, infatti in questo periodo, c'è un interesse per
gli ideogrammi cinesi che hanno un forte impatto visivo.
Ogni tanto parole e frasi si combinano per formare delle vere e proprie immagini
come in Mallarmé.
Quando il manifesto da letterario diviene pubblicitario avvicina il mondo
dell'economia a quello della poesia.
Il Futurismo, dopo che Marinetti ne spiegò i principi- cardine nel Manifesto, ebbe
subito ampio sviluppo nel mondo della pittura e Boccioni, Carrà, Balla, Severini e
Russolo furono i primi pittori che firmarono il “Manifesto dei pittori futuristi” (e
poco dopo anche il “Manifesto tecnico della pittura futurista”); mentre, in seguito, ci
sarà la corrente dei pittori del secondo futurismo come Depero.
Il futurismo italiano continuò le sue ricerche stilistiche anche negli anni ’20 e ’30 e
venne spesso appoggiato dal Regime Fascista.
Marinetti fu autore di alcune raccolte poetiche in francese, mentre nella sua
produzione lirica italiana ricordiamo: Battaglia Peso + odore e il poema paro libero
“Zang Tumb Tumb”.
Tra gli scrittori più importanti vi furono Giovanni Papini, Corrado Govoni e Aldo
Palazzeschi e tra i pittori di spicco Boccioni e Carrà.
In Russia si sviluppò, invece, una sua variante chiamata cubofuturismo attenta ai
valori della Rivoluzione Comunista bolscevica.
Govoni e Palazzeschi
Govoni ha rappresentato uno dei primi modelli di lingua e verve poetica
novecentesca con una semplificazione estrema dell’io lirico tradizionale e una sua
regressione all’età infantile.
Palazzeschi ha avuto un percorso stilistico molto simile. Ricordiamo, oltre alla sua
attività di narratore, le raccolte poetiche più notevoli dell’anteguerra come “Cavalli
bianchi”, “Lanterna” e, invece la sua parte crepuscolare con “Incendiario”.
Nel periodo futurista scrive “Controdolore” in cui prevale la provocatorietà.
Egli in questo periodo fa parodie dannunziane e scrive quadri grotteschi con scorci di
visioni distorte della città.
I suoi protagonisti sono anche memorabili figure di piromani, pagliacci e funamboli.
Vociani
Vengono detti vociani gli scrittori che ruotarono intorno alla rivista “La Voce”.
Tra i vociani più importanti di inizio secolo abbiamo Dino Campana che si guadagna
subito fama di poeta maledetto a causa delle sue vicissitudini personali poiché era
fortemente distruttivo, vagabondo e più volte internato in manicomio.
Egli crede nella forza della poesia e si connette a una concezione mistica e quasi
magica della letteratura.
Scrisse un unico fondamentale titolo: “Canti orfici” (che significa canti magici).
Altro autore importante fu Camillo Sbarbaro con il suo capolavoro “Pianissimo” del
1914.
Le sue scelte tematiche sono l’adozione di un io lirico disanimato e indifferente
(fantoccio o sonnambulo) con un’identità fragile che arriva quasi allo sdoppiamento.
Il protagonista è un “apatico depositario di confessioni liriche” in un panorama arido
di disagio sociale con città ostili e pietrificate.
La pronuncia è spoglia e distaccata, lo stile sobrio e il lessico medio. Egli rimane
tuttavia abbastanza legato alle tradizioni.
Prosa
Dalla rivista “La Voce” vengono fuori anche autori di prosa espressionisti come E.
Pea che pubblicò una trilogia dal titolo finale “Il romanzo di Moscardino” in
vernacolo lucchese con uso di rapide sequenze che creano un effetto di deformazione
anti- idilliaca.
Più “a oltranza” lavorò il viareggino Lorenzo Viani (anche pittore) in cui i toni dei
romanzi e racconti sono grotteschi e con temi violenti e drammatici come la vita di
emarginati, alcolizzati o malati di mente.
Dadaismo
Si sviluppò a Zurigo dal 1916 fondato dal rumeno (naturalizzato francese) Tzara.
Mirò a dare funzioni e valori imprevedibili a oggetti d’uso comune per mettere in
luce le contraddizioni della società borghese. Non voleva fondare un’arte ma
demistificare la funzione dell’arte stessa.
Ricordiamo M. Duchamp che per desacralizzare l’arte espose un orinatoio rovesciato
intitolandolo “Fontana”.
Altra opera famosa di Duchamp è la Monna Lisa (quella raffigurata con baffi e
pizzo).
Il nome “dada” derivato dal linguaggio infantile dovrebbe voler dire giocattolo
oppure è semplicemente un “nonsense”.
Il gruppo di cui era composto voleva avvalersi di un linguaggio “pre-razionale” che
avesse legami con la psicanalisi usando molti codici espressivi dal ready made
(oggetti già pronti) alla forma del cabaret.
Gli artisti che vi aderirono, però, si divisero ben presto e questo movimento terminò
negli anni ’20 quando fu soppiantato dal Surrealismo.
Surrealismo
Andrè Breton nel 1924 fondò a Parigi un movimento che voleva superare la
demistificazione artistica del dadaismo per attuare un’analisi artistica del campo
dell’inconscio.
Si voleva creare una sopra-realtà in cui il fantastico e l’onirico avessero libertà
espressiva.
Quest’azione appoggiava anche politicamente le rivoluzioni comuniste di tutto il
mondo ma senza allinearsi ai dettami sovietici.
Si avvaleva di nuovi metodi come la “scrittura automatica” cioè svincolata da
processi razionali e il suo meccanismo più importante era l’automatismo psichico
puro che doveva lasciar esprimere senza paura l’inconscio attraverso libere
associazioni d’idee con accostamenti che possono essere anche senza senso.
Aveva tra i suoi esponenti personaggi illustri come Magritte (accostamento di oggetti
disparati tra loro), S. Dalì. ( aspetti onirico - ossessivi), G. de Chirico nella pittura e
L. Bunel (regista di “Un cane andaluso”) nel cinema.
Col surrealismo si chiudeva la fase più creativa delle avanguardie.
Astrattismo
Questa corrente dell’Estetismo è più legata alla musica che alle altre arti e sua
caratteristica è rifiutare totalmente la realtà per puntare a forme pure.
Il primo gruppo astrattista è “Die Blaue Reiter” (Il cavaliere azzurro) fondato a
Monaco da F. Marc e da Kandinsky.
A questo gruppo partecipò anche Schonberg (musicista austriaco di origini ebraiche)
che fu il primo ad abbandonare il sistema tonale in musica. Egli ipotizzò un metodo
di composizione con dodici note non imparentate tra loro detto dodecafonia e vi
scrisse il “Pierrot lunaire” e alcuni Lieder.
A Parigi, contemporaneamente, il compositore russo I. Stravinskij cominciò a
collaborare musicalmente con i gruppi di Balletti russi. La sua musica ha tratti di
musica popolare russa con politonia e poliritmia a cui univa forti contrasti timbrici.
Tra le sue maggiori composizioni abbiamo L’Uccello di fuoco, La Sagra della
Primvera, Petruska.
In seguito egli si dette a composizioni manieristiche così che gli studiosi dissero che
con lui non si aveva una vera e propria avanguardia anche se recentemente i critici
sostengono che alcune vie delle avanguardie si spinsero presto verso una
“restaurazione” che anticipò alcuni stili del periodo post-moderno (seconda metà del
Novecento).
Post - modernismo
Emblematica per la comprensione del Novecento del post – modernismo è la raccolta
di poesie (del 1956) di G. Caproni in cui il poeta sente il bisogno di misurarsi con la
tradizione mitica (il personaggio di Enea) per indicare l'uomo moderno, spaesato
dopo la fine della guerra, che non riesce a trovare certezze e si muove tra le rovine
come in un deserto in cui cerca di costruire nuovi valori.
Il critico e sociologo polacco Zygmunt Bauman, nel 2000 pubblicò “Modernità
liquida”, un libro in cui parla della messa in discussione, nel post-modernismo, del
rapporto e dei valori tradizionali in una dimensione di globalizzazione in cui il
legame tra produttore e consumatore quasi si ribalta. Il produttore diventa
consumatore. Chi domina non sono più i soggetti bensì gli oggetti di cui l'uomo
diventa schiavo.
C'è un poeta della fine del 1900 che ha scritto un saggio che si intitola “Il realismo
terminale”; questo poeta è Oldani e ha messo bene in evidenza il dominio degli
oggetti sull’uomo: oggetti defunzionalizzati delle loro originarie caratteristiche.
Tre prospettive poetiche delle avanguardie
Le avanguardie si esprimono attraverso tre prospettive: quella crepuscolare, quella
futurista e quella vociana (legata alla rivista “La Voce").
Verso libero
Gozzano era un crepuscolare e la prospettiva crepuscolare nasce dalla messa in crisi
delle idee romantico - risorgimentali ottocentesche esprimendosi, dal punto di vista
della poesia, con la scoperta del verso libero francese (nel 1880 Gustave Kahn lo
chiamerà proprio “vers libre”).
Per verso libero s’intende inizialmente la combinazione inedita di versi tradizionali
(quando, come in questo caso, inedita significa fuori dall'ordinario).
La metrica tradizionale italiana era basata sul numero delle sillabe fisse e sulla
cadenza degli accenti (ad esempio settenario ed endecasillabo), poi si passò alla
combinazione inedita di versi tradizionali (combinazioni miste) e infine si arrivò a
versi con un numero di sillabe variabili diverse da quelle tradizionali (sillabe mobili
con numero di versi del tutto nuovi, ad esempio di tredici).
Abbiamo quindi una rivoluzione di tipo tecnico all'interno della metrica.
Le Riviste
Elemento fondamentale per capire questi sviluppi sono alcune riviste della fine
dell’Ottocento come “Il Convito”, la “Critica bizantina”, “Il Marzocco”. Quello che
adesso si chiama blog (su internet) era una volta la rivista: lì, infatti, si concentravano
i dibattiti.
In ambito letterario si ha la poesia espressionista legata alla rivista “La Voce” che
dette inizialmente risalto ai fautori del rinnovamento politico che erano in
contrapposizione col primo ministro Giovanni Giolitti e a scrittori espressionisti
basati sul frammentismo lirico.
