universitas, anno xiii, numero 1

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1 universitas speranza. speranza? ANNO XIII NUMERO 1 u n i v e r s i t a s hope.

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Il primo numero nella nuova veste grafica di Universitas, giornale del Gruppo FUCI "G. Lazzati" dell'Università Cattolica del Sacro Cuore in Milano.

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Editoriale“Tutta la vita ho battagliato con la

scrittura, e non c’è niente che abbia affrontato con più coraggio – sì, questa è l’espressione esatta, coraggio – degli incipit. Ho sempre pensato che, se solo fossi riuscito a scriverne uno buono, tutto il resto sarebbe venuto fuori da sé. Immaginavo quella prima frase come una sorta di grembo semantico ricolmo di embrioni gravidi di pagine non an-cora scritte, piccole pepite rilucenti di genialità ansiose di venire alla luce. Da quel verso magnifico sarebbe stillata, diciamo, goccia a goccia l’intera storia. Che delusione! Esattamente il contra-rio.” Così Firmino, topo da biblioteca di cui Sam Savage ci ha raccontato la

rocambolesca vita, descrive il suo per-sonale rapporto con l’inizio della scrit-tura. Non so voi, ma io mi trovo assolu-tamente d’accordo con il roditore! Questo dovrebbe essere un editoriale; l’incipit dovrebbe essere fondamentale perché, in questo caso, apre non solo il primo articolo del giornale ma anche la nuova stagione di Universitas: nuovo Anno Accademico (2008/2009), nuo-vo direttore (Francesco Ballone), nuovo collaboratore (dovrei essere io…), nuo-ve matricole che prendono per la prima volta in mano questo giornale e si tro-vano di fronte quelli che potrebbero a prima vista sembrare i deliri di uno stressato alle prese con la sessione in-combente… Ma non è follia. Firmino ha capito che chi ben comincia NON è a metà dell’opera; la rincorsa iniziale non è la preparazione di un salto nel vuoto sospinti in avanti dalla forza del salto stesso. Come la scrittura, un nuo-vo anno è un lungo percorso ad osta-coli in cui la perseveranza e la resi-stenza sono le armi migliori, dove lo sprint è la giusta conclusione della cor-sa e non la fatica iniziale, devastante per il proprio fiato. Per noi della FUCI,

aver cominciato alla grande con la “Scuola di Formazione alla politica”, organizzata in collaborazione con la Presidenza nazionale, non ci permette di adagiarci sugli allori. Le pagine di questo giornale danno l’idea del co-stante impegno nell’analizzare critica-mente ciò che ci sta attorno; gli incontri di Lectio e quelli socio-politici del nostro gruppo, dimostrano un mai domo amo-re per la ricerca e lo studio. La porta della nostra saletta è sempre aperta a chi è nuovo e ci vuole conoscere, a chi già ci conosce e ha trovato il piglio giusto per condividere assieme questo cammino e a tutto il mondo accademico che tra un esame e l’altro ha trovato o troverà il tempo di affacciarsi per vede-re “che combinano i ragazzi della FUCI”. La promessa a tutti è, come sempre aldilà degli incipit, quella di un anno straordinario.

Fabrizio Gagliardone, Presidente del gruppo FUCI “G.Lazzati”

il Punto di don Luigi Galli

Attenti… alla poesia. Il titolo può trarre in inganno; non si sta parlando della poesia come for-ma altissima dell’espressione letteraria e dunque del cuore e dell’ingegno umano; si sta usando il termine per indicare una possibile deriva mortale per la fede cristiana.

Facciamo un passo indietro; da un po’ di tempo è accresciuto l’interesse per il cosiddetto ‘Gesù storico’. Si moltiplica-no pubblicazioni di libri di successo che hanno come punto di indagine la vita di Gesù. E questo avviene non solo per opera di specialisti ma anche da parte di giornalisti che conducono vere e proprie ‘inchieste’ su Gesù. E’ probabi-le che si tratti di una moda e può suc-cedere che presto, esaurito il ‘bacino di utenza’ con i relativi guadagni, il di-scorso vada nel dimenticatoio.

Il metodo è molto discutibile e i risultati lo sono ancora di più; la replica a que-ste ricerche, ovviamente, la lasciamo agli specialisti. A me interessa un altro aspetto di questa ‘moda’, ed è l’aspet-to per cui il linguaggio su Gesù e sulla sua vita assume i contorni, appunto, della ‘poesia’.

Il linguaggio della fede viene visto come linguaggio ‘mitologico’, fuori dal mondo e situato in una sfera assoluta-mente a-razionale e a-storica. In fondo Gesù è reale solo per quelli che credo-no, e la conoscenza della sua vita e della sue parole sono più frutto di una ‘fede creativa’ che non della scoperta di un dato storico che la fede, questo sì, interpreta in modo proprio e diverso da coloro che fede non hanno. Questo modo ‘evanescente’, ambiguo di parla-re di Gesù è molto suadente perché non è né denigratorio, né impertinente, né carico di disprezzo; anzi di Gesù si parla con grandissima ammirazione.

Tanto basta perché questo terribile ‘veleno’ entri in circolo anche negli atteggiamenti dei cristiani. E qui sta il richiamo alla ‘poesia’. C’è un estetismo cristiano che viene confuso con la fede e spesso, perfino, con l’entusiasmo reli-gioso e la santità.

Di Gesù e del cristianesimo non se ne può fare a meno perché ad essi si è affezionati come lo si è per i ricordi di famiglia; ma nessuno vive in forza dei ricordi di famiglia. Ora di Gesù si dice ogni bene, ma non che è il Salvatore dell’umanità e la Verità sul mondo e sull’uomo. Di Gesù è bello parlare ma non ci si può fidare perché non si sa bene da dove vengano la sua vita e le sue parole.

Gesù è poco più che ‘un’atmosfera’, che soddisfa il bisogno religioso (per altro inteso in modo molto vago); Gesù non ha in sé la forza veritativa che lo fa essere il Rivelatore del Mistero inti-mo di Dio. Così la fede non viene rico-nosciuta per quello che è; i cristiani, spesso e volentieri, la confondono con il sentimento religioso e con la religio-ne; coloro che cristiani non sono vedo-no la fede come una specie di ‘dono dall’alto’ piovuto, per un capriccio di-vino, su alcuni e non su altri.

L’esito è devastante: per i redenti che non sono in grado di ‘far vedere’ – pacatamente - la storicità della fede e la sua forza veritativa, così la fede vie-ne sempre più relegata nell’esperienza del ‘soggetto credente’ (e per questo non credibile nel consesso universale dei ‘sapienti’); per i non credenti che non riescono a comprendere ciò che per i cristiani è la fede, arrivando così,

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anche con le migliori intenzioni, a fare gravi confusioni per cui della fede (for-se) resta qualcosa nella storia dell’arte, in un sentimento umanitario forte o in un moto di grande ammirazione (gli ‘atei devoti’ insegnano).

Se l’analisi sta, che fare? Molte cose, una prima di tutto: fondare la fede nel-la storia e cercare di motivare ragione-volmente i contenuti della fede e, prima ancora e soprattutto, l’atto stesso del credere come atto umano, pieno, matu-ro, ragionevole, fondato e capace di essere una possibile strada di cono-scenza certa (anche se non solo di questo).

Come si fa? Con lo studio: il cristiano studia, studia, studia; non perché con lo studio si arriva in modo necessario e automatico alla fede, ma perché ‘cono-scendo la fede’ se ne può parlare e la fede stessa può avere il suo significato pieno e cioè essere il compimento ra-gionevole e cosciente della libertà che riconosce nella storia di Gesù la totale e definitiva Rivelazione del Mistero di Dio. Ma se Gesù non fa parte delle vicende e della storia dell’umanità, dove posso ‘appoggiare’ la fede?

don Luigi Galli

Il 6 dicembre le statue di Sant’Am-brogio vedono ogni anno la Basilica animarsi della popolazione milanese (e non) che si raduna: è il “giorno delle radici”, spirituali e culturali, quello del-la festa del Santo Patrono. E in questo giorno ci si trova a celebrare la messa, e ad ascoltare il discorso dell’Arcive-scovo alla città.

