università degli studi di palermomath.unipa.it/.../tesi_pbrigaglia_2010.docx · web viewstenosi...

219
DOTTORATO DI RICERCA in Storia e Didattica delle Matematiche, della Fisica e della Chimica XX Ciclo Consorzio tra le Università di Palermo, Bologna, Catania, Napoli “Federico II”, Pavia, Bratislava, Slovacchia), Nitra (Slovacchia), Alicante (Spagna), CIRE (Centro Interdipartimentale Ricerche Educative, Università di Palermo) Sede Amministrativa: Università Di Palermo _____________________________________________________________ Insegnamento/apprendimento della geometria in situazioni di disabilità Difficoltà visuo-spaziali e Sindrome di Williams Paola Brigaglia Settore scientifico disciplinare MAT/04 Coordinatore e Tutor: 1

Upload: others

Post on 04-Feb-2021

0 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

DOTTORATO DI RICERCA

in

Storia e Didattica delle Matematiche, della Fisica e della Chimica

XX Ciclo

Consorzio tra le Università di Palermo, Bologna, Catania, Napoli “Federico II”, Pavia, Bratislava,

Slovacchia), Nitra (Slovacchia), Alicante (Spagna),

CIRE (Centro Interdipartimentale Ricerche Educative, Università di Palermo)

Sede Amministrativa: Università Di Palermo

_____________________________________________________________

Insegnamento/apprendimento della geometria in situazioni di disabilità

Difficoltà visuo-spaziali e Sindrome di Williams

Paola Brigaglia

Settore scientifico disciplinare MAT/04

Coordinatore e Tutor:

Prof. Filippo Spagnolo

_____________________________________________________________

Febbraio 2010

Sommario

INTRODUZIONE4

1.Alcuni aspetti della didattica speciale10

1.1.Evoluzione storica dell’approccio alla didattica speciale10

1.2.Le tappe dell’integrazione in Italia13

1.3.Didattica speciale della matematica15

2.Le difficoltà visuo-spaziali23

2.0.Introduzione23

2.1.La sindrome di Williams23

2.1.1.Analisi di caso28

2.2.Le difficoltà visuo-spaziali36

2.2.1.La sindrome non verbale36

2.2.2.Le difficoltà visuo-spaziali nei soggetti con Sindrome di Williams39

2.3.Abilità visuo-spaziali: definizioni e classificazioni40

2.4.Conclusioni46

3.Visualizzazione e geometria. Questioni storiche, epistemologiche e didattiche48

3.0.Introduzione48

3.1.Un po’ di terminologia50

3.2.La natura della geometria: intuizione o rigore53

3.2.1.Dallo spazio fisiologico allo spazio geometrico55

3.2.2.Evoluzione storico-epistemologica del dibattito58

3.3.Difficoltà di apprendimento della geometria65

3.4.Conclusioni69

4.Parte sperimentale70

4.0.Introduzione70

4.1.Le abilità spaziali: una classificazione71

4.2.Prima analisi di caso (R.)74

4.2.0.Introduzione74

4.2.1.Test preliminari75

4.2.2.Classificazione80

4.2.3.Riconoscimento figure85

4.2.4.Ricostruzione figure88

4.2.5.Copia figure96

4.3.Test scuola elementare98

4.3.0.Introduzione98

4.3.2.Quesito 1: Riconoscimento figure99

4.3.3.Quesito 2: Rotazione mentale107

4.3.3.Quesiti 3 e 4: identificazione dell’immagine di una specifica isometria109

4.3.4.Quesito 5: Riflessione109

4.3.5.Quesito 6:110

4.4.Seconda analisi di caso (L.)110

4.4.0.Introduzione110

4.4.1.Test preliminari111

4.4.2.Classificazione112

4.4.3.Riconoscimento figure112

4.4.4.Ricostruzione figure113

CONCLUSIONI116

Bibliografia119

APPENDICI123

RELAZIONE CONCLUSIVA DELLA COMMISSIONE FALCUCCI CONCERNENTE I PROBLEMI SCOLASTICI DEGLI ALUNNI HANDICAPPATI (1975)124

Legge 4 agosto 1977, n. 517 (in GU 18 agosto 1977, n. 224)132

Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.135

Test novembre/dicembre 2007142

INTRODUZIONE

Questa tesi nasce da una personale esperienza di insegnamento di sostegno, durante la quale ho seguito R., un ragazzo con Sindrome di Williams (SW), nell’arco del triennio di scuola media.

Nel corso di questa esperienza, che ha costituito per me un arricchimento insieme umano, spirituale, culturale e professionale, mi sono posta molte domande sia sulla pratica didattica che sull’approfondimento teorico relativo all’apprendimento degli alunni in difficoltà e non solo.

Quella dell’insegnante di sostegno è una prospettiva in qualche modo privilegiata: è possibile infatti avviare una relazione individualizzata così da osservare in modo sistematico le potenzialità degli allievi, attivare le risorse necessarie per utilizzarle e registrare i progressi anche minimi. Per di più, la conoscenza delle difficoltà gravi offre una lente di ingrandimento sulle difficoltà ordinarie dei nostri allievi.

Nella fattispecie, l’esperienza con R. mi ha offerto diversi stimoli relativamente a due ambiti:

· Diversità e integrazione

· Relazionarsi con la diversità nel nostro quotidiano

· La diversità come ricchezza e non come limite

· L’integrazione degli alunni diversamente abili nella scuola

· L’integrazione delle differenze individuali tra loro

· La comprensione e l’intervento nelle difficoltà in matematica

· Conoscenza e rappresentazione dello spazio

· La comprensione delle difficoltà di conoscenza dello spazio

· La comprensione dei diversi approcci alla conoscenza spaziale

La problematica della diversità e dell’integrazione costituisce oggetto di interesse sia a livello pedagogico-didattico (Ianes, Canevaro,...) sia più specificatamente a livello di didattica speciale della matematica (si confrontino gli atti dei convegni del GRIMED citati in bibliografia), anche perché in Italia esiste ormai da quasi vent’anni una legislazione piuttosto radicale che ne regola l’introduzione nella scuola (legge 104 del 1992). Tuttavia, solo recentemente (Conne, F., 1999) (Conne, 2003) (Locatello & Meloni, 2007) (Locatello & Meloni, 2009), si è avviata una vera e propria ricerca in “didattica speciale della matematica”, volta ad individuarne le caratteristiche peculiari tanto rispetto alla “didattica della matematica” quanto rispetto alla “didattica speciale”.

Nella pratica, l’integrazione è però resa molto difficile da vari fattori di ordine politico-amministrativo, specialmente nel sud Italia, e dalla mentalità talvolta poco aperta delle famiglie degli altri allievi. Pertanto si verificano numerose situazioni di integrazione apparente ma di isolamento di fatto.

Oltre a costituire il quadro entro cui si muove la mia ricerca, le questioni relative alla diversità e all’integrazione sono state gli aspetti che più mi hanno arricchito da un punto di vista personale. Tali temi saranno trattati nel primo capitolo, ma non costituiscono il centro della tesi, che è dedicata invece soprattutto allo studio delle difficoltà visuo-spaziali e delle relative abilità.

Quando, infatti, ho conosciuto R. e ho cercato di sapere qualcosa di più relativamente alla sua sindrome, ciò che più ha sollecitato il mio interesse è stata l’accento posto sulle difficoltà spaziali degli individui con SW. In effetti, quando si effettua una ricerca in internet sulla SW, si osserva che, nella maggior parte dei siti, la caratteristica principale che viene evidenziata è la presenza di difficoltà visuo-spaziali, a fronte di capacità verbali piuttosto sviluppate. L’opuscolo dell’AISW precisa che in generale gli individui SW hanno difficoltà in attività che richiedono motricità fine o integrazione tra attività visuali e motorie (quali, ad esempio attività con carta e matita, specialmente per scrivere o disegnare; allacciarsi le scarpe; contare oggetti rappresentati su un foglio) ed in attività che richiedono analisi spaziale (come: distinguere le lettere, specialmente quelle speculari, quali "b" e "d"; distinguere destra e sinistra, leggere l'ora su un orologio con lancette; orientarsi in una pagina con molte informazioni).

Ho scelto quindi di occuparmi di alcuni aspetti didattici relativi ad una specifica sindrome, a delle specifiche difficoltà e a degli specifici contenuti matematici; in altri termini, mi occupo della relazione allievo-sapere (si confronti il triangolo di Chevallard e l’uso che ne fanno (Locatello & Meloni, 2007) (Locatello & Meloni, 2009)), approfondendo i due vertici “allievo” e “sapere”, e concentrando la mia attenzione su “specifici allievi” e su “specifici saperi” e sulla relazione tra questi due vertici.

Anche per il lavoro con i “diversamente abili” esiste infatti una problematica di tipo fondazionale disciplinare. Occorrerebbe che l’insegnante di sostegno avesse ben presenti le caratteristiche essenziali dell’insegnamento della matematica, che non si riducono affatto, come purtroppo spesso avviene, al puro addestramento al calcolo, ma che coinvolgono soprattutto le capacità di intuizione e ragionamento dell’allievo. Il tutto senza sottovalutare che in alcuni casi le attività mnemoniche possono costituire un utile appoggio al resto delle attività didattiche.

Sulla base di questa consapevolezza epistemologica e disciplinare, occorre individuare i problemi specifici di quel tale handicap e, più in particolare, di quell’alunno e i suoi bisogni educativi speciali (Ianes), adattando a questi la scelta degli obiettivi che realisticamente possono e quindi devono essere conseguiti.

Il problema che mi pongo quindi è principalmente quello di comprendere quali significati sono contenuti nell’espressione “difficoltà visuo-spaziali”.

Cosa significa la parola visuo-spaziale? Si intende le sole difficoltà spaziali legate alla vista o si intendono, con espressione forse inesatta, tutte le difficoltà ad elaborare lo spazio, anche quelle legate agli altri sensi o anche alle capacità razionali?

Ma, più in generale cosa si intende per spazio, spaziale, ecc.?

Quali sono i concetti spaziali? Quali i legami di questi con la geometria? Quali sono gli oggetti di cui si occupa la geometria?

A queste domande si può rispondere, almeno in parte, solo attraverso un’analisi storico-epistemologica dei rapporti dell’uomo con lo spazio e della sua diversa interpretazione.

Ancora, quali sono le difficoltà visuo-spaziali? E, specularmente, le abilità visuo-spaziali?

Più in generale, quali le difficoltà spaziali (anche indipendenti dalla vista)? Quali le abilità spaziali?

Obiettivo della tesi è quindi il seguente: ordinare, operando anche una classificazione parziale, gli studi sulle abilità/difficoltà spaziali, al fine di offrire un contributo all’identificazione dei bisogni educativi degli alunni in difficoltà (in special modo con lo spazio e con la geometria) e quindi all’attivazione delle risorse più adeguate.