Sia Prezzolini che l’altro direttore, Papini, raggiunsero migliori risultati come
promotori culturali mentre il loro successore Giuseppe de Robertis rappresentò un
punto di riferimento per la critica militante e stilistica e contribuì all’affermazione di
autori nuovi come Ungaretti.
Tra le riviste futuriste più importanti abbiamo “Poesia” (milanese fondata da
Marinetti) e “Lacerba” (fiorentina). “La Voce”, rispetto alle altre, nasce per occuparsi
di problemi sociali e, solo nel 1912, con la direzione di Papi (poeta fiorentino),
diventa rivista anche di poesia. Questa rivista sarà attiva fino al 1916.
La poesia de “La Voce” è legata all'Espressionismo, un espressionismo che era prima
di tutto pittorico (influenzato da “Der Blaue Reiter” –“Il Cavallo Azzurro”- circolo di
artisti formatosi in Baviera nel 1911) mentre le altre riviste sono legate Futurismo.
Rinnovamento del linguaggio
In che modo avviene la spinta innovativa?
Col verso libero ma anche con il rinnovamento del linguaggio attraverso nuovi ambiti
nozionali.
Ad esempio, Pascoli mira non alla vaghezza del linguaggio ma alla precisione della
nomenclatura artistica.
La sua opera si arricchisce quindi di termini botanici molto precisi, termini faunistici,
termini scientifici (in senso stretto) e termini marinari.
E' la poesia delle piccole cose, un po’ come lo sono le Myricae (piante cespugliose
con piccoli fiori colorati).
D'Annunzio era un grande conoscitore della scienza e consultava moltissimo i
vocabolari. Nella sua poesia ci sono parecchi termini marinareschi.
Egli è anche un innovatore perché usa il verso libero ante-litteram con strofe molto
lunghe (ad esempio nella raccolta di liriche “Alcyone”).
Altra innovazione avviene con l'immissione in poesia del discorso diretto che prima
era tipico solo della forma del romanzo.
L’uso di altri tipi di sintassi come quella nominale rende più efficaci gli elementi di
dissolvenza.
Il cinema mette in discussione la scansione tradizionale di versi e immagini e
influenza i poeti, in particolare Gozzano, che inserirà elementi che rallentano il ritmo
o lo velocizzano, a seconda del bisogno, per creare un effetto cinematografico.
Avviene poi la messa in discussione del poeta.
Ci si oppone al modello del “poeta vate” e si va sviluppando il concetto della
marginalità della voce poetica perché si vede il poeta stesso come un uomo che nel
mondo contemporaneo non ha un ruolo preciso. Esso si muove spesso verso l'ironia e
l'autocritica oppure verso la sua dismissione.
Aldo Palazzeschi parla del poeta saltimbanco (“Chi sono?”) e quindi figura scomoda
che, però, riesce anche a divertirsi.
C'è il poeta visto come povero fanciullo che piange (come secondo il crepuscolare
romano Sergio Corazzini in “Desolazione del povero poeta sentimentale”) o il poeta
del grido unanime di Ungaretti :Sono un poeta
Un grido unanime
sono un grumo di sogni
…
Egli scioglie il groppo di sogni che c’è in ciascuno di noi e passa dall’esterno
all’interno, dal conscio all’inconscio che interpreta attraverso i sogni.
Narrativa
La narrativa fu innovativa sia a livello tematico che strutturale.
I “tipi” di personaggi presentano cambiamenti significativi: non sono più borghesi o
proletari in cerca di un miglioramento sociale e neppure superuomini dediti ad
imprese sublimi bensì sono degli inetti cioè uomini incapaci di rispondere alle sfide
lanciate dalla vita quotidiana.
Le tipologie riscontrabili sono: il malato di disturbi psicologici o nevrosi che non
riesce a condurre una vita normale (Mann), il reietto allontanato perché incapace di
seguire le regole comuni per inferiorità (Kafka), l’artista che non riesce a creare la
sua opera per mancanza di motivazione della sua vocazione (Proust), ecc.
Inoltre è importante notare che il narratore risulta depotenziato e la storia sembra
precedere senza un ordine preciso o addirittura senza un finale risolutivo o proprio
senza finale.
La realtà mostra i lati più brutali e caotici sia nella rappresentazione delle città che in
quella dell’inconscio.
La trama è spesso ridotta a frammenti non riconducibili a un’unità e uno dei contrasti
più frequentemente rappresentati è quello tra padri e figli.
In alcuni dei romanzi maggiori (come di Joyce o Proust), però, resta una componente
di speranza legata ad un’apparizione inaspettata (dall’ispirazione ad un ricordo
salvifico, ad una felicità inaspettata, ecc.). Queste improvvise aperture vengono
chiamate “epifanie”. Non le troveremo, tuttavia, in Kafka.
Cinema
Con la nascita del cinema molti scrittori vengono coinvolti nelle sceneggiature dei
film e le interazioni tra cinema e letteratura divengono sempre più frequenti.
l francese G. Melies realizzò centinaia di cortometraggi su temi diversi e con metodi
innovativi (ricordiamo “Il viaggio nella luna”).
Le potenzialità di questo nuovo strumento furono subito colte negli Stati Uniti, dove
si cominciò a organizzare una sorta di sistema industriale a Hollywood. Furono
inventati alcuni generi tipici cinematografici come le comiche (nei film muti), i
cartoni animati e i western.
Un film di matrice espressionista fu “Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene che
propone il tema del doppio reinterpretato in maniera violenta o “Nosferatu” di
Murnau che fornì uno dei primi esempi di horror.
Altro film tipico è Metropolis di Lang che rappresenta il mondo dominato dalle
macchine e disumanizzato.
Nel film italiano di ambientazione storica vediamo impegnato persino D’Annunzio
(Cabiria).
Nella Russia rivoluzionaria pure si intuì le potenzialità del cinema e S.M. Ejzenstein
divenne un regista geniale con certi tipi di montaggi epici basati su primi piani e
azioni dei singoli in un ambiente corale. Ricordiamo tra i suoi film: La corazzata
Potemkin, Ottobre, Alexander Nevskji e Ivan il terribile.
Crepuscolari
Borgese è il critico che nel 1910 sulla stampa di Torino conia il termine crepuscolare
riferendosi proprio a Gozzano.
La parola crepuscolare viene da crepuscolo cioè tramonto proprio per il loro carattere
di malinconica rassegnazione.
Esso si avvale di una grammatica “del sogno” valorizzando la parola in maniera
fonica, parola che acquista una sua evocatività in mezzo allo spazio bianco.
La sintassi è spesso di tipo nominale, cioè senza verbi; si da molta rilevanza agli
spazi bianchi e si può ben notare la mancanza di punteggiatura.
I temi affrontati ruotano attorno all’inutilità della poesia, l’inettitudine del poeta, la
banalità del vivere.
Il crepuscolarismo si consuma in un arco cronologico assai breve (circa quindici
anni) che non fu mai inquadrato in un vero e proprio movimento e fu privo di volontà
di sovversione letteraria.
Gettò le basi per un rinnovamento del linguaggio poetico avendo una visione del
mondo piccolo – borghese con scenari provinciali e oggetti umili.
Si esalta la marginalità dell’artista e si ha una poetica debole in cui l’artista prova
quasi un senso di colpa sul suo lavoro.
Tra i maggiori crepuscolari ricordiamo Govoni, Moretti, Corazzini e soprattutto
Guido Gozzano.
Benedetto Croce
Benedetto Croce, un critico molto selettivo, accetta come unico poeta crepuscolare
solo Gozzano. Le interpretazioni crociane erano fondate sulla dicotomia poesia – non
poesia dove per non poesia si intende la sola struttura che sorregge l’opera. Egli
teorizza questo concetto nel suo scritto “La poesia”.
Questa interpretazione però non si può adattare alle forme poetiche più complesse.
La sua estetica mirava all’individuazione del barlume lirico che poteva rivelarsi
anche in un solo verso all’interno di un poema.
Il suo ideale rimane tuttavia di tipo classicista.
Egli dirigerà anche una rivista intitolata “La Critica”.
Sergio Corazzini
Presenta caratteri simili a quelli di Gozzano e ha molte analogie anche per il fatto che
morì giovane di tubercolosi.
Era di origine piccolo- borghese e amò esprimersi attraverso metafore di malattia e
sofferenza con verso libero e linguaggio prosastico e volutamente banale.
La sua più importante raccolta di versi fu “Piccolo libro inutile”.
Guido Gozzano
Egli nacque a Torino nel 1883 ed ebbe una vita breve poiché era malato di tisi e morì
nel 1916.
S’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dove non si laureò mai, ma seguì le lezioni di
Lettere.
Cominciò scrivendo delle liriche per giornali e riviste; era molto attratto dal cinema e
dal teatro (la madre Diodata Mautino era un'attrice).
Egli mette in poesia il discorso diretto ed è molto influenzato dal melodramma
soprattutto dal punto di vista metrico; scrive anche due sceneggiature
cinematografiche: “La vita di S. Francesco” e “La vita delle farfalle”. Il film su
queste sceneggiature però non venne mai realizzato.
Scrisse anche delle novelle come “Il nastro di celluloide”, “I serpi di Laocoonte” e
“Pamela e il riflesso delle cesoie” che sono ispirate direttamente al cinema e vengono
pubblicate postume (proprio come le due sceneggiatura).
La sua prima raccolta, pubblicata nel 1907 dalla casa editrice (semi sconosciuta
Streglio), è “La via del rifugio” (che già contiene L’amica di nonna Speranza e Le
due strade), mentre la seconda raccolta, di gran lunga più importante, “I colloqui", del
1911, è stata pubblicata dall'importante casa editrice Treves di Milano.
Il poeta cominciò una storia con la poetessa Guglielminetti e per motivi di salute (ma
non solo) intraprese molti viaggi andando persino in India e a Ceylon; da questi
viaggi usciranno le poesie raccolte in “Verso la cuna del mondo” (tra cui la celebre
Ketty).
Gozzano aveva anche pubblicato molte poesie in riviste non solo letterarie, ma anche
riviste un po' più di divulgazione popolare come “La Lettura”, “L'Illustrazione
Italiana” e “Donna”.
