tecniche per la gestione della comunicazione interpersonale

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FIADEL – CISAL Seminario di Aggiornamento La persona dell’insegnante come risorsa educativa S. Benedetto del Tronto - settembre 2002 - Tecniche per la Gestione della Comunicazione Interpersonale Dispense del Corso a cura del Dr. Angelo R. Pennella INDICE 1. La Comunicazione 2. Segnale, Informazione e Comunicazione 3. La struttura della Comunicazione 4. Il carattere circolare della Comunicazione 5. I fattori di disturbo della Comunicazione 6. La pragmatica della Comunicazione 7. L’ascolto attivo Schede : a) la comunicazione interpersonale; b) problemi comportamentali ed apprendimento c) come litigare per stare meglio insieme

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La persona dell'insegnante come risorsa educativa

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FIADEL – CISAL

Seminario di Aggiornamento

La persona dell’insegnante come risorsa educativa

S. Benedetto del Tronto - settembre 2002 -

Tecniche per la Gestione della

Comunicazione Interpersonale

Dispense del Corso a cura del

Dr. Angelo R. Pennella

I N D I C E

1. La Comunicazione

2. Segnale, Informazione e Comunicazione

3. La struttura della Comunicazione

4. Il carattere circolare della Comunicazione

5. I fattori di disturbo della Comunicazione

6. La pragmatica della Comunicazione

7. L’ascolto attivo

Schede: a) la comunicazione interpersonale;

b) problemi comportamentali ed apprendimento

c) come litigare per stare meglio insieme

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1 . La Comuni caz i one

“Il nostro mondo non è costituito, in verità, dalle cose quanto piuttosto dalle nostre prospettive sulle cose [...] Ad esempio, il bosco è per il contadino un insieme di alberi, per il cacciatore una riserva di caccia, per il perseguitato un rifugio, per il viandante un posto d’ombra, per il bambino un qualche cosa d’immenso e misterioso nel quale potrebbe smarrirsi.” (Petermann, 1938)

Definiamo “comunicazione” lo scambio di informazioni tra due o più entità in grado di emettere e ricevere segnali, intendendo per “scambio” un processo interattivo in cui è presente un meccanismo di feed-back o retroazione (Villamira, 1995).

I caratteri fondamentali della comunicazione possono essere dunque identificati nei seguenti punti:

• la comunicazione si fonda sullo scambio e non può esistere in assenza di un feedback;

• il segnale deve essere percettibile ma anche percepito dal ricevente;

• il segnale deve essere interpretato dal ricevente come una informazione inviata da colui (o coloro) che hanno emesso la comunicazione;

• le funzioni di emittente e ricevente devono essere interscambiabili.

Una seconda possibile definizione di comunicazione deriva dall’etimologia: in latino il verbo communicare significa infatti “mettere in comune” ed in questa accezione si considera il processo comunicativo come un lavoro di costruzione sociale della realtà attraverso il quale gli esseri umani condividono il significato da attribuire ad oggetti, eventi, situazioni, ecc.

2 . S egna l e , i n fo rmaz i one e comun i caz i one

Non tutti i segnali emessi dall’emittente acquistano il carattere di informazioni per il ricevente. Solo i segnali che vengono percepiti e a cui si attribuisce un significato sono infatti considerati dal ricevente come delle vere e proprie informazioni in funzione delle quali modulare la propria risposta.

Quanto detto ci porta a distinguere il concetto di comunicazione da quello di informazione. A differenza di quanto proposto da Watzaliwick, Beavin e Jackson (1971) – il cui assioma relativo all’impossibilità di non-comunicare tende invece a sovrapporre il significato di questi due termini – ci sembra infatti più interessante pensare alla comunicazione come ad un concetto in qualche modo sovraordinato rispetto a quello di informazione.

La comunicazione, infatti, non solo seleziona ma può anche eventualmente manipolare l’informazione trasmessa. Parlando “si può negare una informazione tacendo, o la si può dissimulare parlando di cose diverse, e naturalmente si può mentire. L’informazione è quindi informazione mediata dalla comunicazione” (Viaro, Leonardi 1990). E’ d’altra parte possibile constatare che le informazioni che vengono trasmesse nel corso di una interazione non coincidono necessariamente con le informazioni che possono essere ricavate dalla comunicazione stessa. Se una persona ci comunica, ad esempio, di aver sempre sofferto per il proprio ruolo di primogenita, non ci dice solo qualcosa a proposito di se stessa e del proprio vissuto, ma ci fornisce anche una informazione rispetto alla composizione del nucleo familiare di origine. In sostanza, la differenza tra informazione e comunicazione risiede nel fatto che, mentre quest’ultima “è legata all’idea di qualche cosa che si trasmette, si dà e si riceve [...] l’informazione è sì qualcosa che si trasmette, si dà e si riceve ma è anche e prima di tutto qualcosa che si coglie e si ricava” (Viaro, Leonardi 1990).

