un anno con il circolo everest

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C I R C O L O E V E R E S T s p a z i o a l l a c u l t u r a

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Tutte le interviste agli artisti - attori, cantanti, registi, performer - che si sono esibiti al Circolo Everest nella stagione 2014/15. Circolo Everest è uno spazio polifunzionale gestito dalla Cooperativa Sociale Industria Scenica che ospita eventi culturali e iniziative sociali. Si trova a Vimodrone in via Sant'Anna 4.

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CIRC

OLO EVEREST

spazio alla cultu

ra

11 OTTOBRE 2014

WANNA RIOTRANCID TRIBUTE BAND

CONCERTO

WANNA RIOTRANCID TRIBUTE BAND I.S.: Come nasce il vostro gruppo?

W.R.: Noi quattro ci conosciamo da quando siamo adolescenti, cioè da quando ognuno di noi ha iniziato a suonare. Abbiamo anche avuto altre esperienze insieme. Io, Patrick e il Gio in particolare abbiamo fatto parte di una “scena punk” che ora farei fatica a dire se esista ancora o no. Quando, da parte mia, ho avuto la sensazione che continuare ad avere un gruppo punk non potesse più fare da collante tra me e ciò che mi circondava, ho pensato che comunque fosse l’occasione per fare una fotografia di quello che siamo stati e dire: ecco, guardate che bello. Così ho iniziato a molestare gli altri tre per fare questo progetto di “tributo” ai nostri ispiratori, che secondo noi, a chi ascolta musica in generale, conviene conoscere.

I.S.: Se ti dico musica tu cosa mi dici?W.R.: Ti dico quello che significa per me quando salgo su un palco, cioè aggressività e tranquillità allo stesso tempo. Per me è come una pace dei sensi, non dico tanto il suonare in sé, quanto l’esibizione live. Io ho sempre vissuto la musica come dimensione live, cioè come sua condivisione. Suonare da solo in sala è una cosa che non mi ha mai soddisfatto, per me la tranquillità arriva solo quando sono in mezzo ad altri e mi sento a mio agio. Certo, chi ha suonato sa benissimo che ci si può anche sentire moltissimo a disagio in alcune situazioni: l’esperienza e il lavoro servono esattamente a limitare queste situazioni. In secondo luogo quando dico aggressività la collego a una dimensione di protesta, anche se primitiva perché senza obiettivi precisi: è l’atto stesso della protesta a partire dalle onde sonore frastagliate e dai movimenti del corpo non lineari.

I.S. Dove vedete i Wanna Riot tra 10 anni?W.R.: Questo è un progetto che potrebbe esistere all’infinito, d’altronde lo facciamo per divertimento e non è dedicato alle nostre canzoni. Magari tra 10 anni avrà ancora più senso che ora: ad esempio, i Rancid esistono ancora, questo rende un po’ irrazionale omaggiarli come se se ne fossero andati, ma questo lo facciamo appunto perché pensiamo che il meglio, in quell’ambito, sia andato. Sia chiaro non siamo romantici né nostalgici dell’età dell’oro, solamente la musica ha preso altre direzioni, che speriamo siano ancora in grado di stupire. D’altro canto, questo progetto continuerà fintanto che ci divertirà e non certo per un rinnovato business, perché non è con questo che qualcuno di noi diventerà una rock-star. Tra 10 anni potrebbe essere ancora lo stesso come non esistere più, oppure essere dedicato ad altri gruppi che ci hanno influenzato, chi lo sa.

I.S. C’è ancora spazio per il genere Punk nel panorama italiano? O forse dovremmo dire “C’è mai stato?”W.R. Certo che c’è stato. Alcuni gruppi hanno fatto anche un’ottima carriera, mi vengono in mente i Punkreas e gli Shandon che io ho sempre amato, altri come gli Omini Verdi (in cui suona il Gio) sono ancora in attività. Se questo spazio ci sia ancora bisogna vedere dove lo si cerca: nel mercato? Allora secondo me no, perché i gusti di massa sono cambiati e per un altro motivo che si mescola alla risposta che darò successivamente: il punk è sempre stato legato a minoranze sociali (non per forza politicizzate) da un lato e ad alcuni

principi di autogestione dall’altro; perso il legame con questo tipo di esperienze, manca una base a cui ancorare il mercato. Tuttavia… esistono esperienze autonome, vere e proprie isole, in cui il punk potrebbe anche non morire mai (stiamo sempre parlando della musica), ma questo al di fuori del mercato.I.S. un salto nel passato: quale momento vi siete persi che ha segnato il panorama musicale a cui vi ispirate?W.R. Ci siamo persi il ’77, siamo nati tutti dopo. Un’epoca in cui la violenza era all’ordine del giorno come espressione di qualsiasi cosa: arte, ideologia, politica. Il punk in principio fu violenza in effetti. Siamo cresciuti in un background completamente differente, quello degli anni ’90, in cui si cercava di innestare quegli spunti artistici e polemici in un panorama culturale in cui la violenza era stata eliminata. Diciamo quindi che non abbiamo provato sulla nostra pelle cosa significasse suonare in certi ambienti nell’epoca in cui la musica cui ci siamo ispirati è nata. A conti fatti, potrebbe poi non essere una grossa sfiga, ha poco senso pensare “cosa avrei fatto se ci fossi stato nell’anno x”…

I.S.: Tre parole per descrivere la vostra musicaW.R. Passione, impulsività, sicurezza.

I.S.: Se ti dico Everest tu cosa mi dici?W.R. So che il nome è ereditato, sarebbe interessante fare una ricerca sul perché i locali da ballo un tempo venivano chiamati con nomi esotici e in base a quali gusti. Per quanto riguarda il circolo, ieri è stata la prima volta che ci abbiamo messo piede, siete aperti da poco, quindi in bocca al lupo per la vostra attività culturale!

11 OTTOBRE 2014 | Wanna Riot

COMPAGNIA CLUB SILENCIO

24 OTTOBRE 2014

DOTTOR K

TEATRO

DOTTOR K

I.S.: Come nasce la Compagnia Club Silencio?La compagnia Club Silencio nasce dalle cose meravigliose che ho visto fare dai miei compagni durante le lezioni di recitazione. Ho pensato che avrei voluto vederle su un palco e che quei ragazzi erano le uniche persone che potevano mettere in scena le cose folli che scrivo! Il nome è un omaggio a David Lynch.

I.S.: Se ti dico “teatro” tu cosa mi dici?Se dici Teatro, rispondo Vita.

I.S.: Tre parole per descrivere il vostro teatro.Prendo in prestito una citazione

del nostro maestro di recitazione (Stefano Fiorentino ) e dico: Sentire, Diventare, Seguire.

I.S.: Cosa manca sul piano culturale alla città di Expo 2015? Milano può candidarsi ad essere la città della Cultura e del teatro?Io adoro Milano: è una città coraggiosa, ambiziosa e instancabile. E’ l’unica città italiana che potrebbe candidarsi a città della cultura e del teatro. Riguardo l’Expo, in tutta onestà, non saprei rispondere perché non sto seguendo con molta cura gli sviluppi. Posso solo dire che un buon esempio di cultura e coraggio a Milano è il Festival It –

Independent Theatre

I.S.: Se ti dico Everest tu cosa mi dici?Everest è uno spazio fantastico…a me è piaciuto subito moltissimo. Ha un’atmosfera insieme colorata e retrò che trovo molto suggestiva. E’ anche un esempio da seguire per tutte quelle giovani compagnie che vogliono aprire uno spazio.

24 OTTOBRE 2014 | Compagnia Club Silencio

COLLETTIVO PIRATE JENNY

14 NOVEMBRE 2014

POLLICINO 2.0

TEATRO

POLLICINO 2.0

I.S.: Come nasce la Compagnia Collettivo Pirate Jenny?CPJ nasce nel 2011 in occasione di Play with Food, ma in realtà dopo gli anni condivisi in accademia di Susanna Beltrami a Milano avevamo già provato a collaborare dal punto di vista creativo, poi interrotti dal necessario impegno, di tutti e tre, a fare esperienza in Italia e all’estero sotto la guida di altri registi e coreografi. Nasce con la voglia di non dividere i ruoli ma di mediare ogni processo creativo facendolo filtrare dallo sguardo dell’altro. Ovviamente ognuno di noi ha un linguaggio più affine e un modo di vedere la danza o il teatro completamente diverso da quello degli altri, ma lo sforzo di trovare un comune denominatore finora ha portato buoni frutti e risultati inaspettati. Ciò che nasce dal collettivo non assomiglia a nessuno di noi tre, è qualcosa a sé, che però ci appartiene paradossalmente.

I.S.: Se vi dico “teatro” voi cosa mi dite?

Teatro è un mestiere come tutti gli altri dove lo strumento è il corpo, dove c’è fatica, pensiero, conflitti e soprattutto una retribuzione. Non crediamo in una missione salvifica, né nell’ispirazione divina. Ci piace pensare alla Valéry ovvero ad un mestiere che rende necessario ciò che è fondamentalmente inutile. Gli effetti benefici del teatro si sentono solo quando chi lo fa tiene bene in mente il significato del termine NECESSITA’.

I.S.: Tre parole per descrivere il vostro teatro?POP, comunicativo, leggero.

I.S.: che rapporto avete con la città di Milano?Milano è la città in cui nessuno di noi è nato ma nella quale tutti abbiamo deciso di vivere. Perché è bellissima, perché è la Città italiana con la C maiuscola. Paradossalmente, come collettivo, a Milano non andiamo quasi mai in scena. Il pubblico Milanese è preparato, ironico,

presente, propositivo e disponibile. Gli operatori, i distributori gli enti preposti alle stagioni teatrali forse dovrebbero prendere spunto. Tuttavia realtà come teatro Pim Off, Quelli di Grock, Artedanzaeventi, hanno nell’ultimo anno dato un grande aiuto al nostro progetto artistico. Ne siamo molto felici.

I.S.: dal vostro punto di vista cosa manca sul piano culturale alla città di Expo 2015? Milano può candidarsi ad essere la città della Cultura e del teatro?Milano è già un crocevia culturale soprattutto per l’arte contemporanea. Non sarà certo L’expo ad aiutarla anzi, da abitanti di Milano ci rendiamo conto che Expo è orientata su altro rispetto alla cultura. Manca un sincero Focus sulle nuove realtà indipendenti lombarde.

I.S.: Se vi dico Everest voi cosa mi dite?Puntare in alto, sempre.

14 NOVEMBRE 2014 | Collettivo PirateJenny

13 DICEMBRE 2014

MAURO ERMANNOGIOVANARDI

CONCERTO

MAURO ERMANNOGIOVANARDI

Cosa è rimasto dell’esperienza dei La Crus?I La Crus sono un progetto nato nel ’92, e nei 18 anni di vita trascorsi insieme sono cambiate un sacco di cose.Ho imparato questo mestiere, sono diventato un uomo. Sono stati 18 in cui sono cresciuto e maturato. E’ stata un’esperienza bellissima che a un certo punto abbiamo saputo gestire malissimo. Perché comunque dopo tanti anni che stai insieme necessariamente tante cose cambiano, cambiano i gusti musicali, cambia l’approccio. E la vera sfortuna dei La Crus è che siamo stati sempre fondamentalmente un duo; Alex era parte dei La Crus ma era poco presente. In studio, alle conferenze stampa, ai concerti eravamo sempre solo io e Cesare.Per cui a un certo punto eravamo consapevoli di andare a 200 all’ora contro un muro, bendati. Diciamo che da Crocevia in poi tra me e Cesare le cose sono cambiate, io avrei voluto continuare a fare determinate cose e lui altre, si era un po’ smembrata l’idea originale dei La Crus. Per cui inevitabilmente, come spesso accade, la coppia è naufragata. I La Crus li ho sciolti io perché un grande amore non merita mediocrità, e per me i La Crus sono stati un grande amore.