Come introduzione a un’antologia di poesie di Gozzano, esce un saggio di Montale,
nel 1951, “Le Poesie” in cui parla del fatto che secondo lui il poeta "attraversa"
D'Annunzio per arrivare a un territorio suo (che è un po’ quello che aveva fatto
Baudelaire con Hugo).
Stanno venendo alla luce altri suoi scritti tra cui l’epistolario con la Guglielminetti.
Il materiale poetico, che negli altri crepuscolari può essere un’ingenua sincerità o un
vezzo, in lui è una letteratura d’artificio che però rimane comunque fresca e credibile.
Le due formule più tipiche di Gozzano sono: la separazione dai suoi colleghi
attraverso un distacco ironico dalla sua biografia e poesia e l’essere tuttavia un poeta
ancora volto verso l’Ottocento (chiudendo però in maniera critica la tradizione
classica).
In lui abbiamo un atteggiamento psicologico per cui la realtà può essere contemplata
e riprodotta solo a patto di allontanarla per riviverla in maniera distanziata
temporalmente.
Guccini si è ispirato tanto a Gozzano per la tecnica del refrain, della rima facile e
dello shock tra aulico e prosaico legato alla quotidianità.
Gozzano - La via del Rifugio: raccolta e poesia
La “Via del rifugio” del 1907 è un esempio di opera letteraria polifonica in cui
l’autore mette in attrito il sovrapporsi di voci agli effetti ironici o smitizzanti.
Vi sono presenti molti componimenti in forma di sonetti che costituiscono la forma
lirica per eccellenza legata all’io, ma possiamo trovarvi anche poemetti altamente
teatrali (come Le due strade e L’amica di Nonna Speranza) che fungono da archetipo
della plurivocità.
Vi sono, infine, testi che mimano la tipologia della filastrocca e dell’esecuzione
scenica che, a sua volta, fanno affiorare una gestualità fittizia in cui la mancanza di
vera recitazione determina una gesticolazione sintattica data dalla presenza di
numerosi esclamativi, imperativi e interrogativi, in una sorta di dialogo senza replica.
A poco a poco il lettore si rende conto che in questa plurivocità sta la malattia di
Gozzano: l’alienazione.
Alla base della sua scrittura c’è una concezione ludica della poesia che passa dal
vissuto al rappresentato e dal vero al simulato.
Nella “Via del Rifugio” la dissacrazione dei valori tradizionali è portata al massimo
in un programma che dichiara esplicitamente la sua opposizione a D’Annunzio
(“Preghiera al Buon Gesù perché non mi faccia essere dannunziano”).
La lirica che da il nome alla raccolta è come un “travestimento” poiché opera sia sul
piano poetico che su quello della filastrocca, distanziando i due piani con l’adozione
della forma tipografica del corsivo.
Tutta l’intera struttura è condizionata dal ritmo cantilenante della filastrocca e dal
gioco dell’opposizione tra il reale e il convenzionale in una molteplicità di punti di
vista.
Tra questi punti di vista c’è il soggetto estraneo ai casi della vita che si trova in
un’immobilità fisica e psicologica paragonabile a un’atarassia. Vi è, poi, il punto di
vista delle bambine che è caratterizzato dal movimento e delimitato da precisi confini
di tempo e spazio. Abbiamo infine il punto di vista del narratore che non sempre
coincide con quello del soggetto narrato e che non riesce a stabilire un rapporto con i
personaggi dell’azione ma si limita a svolgere un dialogo silenzioso con il lettore
attraverso una serie di domande senza risposta.
All’improvviso la cantilena si interrompe e il soggetto è costretto ad abbandonare la
maschera e divenire spettatore della cattura della farfalla.
Un farfalla così piccola che si deforma fino a divenire infinitamente grande (Oh mole
immensa/di dolore che addensa/ il Tempo nello Spazio!), ma, appena l’evento
raggiunge il suo apice simbolico ritorna la filastrocca a parlare ancora del sogno
come espediente per esprimere i temi dell’io.
Il sogno, infatti, è agognato dal poeta perché allenta la sua tensione emotiva con
quella che egli stesso definisce “inconsapevolezza”.
La Farfalla si identifica con l’io poetico, ma, a differenza del soggetto, sembra avere
la volontà di opporsi al suo destino (Non vuol morire!).
Con la crescita dell’insetto si ha come una riduzione del soggetto in senso
banalizzante aiutata dalla definizione del poeta come “questa cosa vivente/detta
guidogozzano”.
Il gioco, che prima era verbale, adesso entra nella sfera filosofica creando un rapporto
tra vita/gioco e vita/finzione.
Come vedremo la tipologia della filastrocca condiziona tutte le liriche della raccolta.
Gozzano – Nemesi
In questa poesia si nota l’importanza del riso che con la sua forza è l’unica cosa che il
saggio sa opporre all’inesorabile gioco del tempo e il cui spazio è la zona dove
rinasce il legame tra le cose che sono incompatibili.
Assistiamo allo scontro tra il mondo materialistico (che ci sembra persino “troppo”
salutare) e quello un po’ artificioso dei libri dei poeti.
Anche qui abbiamo la finzione che si modella sull’esempio dei Canti popolari greci
del Tommaseo e su quello dei Canti popolari del Piemonte del Nigra.
Sembra di sentire strofe di bambini destinate a essere tramandate oralmente perché
l’archetipo popolare aiuta la fuga del poeta nell’immaginazione.
Il momento di rottura avviene con la realtà della morte che spezza la cantilena con
una nota stridula anche se essa stessa utilizza una maschera fittizia e il poeta che vi si
trova di fronte continua a giocare esorcizzandola con il ritornello del “lasciatemi
sognare”.
Il poeta è come un bambino che fabbrica castelli in aria e nello stesso tempo si
vergogna di averli fatti, ma attraverso il rifugio compensatorio che trova nella
scrittura, riesce a isolare la realtà rinchiudendola nello spazio chiuso e nel tempo
fermo di una stampa, una fotografia o un intero libro, come La via del rifugio, che si
racchiude tutto nello spazio tra un incipit e un finale ben definito.
Gozzano – L’Amica di Nonna Speranza
In questo testo poetico abbiamo la ricostruzione di un’atmosfera fittizia attraverso
l’espediente della fotografia dell’album di famiglia la cui dedica costituisce l’epigrafe
del testo: “…alla sua Speranza la sua Carlotta… 28 giugno 1850”.
Abbiamo una forte frattura fra interno ed esterno con un’evocazione del passato
giocata sulla finzione dove l’interno con le sue mille caratteristiche prende il
sopravvento.
Nel gioco tra vero e falso, la deformazione è data dalla compressione delle immagini
nello spazio stretto di una fotografia che fissa su un cartoncino persone, oggetti e
paesaggi e gli fa subire un appiattimento che li rende uguali proprio come l’elenco
dei soprammobili del salotto o le musiche suonate al piano da Speranza.
Le piccolezze vengono così passate come in un obiettivo che ingrandisce a caso i vari
elementi mettendoli a fuoco uno alla volta e facendoci percepire il passato non come
classificazione storica, ma come collezionismo.
La fotografia riproduce ciò che era effettivamente vero perché era stato, ma che non è
più vero perché non è più; un po’ come nelle suppellettili rimaste di un mondo che
più non esiste.
Come parodia dell’Amica di Nonna Speranza è stato poi scritto l’Esperimento.
Gozzano – Responso
Nel Responso, ancor più della figura di Marta, la donna con poteri divinatori,
acquistano importanza i dettagli esaltati dal silenzio.
Mentre lei legge nel libro la Verità oscura, il silenzio la circonda e obbliga il suo
interlocutore a lasciar andare l’onda dei pensieri.
La domanda del poeta (e del soggetto) qui non trova risposta dalla divinazione; egli,
trasportato nel susseguirsi dei suoi pensieri, sposta l’attenzione sul tagliacarte che,
ingigantito dalla sua mente, assume il valore di pugnale che rappresenta l’arma di un
possibile suicidio.
L’oggetto marginale viene ora messo a fuoco e investito di nuove domande a cui solo
il lettore può trovare risposta.
Gozzano – Le due strade
Dal punto di vista metrico la forma usata sono doppi settenari a rima interna (14
sillabe).
Le strade di questa lirica sono due perché si ipotizza l’esistenza di due cammini
incrociati di cui il lettore si renderà conto perché gli corrispondono due percorsi di
vita differenti: quello di Graziella adolescente che ancora deve salire il pendio della
vita e quello della donna matura “da troppo tempo bella” che ha ormai di fronte a sé
solo la discesa del declino.
L’incrocio di queste due donne permette, oltre che un confronto tra esse, anche un
confronto con le età della vita.
La lirica si apre con la descrizione della strada alpestre in discesa verso la valle sulla
cui sommità sta Graziella, la ciclista diciottenne.
In “Erano folti intorno gli abeti nell’assalto/dei greppi” abbiamo una concitata
sequenza visiva che con “i gran tinniti e mugli” e con “il ritmo dei torrenti” si fa
uditiva e culmina con percezioni olfattive nella descrizione finale degli aromi (“di
resina?/di timo?”).
Per quel che riguarda il ritmo, la rapidità dell’apparizione di Graziella con il suo
mezzo moderno e veloce viene, per contro, bloccata dall’incontro e dalla sosta con
l’altro personaggio femminile.
Entrambi i personaggi femminili, come vedremo in seguito, sono descritti
minuziosamente sia nell’abbigliamento che nelle caratteristiche che li rendono
particolari.
Gozzano - Un rimorso
Nell’incipit abbiamo un accumulo visivo dove si delineano subito i due personaggi:
l’io lirico e una figura femminile definita solo in maniera indiretta attraverso la
somiglianza ad una “piccola attrice famosa”.
La donna è trattata da “povera cosa” non solo dalle stesse parole del poeta ma dagli
aggettivi che ne fornisce: “il labbro contratto”e “il cuore disfatto”.
Il ricordo è messo al passato remoto per sbiadirlo e renderne i contorni sempre più
incerti con l’aiuto dei puntini di sospensione.
Lo spazio e il tempo invece sono certi (Palazzo Madama – e la sera) ma l’atmosfera è
sospesa e il colloquio ha una funzione patetica.
