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245 DIMENSIONE BETA ANNO 2011

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DIMENSIONE BETA

ANNO 2011

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Dimensione Beta

Romanzo scritto da don Stefano

01. Piacere e morte

02. Nella rete

03. Kratos

04. L’isola del lupo

05. Aloj IV

06. La Grande Foresta

07. Sir Umtal

08. Stupore

09. La Grande Taverna

10. Un vecchio patto

11. Selex

12. La dimora tenebrosa

13. L’invasione

14. L’ira di Ossian

15. Piani di guerra

16. La Grande Cava

17. Nel grande Stadio

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18. L’esplosione

19. Konia liberata

20. Il banchetto di ringraziamento

21. La Casa della Vita

22. Il trionfo

23. La notte

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Capitolo 01

Piacere e morte

E’ uno splendido ma caldo pomeriggio d’agosto. Il sole fuori spacca le pietre e l’asfalto della strada è bollente e quasi li-quido. Guai a camminare a quest’ora. Il grado di umidità è eccessivo. Senti il sudore che ti cola dovunque, il desiderio di una doccia fredda e la voglia di stenderti in un luogo ventilato e all’ombra di un albero. Beato chi in questi giorni è al mare a mostrare, dice la canzone, le chiappe chiare oppure chi in un paesino di campagna si immerge in un verde riposante, prati immensi e fiori variopinti, il canto di uccelli e il latrare del cane guardiano.

Ed io, qui, sul letto grande, quello dei miei genitori, steso a pancia all’aria, le mani sotto la nuca in attesa che gli occhi si chiudano in un sonnellino ristoratore.

Dalla finestra spalancata una canzone ti vieta il riposo. E’ una canzone che ho sentito tante volte e dice e ti intristisce: Buon-giorno tristezza, amica della mia malinconia, la strada la sai, è quella che fu un dì dell’allegria.

Sono distratto improvvisamente da qualcosa che mi riguarda intimamente e mi impensierisce. Sento il sangue affluirmi alla testa. Credo di essere diventato rosso in volto ma non né sono sicuro perché non c’è specchio in cui guardare e poi non ho la forza sufficiente per alzarmi e controllare. Una sensazione di piacere fisico mi invade e la paura di morire l’accompagna. Piacere e morte! E’ mai possibile che stiano insieme? E men-tre rifletto su queste strane sensazioni sento che le mani si

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muovono posandosi sul petto. Ma le sento ancora anche sotto la nuca. E poi lascio la posizione supina e con uno slancio atletico mi ritrovo seduto sull’armadio di fronte e guardo la stanza e vedo ciò che mai avrei pensato di vedere in vita mia. Vedo me che giaccio supino sul letto grande a pancia all’aria e con le mani sotto la nuca.

E allora capisco che mi sono sdoppiato. La gioia mi invade, salto su una sedia e grido, non so cosa, ma grido. Un salto e sono sul davanzale e senza paura alcuna, novello Peter Pan, mi butto e precipito maldestramente all’altezza di un primo piano, come un colombo che caduto dal nido assaggia il suo primo volo e poi istintivamente raddrizzatomi incomincio a volare per le strade ben note, braccia distese come ali, occhi che scrutano tutto.

La vita da quell’altezza ha un sapore nuovo, il sapore della libertà. Ed ecco piazza Garibaldi, la stazione centrale, le ban-carelle, tanta gente che và e che viene, che parla e che corre.

Volo e sono sulla litoranea.

Il mare è azzurro e calmo, con molti riflessi d’oro. Barche co-lorate e anche grandi navi e prendendo coraggio volo più ve-loce: Procida, Ischia, Capri.

Volo e non ho una meta. In quale direzione? E allora punto verso l’alto, verso una nuvola bianca. Sempre più in alto, sem-pre più vicina, finalmente dentro. E allora nuovamente la paura: la nebbia è densa, il buio è totale. E allora zigzagando senza alcun orientamento cerco di venir fuori da quella strana situazione ascoltando solo il battito di un cuore impazzito. Poi grido e grido ancora: ecco la luce!

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Capitolo 02

Nella rete

Volare stanca. Ho voglia di mettere i piedi sulla terra ferma. Anzi il desiderio della mia città è struggente. Non parliamo poi del desiderio di casa e dei familiari e del mio doppio che starà ancora disteso sul soffice letto, pancia all’aria e mani sotto la nuca. Voglio rientrare in esso ed essere una persona come le altre.

Questi esperimenti ti stancano e poi non sai come si comple-tano.

Con decisione vibro verso il basso alla ricerca delle isole fa-mose. Una volta avvistatele, nelle vicinanze troverò Napoli e per la casa sarà una bazzecola.

Questa luce però è diversa. Credo più fredda. Dall’alto tutto è bello e ogni cosa è molto piccola. Si, ecco, intravedo delle isole e mi sento incoraggiato nel mio scendere. Una domanda angosciante. Ma dove mi trovo? Di isole ne vedo tantissime. E’ possibile che sorvolo la Polinesia?

Dovunque mi trovi non è la mia terra.

Mentre mi avvicino ad una di queste isole quattro strani mis-sili salgono verso di me e con una rapida manovra mi affian-cano. Poi simultaneamente si abbassano per una cinquantina di metri da me e sganciano contemporaneamente una rete a piccole maglie. Un rapido salire, un veloce stringersi ed io sono intrappolato nella rete come un pesce nella rete dei pe-scatori.

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Capitolo 03

Kratos

La poltrona su cui sono seduto ricorda quella famosa di Fan-tozzi, senza spalliera, ma devo confessare che è piuttosto co-moda e o la ritengo tale perché dopo ore di volo il desiderio di sostare e di riposare è immenso.

La sala è ampia e circolare con molti monitors. Davanti a uno schermo gigante che lascia vedere lo spazio esterno, su una poltrona girevole, come spesso si vede nei films, è seduto uno strano essere, come sono strani quelli che in quel momento mi guardano. Non sono solo.

Una voce mi saluta e l’essere che è seduto ai comandi si mo-stra in tutta la sua diversità.

- Benvenuto a bordo, ti aspettavamo. Sono Kratos e comando la missione. Fa eco allora un cordiale e corale benvenuto.

Parole rassicuranti, è vero, e sguardi di meraviglia da ambo le parti e domande tantissime che in questo momento non rie-sco ad esprimere.

Kratos e la sua milizia sono, consentitemi la parola, umani. Mi esprimo così perché non capisco quanto mi accade o almeno mi rifiuto di capire.

Un solo particolare mi fa sorridere ma non lo manifesto: le orecchie sproporzionate rispetto alla testa e che terminano a punta.

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E il colore del volto che denota, capii dopo, l’età. Pallidi i gio-vani, verdastri gli adulti, giallastri gli anziani. E col tempo an-che le orecchie si allungano. Gli occhi sono gelidi con riflessi d’oro eppure tu non li senti nemici.

Scarpe ai piedi di colore argento molto scuro con punte rial-zate sul tipo di quelle che i nababbi arabi portavano nei loro lussuosi palazzi, pantaloni corti molto aderenti, di colore az-zurro quasi notte e una maglietta bianca con su disegnato un cubo di colore verde mare e al collo una collana di minuscoli cubi di cristallo e l’elmo sulla testa, non ridete, ricorda moltis-simo lo strano copricapo dei pescatori napoletani del sette-cento. Ricordate?

Le armi sembrerebbero molto rudimentali. Oserei chiamarli frombolieri, opliti, spadaccini e arcieri.

Ma scoprirò poi che la loro potenza è micidiale.

I frombolieri lanciano biglie energetiche. L’avversario colpito alla testa viene eliminato dissolvendosi nell’ aria, e le mura delle città avversarie crollano o presentano grosse brecce per l’invasione.

Gli opliti sono dotati di scudi che assorbono energia dal loro strano sole e la riflettono sull’avversario accecandolo e ren-dendolo inoffensivo.

Gli spadaccini con le loro possenti spade ti colpiscono con scariche elettriche che prima ti immobilizzano e poi perver-tono la tua personalità mutandoti in collaboratori. Perciò sono temutissimi.

Infine gli arcieri. Le frecce dissolvono l’arto in cui sono con-

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ficcate, e ti rendono inabile a qualunque lavoro. E allora al-lontanato dall’esercito, espulso dalla città, vagherai nella fore-sta fino a quando, stremato, finirai di vivere a meno che non incontri un guaritore girovago che ti possa, con la sua arte, restituire la salute.

Sono Kratos, il comandante. Siamo venuti a prenderti perché il nostro indovino aveva preannunciato la tua venuta.

E congedata la milizia, gentilmente mi invita a sedere accanto a lui, perché mentre l’astronave corre, possa guardare su un altro schermo, piccolo in verità, un documentario sull’isola verso la quale siamo diretti.

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Capitolo 04

L’isola del lupo

Lerios è l’isola sulla quale atterreremo. E’ l’isola dei lupi. Per-ché sono tanti e famelici e crudeli, ma facilmente addomesti-cabili se riesci a dissetarli con vinooh e semi di melograno e poi perché al centro dell’isola c’è un colosso di pietra che rap-presenta un lupo con la testa alzata quasi ad ululare ad una luna che non c’è o che suppongo non ci sia.

Le città sono sedici e tutte edificate sulle coste con porti effi-cientissimi perché tutta la loro economia corre sulle flotte. Città costruite interamente di cristallo, l’unico materiale che trovi nelle numerose miniere, cristalli di vario colore e con mille riflessi diversi che destano la tua meraviglia, città indi-pendenti l’una dall’altra ma confederate tra loro per l’utilità comune.

Gigantesche foreste danno legname che è la base per gli scambi e regge la comune economia.