Circa un mese prima, stessa animazio-ne ma diverse persone: ragazzi univer-sitari, provenienti da tutta Italia (la tua parlata ti tradisce!) per la Scuola di Formazione politica della FUCI. Il titolo della Scuola è “Abitare la città. Sulle orme di Giuseppe Lazzati”.«Progettiamo una città che sia bella e facciamo di tutto perché il suo cuore ritorni a pulsare secondo il ritmo della sapienza dell’uomo interiore, così che ogni cittadino senta che la città è “sua” e possa dire con fierezza: “la mia cit-tà”». Questo, parte del pensiero espresso dall’Arcivescovo nel passato Discorso alla città: una città dove ci si senta a casa, che ognuno possa dire sua. Questo, il pensiero che ha animato la Scuola di Formazione politica: una “scuola”, che si vuole porre non come evento occasionale, ma “evento” radi-cato nella coscienza e nel desiderio di pensare e vivere cristianamente, sem-pre, abitando cristianamente dove vive l’uomo. Con tale volontà siamo scesi ad esplorare le profondità di una persona, Giuseppe Lazzati, e di una città, Mila-no.Prima di tutto, Milano: i giorni sono stati quattro e, se per chi scrive e vive

quotidianamente nella realtà milanese rimane tanto da conoscere e tantissimo da capire, ancora di più lo sarà stato per chi abita altre realtà, anche molto diverse.Né qui si può riportare per intero i di-scorsi ascoltati: per questo ci saranno spazi e momenti migliori (e se omette-remo i discorsi di qualcuno, la selezio-ne non è dovuta altro che a ragioni di spazio).Ma riflettere sul fatto che la città di Milano, e la prospettiva dell’Expo lo rende ancora più chiaro, è una città “da abitare o da usare”: usare per il lavoro, per il divertimento, per ciò che offre, e poi si torna ai luoghi che si abitano davvero (così Fabio Pizzul nel-l’iniziare la Tavola Rotonda dall’em-blematico titolo “Una città dell’uomo a misura d’uomo? Terreni di conflitto e occasioni di incontro”).Sentire la voce chiara e forte di don Gino Rigoldi dire che finché i piani alti, civili ed ecclesiastici, non prenderanno la metropolitana e non proveranno a vivere nelle case minuscole delle per-sone, non saranno in grado di offrire soluzioni vere perché non sapranno mai di cosa c’è bisogno (e questa non è utopia, perché il professor Mauro Magatti e altri, per scrivere l’annuale rapporto della Caritas, hanno proprio vissuto insieme ad alcuni degli abitanti di Milano).Ricordarsi del fatto che le città sono storicamente sorte a partire dagli ospedali: quindi città nate a misura d’uomo, e a misura dell’uomo debole e bisognoso... Tutto questo ci introduce

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Abitare la città, sulle orme di Giuseppe Lazzati

in questo numero:Editoriale Il Punto di don Luigi Galli Abitare la città, SdF FUCIDiritti d’autore e pirateria Conversazioni notturne a Gerusalemme Diritto e bioetica, intervista al prof. Nicolussi Scuola di Formazione diocesana alla politicaObama, l’audacia della speranza Un mondo da proteggere o da costruire?Abbiamo visto per voi...Giuseppe Lazzati

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www.fuci.net

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nella complessità di cosa vuol dire abitare e rendere abitabile una città, senza però lasciarci privi di armi: le soluzioni ci sono, a volerle prendere e perseguire.Un esempio concreto di questo, che ha colpito tutti: la Casa della Carità “An-gelo Abriani”, fondata da don Virginio Colmegna e collocata volutamente ai margini di Milano, per ricordare a tutti coloro che sono posti ai margini che anche loro sono persone. Significativo dello spirito che anima la Casa è quanto ci ha detto una delle responsabili: «Quando aiuti uno più debole di te, viene immediato classifi-care: se è una persona tossicodipen-dente ti rivolgi a una comunità, se è una persona senza casa ti rivolgi alla mensa dei poveri, se ha problemi men-tali ti rivolgi a una clinica apposita... Ma se capitasse una persona che ha un problema mentale ma non fortemente

rilevato, che ha dipendenza e non ha casa? Non si possono classificare le persone. Né tantomeno si può identifi-care una persona con la sua debolez-za: se io dico homeless faccio coincide-re la totalità della persona con ciò che gli manca. E questa è la sua morte».In secondo luogo, Giuseppe Lazzati. L’uomo, il credente, il professore, il Rettore, il Costituente e politico Giu-seppe Lazzati: dietro a questi nomi si nasconde una vita, cresciuta e vissuta abitando la Chiesa, l’università e l’Ita-lia. Sembra retorica a guardarla da fuori, ma non lo è. Lo si capisce ascoltando i professori Alfredo Canavero (insegna Storia contemporanea ed è presidente della Fondazione Lazzati) e Luciano Caimi (professore di Storia della peda-gogia e presidente dell’Associazione «Città dell’Uomo»), che hanno incorni-

ciato le scelte e le azioni di Lazzati nel tempo storico in cui visse.Lo si capisce ancora di più a sentire chi ha vissuto a stretto contatto con lui: Guido Stella, il nipote che fu il suo me-dico negli ultimi mesi di malattia, Maria Dutto, che ha lavorato come sua segre-taria ai tempi in cui Lazzati era “il si-gnor Rettore”, e Franco Monaco, che si può a giusto titolo definire “semplice-mente suo discepolo” (e il semplice-mente non è in senso riduttivo; si ricor-dano, tra le altre cose, la passata pre-sidenza in Azione Cattolica e alla stes-sa «Città dell’Uomo»). Dalle loro paro-le è emerso un uomo schivo, la cui mamma diceva “a l’è un parla noo”, che poteva, per questa sua riservatez-za, incutere soggezione; una persona che ha sempre coltivato quella virtù piccola e preziosa: l’umiltà; un grande amante della montagna e dei canti in compagnia; un cristiano povero, so-brio, che non possedeva nemmeno la casa in cui abitava, e fedele alla Chie-sa sempre, anche nei momenti di dura prova.Abbiamo imparato a conoscere un san-to: non ancora canonizzato, ma già da adesso esempio di una «santità prati-cabile – ci ha detto Franco Monaco – perché vissuta nella normalità; una santità genuinamente laicale, vissuta con lo sguardo sì al Regno, ma attuata pienamente in questo regno, quindi intessuta della pienezza e drammaticità dei conflitti che sono del mondo». In lui, come in tutti i Cristiani, il dramma del fatto che ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera (dalla Lettera a Diogneto).«Le ultime parole che mi ha detto prima di morire sono state: “costruite l’uo-mo”: anche nel momento di andare alla Casa del Padre egli ha scelto per la santità una precisa strada, quella che passa attraverso l’uomo». Così ha ricordato l’On. Monaco, che conclude-va con l’augurio che «questo uomo non sia una meteora nelle nostre vite». Ce lo auguriamo anche noi: questo vuole essere solo un gradino per rispondere alla domanda, rivolta tempo fa da Giovanni Lazzati e che si rivela quanto mai attuale, «Quale città, per quale uomo?».Che al “gradino” ne seguano altri.

Elisa Vimercati Presidente del gruppo FUCI “G. Lazzati”

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La realtà del diritto d'autore, come storicamente attuato, vive nella contrapposizione di questi due principi. Conosciamo tutti i prodigi del file sharing sul web. Sappiamo anche, come rammenta lo stesso sito di e-mule, che “scarica-re mp3, film, musica, video e altre opere costate denaro e fatica agli autori è vietato dalla legge italiana (a meno che non sia l'autore stesso a distribuire l'opera gratuitamente)” e di altri paesi. Fate voi il conto dei milioni di cittadini impuniti, rei di violazione della legge che tutela il diritto d’autore per le opere d’ingegno (artt. 2575-2583 Cod.civile), e soprattutto di quanti fra loro non avvertono l’azione come illegale.

Esempio classico della condivisione di file in rete è la tecno-logia P2P, peer to peer: una struttura orizzontale e decen-tralizzata che ha superato le prime tecnologie di file sharing (in cui l’utente, client, dipendeva da un server) ponendo tutti gli utenti in posizione paritaria, come fossero allo stesso tempo client e server, e che oltretutto velocizza il download in proporzione al numero di utenti connessi. La decentraliz-zazione è stata una risposta rapida alla guerra dichiarata dalle major di produzione discografica e mediale, in quanto copre d’anonimato il singolo cittadino che riesce tranquilla-mente ad attuare il download (e spesso anche l’upload) del cd che gli interessa, quello stesso cd che le major denuncia-no come ‘furto’ e ‘mancata vendita’.

Sono in molti oramai a sostenere che l’equivalenza tra “file scaricato” e “file invenduto” è fallace.Eccovi un dato ufficiale: Nel 2002, la Recording Industry Association of America (RIAA) riportava un calo nelle vendi-te di CD, da 882 a 803 milioni di unità; le entrate erano calate del 6,7%. Nello stesso periodo la RIAA stima che siano stati scaricati gratuitamente 2,1 miliardi di CD. Perciò, nonostante lo scaricamento gratuito abbia superato di 2,6 volte la quantità di CD venduti, le entrate sono diminuite appena del 6,7 per cento. Il dato ufficioso è presto ricavato: quanti film e cd avremmo acquistato se non l’avessimo scari-cato o non ci fosse stato passato da un amico? Logica vuole che il valore economico delle opere scaricate non equivalga al mancato introito lamentato dalle case di produzione.

La soluzione a tutti i mali potrebbe essere il mercato delle Licenze collettive, di cui Electronic Frontier Foundation è da tempo promotrice. Questa nuova formula permetterebbe di tutelare il diritto d’autore e al contempo di regolamentare la condivisione delle opere tutelate. Siamo tutti in attesa di proclamarla come la nuova frontiera della diffusione media-le. L’idea di base è semplice: gli uploader della comunità di condivisione musicale verrebbero a coincidere con le case di produzione mediale e l’utente, in grado non più di caricare file ma di effettuare il solo download, pagherebbe per que-

sto una piccola quota mensile, libero di poter scaricare tutto ciò che vuole. Una vera e propria piat-taforma di e-commerce.

Annalisa Caramia

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Siamo tutti pirati?Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (1948), art. 27, comma 2: «Ogni individuo ha diritto alla protezione

degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore»; art. 27, comma 1: «Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere

delle arti e di partecipare del progresso scientifico ed ai suoi benefici».

Attualmente, secondo il famigerato Decreto Urbani (poi convertito nella legge 128/2004):

• il semplice downloader (chi si limita a scaricare dalla rete file protetti da diritto d'autore) rischia sanzioni esclusivamente amministrative.