Anche qui il personaggio femminile è abilmente descritto con la sua “veletta”, il “bel
manicotto” e il “noto profumo disfatto”.
Gozzano - Conclusione de La via del rifugio
Il libro si apre e si chiude con una lirica che riprende il titolo dell’intera raccolta e
costituisce un racconto che incornicia le liriche sulla base del colloquio. Un colloquio
che serve a giustificare lo sdoppiamento dell’io lirico che nell’incipit si duplica in
“fratello muto” protagonista dei Colloqui.
Il bisogno della duplicazione nasce da una crisi di identità che è la malattia
esistenziale del poeta. Si tratta di ideare un altro sé senza rinunciare completamente al
proprio in quanto il poeta vive guardando vivere il suo alter-ego che ne riproduce la
storia.
Il poeta diventa, quindi, ora l’amante Paolo, ora l’avvocato di Felicita, ora il piccolo
di Cocotte, ora Totò Merùmeni, ora l’entomologo, il convalescente o il sopravvissuto.
I suoi doppi sono tutti, come lui, intaccati dalla tabe letteraria che da ora
connotazione di malattia, ora di nevrosi, ora d’incompiutezza e si moltiplicano perché
si moltiplicano in lui i conflitti interiori.
I Colloqui
“I Colloqui” sono una raccolta con un titolo che è caratteristico della narrativa più
che della poesia poiché si parla di colloqui quando si pensa a conversazioni.
Questo è un aspetto che, come abbiamo già accennato, travalica le differenze tra i
generi nell’elemento scritto tipico dell'epoca.
Egli scrive, infatti, dei veri e propri poemetti e Pasolini lo definisce come “fine
narratore in versi” poiché cerca di portare (anche se alcune volte in modo fittizio) la
narrazione in versi.
“I Colloqui” sono una raccolta divisa in tre sezioni.
Il soggetto poetico parla di sé come un sentimentale che deve ogni volta riscontrare la
distanza tra la poesia e la dura realtà.
Si hanno immagini di ripiegamento e sconfitta, prevalgono gli interni domestici e le
seduzioni goffe e mancate. La passione amorosa non ha nulla di nobile ma tende al
patetico e si vagheggia di una tranquilla e spenta esistenza borghese.
La scrittura rimane dunque una mera consolazione privata.
Gozzano si fa intervistare e prepara tutta una fitta pubblicità sui giornali prima di far
uscire la raccolta che definisce come un riflesso del suo dramma interiore.
Le poesie sono indipendenti ma legate da un sottile filo critico.
E’ una raccolta divisa in tre parti di cui la prima è il “giovenile errore” che si rifà alle
parole di Petrarca con questo titolo e il termine “errore” che viene da errare si può
intendere come camminare, ma in questo caso è più inteso come perdere la retta via e
quindi come sbaglio.
La seconda parte si chiama “alle soglie” (la parte centrale in cui si concentrano tutti i
poemetti) e la terza “il reduce” cioè la persona che da saggio si rassegna alla vita
sorridendo in quanto reduce dall’amore e dalla morte.
Nelle due poesie “Le due strade” e “L'Amica di nonna Speranza” vuole dare al lettore
il senso della continuità tra una storia e l'altra e tra una raccolta e l'altra: infatti, erano
presenti sia nella prima raccolta (“La via del rifugio”) sia nella seconda (“I
Colloqui”).
Pasolini ci fece notare che le poesie di Gozzano non sono indipendenti bensì legate
da un sottile filo ciclico (non cronologico) e scandite da tre sezioni. E' come una sorta
di “romanzo di formazione” scritto in versi.
Gozzano decreta con quest’opera la propria incapacità di amare le donne che sono
protagoniste delle sue poesie poiché afflitto dalla malattia che lui stesso definisce
“aridità sentimentale”. E' il poeta del desiderio inappagato.
Egli è, inoltre, afflitto dalla “tabe letteraria” cioè una sorta d’intossicazione letteraria
(di tipo quasi dannunziano) che lo porta a provare desiderio solo per una donna
ignorante che non sa (come nell'”Albo dell'officina”) "... che la terra è tonda.
Efelidi". La donna che forse ha veramente amato è Torino, la città donna.
L’assenza
Nella prima stesura la poesia aveva due strofe in più che vennero tagliate e in cui si
capiva forse troppo bene che l'assenza era quella della madre.
Già nella prima strofa si ha un effetto di dissolvenza cinematografica e dal punto di
vista metrico abbiamo versi novenari tutti di quartine con rime alternate.
Usa una sintassi nominale cioè senza verbo e il novenario iniziale non si riconosce
bene perché frantumato in tre parti.
Usa anche la metafora di un interno (“corridoio”) in un ambiente esterno per far
percepire l'angustia del passaggio e perché sempre più la poesia del Novecento si
svolge in luoghi chiusi dove si consumano, come nelle "stanze" di Gozzano, le
angosce individuali.
L'effetto visivo è prevalente e il ritmo concorre ad accentuarlo. Questo ritmo è dato
dagli accenti che cadono tutti nella seconda, quinta e ottava sillaba e creano una sorta
di ritornello accentuato anche dal "ri" crea l'effetto di un ritorno nel cuore.
Il termine “vestigio” è una parola aulica per indicare ogni sottile traccia di lei.
Con la terza strofa il poeta usa un effetto di lentezza per descrivere i suoi gesti che
sono i gesti del ricordo legati a un'attività cerebrale ed usa anche una sintassi
paratattica cioè in cui non ci sono frasi subordinate ma solo coordinate (cioè da
principali).
La sintassi è di cinque frasi e la lentezza che il poeta vuole esprimere si accompagna
con la sua sfasatura rispetto al metro, infatti la pausa sintattica non coincide con la
pausa metrica (enjambement).
Il poeta cerca di enfatizzare il fatto della sua “non tristezza” come una forma di auto
convincimento del ritorno e sono da notare gli attacchi anaforici.
Si ha un punto di raccordo con il Carducci dell'Alcyone (in particolare con il primo
dei madrigali dell'estate in cui dice "estate non declinare") quando Gozzano scrive
"... E intorno declina l'estate... ".
Quella di Gozzano non è l'esaltazione dell'estate come si ha in D'Annunzio, ma delle
mezze stagioni che più si rifanno al crepuscolarismo.
Il termine "ali caudate" significa ali che hanno una sorta di coda e "Papilio" è il
nome scientifico di una farfalla diurna. Ecco qui che si vede bene il linguaggio
scientifico che entra in poesia come abbiamo già accennato per Pascoli e
D'Annunzio. Un Papilio non è certamente enorme ma lo è nella mente del poeta.
Ci sono nelle sue raccolte tutta una serie di dettagli legati alle farfalle che poi
troveranno unità nei poemetti successivi "Epistole etomologiche".
Il Papilio rende metafisica l'atmosfera perché le spiegazioni che ci sono dietro sono di
tipo filosofico e creano un collegamento con l'albatros (C. Baudelaire) di cui abbiamo
già parlato.
L'Ulisse che se ne va da Itaca vede l'azzurro del suo mare e allo stesso modo il ritorno
della donna è paragonato al ritorno della luna: la donna diventa mitica e si veste di
azzurro.
Questa è una poesia connotata dal silenzio proprio come il silenzio stesso è parte
integrante delle battute musicali ed elemento indispensabile allo stesso tempo.
Si ha un velocizzarsi del ritmo con la descrizione dei colori e poi di nuovo un
elemento naturale con il martin pescatore.
Gozzano usa spesso i puntini di sospensione quando vuole esprimere una dissolvenza
oppure dei dettagli di fantasticheria il cui risultato è affidato alla mente del lettore.
Riprende dall'emistichio della terza strofa dichiarando la sua non tristezza come vero
e proprio stupore.
C'è una regressione all'infanzia in questa fantasticheria.
La presenza della parola “cosa” è un uso semantico di parola povera, parola di uso
comune che è particolarmente usata dai crepuscolari.
Questo stupore determina una stranezza di chi fantastica e lo trasposta nello scenario
naturale circostante come i fiori (che, però, sono nella realtà gli stessi fiori che ha
sempre visto).
Di nuovo abbiamo i puntini di sospensione per indicare che la fantasticheria continua
e perché il percorso del poeta è interiore come è individuale per ciascuno di noi. Si
crea con i puntini un rapporto tra detto e non detto.
Questa poesia piacque tantissimo a Montale tanto che, nel suo scritto del 1950, ne
cita alcune strofe che definisce “molto liriche”. Questo saggio di Montale è
fondamentale per capire Gozzano.
La parte finale dei “Colloqui” (terza sezione) è quella in cui Gozzano costruisce un
vero e proprio autoritratto descritto sempre più “scientificamente” tanto più riesce ad
allontanare l’io narrante dal protagonista. Questo si nota bene dall’uso della terza
persona e del nome proprio Totò Merùmeni: esteta gelido, sofista scettico, “vero
figlio del tempo nostro”, che ha “inaridito le fonti prime del sentimento”.
La signorina Felicita ovvero della felicità
Nel titolo si gioca sul rapporto tra due parole uguali e distinte solo dall'accento.
Felicita è una parola “sdrucciola” che si ricollega a una parola “tronca” di concetto
astratto.
A destra c'è un’epigrafe con data e luogo.
Il poemetto è diviso in otto capitoli lirici e somiglia a un romanzetto ma è in versi e
viene pubblicato con il sottotitolo “Idillio” nel 1909 avendo come tema l'amore del
protagonista.
Gioca molto sulla parola “signorina”, figura oppressa e derisa, come spiega
direttamente, legandola in connotazione assolutamente negativa e ironica, alla
modernità.
Il poemetto è scritto in sestine di endecasillabi. L'endecasillabo è il metro classico per
eccellenza in Italia ma la sestina è una strofa di tipo narrativo che si rifà invece
all'ottava tipica dei poemi cavallereschi.
Qui si vede bene l'unione tra metro e sintassi differenti.
L'inizio è un'apostrofe a questa donna nel giorno del suo compleanno di cui l'io lirico
narra l'amore. La trama narra della nascita di un amore tra un avvocato, in vacanza in
un paese di provincia fuori Torino, con una donna semplice e, se vogliamo, ignorante
e provinciale molto diversa dai modelli di donna raffinata alla “dannunziana
maniera”.