Stranamente, una buona parte della letteratura sull’handicap, soprattutto quella di autori psicologi, tende a sottovalutare il profondo nesso esistente tra le abilità visuo – spaziali e l’apprendimento della geometria e tra quest’ultimo e le più generali finalità dell’insegnamento della matematica, quelle cioè relative allo sviluppo delle capacità di ragionamento e al problem – solving. In questa tesi ho cercato di mettere in luce proprio questi nessi soprattutto relativamente alle seguenti abilità (essenziali secondo me proprio per lo sviluppo delle capacità razionali):

· Riconoscimento delle forme

· Composizione / decomposizione di forme complesse in forme semplici

· Riconoscimento/riproduzione di forme ingrandite o rimpicciolite (riproduzione in scala, similitudine)

Tutte queste abilità sono riconducibili all’idea, almeno in forma intuitiva, di trasformazione geometrica (isometrie, similitudini, …). Come già notato da Enriques, c’è un nesso strettissimo tra ciò che della realtà esterna leggiamo attraverso i nostri sensi e la costruzione mentale delle diverse trasformazioni.

Questo campo mi pare in generale poco studiato, ma degno di approfondimento, sia in relazione alla sindrome di Williams e più in generale alla sindrome non verbale, sia in relazione all’apprendimento dei “normodotati” in difficoltà.

Nella concezione del mio lavoro, infatti, ho tenuto sempre come assunto un’ipotesi fondamentale, cioè che il campo della disabilità non è un campo separato da quello della normalità: (Ianes dà alla disabilità il nome di speciale normalità), anzi hanno diverse interazioni, e la conoscenza e lo studio della disabilità può aiutare ad identificare con maggior successo i metodi e i contenuti didattici da utilizzare anche in situazioni di normalità, così come, viceversa, gli studi in didattica della matematica possono e devono essere impiegati nell’affrontare la didattica speciale.

Molti studiosi che si sono occupati dell’handicap, a cominciare da Itard, fino ai nostri giorni, hanno fatto uso delle scoperte effettuate in situazioni “speciali” per comprendere meglio le particolarità della mente umana e applicare tali scoperte all’apprendimento comune: si pensi ad esempio, come il suo lavoro con i ritardati mentali abbia permesso a Maria Montessori di elaborare il suo famoso metodo, ancora oggi in uso in alcune scuole dell’infanzia, ma si pensi anche ai moderni studi effettuati con cerebrolesi, che hanno permesso agli studiosi di tracciare così bene una mappa del cervello umano.

Pertanto credo fermamente che, come gli studi di didattica della matematica e gli studi storico-epistemologici mi hanno guidato nell’impostazione di questa ricerca, questo lavoro possa essere di aiuto nello studio delle difficoltà spaziali (che come vedremo sono molto elevate) dei “normali” studenti.

All’interno di questa cornice generale, mi sono posta delle domande che hanno guidato il mio lavoro, formulando anche un’ipotesi di risposta, sulla base tanto della mia esperienza con R. e con altri allievi, quanto dei primi studi teorici effettuati nel corso di questa esperienza.

Gli studenti con Sindrome di Williams “vedono” in modo diverso dagli altri studenti?

Riescono a collegare le sensazioni puramente visive (quelle che Enriques chiama proiettive) con quelle tattili (metriche) e quelle topologiche?

Più specificatamente, essi hanno un’idea dell’”uguaglianza” come “congruenza” o come “similitudine” o vedono uguali due oggetti geometrici secondo una trasformazione geometrica di diverso tipo (ad esempio affine, proiettiva o topologica)?

D’altra parte, “vedere” in un oggetto geometricamente schematizzato un modello di un oggetto “reale” costituisce a mio parere un passo importante verso lo sviluppo della capacità di “ragionare”: alla visualizzazione come dato meramente percettivo si affianca dunque la capacità di dare ad essa un senso razionalmente ordinato.

Ha senso allora chiedersi: È possibile sviluppare le abilità di visualizzazione anche per gli allievi con sindrome di Williams? E, se sì, quanto un lavoro che stimoli a sviluppare le abilità di visualizzazione può aiutare a sviluppare le capacità di ragionamento geometrico?

Allo scopo di rispondere alle domande ho effettuato l’analisi di due casi: tramite la proposizione di test che richiedano l’uso delle abilità di cui sopra, analizzo il loro approccio all’isometria e alla similitudine, ricostruendo la loro idea di uguaglianza. Poiché nel caso di R. la sperimentazione avviene dopo due anni di lavoro sulle abilità di osservazione e di visualizzazione, il confronto delle due situazioni permette di rispondere alla domanda su quanto un lavoro sulle abilità di visualizzazione possa influenzare le abilità di ragionamento

Ritengo che l’analisi di casi sia la metodologia più adatta per una ricerca riguardante le disabilità, considerata sia la non rilevanza statistica del numero di ragazzi con la stessa disabilità, quanto l’enorme variabilità individuale. Un’analisi qualitativa, inoltre, permette di valutare i processi attivati nel dare le risposte richieste.

Nondimeno, ho scelto di affiancare all’analisi di casi i dati risultanti da un test proposto a classi di scuola elementare; ciò al fine di confrontare quanto osservato con gli allievi con sindrome di Williams con quanto è osservabile negli allievi che non presentano particolari difficoltà. Anche in questo caso, però, all’analisi quantitativa ho associato un’analisi qualitativa.

La tesi è strutturata in modo da integrare i risultati della didattica della matematica sulle difficoltà in geometria riguardanti tutti gli allievi, con i risultatati sulle specifiche difficoltà visuo-spaziali degli allievi con sindrome di Williams

Pertanto, dopo avere inquadrato la mia ricerca all’interno di quella più vasta della didattica speciale e, più in particolare, della didattica speciale della matematica (primo capitolo), nel secondo e nel terzo capitolo analizzerò rispettivamente le caratteristiche (cognitive, relazionali, genetiche) degli individui con sindrome di Williams, inserendoli poi nel più vasto ambito degli individui con sindrome non verbale e gli aspetti storico-epistemologici della questione, esaminando anche le ricadute didattiche e gli errori tipici degli allievi, evidenziando quindi le abilità necessarie per la conoscenza dello spazio. Infine, nel quarto capitolo, integrerò i contenuti dei capitoli precedenti con le mie osservazioni sperimentali, cercando di dare risposta alle domande di ricerca formulate.

Prima di concludere, solo qualche notazione sulla terminologia usata nel corso della tesi.

La terminologia è variata profondamente nel corso del tempo, e tale variazione rappresenta talvolta profondi mutamenti nell’interpretazione delle disabilità. Pur riconoscendo che talvolta le variazioni terminologiche rappresentano semplicemente eccessi formalistici (il cosiddetto “politicamente corretto”) ritengo che sia meglio utilizzare un linguaggio appropriato.

In questa tesi, quando farò uso di riferimenti storici, utilizzo il linguaggio allora in uso. Quando invece darò conto delle mie riflessioni utilizzerò quelle terminologie moderne che mi paiono più appropriate a descrivere il mio punto di vista. Ad esempio non farò uso del termine diversamente abile che mi pare fuorviante (tutti siamo diversamente abili), pur nella convinzione che né il termine disabile né il termine in difficoltà rappresentano appieno isolatamente presi le situazioni a cui fanno riferimento. Purtroppo non ho trovato un efficace sostituto del termine normodotato, che ho quindi dovuto utilizzare malvolentieri e il meno possibile.

1. Alcuni aspetti della didattica speciale

1.1. Evoluzione storica dell’approccio alla didattica speciale

La problematica della didattica speciale ha radici molto antiche. Senza pretendere di darne un esaustivo resoconto, mi sembra utile tracciare una breve sintesi delle tappe fondamentali attraversate dal dibattito[footnoteRef:1]. [1: Per una più ampia esposizione dell’argomento si confronti Canevaro e Gaudreau (1988)e la bibliografia ivi citata.]

Tradizionalmente la prima svolta nell’affrontare il problema dell’handicap e delle sue conseguenze didattiche è attribuita all’Illuminismo (dal rigetto alla compassione, secondo l’espressione di Canevaro e Gaudreau (1988)). Famoso, tra l’altro, il quesito che si pone Diderot rispetto all’apprendimento di un cieco nato: dopo aver appreso attraverso il tatto a distinguere un cubo da una sfera, sarebbe poi in grado – riconquistando improvvisamente la vista – di riconoscerli col solo sguardo senza usare il tatto? Questo, così come l’attenzione rivolta ai bambini “selvaggi” mostra appunto come il Settecento sia il secolo in cui, tra le altre novità nel campo della pedagogia, sorge anche l’interesse per i casi di handicap.

Colui che pone questi stessi problemi su un piano più scientifico e “professionale” è Jean-Marc Itard (1774-1838), un medico francese vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento. Il caso di cui egli si occupò intensamente per più di 30 anni è quello, ben noto, di Victor, il “sauvage de l’Aveyron”, scoperto nel 1799, a un’età di circa 11 anni, nei boschi dell’Aveyron e trasportato poi in un orfanotrofio.

Il giudizio dei primi medici e psichiatri tra cui il famoso Pinel era stato lapidario: Non si ha nessuna speranza fondata di ottenere dei successi da un’istruzione metodica e continuata più a lungo. (Canevaro & Gaudreau, 1988, p. 52) Itard, che conobbe il bambino nell’agosto del 1800, capovolge l’impostazione del problema, segnando un vero e proprio salto di qualità nell’affrontare, da un punto di vista pedagogico, il problema della diversità: l’acquisizione delle capacità intellettive e di quelle morali è una questione di natura sociale.

Se si desse a risolvere questo problema di metafisica: Determinare il grado di intelligenza e la natura delle idee di un adolescente il quale, privato dall’infanzia di qualsiasi educazione, sia vissuto interamente separato dagli individui della sua specie, o io mio mi sbaglio di grosso, o la soluzione del problema si ridurrebbe a non attribuire a questo individuo che un’intelligenza relativa al piccolo numero dei suoi bisogni spogliata per astrazione da tutte le idee semplici e complesse che riceviamo attraverso l’educazione e che si combinano nel nostro spirito in tante maniere attraverso il solo mezzo della conoscenza dei segni. Ebbene! Il quadro morale di questo adolescente sarebbe il quadro del selvaggio dell’Aveyron” e la soluzione darebbe la misura e la causa dello stato intellettuale di questi. (Itard citato in (Canevaro & Gaudreau, 1988, p. 53) )

Itard si propone chiari obiettivi educativi che partono tutti dal presupposto di essere di fronte a un essere umano – in questo senso è importante notare che è Itard che dà il nome a Victor, dandogli così anche un’identità e una dignità – che va educato nella sua integrità, anche negli aspetti relazionali e affettivi, e dalla convinzione che ogni essere umano è perfettibile, rifiutando quindi; l’approccio di Pinel che affermava che non ci fosse niente da fare.