• il soggetto che, invece, senza una contropartita economica, condivide o comunque utilizza (anche solo come downloader) una piattaforma peer-to-peer (che prevede la messa in condivisione automatica di quanto scaricato), rischia già la sanzione penale, una multa da 51 a 2.065 euro;

• chi, infine, condivide a fini di lucro rischia la reclusione da uno a quattro anni, nonché una multa anche oltre i 15.000 euro.

Una denuncia che fa pensare: la SACEM, l’associazio-ne francese dei produttori musicali e l’SCPP, che rappresenta alcune etichette discografiche tra cui Universal, EMI, BMG, Warner, hanno presentato una denuncia contro Soulseek, una delle più grandi comunità di condivisione musicale, per accesso non autorizzato ad opere protette da copyright. Solo che Soul-seek è una comunità di condivisione molto particolare dove gli utenti sono in genere esperti musicisti e produttori indipendenti. Nel sito web è chiaramente indicato che l’applicazione non deve essere usata per violare il diritto d’autore ma dovrebbe offrire un aiuto ai musicisti emergenti a farsi conoscere nell’am-biente musicale ed inoltre viene specificato che si vuole fornire un luogo dove si può creare e discutere di musica.

Il Partito Pirata (svedese: PiratPartiet) è un partito politico nato in Svezia all'inizio del 2006. L'intento era quello di modificare, sia legalmente, sia concettualmente, il copyright e il diritto d'auto-re in generale. Secondo il partito, infatti, il copyright e, più in generale, il diritto d'autore sono attualmente troppo sbilanciati in favore dello sfruttamento economico a scapito dello sviluppo culturale della società. In Italia il Partito Pirata si dichiara Asso-ciazione di promozione sociale senza scopo di lucro". Nello stes-so anno si sono formati gruppi e partiti, con obiettivi analoghi nel resto d'Europa e negli Stati Uniti.

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ze tra generazioni il cardinale risponde citando San Pietro, che a sua volta così parafrasava il profeta Gioele: “I vostri figli e le vostre figlie profeteranno,i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno sogni.”.Il profeta assegna ad ogni generazione un compito: ai gio-vani (ovvero ai figli ed alle figlie) spetta profetare ossia es-sere critici, spiega il Cardinale che aggiunge: “La genera-zione più giovane verrebbe meno al suo dovere se con la sua spigliatezza e con il suo idealismo indomito non sfidasse e criticasse i governanti,i responsabili e gli insegnanti. In tal modo fa progredire noi e soprattutto la Chiesa”. Alla gene-razione di mezzo spetta invece il compito di avere visioni, ossia obiettivi per le comunità che guida, mentre agli anziani il difficile compito di trasmettere i sogni alle generazioni più giovani. Il cardinale parla dei suoi sogni per la Chiesa ma lo fa al passato, e senza motivare ulteriormente afferma (forse con un po’ di sofferenza) di aver sognato “una Chiesa che procede sulla propria strada con povertà ed umiltà, che non dipende dai poteri di questo mondo (…), una Chiesa che da spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto (…), una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa”. Il riferimento alla necessità di persone capaci di pensare in modo più aperto nasconde l’altra grande critica fraterna mossa da Martini alla Comunità Ecclesiastica, so-prattutto nella seconda parte del libro quando il cardinale e padre Georg si confrontano su temi controversi come abor-to, omosessualità, rapporti prematrimoniali, ruolo della donna nella Chiesa e della Chiesa nella Politica. Impossibile e riduttivo sarebbe cercare di riassumere qui quello che il cardinale afferma in merito ad ognuno di questi difficili argomenti, ma vi invito davvero a leggere ciò che Martini nelle notti di Gerusalemme augura alla Comunità Ecclesiale ed in particolare ai giovani che ne costituiscono il futuro. Lo consiglio in particolare a chi fosse scettico, critico, insofferente o magari solo incerto rispetto alle posizioni uffi-ciali della Chiesa riguardo ai temi sopraccitati; dopotutto dice Martini nella prefazione “la metà della notte è il princi-pio del giorno (…) queste conversazioni sono anche conver-sazioni sui cammini di fede in tempi di incertezza”.

Irene Saonara

Conversazioni notturne a Gerusalemme...

“Svegliati, svegliati,rivestiti di forza,o braccio del Signore. Svegliati come nei giorni antichi,come tra le generazioni passate”

(Isaia 51,9-10) Sembra strano, visto il titolo del libro, che questo verset-to possa riassumerne il contenuto (e credo anche l’intento) più profondo. Eppure. Eppure unico filo conduttore delle parole ispirate del Cardinal Martini sembra essere proprio questo invito al risveglio,alla riscoperta della Parola e della fede,al rimettersi in gioco come uomini e donne nella Chiesa e per la Chiesa. Improponibile nella lettura cercare uno sviluppo per argomenti o macrotemi…non sono saggi, sono conversazioni dove Martini affronta argomenti diversi (e spesso controversi) stimolato dalle domande che padre Georg Sporschill, gesuita che lavora con i ragazzi di strada in Romania,ha preparato con i suoi giovani. Giovani che sembrano essere il pensiero fisso del Cardinale oltre che i destinatari veri di questi bei dialoghi notturni, giovani che vengono chiamati a rischiare la fede (come viene detto nel sottotitolo) e ad avere coraggio. La Pastorale Giovanile pa-re stare particolarmente a cuore a Martini, che più di una volta rimprovera la Chiesa di essere carente in quella che si potrebbe chiamare la Pastorale del Saccoapelo (l’espressio-ne è mia ma il Cardinale cita diffusamente le sue esperienze di viaggio “on the road” durante il suo noviziato da gesuita) ed alcuni suoi colleghi di starsene “dietro mura troppo spes-se in nuovi uffici o vecchi palazzi”. I rimproveri di Martini sono però sempre mossi da un profondo amore per la gran-de famiglia Ecclesiale, quello stesso amore che l’ha spinto ad affermare alla vigilia del suo trasferimento a Gerusa-lemme “Voglio pregare per la Chiesa e per la mia diocesi. Oggi il mio compito è questo”. Ritiro più formale che effetti-vo visto che il Cardinale rimane attivissimo sia dal punto di vista intellettuale (è appena uscito un altro libro a cui ha collaborato: “Paolo VI uomo spirituale”) che da quello pa-storale (segue negli esercizi spirituali i giovani che vivono presso la Casa dei Gesuiti a Gerusalemme).Questo approdo alla preghiera per la Chiesa merita atten-zione perché frutto, oltre che di affetto sincero, anche di esperienze e ragionamenti. Ad una domanda sulle differen-

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glaro. Così la preoccupazione di tutela della sua vita viene fatta sembrare in contrasto col suo diritto di autodeterminarsi, ma in base a una volontà pressoché inaccertabile.

•Nel caso Eluana si è spesso sentito citare l’art. 32.2 della no-stra Costituzione, nella parte in cui limita i trattamenti sanitari alla volontà della persona umana e se imposti per legge al ri-spetto della persona umana. Nell’opera di qualificazione del caso concreto ritiene che l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione debba essere considerata una forma di tratta-mento sanitario ed in quanto tale obbligatorio, o invece, come talora si sente dire, una forma di trattamento di rianimazione inefficace ed in quanto tale da sospendere?

In primo luogo l’art. 32 della costituzione andrebbe letto per intero a partire dal primo comma che qualifica la salute diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. È quan-tomeno singolare perciò ritenere che la salute sia una mera variabile soggettiva dipendente dall’arbitrio di ogni persona. Così il secondo comma – su cui menò vanto la componente cattolica all’assemblea costituente – non fu certo introdotto col-l’idea di favorire un rapporto antagonista tra medico e paziente nel quale quest’ultimo dà e ritira consensi firmando moduli. L’obiettivo del secondo comma pertanto non era di evitare i trattamenti medici appropriati, ma quei trattamenti sanitari nei quali la persona diviene strumento dell’interesse vero o presun-to della collettività, come era avvenuto nei Lager nazisti. Ma sperabilmente quelle situazioni non hanno nulla da spartire con la quotidianità nella quale è il paziente che si rivolge al medico per un suo bisogno di cura. Quanto all’alimentazione e all’idra-tazione mi pare un po’ formalistica la questione se si tratti di trattamenti sanitari, intesi come trattamenti sotto la responsabili-tà di medici o di professionisti sanitari. Si potrebbe girare la questione e domandarsi se l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione sia a sua volta davvero un trattamento "nei limiti del rispetto della persona umana" come prevede l’art. 32, co. 2, Cost. Far cessare di vivere una persona incapace sot-traendole alimentazione e idratazione è meglio di iniettarle una sostanza letale?

• Ritiene che la volontà presunta del paziente possa avere una rilevanza al fine del rispetto del limite costituzionale qualora si qualifichi la fattispecie come forma di terapia?

Tra il valore della vita e il valore dell’autodeterminazione – perseguito in base a una volontà non espressa e quindi solo presunta e per di più riferita a un tempo e a una condizione completamente differenti rispetto a quella in cui attualmente versa una persona incapace – privilegiare il secondo significa operare una scelta ideologica secondo quella che filosofi e giu-risti del secolo scorso hanno chiamato Tyrannei der Werte, la tirannia cioè di valori assolutizzati che travolgono ogni altro valore e punto di vista.