Parte I
Alla fine della prima strofa c'è quasi una citazione di Carducci ( il “dolce paese” in
"Traversando la Maremma toscana"). In questo caso le citazioni si abbassano di
livello rispetto a quelle auliche per rovesciare, con lo shock tra aulico e prosaico, la
poesia che lo caratterizza.
Montale dice che Gozzano fondò la sua poesia sull'uso di una materia povera adatta
ai soli toni minori con una sostanza ricca e con una gabbia metrica ancora classica.
Con il gesto di tostare il caffè si ha un richiamo al senso dell'olfatto nonché a gesti
semplici (cucire, cantare).
Con la signorina Felicita Gozzano aveva una storia d'amore solo fittizia e costruita
dai tasselli letterari.
I due si ritrovano a Villa Amarena e scoprono nella soffitta il quadro della “marchesa
dannata”: un'antenata molto sinistra che ha abitato la Villa e di cui rimane il ricordo
che crea subito un’atmosfera tetra.
Nelle strofe seguenti "Bell'edificio" abbiamo una sintassi nominale (senza verbi) con
l’uso del silenzio che conferisce l'idea della desolazione perché le stanze non sono
più abitate e la casa è decadente.
Si sente un odore (di nuovo senso dell’olfatto) d'ombra (una metafora) e si descrive
una casa in rovina attraverso una serie di personaggi mitici con una concitazione
ritmica dovuta alla mancanza di verbi.
Il mito è defunzionalizzato e perde nel Novecento la sua caratteristica; si parla di
oggetti che non hanno più una funzione ed è da questo che viene la malinconia (la
“bella Otero” è un'attrice di fine Ottocento).
Il mito antico viene opposto al mito moderno della signorina che rammenda lenzuoli
presi da armadi iperbolicamente immensi.
Attraverso l'insistenza nella ripetizione della parola “semplice” si enfatizza la vita di
questa donna ignorante.
Nel secondo capitolo lirico si descrive, invece, un interno ed è da notare l'uso
estraniato del discorso diretto "Quel tuo buon padre... ".
Parte III
Lo scenario in cui va collocata la storia è il canavese (siamo vicini a Torino), e in
questa parte è fondamentale notare la forte dialogicità che assume anche una
dimensione teatrale.
E' una poesia che tende all'oralità e in cui si ha un intreccio di voci, una presenza
forte di discorso diretto che determina conseguenze di tipo formale perché disarticola
la sintassi, crea una sorta di plurilinguismo in cui ciascuna voce ha un suo modo di
esprimersi.
Si crea, cosa molto moderna, una commistione di generi artistici in cui la forma lirica
si svuota dall'interno.
Dal punto di vista metrico si tratta di versi regolari (endecasillabi della tradizione;
sestine di endecasillabi che avrebbe potuto usare anche D’Annunzio); forme chiuse di
cui Gozzano fa sentire tutto il vuoto e tutta l'inadeguatezza: come una gabbia metrica
dentro cui si muovono le voci e dove il ritmo dell'endecasillabo è frantumato e si
perde con le voci stesse.
La tradizione si mette in discussione abbinando rime di parole auliche e prosaiche
insieme ad una forte carica d’ironia dissacratoria e si crea una sorta di collage di
pezzi ripresi dai poeti tradizionali a cominciare dal Duecento (Dante) ottenendo come
risultato una parodia.
Il punto focale è quello della rima (“ceste” con “giardini d'Este”, ecc.).
Il mito in lui diventa una sorta di arredo come le "buone cose di pessimo gusto" e i
frammenti hanno una loro cantabilità che fa pensare ai recitativi del melodramma.
Gli interni sono caratterizzati dalla prevalenza di sensi fisici come l'olfatto o la
sensazione visiva.
Il brutto entra in poesia e lo si enfatizza dandogli anche una connotazione positiva e
amabile come in “ priva di lusinga” che significa priva di arte della seduzione (detto
in tono ironico che riesce, se vogliamo, ad enfatizzare ancora di più la sua non
avvenenza).
Le sue vesti sono “quasi campagnole” perché è una piccola borghese e non una
contadina.
Il “ma” è una parola che si ripete e serve come ad attenuare i "quasi", tuttavia il “ma”
all’inizio di frase è un attacco anaforico (l'anafora è una figura retorica che consiste
nella ripetizione di una parola a inizio di frase per evidenziarne il concetto).
Il termine “trecciuole” è un diminutivo aulico.
Egli cita i fiamminghi perché con loro, per la prima volta, entra nella pittura il brutto.
Brutto come gli “occhi fermi” che sono occhi senza espressione cioè occhi di chi non
è tanto vispo e intelligente, mentre le iridi sono azzurre, ma di un azzurro che ricorda
le stoviglie quindi un colore dispregiativo.
La rima “vermiglia – ciglia” è una rima del trentaquattresimo canto dell'Inferno di
Dante. C'è prevalenza del colore (significato) ma anche presenza della parte fonico -
timbrica della parola (significante) e lo stile è epistolare con questa apostrofe al
personaggio femminile.
L’amore è circondato di silenzio del “tu m'hai amato” e il “Voler piacermi” è una
clausola dantesca di una donna del canto ottavo del Paradiso che parla del voler
piacere (è quindi un emistichio).
La rima “volta – volta” risulta equivoca perché le due parole non hanno lo stesso
significato (la prima è “volta” per intendere casa, la seconda invece proprio con il
concetto di volta).
In seguito parla di “cena d'altri tempi” in maniera anacronistica cioè ricordando il
passato perché, per il poeta, l'atmosfera diventa dominabile solo anacronisticamente,
se va un poco indietro nel tempo.
Maddalena è la serva e l’aggettivo “decrepita” è un aggettivo iperbolico (cioè che
ingrandisce le caratteristiche) e ironico.
Notare il polisindeto dei dettagli accumulati, come in un film, per rendere parodica la
situazione.
Il personaggio maschile è molto diverso dai personaggi importanti del resto della
casa: è un trasognato giocatore (cioè uno che gioca con i suoi sogni). I signori,
dunque, lo tengono in disprezzo ma lui preferisce starsene in cucina a godere il
silenzio e i profumi delle erbe.
Il ritmo delle stoviglie gli serve per cadenzare i versi (per lui, infatti, si è detto che il
ritmo degli accenti è fondamentale); si dice che egli svuoti con questa cantilena la
gabbia metrica dall’interno perché ripetendosi, nega la mobilità ritmica
dell'endecasillabo come in un refrain.
Il poeta si definisce poeta - cuoco, idea assai trasgressiva che ce lo fa immaginare a
cucinare rime come un sognatore.
Parte IV
L'io narrante e la “consorte ignorante” si ritrovano nella soffitta dove avviene la
dichiarazione d'amore.
Soffitta che è anche luogo dove si accumulano gli oggetti liberati finalmente dalla
loro funzione.
Il rifiuto secolare è quello che oggi chiameremmo “trash” ed è caratteristico
dell'accumulo di oggetti non funzionali.
Per prima viene fuori la Marchesa (che era stata la padrona di quella casa molti anni
fa).
Il rottame è ciò che non serve più ed è rovinato dal tempo e la Marchesa stessa fa
parte di questi rottami.
Tutti gli oggetti di questa poesia sono rottami come lo è l'io lirico che trasferisce
questa sua condizione fino in fondo negli oggetti in cui la percepisce.
“Egregie” ha una funzione ironica.
La “consorte ignorante” confonde il ramo d'alloro con cui si incoronava Torquato con
un ramo di ciliegie.
La Gloria è importante e scritta, non per nulla, con la lettera maiuscola perché
“gloria poetica” è un concetto astratto personificato che ha, comunque, una
connotazione ironica ben precisa.
Abbiamo un’esaltazione del kitsch con un rovesciamento dei canoni della bellezza
classica.
Qual è un altro aspetto moderno di Gozzano? La visione dell’esterno in versione
deformata perché vista dall’interno. L’io guarda fuori, ma lo fa dall'abbaino, dove il
vetro deforma il panorama. Non c'è una visione oggettiva del fuori; il poeta non ha
una presa diretta della realtà ma ha una sua visione deformata e per dominarla deve
circoscriverla.
Nello scenario esterno c’è qualcosa di artificioso come "non vero" e il termine "non
bello" tra parentesi è la voce dell’io narrante che in teatro si chiamerebbe didascalia.
Per l'uomo del Novecento non esiste più una realtà oggettiva (tutto è collegato
all'interpretazione del soggetto).
I “colli dilettosi” sono i colli sopra Torino che ricordano il “dilettoso monte” dantesco
del Purgatorio.
Ci si avvia alla marionettizzazione del personaggio che diventa il clown di se stesso e
poi in seguito l'automa, in una dimensione di alienazione, di perdita dell'anima con
"quei cosi con due gambe".
Parte VI
L’amore e la morte sono due concetti romantici e la fede letteraria è quella da cui ci si
vuole liberare: il poeta rinnega se stesso e si vergogna della sua vita che non ha un
significato a confronto di quella del mercante.
“Seconda classe” è un enjambement che vuole evidenziare l'ignoranza.
Nietzsche viene citato poiché era il filosofo del momento, quello che ha costruito un
tipo di figura di intellettuale di persona che crede fortemente in se stessa.
“Gemebonda” ha una funzione ironica e significa che geme lamentandosi in maniera
quasi melodrammatica.
"In noi" è una sfasatura tra metrica e verso.
La conclusione è una sorte di aforisma in cui il poeta nega se stesso e i suoi ruoli ("io
non voglio più essere io") e dove la perplessità crepuscolare (Vittorio Fedeli che si
laureò a Milano su Gozzano amava questo) è l'insicurezza: come una luce interiore
dal bagliore incerto.
Gozzano – Invernale
Una donna sportiva come Graziella la ciclista, ma molto coraggiosa e volitiva è la
protagonista senza nome della poesia "Invernale".
Il termine “Invernale” non è riferito solo a una stagione ma anche a uno stato
d'animo.
E’ importante notare che questa è una poesia con enormi riferimenti a Dante.
Questa donna pattina in un lago ghiacciato (che sarebbe il lago del parco del
Valentino a Torino) dove, al rompersi del ghiaccio, la brigata fugge così come fugge
l'io lirico (cioè la figura maschile) per paura.