E poi la fase successiva. Parlaci meglio di questa fase, cosa è successo a tuo avviso quando i la Crus hanno messo la parola fine alla loro esperienza musicale come gruppo? Ha inciso anche un cambiamento generale dei gusti del pubblico?Secondo me è cambiato l’approccio del pubblico alla musica, non tanto il suo gusto. Io mi ricordo quando ero ragazzetto, 20-22 anni. Andavo in un negozio di dischi con 30mila lire in tasca. Stavo ore a scegliere 15 dischi, poi 10, poi 7, poi 5, fino a portarne

a casa 2 o 3. Quei 2-3 dischi che ti portavi a casa li consumavi, perché avevi fatto delle rinunce per averli.Diciamo che internet è stata una cosa importante ma è stata allo stesso tempo una cosa che ha massacrato la musica. Perché non si vendono più dischi. Ricordo che intorno ai primi anni ’90, quando iniziavano ad esserci le prime connessioni veloci, andavo a casa di amici che avevano pigne di cd masterizzati: dai più importanti ai classici della musica. Ora non si scarica neppure più la musica perché occupa spazio sull’hard disc. E secondo me se non paghi per avere un bene, non gli dai il giusto valore.

E qual è il tuo rapporto con Spotify? Potrebbe essere un’evoluzione del sistema musicale che va incontro a artisti e pubblico?La mia musica è ascoltabile su Spotify, ma di certo questo sistema non va incontro ai musicisti. Ti può dare un po’ più visibilità perché sei presente. Ma se consideriamo che già Itunes fa percepire un guadagno nettamente inferiore a quello SIAE, con Spotify anche se ti scaricano un milione di pezzi la percentuale che ti danno è ridicola.Il problema è che non si vendono più dischi, però gli studi di registrazione continuano a costare tanto. Noi siamo testimoni di un passaggio epocale. Se vuoi continuare a fare concerti, devi continuare a fare dischi. E se poi dopo tanti sacrifici il disco esce e tutti se lo sono già scaricato gratis, questo è un problema.E’ un problema di fare dischi interessanti. Se hai un budget di 30-40mila euro per fare un disco, ti puoi permettere di avere un produttore, un arrangiamento di un certo tipo. Insomma ti puoi permettere di fare qualcosa di più

di una serie di canzoni, qualcosa di interessante dal punto di vista artistico.Se al posto di 30 mila euro ne hai 5-6mila, sei costretto a fare cose più semplici.

E un artista come te come ha reagito a questo cambiamento che ha investito il sistema musicale? Sto cercando di capirlo anch’io. L’ultimo disco che ho appena finito di incidere mi è costato tantissimo. Credo che sia una delle cose più belle che abbia fatto, non so se potrò permettermi di fare ancora cose così. Ci ho investito di mio anche. Non so se sia giusto farlo, oppure per quanto lo potrò fare ancora. Magari sono pessimista ma i tempi sono veramente critici.

Ma se c’è stato, qual è l’errore commesso dalle case discografiche?Ci sono stati diversi errori, e sicuramente quello più importante è stato fatto a cavallo del millennio: quanto uscì Napster per la precisione. All’epoca sarebbe bastato regolamentare in qualche modo il sistema. Le case discografiche hanno snobbato quello che stava succedendo, del resto hanno passato 40 anni e dettare legge, facendo spessissimo investimenti sbagliati. Però a cavallo del millennio giravano ancora tanti soldi. L’errore più grosso è stato quello delle major di snobbare questa nuova rivoluzione. Finché, quando si sono accorte che il virus poteva intaccare il corpo della musica, era troppo tardi. Ora siamo al punto che siamo andati completamente fuori controllo. Uno come Battiato, che vendeva 150mila-200mila copie a disco, oggi se ne vende 8-9mila è tanto.

E chi si salva?Chi ha fatto delle scelte giuste, ma alla fine l’hanno pagata un po’ tutti.

13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi

La discografia con l’acqua alla gola ha preso al balzo la moda dei talent, che secondo me è stata la mazzata definitiva. Perché prendi delle scorciatoie incredibili a scapito della qualità.Al di là di quello che è il lascito mortifero nelle generazioni più piccole: immagina chi ha 16-17 anni che vede da anni X Factor, ha interiorizzato che quello è “fare musica”. Pensa se Leonard Cohen, Nick Cave, Bob Dylan avessero dovuto fare i provini… Questa è una cosa orrenda perché poi da lì vengono solamente interpreti.Tu immagina che io sia un discografico della Sony, la musica è con l’acqua alla gola e io devo fare fatturato. Ho sul tavolo un disco di

un giovane autore che è bravo, il disco è molto bello; però so che per farlo conoscere ci metto tre anni, con molta fatica e molto investimento. E dall’altra ho 3 o 4 artisti provenienti dal mondo dei talent, che sono mesi che si fanno promozione da soli, tutti i giorni, visti da migliaia di ragazzini.Io che devo fatturare e devo rientrare subito dei costi non posso fare altro che scegliere il prodotto dei talent. Magari poi mi porto a casa il lavoro dell’altro, oppure chiedo all’artista di scrivere dei pezzi per i giovani della tv. E poi si arriva al paradosso che oltre a non avere più la possibilità di fare le sue cose, l’artista bravo, pur di lavorare, è costretto a svendere i propri

pezzi – magari i più belli – alla prima sgambettata di turno che dopo sei mesi l’hanno bruciata. Da 10 anni che esiste Amici, quanti ragazzi sono passati da lì? E quanti sono davvero emersi? Si possono contare su una mano. Se vieni dalla periferia, arrivi ad Amici, sei il reuccio del paese. Ma poi se non fai gavetta e non arrivi con qualche consapevolezza, ti bruci.La cosa che non riescono a capire, soprattuto a questa età, è che una cosa così potente come la televisione, non può essere un fine, ma un mezzo. Se diventa un fine, tu sei disposto a fare qualsiasi cosa pur di stare lì dentro. A fare capriole, a fare la ruota mente canti, a cantare la qualunque.L’illusione è che questa sia la cosa del

13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi

momento. Secondo me è la mazzata finale che poteva succedere alla musica.La cosa triste è che ci siamo piazzati davanti a una scatola, che sia la tv o il computer, e se non passi dalla tv non esisti. Puoi fare le cose più belle del mondo, ma non c’è più spazio lì dentro.Quando mi chiedono un consiglio da dare a un giovane che inizia a fare questo lavoro, io in maniera un po’ ironica rispondo che gli consiglio di andare a smazzare davanti alle scuole. Avrà certamente un futuro molto migliore…

Un’anticipazione sull’ultimo album di inediti che hai appena finito di registrare?

Ci ho lavorato tantissimo. Era quasi già pronto prima che iniziassi a lavorare a Maledetto colui che è solo, il disco realizzato insieme al Sinfonico Honolulu.Ma siccome sono canzoni molto importanti, belle, non volevo che uscisse male. Ho voluto capire bene con chi farlo, perché farlo e farlo come volevo io. Per cui l’ho messo in stand by e sono uscito con il Sinfonico, un disco che mi ha dato molte soddisfazioni. Nato come uno scherzo è diventato un disco di cui sono fierissimo.Per cui ci lavoro da tanto, è un disco che sicuramente è figlio di “Ho sognato troppo l’altra notte”, ma con un approccio molto più naturale, è un disco più soul, più disincantato. C’è meno beat, è un’evoluzione naturale. Per darti un’esempio: lì per dare le coordinate precise del viaggio che stavo facendo ho recuperato due pezzi come Bang Bang e Se perdo anche te. Mi sono serviti per dare i connotati stilistici musicali precisi. Qui l’unico pezzo

non inedito è un pezzo di Leo Ferrè, che si chiama Il tuo stile. E’ un pezzo con un’atmosfera più autorale, e infatti il mio disco si chiamerà “Il mio Stile”.Sono molto contento, è un disco più fresco, abbiamo deciso di non usare gli archi ma una sezione fiati più massiccia ma sopratutto abbiamo lavorato con un quartetto soul, molto simile a un 4+4 di Nora Orlandi. Ci sono molte linee vocali che sostituiscono gli archi. E’ un po’ più fresco, meno imponente.

Ci saranno dei duetti?No, l’album si chiama “il mio stile” e quindi canto solo io.

Il duetto che ti manca: qual è l’artista con cui vorresti interpretare un pezzo?Mi piacerebbe scrivere un pezzo e cantare con Mina… Una cosina no?! Credo che abbia apprezzato Io confesso, è una tipologia di pezzo che lei potrebbe apprezzare. Non è una certezza, è una sensazione.

13 DICEMBRE 2014 | Mauro Ermanno Giovanardi

16 GENNAIO 2015

LEMON HARDCONCERTO

I.S.: Come nascono i Lemon Hard e a chi parlano?I Lemon Hard nascono dall’incontro di Damiano Vilardo (voce e chitarra), Alessandro Valentino (basso) e Stefano Solida (batteria), tutti con la passione comune per la musica e con alle spalle altri progetti musicali. Nell’inverno del 2013 si è deciso di intraprendere questa nuova avventura con la consapevolezza delle difficoltá che caratterizzano la musica e con l’amarezza di come sia sempre più difficile oggi farsi ascoltare esprimendo la propria arte. Per tale ragione si è deciso di suonare per far divertire noi stessi e quanti partecipano ai nostri concerti. Parallelamente stiamo lavorando al nostro progetto di inediti che porteremo in giro (si spera) una volta terminate e definite tutte le tracce. Nell’estate 2014 ha sostituito l’amico Andrea (ex chitarra solista), Giulio Avella che ha portato nella band nuove idee ed un pizzico di esperienza in più nella parte melodica dei brani.

I.S. Cosa vi spinge a fare musica?Come tutti i musicisti, ciò che ci spinge a fare musica è l’esigenza di esprimere, comunicare qualcosa… Non è una “frase fatta”; la nostra idea è quella di divertirci per divertire, far ballare le persone, far apprezzare o al contrario odiare qualcosa che noi trasmettiamo.

I.S. Un sogno nel cassetto.Il nostro sogno nel cassetto è quello di terminare il nostro progetto di inediti con la speranza che cambi qualcosa nell’attuale panorama musicale dove c’è sempre meno spazio per le band emergenti con delle idee proprie e non contaminate dalla vena commerciale di molte etichette.

I.S. Dove vorreste vedere i Lemon Hard tra 5 anni?Fuori dall’Italia a far musica. Non ci riferiamo ovviamente a Wembley o al Madison Square Garden, ma in giro per strade del mondo a far musica, la nostra musica, entrando in contatto con nuove realtà e nuove culture non solo musicali.

I.S.: Se vi dico “musica” voi cosa mi dite?Se ci dici musica…dovremmo dirti troppe cose. Per noi, ma sicuramente come per tutti quelli che fanno musica e che amano la musica, rappresenta un elemento fondamentale ed inscindibile della nostra vita. Ti parliamo non solo della musica suonata, ma della musica in senso ampio e generalizzato che viene vissuta come quell’ elemento che caratterizza e che condiziona il nostro essere. Musica quale colonna sonora che scandisce le nostre giornate.