In questo senso la nostra attenzione non può rivolgersi solo all’emittente dell’informazione oppure a colui che la riceve (o che ritiene di aver ricevuto una determinata informazione), ma deve indirizzarsi anche sul processo di codificazione e di decodificazione che tanto l’emittente (E) quanto il ricevente (R) mettono in atto nel momento in cui attribuiscono un valore informativo alle comunicazioni dell'altro.

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3 . La s t ru ttura de l l a comun i caz i one

La comunicazione può essere considerata una complessa sequenza di interazioni collocabili su livelli diversi (verbale, linguistico, mimico, posturale, ecc.). A questo proposito c’è da sottolineare che i singoli episodi comunicativi che avvengono all’interno di un colloquio non esauriscono la complessità di questa particolare dinamica sociale. Il colloquio, infatti, in quanto processo di interazione, si fonda in realtà su tutta una serie di elementi che vanno dalle caratteristiche fisiche del luogo in cui il colloquio stesso avviene, a quelli che sono gli atteggiamenti, le credenze, le finalità, le motivazioni, i bisogni degli individui che vi partecipano, elementi senza i quali non sarebbe possibile lo sviluppo stesso del colloquio e che - in senso molto generale - rientrano in quello che indichiamo con il termine di contesto.

Gli elementi necessari perché si sviluppi una comunicazione sono cinque:

1. Emittente (E)

2. Codice e Processo di Codificazione (cd)

3. Canale (C)

4. Codice e Processo di Decodificazione (dc)

5. Ricevente (R)

Sia pure in modo assolutamente parziale, e perciò stesso discutibile, il carattere processuale del colloquio può essere sintetizzato nel diagramma posto qui di seguito, che arricchisce di ulteriori aspetti i cinque elementi appena segnalati.

Emittente Trasmissione Ricezione Ricevente

Informazione di ritorno

Processo diCodificazione

Processo diDecodificazione

Interpretazionee comprensione

Anche in funzione dell’immagine che si ha del ricevente

(effetto edipico della predizione, effetto alone, ecc.)

Anche in funzione della motivazione al colloquioda parte del ricevente

(intrinseca - estrinseca)

Conoscenza del codice

Che si caratterizza siaper il canale utilizzato

(verbale, mimico, gestuale,posturale, ecc.) che per

i fenomeni di rumore presentinel setting

Anche in funzione dell’immagine e

delle aspettative chesi hanno nei confronti

dell’emittente

Come si è detto, si utilizzano i termini di emittente e di ricevente per indicare i due soggetti in interazione: mentre al primo si attribuisce la funzione di fonte del segnale, al secondo si riconosce il compito di percepire ed interpretare, tra la grande massa di segnali che gli provengono, quelli a cui attribuire il significato di informazioni.

In realtà - all’interno di un colloquio vis a vis o di una riunione di gruppo - è possibile separare il ruolo di emittente da quello complementare di ricevente solo nel caso in cui si decida di prendere in esame solo un livello comunicativo. Nel caso, ad esempio, della comunicazione linguistica, risulta in effetti possibile collocare i singoli atti comunicativi all’interno di una sequenza, sulla base della quale attribuire - di volta in volta e all’uno o all’altro dei soggetti - il ruolo di emittente o ricevente dell’informazione. Nel momento stesso in cui si affianchi però a questo un secondo livello o canale comunicativo, questa attribuzione risulta praticamente impossibile. Si pensi infatti al canale mimico o a quello posturale: mentre uno dei due soggetti è impegnato come emittente di una comunicazione linguistica, l’altro può manifestare con il viso la sua sorpresa, il suo disappunto, la sua partecipazione o il suo disinteresse, ma può anche accavallare le gambe, distendere le braccia, può mettere cioè in atto una serie di comunicazioni non verbali. Tutto ciò fornisce però anche il ricevente la qualifica di emittente di una comunicazione, in modo perfettamente analogo a quanto accade per il suo interlocutore relativamente al livello linguistico.

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Se si colloca l’emittente - considerato come fonte del segnale - nel primo blocco del diagramma, il secondo non può che essere costituito dal processo di codificazione (il suo omologo è identificabile nel complementare processo di decodificazione attuato dal ricevente), processo che viene messo in atto ogniqualvolta l’individuo percepisce di far parte di una rete interpersonale di comunicazione (Ruesch, 1976). Questo processo ci è talmente familiare da emergere come oggetto solo in condizioni particolari, ad esempio quando si tenta di conversare con una persona che non è in possesso del nostro stesso codice. Il processo di codificazione di un messaggio può usufruire di una notevole gamma di codici espressivi: oltre al classico esempio del linguaggio, si può infatti pensare alla musica, all’immagine filmica o al movimento della danza.