•Crede sia necessario un intervento legislativo per disciplinare la materia? Quale configurazione dovrebbe avere il cosiddetto testamento biologico ed in particolare, quale ruolo potrebbe

Passano i mesi, ma non accenna ancora a spegnersi l’eco sulla vicenda di Eluana Englaro, da 17 anni in stato vegetativo. Risul-ta quindi ancora difficile accostare i numerosi aspetti che essa ha portato alla ribalta, anche sul piano giuridico. Mai come oggi siamo convinti che le tematiche bioetiche non debbano divenire luogo di scontro sterile ed ideologico, ma invece pos-sano essere, senza eludere il silenzio rispettoso dovuto in queste situazioni, occasione di dialogo, confronto e crescita.

Senza quindi pretendere alcuna soluzione del caso concreto o il raggiungimento di una qualsiasi verità inderogabile, ci siamo rivolti al professor Andrea Nicolussi, ordinario di diritto civile all’Università Cattolica di Milano e membro del Comitato Na-zionale di Bioetica, per ricordare e approfondire la complessità e drammaticità di queste problematiche.

•Quale è a Suo avviso il significato della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che si è pronunciata sull’inammissibilità del ricorso del P.M. milanese?

Il ricorso del Pubblico Ministero è stato giudicato inammissibile perché non è stato ritenuto rientrare in una delle ipotesi, indivi-duate dalla legge in modo tassativo e che sono prequalificate di rilevanza pubblica, nelle quali il P.M. può ricorrere; in partico-lare le Sezioni Unite hanno ritenuto che non si poteva fare rife-rimento per analogia alle questioni che riguardano lo stato e la capacità delle persone. Sorprende però che non si siano do-mandate se la questione della vita di una persona non costitui-sca il presupposto necessario delle questioni relative allo stato e alla capacità e se non sia eventualmente assorbita da esse, anziché esclusa. La sentenza segue invece purtroppo una logi-ca quasi opposta quando afferma che il P.M. non può contrap-porsi all’esercizio da parte del titolare del diritto di autodeter-minazione terapeutica. Ma questo diritto personalissimo non è fatto valere dal "titolare" bensì da persone diverse pur trattan-dosi del tutore o del curatore speciale.Questo formalismo fa venire in mente, per paradosso, il famoso principio giuridico dell’habeas corpus, con riguardo al quale le procedure e la forma giuridica furono intese come uno scudo di protezione dell’integrità fisica delle persone di fronte a pericoli di abuso giustizialista. Invece questa volta – appunto parados-salmente – la forma giuridica diventa un diaframma, un ostaco-lo che impedisce ulteriori accertamenti relativamente alla tutela della vita stessa della persona.

•In cosa consiste la decisione dei giudici di Milano e qual è il significato di questa precedente sentenza?

La Corte di Appello di Milano ha giudicato sulla base dei prin-cipi formulati nel 2007 dalla Cassazione, la quale, senza alcu-na legge che lo preveda, aveva reputato vincolante una volontà presunta di Eluana Englaro di interrompere alimentazione e idratazione, una volontà desumibile addirittura dallo stile di vita accertato nel passato prima dell’incidente. In fondo ora le Se-zioni Unite hanno confermato quella decisione e loro stesse hanno assolutizzato il principio di autodeterminazione fino al punto di fingere che attore in causa fosse la stessa Eluana En-

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La fine della vita: il caso Eluana.Intervista al prof. Andrea Nicolussi.

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professionista e, per questa via, equiparare ad esempio una rinuncia espressa poco dopo l’inizio del trattamento, in un pos-sibile momento di debolezza, a una rinuncia che fa seguito a un lungo e gravoso trattamento, e che viene inoltre manifestata in circostanze che seriamente concorrano a ridefinire il giudizio del medico rispetto al caso concreto. In ultima analisi, assolutiz-zando la rinuncia si lascia solo il paziente (si pensi alle persone più deboli come gli anziani lungodegenti), senza poter esclude-re l’ipotesi che a qualche medico, per "liquidare la questione",

basterebbe farsi sostituire dal collega predisposto burocraticamente a inter-rompere, su semplice richiesta, il trat-tamento. Il medico non deve essere un freddo esecutore, ma deve incorag-giare il paziente. Inutile ripetere che questa posizione dialogica è prima di tutto nell’interesse delle persone debo-li e sole, le quali, anziché firmare moduli, hanno bisogno di qualcuno che le ascolti e le prenda sul serio.

•In relazione al caso oggetto dell’at-tenzione del Comitato nazionale per la bioetica, quale può essere un equili-brio tra l’esigenza di riconoscere la possibilità di un rifiuto informato e quella di evitare una concezione del principio di autonomia in termini asso-luti, che non terrebbe conto dei conno-tati della fattispecie concreta?

Mi pare di avere già risposto con la precedente domanda. In ogni caso Lei utilizza un’espressione che non mi

piace: rifiuto informato. Dopo che si è diffusa la formula magica del consenso informato, che fa passa-re l’idea che il malato possa essere messo sullo stesso piano del medico semplicemente mediante delle sommarie informazioni, si mette in circolazione la formula "rifiuto informato", per giustifi-care l'omissione di trattamenti medici. Il rifiuto informato non sarebbe altro che il risvolto del consenso informato, e ciò senza distinguere tra le implicazioni di un consenso a un trattamento suggerito dal medico come appropriato e le implicazioni di un dissenso rispetto allo stesso suggerimento, nonché senza distin-guere le situazioni in cui una terapia deve ancora cominciare da quelle in cui è già iniziata e il consenso è già stato dato.

•In relazione all’ipotesi presa in considerazione da tale parere, cosa pensa circa l’esigenza di evitare che un contesto di evolu-zione tecnologica, anche in campo medico, possa rendere l’uomo ostaggio di una macchina, per riprendere alcune opinioni mani-festate da vari uomini di cultura e di fede (tra gli altri il profes-sor Reale ed il cardinal Martini)?

Questo è un problema che è già stato colto dalla Chiesa, da almeno un secolo, e che indubbiamente è divenuto ancora più serio ai giorni nostri. Coll’idea dell’accanimento terapeutico o con quella della straordinarietà degli strumenti sanitari si am-mette che l’impiego delle "macchine" deve avere un limite, oltre il quale la persona è strumento essa stessa e non più fine. Tutta-via quando si parla di trattamenti salva vita, la cui interruzione

eventualmente assumere la volontà del paziente desunta da sue dichiarazioni precedenti?

Lei mi fa "scrivere" su due piedi una legge che il Parlamento fatica a elaborare. In ogni caso, se proprio si ritiene di asse-condare il principio di autodeterminazione, allora si richieda almeno che la volontà sia accertata in modo credibile. Sempre in questa prospettiva a mio parere una legge dovrebbe preve-dere che in caso di dubbio deve prevalere la tutela della vita e della salute e ciò tra l’altro per tutelare le tante persone deboli che hanno solo da perdere da una burocratizzazione della sanità me-diante moduli sul consenso informato e c.d. testamenti biologici.

•La stampa ha dato notizia di un pa-rere formulato dal CNB di cui Lei è membro (ndr: vedi nota alla fine del-l’intervista). Qual è in sintesi il conte-nuto di tale parere, pur sapendo che in esso viene presa in considerazione una fattispecie diversa da quella che caratterizza la vicenda Englaro?

Il parere si riferisce ai casi, differenti appunto da quello di Eluana Englaro, in cui il malato è in grado di esprime-re la propria opinione. Esso propone una distinzione tra il rifiuto di iniziare un trattamento, con riguardo al quale il medico non può di certo violare il corpo del malato, e la rinuncia a un trattamento già iniziato col consenso del malato e sotto la responsabilità del medico. La rinuncia – quando il malato non la può attuare da sé – implica, positivamente, la richiesta di un intervento del medico per interrompere il tratta-mento e quindi pone il problema se il medico possa ridurre il proprio ruolo a quello di mero esecutore. Mi pare che in buona sintesi il senso del parere si trovi nella conclusione che si legge al punto n. 4 in cui si ammette che il c.d. accanimento terapeuti-co possa essere valutato anche tenendo conto della soggettività del malato e quindi in modo adeguato al caso concreto.

•Nel parere è presente anche una postilla che reca la Sua firma. Qual è il significato di tale postilla?