La solitudine di questa donna è, però, legata al suo coraggio e alla sua temerarietà
rispetto all'io lirico che invece è un inetto.
Altro elemento naturalistico che troviamo è la procellaria: un uccello che vola nel
mare in tempesta (di qui il raffronto con il coraggio della donna).
Si ha un’accumulazione asindetica in "bella, ardita, palpitante", cioè un accumulo di
aggettivi.
E’ importante notare con che soddisfazione la donna conclude la poesia con "Vile!"
che, per il poeta, è effettivamente il modello maschile dell'inizio del Novecento.
Si può raffrontare alla tuffatrice di Montale (Esterina) in Ossi di Seppia. Lei viene
afferrata ma accanto a lei c'è anche la "razza di chi rimane a terra", cioè dei vili.
Sorge spontaneo fare il paragone con un'altra donna sportiva cantata da Umberto
Saba il cui modello è sempre la pattinatrice di Gozzano e che è la "Campionessa di
nuoto", che Saba scrive nel 1943, e che fa parte della raccolta "Ultime cose" (cioè gli
ultimi versi di Saba prima del silenzio della persecuzione razziale).
Le donne in Gozzano, Montale e Saba
Come abbiamo già visto Gozzano cura molto il look delle sue donne che descrive
accuratamente anche nell’abito:"le gonnelle corte"," il solino dritto" (dove solino è il
collo della camicia maschile), “la cravatta”," il tocco da fantino". La donna di “Un
rimorso”, invece, è descritta con una “veletta” e l’immancabile “noto profumo” che
risulta però ormai “disfatto”.
La donna in Gozzano è sempre silenziosa e non da risposte: lui sente il pianto della
signorina Felicita senza avere una precisa risposta proprio come non trova risposta
alla domanda che pone alla veggente.
E ’un dissoluto perché non riconosce ne' l'amore delle donne (dongiovannismo)
ne’l'amore di Dio (e per questo si considera ateo), anzi egli gioca con queste donne il
gioco letterario di chi non sa amare e vorrebbe, ma nello stesso tempo carica questa
condizione di una qualche sofferta partecipazione emotiva.
Secondo i critici la donna “Risorta” ha dietro il personaggio di Amalia Guglielminetti
(la più importante delle donne di Gozzano nonché portatrice di desiderio e forza),
mentre Carlotta, l’amica di nonna Speranza, immortalandosi in fotografia si trasforma
in uno dei tanti oggetti di collezionismo che si aggiungono nel salotto.
Pasolini scrive un articolo in cui paragona Gozzano a Kafka in quanto due artisti
entrambi con un pessimo rapporto con le donne.
La casistica delle donne gozzaniane si conclude con Cocotte, la tipologia della cattiva
signorina che rappresenta l’esatto contrario di Felicita di Villa Amarena. Esse tuttavia
hanno in comune la maniera di entrare nel racconto da una memoria biografica (la
fanciullezza e la prima maturità) attraverso la tecnica del ricordo. Entrambe si
collocano in un parco ben delimitato (da cocci di vetro una e da una cancellata di
ferro l’altra) e possiamo, quindi, affermare che entrambe sono chiuse in precisi spazi
e tempi.
Gozzano – “Torino”
Torino è l'ultima donna di Gozzano, nonché quella che lui ha veramente amato (un
po' come Saba con Trieste) ed è una poesia in sestine di endecasillabi con rime di
schema vario (e quindi sempre sotto forma narrativa, divisa in quattro capitoli lirici).
Vi sono inserti di dialetto torinese per rendere il linguaggio parlato nella forma più
verosimile possibile. Il dialetto comunque è solo nel discorso diretto ed è scritto in
corsivo.
Ricorda i tempi del buon re Carlo Alberto (re del Regno di Sardegna fino alla prima
guerra d’indipendenza) e quindi da anche una collocazione storica alla poesia.
Il dialetto ha una funzione di straniamento cioè una funzione nuova, tutta
novecentesca, in cui si vuole creare una realtà allontanata e grottesca; caratteristica
usata del resto anche nel cinema.
Comincia con la descrizione del ricordo ("quante volte...") che è legato al sogno e alle
fantasie del poeta.
Si usa di nuovo un attacco anaforico che unisce le due prime strofe e con tre aggettivi
con i quali il poeta rende subito l'atmosfera ("beoti assai, pettegoli, bigotti..").
Cita la grande attrice Eleonora Duse che interpretava le tragedie di D'Annunzio e poi
dice in maniera ironica "Ma io al teatro ci vado per divertirmi!".
Il poeta continua a essere assente e a non identificarsi con i personaggi e, in un certo
senso, questa è la sua salvezza, la sua "Via del rifugio".
La "tristezza di una stampa antica" crea un'atmosfera di amarezza anche perché
passata e trascorsa e si ricollega a Giacomo Leopardi fanciullo perché fa parte della
sua cultura: possiamo trovare nella poesia un rifarsi all'inizio delle "Ricordanze".
“L'ora antica” ci da bene l’idea di un tempo anacronistico che però è anche un tempo
autentico con l'"ora vera".
Nella terza sezione c'è la definizione di Torino quasi come una donna un po'
vecchiotta, provinciale e tuttavia fresca come una piccola Parigi.
Torino è come una fantesca (rima prosaica con fresca e fanciullesca).
Del resto Saba definisce Trieste "che ha una scontrosa grazia come un ragazzaccio
aspro e vorace...".
Le Farfalle
Le farfalle per Gozzano saranno uno studio - labirinto in cui si isolerà per chiudersi al
resto del mondo.
Come opera, non arrivò mai ad esistere perché non la pubblicò (si dice che egli non
sapesse parlare del suo lavoro senza mentire e che in alcune lettere avesse parlato di
una loro imminente pubblicazione mai avvenuta).
Ha una storia editoriale molto complessa ed è estremamente moderna; all’interno di
essa il poeta si rapporta spesso a Dante e lo fa con inquietudine: abbiamo una
scenografia sempre in ambienti chiusi e la farfalla nella natura è difficilissima da
trovare nella sua opera.
Tipico di questo periodo è anche il rapporto tra poesia e scienza che mette a
fuoco proprio la figura del Gozzano entomologo e “cattivo” che, nel suo
laboratorio, mentre classifica le farfalle, le uccide pungendole sul dorso e ne crea
stampe naturali.
Qui non c’è più l’ironia, ma si ha un’atmosfera di tipo metafisico, l’unica che ci
aiuta a capire il rapporto tra morte necessaria e vita: rapporto a cui la scienza
dovrebbe trovare una risposta.
Egli fa una classificazione tra farfalle notturne e diurne e ne sente il lamento
della morte che come un archetipo paragona al lamento delle anime che
aspettano di essere traghettate nell’Inferno.
L’altro archetipo che usa è quello mitico di Ulisse, che non è più un eroe
vittorioso, ma un uomo che naufraga e affronta la sua morte. Il naufragio lo
inghiotte come fa con le farfalle uccise dall’io che, in questo modo, può
classificare e rendere inermi e inette (perché non hanno un vero motivo di
esistere). Ulisse diventa, quindi, un anti eroe come la maggioranza dei
personaggi protagonisti dei romanzi del Novecento.
Il modello di questo componimento si rifà ai poemi didattici settecenteschi
(specialmente a quelli del letterato e matematico Mascheroni della fine del
Settecento), ma, in realtà, è molto moderno perché tratta della storia delle farfalle
diurne e soprattutto di quelle notturne.
Cosa c'è di caratteristico nelle farfalle? Che sono esseri effimeri e lui è attratto dalla
trasformazione del bruco in farfalla e dal metodo con cui si sviluppa: la farfalla,
infatti, affronta questo passaggio in un solo giorno. Il bruco muore e rinasce farfalla
in un giorno: questa è una specie di metafora di un modo per esorcizzare la morte ed
enfatizzare la ciclicità della natura.
Influenza del melodramma su Gozzano e sui poeti contemporanei
L'inquietudine e la modernità di rapporto con i nuovi modelli in Gozzano si trova
anche con il melodramma e in particolare con i recitativi, la parte a cui più si ispira,
mentre, invece, Montale, che pure aveva uno stretto rapporto con il melodramma,
prediligeva la parte cantabile, in particolare quella di Puccini.
L'apocope è una figura in cui cade l'ultima vocale di una parola (ad esempio “cor”
invece di “core”) che crea un effetto cantilenante da refrain ed è usatissimo nei
libretti d’opera lirica.
Nelle “Lettere a Milena” di Kafka, l’autore scrive che noi ridiamo sempre degli eroi
del melodramma perché quando il personaggio è in punto di morte canta la propria
sorte, ma non dovremmo farlo perché anche noi, tutta la vita, non facciamo che
giacere cantando.
Gozzano pensa, come lo stesso Palazzeschi, che bisogna sottrarsi al ridicolo auto -
prendendosi in giro e facendo fingere il protagonista delle proprie storie di essere un
sentimentale che nello stesso tempo sa di fingere e ride del sentimentalismo.
Questo concetto lo ritroveremo anche in Caproni in cui il rapporto con il
melodramma è fortemente ironico e verrà svuotato del suo significato.
La lingua del melodramma in Gozzano affiora in due modi: da una parte c’è il
personaggio maschile che si finge il giovane romantico, ironico e disincantato,
dall'altra c'è il personaggio femminile che parla il linguaggio del melodramma stesso
ma in maniera spontanea.
Il personaggio si trova sempre a un bivio fra felicità e infelicità (che nell'opera lirica
sono rappresentate dal tenore e dal baritono), tra slancio amoroso e cinismo. Questo è
legato alla ricerca spasmodica dell'identità tipica del periodo novecentesco.
Sintetizzando potremmo dire che per Gozzano il melodramma è un’eco scoperta
e la sua poesia è come un refrain dove prevale il recitativo sulle arie, mentre per
Caproni è un’eco stravolta che parla di smarrimento e narra lo spaesamento
dell’io lirico che trova sé stesso nella vita.
Gozzano e le differenze tra Crepuscolarismo e Futurismo
Con Gozzano la poesia si apre a nuovi orizzonti ma il poeta non si esaurisce tutto nel
Crepuscolarismo.