La scelta del codice da utilizzare non avviene solo in rapporto al tipo di messaggio che deve essere trasmesso, ma viene influenzata anche dall’immagine che l’emittente ha del soggetto a cui vuole indirizzare la comunicazione: è evidente, a questo proposito, il caso dell’insegnante che deve modulare il proprio codice in funzione delle competenze e dell’età dei propri allievi. Anche se a questo proposito sarebbe utile discutere dello stretto collegamento esistente tra comunicazione e processi percettivi, ci basterà qui sottolineare il fatto che alla base di un qualsiasi processo comunicazionale vi è la percezione che il soggetto ha di se stesso e degli altri (Franta, 1990). In questo senso, fenomeni come l’effetto alone, l’errore logico di valutazione, l’effetto edipico della predizione (o effetto Pigmalione) possono tutti incidere tanto sulla codificazione quanto sulla decodificazione del messaggio.

Il terzo blocco del nostro diagramma è occupato dalla trasmissione: una volta codificato il messaggio quest’ultimo deve essere infatti trasmesso al ricevente. La trasmissione si caratterizza non solo per il canale utilizzato (verbale, linguistico, gestuale, ecc.), ma anche per una gamma molto vasta ed eterogenea di fenomeni che possono ostacolare il corretto invio del messaggio e che vengono indicati con il termine generico di rumore: rientrano nell’ambito di questa categoria fenomeni come la risonanza acustica, l’eco, i rumori di sottofondo che possono caratterizzare l’ambiente in cui si effettua l’interazione.

La ricezione costituisce il quarto blocco del diagramma. Nei confronti di questa particolare fase del processo comunicativo si può rilevare che essa viene fortemente condizionata dalla presenza di due specifiche condizioni: la prima è individuabile in una adeguata disposizione motivazionale ed affettiva da parte del ricevente, mentre la seconda rinvia al possesso di idonee condizioni sensoriali da parte di quest’ultimo. Ci sembra infatti evidente, che, nel caso in cui non si abbia nel ricevente una adeguata motivazione al colloquio o si riscontri addirittura in esso una disposizione affettiva negativa, i livelli di ascolto e di accettazione della comunicazione trasmessa risulteranno indubbiamente molto scarsi (“non c’è peggior sordo di chi non vuole ascoltare”).

Accantonando ancora per un po’ la questione della decodificazione - di cui comunque parleremo più diffusamente tra breve - esaminiamo ora brevemente la successiva fase di interpretazione e di comprensione del messaggio. Sebbene questa sia infatti intimamente collegata con il processo di decodificazione, ci sembra tuttavia possibile riconoscerle un ambito specifico, a seguito del fatto che non ci si limita qui semplicemente a segnalare la conoscenza o meno - da parte del ricevente - del codice utilizzato dall’emittente, nè tanto meno ci si riferisce solo all’immagine e alle aspettative che il ricevente possiede nei confronti dell’emittente, ma si amplia l’ambito della interpretazione e comprensione dell’informazione da parte del ricevente alle sue competenze cognitive e culturali, alla sua struttura di personalità, alla eventuale psicopatologia di cui è portatore. E’ in questo senso che ci sembra possibile enucleare - se non altro da un punto di vista teorico - la fase di decodificazione da quella successiva (ma strettamente collegata) di interpretazione e di comprensione del messaggio.

Dopo questa sommaria illustrazione delle varie fasi che possono essere identificate all’interno di un processo comunicativo, ci sembra giunto il momento di tornare a quello che consideriamo il problema centrale e che riguarda la fase di codificazione e decodificazione del messaggio.

Da questo punto di vista è necessario sottolineare innanzitutto l’importanza che il processo di decodificazione possiede nell’ambito della comunicazione. Sebbene sia molto spesso considerato come una attività automatica e relativamente agevole, il processo di decodificazione implica invece - da parte del ricevente - una complessa attività di elaborazione e di trasformazione del dato in funzione della sua successiva interpretazione e comprensione.

Alla base di questo processo vi è infatti la distinzione che si opera tra ciò che deve essere considerato come un segno e quello che invece non può essere considerato come tale: il ricevente, in altre parole, non fa che ritagliare, entro l’universo di stimoli che percepisce, un determinato evento qualificandolo come ‘segno’, ristrutturandolo quindi nei suoi elementi costitutivi (Quintavalle, 1978). Sebbene tutto ciò non avvenga in

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modo totalmente arbitrario - in quanto il ricevente utilizza comunque, per questa sua opera di

differenziazione, un codice (*) precostituito - vi è tuttavia un ampio margine di discrezionalità che deriva, tra l’altro, dal livello di congruenza che esiste tra il codice utilizzato dal ricevente e la comunicazione che si deve decodificare. Questa discrezionalità viene d’altra parte incrementata anche dal fatto che è sempre e solo il ricevente a decidere, una volta qualificato un determinato elemento della comunicazione come ‘segno’, a quale categoria esso debba appartenere.