L’oro non circola ma è deposto in giganteschi bunker situati nel centro della città.

E mentre raccolgo le notizie dalla voce fuori campo guardo il filmato e tutto è entusiasmante. Che avventura. A chi la rac-conterò?

Improvvisa risuona una voce dall’alto: Comandante, le torri di controllo dell’astroporto comunicano che possiamo atter-rare sulla pista n. 8 messa a nostra disposizione dalla genti-lezza del governatore di Selva Candida.

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E’ un caro amico e fidatissimo, leale e sincero, il governatore Selex!

Selva Candida? E la memoria trae fuori dal passato l’ultimo esame di storia della chiesa, dove il cardinale di Silva Candida depose nel 1054 sull’altare di S. Sofia a Costantinopoli la bolla di scomunica per il patriarca Michele Cerulario dando così origine allo scisma d’oriente.

Formidabile, esclama Kratos, guardandomi e ridendo. Sul volto giallognolo un sorriso. Allora capisco che ha letto nei miei pensieri.

Il tuo pensare è sempre noto ad ognuno di noi.

Mi sento indifeso perché avranno capito, anche se non l’ho manifestato, quello che ho pensato nel vederli.

Kratos con un balzo veloce si reca ad uno scrigno posto a terra in un angolo, lo apre e mi consegna un copricapo come il suo, quello dei pescatori napoletani di una volta, per inten-derci e porgendolo dice: mettilo, è una difesa. Con questo in testa i tuoi pensieri sono solo tuoi.

Lo indosso e con le mani lo sistemo facendolo bene aderire alla testa. Vorrei vedermi ma non oso domandare se c’è uno specchio. Meglio così. Mi sentirei curioso!

Dei sobbalzi rapidi e veloci, un sussultare di tutti e di tutto ed io capisco che siamo sulla pista di atterraggio e che il volo fra pochi istanti sarà finito.

Pochi gradini e sono sulla terra ferma, veramente sul dorso del colosso di pietra, il lupo, la sua schiena è la pista di atter-raggio. Immenso astroporto con 16 piste.

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Una grande confusione. Sono migliaia ma tutti vestiti ugual-mente. Solo i colori del vestito cambiano secondo il villaggio di provenienza. Guardando incuriosito in lontananza vedo molti vestiti come i miei amici e domando perché non si av-vicinano. E la risposta è gelida.

Sono come noi miliziani di Konia, il nostro villaggio. In as-senza di Aloj IV, governatore del villaggio, in missione con la flotta mercantile a Necios per comprare vinooh, l’elemento che ci tiene in vita, si sono impadroniti della città e la domi-nano con fermezza. Ossian, l’usurpatore, è violento e crudele e non perdona.

Noi siamo fuggiti ed abbiamo chiesto ospitalità al governatore di Selva Candida. Siamo stati fortunati ad incontrarli nell’astroporto perché questa è zona nella quale per un patto ultracentenario sono proibite le guerre. Se l’avessimo incon-trati altrove avremmo dovuto combattere aspramente.

- Ti ringrazio, mio Dio, penso, non amo le guerre.

Kratos indicandomi una porta abbastanza vicina mi ingiunge di seguirlo con gli altri perché bisogna scendere a terra, sull’isola e poi partire

Qualunque sia la meta per me è sempre l’ignoto.

Chiedo di potermi librare in aria e, volando, planare dolce-mente a terra. Essi nel frattempo avrebbero potuto usare gli odiati ascensori che temo dalla fanciullezza.

- Non te lo consiglio, potresti fare la fine del ftrap, una be-stiola tra l’insetto e l’uccello, quando si innalza improvviso il vento dal sud che lo solleva in alto portandolo sull’isola Pe-reatia dove diventa pasto dei Gadigal, quasi simili ai nostri

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gabbiani.

Apprezzo il suo consiglio, perché decisamente non mi va di diventare un ftrap e allora li seguo. Una mano su una striscia luminosa, due porte che si aprono, un vano ci accoglie tutti e pochi secondi siamo a terra nelle vicinanze di una zampa del colosso di pietra.

Andiamo, è il comando secco di Kratos, e si dirige sicuro verso un recinto nel quale lupi addomesticati sono in attesa.

Ognuno porta le mani alla gola e tocca un cubicino rosa. Manda un segnale e il proprio lupo si presenta. Un balzo e tutti sono a cavallo, mi scuso, non ho la parola per l’avveni-mento.

Ed io?

- Sali dietro di me, il mio lupo porterà ambedue. Titubante salgo, fortemente mi stringo. In cammino, credo, verso Selva Candida, al di là della foresta grande.

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Capitolo 05

Aloj IV

Aloj IV, governatore di Konia, è in viaggio con la flotta mer-cantile verso Necios, l’isola del vinooh. Intende comprare una tale quantità da assicurare agli abitanti di Konia la vita per molti mesi. Senza vinooh i Koniani, come tutti gli abitanti la dimensione Beta nella quale sono stato catapultato intristi-scono, si indeboliscono e poi scompaiono (mistero grande, come la loro nascita! Muoiono?)

Il pensiero corre ai suoi predecessori nel governo di Konia, ad Aloj I il fondatore quando di Konia non c’erano neanche le mura difensive e brillava sotto il sole solo Matrix (la casa municipale).

Che fatica portare la città ai nostri giorni. Costruire l’accade-mia delle scienze, il mercato inter isolano, un porto efficien-tissimo per lo smercio delle risorse, un cantiere navale per la flotta bellica e una caserma dove addestrare una milizia all’al-tezza dei tempi.

Era soddisfatto Aloj IV ma non contento, si sentiva solo, forse non l’avrebbe mai saputo, ma gli mancava l’amore.

Esseri asessuati. Era, ancora per tutti, un grande mistero, la vita!

Uscivano dalla grande Matrix, all’improvviso e già adole-scenti, il volto pallido indizio della gioventù, e dal palazzo ar-rivava l’ordine: nella foresta a tagliare alberi o nella cava a spaccare le rocce cristalline, in città per affari o in caserme per

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l’addestramento.

E come non sapevano spiegare il mistero dell’origine così non sapevano spiegare perché la mancanza di vinooh li indeboliva così tanto da annullarli.

Ecco perché Aloj IV era partito con la flotta.

Avrebbe potuto mandare un ambasciatore a negoziare un co-lossale acquisto di vinooh ma non ha voluto.

Aveva bisogno di una vacanza, per non pensare, per non in-tristire.

Ossian, il cugino, a cui ha delegato i poteri, lo avrebbe sosti-tuito con onore.

Una voce lo riporta alla realtà. E’ nella cabina di comando con gli ufficiali subalterni e guarda le acque serene di quel grande oceano.

- Eccellenza, un messaggio da Lerios.

Aloj e gli altri guardano al centro della sala. Un vortice elet-trico stabilisce la comunicazione. Appare la sala del grande Palazzo di Konia e Ossian, seduto sulla poltrona bianca.

- Konia è nelle mie mani, dice con evidente soddisfazione e un sorriso maligno, Ossian.

- Sei bandito per sempre dalla città. L’esercito mi ha giurato fedeltà ed ha ricevuto un solo ordine: distruggerti. A presto vederci, cugino amato! E una risata sguaiata interrompe la co-municazione.

Necios è vicina.

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Troverò chi mi darà accoglienza e ospitalità, si chiede ango-sciato Aloj IV.

Il mare si increspa prima leggermente e poi si sollevano onde dovunque e appaiono i temutissimi Quigans, crotali marini che infestano le acque di Necios, pronti a balzare sulle navi.

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Capitolo 06

La Grande Foresta

Attraversiamo la foresta. E’ veramente immensa: alberi gigan-teschi e alberi nani, diversi tra loro. Purtroppo non sono un botanico e non potrò classificarli. Mi colpisce il silenzio che in essa regna.

Sono tanti gli operai e intenti tutti ad abbattere gli alberi. Come l’astroporto, la foresta è in condominio tra le vari città dell’isola.

Il silenzio è rotto solo dal cadere degli alberi e dall’avverti-mento: albero che cade! e allora chi è nelle vicinanze si mette in salvo per non perire.

Il lupo che luparchiamo (equivalente del nostro cavalchiamo) rallenta il suo camminare, anzi si ferma perché io possa ve-dere.

Una tunica bianca li ricopre lasciando le gambe scoperte e una cintura di cuoio stringe i loro fianchi. A me ricordano gli schiavi dell’antica Roma.

Sulla fronte, marchiato, non so come, un segno che indica l’appartenenza ad una certa città. I nostri, di Konia, hanno disegnato sulla fronte tre cerchi concentrici di colore diverso. Al collo portano un fischietto per chiedere aiuto qualora si sentissero stremati. Ma nella foresta c’è sempre un buon nu-mero di guaritori pronti ad intervenire, con le amate ampolle di quel liquido rosso che chiamano vinooh.

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Incuriosito chiede a Kratos di fermarci per qualche tempo. Vorrei vedere altro.

Kratos tocca la collanina che porta al collo e i Koniani che ci avevano distanziato parecchio per il desiderio di arrivare a Selva Candida, imbronciati ritornano e si fermano in una ra-duna illuminata dal pallido sole di Beta. E manifestano chia-ramente il loro malumore ma Kratos con un gesto delle mani zittisce tutti.

Mi allontano per capire come vengano abbattuti gli alberi se di seghe non se ne vedono affatto.

Quattro o cinque operai si pongono insieme davanti all’albero da abbattere. Tolgono il copricapo e lo appoggiano sulla spalla sinistra, così il loro pensiero diventa unico e potente, e poi con un salto, sincrono, lo colpiscono con un calcio ed un urlo potente avverte gli altri: albero che cade! E tu lo vedi spezzarsi e cadere e se non sei lesto potresti ritrovartelo sulla testa. Si avvicinano gli altri e lo sollevano portando su dei binari che solo allora vedo. E su queste rotaie si perde in una galleria con i segni di Konia.