È quello di precisare il significato del punto 5 in relazione pro-prio al punto n. 4 delle conclusioni. Nell’ultima riunione, in sede di approvazione, all’improvviso era stata presentata un’ultima versione del documento in cui si suggeriva che il Servizio sanita-rio nazionale reclutasse medici disponibili a interrompere trat-tamenti semplicemente sostituendosi al medico curante. In segui-to alla mia opposizione tale indicazione è stata soppressa, ma è rimasto nel parere un elemento di ambiguità nel punto 5, e così nella postilla – presentata col prof. Da Re – abbiamo voluto precisare la centralità della relazione fra medico e paziente e l’illegittimità di una sostituzione del medico senza che il nuovo medico debba esprimersi a propria volta sulla appropriatezza o non appropriatezza del trattamento di cui è in questione l’inter-ruzione. Insomma assolutizzare la rilevanza della rinuncia si-gnifica privare di valore la relazione e il dialogo fra paziente e

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porta alla morte, è meglio un supplemento di riflessione che posticipi una soluzione irrimediabile anziché l’automatismo di una soluzione senza rimedi. Mi pare che la linea di discrimine corra nello spazio tra due estremi. Da un lato, vi è la riduzione soggettivistica del problema che rimette tutto all’autodetermina-zione del malato, facendo del medico un puro esecutore e della sanità quasi un bene di consumo: una tesi senza solidarietà, indifferente al malato come persona che ha valore anche per gli altri; l'altro estremo è l’opinione che preclude al medico l'ascol-to della parola del malato, come se fosse un oggetto senza qualità personali, e perciò riduce a un giudizio astratto e pura-mente oggettivo la questione dell'appropriatezza del trattamen-

Non è cosa banale, nell’esperienza di chi scrive, constatare che un’iniziativa di approfondimento a carattere dichiaratamente socio-politico esordisca – fin dal secondo incontro del ciclo – rifacendosi al concetto di limite della Politica. Eppure, così è stato per la Scuola di formazione socio-politica della Diocesi di Milano (di cui è promotrice, assieme all’Azione Cattolica Am-brosiana e a tante altre realtà associative, proprio la Fuci). Chiamato a svolgere il proprio intervento su “L’itinerario dei cattolici in politica”, il bresciano Mino Martinazzoli, ultimo se-gretario della Democrazia Cristiana e leader della breve sta-gione del Partito Popolare Italiano (uno dei protagonisti ricono-sciuti di quella fase della politica italiana che Gabriele De Rosa efficacemente definì di transizione infinita), ha indicato appunto nel senso del limite della Politica uno dei ‹‹Talenti sempreverdi›› che la passata esperienza consegna nelle mani di coloro che oggi vogliano concorrere all’amministrazione e al governo della società, e partecipare alla vita delle Istituzioni. Per quale motivo bisogna pensare la Politica conservandone il senso del limite? Innanzitutto occorre essere consapevoli che la Politica costituisce una delle risposte più forti ai bisogni del con-sorzio civile, ma allo stesso tempo ha carattere contingente e compromissorio. E’ il luogo delle scelte, determinate da esigen-ze e contesti sempre nuovi. La Politica è insomma l’arte del pos-sibile, e appunto per questo deve mediare tra interessi ed istan-ze tra loro anche radicalmente differenziati.In secondo luogo, questa limitatezza della Politica si rivela nell’approccio storico del pensiero sociale cattolico al “fare” la Politica stessa. Questo, che da sempre pone in primo piano la persona, sa che lo Stato (oggi potremmo aggiungere la comunità interna-zionale), livello istituzionale in cui per eccellenza si pensa e si costruisce l’azione politica, non è un tutto né un assoluto, bensì ‹‹Una comunità di comunità, il punto di sintesi delle molteplici e varie formazioni sociali›› (Martinazzoli richiamava proprio quest’espressione della Carta Costituzionale) che ad esso pree-sistono.Questi due punti della relazione suggeriscono alcune conclusio-ni, che offriamo al lettore: innanzitutto, soltanto avendo presen-te questo senso del limite è possibile interpretare la Politica co-me autentico servizio e “forma esigente di Carità”, necessità costantemente richiamata dall’insegnamento sociale della Chie-sa Cattolica.

Inoltre, sapere che ‹‹Tutto è Politica, ma la Politica non è tutto›› fa spazio ad una visione più matura della società e della sua complessità. Ai tanti corpi sociali intermedi che sussistono tra il cittadino e lo stato corrispondono altrettanti campi d’azione in cui uomini e donne di buona volontà sono chiamati, anche oggi, a rinnovare uno sforzo che ha significato molto per il nostro paese. Si tratta di ambiti che tradizionalmente hanno visto e vedono la presenza di cattolici impegnati, quali il mondo del lavoro e delle organizzazioni sindacali, l’economia, l’istruzione, la cultura, gli enti locali (dal più piccolo comune fino alla regio-ne). Come non ricordare a questo proposito la recente esorta-zione rivolta dal Santo Padre in occasione della visita pastorale in Sardegna? A Cagliari, nel mese di settembre, Benedetto XVI ha espressamente riconosciuto che il nostro paese «Necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile».Un’ultima cosa: è soprattutto importante considerare che oggi noi cattolici non ripartiamo da zero, ma ci poniamo nel solco di una tradizione, di uno sviluppo che ha conosciuto momenti nobi-li e meno nobili, strutture organizzative contingenti ed altre in-vece durature. Non dunque volontà di riconquista o protagoni-smo (nel senso degenere del termine) deve animarci, né la ri-proposizione acritica di soluzioni ormai superate. Semplicemen-te la volontà autentica di offrire testimonianza del nostro essere cristiani nel mondo.

Francesco Zuccolo

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Dopo oltre 15 anni la Diocesi di Milano rilancia l’espe-rienza della scuola di formazione. La Scuola di Formazio-ne Sociale e Politica 2008-2009 promossa dall’Arcidiocesi in collaborazione con più di trenta enti, associazioni e movimenti presenti sul territorio ambrosiano (tra cui la FUCI) ha come titolo “Date a Cesare quel che è di Cesare...”. I temi delle relazioni spaziano dalla storia dell’impegno politico dei cattolici in Italia alla Costituzione italiana, dalla Dottrina sociale della Chiesa al lavoro, dal-l’economia e dalla globalizzazione alla finanza, alla giu-stizia e ai diritti fondamentali dell’uomo.Il corso è aperto a tutti i giovani dai 18 ai 35 anni che condividono intenti e finalità della proposta.

Info: 0258391328, [email protected]

Il documento del Comitato nazionale di bioetica cui l’intervista fa riferimento è disponibile all’indirizzo:

www.governo.it/bioetica/testi/Rifiuto_postille_9_11_08.pdf

to. Tra questi due estremi, ammettere la rilevanza della rinuncia, ma non in termini assoluti, significa impedire che la scelta di iniziare il trattamento si risolva per il malato in una condizione di prigionia rispetto al mezzo tecnico e nel contempo riconosce-re che la sua richiesta può essere in grado di far comprendere al medico, in relazione alle circostanze del caso concreto, la sopravvenuta inappropriatezza del trattamento (divenuto per il malato eccessivamente gravoso).

Pietro Pellegrini

Formazione alla politica... con la “P” maiuscola

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Il 4 novembre 2008 è una data da incorniciare e che passerà alla storia: gli Stati Uniti d’America hanno eletto Barack Obama, un afro – americano, alla presi-denza del loro paese.

In 276 anni non era mai accaduto che un nero entrasse alla Casa Bianca.

Si conclude così, nel modo più bello, un cammino molto lungo iniziato nella pri-mavera del 2007, quando l’allora senato-re Obama decise di candidarsi alla presi-denza degli USA.

Fin da subito (è dal 2005 che seguo le vicende di Obama) questo politico ameri-cano mi aveva colpito per il modo di par-lare e per la sua storia: venuto fuori dal nulla e per giunta di colore mi ha imme-diatamente affascinato con le sue parole e i suoi discorsi carichi di speranza e di idealismo.

Un idealismo coniugato con il buon pragmatismo, come ha dimostrato negli anni trascorsi da senatore dello stato dell’Illinois. Obama ha messo le persone al primo posto ed è riuscito a dare una direzione precisa al suo agire: quella del servizio al prossimo, di qualunque estra-zione sociale sia, rianimando il senso di comunità e fraternità che otto disastrosi anni della presidenza Bush avevano can-cellato. Per questo Obama va ringrazia-to: per averci ridato speranza in un futuro migliore e per averci ricordato, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’in-dividualismo, che siamo un “popolo” solo (“E pluribus unum”: da molti, uno), che siamo tutti fratelli e uomini uguali di fronte a Dio.

Per questo vi propongo una lettura guida-ta di alcuni stralci del discorso di Obama appena eletto.

“Se ancora c’è qualcuno che dubita che l’America non sia un luogo nel quale nul-la è impossibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è tuttora vivo in questa nostra epoca, che ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto le risposte che cercava. La risposta sono le code che si sono allungate fuori dalle

scuole e dalle chiese con un afflusso che la nazione non aveva mai visto finora. La risposta sono le persone, molte delle qua-li votavano per la prima volta, che hanno atteso anche tre o quattro ore in fila per-ché credevano che questa volta le cose dovessero andare diversamente, e che la loro voce potesse fare la differenza. La risposta è ciò che ha spinto a farsi avanti coloro ai quali per così tanto tem-po è stato detto da così tante persone di essere cinici, impauriti, dubbiosi di quello che potevano ottenere mettendo di per-sona mano alla Storia, per piegarla verso la speranza di un giorno migliore. È occorso molto tempo, ma stanotte, fi-nalmente, in seguito a ciò che abbiamo fatto oggi, con questa elezione, in questo momento preciso e risolutivo, il cambia-mento è arrivato in America”.

In queste parole traspare l’emozione del presidente eletto e la consapevolezza di aver realizzato qualcosa di unico nella storia. Viene sottolineata la grandezza e unicità della democrazia americana e nello stesso tempo il protagonismo dei cittadini che con il loro voto hanno per-messo un’elezione senza precedenti.