I.S.: Tre parole per descrivere la vostra musica.Tre parole? Incontri, passione, limoni.

I.S. Milano è ancora un buon palco per le band rock emergenti come la vostra?L’Italia in genere – è un luogo comune, purtroppo vero – non è più un buon palco per le band emergenti. Tuttavia, Milano dà ancora qualche minima possibilità in più per farsi conoscere e farsi ascoltare. Non si può negare poi che la difficile situazione del nostro Paese incide anche sugli investimenti in musica. Primo fra tutti quello che dovrebbero fare i locali: permettono sempre meno di far suonare le band e la maggior parte delle volte sembra quasi che siano le band stesse a dover investire sul locale, quando in realtá la musica dovrebbe essere un investimento.

I.S. Quanto c’è di Milano nei vostri pezzi?Nei nostri pezzi non si parla mai di Milano, quanto di realtá e vissuti che prescindono dai luoghi. E poi, essendo tutti del sud, siamo di parte e ci facciamo ispirare da luoghi sicuramente diversi!!

I.S.: Se vi dico Circolo Everest voi cosa mi dite?Un’opportunità, un esempio da seguire.

16 GENNAIO 2015 | Lemon Hard

LEMON HARD

30 GENNAIO 2015

LOU CASH AND THE TYRE KICKERS

CONCERTO

LOU CASH AND THE TYRE KICKERS

I.S. Chi sono i Lou Cash and the Tyre Kickers e a chi parlano?Beh, siamo quattro amici che si divertono facendo musica. Potremmo sembrare “roba passata”, ma in realtà ci sentiamo molto attuali: il rock n’ roll, il rockabilly sono ancora tremendamente moderni così com’è moderna la mentalità, il modo di essere che c’è dietro: il divertimento. E anche per questo non abbiamo un target definito, il rock n’ roll, il divertimento, è adatto a tutti!

I.S. Cosa si deve aspettare il pubblico dell’Everest dal vostro live?Se c’è una cosa che vorremmo, è che il pubblico si diverta, balli, si alzi in piedi e si muova a ritmo della musica che facciamo! E’ la nostra benzina, quello che ci fa tirare avanti.

I.S. Cosa vuol dire per voi fare musica?

Significa stare insieme, creare qualcosa dal nulla, un suono, un’ idea che si trasforma in musica.

I.S. Tra 5 anni i Lou Cash avranno scalato le classifiche musicali in Italia e all’estero: cosa rimpiangerete del vostro gruppo nel 2015?La musica che proponiamo ha già scalato le classifiche decenni fa, quindi alla scalata verso il successo, per ora, non ci pensiamo. Ci auguriamo però di crearci una nicchia di ascoltatori e seguaci che possa farci andare avanti. E’ questo il nostro obiettivo primario e, nel caso non ci saremo riusciti, è quello che rimpiangeremo.

I.S.: Parliamo di Milano: com’è fare musica in questa città? La percepite come una realtà “a misura di artista”?“Milano è bella. E’ varia e i locali sicuramente non mancano. Per chi

vuole suonare ed è alle prime armi potrebbe risultare un po’ ostile, ma basta farsi un po’ le ossa in giro e tutto diventa sicuramente più facile.

I.S. Quanto c’è di Milano e della Martesana nei vostri pezzi?Milano è una gran città, sicuramente non rientra nelle nostre canzoni, ma sicuramente è nei nostri cuori e nelle nostre menti. Ogni giorno, indipendentemente dal genere.

I.S. Cosa vi aspettate dal vostro live di venerdì all’Everest e cosa vi sorprenderebbe?Tanta gente pronta ad invadere la pista da ballo…e anche un paio di birre.

I.S.: Se vi dico Circolo Everest voi cosa mi dite?Beh, il primo concerto l’abbiamo fatto qui, avrà sempre un’accezione particolare.

30 GENNAIO 2015 | Lou Cash and the Tyre Kickers

6 FEBBRAIO 2015

CORNI PETARCONCERTO

CORNI PETAR

I.S. Corni Petar è una località croata che in italiano si traduce in “Pietra rossa”. Cosa c’è dietro la scelta di questo nome?Il periodo passato presso Corni petar, è stato il primo in cui Giorgio in vita sua ha deciso volontariamente di staccare fisicamente con la musica e la composizione, lasciando a casa chitarra e stereo portatile. Tornando si è accorto che non c’era modo di staccarsi anche mentalmente da questa pulsione, ha deciso quindi di chiamare il nuovo progetto, che da questa riflessione è nato, con il nome del luogo dove tutto ebbe inizio.

I.S. Nati nel 2005, poi subito la vittoria dell’Arezzo Wave Festival e il primo album nel 2010, Ruggine. Venerdì porterete sul palco dell’Everest il vostro secondo album, Novantasei, uscito a gennaio 2014 per Maninalto: cosa si deve aspettare il pubblico del Circolo Everest?L’ultimo anno è stato un periodo di transizione per la band, abbiamo un nuova line up per un 1/5 e brani nuovi in cantiere, pensiamo quindi di proporre vecchi classici ma soprattutto cose nuove.

I.S. Il vostro è stato definito un rock leggero ma sorprendentemente non banale. Come definiscono invece i Corni Petar la loro musica?Noi siamo quello che suoniamo e sono anni che no ci autodefiniamo più di tanto, la leggerezza o la banalità, sono solo il sapore che il

nostro rock ha lasciato ad alcuni.

I.S. Per Vicotr Hugo la musica è esprime ciò che è impossibile da dire e su cui è impossibile tacere. Cosa vuol dire fare musica per voi? E su cosa è “impossibile tacere” per i Corni Petar?Sono trascorsi parecchi anni da quando la voglia di avere una band si è trasformata in dischi e canzoni da suonare e far cantare. In questi anni è mutato però drasticamente anche il mondo a cui i nostri messaggi erano e sono rivolti. Le nostre canzoni per lo più nascono dalla necessità di raccontare a noi stessi qualcosa che altrimenti resterebbe solo un pensiero, e che forse non vivrebbe più di un attimo, qualcosa che se condiviso con qualcuno potrebbe evocare sensazioni simili a quelle che l’hanno generato. Impossibile è: tacere a se stessi.

I.S. In Novantasei trova posto anche una cover di De Andre’, Via del Campo: quale legame avete con il cantautorato italiano?Non vi sono grandi legami con la tradizione musicale del nostro paese, ad eccezione di qualche perla qua e là. Il brano di De Andrè è stato ri-arrangiato da noi per un programma tv che lo aveva chiesto fra una rosa di tre… dopo averlo suonato alla nostra maniera è diventato un cavallo di battaglia, quindi in realtà siamo legati a ciò che è diventato più che a ciò che

era in principio.

I.S. La vostra storia nasce a Milano: può essere definita una città a misura di artista? Cosa manca a Milano per essere la capitale della cultura (e della musica) italiana?Noi fortunatamente siamo nati quando ancora Milano era fucina di talenti e opportunità, non riusciamo quindi ad essere completamenti obbiettivi rispetto alla nostra grigia e spenta città, perché ci ha regalato tanto ma ora tanto ci sta togliendo.

I.S. Spiegateci meglio. In che senso Milano vi sta togliendo qualcosa?Milano é da intendersi, come in passato, il metro su cui valutare il panorama musicale: ebbene non c’é piu il fermento né da parte del pubblico, di cui tutti facciamo parte, musicisti e non, né da parte delle alternative proposte. Siamo tutti in attesa di un segnale motivante ed aggregante… Ma per ora solo un gran silenzio, e questo ahi tutti noi, é dilagante in tutta Italia.

I.S. I vostri programmi o ambizioni per il futuro.Noi ci siamo uniti per scrive canzoni, ed è l’unica cosa che assieme ci viene bene con naturalezza e senza nessun tipo di vincolo artistico o discografico, per cui come sempre e da sempre, questo è quello che faremo fino a che ci saranno le energie per farlo. Il resto non è mai stato molto determinante.

6 FEBBRAIO 2015 | Corni Petar

EUGENIO ALLEGRI

13 FEBBRAIO 2015

NOVECENTO

Novecento è nei Teatri dal ’94.Cosa ha voluto dire per lei essere l’interprete per così tanto tempo di uno spettacolo, portarlo nei teatri e farlo suo, tanto da farle affermare “Novecento sono io”?Novecento sono io perché è stato scritto per me e per Gabriele Vacis. Poi col tempo lo spettacolo è diventato adulto, adesso è maggiorenne. Ha compito 20 anni nel 2014, è autorizzato ad avere una sorta di “carta d’identità”.Una volta, a una provocazione giornalistica in cui mi fu chiesto “ma lei è Novecento?”, risposi: “Sì, sono io!”. E’ un’affermazione che parte da una riflessione sul lavoro fatto in questi anni: per il numero di repliche realizzate, per questi 20 anni in cui ho attraversato parte della mia vita professionale e per il fatto che uno spettacolo teatrale implica sempre un coinvolgimento personale.Come mi è già capitato di dire, non sono l’unico ma… io sono Novecento. Se qualcun altro può dire lo stesso tanto bene. Ma penso di poter essere riconosciuto dal pubblico e dalla critica come colui che ha portato in giro Novecento.

Un’altra maschera insomma?Sì, in effetti col tempo è diventato quella cosa lì.Io sono stato conosciuto dal più grande pubblico teatrale dopo Novecento, è inutile negarlo.

E come è nato l’incontro con Alessandro Baricco e Gabriele Vacis? Tre torinesi che hanno creato uno spettacolo cult.Sono quelle combinazioni un po’ strane, in cui le persone si trovano nel posto giusto al momento giusto.Baricco in realtà lo conoscevo già da una decina di anni e, a parte qualche piccola collaborazione cinematografica fatta a Torino, non ci eravamo mai incontrati sul teatro. Eravamo tutti e tre torinesi ma in quel periodo io ero nomade: ecco perché dopo averlo conosciuto nel

1985 ci siamo un po’ persi, io sono andato per altri lidi. Quando sono tornato a Torino lui nel frattempo aveva incontrato Gabriele Vacis al Teatro Settimo. E il caso vuole che io, una volta completata la mia esperienza con Leo De Berardinis, approdo al Teatro Settimo. E quindi ci ri-incontraimo in quell’ambito, ognuno con la propria esperienza: io con il mio lavoro di teatro, Baricco era già lo scrittore Baricco e Vacis con il suo lavoro al Teatro Settimo che andava avanti da anni.Dopo due spettacoli corali con il gruppo del Teatro Settimo sentivo l’esigenza di fare un monologo, mi sentivo pronto. Ne parlo con Gabriele e tutti e due ci diciamo “parliamone con Sandro”.Ed è andata così. E’ stato un inizio incoraggiante, oltre al fatto che una volta arrivata la prima parte del copione era.. una cosa molto bella.