La curiosità mi spinge, mi rende temerario e infastidisce tutti ma non Kratos. L’età rende tutti pazienti

Entro nella galleria illuminata a giorno con potenti cellule fo-toelettriche e cammino per qualche centinaio di metri poi adocchio un carrello, ci salgo, e manovrando una leva corro veloce finché non mi fermo in una gigantesca sala dove c’è una macchina strana e koniani al lavoro.

L’albero, qualunque siano le sue dimensioni, è introdotto

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meccanicamente in quella grande bocca, lo sportello è rin-chiuso ermeticamente, decine di manopole sono mosse, si sente un rumore, si intravedono lampi, ed è smaterializzato.

Si materializzerà nei magazzini della città, in una macchina identica, ma questa volta sotto forma di pezzi uguali per forma e misura.

Ritorno indietro, all’esterno, e un grido mi accoglie: final-mente, andiamo, abbiamo una gran sete.

E sui lupi corriamo così tanto che temo di cadere.

Qualora mi facessi male, chi mi curerebbe?

In lontananza le torri cristalline sulle mura di Selva Candida.

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Capitolo 07

Sir Umtal

I Quigans, crotali marini, serpenti di circa cinque metri di lun-ghezza, sono presenti in questa parte dell’oceano che è chia-mata Mar dei Quigans. Astuti e direi quasi intelligenti se con-sideri la loro tecnica di assalto.

Velocissimi nell’avvistare la preda, e per preda intendo la nave, introducono la coda nella bocca di un altro, e poi di un altro ancora, diventando così crotali di dimensiono tali da av-volgere la nave, nonostante la sua mole, e stritolandola pro-vocare il naufragio di tutti. I Koniani, e non solo essi, sono per i Quigans una leccornia.

Ma sono stati avvistati in tempo.

Dalla nave ammiraglia un ordine per l’intera flotta e nelle ca-bine di comando è un pigiare frenetico di pulsanti e un muo-vere di leve.

Una invisibile barriera energetica si alza all’esterno e contro di essa si infrangerà l’assalto. La scarica elettrica li stordisce e ri-caduti in acqua resteranno inerti per alcuni mesi.

Ora le acque sono di nuovo calme, i Quigans storditi galleg-giano e non danno segni di vita: La barriera invisibile è stata annullata e la flotta riprende il suo viaggio.

Ed ecco un porto.

Necios è l’isola del vinooh, terra di contadini ignoranti che non hanno mai amato la tecnica, eppure è gente ricca perché

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il vinooh, linfa vitale per tutti, è richiesto ovunque. E’ chia-mata anche l’isola del Cobra perché il colosso di cemento che è al centro dell’isola ha la forma di un cobra.

E’ l’unica pista di atterraggio per le astronavi, strettissima e pericolosissima per i suoi innumerevoli dorsi e cunette.

Non è possibile per alcuno atterrare quando sulla pista c’è già un’astronave. E allora visto che il tempo è denaro, il commer-cio per il 95 per cento avviene mediante i mercantili.

Il sotto ufficiale addetto alle telecomunicazioni si mette in contatto col governatore di Laxios, Umtal, un tipo molto in-glese.

Il solito lampeggiare al centro del salone e dopo pochi minuti si materializza un ampio cilindro di energia, al centro del quale appare sorridente Umtal. Seduto alla scrivania mangia un bi-scottino (meno male che non ero presente) e sorbisce qual-cosa da una grande tazza.

Un gesto di saluto con le mani:

- Ciao, vecchia canaglia, ancora in piedi?

Certo e con tutte le forze!

Poche parole e la situazione è chiara anche ad Umtal.

Il sorriso gli è sparito dalla faccia. Certe situazioni sono peri-colose non solo perché accadono ma perché possono spro-nare altri ad agire nello stesso modo

- Vieni pure. Sarà un vero piacere ospitare te e la tua gente. Ma lascia sulle navi un drappello bene armato. Per il vinooh che loro occorre provvederà un mio aiutante e manderò ad

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essi un guaritore, qualora qualcuno si ammalasse

- Vieni, nelle mie cucine ho due cuochi di fama inter isolana. Si mangia ottimamente, anche se la tristezza che in noi è quasi congenita non va via.

La comunicazione interrotta mette in evidenza il silenzio suc-cessivo.

Poi gli ordini necessari e sono calate in mare decine di scia-luppe per Aloj IV, alcuni ufficiali, l’economo, e moltissimi mi-liziani.

I marinai restano a bordo tradendo dal volto una punta di in-vidia.

Sulla spiaggia militari di sir Umtal ci indicano la strada più co-moda per il più vicino lago di vinooh che bisogna necessaria-mente attraversare per giungere al villaggio che ci ospiterà. Il lungo sentiero, la strada in molti punti acciottolata, siepi non curate che quasi soffocano, rendono il percorso faticoso e stancante quando un grido comune si eleva verso il cielo:

- Finalmente.

Il lago di vinooh è all’orizzonte.

E’ una grande vasca di marmo nel qual confluisce il mosto che fermentando diventerà vinooh. Verso il cielo sale un tre-mendo odore di alcool e in certi momenti si elevano anche fumi, così che sembra di essere in una bolgia dantesca (ma essi sono fortunati, non sanno cos’è l’inferno).

La vasca è enorme e sarebbe stancante fare il periplo. Ecco allora che l’ingegnosità dei contadini ha provveduto: rotaie ae-ree congiungono i lati opposti della vasca.

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La truppa con evidente sollievo dopo il lungo camminare si siede su dei vagoncini, che guidati da un esperto operaio di Laxios corrono veloci verso il bordo opposto della vasca.

E nel viaggio i ricordi affollano la mente di Aloj IV e si rivede giovane quando insieme a Umtal gareggiavano nello stadio cittadino in occasione del decimo ampliamento di Matrix, la casa comunale.

Era la Matrixiana, gare interisolane. (In questo momento sono sicuro che il vostro pensiero ricorda la matriciana. E’ mai pos-sibile che il cibo sia il vostro unico pensiero? Vergognatevi)

E ricorda lo stadio gremito e urlante. La biglia di fuoco che vola verso l’alto e che si muove in maniera autonoma e l’abi-lità del giovane Umtal che la colpi con un’unica freccia e il grido che si levò sugli spalti.

E la corsa, dodici giri del campo, su possenti e focosi destrieri, gli Horsemelli, cavalli con testa di cammello, che lo vide vin-citore.

Improvvisamente il volto giallastro diventa ancora più scuro. Ricorda Ossian che gareggiò con lui al tiro al piattello e che lo vide vincitore. Speriamo che non vinca anche oggi.

Il viaggio nel frattempo è terminato e siamo dall’altra parte della vasca.

Ma la meta è ancora lontana, esclama palesemente infastidito Aloj IV. I suoi occhi si fermano sulla grande vigna, sugli ope-rai che alacremente lavorano e che sembrano incuriositi dal manipolo di forestieri ed infine sul sentiero che la divide in due e che porta al villaggio ospitale. E’ stretto ed è sassoso come tutte le strade di campagna.

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E’ avvilito Aloj IV pensando al cammino da fare. La gioventù è volata via da tempo; le sue orecchie a punta, cresciute a di-smisura oltre la testa, lo dimostrano chiaramente.

All’orizzonte si muove qualcosa e lentamente si ingrandisce, procurando ai nostri amici una certa serenità. Sono carrozze inviate da Umtal, accompagnate da un drappello di spadaccini sui focosi horsemelli.

Anche le carrozze sono tirate dai medesimi animali, corpu-lenti come i buoi, ma veloci.

C’è un moto di stizza nel governatore spodestato ma nessuno lo ha avvertito. Del resto tutti sanno che è irascibile per na-tura, la vecchiaia ha però peggiorato il carattere.

- Vecchio avaro, ancora con le carrozze, quando ai nostri tempi ci sono comodi e velocissimi cars a motore atomico che ci consentono comodamente di percorrere lunghe distanze.

Ed ha ragione Umtal non ha mai amato la tecnica e il suo villaggio, diremmo con linguaggio terrestre, è fermo all’età della pietra o quasi.

- Neanche le mura di cinta? Esclama inorridito guardando il villaggio che ormai è vicino. Saremo facile preda del nemico, mormora avvilito.

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Capitolo 08

Stupore

Guardo stupito e attonito le mura di Selva Candida. Alte e possenti, di marmo pregiato alla base reggono una merlatura di cristallo purissimo che illuminato dal sole appare, ora rosea, ora sfiora nell’azzurro, ora è verde mare. Un incanto.

Dietro le mura sulla destra cinque torri a base esagonale di differente altezza mostrano finestre di stile gotico. Sono chia-mate le torri della vittoria. Sono state costruite una alla volta per ricordare una battaglia vinta sui nemici, nel tempo in cui le guerre erano ricorrenti. Sui terrazzi grossi scudi catarifran-genti. Accumulano energia solare e in caso di attacco lo vo-mitano contro le astronavi nemiche distruggendole.

A sinistra tre torri, a base circolare, anch’esse di colori diversi con finestre come gli obloo delle nostre navi che lasciano in-travedere strani cilindri penzoloni. Sono le torri del pericolo. In caso di invasione percossi da martelli espandono nell’aria ultrasuoni. E allora la città è il rifugio di tutti.

- Dove avranno studiato mai i suoi architetti?

Al centro delle mura l’ingresso, enorme. Lastre di vetro si al-zano e si abbassano per il passaggio di gente e di merci.