[…] “... voi avete reso possibile tutto ciò, e io vi sarò eternamente grato per i sacri-fici che avete affrontato per riuscirci. Ma più di ogni altra cosa, non dimenticherò mai a chi appartiene veramente questa

vittoria: appartiene a voi. Io non sono mai stato il candidato più ideale per que-sta carica. Non abbiamo mosso i primi passi nella campagna elettorale con fi-nanziamenti o appoggi ufficiali. La nostra campagna non è stata pianificata nelle grandi sale di Washington, ma nei cortili di Des Moines, nei tinelli di Concord, sotto i portici di Charleston. È stata rea-lizzata da uomini e donne che lavorano, che hanno attinto ai loro scarsi risparmi messi da parte per offrire cinque dollari, dieci dollari, venti dollari alla causa. Il movimento ha preso piede e si è rafforza-to grazie ai giovani, che hanno rigettato il mito dell’apatia della loro generazione, che hanno lasciato le loro case e le loro famiglie per un’occupazione che offriva uno stipendio modesto e sicuramente poche ore di sonno; ai non più tanto gio-vani che hanno sfidato il freddo pungente e il caldo più soffocante per bussare alle porte di perfetti sconosciuti; ai milioni di americani che si sono adoperati come volontari, si sono organizzati, e hanno dimostrato che a distanza di oltre due secoli, un governo del popolo, fatto dal popolo e per il popolo non è sparito dal-la faccia di questa Terra. Questa è la vostra vittoria…”

Un ringraziamento sentito va a tutti coloro che hanno partecipato e hanno dato il loro contributo durante la campa-gna elettorale, in particolare ai giovani

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L’audacia della speranza!

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che sono stati fondamentali e hanno di-mostrato di essere interessati alla politica e all’impegno a favore degli altri.

[…] “ La strada che ci si apre di fronte sarà lunga. La salita sarà erta. Forse non ci riusciremo in un anno e nemmeno in un solo mandato, ma America! Io non ho mai nutrito maggiore speranza di quanta ne nutro questa notte qui insieme a voi. Io vi prometto che noi come popolo ci riusci-remo!Ci saranno battute d’arresto e false par-tenze. Ci saranno molti che non saranno d’accordo con ogni decisione o ogni poli-tica che varerò da Presidente e già sap-piamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma io sarò sempre onesto con voi in relazione alle sfide che dovre-mo affrontare. Vi darò ascolto, special-mente quando saremo in disaccordo. E soprattutto, vi chiedo di unirvi nell’opera di ricostruzione della nazione nell’unico modo con il quale lo si è fatto in America per duecentoventi anni, ovvero mattone dopo mattone, un pezzo alla volta, una mano callosa nella mano callosa altrui. Ciò che ha avuto inizio ventuno mesi fa, nei rigori del pieno inverno, non deve finire in questa notte autunnale. La vittoria in sé non è il cambiamento che volevamo, ma è soltanto l’opportunità per noi di procedere al cambiamento. E questo non potrà accadere se faremo ritorno allo stesso modus operandi. Il cambiamento non può aver luogo senza di voi. Troviamo e mettiamo insieme dunque un nuovo spirito di patriottismo, di servizio e di responsabilità, nel quale ciascuno di noi decida di darci dentro, di lavorare sodo e di badare non soltanto al benes-sere individuale, ma a quello altrui. Ri-cordiamoci che se mai questa crisi finan-ziaria ci insegna qualcosa, è che non possiamo avere una Wall Street prospera mentre Main Street soffre: in questo Pae-se noi ci eleveremo o precipiteremo come un’unica nazione, come un unico popo-lo”.

Obama è consapevole delle difficoltà che lo attendono e chiede l’aiuto di tutto il popolo americano per poterne uscire. Ricorre qui l’altra parola centrale della sua campagna elettorale: il cambiamento.Adesso inizia la sfida più difficile ma allo stesso tempo affascinante: realizzare insieme il cambiamento promesso e lavo-

rare anche per il benessere delle altre persone, non soltanto per il proprio. Soli-darietà è il nome della politica di Obama: la persona da sola non è nulla, esiste e vive grazie alle presenza degli altri.

[…] “Come Lincoln disse a una nazione ancora più divisa della nostra, “Noi non siamo nemici, ma amici, e anche se le passioni possono averlo allentato non dobbiamo permettere che il nostro lega-me affettivo si spezzi”.Perché questo è il vero spirito dell’Ameri-ca: l’America può cambiare. La nostra unione può essere realizzata. E quello che abbiamo già conseguito deve darci la speranza di ciò che possiamo e dobbia-mo conseguire in futuro”.

Obama cita poi una signora di 106 anni, Ann Nixon Cooper, che lo ha vota-to e che ha visto lungo un secolo di storia tutti i cambiamenti che hanno attraversato il mondo e gli USA. Obama dice di que-sta signora:

“Questa sera io ripenso a tutto quello che lei deve aver visto nel corso della sua vita in questo secolo in America, alle soffe-renze e alla speranza, alle battaglie e al progresso, a quando ci è stato detto che non potevamo votare e alle persone che invece ribadivano questo credo america-no: Yes, we can. Nell’epoca in cui le voci delle donne era-no messe a tacere e le loro speranze soffocate, questa donna le ha viste alzarsi in piedi, alzare la voce e dirigersi verso le urne. Yes, we can. Quando c’era disperazione nel Dust Bowl (la zona centro meridionale degli Stati Uniti divenuta desertica a causa delle frequenti tempeste di vento degli anni Trenta, e depressione nei campi, lei ha visto una nazione superare le proprie paure con un New Deal, nuovi posti di lavoro, un nuovo senso di ideali condivisi. Yes, we can. Quando le bombe sono cadute a Pearl Harbor, e la tirannia ha minacciato il mondo, lei era lì a testimo-niare in che modo una generazione sep-pe elevarsi e salvare la democrazia. Yes, we can. Era lì quando c’erano gli autobus di Montgomery, gli idranti a Birmingham, un ponte a Selma e un predicatore di Atlanta che diceva alla popolazione : “Noi supe-reremo tutto ciò”. Yes, we can.

Un uomo ha messo piede sulla Luna, un muro è caduto a Berlino, il mondo intero si è collegato grazie alla scienza e alla nostra inventiva. E quest’anno, per queste elezioni, lei ha puntato il dito contro uno schermo e ha votato, perché dopo 106 anni in America, passati in tempi migliori e in ore più cupe, lei sa che l’America può cambiare. Yes, we can”.

Yes, we can è stato il motto della campagna elettorale di Obama: ce la possiamo fare. La consapevolezza di poter cambiare le cose e di poterle mi-gliorare è il leitmotiv di Obama, quello che ha permesso alle persone di credere e avere fiducia in lui.E’ venuto il momento di rimboccarsi le maniche e di impegnarsi per un mondo e un avvenire migliori, per i nostri figli e per le generazioni future.

“America, America: siamo arrivati così lontano. Abbiamo visto così tante cose. Ma c’è molto ancora da fare. Quindi questa sera chiediamoci: se i miei figli avranno la fortuna di vivere fino al pros-simo secolo, se le mie figlie dovessero vivere tanto a lungo quanto Ann Nixon Cooper, a quali cambiamenti assisteran-no? Quali progressi avremo fatto per allora? Oggi abbiamo l’opportunità di rispondere a queste domande. Questa è la nostra ora. Questa è la nostra epoca: dobbiamo rimettere tutti al lavoro, spalancare le porte delle opportunità per i nostri figli, ridare benessere e promuovere la causa della pace, reclamare il Sogno America-no e riaffermare quella verità fondamen-tale: siamo molti ma siamo un solo popo-lo. Viviamo, speriamo, e quando siamo assaliti dal cinismo, dal dubbio e da chi ci dice che non potremo riuscirci, noi ri-sponderemo con quella convinzioni senza tempo e immutabile che riassume lo spiri-to del nostro popolo: Yes, We Can.Grazie. Dio vi benedica e possa benedire gli Stati Uniti d’America”.

Grazie Barack!Grazie per averci ricordato che ognuno è corresponsabile della crescita e del desti-no della comunità e può dare il proprio contributo per farla prosperare.Un augurio di buon lavoro.

Alberto Ratti

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Un discorso di insediamento non è un programma politico. Non deve parlare tanto di obiettivi da fissare e strategie per raggiungerli: in una democrazia funzionante queste cose devono essere specificate, chiaramente ed una volta per tutte, prima delle elezioni. Dopo, in genere, ci si limita all’attuazione di quel-le linee programmatiche.Nel giorno dell’insediamento di un nuo-vo presidente degli Stati Uniti d’Ameri-ca, ad esempio, al giuramento seguirà un discorso il cui scopo sarà sicuramente quello di ringraziare, celebrare, dare inizio con un atto solenne ad un nuovo rapporto fiduciario tra rappresentanti (o meglio: il rappresentante supremo della nazione) e rappresentati (il popolo di quella nazione). Non si tratta però solo di questo: non è una semplice formalità. Ogni nazione si regge su alcuni valori di base; le nazioni contemporanee, soprattutto quelle “oc-cidentali”, hanno una storia più o meno lunga alle spalle e il loro bagaglio di principi non smette di arricchirsi col passare degli anni. In un’occasione co-me quella dell’Inauguration Day statuni-tense, il neo-Presidente non può richiamare tutti questi principi: sarebbe tanto lungo quanto inutile. Egli si trova quindi a dovere scegliere, nell’ampio ventaglio di valori che la cultura del suo Paese gli propone, quelli di cui dovrà parlare al suo popolo nel giorno del suo debutto. Non è una scelta di poco con-to: i temi devono essere adeguati al momento storico e al sentire comune della nazione in quel momento. Inoltre, in un mondo mediatizzato come il no-stro, un discorso inaugurale di questo tipo è il primo biglietto da visita che la nuova amministrazione del-la Casa Bianca porge al resto del pianeta.