Il Crepuscolarismo si colloca come corrente poetica dal 1900 al 1914 e non è una
vera e propria scuola.
In questo periodo ci sono una serie di poeti, infatti, che danno origine a due nuclei
legati ad altrettante città: la Roma di Corazzini e la Torino di Gozzano.
Il termine “crepuscolare” è un aggettivo riferibile sia all’alba che al tramonto e quindi
può essere visto in maniera positiva o negativa.
Borgese da un indirizzo negativo del Crepuscolarismo e lo intende come tramonto,
cioè come declino, come “piccolo fiore a quattro petali dal profumo debole”.
Il Crepuscolarismo non è un'avanguardia come il Futurismo e non ha un organo di
diffusione importante come la rivista Lacerba (anche se ci sono alcune riviste sul
Crepuscolarismo ma non così importanti).
Sia Crepuscolarismo che Futurismo sembrano derivare da uno sviluppo delle correnti
di Pascoli e D'Annunzio.
Cosa le accomuna? Il volersi distaccare dalle realtà precedenti e il mettere in crisi il
poeta.
I crepuscolari non credono più nel sublime se non nella sua dimensione rovesciata
con un tono più dimesso e un linguaggio più aperto al colloquiale. Questo però
avviene anche facendo riferimento alla tradizione dei poeti che li hanno preceduti
(come De Amicis) nelle cui poesie ci sono argomenti nuovi come la noia, la malattia,
gli ospedali.
Cambia, nel Crepuscolarismo, il linguaggio che viene preso dal parlato quotidiano; la
tendenza è più al dialogo che al monologo.
Montale, parlando di Gozzano, dice che egli attraversa i maestri precedenti per creare
una sua poetica (e i maestri a cui fa riferimento sono essenzialmente Pascoli e
D'Annunzio). Il D'Annunzio del poema paradisiaco, con i suoi dialoghi sommessi,
tuttavia influenza molto i crepuscolari.
Il Crepuscolarismo è un retroterra indispensabile per capire Gozzano anche se la
critica riconosce che Gozzano è comunque un poeta indipendente. Lo differenzia
l'ironia, usata in modo consapevole, e poi il fatto che usa sia una materia povera che
forme classiche insieme (gioca quindi sullo shock di aulico e prosaico).
Soffici e il futurismo
Un autore d’avanguardia molto vicino a Gozzano e di area fiorentina (nasce a
Rignano sull'Arno nel 1879 e muore a Vittoria Apuana nel 1964) è Ardengo Soffici.
Egli, prima di tutto, è un pittore e poi anche un poeta e si colloca in quella scia legata
al rapporto strettissimo che c'è nell'avanguardia tra parola e immagine.
Avevamo già parlato di poesia visiva in cui prevale il significante che coopera con il
significato e questo espediente lo troviamo molto chiaramente in Soffici che usa
accorgimenti tipografici mirati per cui è necessario usufruire di più codici, non solo
quindi le sillabe, ma anche i numeri nel loro aspetto visivo, gli effetti di colori, il
ritmo, l'accelerazione o la decelerazione (sul piano della scansione temporale
ricordiamo il cinema).
Queste caratteristiche insieme fanno sì che esista, al di là delle varie arti, l'esistenza di
un'arte totale che tutte le compenetra e tutte le sintetizza. Le arti singole che si
compenetrano sono la musica, la pittura, la poesia, la danza, il cinema.
La ricorsività ( che è il ritorno di un ritmo, tipico è il ritornello) si ha sia nella
memoria che nei gesti e crea un'illusione che ritroviamo anche nella circolarità della
natura e delle stagioni. Questo cerchio che sembra chiudersi sempre talvolta non lo fa
poiché il tempo dell'uomo è lineare e non circolare.
Soffici, come già Gozzano, ha una dimensione visiva della poesia, ma fa parte del
futurismo fiorentino che si distingue da quello milanese e che si sviluppa, invece, con
il Manifesto di Marinetti che esce l’1 febbraio del 1909.
Poco dopo, il Manifesto "Uccidiamo il chiaro di luna" esce in Italia non come
traduzione ma come approfondimento (prima uscì in Francia per potergli dare un
carattere più cosmopolita).
Cosa significa uccidere il chiaro di luna? Significa uccidere il romanticismo, le
istituzioni classiche, il tempo e lo spazio.
Il terzo manifesto futurista è quello del maggio 1912 e si chiama “Manifesto tecnico
della cultura futurista”.
Nel quarto Manifesto, uscito un anno dopo, si dichiarerà l’importanza di tre fattori: la
distruzione della sintassi, l’immaginazione senza fini, le parole in libertà.
Non si ha più, quindi, una logica di tipo deduttivo, bisogna seguire solo i percorsi
dell'immaginazione e della fantasticheria.
Il sogno predomina: si ha solo la logica del sogno, la grammatica del sogno e la
sintassi del sogno che sono libera associazione di immagini.
Queste forme vengono sperimentate anche nella poesia di inizio Novecento e sono
legate all' “Interpretazione dei sogni” di Freud che esce proprio in quel periodo.
Si usa la tecnica dell'analogia e delle connessioni senza fili: le parole in libertà non
sono connesse tra loro, vivono da sole e sono sospese in aria, senza punteggiatura,
circondate di silenzio e spazi bianchi, sillabate in sordina.
Parole che valgono per il loro suono che si dilata come cerchi nell'acqua.
Il poeta è il sacerdote che tiene in sé le fila di questa misteriosa e segreta tecnica; per
questo è necessaria una struttura metrica diversa che insegua i suoni anche al di là del
senso.
Le fantasticherie, infatti, hanno bisogno di suoni per evocare delle immagini, così
come hanno bisogno di colori, di macchie, di punti di vista che si intersecano tra loro.
I punti di vista diventano tanti e non esiste più una sola prospettiva (vedi i collage di
materiali diversi che si ha anche in poesia tramite combinazioni strane di parole che
si combinano in modo inedito).
Il verbo viene usato spesso all'infinito perché è la forma più vicina al nome; si cerca
di abolire avverbi e punteggiatura che sono il nesso logico preciso.
Tutto questo si incanala nella morte dell'io, nella sua desublimazione.
L'io in genere regola le fila della logica corrente e per questo va delegittimato.
Si ha l'esaltazione dell'antisublime ( così come viene proclamato nel quarto Manifesto
che sarà il “Teatro di varietà” dell’ 1 Ottobre del 1913 che esce nella rivista
“Lacerba”) e si stravolgono le forme di vista classiche.
Si hanno più punti di vista, più prospettive, più verità, tanto che non si possono
neppure mettere a fuoco tutte.
Nei quadri le immagini vengono dunque contorte e deviate e si sperimenta il concetto
di simultaneità che è legata alla velocità della macchina. L'esaltazione della velocità,
soprattutto dell'aeroplano è il modo con cui si può uccidere il “chiaro di luna”.
Nei modi e tempi del dinamismo (che condiziona in un secondo momento anche la
moda perché il futurismo è un movimento globale e le donne cominciano a vestire in
modo un po' più mascolino), tutte le forme d’arte poetica e narrativa sono
condizionate dal cinema, dal sonoro e dalla luce (come nei film di Chaplin) che
servono a cadenzare il ritmo e a mettere a fuoco le immagini principali e la suspense.
Un altro manifesto è di Aldo Palazzeschi è “Il Controdolore” pubblicato sempre su
Lacerba il 4 gennaio 1914.
E' il più originale di tutti e comincia con un'immagine che descrive Dio che ride e
gioca con una palla che rappresenta il mondo.
In un primo momento si intitolava “L'antidolore” ma il nome non piaceva a Marinetti
perché gli ricordava il titolo dell’opera di Apollinaire.
In questo Manifesto si esalta il riso perché tutto va metabolizzato e reso ridicolo.
Nel 1900 esce un saggio del filosofo Bergson "Le rire" (Il riso) e Pirandello pubblica
L'Umorismo.
Molti anni dopo, nel 1960 uno strutturalista russo che si chiama Bachtin affronta il
tema della “carnevalizzazione” cioè del rovesciamento carnevalesco del serio
nell'opera letteraria e in particolare in quella francese.
L’esperienza fondamentale di Soffici è quella di pittore che, anche nella poesia,
gioca con le parole creando un rapporto tra arte e vita poiché l’artista vive
talmente dentro la sua esperienza artistica da farla divenire la sua stessa
esistenza. Egli, però, giocando con le parole crea anche la forma di un artista che
si diverte in quello che fa e che, divertendosi, passa da un genere all’altro e
sperimenta nel suo piccolo le grandi scoperte della scienza e della tecnologia
moderna.
Soffici – “Simultaneità e chimismi lirici”
Nel 1915, anno dell’entrata dell’Italia all’interno del primo conflitto mondiale (di
cui egli, al contrario di Palazzeschi, era a favore), pubblica nelle edizioni della
Voce le raccolte “Simultaneità” e “Chimismi lirici” (pubblicate prima sulla rivista
“Lacerba”) e riedite poi con qualche variante nel 1919 per la casa editrice
Vallecchi di Firenze.
Nel quarto volume delle Opere vallecchiane, “Simultaneità” e “Chimismi lirici”
costituiscono la sezione “Marsia” insieme a un altro gruppo di liriche raccolte
sotto il titolo di “Intermezzo”.
Il titolo “Simultaneità” e “Chimismi lirici” può già spiegarci molto del pensiero
del poeta: simultaneità, infatti, è un concetto di tempo che si collega agli altri
concetti usati dall’artista di “ovunqueità” e “sempreità” che sono un modo di
rendere assoluto lo spazio e il tempo secondo il concetto di opera d’arte come
flusso continuo che ruota intorno a un centro, un punto focale d’espressione
dove l’ovunque si collega al sempre e dove lo spazio scivola nel tempo stesso. Un
tempo che è legato agli stati d’animo e ai sentimenti che si possono fermare in
un angolo della nostra mente attraverso la memoria e che sono formate come da
un collage di emozioni collegate tra loro in una combinazione inedita che il
lettore può fruire da molti punti di vista.