Dopo il caso di Victor, vennero studiati molti altri casi di bambini selvaggi, comparandoli talvolta con il destino dei bambini sordi o con altri handicap considerati irrecuperabili. Da questi studi si andarono consolidando alcune concezioni cardine, quali: l’idea della centralità del linguaggio, non solo quale “frutto” dello sviluppo intellettuale, ma anche come “motore” dello stesso. Parallelamente a questo si sviluppa anche il legame profondo tra le capacità linguistiche e quelle relative all’acquisizione dei concetti astratti. L’uso di parole come “duro”, “alto” implica il formarsi in modo spontaneo o indotto dall’insegnamento di concetti astratti, di per sé tutt’altro che semplici e naturali. A questo proposito, Oliver Sacks, parlando di Jean Massieu – un bambino sordo privo del linguaggio fino a quattordici anni, educato poi dall’abbé Roch-Ambroise Sicard, direttore dell’Istituto nazionale per i Sordomuti, e che imparò a esprimersi con piena consapevolezza nella lingua dei segni – osserva:

Le astrazioni geometriche – costrutti mentali invisibili – furono la conquista più difficile. Per Massieu era facile mettere assieme oggetti di forma quadrata, ma afferrare l’idea di quadrato come costrutto mentale geometrico, cogliere la “quadratità” fu un’impresa ben più laboriosa. Quando si concluse con il successo, Sicard non poté contenere l’entusiasmo: “è stata conquistata l’astrazione! Un altro passo! Massieu capisce le astrazioni!” esultava Sicard. “è un essere umano”. (Sacks, 1990, p. 87-88)

Sulla scia di Itard va posto l’ulteriore passo, più consapevole dal punto di vista pedagogico, di Edouard Séguin (1812-1880), che si occupa a fondo dell’educazione dei bambini imbéciles, egli infatti ritiene che gli idioti potrebbero ricevere, insieme al pane della carità, anche il pane spirituale e più vivificante dell’educazione. (Canevaro & Gaudreau, 1988, p. 79) Il suo programma prevede di poggiare l’acquisizione dei concetti sulla percezione e sull’uso di materiale concreto. È a lui che si deve il concetto, ormai per noi ovvio, di passare dal concreto all’astratto gradualmente ed a lui si deve la costruzione del test psicometrico che prevede di incastrare forme geometriche nelle giuste posizioni nel più breve tempo possibile.

Influenzata indirettamente da Seguin e da Itard è Maria Montessori, che in qualche modo conclude questa prima fase di trasformazione nell’approccio della pedagogia dell’handicap. Non a caso ella dedica varie pagine del suo testo fondamentale[footnoteRef:2] al caso di Victor. Essa nota opportunamente che nelle pagine di Itard è vivamente descritta l’opera morale che condusse alla civiltà, moltiplicando i bisogni del fanciullo e circondandolo di amorevoli cure (Montessori, 2008, p. 73). [2: Il Metodo della Pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini, 1909 ripubblicato recentemente nelle sue parti principali in ]

La conduzione graduale, dolcissima, a tutte le manifestazioni della vita sociale, il primitivo adattamento del maestro all’allievo, anziché dell’allievo al maestro, la successiva attrazione a una vita nuova, che doveva conquistare il bambino con le sue seduzioni […] sono altrettante preziose espressioni educative, che possono generalizzarsi e applicarsi all’educazione infantile (Montessori, 2008, p. 75)

Una delle grandi novità colta dalla Montessori è proprio lo stretto legame tra le esperienze svolte in situazione di handicap e l’educazione dei fanciulli “normali”; è noto infatti come, partita dallo studio come psichiatra dei bambini deficienti sia giunta infine ad elaborare il metodo, utilizzato tutt’ora, in alcune scuole dell’infanzia. Naturalmente il materiale, anche qualora sia lo stesso, ha scopi diversi: il medesimo materiale didattico, per i deficienti rende possibile l’educazione e, per i normali, provoca l’autoeducazione.[footnoteRef:3] [3: Per la Montessori questo è un indice di superiorità del bambino normale. Io non accetto affatto questa impostazione; in ogni caso, questo resta un passo importante per la concezione moderna dell’handicap. ]

Riprenderò più in là questo argomento che costituisce uno dei fili conduttori della mia ricerca.

L’opera della Montessori è decisiva per la problematica che noi ci poniamo, anche da un altro punto di vista. Infatti, ella ha spostato l’attenzione riguardo ai problemi della cura dell’handicap, da un approccio puramente medico-sanitario a uno prevalentemente pedagogico (o tale almeno da integrare i due aspetti). Questo che si può considerare il culmine e la definizione scientificamente più precisa di quella evoluzione che abbiamo descritto e che era iniziata un secolo prima costituisce a mio avviso la tappa fondamentale verso la moderna concezione del trattamento dell’handicap.

Anche se può sembrare una nozione ormai del tutto acquisita a me pare che il problema sia di grande attualità e che non si possa affatto dare per scontato il totale abbandono di un approccio puramente clinico, da un punto di vista meramente meccanicistico.

Il lento spostamento di concezione ha condotto all’affermazione del diritto all’istruzione per tutti, e quindi alla progressiva integrazione dei disabili nella scuola. Se l’integrazione è in parte attuata in molti paesi europei, è soltanto in Italia che si è giunti gradualmente alla scelta coraggiosa di un’integrazione scolastica totale.

1.2. Le tappe dell’integrazione in Italia

In Italia, come nel resto d’Europa, fino agli anni ’60, lo strumento che prevale nell’affrontare i bisogni didattici collegati all’handicap è quello di scuole speciali[footnoteRef:4]. Gli anni ’60 affermano invece idee nuove: attraverso un ampio dibattito che coinvolge ampi strati della società (e che peraltro riguarda problemi più ampi che non quelli puramente didattici – si veda per esempio il dibattito sulla legge Basaglia – né soltanto relativi all’handicap – si veda la nascita del Movimento di Cooperazione Educativa –, le istanze di inserimento e di integrazione giungono a livello legislativo dopo un primo periodo che molti studiosi (Nocera, 2001, p. 32) definiscono di “inserimento selvaggio”. Il primo atto in questo senso è costituito dal “Documento Falcucci” [footnoteRef:5] del 1975, che pone anche le basi per l’ulteriore passaggio in direzione dell’integrazione. In esso è scritto tra l’altro: [4: Anche in questo caso, tratterò questo argomento, che non costituisce la parte centrale della tesi, in modo affermano sintetico. Per approfondimenti rinvio a .] [5: Il documento è stato elaborato da una commissione istituita per volere dell’allora sotto-segretario alla Pubblica Istruzione Franca Falcucci. Esso fu tradotto in atto legislativo dalla C.M. n. 227/75. Il testo integrale del Documento è riportato in appendice.]

Affrontare il problema dei ragazzi handicappati presuppone il convincimento che anche i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti della propria crescita […]. La scuola, proprio perché deve rapportare l’azione educativa alle potenzialità individuali di ogni allievo, appare la struttura più appropriata per far superare la condizione di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati.

L’ulteriore fondamentale tappa può essere considerata quella della legge 517 del 1977 (stesso Ministro e stesso sotto-segretario) che per la prima volta regolamenta gli aspetti formativi e organizzativi attraverso cui i principi esposti nella circolare del ’75 diventano operativi. In essa viene, tra l’altro, istituita la figura dell’insegnante di sostegno.

Al fine di agevolare l'attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. […] Sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicaps da realizzare mediante la utilizzazione dei docenti, di ruolo o incaricati a tempo indeterminato, in servizio nella scuola media e in possesso di particolari titoli di specializzazione, che ne facciano richiesta, [..]. Le classi che accolgono alunni portatori di handicaps sono costituite con un massimo di 20 alunni.” (Art. 7)

La fase successiva, che ha attraversato tutti gli anni ’80, ha visto la progressiva attuazione nel concreto dei principi legislativi di cui abbiamo parlato, non senza numerose difficoltà e ostacoli. Un esempio importante è dato dalla decisione nel 1986 di un istituto scolastico di non permettere la ripetizione dell’anno ad un’alunna con ritardo mentale, che era stata bocciata. I genitori ricorsero al TAR e alla Corte Costituzionale, la quale accorse il ricorso, disponendo che laddove era scritto, nella citata legge del ’77, “sarà facilitata la frequenza della scuola” è da leggere “è assicurata la frequenza nella scuola”. Nella sentenza di accoglimento sono riportati anche una serie di principi che danno valenza costituzionale all’integrazione scolastica, quali: “In età evolutiva nessuna persona può essere considerata irrecuperabile” e “L’integrazione scolastica, se correttamente realizzata, costituisce un forte fattore di recupero”.

Alla sentenza faceva seguito, nel 1988, la C.M. n. 262, che, partendo dai principi esposti dalla Corte, elaborava tutta una serie di nuove norme, per consentire la loro piena attuazione, anche negli istituti secondari, istituendo tra l’altro i cosiddetti Piani Educativi Differenziati.[footnoteRef:6] [6: Su tutto ciò si confronti .]

Nel frattempo la problematica dell’handicap era uscita dalla mera questione didattico-pedagogica, per essere posta nel piano più generale dei diritti delle persone handicappate. Anche sotto la spinta del dibattito pedagogico, nel 1992, con la Legge n. 104 del 5 febbraio 1992 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)[footnoteRef:7], che riportiamo in appendice, vengono definitivamente sanciti alcuni principi di cui abbiamo già parlato: [7: Ministro Riccardo Misasi]

La Repubblica

a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società;

b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali;

c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata;

d) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata. (art.1 comma 1)

L'esercizio del diritto all'educazione e all'istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all'handicap (art. 12 comma 4)

Essa inoltre istituisce alcuni strumenti per l’integrazione scolastica (quali la Diagnosi Funzionale, il Profilo Dinamico Funzionale, il Piano Educativo Individualizzato) attraverso alcune norme specifiche previste negli articoli da 13 a 17.

La legge 104 ha subito numerose modifiche e integrazioni, ma, nella sostanza, è rimasta invariata.

Pur esistendo numerose “buone prassi” di integrazione scolastica (Ianes), di fatto, nella pratica, l’integrazione viene attuata con molte difficoltà. In particolare, al sud Italia, mancano gli strumenti per l’applicazione della legge. Tra le difficoltà incontrate all’attuazione pratica di queste leggi, si possono segnalare sia quelle “ideologiche” di alcune famiglie e di alcuni insegnanti e dirigenti scolastici, sia quelle derivanti da una cronica mancanza di risorse che si è col tempo accentuata fino a rendere oggi quasi del tutto impossibile la realizzazione degli obiettivi proposti dalla legge.