Un esempio di questo ci viene dalla semeiotica medica: nel corso dell’indagine anamnestica e dell’esame obiettivo, il paziente propone infatti una serie di elementi che possono essere riconosciuti dal medico come ‘segni’ di una determinata situazione clinica oppure come elementi privi di significato. Ogni singolo ‘segno’ può essere a sua volta inserito in categorie diverse: una pirosi gastrica potrebbe essere infatti considerata dal medico come il sintomo di un'ulcera peptica ma anche come l’effetto collaterale di un uso eccessivo di farmaci antinfiammatori.

La decodificazione si configura quindi come un vero e proprio processo di ristrutturazione che il ricevente attua nei confronti di quanto è stato trasmesso. In questa prospettiva, le possibilità di comprendere la comunicazione dell’altro dipendono sostanzialmente dal numero di alternative che il ricevente ha a sua disposizione per decodificare la comunicazione stessa, “numero che sarà determinato da un lato dal contesto e, dall’altro, dalle precedenti esperienze e dalla personale capacità del ricevente. L’interpretazione è [comunque] opera di congettura, il cui successo è questione di probabilità” (Malmberg, 1975). L'arbitrarietà è dunque un elemento ineliminabile del processo di decodificazione. Nonostante ciò, è possibile però giungere ad un qualche grado di comprensione della comunicazione altrui grazie alla predicibilità degli elementi comunicati che è correlata a sua volta al livello di ridondanza presente nella comunicazione stessa.

In conclusione, si può considerare quindi la decodificazione come un processo in cui il ruolo del ricevente risulta essere tutt’altro che passivo ed il cui obiettivo è quello di giungere ad una adeguata interpretazione e comprensione della comunicazione emessa.

L’efficacia del processo non può essere però spiegata grazie alla sola congruenza o validità del codice utilizzato dal ricevente, né tanto meno può essere ricondotta alle sole caratteristiche della comunicazione emessa, ma deve essere necessariamente correlata anche al tipo di contesto in cui il processo decodificazione si attua e ai livelli di consapevolezza che il ricevente possiede a questo proposito.

Passando ora al processo di codificazione, ci sembra interessante focalizzare la nostra attenzione sul fatto che grazie ad esso non solo si è in grado di strutturare un qualcosa che inizialmente non lo è (si pensi alla descrizione linguistica di un vissuto emotivo), ma si è anche in grado di elaborare sequenze di elementi organizzate secondo regole che non appartengono all’esperienza (piano del contenuto), quanto piuttosto al codice (piano dell’espressione) che si è utilizzato.

In questo senso è perfettamente legittimo affermare che tutti i codici da noi utilizzati in un processo di comunicazione non fungono solo da traduttori di esperienza, ma tendono essi stessi a dar forma all’esperienza medesima.

Tutto ciò è particolarmente evidente nel codice linguistico che non rappresenta solo una tecnica di espressione per determinati contenuti, ma è innanzitutto “una classificazione ed una disposizione del flusso dell’esperienza sensoriale che si traduce in un certo ordinamento del mondo, in un certo segmento del mondo che è facilmente esprimibile con il tipo di mezzi simbolici che il linguaggio impiega. In altre parole il linguaggio fa in maniera più rozza, ma anche più estesa e flessibile, ciò che fa la scienza” (Whorf, 1970).

La codificazione, in quanto opera di traduzione, emerge dunque anch’essa come una vera e propria costruzione di significati: in effetti, ciò che viene trasmesso non è tanto o solo l’elemento di contenuto ma tende ad essere piuttosto la risultante dell’integrazione tra questo e le caratteristiche intrinseche al codice espressivo utilizzato (si pensi, ad esempio, alla necessità che ci viene imposta dalla lingua di definire sempre un soggetto per ogni nostra affermazione, così come quella di rispettare una precisa sequenza sintattica).

Si può concludere questo punto osservando che sia il processo di codificazione che quello di decodificazione vengono però fortemente condizionati anche dalle caratteristiche del contesto in cui si colloca l’interazione. Il contesto tende infatti a co-determinare i contenuti delle comunicazioni trasmesse dall’emittente,

(*) Si può intendere per codice quel particolare repertorio di alternative che possono essere utilizzate - tanto dall'emittente quanto dal ricevente - allo scopo di correlare il piano dell'espressione con quello del contenuto. Un codice, in altre parole, si compone di un insieme di elementi (e, naturalmente, di regole) che, pur appartenendo ad un determinato sistema (si pensi al linguaggio), possono tuttavia essere utilizzati per riferirsi ad elementi appartenenti ad un sistema diverso (si pensi agli oggetti della realtà fisica).

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basti pensare ad una frase come “ma sei proprio uno stupido” che si connota in modo completamente diverso se viene detta da un amico con un contemporaneo sorriso sulle labbra o da un superiore nel corso di una riunione di lavoro.

4 . I l caratte re c i rco l are de l l a comun i caz i one

Si riconosce un carattere processuale alla comunicazione non solo per il fatto di riconoscere in essa una serie di fasi diverse (codificazione, trasmissione, ricezione, ecc.), ma anche e specialmente a causa della sua inevitabile circolarità.