La parola “chimismi” viene dalla parola chimica. La chimica era un settore che
negli ultimi decenni si era notevolmente espanso e vi erano state numerose
scoperte e classificazioni di elementi. Come tutte le innovazioni, anche la chimica
ha influenzato pensatori e artisti del periodo e Soffici ne è rimasto tanto
impressionato da dedicargli il titolo della sua raccolta. Chimica viene da al-
chimia che nell’antichità, più che una scienza, era un insieme di rituali esoterici e
magici di combinazione di elementi con pozioni per poter leggere il destino
dell’uomo.
Perché definisce lirici i “chimismi”? Perché i chimismi sono come un collage di
immagini, colori e tecniche (come in pittura) che creano delle emozioni
esprimibili anche con le parole.
Il poeta – pittore, quindi, non gioca solo con le parole, ma anche con le sillabe, la
punteggiatura (o l’assenza di punteggiatura) e la veste tipografica.
Non dimentichiamo, infatti, che dietro a queste ideologie c’è sempre l’influenza
filosofica del Secondo e del Terzo Manifesto di Marinetti per cui il tempo e lo
spazio vanno aboliti.
La realtà si riduce a geometria che possiamo trovare nel substrato più intimo
delle immagini di cui un fruitore attento può riuscire a percepire l’essenza come
in una sorta di radiografia della realtà la cui spinta più profonda viene dalla
scienza.
Basti pensare alle varie sfaccettature geometriche del cubismo che proiettano i
vari punti di vista in molteplici realtà pluridimensionali che a loro volta creano
nella poesia molteplici prospettive e profondità.
Soffici - Arcobaleno
La poesia “Arcobaleno” fa parte della prima raccolta di “Simultaneità” nella quale
possiamo distinguere tre tipi di testi: i testi d’aria che hanno una loro leggerezza
e sono legati alla realtà del cielo e dell’universo, poi i testi d’acqua legati al suo
scorrere (come le poesie “Flussi” o “Firenze”) e, infine, i testi di terra, legati per
esempio a determinate città (“Luci di Roma” fa parte di questi testi).
La dimensione di questo tempo è alchemico cabalistica: alchemica perché legata
agli elementi chimici e cabalistica perché legata al significato numerico che, in
qualche modo, vuole individuare un destino , una storia o una vita.
In questo testo, infatti, uno dei codici è quello aritmetico dei numeri arabi e il
tipo di scrittura è una prosa lirica per cui non abbiamo gli accapo di fine verso
ma tutta una serie di fenomeni che in qualche modo li sostituiscono.
Quali sono questi fenomeni di sostituzione? Innanzi tutto ci sono delle figure
retoriche di tipo fonico, ma anche figure retoriche legate alla combinazione dei
sensi e strutturate in modo analogico (in cui si combinano cioè il senso olfattivo,
visivo, fonico, tattile…).
L’attacco di ciascuna frase è scritto maiuscolo e il poeta - pittore si rivolge a un
“tu” a cui dice di inzuppare i pennelli (che sono 7, scritti a numero arabo, proprio
per rifarsi ai codici e alla Cabala).
Trentasei sono gli anni dell’ interlocutore (che in realtà è lo stesso poeta) e il
tempo si cerca di definire analogicamente con il gesto di un pittore che intinge i
suoi colori nel cuore.
Nelle parole “rallumina il viso” l’effetto ottico è importantissimo e si ritrova,
inoltre, nel viso che è “disfatto” (distrutto) perché ricorda le antiche stagioni e
cioè il suo passato.
Con le “voci” prevale la sensazione fonica, ma non si abbandonano mai le
sensazioni visive con la descrizione della luna che crea una sorta di poesia come
la pittura di esperienze metafisiche tipiche di De Chirico.
Nell’atmosfera della pittura di De Chirico c’è un clima di classicismo
reinterpretato in chiave contemporanea.
Che cosa offre dunque la luce della luna, che non riesce a dare la luce del sole?
Essa stravolge i contorni delle cose, è misteriosa, è lenta e rende un’atmosfera
irreale e onirica. E’ un sogno ad occhi aperti per cui il pittore - poeta comunica ai
fruitori della sua opera la sua attesa che è un’attesa enigmatica.
Dietro i quadri di De Chirico, infatti, c’è sempre l’enigma da decriptare.
L’attesa crea una messa in crisi dell’artista e di chi fruisce l’opera d’arte stessa.
Abbiamo, infine, altri importanti elementi uditivi come il fischio di una ciminiera
che ci fa pensare a una città industriale, moderna e anonima allo stesso tempo.
Questa ciminiera rimescola i colori del mattino che sono anche i colori dei sogni
poiché gli antichi dicevano che i sogni mattutini - attività ipnagogica- sono quelli
che si avverano e creano un nesso tra ciò che è, è stato e sarà.
Abbiamo, poi, una sinestesia, cioè una combinazione di due sensazioni (olfattiva
e visiva) quando si parla del topazio e ci si collega quindi all’immagine del colore
giallo.
La personificazione di un altro elemento di modernità è il treno. Il treno era già
presente in Carducci e in Pascoli ma in loro era ancora legato a una dimensione
sublime mentre qui, invece, è legato a una città industriale e quindi alla
modernità. Il treno passando velocemente taglia i riflessi della luce delle
lanterne (richiamo a Pascoli che ha già usato le lanterne nelle sue poesie).
Un altro elemento fondamentale che possiamo notare è la creazione di un
rapporto a distanza tra la Sicilia e Parigi in cui la Sicilia è espressa attraverso il
vino e Parigi attraverso la Senna che era “un giardino di bandiere infiammate”:
forte immagine legata al concetto “ovunqueità”.
Abbiamo, in seguito, la meditazione sul tempo (“non c’è più tempo”) e un
tentativo di definire lo spazio: “lo spazio è un verme crepuscolare che si
raggricchia….”. Il tempo è, dunque, esaurito e per definire lo spazio usa un verbo
onomatopeico (“raggricchia” che significa raggomitola).
Nella goccia di fosforo abbiamo l’elemento chimico legato alle scoperte
scientifiche di quel momento, mentre troviamo la definizione della “sempreità”
nel fatto che ogni cosa è presente e si ricollega all’atmosfera metafisica.
Tutto è sospeso in un presente immobile e inquietante e sovrasta chi lo
concepisce ma anche chi lo guarda: di fronte a un quadro di De Chirico, infatti,
siamo schiacciati come di fronte a questo presente che è assoluto e si ricollega
all’eterno, proprio come lo spazio si ricollega all’infinito e all’orizzonte e trova i
suoi punti di riferimento nella lontananza (da Parigi alla Sicilia).
Il tempo viene circoscritto in una data “ 1902”, e in un luogo che è la soffitta
parigina (la soffitta l’abbiamo già vista nella “Signorina Felicita” di Gozzano).
Siamo in un interno “coperto da 35 centimetri quadri di cielo”, un cielo che non è
infinito ma delimitato in un quadro che ha una sua misura e geometria.
Lo spazio è asfittico e opprime l’io che cerca in qualche modo una strada per
poter sopravvivere.
E’ uno spazio deformato dal vetro dell’abbaino (come in Gozzano, del resto, che
nella soffitta di Felicita aveva un abbaino dal cui vetro poteva vedere il paesaggio
circostante deformato).
La natura non è più assoluta, ma è relativa come guardata da una lente o da un
filtro e, quindi, interpretata.
La deformazione può essere assoluta, cioè quando si arriva a vedervi la forma
geometrica che ne sta alla base o relativa come uno specchio che ti rimanda
un’immagine mai perfetta, con i contorni sfumati.
C’è una sorta di aforisma nell’interessante frase “l’eternità splende in un volo di
mosca”. Il presente immobile è elevato all’eternità che si illumina nel volo di un
piccolo insetto. Questa è una novità di messa a fuoco dal grande (eterno) che si
condensa nel piccolo (volo di una mosca) come una meditazione sul tempo
attraverso le immagini. La mosca sarà poi molto importante nelle poesie
successive del Novecento.
Per esprimere concetti grandi il poeta novecentesco usa immagini piccole e arti
sublimi, mentre la presenza della storia è effimera, fugge via ed è paragonata al
saluto veloce che si può avere alla stazione.
Abbiamo ancora la presenza della modernità con l’immagine dell’automobile che
è legata in un’analogia con l’effetto del sole; un’immagine vana ed effimera che si
staglia tra i macchinari del cosmo.
I macchinari moderni della città fanno spesso paura agli uomini comuni
dell’epoca (e ovviamente anche al poeta) e l’automobile è una realtà ossessiva
perché, sotto un certo punto di vista, viene considerata un pericolo.
Il sole, che per Marinetti è una certezza, per Soffici non lo è: esso crea vitalità ma
anche, in questo caso, un’immagine vaga.
Il silenzio dell’ “ora meridiana” che è l’ora dei miti e in cui avvengono i miracoli
è lo stesso silenzio dell’ora della pittura metafisica di De Chirico; qui abbiamo
un’accumulazione di immagini legate all’effetto fonico e lo stesso silenzio fa
parte del ritmo della poesia la cui musica è legata all’ora magica della
sospensione e dell’attesa, quella in cui le ninfe si rivelano e che è quindi l’ora
dell’epifania.
C’è, però, anche la teoria dell’eterno ritorno, della circolarità e della ricorsività
(concetto matematico messo in luce proprio all’inizio del Novecento) legata alla
poetica wagneriana e alle teorie di Nietzsche.
L’oggi si sposa col sempre e ciò significa che il presente è l’eterno in un climax
che si manifesta sempre ascendente.
Il “legame elettrico” si rifà al moderno uso dell’elettricità e il termine simpatia
deriva dal “sym patheia” greco (soffrire insieme).
Abbiamo ancora effetti coloristici nello sprofondamento della “conca rossa” fino
alla conclusione con l’immagine della modernità della città riferita ai manifesti
cittadini che rincontreremo anche in Palazzeschi.
La massima di Arcobaleno: “L’uomo più fortunato è colui che sa vivere nella
contingenza al pari dei fiori” cela probabilmente un autoritratto.
Il suo stile sembra fare tutt’uno con una sensuale e infantile idolatria del
moderno, con l’ammirazione per il mondo multicolore delle parvenze e il
dinamismo della metropoli.
Il suo plurilinguismo si sviluppa anche con l’uso di toscanismi (“briaca”) e di
francesismi.