A mio avviso, sta avvenendo per la scuola ciò che è avvenuto per la legge Basaglia: l’enorme sproporzione tra i principi e le risorse impiegate rende sempre più inattuabile una linea di comportamento che sarebbe in altre condizioni perfettamente percorribile. Così, ad esempio, in una classe sovraffollata, la presenza di alunni in difficoltà, scarsamente sostenuti da un numero sempre più ridotto di insegnanti di sostegno, rende difficilissima la gestione ordinaria della classe e quindi sempre più “impopolare” la presenza degli alunni disabili nelle classi, così come degli alunni stranieri. Naturalmente anche in questa situazione di difficoltà la ricerca continua, e ciò è naturalmente un bene anche quando l’applicazione dei principi incontra gravi difficoltà.

1.3. Didattica speciale della matematica

I problemi individuati sopra forse valgono ancora di più per la didattica speciale della matematica, affidata per lo più a docenti senza una sufficiente competenza matematica (è in effetti paradossale il fatto che molti degli insegnanti di sostegno non abbiano affatto superato quelle stesse difficoltà che sono chiamati a far superare agli allievi dei quali condividono la “paura” della matematica).

La questione delle “difficoltà in matematica” ha interessato diversi studiosi di tutte le discipline (dalla matematica alla psicologia, dalla pedagogia alla neurologia) da lungo tempo: la didattica della matematica può vantare una lunga tradizione risultando una delle più antiche discipline didattiche.

È noto infatti come la matematica sia sempre stata ritenuta “difficile” dalla maggior parte delle persone, e abbia sempre presentato una particolare attenzione a quelli che oggi sono detti “ostacoli epistemologici”.

Negli ultimi decenni sono stati pubblicati moltissimi libri che affrontano il problema delle difficoltà in matematica dal punto di vista meta-cognitivo o affettivo, e offrono, anche agli adulti, dei percorsi di consapevolezza che permettano di “vincere la paura della matematica” (Tobias, 1994).

L’espressione difficoltà in matematica è ambigua ed evoca realtà di tipo diverso (Zan, 2007): se si parla di allievo in difficoltà l’attenzione è rivolta alle difficoltà dell’allievo. Quando si parla di difficoltà della matematica, ci si riferisce invece alle difficoltà caratteristiche della disciplina. Parlare di difficoltà di un allievo in matematica significa infine fare riferimento alla relazione dell’allievo con la matematica.

Ma ciò che a noi interessa di più in questo momento è discutere di difficoltà speciali in matematica e non delle difficoltà ordinarie (parlerò di quest’ultime nel terzo capitolo, riferendomi però al solo caso della geometria). È proprio il caso delle difficoltà speciali che è stato affidato quasi esclusivamente (a parte rare eccezioni) agli psicologi, ritenendo forse che i casi speciali necessitassero più di interventi terapeutici e riabilitativi che di interventi didattici.

Forse a causa di questa “devoluzione” si è instaurata l’equazione “difficoltà in matematica” = “discalculia” e gli studi sulle difficoltà speciali in matematica si sono concentrati quasi esclusivamente sui disturbi di calcolo.

La discalculia è, come è noto, un disturbo specifico dell’apprendimento, i cui sintomi, secondo quanto indicato nell’ICD-10, sono (Lucangeli & Tressoldi, 2001, p. 148):

· Incapacità di comprendere i termini o dei segni matematici;

· mancato riconoscimento dei simboli numerici;

· difficoltà nelle manipolazioni aritmetiche standard;

· difficoltà nel comprendere la pertinenza dei dati in un problema aritmetico;

· difficoltà ad allineare correttamente i numeri o ad inserire decimali o simboli durante i calcoli;

· scorretta organizzazione spaziale dei calcoli aritmetici;

· difficoltà nell’apprendimento delle tabelle della moltiplicazione ( e in generale, nei cosiddetti “fatti aritmetici”)

Malgrado anche il problem solving sia studiato prevalentemente in stretta connessione con la discalculia, e quindi prevalentemente riguardo alla risoluzione di problemi aritmetici, in realtà, a mio parere va considerato anche separatamente dai disturbi aritmetici, all’interno della abilità logiche generali.

Bisogna sottolineare comunque che il termine “Disturbo Specifico dell'Apprendimento” fa riferimento ad una ben precisa categoria diagnostica dal punto di vista clinico e scientifico, identificata da precisi criteri oggettivi e valutabili, e pertanto va distinto dalla più generica espressione “difficoltà di apprendimento” che include più sommariamente tipologie molto diverse di difficoltà che si possono manifestare nell'ambito scolastico (sito dell’AIRIPA). I disturbi specifici di apprendimento inoltre compromettono alcuni aspetti dell’apprendimento scolastico e non le abilità di vita (se non al più come conseguenza). Essi raccolgono quindi una gamma diversificata di problematiche nello sviluppo cognitivo e nell'apprendimento scolastico, definibili in base al mancato raggiungimento di criteri attesi di apprendimento rispetto alle potenzialità generali del soggetto e non sono imputabili ad un apprendimento insufficiente o inadeguato per motivi psicologici, pedagogici o sociali né a ritardo mentale. (Cornoldi, 1999, 2007).

Oltre alla discalculia (o acalcolia) sono in genere classificati i seguenti disturbi dell’apprendimento:

· Disturbo della lettura (dislessia)

· Disturbo dell’espressione scritta (disgrafia)

· Disturbo della comprensione del testo

· Disturbo visuo-spaziale

Tali disturbi talvolta si presentano in forma separata, ma spesso sono tra loro correlati. Ad esempio, la discalculia può presentarsi associata alla dislessia (e presentarsi quindi come una dislessia dei numeri) o può essere conseguenza di un disturbo visuo-spaziale (difficoltà ad esempio ad incolonnare correttamente o incapacità di distinguere i simboli delle operazioni (+ e x) o i numeri come il 6 e il 9).

Come si vede, il disturbo visuo-spaziale, che è quello centrale nel quadro di questa tesi (e del quale parlerò ampiamente nel capitolo 2), è fortemente correlato con la discalculia: può riguardare difficoltà a rilevare il dettaglio visivo (+, x) o difficoltà nell’organizzazione dei dati (incolonnamento e direzione procedurale). Esso è ovviamente connesso, come approfondirò nel terzo capitolo, anche alle abilità in geometria e in generale alle abilità matematiche che richiedano di “visualizzare”. L’influenza dei disturbi visuo-spaziali sulle abilità geometriche è stata affrontata da diversi autori – per esempio Cornoldi (Cornoldi, et al., 1997) cita l’ambito geometrico tra gli ambiti scolastici compromessi dai disturbi visuo-spaziali[footnoteRef:8] – ma a mio parere non sufficientemente approfondita.[footnoteRef:9] [8: Essi, secondo sono: . Si noti che gli autori separano la matematica (leggasi aritmetica) dalla geometria, considerando quest’ultima appartenente ad un ambito del tutto diverso, cosa che mi appare alquanto discutibile. ] [9: Una delle cause di questo mancato approfondimento potrebbe essere (si veda la nota precedente) la pervicace identificazione da parte dei non matematici della “matematica” con “aritmetica” e in particolare con i procedimenti di calcolo. Tale concezione taglia moltissimi dei principali processi razionali insiti nell’apprendimento della matematica.]

Mi sembra invece che l’esame dei collegamenti tra le varie abilità matematiche, e in particolare quelle geometriche, e le relative difficoltà sia una questione di importanza rilevante nell’affrontare i problemi della didattica speciale e delle difficoltà in matematica.

Purtroppo invece sia a causa della già citata tendenza della ricerca psicologica a identificare le difficoltà matematiche con la discalculia sia per la scarsa competenza matematica di molti degli insegnanti di sostegno, la pratica quotidiana dell’intervento sulle disabilità per quanto riguarda la matematica si incentra pressocchè esclusivamente sull’aritmetica e sul calcolo e per di più sotto forma di mero addestramento attraverso la proposizione di esercizi ripetitivi. Tali esercizi risultano spesso demotivanti e non fanno progredire quelle facoltà che in teoria dovrebbero costituire l’obiettivo centrale dell’isegnamento della matematica in situazioni di disabilità.

Spesso questo tipo di attività vengono programmate e svolte individualmente con l’uso di materiali, sussidi, tecniche o metodi, che hanno il primato rispetto ai contenuti e gli oggetti di sapere che si presume siano sottesi. Tutto ciò fino al punto da chiedersi se con quell’attività si possa raggiungere l’apprendimento di un oggetto matematico oppure solo di un’abilità nell’uso di quel dato specifico strumento. (Locatello & Meloni, 2007, p. 329)

Fare matematica non significa infatti saper calcolare, ma significa sapere mettere in pratica una serie di strategie per risolvere un problema, significa ipotizzare una soluzione, significa trovare analogie tra situazioni apparentemente molto diverse.

Per sgombrare il campo da possibili equivoci vorrei sottolineare che io non ritengo inutili o peggio controproducenti le attività puramente meccaniche e mnemoniche nell’insegnamento della matematica in situazioni di disabilità. Talvolta il semplice riuscire a ricordare una parte delle tabelline può costituire motivo di soddisfazione (e quindi essere altamente motivante) per un bambino che finalmente riesce a fare come gli altri e quindi a sentirsi meglio integrati nella classe.

Ciò che invece mi pare del tutto sbagliato è il concentrarsi in maniera esclusiva su queste pratiche sotto l’erronea concezione che finché non sia capace di effettuare i calcoli più semplici non può affrontare situazioni più complesse quali la soluzione di problemi (certo adeguati alle sue capacità) o l’uso delle simmetrie per comporre accattivanti disegni con i blocchi colorati. L’esperienza di questi anni mi ha insegnato infatti che è ben possibile che un ragazzo che non sa bene scrivere il suo nome può riprodurre tassellazioni del piano evidenziando un corretto uso (intuitivo) dell’idea di trasformazione. Di ciò presento ampia testimonianza nei video e nelle foto a corredo di questa tesi.

Anche qualora non si possano raggiungere abilità superiori, è comunque un lavoro sul potenziale educativo della matematica, piuttosto che l’esecuzione di esercizi ripetitivi e mnemonici, che può contribuire allo sviluppo dell’autonomia personale che dovrebbe costituire obiettivo primario dell’educazione del disabile e non solo (): si confronti a questo proposito Pertichino, “La matematica per lo sviluppo dell’autonomia”.

Anche separare il bambino dalla classe risulta spesso controproducente, rafforzando soltanto l’emarginazione di chi non soddisfa le attese istituzionali” (Locatello & Meloni, 2007). Secondo B. Piochi, l’integrazione può essere invece attuata intrecciando nell’attività della classe momenti in cui l’alunno è partecipante (inserito in un’attività per tutti a cui possa partecipare con una certa autonomia), è spettatore (e magari fa qualcosa di diverso legato alle sue potenzialità) a momenti in cui è protagonista (l’attività è pensata per lui ).