Prescindendo da valutazioni qualitative e stilistiche (che non saremmo in grado di

dare), possiamo cercare di osservare gli ultimi due discorsi di insediamento alla Casa Bianca: quello di George W. Bush nel 2005 e quello di Barack Obama, pronunciato poche settimane fa. A costo di apparire aridi o banali, per mantene-re un atteggiamento neutro possiamo semplicemente osservare quali parole sono state più utilizzate dai due Presi-denti nei loro discorsi inaugurali: in fon-do alla pagina trovate le prime 10 paro-le, in ordine di frequenza. Per comodità, possiamo semplificare raggruppando queste parole in base al loro ambito di riferimento.

Così, in primo luogo si rende evidente la frequenza imponente, quasi martellante con cui Bush fa ricorso all’idea di na-zione (le parole America, nation, Ame-rican, country); Obama, che pure fa riferimento all’ambito lessicale “patriot-tico”, ne fa un uso meno cospicuo.

In entrambi i discorsi sono presenti rife-rimenti alla dimensione temporale, ma gli atteggiamenti dei due Presidenti nei confronti del tempo sono diversi. Bush dà molto risalto al presente, sottoli-neando l’importanza storica degli atti compiuti dalla nazione in quel momento esatto, e collocando quindi le sue scelte e le scelte degli USA nel quadro più ampio della Storia. Obama si serve invece della dimensione temporale in due campi: quello specifico della novità (la parola new è la seconda in ordine di frequenza), e quello (la parola genera-tion, per esempio) del confronto con il passato e con le prospettive future.

Un aspetto che potrebbe sorprenderci è la differenza nell’uso di parole che ri-conducono agli ideali: Bush insiste molto

sul concetto di libertà (freedom, liberty, ideal, free), mentre il discorso di Oba-ma (dopo una campagna elettorale che aveva costruito la sua forza su ideali come la speranza) sembra quasi non parlarne. Quantomeno, non ne parla in maniera esplicita. Anche questo può essere interpretato con la volontà di Obama di mettere in risalto il fattore novità: pur dovendo rispettare lo stesso “codice” di comunicazione del suo pre-decessore, fa attenzione a non insistere sul patriottismo puro o sugli ideali che Bush amava tanto richiamare.È degno di nota il fatto che, nel discorso di Bush, la definizione dell’identità della nazione passi per l’evocazione delle forze nemiche della nazione e dei suoi ideali. Mossa perfettamente comprensi-bile visto che, all’inizio del suo secondo mandato, gli USA stavano ancora ten-tando di riprendersi dallo choc dell’11 settembre e la minaccia terroristica era in cima alle preoccupazioni degli ameri-cani. Rafforzare l’identità nazionale e la solidarietà interna era una priorità asso-luta. Oggi possiamo ragionevolmente pensa-re che l’americano medio si preoccupi più di non perdere il proprio posto di lavoro, che di scoprire dove si nasconde Osama Bin Laden. Il nuovo presidente, infatti, ne approfitta per chiamare in causa i propri connazionali nel costruire una reazione alla crisi economica. La parola “responsabilità” non appare che un paio di volte, nel discorso di Obama: ma tutto quel discorso si basa su questo concetto. Dando una lettura veloce al testo del 2009, ci imbatteremo in esor-tazioni alla responsabilità nell’uso delle risorse energetiche; alla responsabilità

ed alla trasparenza della pubblica amministrazione; alla responsabilità interge-nerazionale, sia verso il passato sia verso il futuro;

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Un mondo da proteggere o un mondo da costruire?

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alla responsabilità nell’uso della forza militare. Le parole must, work, people, common sono molto utilizzate. Il mes-saggio sottostante potrebbe essere: “Io mi sto assumendo questa responsabilità, ma sappiate che ci sarà da lavorare, e che ciascuno deve fare la propria par-te”. Potremmo divertirci a prendere le parole cui accennavamo sopra e cerca-re di farne una frase di senso compiuto: common people must work, la gente comune deve lavorare.

Arriviamo così all’ultimo nodo, quello che forse interessa noi europei in modo più diretto: la parola “world”, utilizzata con la stessa frequenza in entrambi i discorsi. È innegabile che l’atteggiamen-to degli USA nei confronti del resto del mondo sia ancora determinante, nel bene e nel male. Quattro anni fa, gli USA vedevano il loro world come un mondo da proteggere. Per Bush, l’inter-vento all’estero era finalizzato a ripor-tare la libertà laddove essa veniva ne-gata: tutte le nazioni dovevano poter godere del loro diritto ad istituzioni libe-re e democratiche. Ancora una volta, la libertà era al centro, ed era una libertà da “esportare”. La distinzione fra amici e nemici era netta, ed il criterio di di-stinzione era proprio l’amore per la libertà e la democrazia. Nel 2009 il mondo è sempre più incerto, molte cose sono cambiate ed anche l’atteggiamen-to con cui gli USA interagiscono con il mondo, forse, sta cambiando. Nel di-scorso di Obama, la parola “world” non indica più un mondo da proteggere. Adesso si tratta di un mondo da costrui-re, o meglio: da ricostruire. Responsabilmente, of course.

Francesco Ballone

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Il testo del discorso di insediamento di G.W. Bush è disponibile al sito

www.cnn.com

Il testo del discorso di insediamento di Obama è disponibile al sito

www.iht.com

DIAMO I NUMERI...

44 _il numero di Presidenti degli Stati Uniti d’America che si sono avvicendati finora

47 _l’età di Barack Obama, il quinto Presidente USA più giovane (il record è di Theodore Roosevelt, che nel 1901 arrivò alla Casa Bianca a 42 anni)

53% _percentuale di voti che hanno permesso ad Obama di battere il suo avversario Mc Cain alle elezioni presidenziali del 2008

600.000.000$ _totale dichiarato di denaro raccolto du-rante la campagna elettorale di Obama

150.000.000$ _stima del costo dei festeggiamenti per l’inse-diamento di Obama alla Casa Bianca

1.120.000 _visitatori presenti a Washington nel giorno dell’inse-diamento del nuovo Presidente

-3,8% _calo del PIL statunitense nel quarto semestre del 2008

2.600.000 _posti di lavoro persi negli USA nel 2008

7,2% _tasso di disoccupazione in USA nel dicembre del 2008; è il livello più alto dal 1993

825.000.000.000$_ costo del piano anti-crisi proposto da Obama, attualmente al vaglio delle Camere (la versione da sotto-porre al Senato prevede spese per 887 miliardi)

18.400.000.000$ _ammontare dei premi ricevuti nel 2008 dagli amministratori delegati delle sole società con sede a New York

17.400.000.000$ _tramite finanziamenti a breve ter-mine: è il pacchetto aiuti del gover-no federale per le compagnie au-tomobilistiche USA

F.B. su dati ANSA.it

- ASPETTATIVE -“Vuoi dire che non sai camminare sulle acque?”

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Million Dollar BabyTitolo originale: A Million Dollar BabyRegia: Clint EastwoodSceneggiatura: Paul HaggisCon: Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan FreemanDurata: 137’Drammatico, USA, 2004

Frankie è proprietario di una palestra e allenatore di boxe. Non ha famiglia, a parte una figlia che rifiuta ogni contatto con lui. Va a messa tutti i giorni, cercando di comprendere il mistero di un Dio con cui non riesce a comunicare.

Un giorno sulla sua strada incontra Maggie: la ragazza, figlia della più squallida provincia americana – di quelle baraccopoli di roulotte sospese “tra il nulla e l’addio”, in cui è di casa il degrado – riesce,

con la sua tenacia, a convin-cere Frankie ad allenarla.

Gli splendidi dialoghi del film – semplici, nella loro poesia, e diretti, come tanti pugni nello stomaco – raccontano l’incontro di due solitudini, da cui scaturisce un rapporto inedito e profondo.

In poco più di un anno, Mag-gie diventa una campionessa della boxe, acclamata in tutto il mondo. Ma la vita è impre-vedibile e la tragedia è in agguato. Un incontro impor-tante, la mossa scorretta di un’avversaria e Maggie rima-ne interamente paralizzata.

“Se c’è una magia nella boxe – recita la voce fuori campo di Scrap, amico e assistente di Frankie – è la magia di combattere battaglie al di là di ogni sopportazione: al di là di costole incrinate e reni fatti a pezzi e retine distaccate”. Maggie ha combattuto: ha cercato il ri-scatto in uno sport che è la sintesi di ogni paradosso – perché nella boxe “funziona tutto al contrario”: anziché allontanarsi dal dolore gli si va incontro. Ma la ragazza non se la sente di combattere contro il dolore estremo che la priva del suo corpo: ha realizzato il suo sogno e chiede a Frankie di aiutarla, affinché l’infermità non glielo porti via.

E Frankie la aiuta, facendo una scelta dura e devastante.

Perché la gente muore ogni giorno, per i motivi più sciocchi, rimpian-gendo occasioni perdute; ciò che conta non è vivere o morire, ma sapersi, al momento opportuno, mettere in gioco.