Come si è detto, la comunicazione esiste infatti solo nel momento in cui si ha un passaggio di informazioni dall’emittente (E) al ricevente (R) e, come conseguenza, si ottiene una risposta da quest’ultimo: tale risposta viene indicata con il termine di feed-back o retroazione.

Questo segnale di ritorno, che il ricevente emette in funzione dell’informazione ottenuta da E, consente all’emittente di:

1) verificare l’intenzionalità di R di recepire il suo messaggio;

2) valutare le modalità con cui il suo messaggio e le informazioni incluse in esso sono state recepite;

3) prevedere il possibile sviluppo dell’interazione comunicativa.

Il feed-back può implicare, da parte del ricevente, assenso, dissenso, rifiuto, incomprensioni, reazioni emotive, ecc. e può essere trasmesso mediante uno o più canali (linguistico, mimico, prossemico, ecc.).

Nel grafico da noi utilizzato, il feed-back è rappresentato da una linea che va da R ad E, cosa che sottolinea appunto il carattere circolare del processo comunicativo. Nel momento in cui due o più individui entrano in comunicazione, gli scambi che essi effettuano non possono quindi essere considerati come lineari, ma si configurano sempre come una complessa interazione circolare. Tale complessità deriva anche dal reciproco influenzamento che si attiva in funzione delle caratteristiche di personalità, della storia personale, degli stati affettivi, dei ruoli sociali, ecc. che caratterizzano i soggetti in campo.

5 . I fa t to r i d i d i s tu rb o de l l a comun i caz i one

I processi grazie ai quali le persone entrano in reciproca comunicazione si fondano su una serie di funzioni percettive ma anche sulla dinamica relazionale che si instaura nel momento in cui si avvia una interazione.

L’attività percettiva ha la funzione di orientarci nelle relazioni con le persone, le cose, gli avvenimenti. Essa si presenta come un processo soggettivo in quanto le persone, le cose o gli avvenimenti non vengono percepiti in modo oggettivo e nella loro totalità, ma nel significato che esse possiedono agli occhi di chi li osserva: la percezione è infatti una esperienza soggettiva di qualcosa. In questo senso è possibile affermare che ogni persona vive in un mondo personale ed unico di significati.

Ma se è facile accettare l’idea che gli altri attribuiscano una differente importanza ad uno stesso messaggio ed abbiano opinioni diverse su un medesimo problema o avvenimento, si ha difficoltà ad ammettere che si possano avere percezioni diverse a proposito della stessa realtà. In ognuno di noi è infatti presente l’assunto che la propria percezione delle cose o delle persone sia quella corretta.

Nella comunicazione interpersonale si risente del carattere soggettivo della percezione, in particolare quando i partner in comunicazione si formano una immagine personale di se stessi e dell’altro; queste percezioni di sé e degli altri concorrono infatti in modo decisivo a definire le relazioni reciproche. La comunicazione quindi, come processo transazionale, non può prescindere dalla realtà della percezione.

La percezione accurata è possibile solo nella misura in cui i soggetti riescono a comprendere se stessi ed i partner in interazione e si riferiscono in modo critico ai contenuti comunicati. Questo è tanto più realizzabile quanto più si è capaci di controllare i fattori soggettivi che condizionano in modo determinante la propria percezione della realtà.

Prenderemo ora in esame quelli che possono essere considerati i principali fattori che possono ostacolare la comunicazione interpersonale.

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­ Lo stereotipo

Insieme di generalizzazioni pregiudiziali, sfavorevoli, esagerate e semplicistiche su un gruppo o su una categoria di persone. Lo stereotipo deriva dall’atteggiamento classificatorio, cioè dalla tendenza, caratteristico del pensiero umano, di far rientrare tutto nell’ambito di categorie. Vi è quindi la tendenza a dividere le persone in categorie e a esprimere generalizzazioni che spesso prescindono dai fatti. Lo stereotipo differisce dagli altri tipi di categorie per il fatto che in esso sono sottolineate le caratteristiche negative dei membri della categoria stessa e spesso le credenze preconcette hanno una connotazione emotiva e non sono suscettibili di modifica attraverso l’evidenza empirica.

­ La teoria implicita della personalità

Espressione con cui si indica il sistema di convinzioni che si attiva in ciascuno di noi nel momento in cui vengono percepite e valutate le persone con le quali si è in rapporto.

­ L’effetto alone

Tendenza ad esagerare l’omogeneità delle dimensioni costitutive della personalità. Se si ha una impressione globalmente positiva di qualcuno, si tenderà infatti ad estenderla anche ai tratti specifici, sopravvalutando quelli positivi e sottovalutando quelli negativi. Al contrario, se si ha una impressione globalmente sfavorevole di una persona, si tenderà a sopravvalutarne i tratti negativi e a sottovalutarne quelli positivi.