Cosa si deve aspettare il pubblico di Vimodrone? Venerdì sul palco vedremo di più Novecento o Eugenio Allegri?I due elementi coincidono. Il testo è stato scritto per essere fatto sulla scena. Come è scritto nel frontespizio del libro, che è uscito dopo il debutto dello spettacolo teatrale, è un testo nato per il Teatro, non per il cinema o per la lettura.Lo spettacolo che va in scena è il testo che di volta in volta con Baricco abbiamo corretto, riadattato, perché l’allestimento teatrale rendeva superflui alcuni passaggi che erano già risolte con la scenografia, con le luci o con le musiche.Anche se poi quello che viene pubblicato nel libro è il testo originale di Baricco. Il pubblico di Vimdorone vedrà lo spettacolo originale, che andò in scena ad Asti nel novembre del 1994. Con il mio costume, che nel frattempo è stato cambiato certo.. le mie misure non sono ahimè quelle di 20 anni fa.

Non era nemmeno scontato che sarebbe diventato libro: Baricco l’ha pubblicato dopo aver raggiunto il suo successo personale, ma quando consegnò a me e a Vacis il copione, non era ancora così famoso, non era il Baricco che conosciamo adesso.Diciamo che le cose hanno viaggiato parallelamente: in quel 1994 Baricco va due volte in televisione in due trasmissioni che lo rendono famoso. Certo, era già sulla strada del successo: scriveva per il Corriere della Sera, aveva ricevuto un importante premio letterario per Oceanomare, ma non era ancora passato in tv, il pubblico non lo conosceva visivamente. E poi è arrivato Novecento.

E cosa è cambiato dal suo primo Novecento?E’ cambiato il mio approccio, o meglio: io faccio lo stesso spettacolo, che non è mai lo stesso spettacolo. Primo, perché il pubblico è sempre diverso e, essendo un monologo, si lavora insieme al pubblico; secondo, perché è cambiata la mia vita, quello che ero 20 anni fa non posso esserlo più. Il mio modo di porgere Novecento è cambiato con me.In questi venti anni ho fatto molti altri spettacoli, alcuni monologhi, e tutto questo mi ha fatto – si presume – evolvere come attore. E questa presunta evoluzione ovviamente ha riguardato i diversi appuntamenti in cui mi sono misurato con Novecento.Diciamo che il Novecento che il pubblico vedrà è uno degli appuntamenti in cui la nave torna ad approdare in porto. A Novecento io ci torno sempre dopo esperienze diverse che di volta in volta rimodellano la modalità stessa di porgere lo spettacolo al pubblico.

Parliamo di Eugenio Allegri attore. Cosa ha significato la scoperta del teatro nella sua vita?In realtà non è stata una scoperta, è stata una consapevolezza acquisita nel tempo. Ho cominciato a muovere i primi passi sul palcoscenico e

13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri

poi, poco alla volta, mi sono reso conto che era uno straordinario modo per comunicare, per questo linguaggio sia esteticamente ma anche politicamente importante nel rapporto col pubblico.Un linguaggio di comunicazione, di scambio, un luogo dove costruire una forma anche etica, non solo estetica, di relazione tra le parti.Non è stata quindi una folgorazione, non sono stato “fulminato” dal teatro, anche se da ragazzo avevo fatto le mie prime esperienze scolastiche con la recitazione.Cè stata un’acquisizione di consapevolezza grazie anche all’incontro con gli attori, i teatranti… Ho guardato molto gli altri prima di capire che poteva essere il mio lavoro.Il Teatro è poi una grande forma di espressione della persona. Gli attori sono fortunati: hanno una grande

consapevolezza degli strumenti che hanno a disposizione perché acquisiscono una grande capacità espressiva e quindi favoriscono la ricchezza della comunicazione.

Nei suoi trent’anni di carriera ha calcato spesso le scene straniere, lo stesso Novecento è andato anche all’estero.Noi siamo un Circolo che lavora per rafforzare il welfare culturale del territorio. Lei che rapporto ha con la sua comunità d’origine, con Torino? Con il suo lavoro è stato impegnato anche a livello locale?Sì, sempre. Non ho mai smesso di riportare nel mio territorio quello che acquisivo da altre parti. E devo dire, a volte non con la presupposta restituzione di interesse da parte del territorio.Non so ancora se ho fatto bene o ho fatto male, c’è ancora un forte

punto interrogativo su questo. Il riconoscimento popolare c’è: so di avere un pubblico torinese che mi segue, che è affezionato, che mi riconosce come “figlio di questa terra”. Ma sono le istituzioni, i poteri “forti” che controllano tutta l’attività culturale di una città o di una regione, che fanno molta fatica a riconoscere questo valore, cioè il rapporto con il territorio.Si preferisce sostenere eventi sporadici, nomi famosi, personaggi mediaticamente forti. E allora capita che si plaude a quelli che sono capaci di stare sia sul piano territoriale che su quello nazionale riportando “in casa” ciò che fanno da altre parti, magari con riconoscimenti più gratificanti. E tutti a dire “Ah che belli, che bravi!”. Ma poi… Non vivo ahimè in un territorio che tende a tenere in casa i propri figli.Questo è un po’ il difetto di Torino,

13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri

13 FEBBRAIO 2015 | Eugenio Allegri

città di gran laboratorio ma che poi a un certo punto, se vuoi ottenere dei risultati, devi lasciare. E’ una città che soffre un po’ di provincialismo, ecco. A differenza di Milano e della Lombardia che invece hanno da sempre una struttura culturale che tende a valorizzare il proprio patrimonio. Ahimè, mi è toccata Torino (ride).Tendenzialmente “l’aristocratica e sabauda Torino” non ha una virtù democratica dal punto di vista sociale, economico e culturale che invece ho sempre riscontrato in Lombardia e a Milano in particolare.

La aspettiamo a Milano allora! Anzi, a Vimodrone. Noi siamo in provincia.Io frequento tanto la provincia italiana, non solo intorno alle grandi città. La provincia del centro Italia ad

esempio, soprattutto nelle Marche, in Umbria. La provincia milanese e lombarda in questi anni l’ho battuta tutta, regolarmente: Milano, Brescia, da qualche anno manca Bergamo per alcune scelte politiche, ma speriamo che le cose si ristabiliscano presto.Senza dimenticare la stessa città di Milano: Novecento ha celebrato i suoi vent’anni con due repliche al Piccolo. E il pubblico milanese è… mi permetto di dire “un’altra cosa”!

Può spiegarci meglio?Nella provincia milanese si ha consapevolezza di un’appartenenza a una comunità cosmopolita di grande tradizione culturale, fortemente democratica e orizzontale. Noi piemontesi invece abbiamo questa virtù “democratica” e ce la trasciniamo dietro. Anche io che sono alto meno di 1.70 e vi guardo dall’alto verso il basso!Questo provincialismo ci accomoda anche tanto bene eh! Siamo i cosiddetti bugianei: noi non ci muoviamo. Ed è veramente così.

Ci sono stati incontri nella sua carriera professionale, fuori dal teatro, che l’hanno formata?Certamente sì. Un incontro artistico e un incontro personale/sociale: il primo con la musica, il secondo con l’impegno politico. Musica e politica sono i due punti di riferimento con i quali ho misurato più spesso il mio alfabeto teatrale.Da ragazzo ho studiato musica, ma gli incontri con i musicisti hanno cambiato le cose: dal più famoso Stefano Bollani, alla Banda Osiris, musicisti anomali ma talentuosissimi anche come attori. E poi Ramberto Ciammarughi, pianista e compositore assisano con

cui abbiamo fatto un tentativo di lauda per frate Francesco con delle virate sul jazz. Posso citare Daniele di Bonaventura, bandoneonista con cui faccio un reading su alcuni testi sudamericani. E poi tutta l’esperienza del teatro Settimo, quella con De Berardinis così come il lavoro sulla commedia dell’arte: esperienze in cui l’elemento musicale è sempre stato forte.Anche l’incontro con la politica è avvenuto da ragazzo: prima il movimento studentesco della provincia torinese, poi sono stato iscritto al partito comunista e a livello comunale sono stato anche consigliere. Due anni fa ho fatto uno spettacolo su Enrico Berlinguer, I pensieri lunghi. Non l’ho scritto io, l’ho solo interpretato, ma con molta conoscenza dei fatti.Ho fatto politica attiva, negli anni ’70 eravamo tutti convinti che ce l’avremmo fatta. Non è andata così, ma eravamo tutti pronti a scommettere che le cose sarebbero andate diversamente.

E oggi verso cosa è diretto il suo impegno? Progetti per il futuro?Sempre nel Teatro. Con l’esperienza che ho acquisito in questi anni mi capita di lavorare anche nell’ ideazione di progetti teatrali a livello territoriale.E poi continua l’interesse nei confronti della scuola con la presentazione di lezioni-spettacolo; tengo laboratori con i giovani attori che stanno crescendo nelle scuole di teatro. Continua il lavoro con la commedia dell’arte, che ho sempre fatto, e laboratori legati alla lettura poetica e narrativa, un altro aspetto che ho approfondito nella mia carriera.

COMPAGNIA TEATRO EX DROGHERIA

27 FEBBRAIO 2015

21°C OVVERO COSA ACCADE ALLA TEMPERATURA IN TEMPO DI CRISI

TEATRO

21°C OVVERO COSA ACCADE ALLA TEMPERATURA IN TEMPO DI CRISI

I.S. Il nome della compagnia nasce da una drogheria in provincia di Bergamo dove avete iniziato a lavorare, nel 2010. Ci vuoi parlare di quell’esperienza?Che cosa è cambiato e che cosa, invece, portate con voi da allora?È stato l’inizio, un luogo che ha dato vita ad una riflessione fondante per il nostro lavoro. Una ex drogheria con le vetrine su strada in un piccolo paese della bergamasca. Le persone passavano, guardavano e si sentivano partecipi del processo. Ci fermavano per strada e parlavano di loro. Di loro in relazione al nostro lavoro, in rapporto al “fare teatro” ed in rapporto al loro tema. Una modalità di lavoro che cerchiamo di mantenere ed è da qui che nasce la necessità di partire dall’indagine sociale per costruire i nostri lavori. Ex drogheria è un modo di creare un teatro in vetrina costante, che sia specchio di chi si avvicina a noi. Perché eravamo lì? Perché nonostante fossimo tutti giovani professionisti, formati nelle principali accademie d’arte drammatica, non avevamo una sala prove e nemmeno i soldi per pagarla. La ex drogheria era del nonno di una di noi.

I.S. “21°C – ovvero cosa accade alla temperatura in tempo di crisi” è una produzione che racconta la storia di tre ragazzi ai giorni nostri, alle prese con le sfide e con le difficoltà che riguardano una grande fetta di giovani italiani (e europei).Con quale approccio il Teatro Ex drogheria parla dell’attuale crisi mondiale? Cosa dite che gli altri

ancora non hanno detto?L’approccio è stato quello di chiedere alle persone “cosa mancasse al proprio frigo in tempi di crisi” attraverso una performance di indagine sociale in strada con 3 FRIGHI rossi (ci teniamo all’errore grammaticale). Lo spettacolo è un ritratto parziale della crisi che si fonda su quello che ci hanno raccontato. Più di 1.000 testimonianze raccolte… Ne avremmo volute molte di più, ma … la crisi ci ha costretti ad una visibilità ridotta.Siamo un teatro in crisi, fatto da giovani adulti nella crisi, creato con una economia produttiva e distributiva in crisi. Ma parliamo delle vite delle persone e non della crisi, quella è solo un dato storico.