(INSEGNANTE- insegnanti di sezione-classe- insegnante/i sostegno- accudiente- addetto comunicazione- altriALLIEVO- allievi in genere- allievi con bisogni educativi e didattici speciali- allievi con disturbi specifici d’apprendimento- allievi con disagi d’apprendimento- allievi di diversa culturaSAPERE- il sapere sapiente (accademico, della ricerca, della disciplina in sé)- il programma ministeriale- i curricoli di istituto- le programmazioni delle classi- il piano educativo individualizzato (PEI)- il piano educativo-terapeutico- le più svariate proposte didattiche editoriali) (INSEGNANTEALLIEVOSAPERE)Locatello e Meloni (Locatello & Meloni, 2007) (Locatello & Meloni, 2009) propongono di esaminare le situazioni didattiche speciali con la lente del triangolo della didattica di Chevallard, elaborando il seguente schema:

Per quanto riguarda il vertice “sapere”, esso, oltre a comprendere aspetti presenti in un insegnamento curriculare (dal sapere sapiente al sapere da insegnare), comprende anche il piano educativo individualizzato e le innumerevoli proposte didattiche editoriali. Quanto a quest’ultime, che talvolta presentano pregevoli proposte, occorre dire che esse spesso appaiono slegate dalle prospettive indicate dalla ricerca in didattica della matematica, limitandosi a fornire una serie di esercizi al solito ripetitivi e su un settore limitato della matematica. L’elaborazione di materiale didattico immediatamente utilizzabile dagli insegnanti costituisce un compito non eludibile per chi si occupa di didattica speciale della matematica. Vale forse la pena rilevare come, nella mia pratica didattica io abbia utilizzato soprattutto un volume (Bando Irvin) pensato per l’ordinaria (non speciale) attività in classe per le scuole elementari e ampiamente utilizzabile nella scuola media. Nella mia attività con R. e con L., mi è stato più utile rispetto a molto del materiale specializzato, mentre peraltro il semplice utilizzo di materiale relativo alle classi inferiori ripropone una separatezza demotivante.

Inoltre, quasi sempre le proposte editoriali non tengono conto delle differenze tra i diversi tipi di handicap, cioè non tengono conto del vertice “allievo”. Solitamente esse tendono a “semplificare” riducendo al minimo le informazioni verbali e aumentando al massimo le informazioni visive. Tale metodo, piuttosto funzionale per diversi tipi di handicap, in particolare per la sindrome di Down, rischia di risultare controproducente per gli allievi con difficoltà visuo-spaziali, dei quali ci occupiamo in questa tesi. In appendice riporterò un elenco ragionato dei materiali e delle proposte ludiche e didattiche per migliorare le abilità visuo-spaziali.

Per quanto riguarda il vertice “allievo”, però, l’enorme varietà individuale rende effettivamente ancora più complesso l’intervento: non solo ogni disabilità ha le sue precipue caratteristiche, ma anche, all’interno della stessa disabilità, ogni allievo disabile è, nel vero senso della parola, un caso a sé: necessita di programmazione specifica e individualizzata e, in verità, non è sempre possibile né auspicabile programmare situazioni didattiche strutturate, ma è preferibile lasciarsi guidare da una successione di situazioni didattiche che si creano spontaneamente(cfr. (Conne, 2003)).

Mentre non è quindi desiderabile produrre materiali che a priori siano rivolti a questa o a quella tipologia di handicap in modo specialistico, la produzione di buon materiale didattico relativo alle difficoltà visuo – spaziali potrebbe rivolgersi non solo alle diverse tipologie, ma anche alla generalità degli allievi, contribuendo così, senza forzature ideologiche, alla integrazione nella classe.

Per quanto riguarda, infine, il vertice “insegnante”, la situazione è ancor più complicata dal gran numero di insegnanti e di operatori in genere che interagiscono con l’allievo, con le loro specificità e il loro background culturale, e che devono relazionare tra loro i diversi interventi.

All’interno di questi vertici, pertanto, vanno tenuti in conto diversi fattori:

1. vertice “insegnante”:

1. funzione specifica dell’insegnante di sostegno

1. interazioni e integrazioni tra le diverse figure a cui si riferiscono gli alunni, in particolare le relazioni insegnante di sostegno-insegnante di matematica

1. vertice “allievo”

1. caratteristica dei disturbi

1. caratteristiche individuali degli allievi

1. diversità di bisogni educativi anche tra allievi che hanno gli stessi disturbi

1. interazioni e integrazioni tra i diversi allievi

1. vertice sapere

1. relazione tra il sapere sapiente e il sapere da insegnare agli allievi

1. relazione tra il sapere da insegnare agli allievi e il sapere da insegnare all’allievo in difficoltà

1. quali sono le finalità, gli obiettivi, i contenuti, i metodi e gli strumenti dell’insegnamento della matematica all’allievo disabile?

Ancora più complesse sono le relazioni tra i diversi vertici del triangolo.

Relazione insegnante-sapere

Purtroppo, come già notato, la maggior parte degli insegnanti di sostegno sono convinti che la matematica consista soltanto in una successione di regole e in una serie di calcoli, da eseguire meccanicamente seguendo pedissequamente le regole. D’altra parte spesso l’insegnante di matematica ha un rapporto rigido col sapere istituzionale o, ancora più comunemente, con il programma istituzionale, e non ammette di fare entrare nel suo insegnamento aspetti a suo parere irrilevanti.[footnoteRef:10] È tipica allora una situazione di devoluzione totale all’insegnante di sostegno, distinguendo “il tuo allievo” dai “miei allievi”, posizione che, come si è visto è del tutto contrapposta alla posizione della legge 104 del ’92 e alle sue successive modifiche e integrazioni. Purtroppo non sono nemmeno inusuali frasi come: “Poverino. Che altro può fare?”. Così spesso ci si accontenta, per sentire la coscienza a posto, di un apprendimento nozionistico e superficiale. Al contrario, entrambi gli insegnanti devono mantenere un rapporto costante tanto con il sapere costruito dai matematici, quanto con il sapere sulle disabilità. [10: Per questa e altre osservazioni mi riferisco all’esperienza personale, e al confronto diretto e quotidiano con numerosi insegnanti.]

Relazione insegnante-allievo

In questo caso si ha a che fare con delle dinamiche diverse: il senso maggiore di fallimento dell’alunno disabile, almeno nella maggior parte dei casi, e il senso di frustrazione dell’insegnante davanti a delle modalità di pensiero completamente diverse dalle proprie, prima di tutto. A ciò si aggiunge la difficoltà relazionale propria di alcune disabilità (autismo). Inoltre, spesso si crea una situazione di dipendenza dell’allievo dal maestro, il quale, anche involontariamente si trova a suggerire le risposte.

Relazione allievo-sapere

Ciò ovviamente conduce ad una relazione “sbagliata” dell’allievo con il sapere, cioè ad un mancato apprendimento.

Peraltro, quando vengono proposte schede strutturate, l’allievo viene preso per mano e condotto verso la soluzione del compito. Il compito sarà risolto correttamente, ma non è detto che il concetto sia stato appreso, se non è ad esempio generalizzato ad altri contesti.

À plusieurs reprises déjà j'ai pu faire part de mon étonnement que dans les classes d'enseignement spécialisé qui jouissent d'une liberté certaine vis à vis des exigences des programmes scolaires, on consacre autant de temps et d'énergie à reprendre sempiternellement l'enseignement du calcul écrit. Il y a là une marque indéniable d'un surinvestissement institutionnel, largement partagé par les différents acteurs : enseignants, élèves, orthophonistes, parents, etc. Les phénomènes de dénombrements parasites que j'ai décrit sont sans doute une des manifestations de tels surinvestissements. (Conne, 2003, p. 5)

Nella presente tesi mi occupo principalmente dei vertici sapere e allievo, e molto marginalmente del vertice insegnante. In particolare approfondisco il vertice allievo, il vertice sapere e le loro relazioni, nel senso di affrontare le seguenti questioni:

1. Quali le caratteristiche degli allievi con difficoltà visuo-spaziali? (allievo)

1. Quali le loro difficoltà in geometria? (allievo-sapere dal punto di vista dell’allievo)

1. Quali in generale (per tutti gli allievi) le difficoltà in geometria e nello spazio? (allievo-sapere dal punto di vista dell’allievo)

1. Quale il legame tra le abilità/difficoltà spaziali e le abilità/difficoltà in geometria? (sapere)

1. Quali contenuti ed obiettivi sono fondamentali nella geometria? (allievo-sapere dal punto di vista del sapere)

2. Le difficoltà visuo-spaziali

2.0. Introduzione

In questo capitolo si affronta innanzitutto la questione inerente le difficoltà visuo – spaziali, entrando così nella problematica più specificatamente legata alla tesi. In esso si delineano le caratteristiche principali della sindrome di Williams (sia per quanto riguarda il fenotipo che per quanto riguarda il genotipo), portando come specifico esempio il caso di R., descrivendo il lavoro effettuato durante gli anni scolastici 2003-2004 e 2004-2005. Si affronta comunque il problema delle difficoltà visuo – spaziali in un contesto più generale (quello della sindrome non verbale) di quello riguardante il caso della sindrome di Williams.

A tale fine è necessario individuare le abilità coinvolte nei processi di visualizzazione spaziale: pertanto, facendo riferimento alla recente letteratura sull’argomento, si indicheranno tali abilità.

Si vedrà comunque che la definizione delle abilità visuo – spaziali è questione ancora del tutto aperta, non essendoci pieno accordo tra gli studiosi dell’argomento.