Gli spalti sembrano deserti ma così non è perché al nostro apparire, centinaia di arcieri pronti a scoccare i micidiali dardi sono improvvisamente apparsi.

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- Ferma, sono amici, tuona il loro comandante e sceso velo-cemente va incontro a Kratos e si inchina profondamente in segno di saluto ricambiato dal nostro Kratos.

- Nel frattempo la mia mano tocca risolutamente Kratos.

- Ascolta, mi allontano per pochi minuti. Con lo sguardo an-nuisce.

Un albero gigantesco mi nasconde agli occhi di tutti. Mi sem-brava di impazzire. Più sereno ritorno nel gruppo. Ma Kratos guarda e ammicca: che furbo, ha capito!

Sistemati i lupi in un apposito recinto dove mangeranno me-lograni a sazietà varchiamo la soglia della città bella.

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Capitolo 09

La Grande Taverna

Prati verdi con panchine e fontanine, viali alberati e silenziosi, la pavimentazione a quadrati bianchi e verde scuro, quasi nero, qualche statua raffigurante animali strani e alla fine del sentiero che abbiamo imboccato, quello a destra, intrave-diamo qualcosa che mette fretta in tutti: la Taverna.

- Ho fame, sete e vorrei riposare, speriamo che sia possibile.

E’ Kratos che mi tocca:

- Selex, quando sarò da lui, mi chiederà, vedendoti diverso da noi, chi sei e da dove vieni. Cosa dirò? Noi ti chiamiamo “lo straniero venuto dalla nuvola”. Io, hai sentito, sono Kratos, ma tu chi sei?

Sono tentato di dirgli il mio nome, poi mi trattengo e dico: io sono Man.

E Kratos non conoscendo l’inglese ripete, men, men, men e tutti in coro, men.

- Vengo dalla terra.

- Terra?

E come spiegare loro che c’è un sistema solare in una dimen-sione diversa che io chiamerei dimensione Alfa, nella quale un pianeta, la terra, è abitato da esseri come me.

Fortunatamente siamo all’ingresso della grande taverna.

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E’ l’unica in città e poiché tutti sono costretti a frequentarla deve essere necessariamente di grande dimensione. Ed è a forma di Elle. L’ingresso è sul lato piccolo. In alto l’insegna: Al buon vinooh! E sulle pareti perimetrali giganteschi cartel-loni pubblicitari.

Entriamo nel salone dell’accoglienza. Nonostante l’ora mol-tissimi clienti, operai, mercanti, militi, cittadini operosi o sfac-cendati. Tutti qui per la razione giornaliera che non si può saltare. A mangiare si può provvedere nelle proprie abitazioni: Eppure c’è un ordine da invidiare. Nella hall, chiamiamola così, ci sono venti addetti alla distribuzione.

Non c’è ressa, solo venti ordinatissime file e molta gente che aspetta lontano in questa sala molto elegante e molto ampia.

- Quanti siete? domanda il Dispenser.

- Siamo sessanta e sono tutti laggiù!

- Bene! E voltandosi trae da una bacheca, come facciamo noi nei nostri alberghi, una moneta con su la scritta: sessanta.

Ricevutala Kratos, ed io sono vicino perché curioso, si reca ad una parete sulla sinistra, accanto ad uno scalone che porta ai piani superiori, nella quale ci sono molte gettoniere: In una introduce la moneta e insieme al bip esce un ticket con su scritto: primo piano, sala 124.

Sono lieto che sia al primo piano. E mentre salgo Kratos spiega che introducendo la monetina nella gettoniera le pareti divisorie della grande sala si sono mosse in maniera da for-mare una sala piccola più intima per sessanta persone.

Ci accolgono quattro camerieri e ci indicano un unico tavolo

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rotondo e sessanta sedie all’intorno. Nessuna tovaglia, ne bic-chieri, solo cannucce, sul tipo di quelle che tu vedi nei bazar arabi per i fumatori di hascisc.

- Ho fame, Kratos.

- E Kratos ordina cotolette di Suss per tutti. Ben cotte con chicchi di melograno in abbondanza.

- Suss! Esclamo.

- Si, Suss, vieni, te li mostro.

Mi accompagna su una spaziosa balconata e mi invita a guar-dare giù.

Siamo affacciati sul retro e giù nei recinti, come da noi, maiali!

- Suss! E rido!

- A me Suss, alla brace, molto Suss. È da tempo che non man-gio.

E come accade anche sul nostro pianeta è a tavola, in buona compagnia, che si affrontano argomenti complessi, come chi siamo, da dove veniamo. In che modo la vita è apparsa sul pianeta. Domande che nel corso ei secoli hanno avuto varie risposte: le biblioteche crollano per i molti libri scritti sull’ar-gomento. Ma per gli abitanti di questa dimensione non sono questi i veri problemi. Il non conoscere le risposte non li af-figge, come per noi terrestri, d’altra parte.

Maori, il secondo pilota della nostra astronave, ha visto su una parete una specie di chitarra. Si alza di scatto, la prende e ri-tornato al tavolo si toglie il copricapo posandolo sulla spalla

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sinistra e incomincia a pizzicarla. Anche altri lo imitano sco-prendo il capo.

Guardo, vedo le mani che pizzicano abilmente le corde ma suoni e voce non sento.

Kratos a cui nulla sfugge mi consiglia:

- Togli anche tu il copricapo. E allora sento il canto e il mio cuore si gonfia di tenerezza e di malinconia. La voce di Maori si innalza fiera, è un canto dolcissimo accompagnato dal coro dei compagni e dal battito di mani che tu tuttavia non vedi muoversi. E ti ammalia e ti seduce. Era così forse il canto delle sirene?

La malinconia è così prepotente e il ricordo di casa così strug-gente che mi copro il volto con le mani perché non abbiano a vedere e mie emozioni. Eppure un pensiero ridicolo mi sfiora: il mio doppio è ancora lì sul letto, o si è deciso final-mente ad alzarsi?

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Capitolo 10

Un vecchio patto

Umtal ed Aloj sono seduti nell’ampio salone del palazzo del governatore, arredato con buon gusto. Piante ornamentali da-vanti alle ampie e luminose vetrate. Un uccello simile ai nostri pappagalli legato ad un trespolo.

E’ un tucx, simile ai nostri tucani del Borneo ma che in certi momenti mostra una piccola ruota come i pavoni.

Sul tavolino un vassoio con biscotti e una bottiglia con un liquido giallo, un liquore?.

La vita non ti stanca mai di stupirti, dice avvilito Aloj. Non avrei mai pensato di trovarmi in un situazione come questa che per le nostre isole è insolita.

- Certo, guerre molte, ma mai un simile tradimento.

- Se Ossian ci assale, tu lo sai, e mi cattura, portandomi nello stadio e presentandomi ai Koniani tutti, diventa il legittimo governatore del villaggio ed io sarò costretto a collaborare con lui. Non sopporterei una simile vergogna.

- Non temere, non accadrà, te lo prometto. Non ricordi che nella nostra gioventù stringemmo un accordo di aiuto scam-bievole, qualora fosse stato necessario?

- Certo, ma Ossian, ha un forte esercito e una flotta potente. I miei sacrifici sono andati in fumo.

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- Basta! Soggiunge Umtal con un eloquente gesto della mano e con fermezza chiama i suoi collaboratori.

- Mettete fuori uso la pista per l’atterraggio delle astronavi fa-cendo sostare su di essa quanti più carri per il trasporto del legname potete reperire.

- Sarà fatto, eccellenza.

- Il mio timore, farfuglia Aloj, sono gli arcieri con le ali mec-caniche che ci potrebbero invadere dal cielo.

- Riserveremo ad essi una degna accoglienza, e ridendo ac-cende un piccolo schermo che Aloj riteneva uno specchio.

Ed appaiono i frombolieri laxiani su cobra alati.

- Ecco il nostro benvenuto.

- Umtal, il contadino? Altro che contadino, uomo risoluto e temerario, era riuscito ad ottenere, con opportuni incroci, quello che per i suoi predecessori, era stato solamente un so-gno.

Aloj ora si sente rincuorato!

- Bisogna anche indire il Tavolo del Potere, aggiunge titu-bante.

- Non credo sia necessario. Tempo e denaro per raggiungerla e infine si chiacchiera tanto e non si conclude niente.

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Capitolo 11

Selex

Selex è, diremmo noi un mecenate, ama l’arte e odia le guerre perché dice l’arte edifica e allieta, le guerre distruggono e in-tristiscono. E credo che abbia veramente ragione. Anche nel vestire e si presenta particolarmente elegante di una eleganza che non è condivisa dal popolo e che è ritenuta stravagante.

Indossa una tunica nera con ampie maniche, stretta nei fian-chi da una fascia gialla abbastanza larga.

La sinistra è nascosta dalla fascia per non lasciar vedere che è priva della mano colpita da un arciere in un furioso combatti-mento nel passato.

All’orecchio sinistro pende un orecchino che crede abbellisca la persona ma motivo di feroce critica anche da parte dei suoi più fidati amici.

La sala nella quale ci riceve, dopo una lunghissima attesa, è al piano terra, immensa e circolare. Le pareti di raffinato cristallo ti consentono di vedere il panorama all’intorno, i giardini cioè ben curati, le piante stupende e cosa strana, credo per quel posto, perfino una altalena.

Siede su una poltrona che mi da la sensazione di essere piut-tosto un trono, di pelle bianca con ampia spalliera.

Sulla fronte un tatuaggio, un fuoco, disegnato anche sulla tu-nica a sinistra, sul petto.