I.S. L’esperienza dell’indagine sociale come base di partenza di uno spettacolo teatrale suggerisce quasi che nello spettacolo “sia tutto vero”, che sia stata eliminata del tutto la fiction. Vuoi parlarci di questa esperienza?E’ tutto vero nel senso che io (Sara) so esattamente ” chi” tra le 1.000 testimonianze ha apportato una data caratteristica a quel personaggio. Ci sono anche delle frasi riportate, anche se non sembra.Eppure ci dicono che siamo cinematografici… Forse è che stiamo tornando al neorealismo? VENITE e giudicate questa affermazione piuttosto forte…

I.S. Ora una domanda di rito

che facciamo sempre a tutte le compagnie lombarde o milanesi che passano dal’everest: cosa vuol dite fare cultura in una regione come la Lombardia e in una città come Milano? C’è spazio per i nuovi nomi o per il lavoro di giovani compagnie?Noi siamo di Bergamo e a Bergamo non è esattamente come Milano, ma siamo anche un poco di Milano avendo studiato lì. Non c’è spazio per nessuno, questa è la brutta sensazione che aleggia. Il problema è anche il moltiplicarsi di esperienze non professionali che più che “togliete mercato” non creano un confronto né per gli artisti, né per il pubblico. Ci sono spettacoli belli, ma sarebbe bello vederne di più e crescere in questo confronto.Prima di avere la presunzione di educare il pubblico, dobbiamo educare noi stessi.Si arriva ad un punto/ età in cui se non hai le spalle “parate” a livello economico, non è più possibile crescere. Quindi? Quindi dormiamo di meno e facciamo più rinunce, per ora…

I.S. “21°C – ovvero cosa accade alla temperatura in tempo di crisi” ha vinto il Premio Dart per la nuova drammaturgia. Che programmi hai per il futuro? Dove ti piacerebbe portare il tuo spettacolo?Mi piacerebbe avere l’opportunità di farlo crescere. Per scrivere un testo di vogliono molte stesure, per far vivere uno spettacolo molte repliche.Dove? Ovunque.

27 FEBBRAIO 2015 | Teatro Ex Drogheria

ECCENTRICI DADARO’

13 MARZO 2015

SENZA FILTRO

TEATRO

UNO SPETTACOLO PER ALDA MERINI

UNO SPETTACOLO PER ALDA MERINI

I.S. Come nasce Senza Filtro?Senza Filtro ha avuto una genesi casuale. Un giorno Rossella Rapisarda, l’attrice che vedrete sul palco, mi ha regalato un libro di poesie di Alda Merini, non per un motivo particolare ma perché l’aveva colpita e voleva che lo leggessi. Poi a un certo punto si è presentata l’opportunità di pensare a uno spettacolo sul tema del sacro, e siccome in questo libro si parlava molto di angeli e del loro ruolo di intermediari tra la terra e il cielo, ci è sembrato spontaneo andare su Alda Merini: non tanto per il tema degli angeli, ma perché la sua poesia è veramente una sintesi tra la carne e lo spirito.

I.S. Quali difficoltà ci sono state in questo percorso?La difficoltà è stata quella di parlare con rispetto consapevole. Alda Merini è stato un personaggio talmente fuori dalle righe, talmente straordinario, che ne è stato fatto un caso. Quando però è stato comodo farlo. Perché poi alla fine è stata conosciuta come la “poetessa matta”, di cui si è parlato tanto ma sempre in relazione all’esperienza del manicomio. In realtà questa cosa è fuorviante: Alda Merini è semplicemente una persona così libera dalle regole che, in una fase storica molto precisa, è stata mandata in un posto che a quei tempi serviva per tanti motivi. Ad esempio, per tenere sotto controllo le persone scomode.La cosa per noi più complessa è stato rendere pienamente ragione della straordinarietà della persona: sul piano della poesia, per definirla straordinaria basta leggerla, ma noi volevamo raccontare la persona Alda Merini. Di fatto nello spettacolo si parla del suo amore per la vita, di questo amore che diventa così grande da essere scomodo e da doverlo chiudere nelle quattro pareti di un manicomio.La difficoltà sono state due: da un

lato quella di sintetizzare l’enorme mole di materiale. Alda Merini è colossale, sia per esperienze vissute che per la quantità di testi scritti; e dall’altro raccontare casi della sua vita estremi, come il manicomio, ma in una maniera tale che non fosse il centro della storia, ma piuttosto “un attraversamento”.Per farlo abbiamo avuto un grande aiuto dalle persone che l’hanno accompagnata per lunghi periodi della sua vita. Abbiamo percorso i Navigli e conosciuto le persone che l’hanno vissuta: Mondadori, Casiraghi.. alcune persone che le sono state particolarmente vicine sono state generosissime nel raccontarci aneddoti, storie… E il risultato è che abbiamo raccolto una quantità gigantesca di materiale!

I.S. Gli Eccentrici Dadarò sono nati nel 1997, quasi 18 anni fa, siete “maggiorenni”. Che tipo di ambiente avete incontrato a Milano e in Lombardia, dove la compagnia si è formata e continua a lavorare?Milano è sempre stata una città molto distratta dalla rincorsa a un certo tipo di immagine, quella di “città internazionale”. E purtroppo negli ultimi anni la cultura non è stata particolarmente sostenuta né difesa, e questo spiace molto.Milano ha tutte le qualità per essere la città della cultura: ha decine di Teatri e ogni anno ne nascono di nuovi. Io voglio sperare che lo sia sempre di più, ma chiaramente è una questione di scelte che sono molto grandi e molto sopra di noi. Anche quest’anno che ci sarà l’Expo, ad esempio, abbiamo sprecato un’occasione: la gran parte del budget destinato alla cultura andrà a Cibus Rei, una realtà straniera. Hanno puntato sul grande nome che intrattiene invece di cogliere l’opportunità di far crescere delle realtà locali o nazionali.

I.S. Uno sguardo sul Teatro italiano: cosa si salva e cosa invece andrebbe rinnovato dal tuo punto di vista?E’ un momento in cui le cose stanno cambiando, anche complice la crisi che almeno ha dalla sua il fatto di far muovere le cose. Tante realtà che avevano creato una sorta di monopolio sono state costrette a collaborare e a cambiare le loro logiche. Il Teatro in Italia funziona ancora a circuiti chiusi: si tende a concentrare le cose più o meno nelle stesse mani. Ora la crisi sta spostando questa concentrazione: sicuramente per esigenza, le stesse mani non riescono più a contenere tutto.Rispetto ai teatri europei siamo abituati ad affidare la responsabilità dei progetti culturali ai nomi invece che ai progetti: all’estero hai teatri stabili affidati a ragazzi di 25-30 anni, in Italia questa cosa sarebbe impossibile da immaginare, tranne che in pochi e isolati casi.Tra le cose che salvo, sicuramente la qualità dell’immaginario. L’immaginario è quella capacità di costruire la parte visiva dei lavori che, a noi italiani, viene piuttosto facile.

Qual è l’impegno della compagnia a livello locale?Da anni nella zona in cui abbiamo la nostra sede, vicino Saronno, organizziamo rassegne teatrali per cercare di portare occasioni di socializzazione e di “evoluzione culturale”. Quest’anno però abbiamo iniziato un nuovo percorso, “PulsAzioni”,: è un progetto che ha l’obiettivo di portare l’evento teatrale con le sue particolarità al di fuori dei teatri: in strada, nei luoghi di ritrovo, nelle case di riposo, negli appartamenti della gente.

13 MARZO 2015 | Eccentrici Dadarò

COMPAGNIA CHRONOS 3

27 MARZO 2015

LA TRAVIATA

TEATRO

REQUIEM PER UNA SGUALDRINA

REQUIEM PER UNA SGUALDRINA

I.S. “Traviata - Requiem per una sgualdrina” è la storia di due donne, due Violette molto diverse tra loro. Vorresti raccontarci da dove nasce questo binomio?Questo progetto nasce un anno fa circa, quando chiesi a Tobia Rossi - autore della compagnia - una riscrittura contemporanea delle vicende di Violetta. Perché volevo mettere in scena quell’amore passionale, così melodrammatico, amore che è indissolubilmente legato anche alla morte. E da lì l’idea di mettere in scena due Violette, una donna cantante costretta per l’eternità ad interpretare Violetta in modo tradizionale, secondo i canoni della lirica, obbligata dentro a forme precostituite; e al suo fianco una Violetta contemporanea che vive con tutto l’entusiasmo tipico delle ragazze l’avventura della vita, purtroppo colpita dalla malattia.

I.S. In cosa la vostra Traviata si differenzia dalle altre messe in scena dell’opera di Verdi?Innanzitutto le arie e i brani verdiani, ben interpretati da Gianpietro Bertella (pianoforte) e Anna Righettini (soprano), rivivono al contrario, partiamo dal famoso “addio del passato” fino ad arrivare all’aria del “Libiamo” solo alla fine dello spettacolo.Traviata cantante non è più la cortigiana innamorata della vita di lusso e di Alfredo - amori che la condurranno al vortice della morte - ma diventa la donna guida, la donna che ha già provato sulla sua pelle decine e decine di volte la fine, che tuttavia non riuscendo a liberarsene, cerca quantomeno di liberare la ragazza in scena che pare vivere nel mondo contemporaneo delle agenzie di escort, delle bmw SUV, dei party forsennati, delle cene a base di insalata croccante per non ingrassare.I.S. Parliamo della vostra compagnia. Cosa vuol dire fare Teatro per Chronos Tre?Chronos3 nasce dalla volontà di 3

registi: una compagnia anomala sul panorama italiano, ma che fa di questa differenza la sua forza. Ognuno di noi porta avanti progetti personali, laboratori e spettacoli, e nello stesso tempo ci dedichiamo a lavori comuni sia sul lago di Garda, base della compagnia, sia a Milano, dove tutti e tre abitiamo.Fare Teatro per noi vuol dire dare aria e fiato alla nostra voglia di raccontare e indagare il contemporaneo, l’oggi. Tutti i nostri progetti si collocano nell’ambito della drammaturgia contemporanea, si tratta di testi originali nella maggior parte dei casi che parlano di alcuni aspetti della vita dell’uomo oggi.Abbiamo deciso do dedicare anche tante energie alla costruzione di un circuito, che abbiamo chiamato Circuito contemporaneo, ovvero una serie di relazioni con i comuni del lago: una vera e propria stagione teatrale per diffondere e portare anche lì la grande drammaturgia contemporanea, in luoghi dove si è abituati a vedere solo classici o teatro dialettale.

I.S. La vostra compagnia nasce nel 2011 all’interno della Scuola Paolo Grassi di Milano. Quali sono a tuo avviso, vizi e virtù del Teatro lombardo di oggi?Il teatro lombardo sicuramente è molto vivo, è una fucina molto viva di giovani compagnie, di giovani gruppi, che si aprono sempre di più; nascono ogni giorno nuclei di indagine teatrale, ragazzi che decidono di fare del teatro il proprio mestiere. Questa parcellizzazione del teatro non può che far bene al teatro lombardo, dà voce alle tante diversità, alle tante voglie di raccontare.Dall’altra parte, purtroppo, questa situazione porta a non avere forza, o meglio a non avere una forza comune in grado di accedere a bandi, a finanziamenti, di non riuscire ad affacciarsi al panorama nazionale.Per questo ben vengano le unioni

dei circuiti delle forze per poter far sentire la voce del fertile teatro “off”, come viene definito.