2.1. La sindrome di Williams

La Sindrome di Williams (SW) è una malattia congenita, autosomica dominante, dovuta a una micro-delezione[footnoteRef:11] del braccio lungo (braccio q) del cromosoma 7, relativamente rara: la sua incidenza non è ancora infatti del tutto conosciuta ma si stima che sia compresa tra 1 su 10.000 e 1 su 20.000 nati[footnoteRef:12] (Giannotti & Vicari, 2004). Essa è stata identificata relativamente di recente (nel 1961) [footnoteRef:13] contemporaneamente da alcuni studiosi tedeschi (Beuren, Apitz e Harmjanz) e da altri neozelandesi (Williams, Barrett-Boyes e Lowe). Il profilo neuropsicologico della Sindrome di Williams-Beuren è attualmente oggetto di dibattito: le prime ricerche infatti avevano identificato una dissociazione tra le abilità visuo-spaziali (fortemente deficitarie, a parte il riconoscimento dei volti) e le abilità linguistiche (apparentemente preservate). Tale dissociazione è tuttora oggetto di ricerca, perché confermerebbe l’ipotesi di un’indipendenza, parziale o addirittura totale, delle facoltà cognitive: secondo alcuni ricercatori addirittura ciascun modulo cognitivo (linguistico, visuo-spaziale, ecc.) opererebbe in modo del tutto indipendente dagli altri, senza alcun tipo di comunicazione. [11: “Una delezione è una perdita di un segmento di un cromosoma, che può appartenere alla sua parte terminale (delezione terminale) o all’interno del corpo del cromosoma (delezione interstiziale). I segni clinici e i sintomi associati alla delezione dipendono dal segmento che viene cancellato” .Normalmente, le delezioni sono visibili attraverso l’uso di microscopi molto potenti. Quando non sono visibili si parla di microdelezioni, diagnosticabili solo con la tecnica FISH (si veda nota 12). le sonde molecolari che includono brevi filamenti del DNAPer l’esattezza, in questo caso, si tratta di micro-delezione nella regione 7q11.23.] [12: A titolo di confronto, si noti che la ben più nota Sindrome di Down ha un’incidenza di 1 su 700-1000 nati .] [13: Sempre al fine fornire un elemento di confronto, la Sindrome di Down, in assoluto la più studiata causa di ritardo mentale, è stata descritta per la prima volta nel 1866 .]

Ma, come vedremo, più recentemente tale affermazione estrema viene attualmente messa in discussione da un gran numero di ricercatori.

Un’altra delle caratteristiche più evidenti degli individui SW è la loro notevole cordialità, che li porta a socializzare facilmente, e l’empatia, che li porta a “leggere” i sentimenti e le emozioni degli altri. Risultano pertanto facilmente simpatici alle persone con cui vengono in contatto: Tutti hanno lo stesso tipo di natura amichevole, vogliono bene a tutti, tutti vogliono bene a loro e ne sono molto affascinati. (Beuren, cit. in (Dyckens, Hodapp, & Finucane, 2002, p. 123))

Da un punto di vista somatico, le caratteristiche facciali dei bambini SW, generalmente descritti come particolarmente graziosi e attraenti, sono: naso all’insù, radice del naso infossata, fronte larga con restringimento bitemporale, iride “stellata”, lobi delle orecchie prominenti, difficile occlusione e affollamento dentale. Tali caratteristiche diventano più marcate con l’invecchiamento, cosa che li rende forse meno attraenti.

Eziologia genetica

Accennerò semplicemente all’eziologia genetica della sindrome, poiché l’argomento esula dagli obiettivi della tesi. Desidero nondimeno farvi dei cenni, seppur minimi, poiché ritengo che le novità nella genetica abbiano aperto nuove frontiere nella pedagogia e nella didattica, che vanno comunque prese in considerazione. Per lo stesso motivo, citerò anche le scoperte relative alla situazione cerebrale degli individui SW. Sono ben note infatti le applicazioni che questi studi stanno ritrovando anche nella didattica della matematica. Per approfondimenti su entrambi gli aspetti si confronti (Giannotti & Vicari, 2004).

L’eziologia genetica della sindrome è rimasta sconosciuta fino agli anni ’90, quando (1993), tramite l’uso della tecnica FISH[footnoteRef:14] fu identificata la micro-delezione del cromosoma 7 nella regione 7q11.23, una regione relativamente ampia (1.5 megabasi[footnoteRef:15]); tale delezione include, tra l’altro il gene per l’elastina, una proteina che dà forza ed elasticità alla pelle, ai vasi sanguigni e alle pareti degli organi. L’assenza dell’elastina è ritenuta essere la probabile causa dell’anomalia cardiaca (SVAS[footnoteRef:16]) degli individui SW e dei loro disturbi cardiovascolari, ma anche dell’iride stellata e della voce roca, mentre non spiega altre caratteristiche della sindrome, in particolare le caratteristiche cognitive e comportamentali. [14: La FISH (Fluorescent In Situ Hybridization) è una tecnica diagnostica, che consiste nell’aggiungere a un preparato cromosomico una sonda molecolare marcata con una sostanza fluorescente. Tale sonda cerca la sua combinazione sequenza-specifica, permettendo così di localizzarla all’interno del cromosoma o di evidenziare eventualmente la sua assenza. Nel caso della SW si può osservare la fluorescenza nel punto 7q11.23 solo in uno dei due cromosomi 7. Da cui evidentemente si deduce la microdelezione nell’altro.] [15: Una megabase equivale a un milione di basi, dove per base si intende ciascuna delle quattro componenti del nucleotide (Adenina, Timina, Guanina o Citosina).] [16: Stenosi aortica supravalvolare.]

Oltre al gene per l’elastina mancano altri 12 geni, ma di essi non si conosce ancora la natura fenotipica. Alcuni ricercatori ritengono che uno di questi geni, il LIM-chinasi 1, che codifica per la proteina chinasi, implicata nello sviluppo cerebrale, sia responsabile del danno di tipo visuo-spaziale, ma sull’argomento il dibattito è ancora aperto (Giannotti & Vicari, 2004)

Aspetti neuro radiologici

Attraverso studi elettrofisiologici, è stata evidenziata una risposta simmetrica agli stimoli grammaticali (negli individui normali si ritrova una maggiore attività nell’emisfero sinistro). Ciò sarebbe sintomo di una non avvenuta specializzazione dei due emisferi. Inoltre il riconoscimento dei volti risulta legato ad una maggiore attività a sinistra piuttosto che a destra, come per una ridistribuzione dei circuiti neuronali, per supplire a quelli interrotti. (Giannotti & Vicari, 2004)

La relativa preservazione delle abilità linguistiche può essere spiegata dallo sviluppo relativamente normale dei lobi frontali, con rispetto della loro simmetria. Anche il giro temporale traverso, sede dell’area uditiva, ed il planum temporale, importante per il linguaggio e per la musicalità, sono preservati, se non addirittura ingranditi. Un’anomalia nell’amigdala potrebbe, d’altro canto, spiegare il comportamento eccessivamente socievole degli individui SW (Giannotti & Vicari, 2004)

Il deficit cognitivo è stato identificato nell’ambito del flusso dorsale (dorsal stream), rivolto alle aree parietali deputate alla analisi spaziale e alla analisi del movimento; mentre risulta integro il flusso ventrale (ventral stream) che è diretto alle aree temporo-visive, implicate nel riconoscimento morfologico dell’oggetto. Ciò confermerebbe e spiegherebbe la presenza di situazioni contrastanti nell’ambito visuo-spaziale: buone capacità di riconoscimento dei volti contro disfunzioni nell’analisi spaziale.

Gli aspetti socio-relazionali

Gli individui SW, hanno in generale difficoltà nelle attività di vita quotidiana (cura dell’igiene personale, mangiare, vestirsi, e cura di sé in generale), mentre sono in grado di muoversi autonomamente, ma per lo più su percorsi noti.

Manifestano esuberante entusiasmo e forte emotività, spesso scoppiando in un pianto dirotto anche in occasione di dispiaceri apparentemente lievi o evidenziando manifestazioni affettuose fuori dal comune, ma anche ansietà, ossessioni, paure e preoccupazioni, in particolare per eventi che stanno per avvenire, reali o immaginati, per cambiamenti inaspettati nella routine o nei programmi, relativamente a oggetti che provocano forti rumori (come gli elicotteri o le sirene) e terrore in occasione anche di eventi apparentemente poco spaventosi.

Tendono a perseverare in alcuni argomenti di conversazione favoriti, ma per il resto la loro attenzione è limitata a brevi lassi di tempo.

L’abilità nel riconoscimento dei volti, unita ad una particolare abilità ad assumere il punto di vista degli altri e ad identificare le emozioni altrui, fa sì che siano loro riconosciuti tratti amichevoli e simpatici e abilità di comunicazione e di socializzazione. D’altra parte, essi sono amichevoli con tutti indistintamente e nel contempo non riescono a mantenere le amicizie. Tale difficoltà a conservare amicizie è dovuta anche probabilmente anche alla loro bassa tolleranza alla frustrazione e ai dispetti (Dyckens, Hodapp, & Finucane, 2002), alla difficoltà a sostenere l'attenzione, alla loro impulsività (Giannotti & Vicari, 2004) oltre che alla tendenza a perseverare in alcuni argomenti di conversazione.

Sviluppo cognitivo e linguistico

Dal punto di vista cognitivo esiste una forte diversificazione tra individui Williams: alcuni bambini mostrano livelli di intelligenza medi o leggermente al disotto della media associati a difficoltà di apprendimento, mentre altri sono a livello medio-grave.

Data la loro sensibilità ai rumori (iperacusia), possono mostrare facilità nell'apprendere canzoni, manifestando una buona memoria uditiva e senso musicale. Spesso essi manifestano una particolare sensibilità al timbro, riuscendo a riconoscere per esempio diversi tipi di macchine solo dal rombo del motore.

Nei bambini SW è stata individuata una dissociazione tra le abilità visuo-spaziali (fortemente deficitarie) e le abilità linguistiche (che sembrano preservate). Questa “dissociazione cognitiva” diventa ancora più evidente quando le prestazioni dei bambini SW vengono messe a confronto con quelle dei bambini affetti da sindrome di Down (SD), le cui capacità risultano, in certo modo, speculari: buone abilità spaziali e carenti abilità linguistiche.

Ma tale distinzione risulta estremamente riduttiva: essa viene oggi messa in discussione da molte ricerche, che non evidenziano differenze statisticamente significative tra il QI verbale e il QI di performance. Altri (Jarrod, Baddeley e Hewes) hanno mostrato che tali differenze si evidenziano, ma solo nei soggetti adulti, ma non nei soggetti in età evolutiva. D’altra parte, qualora si evidenzino maggiori abilità verbali, queste sono comunque inferiori rispetto a quelle di soggetti normali, con pari età cronologica. (Giannotti & Vicari, 2004)

La discrepanza tra le varie ricerche come notano (Rinaldi, Capirci, Spampinato, & Volterra, 2004) potrebbero dipendere dall’estrema variabilità individuale degli individui SW, dovuta a sua volta all’ampiezza della delezione.