6 . La pragmat i ca de l l a comun i caz i one

Lo studio della comunicazione umana si può dividere in tre settori: quello della sintassi, quello della semantica e quello della pragmatica. L’oggetto di studio della sintassi è rappresentato da tutte le questioni concernenti la trasmissione della informazione (problemi connessi ai canali, al rumore, ecc.); l’oggetto della semantica è invece costituito dal significato della comunicazione, mentre la pragmatica si propone di studiare il modo con cui la comunicazione influenza il comportamento umano (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971).

I dati della pragmatica non sono soltanto le parole, le loro configurazioni ed i loro significati (che sono i dati della sintassi e della semantica), ma anche i fatti non verbali concomitanti come pure il linguaggio del corpo. Alle azioni del comportamento personale occorre inoltre aggiungere quei segni di comunicazione inerenti al contesto in cui ha luogo la comunicazione.

La pragmatica della comunicazione è stata studiata dalla Scuola di Palo Alto (California) che ha evidenziato alcuni assiomi. Limitandoci a quelli maggiormente pertinenti al nostro discorso, possiamo ricordare:

• L’impossibilità di non comunicare

Una proprietà fondamentale del comportamento umano è il fatto che esso non ha un suo opposto. In altre parole, non esiste qualche cosa che un non-comportamento o, più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento.

Se si accetta l’idea che nel corso di una interazione qualsiasi comportamento abbia valore di messaggio, ne consegue che non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio assumono infatti inevitabilmente valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni.

• Ogni comunicazione segue due binari paralleli, quello del contenuto e quello della relazione

La comunicazione non trasmette soltanto informazioni ma tende anche ad impostare modalità di comportamento e di relazione. Ogni comunicazione presenta infatti un aspetto di notizia ed un aspetto di comando.

La notizia fa riferimento all’informazione trasmessa ed è quindi sinonimo, nella comunicazione umana, di contenuto del messaggio.

L’aspetto di comando si riferisce invece alla tipologia del messaggio trasmesso e al modo con cui esso deve essere assunto, esso tende perciò a qualificare la relazione esistente tra le persone.

Quello che è importante sottolineare è il rapporto esistente tra l’aspetto di contenuto (notizia) e l’aspetto di relazione (comando). Prendendo come esempio un computer, si può considerare il “contenuto” come l’informazione (i dati) che è necessario fornire alla macchina affinché essa possa lavorare. Il “comando”

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svolge invece il ruolo delle istruzioni, che il computer deve ricevere se si desidera elaborare i dati immessi.

• La comunicazione può avvenire sia con un modulo numerico che analogico

Nella comunicazione umana si può far riferimento alle cose, alle persone o agli in due modi completamente diversi: li si può rappresentare con una immagine (si pensi ai pittogrammi dell’antico Egitto), oppure li si può indicare con un nome.

Questi due modi di comunicare - quello mediante una immagine o una parola - sono rispettivamente equivalenti ai concetti di analogico e numerico.

Ogni volta che si utilizza una parola per nominare una cosa si stabilisce un rapporto tra il nome e la cosa nominata, rapporto che è stabilito arbitrariamente: non c’è infatti alcuna ragione per indicare un particolare oggetto con la parola t-a-v-o-l-o, essa non è altro che una convenzione semantica stabilita e condivisa all’interno di una lingua. Bateson e Jackson hanno fatto rilevare che “non c’è nulla di specificatamente simile a cinque nel numero cinque; non c’è nulla di specificatamente simile ad un tavolo nella parola tavolo”.

Al contrario, nella comunicazione analogica c’è sempre qualche elemento di simile alla cosa che si vuole indicare (si pensi al gesto di mangiare che ci induce a portare la mano alla bocca). Se la comunicazione numerica si riconosce quindi nel linguaggio verbale, quella analogica è costituita da tutte le comunicazioni non verbale (la postura, la mimica, la cinesica, ecc.).

7 . L ’ as co l to a t t i vo

E' possibile che il fatto di parlare di un ascolto attivo possa suscitare qualche dubbio o perplessità e ciò a causa del fatto che in esso sono associate due parole apparentemente contraddittorie: come fa infatti ad esistere un ascolto attivo? Il termine “ascolto”, che deriva dal latino auscultare, significa “udire attentamente, stare a sentire”, cosa che rinvia la mente più ad una immagine di passività che di attività. L’aggettivo utilizzato per connotare la parola “ascolto” sembrerebbe quindi inappropriato in quanto chi ascolta non sembra, almeno a prima vista, impegnato in una azione.

Tutto questo è però vero solo in apparenza: come ha osservato infatti William Golding, non si può pensare che le colonne o i pilastri, per il semplice fatto di stare immobili, non facciano però nulla. In modo analogo possiamo considerare l’ascolto come una forma particolare di azione, in cui l’attività che deve essere svolta è quella di sostenere il nostro interlocutore, consentirgli di essere quello che è, così come la colonna in qualche modo consente alla cupola di essere tale. La questione è quindi quella di considerare l’ascolto non solo come una passiva ricezione di informazioni ma anche come una attiva trasmissione di dati attraverso canali di tipo mimico, gestuale, posturale oltre che, naturalmente, verbale.