Is. Uno degli indirizzi della compagnia è la performance legata al territorio. Cosa vi piace di più di questo aspetto?Questa è una delle direzioni di indagini più importanti della nostra compagnia. La riscoperta di antiche tradizioni, di luoghi pressochè sconosciuti, di personaggi della storia delle nostre zone e il loro racconto teatrale. Ci piace parlare con le persone di un paese, capirne le radici, le motivazioni dei comportamenti che oggi dirigono la nostra vita. Perché esiste quel modo di dire? Chi ha costruito l’unica strada che conduce ad un paese di montagna e quando? Come si faceva prima? Insomma raccogliere la storia, rielaborarla, raccontarla per capire l’oggi.

I.S. Vuoi raccontarci l’ultima esperienza di performance sociale realizzata da Chronos 3?L’anno scorso abbiamo creato lo spettacolo “10,2 il futuro attraverso la roccia” ovvero il primo capitolo di una trilogia dedicata alla relazione tra la tecnologia e l’essere umano. Abbiamo raccontato della costruzione della “strada della forra” di Tremolino sul Garda in occasione del suo centenario: un’opera titanica di 10,2 Km che collega il porto, il lago fino al paese, fra tornanti impossibili, gallerie scavate a mani nude della roccia da operai appesi alla roccia. Abbiamo “ricostruito” il paese come era 100 anni prima per capire le dinamiche, le corse, i percorsi che questi uomini, pionieri per l’epoca, affrontavano ogni giorno.E da lì è nato il nostro spettacolo, pensato itinerante nel centro storico del paese proprio nei luoghi raccontati.

27 MARZO 2015 | Compagnia Chronos 3

3 APRILE 2015

VERBALCONCERTO

KARAKORUM

KARAKORUM

I.S. Chi sono i Verbal e per chi scrivono la loro musica?Verbal è un collettivo di individui con una grande passione per la musica, i suoni e tutti i linguaggi che vi stanno intorno. Scrivono la loro musica per loro stessi e per tutti coloro che hanno la curiosità e la pazienza di ascoltarla.

I.S. Come nasce Karakorum?Karakorum nasce dalla proposta di Lab80 Film, una delle realtà più interessanti del nostro territorio e non solo per quanto riguarda la cinematografia.In occasione de Il Grande Sentiero, festival annuale di Lab80 - in collaborazione col CAI - sui viaggi e sulle imprese individuali, ci è stato proposto di sonorizzare delle immagini di archivio restaurate da Lab80 stesso riguardanti una spedizione scientifica organizzata dal Duca di Spoleto nei lontani anni ‘20.Orgogliosi e lusingati, ci siamo cimentati nel nostro personale viaggio, ripercorrendo grazie alle splendide immagini quello del numeroso gruppo che si mosse oramai un secolo fa per raccogliere preziose informazioni di terre lontane.

I.S. Karakorum è cinema, musica, spettacolo e amore per l’alta quota insieme. Tolta la musica che è il vostro lavoro, cosa vi appassiona di più degli altri tre elementi?Il cinema è sicuramente una componente che ci affascina tutti e che ci ispira quotidianamente e nella nostra musica. La montagna idem, anche se nessuno di noi la frequenta assiduamente: in quanto quasi interamente bergamaschi è però nelle nostre viscere, fondamenta della nostra cultura, vibrazione a cui non possiamo rinunciare.

I.S. La pellicola del 1929 è il racconto di una spedizione di un gruppo di italiani alla scoperta del massiccio del Karakorum. Qual è stata l’ “impresa” più ardua per i Verbal?L’impresa maggiore per i Verbal è stata cercare di dare un ritmo a immagini che di per sè sono molto aritmiche, fotografie in movimento di un esperienza d’altri tempi, prive di una regia compiuta.Abbiamo deciso di imporre dei movimenti a gruppi di immagini che trovavamo correlate, portando la nostra personale interpretazione

derivante dalla visione delle scene prive di qualsiasi suono. Per alcuni di noi non è stata la prima esperienza di questo tipo, ma per la maggior parte sì, ed è stato tremendamente affascinante.

I.S. Venerdì un telo su cui verrà proiettato il documentario vi separerà dal pubblico. La chiamano “la quinta dimensione dello spettacolo”, la proiezione di un film in realtà sonora aumentata. Come cambia - se cambia - nel rapporto con gli spettatori?Cambia la focalizzazione dell’attenzione, aumenta la curiosità sull’esecuzione costringendo al contempo a concentrarsi sulle sensazioni evocate dalla correlazione tra musica e immagini, senza distrarre dal peso di queste ultime.

I.S. Qual è la prossima “montagna da scalare” per i Verbal?La prossima montagna da scalare sarà trovare nuove ispirazioni dando forma a nuovi piccoli viaggi sonori.Mentre riproporremo il più possibile la sonorizzazione di Karakorum, scriveremo nuovi brani con l’idea di realizzare il nostro secondo LP.

3 APRILE 2015 | Verbal

DIONISI COMPAGNIA TEATRALE

10 APRILE 2015

POTEVO ESSERE IO

TEATRO

I.S. “Potevo essere io” è il racconto di una bambina cresciuta negli anni ‘70-’80 nella periferia nord di Milano, Niguarda. C’è qualcosa di Renata Ciaravino in quella bambina?Quasi tutto. Il “quasi” è di Elvio Longato e Arianna Scommegna.Per me il teatro ha a che fare con la donazione di sé. E col darsi in pasto.

I.S. La protagonista interpretata da Arianna Scommegna descrive - attraverso il racconto della sua vita - la normalità di molte altre esistenze, delle famiglie del sud trapiantate a Milano alla ricerca di nuove opportunità che si scontrano con realtà diverse da quelle che immaginavano; cosa trovi di quella Milano di una volta nella Milano di oggi?Lo stesso sconcerto nell’idea di emigrazione. Conosco pochissime persone, oggi come ieri, che non conservino da qualche parte una ferita per avere lasciato la terra della nascita. Dalla mia vicina egiziana a mio padre. Alla fine di una vita uno si chiede se ne valeva la pena. Sono i figli degli emigranti che ne traggono veramente vantaggio. Come me. Ma anche lì chissà… se fossi nata a Brindisi…

I.S. La scenografia dello spettacolo è scarna, ma molta importanza è stata data ai video, curati da Elvio Longato. Puoi spiegarci le

motivazioni di questa scelta stilistica?I video di Elvio Longato sono la manifestazione per immagini del sentimento che sta sotto al racconto. Un altro modo di raccontare la stessa visione. Una pausa per lo spettatore dalla parola, e insieme un ingresso in una sintesi poetica che dice tanto in 2 minuti.

I.S. Parliamo di te: classe ‘73, diplomata alla scuola Paolo Grassi di Milano, drammaturga, scrivi estensivamente per il teatro e collabori nella direzione di diversi festival artistici. Eppure anche a te sarà capitato di dirti “Potevo essere io”... Chi potevi essere e invece non sei stata?Non me lo chiedo più perché quando me lo chiedo rabbrividisco. Mi convinco allora di credere al “daimon” come ne parla Hillman: accade ciò che deve accadere anche se a volte ti sembra che il disegno della tua vita abbia dei buchi, delle scoloriture.Potevo essere un’alcolizzata, una ricca autrice televisiva, la moglie di un dentista, la madre di tre figli già grandi, una brindisina, la moglie di una donna. Troppe possibilità.Questo testo è un modo però di ringraziare chi mi ha concesso di essere ciò che sono, anche senza saperlo.

I.S. Chi secondo te dovrebbe

vedere “Potevo essere io”?Tutti. “Potevo essere io” parla ai bambini che siamo stati e che ancora ci portiamo dietro ovunque andiamo.In platea non ci sono mai solo 100 persone. Ci sono 100 persone + 100 bambini accanto, invisibili.

I.S. Nella tua carriera hai calcato i palchi e frequentato le scuole di drammaturgia straniere, in città come Parigi e Bruxelles: cosa pensi che manchi al teatro italiano che invece queste capitali europee possono vantare? E in cosa invece l’Italia eccelle?E’ una domanda a cui non so rispondere. Se non con una banalità. A noi manca l’1,1 % i più del pil speso in cultura rispetto alla media degli altri paesi. Per il resto nessun paese ha più degli altri, ognuno ha quello che ha.

I.S. Progetti nel cassetto di Renata Ciaravino e della Compagnia Dionisi?I progetti di compagnia coincidono coi progetti delle persone. Non esiste più una struttura con doveri fissi e mete che camminano sulle teste delle individualità creatrici.Abbiamo perso un po’ di interesse per il collettivo come idea, ritrovando molto amore nel lavorare con chi stimiamo profondamente.

10 APRILE 2015 | Dionisi Compagnia Teatrale

17 APRILE 2015

BACK DOORS BLUES BAND

CONCERTO

BACK DOORS BLUES BAND

I.S. Chi sono i Back doors blues Band?Siamo un “gruppo essenziale”: 3 elementi, basso-batteria-chitarra, che propone blues in formula semplice ed originale, senza troppi “effetti musicali”.

I.S. Cosa rappresenta per voi la Musica?La musica è un mezzo di comunicazione, amore verso la “storia passata” e di come eravamo; a volte è l’idea di uno stile di vita.

I.S. Se dico Everest, cosa mi dite?Un locale di Vimodrone, “storico” per quelle persone di 50-60 anni che

hanno visto nascere gruppi come “I Bisonti”. All’epoca, negli anni ‘70, l’Everest era momento e luogo di aggregazione nella cornice della “svolta musicale” di quel periodo.

I.S. Com’è la Vimodrone che sognate? Cosa manca alla città dal punto di vista della cultura?Abbiamo solo la biblioteca come punto di riferimento verso la lettura e la documentazione all’arte, frequentata prevalentemente da bambini ed anziani. Abbiamo solo l’oratorio che raccoglie ed aggrega i giovani.Mancano ad esempio dei laboratori di interesse per i ragazzi, o strutture

aggregative per condividere idee, progetti, iniziative...Per i meno giovani un’idea potrebbe essere quella di organizzare gli “aperitivi filosofici” per avviare un dibattito intorno ai temi di interesse. Domitilla Meloni, di Vimodrone, anni fa, aveva tentato questo percorso con relativo successo. Iniziativa poi accantonata, ma chissà, nel prossimo futuro potrebbe rinascere un “circolo culturale di Vimodrone”...

I.S. Sogni nel cassetto dei Back doors blues Trio?Tanti, forse troppi. Aggregare, suonare, insegnare...

17 APRILE 2015 | Back Doors Blues Band

MARTA OSSOLI E MINO MANNI

24 APRILE 2015

CLEOPATRàS

TEATRO BIG

CLEOPATRàS

I.S. Chi sono Mino Manni e Marta Ossoli e come arrivano a lavorare insieme?Mino Manni attore e regista, si di-ploma alla Bottega teatrale di Vitto-rio Gassman. Ha lavorato con i più grandi registi del teatro italiano tra cui Massimo Castri, Giancarlo Co-belli, Cesare Lievi, Antonio Calenda, Jerôme Savary e Glauco Mauri.Fonda con Alberto Oliva la compa-gnia “I Demoni”, mettendo in scena spettacoli tratti da opere dostoe-vskiane e non solo.