Va ricordato che una persona con ritardo mentale (di qualsiasi natura sia il ritardo mentale, ma questo vale a maggior ragione per il ritardo mentale secondario ad una sindrome genetica) non è una persona che “funziona normalmente ma ha qualcosa che manca”, ma una persona che non riesce ad utilizzare le stesse strategie della maggior parte delle altre persone che vengono definite “la norma” e quindi le sue potenzialità si stanno adattando per cercare strategie alternative per rispondere in maniera più efficace alle richieste di un mondo che non è a sua misura.[footnoteRef:17] [17: ]

Ciò è confermato dalla mia personale esperienza: R., svolgeva più facilmente piccoli compiti spaziali, soprattutto la ricostruzione di puzzle, ma anche alcuni disegni; L. invece manifestava una particolare insofferenza a questi compiti stando particolarmente male nello svolgerli (probabilmente ciò era dovuto anche ad una istruzione completamente diversa (ho conosciuto entrambi ad un’età piuttosto matura)). D’altra parte, mentre R. aveva forti difficoltà di orientamento e difficoltà gravi nella lettura e scrittura, anche del suo stesso nome, L. era capace di orientarsi da sola e aveva quindi maggiore autonomia e libertà di movimento (certamente a ciò ha contribuito il fatto di abitare in un piccolissimo paese) e, anche se in modo elementare, era in grado di leggere e scrivere. Entrambi privilegiavano in modo netto parlare e raccontare verbalmente, piuttosto che svolgere attività spaziali, ma entrambi tendevano ad essere monotematici e ad avere difficoltà nell’affrontare una “normale” conversazione.

Nel prossimo capitolo espliciterò in cosa consistano le più comuni difficoltà visuo-spaziali degli individui con Sindrome di Williams. Ora mi limito a fornire un accenno delle loro apparenti abilità linguistiche.

Mentre in passato i ricercatori ritenevano che avessero un lessico particolarmente ricco, ora si tende ad affermare che il buon vocabolario sia solo un relativo punto di forza, che comunque può essere sempre al di sotto delle aspettative in relazione all’età cronologica, ma in generale esso è superiore alle aspettative relative all’età mentale. Non c’è accordo sulla semantica e sulla sintassi dei bambini SW. Alcuni ricercatori sostengono che esse sono normali o addirittura molto sviluppate (per esempio quando viene richiesto di elencare animali o oggetti appartenenti ad una data categoria: ad esempio “uccelli”); altri ricercatori hanno identificato difficoltà nelle regole morfo-sintattiche.

2.1.1. Analisi di caso

Prima di affrontare e descrivere meglio le difficoltà spaziali degli individui con sindrome di Williams ritengo più opportuno presentare un’analisi di caso da me personalmente seguito negli anni scolastici 2003/04 e 2004/05, allo scopo di esemplificare gli aspetti cognitivi e relazionali degli individui con sindrome di Williams, in particolare proprio gli aspetti relativi alle difficoltà di tipo visuo-spaziale.[footnoteRef:18] [18: Quanto riportato nelle prossime pagine è un estratto dell’articolo pubblicato sulla rivista on-line del GRIM ]

La situazione iniziale

R. (13 anni nel 2003, all’inizio dell’intervento) presentava un ritardo mentale medio-grave. Nel 2003 manifestava difficoltà sia a livello dell’attenzione (limitata a pochi ambiti) e della memoria (estremamente selettiva), sia a livello dell’organizzazione spazio-temporale, sia per quanto riguarda l’interiorizzazione e la generalizzazione dell’esperienza, seppure in modo parziale, ad altri contesti. Le maggiori difficoltà evidenti erano nella coordinazione sia grosso che fino-motoria.

Per quanto riguarda le abilità linguistiche, pur possedendo un ricco vocabolario ed un linguaggio sufficientemente sciolto, aveva qualche difficoltà fonologica e uditiva e non sempre parlava per un reale bisogno di comunicare; inoltre spesso non comprendeva le richieste dell’interlocutore.

Le sue capacità di letto-scrittura si riducevano a saper distinguere e riprodurre qualche vocale.

(Figura 1)I problemi nel riconoscimento dei numeri scritti erano analoghi a quelli di lettura; ma le sue carenze nelle abilità numeriche erano più estese: difficoltà nel memorizzare i numeri oltre il 20, ma soprattutto nell’attribuzione di significato ad essi, cioè nella conoscenza del numero come quantità.

Rispetto alla memoria visiva, la memoria uditiva era leggermente più sviluppata, soprattutto comunque nell’ambito musicale: R. tendeva a memorizzare canzoni e melodie ascoltate e a riproporle anche a distanza di tempo. Ma se la memorizzazione di una melodia gli riusciva semplice, lo stesso non si può dire per quella dei ritmi: anche un ritmo semplice, di quattro battute, gli riusciva estremamente complicato da riprodurre, anche se manifestava piacere nel tentativo di farlo.

Le difficoltà più gravi le presentava nell’ambito visuo-spaziale: nel disegno, nell’analisi di un’immagine, nelle relazioni spaziali, nell’orientamento.

Il modo, infatti, sia di guardare che di rappresentare un’immagine, sembrava essere estremamente diverso dalle difficoltà nel disegno che si possono riscontrare comunemente (si veda ad esempio la Figura 1 che dovrebbe rappresentare una foca).

(Figura 2) (Figura 3)Nella rappresentazione grafica, d’altra parte, non ho notato attenzione ai particolari (visione analitica) come evidenziato dagli studi di confronto con i Down. Anzi, talvolta (figure Figura 3 e Figura 2) possiamo notare come la forma globale prevalga a tal punto sugli aspetti analitici, da far perdere completamente di vista l’aspetto di aquila al suo disegno: dopo che aveva ricalcato un’aquila (Figura 3) con il mio aiuto, ho chiesto a R. di ridisegnarla; egli ne ridisegna correttamente la forma ma non riesce a cogliere i particolari essenziali, disegnando di fatto un altro animale (Figura 2).

(Figura 4)D’altro canto era però in grado di disegnare con sorprendente verosimiglianza gli oggetti e gli avvenimenti a lui più congeniali (scavatrice e macchine da lavoro, carro dei pompieri e incendi); si noti però che, anche in caso di disegno spontaneo, R. tendeva a non fare uso del colore (nei disegni presentati sopra, R. ha colorato di malavoglia e solo dopo mia precisa insistenza).

Pur chiedendo spesso libri illustrati, li sfogliava in fretta e in modo irrequieto, senza mai soffermarsi su un’immagine; non era, inoltre, in grado di descrivere lo spazio intorno a lui, quando richiesto: si soffermava eventualmente su un particolare, trascurando gli altri.

Infine, non attribuiva il nome corretto alle forme geometriche: nel rispondere sembrava si sforzasse di capire quale, dei tanti nomi che aveva in mente, potesse accontentare l’interlocutore. Discorso a parte merita la conoscenza dei colori: a tutt’oggi mi è impossibile determinare se i suoi errori, talvolta clamorosi (blu con rosso, giallo con blu) fossero dovuti a reale difficoltà nella discriminazione, o a stanchezza, o ancora ad una sorta di pensiero “divergente”.

Non incontrava invece particolari difficoltà nella ricostruzione di immagini e nella risoluzione di semplici puzzle (naturalmente i puzzle proposti erano adeguati al suo ritardo mentale).

Dal punto di vista socio-relazionale, era un ragazzo socievole ma eccessivamente emotivo. Instaurava rapporti affettivi intensi e aveva grande fiducia nell’altro. D’altro canto, a causa di questa eccessiva fiducia e della sua emotività, si lasciava spesso trascinare dagli eventi senza essere in grado di dominarli. Amava però immedesimarsi nell’altro, effettuando un’opera di drammatizzazione degli eventi (“io sono ….”); ciò gli permetteva di affrontare con maggiore serenità gli avvenimenti.

Il lavoro effettuato

Lo sviluppo e il potenziamento delle abilità socio-relazionali e il recupero di alcune abilità visuo-spaziali sono stati individuati da subito come obiettivi primari dell’intervento di sostegno. L’amore di R. per la musica, la sua propensione allo stare con gli altri e le sue capacità di imitazione e di immedesimazione hanno costituito invece i punti di forza sui quali fare leva per il conseguimento degli obiettivi scelti.

Primo anno

Il lavoro iniziale è stato focalizzato, da un lato, sul raggiungimento di una maggiore serenità emotiva, dall’altro sullo sviluppo delle capacità di orientamento e di osservazione e analisi dello spazio.

Pertanto R. è stato portato spesso fuori dall’aula (talvolta solo, talvolta con uno o due compagni), cosicché potesse esprimere pienamente le proprie potenzialità.

Alcuni esercizi (sia di scrittura che spaziali) sono stati svolti al computer (anche attraverso l’uso di alcuni software). Il computer (prima da lui utilizzato in modo confuso, poiché non sapeva controllare il mouse) gli è servito da un lato per potenziare le capacità di coordinazione oculo-manuale, dall’altro per fargli acquisire maggiore sicurezza ed autostima (a causa della possibilità di cancellare gli errori, ma anche della possibilità di “ancorare” le figure, quando eseguiva esercizi spaziali).

Altri esercizi sono stati eseguiti con carta, matita e con oggetti concreti: ad esempio esercizi di taglia e incolla o giochi con i blocchi logici e con i colori. R. è stato guidato dapprima a riprodurre dei semplici ritmi musicali e poi, facendo uso di questa capacità acquisita, alla riproduzione di sequenze di colori.

Nello stesso tempo R. è stato guidato ad osservare con “metodo” i libri illustrati, raccontando le immagini che incontrava e disegnando alcune delle immagini osservate, è stato condotto per i corridoi della scuola e nel giardino, per osservare e descrivere tutto ciò che incontrava, è stato infine incoraggiato a muoversi autonomamente e ad eseguire alcuni incarichi in classe.

Secondo anno

Nel secondo anno, R., forte delle abilità acquisite e di una maggiore autostima, ha lavorato più spesso in classe o in piccolo gruppo e ha costruito alcuni materiali di lavoro (ad es. un semplice atlante geografico o un cubo).

Attività 1: stesura di un libro

(Figura 5)Insieme a un gruppo di compagni-tutor ha realizzato un libro di racconti. Nelle figure Figura 5 e 6 sono riportate due delle storie da lui scritte.

(Figura 6)Gli obiettivi di questo lavoro erano molteplici: dallo sviluppo delle abilità visuo-spaziali a quello delle abilità relazionali, dallo sviluppo delle capacità di orientamento temporale al recupero delle abilità di letto-scrittura.

Pur trattandosi di racconti molto semplici, la stesura di una singola storia poteva richiedere anche alcune ore di lavoro. Si cominciava infatti dalla scelta di un animale protagonista, del quale si osservavano varie immagini in un libro e del quale si studiavano le principali caratteristiche fisiche e comportamentali. A questo punto si lasciava che R. si immedesimasse nella storia e che imitasse l’animale. Si cominciava così a costruire il canovaccio di una storia che veniva drammatizzata da R. e da alcuni suoi compagni. Infine, si disegnava il personaggio, ricordando sempre alcune delle caratteristiche principali e si sceglievano insieme le parole esatte per raccontare la storia; la stesura effettiva della storia era fatta da me o da un compagno, sotto dettatura di R., che prima l’aveva imparata a memoria.