L’ascolto costituisce uno dei principali fattori della competenza comunicativa: come si potrebbe infatti comunicare in modo efficace se non si è in grado di ricevere le informazioni che ci vengono inviate? Come ha sottolineato Cremerius (1971) “chi vuol capire un’altra persona la deve ascoltare. Quanto più a fondo si vuole comprendere l’altro, quanto più si vuol capire i segreti motivi del suo agire, tanto più gli si deve dare spazio affinché possa mostrarsi ed esprimersi. Viene dato spazio quando ci si ritira e si tace.”

Ma che cosa significa ascoltare? Che cos’è l’ascolto? In termini molto generali si può descrivere l’ascolto “come un insieme di atti percettivi attraverso i quali entriamo spontaneamente o involontariamente in contatto con una fonte comunicativa” (Colasanti, Mastromarino [a cura di] 1991). All’interno di questo insieme di atti si possono identificare sostanzialmente tre processi:

1. ricezione del messaggio,

2. elaborazione del messaggio,

3. risposta al messaggio.

Il primo momento di un processo di ascolto è quindi caratterizzato dalla capacità del soggetto di impegnarsi a comprendere la comunicazione che gli è stata inviata nel significato che essa possiede per l’emittente. Ciò è possibile solo se l'ascoltatore è in grado di mettere in atto una attenzione non strutturata (Franta 1990), un atteggiamento cioè in cui ci si ritrae, si lascia cioè spazio all’altro affinché possa trasmetterci la sua comunicazione.

L’ascolto non si limita però alla semplice ricezione o elaborazione di un messaggio, ma prevede anche la formulazione di una risposta alla comunicazione ricevuta (se ciò non fosse il nostro interlocutore non capirebbe mai se lo abbiamo o non lo abbiamo ascoltato). Possiamo dunque individuare due fasi

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all’interno del processo di ascolto: nella prima si attua la ricezione e la elaborazione del messaggio (ascolto-passivo), nella seconda si emette una risposta, e questo anche per inviare un adeguato feedback al nostro interlocutore (ascolto-attivo). Questa seconda fase, in sostanza, ha come obiettivo quello di comunicare in modo esplicito la nostra comprensione dei contenuti o dei sentimenti che ci sono stati trasmessi.

A questo punto risulterà chiaro che l’ascolto non può essere circoscritto al semplice silenzio (ascolto-passivo), che pure è un qualche cosa di estremamente complesso, basterà pensare alle varie forme di silenzio che esistono, come il “silenzio di risposta” (il famoso “chi tace acconsente”) o il “silenzio di aspettativa” (quando cioè noi mostriamo con evidenza all’altro che siamo in attesa di una sua parola), né tanto meno confuso con il mutismo. Mentre infatti "il silenzio è il preludio della rivelazione, il mutismo è la chiusura alla rivelazione, sia per rifiuto di riceverla che di trasmetterla [...] il silenzio apre un passaggio, il mutismo lo chiude. Secondo le tradizioni, vi fu silenzio prima della creazione; vi sarà un silenzio alla fine dei tempi" (Chevalier, Gheerbrant 1986): l’ascolto necessita dunque del silenzio ma non si riduce solo ad esso.

Nell’ambito dell’ascolto-attivo si collocano infatti particolari modalità di risposta che si differenziano da altre proprio perché in grado di trasmettere all’interlocutore, in modo molto efficace, la nostra comprensione del messaggio che ha trasmesso. Queste forme di risposta possono essere indicate con il termine di riformulazioni e consistono essenzialmente nel riverbalizzare, con altre parole e in maniera più concisa o più chiara, ciò che l’altro ha appena detto.

Le riformulazioni consentono di ottenere tre importanti risultati (Mucchielli, 1987):

1) si evita di fraintendere la comunicazione emessa dal nostro interlocutore inserendo ipotesi, interpretazioni, giudizi che appartengono più a noi che all'altro;

2) si fornisce all'interlocutore la conferma che lo si sta ascoltando seriamente e questo agevola lo sviluppo della comunicazione;

3) si ottengono conferme (o disconferme) nei confronti del quadro che ci si sta costruendo a proposito dell'altro, e questo ovviamente agevola il nostro processo di conoscenza.

Si possono distinguere in particolare tre tipi di riformulazione:

1) la reiterazione;

2) la delucidazione;

3) la riflessione del sentimento.