E’ abbastanza giallastro in volto, quindi abbastanza vecchio,

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con le orecchie a punta molto pronunciate e una benda sull’occhio destro: è orbo.

- Selex deve avere mire espansionistiche. Non penserà per caso di modificare l’attuale assetto politico dell’isola in un re-gno?

Krater, il suo fidato luogotenente, ci presenta.

- Eccellenza. Kratos di Konia e quattro piloti di astronavi e l’essere venuto dalla nuvola.

- E’ Men, corregge Kratos, Men e lo ripete più volte perché lo imprimano nella memoria.

Mi guarda con grande attenzione dai capelli alle scarpe e si lascia sfuggire:

- E’ solo più alto di noi, ma è ridicolo con quelle orecchie così piccole, e costui sarebbe colui che deve cambiare il nostro de-stino?

E sorride sarcastico!

- Benvenuti amici, in Selva Candida. Men sarà mio ospite, in questi giorni, voi troverete alloggio in caserma.

Poi mi prega di uscire e si ferma a parlare con Kratos e Krater

Kratos mi riferirà poi che Selex, nonostante il suo mecenati-smo è superstizioso. Non progetta nulla prima di aver consul-tato il Tavolo degli Indovini.

- Il che significa?

- Un viaggio lungo e disagevole.

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- Un viaggio lungo e disagevole? Ripeto, si, ma non ora, voglio riposare!

E allontanandomi mi dico:

- Che strano, una vasca e tanto grande nel suo studio. A che servirà?

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Capitolo 12

La dimora tenebrosa

Sulla più alta delle torri della Vittoria ammiro il panorama. Ho riposato per molto tempo su un comodo divano in una ca-mera attigua alla grande sala, quella che io chiamo scherzosa-mente sala del trono. Un sonno veramente ristoratore nono-stante entrasse dalla grande vetrata quel sole che non conosce tramonto. Ed ho sognato casa, familiari, amici. Un susseguirsi di immagini che, sveglio, non ricordo, ma che insinuano in me una certa malinconia.

Sono salito sulla Torre Maxima su consiglio del mio amico perché dice:

- Potrai vedere in lontananza l’isola delle visioni future. E’ la che si riunisce il Tavolo degli Indovini.

Un piccolo punto all’orizzonte, solo questo vedo, un piccolo punto all’orizzonte e poi passaggio di navi mercantili che cer-cano nei vari porti gli elementi necessari per costruire, vivere e difendersi.

E nel cielo voli di Gadigal alla ricerca di qualche disgraziato ftrap da divorare.

Non mi trattengo molto a contemplare un paesaggio che evoca ricordi perché dei bip prolungati, emessi dalla cintura che mi è stata offerta dall’amico Kratos mi ricorda l’impegno: quel viaggio lungo e disagiato che impensierisce tutti.

E’ la prima volta che incontreremo di persona gli Indovini, ed

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hanno paura.

I lupi scodinzolano. A me sembrano solo grossi cagnolini. Il mio, nero come la notte, cerca coccole. Mi chino e lo acca-rezzo lungamente. Poi gli salto sul dorso, ma non sono disin-volto come i miei amici, sono goffo, impacciato, impaurito. Ho paura di cadere. E quando metto i piedi sul molo del can-tiere navale mi lascio sfuggire un sospiro di sollievo:

- Grazie, mio Dio!

Ci imbarchiamo. Sono quattro i motoscafi a propulsione ato-mica a cui non sono in grado di dare un nome. Mi hanno as-sicurato che il viaggio per l’isola delle Visioni future, sarà breve, ma che si intende per breve?

Il silenzio è rotto solo dal fruscio dell’acqua poi neanche più questo, perché questi strani veicoli hanno messo piccole ali che consentono loro di volare sulle acque a tre metri di al-tezza. Ma il silenzio nasce in noi anche per la paura dell’ignoto.

E con ragione: l’isola ora, benché ancora lontana, suscita ter-rore. Una nebbia fitta l’avvolge. Uno strano odore è nell’aria e appesantisce il nostro respiro.

Anche i lupi che sono con noi danno segni di insofferenza: ululano, la testa verso l’alto, cercano una carezza rassicurante, strofinano la testa sulle nostre gambe e questo accresce la no-stra inquietudine.

Appena sbarcati un rapido sguardo basta per capire dove è la meta del nostro viaggio. E’ la montagna e i sentieri che por-tano sulla sommità sono angusti e pericolosi ed io che non ho mai avuto il gusto dell’avventura mi ritrovo, mio malgrado, a

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imprecare:

- Maledizione.

Credo che anche gli altri abbiano pensato la stessa cosa.

E’ assoluta l’assenza di vegetazione. Non c’è un albero, né un cespuglio, né ramo secco, né filo d’erba. Nulla. E’ desolazione e squallore. Solo fumo, ora rarefatto, ora denso, ora tenue, ora nebbia fitta e un odore pungente di zolfo.

Se fosse presente dante Alighieri non esiterebbe a chiamare questo luogo, l’inferno. E mentre saliamo per l’unico sentiero che sembra percorribile mi ritrovo a citare questi versi amati:

Per me si va nella città dolente,

per me si va nell’eterno dolore,

per me si va tra la perduta gente

perdete ogni speranza o voi che entrare.

Spero che la citazione sia esatta, ma se non lo fosse, i senti-menti miei sono come quelli di tutti: paura e angoscia.

E il volto dei miei compagni tradisce gli stessi sentimenti.

- Vivremo per raccontare?

Timorosi e guardinghi a stento ci accorgiamo che a metà strada, sulla destra, c’è una caverna e senza consultarci sen-tiamo che è l’ingresso che noi cerchiamo.

Nelle viscere della montagna è la dimora tenebrosa, la dimora degli Indovini.

- Tieni, può servire, e un oggetto è posto nelle mie mani

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dall’ottimo Kratos.

E’ quella che noi chiamiamo pila, fonte di luce nelle tenebre e in un certo senso conforto nell’ignoto.

Il buio è intenso. Servivano veramente le pile e illuminano una scala a chiocciola, di legno, robustissima che ci porta giù, sem-pre più giù dove una luce nasce, sempre più intensa cresce e ovunque si diffonde. Siamo nella dimora degli Indovini.

E’ una vasca circolare, una immensa piscina, l’acqua è calma ma sui bordi vediamo meravigliati tredici troni.

guarda, dico a Kratos, sono poltrone come quella che è nel palazzo di Selex.

Nessuno risponde, ma sono sorpresi quanto me.

Siamo scesi tutti sul bordo di questa grande vasca e non ci siamo ancora riavuti dallo stupore quando avvertiamo il ribol-lire dell’acqua e un vapore innalzarsi verso l’alto e dodici uo-mini (mi scuso per questo termine perché nel vocabolario non ho una parola per definire gli abitanti di questa dimensione e chiamarli esseri mi sembra molto dispregiativo) venir fuori dall’acqua e con incedere aristocratico sedersi sui troni.

Guardiamo e notiamo che i loro abiti non sono per niente bagnati.

Nel vederli è un sussulto: vestono come Selex.

La tunica è nera con ampie maniche, stretta nei fianchi da una fascia gialla abbastanza larga. All’orecchio sinistro l’orecchino, il fuoco è ricamato sulla tunica, a sinistra, sul petto e non vedo ma sono convinto che è tatuato anche sulla loro fronte.

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- E’ mai possibile che siano tutti orbi? Mormoro sottovoce notando la benda che copre l’occhio destro di ognuno?

Un nuovo ribollio dell’acqua nella vasca ci riporta alla realtà. In piedi gli Indovini accolgono colui che è il capo.

Esce dall’acqua, un cappuccio calato fin sopra gli occhi na-sconde a tutti il suo volto ma noi non dubitiamo e sottovoce indicandolo affermiamo convinti che è Selex.

- Dov’è? Chiede colui che è stato chiamato Magnus e che per noi è solo Selex.

- Dov’è l’uomo venuto dalla nuvola? E poi con voce che non ammette repliche soggiunge, mostrando la vasca

- Entri nel grande abisso.

- Nella vasca? Ma io non amo il mare, non so neanche nuo-tare. E con uno sguardo supplico Kratos di intervenire qua-lora la situazione probabilmente precipitasse. Entro e resto ritto in piedi, quasi avessi sotto i piedi un pavimento che cer-tamente non c’è.

L’acqua ribolle per alcuni minuti, poi si calma ed è nuova-mente il sereno. E’ ora diventata una grande e spessa lastra di ghiaccio e la guardo impietrito: vedo una stanza, la mia stanza. Sul letto dei miei genitori il mio doppio dorme e una donna lo strattona. Non sento ma capisco cosa dice: svegliati, alzati, è tardi: è mia madre.

Non più impaurito, ma commosso. Ecco come Selex si istrui-sce sull’architettura terrestre. Poi il ricordo della vasca nel suo studio: la vasca! La vasca! Essi viaggiano attraverso le vasche abissali.

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In preda a tali pensieri, a stento, sento Selex, ossia Magnus, dire:

- Benvenuto, venuto dalla nuvola, ti aspettavamo da anni.

L’atmosfera, ora è serena e così divento sfrontato:

- Spiegami, Magnus, perché siete tutti orbi?

- Non siamo orbi, se guardassimo con ambedue gli occhi sconvolgeremmo

La natura. Un vento impetuoso si eleverebbe spezzando an-che alberi giganteschi, le mura crollerebbero, la terra sussulte-rebbe e sarebbe una catastrofe universale. La distruzione della nostra dimensione.

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Capitolo 13

L’invasione

Il palazzo di sir Humtal è immerso nel verde. L’ingresso prin-cipale è raggiungibile solo mediante un sentieri tra alberi piut-tosto secolari e che proiettano sul viandante, spesso, un’om-bra riposante.