Attività2: Costruzione con i “blocchi colorati”

Un altro importante lavoro è stato quello con i “blocchi colorati”[footnoteRef:19] . [19: Questo materiale è formato da una serie di blocchi colorati di sei forme e colori diversi (fig.1): triangoli equilateri verdi, esagoni gialli, trapezi rossi (con angoli di 60° e di 120°), rombi blu (angoli di 60° e 120°) e marroni (angoli di 30° e di 150°), e quadrati arancione; tutti i blocchi colorati hanno i lati che misurano la stessa lunghezza, ad eccezione del trapezio, un lato del quale misura il doppio degli altri. Il materiale si trova allegato al libro Geometria con i blocchi colorati di Barbara Bando Irvin,.]

Le attività erano svolte talvolta da R. da solo, talaltra anche dai suoi compagni. L’interesse particolare di queste attività, infatti, è che possono essere svolte a più livelli e quindi sono strumento di promozione di una reale integrazione.

a. Tassellazione libera

(Figura 7) (Figura 8)R. e i suoi compagni potevano utilizzare le forme liberamente, con l’unico vincolo di fare una costruzione piana e di non lasciare spazi vuoti. R. dapprima non comprende la consegna e lavora nelle tre dimensioni. Ma, immediatamente dopo, su indicazione dell’insegnante, riesce a tassellare il piano con sufficiente abilità. Unico ostacolo è la mancanza di stabilità delle forme che non rimangono ferme nel posto in cui egli stesso le ha messe (cioè non è possibile “ancorarle”), creandogli nervosismo e facendolo confondere. È solo per questo motivo che il compito viene interrotto prima che sia finito. A titolo di confronto, mostro qui i lavori di due compagni: la prima, normodotata, svolge il lavoro senza errori; il secondo, un ragazzo affetto da disturbi del comportamento, ma non diagnosticato per volontà dei genitori, ha avuto difficoltà molto maggiori a controllare la posizione delle forme.

(Figura 9) (Figura 10)

b. (Figura 11)Completamento

La consegna era di individuare la forma che “completa” la figura.

(Figura 12) (Figura 13)R. riesce immediatamente, ma poi prosegue in modo indipendente e perde” ancora una volta l’”ancoraggio” della figura.

c. Pavimentazione secondo uno schema

Un altro compito era quello di continuare una pavimentazione, di cui era stato dato l’inizio, mantenendone la successione di forme e colori . Questo tipo di consegna provocava in R. le stesse difficoltà che si verificano quando gli veniva chiesto di proseguire una sequenza di colori (ad esempio rosso-giallo-rosso-giallo…), cioè aveva difficoltà a mantenere il “ritmo”.

(Figura 14) (Figura 15) (Figura 16)

d. Costruzione di una figura

Un’altra consegna era di costruire una figura, copiando col modello presente o a memoria, quella precedentemente costruita da me, per esempio una stella o una casetta (le figure sono tratte dal libro citato di Bando Irvin).

(Figura 17) (Figura 18) (Figura 19) (Figura 20) (Figura 21) (Figura 22)Come esemplificato dalle foto rappresentanti il suo tentativo di riproduzione della stella blu, R. all’inizio aveva molte difficoltà, anche in presenza del modello; ma, dopo avere svolto il compito anche una sola volta, riusciva a ripeterlo senza errori, anche a distanza di tempo.

(Figura 23) (Figura 24)Inoltre, spesso, come nel caso della casetta, dopo averla costruita col mio aiuto, tendeva a proseguirla liberamente, dimenticando la consegna.

e. Copia grafica di figure costruite con i “blocchi colorati”

(Figura 25)L’ultimo compito consisteva nel riprodurre su carta le costruzioni effettuate con i “blocchi colorati”, rispettando forme e colori. Ad esempio a R. viene chiesto di riprodurre la papera. Nel suo primo tentativo, R. non rispetta né la forma né i colori. Semplicemente, riproduce una papera qualsiasi (si notino le due zampe) e la colora tutta di giallo. Come si può vedere dalle cancellature, ha effettuato continue correzioni: esse sono dovute a mie precise indicazioni.

(Figura 26) (Figura 27)Sotto la mia guida, R. ripete il lavoro. Tranne il triangolo delle zampe e, in qualche modo, quello del becco, le forme non sono rispettate. L’esagono appare più simile a un cerchio che a un poligono. Inoltre la testa e il collo sono stati disegnati come un pezzo unico; solo dietro mia indicazione, sono stati colorati di due colori diversi.

Anche il gatto è stato copiato e colorato con la mia guida. In particolare, si noti il corpo, anch’esso disegnato come un pezzo unico, e la testa, con occhi e bocca. La coda, infine, è a sinistra invece che a destra.

Risultati ottenuti

Durante i due anni di lavoro, R. ha sviluppato alcune capacità cognitive e neuropsicologiche di base, come le capacità mnemoniche e attentive e le capacità di classificazione e seriazione.

Ha inoltre raggiunto gli obiettivi proposti, sviluppando le capacità di osservazione, descrizione e rappresentazione di immagini, oggetti e avvenimenti. I libri vengono sfogliati con più cura e maggior desiderio di osservazione; il disegno si è arricchito di particolari e ha acquistato maggiore veridicità (confronta, oltre alla tigre e alla rana a lato, anche il leone e il coccodrillo del libro illustrato, presentate sopra: si noti in particolare con quanti particolari è stato disegnato il coccodrillo), anche se mantiene difficoltà nell’organizzazione dello spazio del foglio (si veda ancora una volta il coccodrillo); pur permanendo numerose difficoltà (per esempio nella riproduzione grafica di una forma), R. ha acquisito sempre maggiore dimestichezza con le forme geometriche, riuscendo a rispettare più facilmente le consegne e a inventare immagini ben strutturate. Vedremo nell’ultimo capitolo, come le competenze acquisite siano talmente stabili, da essere recuperate anche a distanza di anni.

(Figura 28)

R. ha anche manifestato maggiore piacere nello stare a scuola, ha partecipato con maggiore interesse e coinvolgimento alle attività proposte ed è maturato nell’approccio ai problemi, che affronta con maggiore consapevolezza.

Appariva inoltre maggiormente capace di difendersi dalle situazioni emotivamente impegnative; si dimostrava più autonomo sia nello svolgimento del suo lavoro che negli spostamenti all’interno della scuola; manifestava un maggiore spirito di iniziativa; era anche cresciuta la sua capacità di individuare e correggere autonomamente i propri errori, anche se avrebbe avuto ancora bisogno di essere seguito costantemente e di ricevere continui incoraggiamenti.

Pur permanendo un estremo bisogno di un ambiente di lavoro totalmente tranquillo, manifestava maggiore fiducia in se stesso e si erano allungati i tempi di attenzione e di capacità di controllo delle emozioni. Pur avendo ancora alcune difficoltà a controllare la propria emotività, infatti, era maturato ulteriormente nella relazione con i compagni, mostrando, tra l’altro, di avere probabilmente risolto alcuni conflitti interiori e di avere raggiunto una maggiore serenità.

2.2. Le difficoltà visuo-spaziali

2.2.1. La sindrome non verbale

Come abbiamo visto, caratteristica tipica degli individui con sindrome di Williams, sono le difficoltà visuo-spaziali. Queste, lungi dal riguardare solo gli SW, sono invece abbastanza diffuse. Anzi, esse costituiscono uno dei principali aspetti coinvolti nella cosiddetta sindrome non verbale (SNV).

Il termine sindrome non verbale può trarre in inganno. Di primo acchito, si può pensare che le persone con questo disturbo non parlino, mentre in realtà è esattamente il contrario: possono parlare fino a sfinirti. “Sindrome non verbale” significa che le principali aree di deficit sono nel dominio non verbale e si parla di sindrome perché implica un insieme di deficit che influiscono praticamente su ogni aspetto della vita della persona. (Tanguay, 2006, p. 11)

La SNV, infatti, riguarda diversi aspetti non inerenti al linguaggio, relativi soprattutto alle difficoltà di orientamento, di visualizzazione spaziale, di motricità fine e grosso-motoria: tali difficoltà influiscono sempre sulle abilità socio-relazionali; pertanto alcuni bambini SNV possono essere goffi o avere scarse abilità sociali. In realtà, secondo (Cornoldi, et al., 1997), bisogna distinguere tra i disturbi specifici di apprendimento visuo-spaziale e la sindrome non verbale.

Nel primo caso viene compromesso esclusivamente l’apprendimento scolastico, anche se in diverse aree (aritmetica, geometria, geografia, disegno), mentre non si presenta un ritardo mentale, non ci sono chiare cause neurologiche e non sono compromesse le abilità di vita.

La cosiddetta sindrome non verbale invece influisce praticamente su ogni aspetto di vita della persona; viene pertanto considerata un disturbo dello sviluppo[footnoteRef:20] ed è associata a diverse condizioni genetiche o neurologiche. [20: Un disturbo dello sviluppo (o disturbo evolutivo) “presuppone una disabilità grave e cronica che si manifesta prima che l’individuo raggiunga i 21 anni di età. Comporta inoltre sostanziali limitazioni nelle aree della cura di sé, del linguaggio ricettivo ed espressivo, dell’apprendimento, della mobilità e anche della possibilità di essere indipendente ed economicamente autosufficiente” ]

Rourke (1989 e 1995) uno dei maggiori studiosi della sindrome non verbale ha identificato alcune condizioni che evidenziano un profilo neuropsicologico della sindrome non verbale: oltre alla sindrome di Williams, presentano caratteristiche analoghe la sindrome di Asperger, la sindrome di de Lange, la sindrome velocardiofacciale, la sindrome di Turner, l’agenesia callosa, l’idrocefalismo, ma anche gli individui con danni o disfunzioni significativi dell’emisfero cerebrale destro.

Profilo della sindrome non verbale

Quali sono le caratteristiche della sindrome non verbale? I punti di debolezza di un individuo SNV sono, in generale nel tatto, nella percezione e nell’attenzione visiva, nella coordinazione psicomotoria, nella collocazione di oggetti nello spazio, ma anche nelle capacità di dì adattabilità ad una nuova situazione e nella flessibilità mentale. Il bambino con SNV ha inoltre difficoltà nella organizzazione del proprio lavoro, trovando quindi difficile svolgere un compito complesso, suddividendolo magari nelle sue fasi e nella generalizzazione delle informazioni.

Ma anche il linguaggio, nell’aspetto funzionale e pragmatico presenta notevoli difficoltà: hanno, cioè difficoltà a interpretare il linguaggio metaforico e figurato, a “leggere tra le righe” e a interpretare messaggi non verbali. Pertanto la comunicazione necessita di messaggi chiari e univoci.

Tali difficoltà ovviamente provocano anche disagio sul piano sociale. Il bambino, non comprendendo le regole