Marta Ossoli, attrice, dopo aver con-seguito il diploma presso l’Accade-mia dei Filodrammatici di Milano lavora col Teatro Colla, il Teatro Out-off diretta da Lorenzo Loris, il CTB e il Teatro Carcano, col quale gira l’Italia ne La coscienza di Zeno a fianco di Giuseppe Pambieri e diretta da Mau-rizio Scaparro.Mino e Marta si incontrano nel 2012 in occasione dell’allestimento di An-tonio e Cleopatra di William Shake-speare al Teatro Licinium di Erba per la regia di John Pascoe nel quale in-terpretavano i due protagonisti. Da allora collaborano all’insegna della riscoperta dei grandi classici letterari e del valore della parola: da Shake-speare a Manzoni arrivando fino a Testori.

I.S. Il vostro Cleopatràs arriva a compimento di un importante la-voro su Shakespeare condotto in-

sieme. Cosa vi ha affascinato di più della regina d’Egitto?Della regina d’Egitto chi ha affa-scinato la forza, il potere, ma an-che la grande sensualità che le ha permesso di mettere in ginocchio i più grandi condottieri dell’impero romano e non solo. I suoi ecces-si hanno fatto dell’Imperatrice un mito senza tempo. Ciò che ci affa-scina invece della Cleopatràs di Te-stori è che questo autore con la sua opera innovativa e prorompente, ci ha avvicinato a questo personag-gio che parrebbe distante e diffi-cilmente riconducibile al contesto in cui viviamo. La sua “Cleopatràs”, spogliata degli abiti regali e rivesti-ta solo di carne e sangue, ci parla in un linguaggio crudo e palpitan-te, in un dialetto che appartiene a tutti e che rievoca un’Italia ormai dimenticata.

I.S. Quale è stato il percorso che vi ha portato all’incontro con Giovanni Testori?Mino: al provino per entrare alla Bottega di Gassman portai un bra-no tratto dall’Ambleto di Giovanni Testori. Avevo 18 anni e quel lin-guaggio innovativo e quella forza espressiva mi colpirono sin da subi-to e, visto che fui scelto, lo conside-rai subito un autore portafortuna. Da allora avrei sempre voluto met-terlo in scena e finalmente l’occa-sione è arrivata grazie alla proposta di Marta.

Marta: ne ho sentito parlare alcune volte durante i miei studi accademici e, pur non conoscendolo, ho subi-to capito che si trattava di un auto-re unico nel suo genere. Allo stesso tempo però il suo nome era associa-to a qualcosa di difficile comprensio-ne, criptico e addirittura ostico. Devo dire invece che leggendo alcune sue opere, tra cui proprio Cleopatràs, su-perata la prima lettura, mi sono ab-bandonanata ai suoni delle parole scoprendo una varietà di immagini, di particolari vivissimi ed estrema-mente divertenti oltre ad una inne-gabile e disarmante poesia. Talmen-te profonda da essere universale.

I.S. Cleopatràs nasce all’interno dell’Accademia dei Filodrammati-ci: come definireste il teatro lom-bardo di oggi in relazione alla “col-tura” di nuovi talenti?E’ sicuramente uno dei più vivi e sti-molanti con un’offerta ricca e varia e una possibilità di sperimentare note-volissima.

Progetti per il futuro di Manni-Os-soli?Una serie di recital e spettacoli atti a trasmettere l’amore e la passione verso la grande poesia e la grande letteratura, soprattutto tra i giovani che spesso vedono il teatro e tutto quello che rappresenta come un qualcosa di imposto, scolastico o noioso.

24 APRILE 2015 | Marta Ossoli e Mino Manni

SILVIO CASTIGLIONI

8 MAGGIO 2015

L’UOMO E’ UN ANIMALE FEROCE

TEATRO

L’UOMO E’ UN ANIMALE FEROCE

I.S. Come nasce l’idea di un progetto su Nino Pedretti?Nino è un poeta, più famoso come uno dei tre poeti di Santarcangelo, che tutti i romagnoli conoscono perché scrivono in dialetto romagnolo: parliamo di Tonino Guerra, Lello Baldini e di Nino Pedretti. Il difetto di Nino è che muore a 52 anni nell’82 per una brutta malattia. Loro tre non sono gli unici intellettuali di Santarcangelo. Anzi, all’epoca c’era un gruppo di intellettuali molto attivi e vivaci, personaggi indisciplinati, che negli anni ‘70-’80 avevano costituito un gruppo che si chiamava il Circolo del Giudizio. E’ dentro questo gruppo di persone che nasce il Festival dei Teatri di Santarcangelo. Si racconta che fu lo stesso Pedretti ad andare a battere i pugni sulla scrivania del sindaco dicendo “questa cosa bisogna farla”!Io non ho mai conosciuto Nino mentre sono diventato amico di Baldini e Guerra, così come della sorella di Nino, Giaele. Tre anni fa mi chiama e mi dice che l’editore di Rimini sta per pubblicare un’altra volta una raccolta di monologhi in italiano (la prima raccolta fu pubblicata da Mondadori, dopo la sua morte). Mi stupisco. Ma come? Nino scriveva in italiano? La sorella mi confida che la sua passione era scrivere in lingua, non in dialetto, ma non lo pubblicava nessuno!Dopo la sua morte i familiari scoprono che aveva scritto dei monologhi commissionati da Rai Tre perché c’era l’idea di fare una trasmissione radiofonica sui temi d’attualità: una serie di personaggi un po’ strampalati, estremi, una galleria di tipi che riassume la nostra umanità.Durante la presentazione del libro mi è stato chiesto di fare delle letture ed io quella sera mi sono innamorato

di Pedretti, ripromettendomi di trasformare la sua poesia in un lavoro teatrale.“L’uomo è un animale feroce” ha avuto il merito di far conoscere Pedretti al grande pubblico, lui che era quasi “lo sconosciuto” dei tre poeti di Santarcangelo. La lingua italiana rispetto al dialetto ha una capacità di penetrazione maggiore e quindi è stata una rivelazione per tutti: nessuno se lo aspettava, nessuno lo conosceva un Perdetti così.

I.S. Quali sono stati il momento più bello e quello più difficile nell’incontro teatrale con Pedretti?Sono rimasto colpito dai manoscritti di Pedretti. Ha iniziato a scrivere di gran lena e ha continuato anche quando non aveva più le forze a causa della malattia. Scriveva con un vigore straordinario, i fogli sembravano quasi dei geroglifici.La forza della sua poesia è che vuole essere “detta”, non vuole restare scritta.Quando ho iniziato a lavorarci ho pensato alla caratterizzazione dei personaggi ma non volevo che saltasse in primo piano il virtuosismo dell’attore, anzi. Cercavo di fare in modo di restare un esecutore. Il mio impegno è stato quello di fare uscire la parola, tenendo a bada l’attore.L’impegno maggiore è stato quello di cercare di onorare questa lingua all’apparenza facile e discorsiva ma che è piena di sottigliezze, di svolte improvvise, di cambi di velocità, retromarce, come un buon testo teatrale dovrebbe essere. E’ una scrittura che veramente ama e vuole essere detta.

I.S. Cosa si deve aspettare stasera il pubblico del Circolo Everest?

Si devono aspettare dei bozzetti, dei ritratti che rappresentano non personaggi ma stati d’animo che appartengono a tutti.Lo spettatore si trova davanti a stato d’animo descritti con una maestria sublime: io mi sono messo a disposizione della scrittura. Ci sono dei momenti molto divertenti, a Nino Pedretti piaceva far ridere, raccontare le barzellette. Ma si ride sempre un po’ a denti stretti, é un gusto agrodolce che si prende con piacere. E’ una drammaturgia che mi è nata in mano, io non ho fatto altro che mettere le cose in fila una dopo l’altra.

I.S. Sei tra i fondatori del CRT, che tipo di gap si è tentato di colmare con questa esperienza di vita e professionale?Mi fai andare indietro negli anni, a quando ero ragazzino. Non pensare che io fossi cosi consapevole allora di quello che ti sto dicendo adesso! Ero appena arrivato a Milano e avevo una gran sete di tutto e soprattutto di teatro. Ma il teatro che vedevo in giro non mi piaceva. Pensavo: allora ho sbagliato, di che teatro ho bisogno? Volevo entrare alla Scuola Civica perché volevo fare l’attore ma poi non ho neppure fatto il provino perché quello che facevano non mi piaceva. Mi sembravano cose da parrucconi. Sto parlando del programma della Civica di allora, prima della riforma, ben prima dell’arrivo di Renato Palazzi (direttore dal 1986 al 1995, ndr).E dal rifiuto di questo teatro ho preso un’altra strada, ho iniziato a studiare filosofia e mi sono messo a cercare incontri: uno di questi è stato con Eugenio Barba, un altro con Grotowski. Sono arrivato al teatro partendo dal corso di filosofia che frequentavo diretto da Sisto Della Palma. Quando Sisto fonda il

8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni

8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni

CRT chiama cinque suoi studenti, tra cui me che ero il più giovane: un trentanovenne chiama dei ventenni per fare il Centro di Ricerca per il Teatro!

Il CRT allora andava incontro ad una emersione che sentivo anche io dentro ma che non sapevo interpretare, e che sarebbe diventato poi l’abbraccio nei confronti di tutto il nuovo teatro che sarebbe venuto: il teatro di ricerca, di sperimentazione di nuovi linguaggi, alternativo,

delle nuove generazioni. Un luogo aperto in controtendenza rispetto alla rigidità del teatro borghese dell’epoca. Il CRT si fece interprete di questo desiderio, di questa nuova spinta. Ma io all’epoca ero inconsapevole e bisognoso di dare sfogo al mio desiderio di essere nel teatro.

I.S. Cosa dovrebbe succedere al teatro oggi?Potrei dirti, quello che è successo a me trent’anni fa. Spero che un

ventenne oggi trovi una risposta perché io la mia partita l’ho giocata. Tocca a Elea Teatro fare WEBulli, una cosa che io non mi sarei mai sognato di fare. Tocca a loro scuotere le colonne del tempio.

I.S. Un ricordo della tua gestione del festival di Sant’Arcangelo?Quando penso ai miei anni di direzione ho un sentimento di stanchezza e di entusiasmo che si equivalgono. La stanchezza deriva dall’impegno nel creare questa cosa

8 MAGGIO 2015 | Silvio Castiglioni

che è sempre miracolosamente in piedi nonostante non sia mai data per certa. E’ stata una lotta quotidiana che mi ha sfinito ma che ho fatto volentieri. Allo stesso tempo mi sono divertito molto a guardare cose che da solo non avrei visto mai, scegliendo il teatro che non avrei mai scelto.Mi ricordo sempre quando all’uscita dallo spettacolo “My Love for you will never die” di Kinkaleri, una persona che conosco molto bene mi attacca fuori dal teatro dicendomi: “questa

cosa non ha né capo né coda, ma che spettacolo è? Io non capisco come abbiate potuto produrlo!”. Mentre alle nostre spalle due ragazze parlavano tra di loro e una diceva all’altra: “E’ la cosa più commovente che abbia mai visto”. Penso spesso a questo episodio. Questo è stato fare il direttore del Festival: non tutto può colpirti allo stesso modo ma il Festival è un luogo di accesso per tutti. Devi pensare che esistono prospettive sul mondo che a te non tornano. Per me è stata una grande avventura, costosa, faticosa; e uno sforzo di apertura pazzesco. Ma non è detto che le cose che faccio adesso non portino i frutti di questa curiosità.