Esaminiamoli brevemente: la reiterazione, che costituisce il modo più elementare per riproporre la comunicazione dell'altro, si può basare sulla ripetizione delle ultime parole del messaggio oppure sulla formulazione di un chiaro e breve riassunto del messaggio. La delucidazione si propone invece di cogliere e riflettere “elementi che non sono stati esplicitamente formulati (dall'altro) e che forse non rientrano chiaramente nel suo campo percettivo ma che vi esercitano un influsso” (Giordani, 1978, pag. 284). Con la riflessione del sentimento l’obiettivo è invece quello di riverbalizzare, sottolineandolo, l’aspetto emotivo o affettivo presente nella comunicazione in modo che sia chiara la nostra comprensione di questo aspetto del messaggio.

Il processo di ascolto, specialmente quella particolare competenza comunicativa che è l’ascolto-attivo, richiede l’acquisizione di uno specifico e consapevole atteggiamento di disponibilità comunicativa, implica cioè il riconoscimento della consistenza relazionale dell'altro, della sua esistenza, del suo esserci" così come una chiara disponibilità ad entrare in contatto con lui.

8 . Fatto r i che agevo l ano l a Comun i caz i one

Da quanto si è detto è ora possibile identificare una serie di fattori che agevolano la comunicazione interpersonale; essi possono essere aggregati in funzione del polo comunicativo (emittente o ricevente). Per quanto riguarda l’emittente, a l ivello oggettivo è necessario:

­ esprimere con precisione semantica e sintattica il proprio pensiero;

­ sottolineare con le necessarie ridondanze i concetti fondamentali che si desidera trasmettere, pur avendo sempre come obiettivo l’economia del discorso;

­ accompagnare le parole con una adeguata gestualità (canale analogico);

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­ utilizzare uno schema di riferimento preciso e comunicare gli eventuali cambiamenti di schema. A livello invece personale r isul ta opportuno:

­ dare la precedenza alle comunicazioni relative ai “fatti” e non a quelle riguardanti le “opinioni”;

­ mantenere atteggiamenti il più possibili obiettivi evitando stereotipi, giudizi di valore, ecc.;

­ adottare un atteggiamento identificatorio/empatico nei confronti dell’interlocutore;

­ riconoscere costantemente la possibilità che vi possano essere percezioni, opinioni e valutazioni diverse sullo stesso oggetto.

Infine, a l ivello psico-sociologico è uti le:

­ definire il proprio ruolo all’interno del contesto comunicativo;

­ individuare in modo consapevole l’obiettivo che si intende raggiungere con la propria comunicazione.

Passando ora ad esaminare il ricevente, è fondamentale mantenere una disponibilità alla comunicazione, che si manifesta attraverso:

­ un atteggiamento di ascolto (sia passivo che attivo);

­ il costante tentativo di comprendere sia il contenuto che la “relazione” presente nella comunicazione;

­ lo sforzo di uscire dai propri schemi di riferimento e di identificarsi con quelli dell’emittente;

­ l’uso di domande e riformulazioni (in particolare le reiterazioni) per spingere l’interlocutore a precisare meglio la propria comunicazione.

9 . La s t ru tturaz i one d i un mes s aggi o

Analizzeremo a questo punto alcuni passaggi fondamentali per una corretta strutturazione del messaggio che si intende proporre al ricevente (sia esso una singola persona od un gruppo).

• Scrivere gli obiettivi della comunicazione

Gli obiettivi esplicitano ciò che si intende ottenere con la propria comunicazione. Una definizione adeguata degli obiettivi non solo consente di focalizzare meglio il tema, ma permette anche di suddividere un messaggio eventualmente complesso in blocchi più facilmente gestibili da un punto di vista comunicativo.

• Annotare tutte le informazioni che si vogliono comunicare

Anche nel caso in cui si ritenga di conoscere bene l’argomento da trattare, è opportuno preparare l’elenco delle informazioni che si intendono proporre dopo aver elencato gli obiettivi da raggiungere.

• Preparare il testo (relazione) del messaggio

Il passo successivo consiste nel raccogliere le informazioni inserendole in una relazione che possa essere la più semplice e breve possibile. BeS è un acronimo per indicare appunto come si effettuano le presentazioni:

B R E V I T À , perché le persone si concentrano meglio su tanti piccoli messaggi piuttosto che su messaggi lunghi ed articolati, ma anche perché la curva di attenzione di un ascoltatore non è infinita.

S E M P L I C I T À , perché quanto più si rende facile seguire il discorso, tanto meglio l’uditorio è in grado di comprenderlo (questo naturalmente deve essere correlato con una preliminare conoscenza degli ascoltatori in modo da modulare il linguaggio sul loro livello).

• Verificare i tempi

E’ inoltre necessario organizzare la sequenza dei contenuti in funzione del tempo che ad essi deve essere riconosciuto nell’ambito della esposizione. E’ infatti fondamentale non dilatare in modo eccessivo lo spazio di un argomento introduttivo, così come può essere utile ridurre i tempi della parte conclusiva alleggerendone contemporaneamente il peso espositivo. Il controllo del tempo consente inoltre di decidere le priorità da riconoscere alle informazioni presenti nell’esposizione.