Intorno al palazzo si possono ammirare i prati verdi punteg-giati da fiori rossi simili ai nostri papaveri, aiuole ben curate e recintate, fontanelle un po’ dovunque e siepi fitte tagliate ad una certa altezza. Stile molto inglese.

Sotto una robusta quercia, alla sua ombra, riposano sir Umtal e Aloj IV che dimostra evidenti segni di depressione. Ignora quanto avviene lontano e si duole perché si sente completa-mente abbandonato a un crudele destino.

Sir Umtal che è un perfetto gentiluomo (scusate la parola, ma abituatevi al lessico) cerca di distrarre l’ospite e amico propo-nendogli una partita a scacchi, visto che a pochi passi dai due è visibile una preziosa scacchiera di marmo che sembra incap-sulata nel terreno. Non pensate che sia identica alla nostra.

Ampia più della nostra ospita 32 pedine per avversario su un campo a quadretti di tre colori, bianco, nero e giallo. Certa-mente capirete che i pezzi più importanti non possono essere il re o la regina visto che questa gente non ha mai avuto espe-rienza di regni. E allora non sarete sorpresi conoscendo che il pezzo più importante è il governatore e l’altro pezzo è il pa-lazzo. Se riesci, nella partita, a separare i due pezzi sei il vinci-tore.

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E Aloj pensa che ciò nella vita è accaduto a lui. E’ dunque un perdente.

Gli altri pezzi sono arcieri che si possono muovere in tutte le direzioni, i frombolieri che possono fare un passo alla volta, e tre alberi chiamati gli alberi del sostegno perché la pedina che sosta nelle sue vicinanze non può essere eliminata.

E allora buon gioco, quando un bip della scacchiera avverte sir Umtal che c’è qualcuno in linea.

- Abbiamo avvistato astronavi, pensiamo, nemiche e saranno sulla nostra città fra mezz’ora circa.

Uno scatto e sir Umtal veloce si alza

- Spostati, ti prego

E se Aloj non fosse stato abbastanza svelto si sarebbe trovato poco distante a terra.

La scacchiera si è mossa in orizzontale rivelando una discesa nel terreno. E’ il bunker del comando.

E questo sarebbe il contadino arretrato? Pensa Aloj sempre più affascinato da Umtal che non aveva mai apprezzato troppo.

- Troveranno pane per i denti, te lo giuro, amico mio, non temere, troveranno pane per i denti.

Acceso uno schermo, al collaboratore che appare chiede:

- Siete pronti?

- Certo.

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- E allora andate.

Quando le astronavi di Konia sorvolano il cielo di Laxios oscurandolo con la presenza di mille arcieri con ali meccani-che, a pochi chilometri di distanza, lastre di terreno slittano e centinaia di Quigans alati cavalcati da frombolieri con biglie micidiali, si alzano in volo verso di essi, ingaggiando una furi-bonda battaglia che vede il nemico completamente distrutto e le astronavi ritornare precipitosamente alla base.

Sul terreno, ovunque grida di dolore. Tra i sopravvissuti gi-rano i guaritori portando a tutti uno strano ed efficace rime-dio.

Un pugno al cielo è l’evidente soddisfazione di sir Umtal.

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Capitolo 14

L’ira di Ossian

Chi glielo dirà? E’ la domanda che inquieta tutti, ben cono-scendo il carattere dell’usurpatore.

Ossian è grasso, molto grasso e flaccido, un alito puzzolente. Lentissimo nei movimenti. Non ha mai ispirato simpatia ad alcuno.

Come sia riuscito a mettere su questo colpo di stato è un mi-stero per tutti!.

Con quali promesse ha adescato i complici. Come ha ricattato il supremo comandante delle forze armate?

Scende lentamente per il maestoso scalone e sorride pensando sicuramente al successo della spedizione. Non immagina nep-pure lontanamente che è stato un fallimento.

E quando nel chiuso del suo studio gli recheranno la tre-menda notizia è un picchiare selvaggio sulla scrivania, un gri-dare da ossesso, un cumulo di parolacce e minacce di puni-zioni future.

Poi è la calma ed è peggiore della tempesta. Il comandante è destituito. Al suo posto subentra l’arcigno ed antipatico quasi quanto lui, Hamnet. Poi si elabora un piano.

- Ai cittadini si conceda l’astensione da ogni lavoro per un tempo determinato e sia dia ad ognuno di essi doppia razione di vinooh per ringraziarceli.

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- La doppia razione è proibita per legge, obietta un temerario.

Uno sguardo quasi lo fulmina:

- La legge sono io.

- Preparate l’Esaltazione! Siano invitati tutti ed estendete l’in-vito ai villaggi vicini.

- Ma per l’esaltazione necessario mostrare nello stadio Aloj prigioniero, bisbiglia timoroso un altro.

- Io sono la legge, ripete sibilando e furioso il despota.

- Nel frattempo sorvegliate tutti i punti strategici della città perché non abbiamo ad aver sorprese. E guai a chi mi delude. Andate.

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Capitolo 15

Piani di guerra

Nello studio ovale, così Selex ha chiamato il salone per le Gravi Decisioni, mosso probabilmente dall’aver visto, in quelle famose vasche, qualcosa di terrestre, (la Casa Bianca?) siamo riuniti davanti ad una mappa dettagliata dell’isola.

Sulle città una targhetta col nome del rispettivo governatore, su Konia c’è ancora la scritta: Aloj IV.

Ci sono anch’io, invitato personalmente d Selex. Siamo in at-tesa di Kratos, di Maori, il sirenetto, così lo chiamo per la sua bella voce, e degli altri piloti.

E’ presente tutto lo stato maggiore di Selva Candida, ed un cameriere che porge a tutti un liquorino giallo, secco ma gu-stoso.

- Finalmente! E così che Selex postilla l’ingresso dei ritarda-tari.

- Scusateci, un imprevisto! Sulla terra avrebbero detto: il traf-fico.

La discussione è animata. Ognuno presenta il proprio piano. Ascolto in silenzio, non ho esperienza di guerre e non sono uno statista. Cosa potrei mai suggerire?

Eppure suggerisco, parlo piano con voce ferma, non emozio-nata, con concetti chiari e non equivocabili.

Un manipolo di volontari si introduca di nascosto in Konia e

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distrugga la grande taverna e il deposito di vinooh. Nello stesso tempo un blocco navale al porto di Konia e l’assedio alle sue mura dovrebbe impedire ogni rifornimento di questo elisir vitale per tutti.

Quando tutti saranno particolarmente indeboliti ci sarà il grande assalto. Non credo che opporranno resistenza e noi conquisteremo la città senza eccessive perdite.

Il silenzio scende sui presenti, poi l’assenso di tutti e il sorriso soddisfatto di Selex. Il piano è stato approvato, bisogna solo attuarlo.

Per i volontari non c’è alcun dubbio. Selex indica, e così ac-cade anche sulla terra, me, Maori, Kratos e gli altri piloti e mette a nostra disposizione cento arcieri.

- Troppi, bastano dieci purché i migliori. Entreremo in Konia attraversando la Grande Cava di cristallo che è comune a tutte le città.

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Capitolo 16

La Grande Cava

Sui lupi divoriamo i pochi chilometri che ci separano dall’in-gresso della cava. Al mio che chiamo Nerone, perché nero come la notte senza stelle, sono molto affezionato.

Abbiamo deposto la divisa militare per indossare la veste dell’operaio, quella tunica bianca che termina sulle ginocchia pertanto siamo armati solo del nostro coraggio e della nostra intelligenza. Non è stato possibile nascondere nell’abito al-cuna arma a parte le biglie, potentissimi quanto piccolissimi ordigni che serviranno per distruggere la Grande Taverna e che portiamo, in un sacchetto di pelle, appeso alla cintura del vestito.

All’ingresso della Grande Cava ci accoglie un dirigente, sim-patico ed espansivo.

- Benvenuti! È il primo giorno di lavoro, vero?

- Come lo ha capito?

- Dalla vostra aria imbambolata, dalla meraviglia che è nei vo-stri occhi nel guardare, da un certo imbarazzo nell’avvici-narmi.

- Perbacco, mi lascio sfuggire, e poi sottovoce, speriamo che non abbia notato altro.

- Coraggio il lavoro è pesante, ma nella giornata ci sono mo-menti di riposo per tutti. Recatevi in quel corridoio, il terzo sulla sinistra, c’è il vostro spogliatoio. Indossate la tuta termica

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perché in profondità c’è freddo, la maschera di amianto per respirare in quelle nubi di pulviscolo, la lanterna aerea perché illumini qualche cunicolo non ancora servito da elettricità e il piccone per rinsaldare le ossa.

E ridendo per questa freddura ci lascia per un altro impegno.

- La maschera di amianto?

Sulla terra l’amianto è mortale e sono perplesso se metterla o meno, poi pensando che qui siamo in una dimensione diversa niente vieta che sia invece di aiuto.

Nello spogliatoio siamo tutti completamente vestiti, tuta e maschera ci rendono tutti uguali. Potremo dunque camminare indisturbati, ma se ci dovessimo separare come faremmo a riconoscerci? E Maori suggerisce:

- Le abitudini qui sono secolari. La punta del copricapo per tutti è sempre sistemata sulla spalla sinistra, noi la terremo sulla destra.

- Sei furbo, amico, bravo!

- Ritorniamo nella hall e all’amico di prima chiediamo:

- Ed ora?

- Di dove siete?

- Di Konia

- Servitevi di quell’ascensore. Al terzo piano sotto il livello c’è una grande sala con più cunicoli. Troverete quello che porta al settore di Konia, imboccatelo e poi buon lavoro.