Lo scafandro e la farfallaTitolo originale: Le scaphandre et le papillonRegia: Julian SchnabelSoggetto: dall’omonimo racconto di Jean-Dominique BaubySceneggiatura: Ronald HarwoodCon: Mathieu Almaric, Emmanuel Seigner, Marie-Josée Croze, Max Von SydowDurata: 112’Drammatico, Francia, 2007

Immagini sfocate, visione soggettiva, improvvisi dettagli sui volti. Così il film, fin dai primi foto-grammi, porta lo spettato-re all’interno della mente e della percezione di Jean-Dominique Bauby. Contrariamente rispetto a Maggie, la protagonista di Million dollar baby, la vita di Jean-Dominique era all’insegna del suc-cesso e del riconoscimen-to sociale. Jean-Do – così lo chiamano gli amici – era caporedattore di una prestigiosa rivista, separato, con due figli e una nuova compagna. Era. Perché anche nella vicenda – vera – di Jean-Dominique, la vita rivela tutta la sua imprevedibile fragilità. Una gita con il figlio, un ictus e – all’improvvi-so – il buio; un buio che dura tre settimane. Quando si risveglia dal coma, Jean-Do è steso in un letto d’ospedale, incapace di muoversi e di parlare e, presto, anche privato della vista di un occhio. Il suo corpo non gli risponde, come se fosse intrappolato in un pesante scafandro che lo trascina nel fondo della disperazione. Le immagini fisse e la voce fuori campo trasmettono l’impotenza del protagonista, la sua frustrazione, il suo sconforto, la sua amara auto-ironia.Jean-Dominique vuole morire: vede tutto il suo passato come una serie di fallimenti, di occasioni ormai definitivamente perdute. Poi, grazie alla sollecita assistenza di medici e terapisti e all’amore dei figli e della ex moglie, realizza che può evadere dal suo scafandro usando due facoltà che l’ictus non gli ha paralizzato: immaginazione e memoria. Jean-Do, per comunicare, non ha altro strumento che il battito? di una palpebra. Con quell’unico gesto, riesce a dettare un libro – Le scaphandre e le papillon, da cui il film è tratto – in cui racconta la sua esperienza: il “diario del viaggio immobile di un naufrago arenatosi sulle spiagge della solitudine”. Ostaggio del suo corpo, Jean-Dominique ritrova la sua libertà attaccandosi a ciò che, nonostante la sua condizione, fa di lui un uomo.Jean-Do fa appena in tempo a vedere la pubblicazione del libro: morirà dieci giorni dopo, il 9 marzo 1997.

Greta Salvi

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La vita e il suo termine…Cos’è vita e cosa non lo è?Quando la vita cessa di essere tale?Vale sempre la pena di vivere?E per che cosa?

A intervalli più o meno regolari, queste domande tornano ad interrogarci. Per riflettere su queste tematiche – che, indipendentemente dai riflettori accesi periodicamente dalla cronaca, interrogano la coscienza di tutti – «Universitas» propone due film, che esprimono due diverse posizioni: il toccante e pluripremiato Million Dollar Baby, (C. Eastwood, USA, 2004) e il meno noto, ma non meno commovente Lo scafandro e la farfalla (J. Schnabel, Francia, 2007).

Abbiamo visto per voi...

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Giuseppe Lazzati, come vivere da laico il proprio battesimo

Quest’anno ricorre il centenario della nascita del prof. Giuseppe Lazzati, nato a Milano nel 1909 e rettore dell’Università Cattolica dal 1968 al 1983.

Inquadrare il Professore in poche parole è difficilissimo: egli, infatti, nella sua vita, è stato moltissime cose. Ha ricoperto il ruolo di presi-dente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica, è stato deputato nelle fila della Democrazia Cristiana all’Assemblea Costituente e nella prima legislatura repubblicana, direttore del quotidiano cattoli-co ambrosiano “L’Italia”, professore e poi rettore all’Università Catto-lica del Sacro Cuore, fondatore dell’Istituto Secolare di Cristo Re, presidente diocesano di Azione Cattolica, instancabile educatore e formatore delle generazioni più giovani. Ricordare oggi Lazzati si-gnifica non dimenticarne il pensiero e la testimonianza, carichi di significato e di spunti anche per il presente, in un tempo nel quale molti, anche fra i cristiani, confondono i piani d’azione e il laicismo e l’intolleranza invadono il nostro paese.

A partire dagli anni d’impegno in Azione Cattolica e fino alla morte, infatti, Lazzati approfondisce una doppia intuizione: quella della responsabilità dei laici cristiani nella Chiesa e nel mondo e quella del valore cristiano della realtà secolare.In linea con il Concilio Vaticano II, Lazzati ha sempre parlato di uni-versale santità alla quale sono chiamati tutti i cristiani. Usava egli la definizione “…e vero uomo e vero cristiano…”, rimarcando la impre-scindibile distinzione dei piani (umano – divino), “nella quale però il divino non distrugge l’umano, ma anzi lo amplifica e gli è utile”. La vita del cristiano, per analogia con quella del Cristo, può dirsi umano – divina, è pervasa dalla potenza di Dio ed è aperta a capa-cità nuove. Queste capacità nuove sono le tre grandi virtù teologali: la fede, la speranza e la carità.Per dirla con le parole del Professore: “La vita in Cristo è la chiave di volta dell’essere e dell’agire della vita del cristiano”. Proprio per questo il fedele laico è chiamato e guidato dallo Spirito a cercare “il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”, a vivere l’unità dei distinti, ossia l’unità fra vita in Cristo e im-pegno laicale.In Giuseppe Lazzati laicità e virtù cristiane sono perfettamente com-penetrate.

Lazzati fu uno straordinario uomo di fede, una fede che lungi dall’es-sere compresa come alienazione dal reale, era invece comprensione del reale come lo conosce Dio, alla luce di Dio.La fede permette all’uomo di mettere in atto tutte le risorse della propria razionalità, abilitate dal λόγος di Dio, ragione ultima e ordine di ogni cosa. Lazzati parlava di “fatica del pensare”, ma non per questo si sottrasse dal cogliere i nessi profondi fra fede e ragione, fra fede e cultura, fra fede e politica, fra fede e storia. Fondamentale nel suo pensiero fu proprio il riconoscimento della distinzione (ma allo stesso tempo intima unione) di questi piani, quello secolare e quello spirituale.Già Maritain aveva detto: “Distinguere per unire”, per evitare dolo-rosi ed erronei corto – circuiti.Ciò che più di tutto contraddistinse Giuseppe Lazzati fu la grande passione per la verità e il servizio agli altri nella carità. La passione di Lazzati aveva sempre al centro l’interesse per l’uomo, il progresso morale dell’uomo, il servizio all’uomo. In particolare, per quanto riguarda l’impegno politico (anche per Lazzati la maniera più esigen-te di vivere l’impegno cristiano a favore degli altri), egli sottolineò l’importanza per il credente di costruire la città dell’uomo insieme al

non credente, per il bene di tutti e non, in-vece, quello di costruire una cittadella cristiana.

Poco prima dello scop-pio della seconda guer-ra mondiale, quando già si stava delineando la sconfitta del fascismo, Lazzati e il suo gruppo di amici iniziarono a discutere di come rico-struire il paese.Disse Lazzati: “Sino da allora era convinzione comune che il rinnovamento spirituale e cultu-rale del nostro paese, prostrato dal fascismo e dalla guerra, fosse condizione e premessa di autentico rinnovamento politico. Ho detto rinnovamento spirituale e culturale, ma devo aggiungere, a scanso di equivoci, condotto all’insegna di quella unità dei distinti che sola permette di evitare confusioni e separazioni, forme di integrismi e clericalismi le prime o di secolarismi e laicismi le seconde. Solamente un rinnovamento di tale fatta poteva condurre i cattolici da lungo tempo estranei alla politica a pensare e gestire la politica stessa in modo nuovo”.Fondamentale nel fedele laico, distintivo del cristiano, deve essere una autentica capacità dialogica ed inclusiva: “…presentarsi così come si è, senza infingimenti, con un’attenzione appassionata e sincera al punto di vista dell’altro, ricercando i punti comuni su cui costruire la città dell’uomo a misura d’uomo”.Durante i suoi anni di rettorato la Cattolica diventò proprio una fuci-na di elaborazione culturale per aiutare i cattolici italiani a pensare politicamente, come soleva ripetere lui.Un buon cristiano non sempre è un buon politico, perché fare politica richiede esperienza e conoscenza di specifiche “nozioni” tecniche.

Nel 1985 Lazzati compie un nuovo passo nel cammino di una maturi-tà del laicato cattolico facendosi promotore dell’Associazione “Città dell’uomo” che “si propone di elaborare, promuovere e diffondere una cultura politica che, animata dalla concezione cristiana dell’uo-mo e del mondo, sviluppi l’adesione ai valori della democrazia espressi nei principi fondamentali della Costituzione della repubblica italiana, rispondendo alle complesse esigenze della società in tra-sformazione”.

Ancora oggi Lazzati ci direbbe che l’unico modo per riformare la politica è quello di tornare ad incarnare, nell’azione politica quoti-diana, propositi per attuare i primi importantissimi articoli della Costi-tuzione.

Nel testamento spirituale, composto prima di morire nel 1986, Lazza-ti ha scritto per tutti i fedeli laici: “Amate la Chiesa, mistero di salvez-za del mondo… Amatela come vostra Madre, con un amore che è fatto di rispetto e di dedizione, di tenerezza e di operosità. Non vi accada mai di sentirla estranea e di sentirvi a lei estranea; per lei vi sia dolce lavorare e, se necessario, soffrire. Che se in essa doveste a motivo di essa soffrire, ricordatevi che vi è Madre; sappiate per essa piangere e tacere”. A distanza di anni non possiamo assolutamente dimenticare una figura di tale grandezza e importanza, un maestro di vita esemplare, soprattutto nella nostra Università, che lo ha visto protagonista per più di un trentennio.

Alberto Ratti

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