I.S. Quali sono i progetti in corso?Ho onorato Lello Baldini, di cui ricorre il decennale dalla scomparsa, il grande amico di Pedretti. Anche in questo caso mi sono occupato del Baldini in italiano scoprendo

“Autotem”, un libro sull’italietta del boom economico che sogna la Cinquecento. Oggi sarebbe sull’Iphone... E’ un libro strepitoso che non si trova più, una galleria di ritratti a tratti simile e a tratti molto diversa da quelle di Pedretti.Il secondo progetto è un lavoro su un testo del ‘500: il racconto della Passione vista dalla Madonna. E’ scritto in ottonari in italiano da un poeta bravissimo, Leonardo Mello. E’ una follia però è una follia che mi piace molto. Un terzo lavoro è un confronto a due tra Ingmar Bergman e la moglie che potrebbe essere pronto tra un paio d’anni.Insomma, continuo a lanciarmi in imprese un po’ pazze perché questo mi rinnova la fame, oltre che soddisfarla. Il desiderio non va solo saziato ma devi anche tenerlo vivo.

ELEA TEATRO

22 MAGGIO 2015

WEBulli

TEATRO

WEBulli

I.S. Il bullismo c’è sempre stato, ma il cyberbullismo è un fenomeno nuovo diffuso tra gli adolescenti, sviluppato in parallelo con l’affermarsi dei social network. Come vi siete avvicinati alle dinamiche che sono proprie di una fascia molto giovane della popolazione?Siamo partiti raccogliendo il prezioso materiale che ci arrivava dai laboratori, condotti con gli adolescenti nelle scuole medie e superiori delle province di Milano e Monza Brianza.Testi, immagini, musiche, racconti, vissuti. Abbiamo utilizzato questo materiale per trovare un linguaggio che fosse “adatto” per rivolgerci proprio ai ragazzi. Abbiamo poi ripercorso la nostra adolescenza e abbiamo notato come, social network o no, i timori e il senso di inadeguatezza non erano cambiati, anzi erano molto simili.

I.S. Elea Teatro ha completato da poco una ricca stagione di repliche di WEBulli, in Italia e anche all’estero. Che tipo di accoglienza ricevete dai ragazzi?I ragazzi reagiscono molto bene a questo spettacolo. Li sentiamo presenti, partecipi. Anche la “confusione” che a volte si alza dalla sala è in realtà un caos attento all’arrivo di una canzone particolarmente amata o per una battuta che sentono loro.Dopo lo spettacolo quasi sempre ci prendiamo del tempo per confrontarci con i ragazzi, raccontare come è nato lo spettacolo e chiacchierare sulle problematiche del cyberbullismo e su come trovare delle vie d’uscita. Anche in questa fase la partecipazione dei ragazzi è sempre molto attiva, sia per quanto riguarda il racconto di esperienze conosciute, personali e non, sia nella richiesta di come poter fronteggiare

questi problemi a livello pratico.

I.S. Sul sito di Industria Scenica raccontate la vostra mission con queste parole: “Raccontare il presente con un linguaggio dissacrante.” Quanto conta l’ironia nel vostro teatro?Da sempre cerchiamo di utilizzare un linguaggio comico/grottesco e questo genere ha fin dall’inizio accompagnato la nostra ricerca. Quando scegliamo un tema di cui sentiamo l’urgenza di parlare proviamo a trattarlo senza giudizio, senza porci dall’alto o puntando il dito, ma raccontandolo da dentro, senza prendersi troppo sul serio. Con il nostro linguaggio cerchiamo di suscitare un sorriso o una risata ma che molto spesso nascondono e fanno emergere qualcosa di più profondo.

I.S. Siete tornati di recente da un festival di teatro molto importante negli Stati Uniti, In Scena! Italian Theater Festival di New York. Dal punto di vista artistico, cosa avete visto dall’altra parte del mondo che vi piacerebbe avere anche in Italia? E su cosa invece l’Italia ha da insegnare al Teatro americano?Quello che ci ha colpiti è la grande varietà di proposte artistiche, dall’evento teatrale immersivo di Punchdrunk a Chelsea, agli spettacolari musical di Broadway, alle tante compagnie che svolgono la propria personale ricerca nell’Off Broadway. La cosa affascinante è che ognuno trova il suo posto. Inoltre la tradizione teatrale e letteraria italiana è apprezzatissima in America, come ci raccontava la compagnia italiana KIT che organizza il Festival IN SCENA a New York.Quello che al nostro ritorno apprezziamo ancora di più del

teatro in Italia è il grande interesse per tematiche di interesse sociale.

I.S. Nel 1968 Pier Paolo Pasolini scriveva; “Il nuovo teatro non è dunque né teatro accademico né un teatro d’avanguardia. Non si inserisce in una tradizione ma nemmeno la consta. Semplicemente la ignora e la scavalca una volta per sempre.” Cosa potrebbe essere per Elea una rivoluzione nel Teatro?La nostra personale e piccola rivoluzione è quella di un teatro non fine a se stesso e all’espressione della capacità dell’attore ma di un teatro che possa davvero toccare lo spettatore nella “verità” dell’azione scenica, che parli di ognuno di noi, che racconti di qualcosa che sentiamo vicino.

I.S. Avete appena presentato a IT Festival il primo studio del vostro prossimo lavoro, Ludopark, con la drammaturgia di Renata Ciaravino e, oltre a voi, con l’attrice Anna Coppola. Come nasce questo progetto sul gioco d’azzardo patologico?Il nostro progetto è quello di creare una trilogia dedicata alle “Patie contemporanee”, ossia a quelle patologie, dipendenze o comportamenti inadeguati legati all’avvento dei social media e delle nuove tecnologie digitali. Il primo passo di questa trilogia è stato appunto WEBulli, incentrato sui fenomeni di cyberbullismo e sexting. Ludopark sarà il secondo passo, in produzione dopo l’estate, e tratterà della dipendenza patologica da gioco d’azzardo. Ludopark, a differenza di WEBulli, partirà da una drammaturgia originale, un testo scritto apposta da Renata Ciaravino.

22 MAGGIO 2015 | Elea Teatro

UN PROGETTO DELLA COOPERATIVA SOCIALE INDUSTRIA SCENICA

CIRCOLO EVERESTWANNA RIOT | A TU PER TU CON I WANNA RIOT, RANCID TRIBUTE BANDhttp://www.industriascenica.com/blog/2014/10/13/tu-per-tu-con-wanna-riot-rancid-tribute-band/

COMPAGNIA CLUB SILENCIO | INTERVISTA A LUCA PASQUINELLIhttp://www.industriascenica.com/blog/2014/10/23/circolo-everest-al-via-la-stagione-teatrale-intervista-luca-pasquinelli-club-silencio/

PIRATE JENNY | UN ENSEMBLE TEATRALE UN PO’ POP: COLLETTIVO PIRATEJENNY AL CIRCOLO EVERESThttp://www.industriascenica.com/blog/2014/11/11/collettivo-piratejenny-al-circolo-everest/

MAURO ERMANNO GIOVANARDI | IL PASSATO, I TALENT E “IL MIO STILE”. ASPETTANDO IL 13 DICEMBRE.http://www.industriascenica.com/blog/2014/12/08/intervistamauro-ermanno-giovanardi-il-passato-talent-e-il-mio-stile-aspettando-il-13-dicembre/

LEMON HARD | ASPETTANDO I LEMON HARD AL CIRCOLO EVEREST: LA PASSIONE PER IL ROCK E IL SOGNO DI ANDARE ALL’ESTERO. PASSANDO PER VIMODRONE.http://www.industriascenica.com/blog/2015/01/15/3969/

LOU CASH AND THE TYRE KICKERS | INTERVISTA A LOU CASH AND THE TYRE KICKERS – VENERDÌ 30 AL CIRCOLO EVERESThttp://www.industriascenica.com/blog/2015/01/29/intervista-lou-cash-and-the-tyre-kickers-live-circolo-everest-vimodrone/

CORNI PETAR | LA MUSICA COME NECESSITÀ DI ESPRESSIONE. - IL 6 FEBBRAIO LIVE AL CIRCOLO EVEREST.http://www.industriascenica.com/blog/2015/02/03/corni-petar-musica-come-necessita-di-espressione-live-6-febbraio-circolo-everest/

EUGENIO ALLEGRI | “IO, NOVECENTO E L’INCONTRO CON BARICCO”.http://www.industriascenica.com/blog/2015/02/13/teatro-sherpa-intervista-eugenio-allegri-io-novecento-e-lincontro-con-baricco/

TEATRO EX DROGHERIA | A TU PER TU CON SARA PESSINA, TEATRO EX DROGHERIA: “IL NOSTRO TEATRO AVVICINA LA GENTE, ANCHE IN TEMPO DI CRISI”.http://www.industriascenica.com/blog/2015/02/24/tu-per-tu-con-sara-pessina-teatro-ex-drogheria-il-nostro-teatro-avvicina-la-gente-anche-tempo-di-crisi/

CIRCOLO EVEREST ECCENTICI DADARò - FABRIZIO VISCONTI | “LA NOSTRA ALDA MERINI, UN INNO ALLA LIBERTÀ E ALLA VOGLIA DI VIVERE” http://www.industriascenica.com/blog/2015/03/10/fabrizio-visconti-la-nostra-alda-merini-un-inno-alla-liberta-e-alla-voglia-di-vivere/

MANUEL RENGA COMPAGNIA CHRONOS 3 | “LA NOSTRA TRAVIATA OGGI TRA AGENZIE ESCORT E PARTY FORSENNATI” http://www.industriascenica.com/blog/2015/03/26/manuel-renga-compagnia-chronos-3-la-nostra-traviata-oggi-tra-agenzie-escort-e-party-forsennati/

VERBAL | IL NOSTRO PERSONALE VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEL KARAKORUMhttp://www.industriascenica.com/blog/2015/04/02/verbal-il-nostro-personale-viaggio-alla-scoperta-del-karakorum/

DIONISI COMPAGNIA TEATRALE - RENATA CIARAVINO | “POTEVO ESSERE IO”, UN TESTO PER ADULTI E PER I BAMBINI CHE FURONO. VENERDÌ 10 APRILE AL CIRCOLO EVEREST.http://www.industriascenica.com/blog/2015/04/09/renata-ciaravino-potevo-essere-io-venerdi-10-aprile-al-circolo-everest/

BACK DOORS BLUES TRIO: LA VIMODRONE CHE VORREMMO? PIÙ MUSICA E CULTURA, ANCHE PER I MENO GIOVANI.http://www.industriascenica.com/blog/2015/04/17/back-doors-blues-trio-la-vimodrone-che-vorremmo-piu-musica-e-cultura-anche-per-meno-giovani/

MINO MANNI E MARTA OSSOLI | “PARTE CON GIOVANNI TESTORI IL PROGETTO DI PORTARE LA LETTERATURA A TEATRO”.http://www.industriascenica.com/blog/2015/04/24/intervista-mino-manni-e-marta-ossoli-portiamo-la-grande-letteratura-nei-teatri-giovanni-testori/

SILVIO CASTIGLIONI | “NINO PEDRETTI? UNA RIVELAZIONE PER TUTTI, UNA DELLE MIE FOLLIE TEATRALI.”http://www.industriascenica.com/blog/2015/05/08/incontro-con-silvio-castiglioni-nino-pedretti-una-rivelazione-per-tutti-una-delle-mie-follie-teatrali/

ELEA TEATRO | WEBULLI TORNA AL CIRCOLO EVEREST http://www.industriascenica.com/blog/2015/05/19/webulli-al-circolo-everest-elea-teatro-vimodrone/

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