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E quando finalmente, seguendo le indicazioni avute, imboc-chiamo il cunicolo che porta all’area di Konia, troviamo dei binari e un vagone sul quale saliamo.

Corre veloce, poi rallenta perché i binari sono diventati aerei.

- Non guardate giù. Potremmo cadere!

Troppo tardi, io almeno, ho già visto.

In basso a 500 metri c’è una spaventosa caverna e operai ma-scherati intenti a spicconare pareti, a staccare massi che non sono per niente luccicanti e a caricarli su vagoni che spari-ranno in altri cunicoli.

La visione è dantesca. L’inferno dei vivi. E’ certamente non è il momento di spiegare loro cosa sia l’inferno per noi credenti.

finalmente. Un senso di contentezza mi pervade: il vagone è in alto che ritorna alla base ed io con i piedi sulla terra ferma.

Fortuna aiutaci.

La sala della Grande Trasformazione è simile a quella vista nella Grande Foresta. Il principio è identico: introduci le im-pure rocce cristalline nella macchina e da questa usciranno, dopo aver subito un lavaggio energetico, dall’altra parte diret-tamente nei magazzini di Konia, come cristalli purissimi, vanto dell’isola.

- Amico, ti andrebbe di guadagnare qualche moneta d’oro, sussurra sottovoce Kratos, prendendo per mano uno degli ad-detti ai forni e conducendolo poco lontano perché nessuno senta la conversazione.

- Certo, guadagnare un extra piace a tutti (pure qua?)

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- Bene, abbiamo un gran desiderio di essere nello stadio per tempo. Desideriamo assistere all’Esaltazione del nuovo ama-bile governatore.

- Una strada c’è e non è neanche pericolosa. Ma il compenso deve essere elevato perché se mi scoprono vengo terribil-mente punito.

- Ti daremo quanto vuoi, mente Maori, sapendo bene che non abbiamo oro.

- Durante la pausa, la seconda, il forno viene spento perché resta incustodito. E’ il momento per entrarci e carponi stri-sciare. Poche decine di metri e sarete nei magazzini di Konia.

- E ora, l’oro.

- Non qui, però, davanti a tutti, trova un luogo tranquillo dove nessuno ci veda, aggiunge Maori.

-Venite con me.

Uno stanzino in un angolo quasi buio, due pugni bene asse-stati e il nostro amico piomba nel mondo dei sogni.

- Ci dovrebbe ringraziare, postilla il sirenetto, grazie a noi può riposare parecchio. E ora al forno.

- Ragazzi, piano e carponi e speriamo, aggiungo io, che du-rante la permanenza in questa macchina diabolica nessuno pensi di metterla in moto.

Un brivido per la schiena, inorridisco al pensiero.

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Capitolo 17

Nel grande Stadio

- Amici, svelti, comanda Kratos, togliete velocemente tute e maschere. Nel magazzino ci sono sorveglianti armati dalla mira veloce. Siamo a Konia, siamo conosciuti e siamo consi-derati traditori.

- Con prontezza ci svestiamo e con l’abito dei comuni operai, fortunati per non aver incontrato una ronda armata, siamo usciti a rivedere le stelle.

(Pardon, padre Dante, il sole).

Le strade non sono deserte, c’è gente che da ogni parte si reca allo stadio per l’Esaltazione di Ossian, molti spontaneamente perché certi avvenimenti vanno vissuti, altri perché velata-mente minacciati.

- Bisogna essere svelti nel minare la Grande Taverna e molto guardinghi perché se ci sorprendono non avremo neanche il tempo di raccontare come siamo qui.

E mentre un fiume di gente si reca nello stadio per occupare il miglior posto possibile, noi, divisi in due gruppetti, tenendo ben stretto il sacchetto con le biglie, incominciamo a percor-rere il perimetro esterno della Grande taverna, seminando “fiori” nelle piante ornamentali poste nelle sue adiacenze o sui bordi delle finestre a piano terra.

Finita la semina, così l’ha chiamata il capo, ci ritroveremo all’ingresso dell’Accademia delle Scienze che è un posto abi-tualmente poco frequentato. Le scienze non hanno mai avuto

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molti simpatizzanti.

Lo stadio è stracolmo. In questa strana dimensione tutti gli edifici sono immensi. Sugli spalti gente che parla attenta a non lasciarsi andare a particolari commenti. Potrebbero essere presenti dei delatori e nessuno ha voglia di inimicarsi il ditta-tore.

Un’ovazione accoglie la sfilata dei militari.

La coorte alfa, i frombolieri, quelli di assalto, che agitano con un certo ritmo la fionda micidiale, mentre con grande perizia sollevano in alto e poi riprendono la biglia micidiale. Sono fieri della loro abilità e innalzano la loro insegna, una bandiera con tre biglie su campo bianco.

Segue la coorte degli opliti, e anch’essi incassano un’ovazione di tripudio.

La presenza degli spadaccini infiamma lo stadio. Passo caden-zato e spada in alto. E’ poi la volta delle armi belliche. Ma lo stadio minaccia di crollare veramente per l’esultanza quando appaiono gli arcieri che si dispongono lungo il perimetro cir-colare dell’arena.

E poi, lui, il magnifico, Ossian, il megalomane, su una car-rozza bianca tirata da otto possenti horsemellis anch’essi bian-chi (dove li avrà trovati?).

E mentre gira per lo stadio riscuotendo grida di gioia, saluti ed auguri e battito di mani, ad un solo ordine gli arcieri tutti scoccano verso l’alto uno strano dardo. Esplodono nel cielo azzurro ed è una pioggia di gocce colorate che entusiasma tutti e che distrae anche noi intenti alla semina dei nostri fiori. Guardando in alto questa fantasmagoria di colori ricorda con

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nostalgia i fuochi d’artificio della terra mia.

La nostra semina è finita, i fiori sono stati piazzati dovunque, siamo sui gradini dell’Accademia delle Scienze in attesa che arrivi l’altro manipolo di seminatori.

- Siete stati molto più lenti di noi, amici.

- Per forza, a noi è toccato il lato più grande.

- Siete sempre i soliti brontoloni, dico ridendo e ora, do-mando, perché lo ignoro, come faremo a farli brillare.

- Così, guarda, dice Kratos.

E scoprendosi il capo insieme agli altri, e l’ho fatto anch’io per leggere nella loro mente, danno in sincronia un calcio nell’aria, pensando: attenzione, taverna che crolla.

E allora è l’inferno.

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Capitolo 18

L’esplosione

Il boato è enorme ed è l’Apocalisse.

In un istante la Grande Taverna è crollata espandendo nell’aria una nube di fumo denso e di detriti, quasi proiettili vaganti.

L’onda magnetica che la sua caduta ha emesso si ripercuote su tutti gli edifici vicini provocando sussulti tali da intimorirti.

Noi ci siamo rifugiati velocemente nell’Accademia delle Scienze dove c’è un trambusto tale che nessuno ci nota. Porte e finestre sono ermeticamente chiuse per vietare l’ingresso alla nebbia micidiale.

I camici che prontamente abbiamo indossato erano appesi ad una parete per quelli del secondo turno e la mascherina per la bocca ci hanno rimesso nell’anonimato.

Lo stadio è in subbuglio. L’esplosione li ha colti mentre guar-davano i fuochi d’artificio nei cieli e Ossian scendeva dalla carrozza per recarsi nella tribuna d’onore.

Fuggono ovunque impauriti, terrorizzati, avvolti da una neb-bia che non ti lascia vedere, forse, al di là del naso, attenti a non essere colpiti da detriti vaganti, deve essere crollata la Grande Taverna, urla qualcuno.

Le uscite sono prese d’assalto. Si cade e si è calpestati.

Ossian per il peso non riesce a muoversi ed è rimasto solo

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senza la scorta. Chiama, ma inutilmente, finché è zittito con una scarica di pugni che lo lascia a terra tramortito.

- Vigliacco!

Non sapremo mai il nome del vendicatore solitario.

Sono ora tutti o quasi tutti per la strada. Rifiutano di recarsi nelle proprie abitazioni e sotto questo aspetto ricordano il comportamento degli umani in casi simili.

Improvvisamente qualcosa li sorprende e credo per essi inim-maginabile: dalle crepe nel terreno, adiacente le rovine della grande taverna fuoriesce un liquido rosso, piccoli rivi che poco alla volta formeranno delle pozzanghere colorate, infine è quasi un mare che inonda tutta la città.

E’ vinooh!

E mentre essi lamentano il disastro, le sirene nel porto annun-ciano che navi nemiche si avvicinano per un blocco navale e sulle torri le campane avvertono che un esercito invasore as-sedia la città.

E noi nell’Accademia, gioiosi, aspettiamo ancora per uscire e mescolarci alla gente.

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Capitolo 19

Konia liberata

Dopo quattro giorni di assedio, Konia è ormai libera. Lo spet-tacolo che si presenta agli occhi dell’esercito liberatore è de-primente, ovunque, sugli spalti, per le strade, nelle case, gente che muore perché enormemente indebolita. E anche i miei amici rinchiusi ancora nell’Accademia delle Scienze, avreb-bero fatto la medesima fine se non fosse intervenuto l’esercito di Selex, al quale un manipolo stanco e avvilito di soldati Ko-niani, allo stremo, ha aperto le porte della città.

I guaritori girano ristorando gli avviliti koniani con generosi sorsi di vinooh, i soldati sono disarmati per paura che riprese le forze possano difendersi, Ossian è stato sollevato di peso e trasportato in caserma dove è sorvegliato a vista, i nostri hanno di nuovo indossato la divisa.

E lentamente la vita riprende.

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Capitolo 20

Il banchetto di ringraziamento

Nel salone del Grande Ristoro dove il governatore pranza con gli ospiti illustri, tutto è pronto per un pranzo che negli intenti di Aloj IV deve rimanere insuperato.

A me è stato assegnato il posto d’onore, a destra del governa-tore e questo mi infastidisce, non amo gli onori.

Sorride Selex ma quella benda sull’occhio rende sempre strano il suo sorriso. Sir Umtal alza un bicchiere di vinooh e inneggia alla vittoria, Kratos è assente, preferisce il riposo, Maori è allegro perché spera in una promozione per il valore sul campo, ed io seggo sereno e l’unica cosa che veramente mi interessa è sapere cosa mangeremo. Non vorrei aver sor-prese e quando il piatto mi è posto davanti esclamo a voce alta

- E’ suss, è suss, mio Dio ti ringrazio.

- Dio? Cosa è Dio?

- Un giorno affronteremo il problema di Dio, ma non ora, lasciatemi mangiare e ingoio voracemente, uno dopo l’altro, i pezzetti di suss che sono nel piatto e poi…

- Posso averne dell’altro? Grazie.

Calmati i morsi della fame con varie leccornie si intrecciano i dialoghi e diventano interessanti.

Improvvisamente sento nell’intimo l’illuminazione, un’idea

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che è certezza e una gioia mi pervade tutto. Solo Budda po-trebbe capirmi.

Questi sono tristi perché non hanno una donna.

- La donna? Cos’è la donna, mi interroga Maori. Gli altri si guardano esterrefatti perché non capiscono di cosa parli. Mi sento imbarazzato nel rispondere e incapace di narrare la bel-lezza di quest’aiuto che il Signore ha dato all’uomo perché non si senta solo.

- E guardo Selex. Sono certo che è l’unico a poter capire e il suo sguardo mi dice che conviene con me.

- La donna.

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Capitolo 21

La Casa della Vita

Ho deciso di visitare la Casa della Vita e Maori seppure rilut-tante ha accettato di accompagnarmi ma chiede che si faccia con grande prudenza. Qualora venissimo scoperti egli sarebbe severamente punito. Al cospetto degli amici ufficiali, nel cor-tile della caserma, gli appunterebbero sulla schiena, denudata, la medaglia del disonore che appiccicata alla pelle comunica al corpo periodiche scariche elettriche che producono dolore.

Insieme pensiamo al come entrare, visto che un drappello di spadaccini sorveglia il suo ingresso impedendo a chiunque di accedervi.

- Si dice, e lo dice sottovoce, molto sottovoce, quasi che qual-cuno potesse sentire, che il palazzo del governatore comuni-chi con la Casa della Vita mediante sotterranei. Speriamo che siano voci fondate.

E lo sono: siamo entrati furtivamente nell’ascensore e siamo scesi al terzo piano, nelle profondità, con mio particolare di-sagio per la claustrofobia che mi affligge da sempre.

Ecco ora davanti a noi un budello fiocamente illuminato e che sembra lungo, molto lungo, interminabile.

Camminare stanca e vorrei sedermi. Non mi resta che appog-giarmi al muro per qualche minuto e riposare. Maori non da segni di stanchezza, la vita militare lo ha fortificato.

Il cigolio di una porta che si apre in lontananza, nel silenzio

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tombale, sembra assordante e la luce che in quel punto si raf-forza ti inducono a fermarti.

- Svelto, nascondiamoci.

- E dove?

Non ci resta che distenderci a terra sperando che gli improv-visi e inopportuni visitatori non ci sorprendano. Cosa po-trebbe accaderci?

Hanno con se pesantissime casse che depongono lungo le pa-reti di questo triste budello, poi di nuovo il cigolio della porta che si chiude ci dice che sono andati via e che ti puoi alzare per riprendere il cammino e la tensione che era in te si è ac-quietata.

In prossimità della porta sentiamo l’esigenza di aprirla, uno spiraglio che ci conceda di vedere oltre, ed è un sentiero che porta ad una spiaggia e Maori aggiunge:

- E’ la spiaggia del Piacevole Approdo.

Le casse attirano la nostra attenzione.

- Maori, apriamone una.

La cassa non è sigillata ma il coperchio è pesante. Tuttavia, in due, la solleviamo.

- Pagnotte? Esclamiamo sorpresi. Tutte eguali, della stessa mi-sura, piccole, con strani segni.

Il disagio è in me.

Un’altra, un’altra ancora. Tutte contengono queste strane pa-gnotte. Cerchiamo un’iscrizione che ci parli e su tutte le casse

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si legge: “Pani della vita”.

Ora sono maggiormente interessato a scoprire la verità che è depositata in Matrix, la Casa della Vita.

Il salone è ampio e bene illuminato. Sulle pareti vediamo tanti obloo quadrangolari, alcuni spenti, altri illuminati. E c’è gente che lavora, in camici lindi.

La serenità dell’accoglienza ci sorprende. Ma anch’essi sono sorpresi per la nostra presenza.

- Salve, è la prima volta che i nostri fornitori salgono nel no-stro efficientissimo laboratorio.

- Siamo i tecnici, invento sul momento, venuti per una revi-sione degli impianti.

Ottimo, c’è uno solo, quello laggiù, che mette molto più delle otto ore per portare a compimento il prodotto.

Guarderemo dopo, ora vorrei dare un’occhiata in giro e con decisione mi avvicino agli sportelli illuminati e per poco non svengo. Maori, si illumina, credo che incominci a ricordare.

In queste macchine che l’addetto ha chiamato “forni uterini” ci sono esseri come Maori, più o meno grandi, ma già terribil-mente formati, occhi, orecchi, naso, tutto insomma. Nudi completamente. E qualcuno muove anche gli occhi interes-sato a noi che attraverso il vetro lo guardiamo. Un bip e lo sportello è aperto. Il giovane scende e l’addetto severo dice:

- Subito, nello spogliatoio a vestirti, poi presentati all’anagrafe per avere un nome e un numero. Fuori in prossimità della bandiera con l’emblema di Konia, ti sarà detto qual è la tua mansione. E il giovincello lieto scompare all’orizzonte.

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Tutto questo ci ha sconvolto.

Ogni forno, accanto allo sportello, ha una iscrizione e una leva che mi incuriosisce. Non capisco la lingua, ma tre colori atti-rano la mia attenzione: il celeste, il rosa e il bianco. E nel giro di ispezione che facciamo seguiti dal simpatico direttore del reparto, noto che tutte le leve sono ferme sull’azzurro.

- Ma non avete mai provato a metterne una sul rosa? Chiedo.

- Mai, abbiamo paura di rovinare il meccanismo.

Con fermezza ordino che si introducano nei forni spenti venti pani della vita, per dieci metto la leva sull’azzurro e per dieci sul rosa, tra le perplessità del direttore che teme guai.

E quando il bip, ripetuto, comunica che il prodotto è pronto apriamo gli sportelli e facciamo scendere i nuovi nati. Ed è emozione grande per tutti: ho creato la donna.

I nuovi nati, nudi ancora, si guardano. Non dico dove guar-dano i maschietti, né dico dove guarda sconvolto il direttore, né dove guarda illuminato nel viso Maori, né dove guardo io, fiero di me.

E dove guardano le femminucce, arrossendo?

- Presto agli spogliatoi, vestitevi e poi presentatevi all’ana-grafe, nel piano sottostante e al collega per telefono, l’addetto dice:

- Fra i nati ci sono donne. Accanto al loro numero d’ordine aggiungi una D.

- Le donne? Che è questa novità, sei forse ubriaco?

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- Si, credo di esserlo.

All’ingresso i militari di guardia, al vedere i nuovi arrivati, stra-buzzano gli occhi e qualcuno si muove e si avvicina. Anzi c’è pure qualcuno che temerariamente tocca e riceve uno schiaffo. E la risata, allegra per la prima volta, è corale.

- Così impari, è Maori che postilla, particolarmente adirato. Credo che Cupido abbia già scoccato le sue frecce. E bisogna trattenerli perché non litighi con lo spadaccino schiaffeggiato.

- Grazie, mormora la ragazza, arrossendo. Io mi chiamo Ak-nesia.

- Ed io Maori, sono pilota di astronavi.

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Capitolo 22

Il trionfo

Sulla loggia esterna del palazzo del governatore c’è Aloj IV, io, Man, l’uomo venuto dalla nuvola, di cui gli indovini ave-vano predetto che avrebbe portato un gran dono agli abitanti di questa dimensione, i collaboratori del governatore e quanti contano in questa città.

E salutiamo la gente che numerosa si è radunata per inneg-giare al sottoscritto ma soprattutto per vedere le ragazze che dalla balconata ricambiano, come le nostre attricette, saluti e applausi.

- Speriamo che qualcuna, dica si a questo povero vecchio, so-spira Kratos.

- Aknesia mi ha promesso che questa sera uscirà con me, dice lieto Maori.

- Governatrice o governatora? Come dovranno chiamare la mia futura signora, domanda Aloj.

- Una donna per tutti chiede la folla ad una sola voce ed io li interrompo chiarendo:

- No, una donna per tutti, no, non è corretto, bisogna chie-dere: una donna per ogni uomo.

- E tu cosa farai? È uno sconosciuto che domanda.

- E’ vero, che farai? E’ Aloj che lo chiede.

Resto! Ho creato la donna, ora devo creare la notte!

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- Cos’è la notte?

- E’ il vestito della donna.

- Non capisco, aggiunge uno dei presenti.

- Anch’io, dice un altro.

Siete abbastanza giovani per capire e sorridendo mi allontano.

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Capitolo 23

La notte

Forse un giorno vi racconterò anche come inventai la notte.