indian kiss

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Estratto dal libro Indian Kiss. Viaggio sentimentale a Bollywood e oltre di Franco La Cecla

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F r a n c o L a c e c L a

I n d I a n k I s sViaggio sentimentale a Bollywood e oltre

o barra o edizionivia stromboli 1820144 Milanowww.obarrao.com

Grafica di copertina di eros BadinL’editore è disponibile a considerare le richieste di eventuali aventi diritto.

© 2012 o barra o edizioni

IsBn 978-88-97332-42-8

Un proverbio dice che l’India è piu grande del mondoJ. L. Borges, L’uomo sulla soglia

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Bo m Bay

Tra i film che si possono scegliere nell’entertainment screen – uno spaccato di mondo dove gli hit hollywoodiani fanno la figura di una sparuta minoranza – del volo emirates per Bombay c’è Dharavi. È un film indiano del 1991, poco Bol-lywood, oppure molto, a seconda dei punti di vista. Dharavi è la piu grande bidonville di Bombay, quella del film Slumdog Millionaire1 (che è invece del 2008). Il protagonista è un taxi driver che vive in una baracca a due piani di Dharavi, ma vuole “progredire”, uscire dalla povertà inventandosi un business. Tutto gli andrà male, è un eroe negativo, beve, ha una moglie bellissima, ma lui sogna madhuri Dixit, una della dive più famose di Bollywood. Il fratello della moglie è un social worker, un assistente sociale che viene ucciso dalla mafia locale a cui il taxi driver ha chiesto un prestito. Lo slum è un posto infame di cui varrebbe anche la pena di accontentarsi, perché come dice la moglie: “abbiamo una casa, abbiamo un taxi, abbiamo un figlio e tua madre vive con noi”. alla fine, durante la proiezione nello slum di un film di Bollywood, saranno gli abitanti di Dharavi a ribel-larsi alla mafia locale e a sterminarla. Tra i ringraziamenti c’è tutta Dharavi, e anche Suketu mehta, l’autore del bellissimo Maximum City, uno dei migliori libri mai scritti su Bombay e forse su una città. Sto andando a Bombay per due motivi, il primo è il sogno di un film su Bollywood che mi trascino da ormai due anni (ma mi dicono che è poco, che con i film, o meglio con i docu-mentari, ci vuole un sacco di tempo). Il secondo è l’incarico di fare un breve documentario sugli slum di Bombay. ed ecco che le due cose si uniscono.

1. Uscito in Italia col titolo The Millionaire.

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Bollywood, il cinema indiano, è un’incredibile spugna che assorbe tutto, da Ladri di biciclette di De Sica, rifatto per gli indiani, a Pretty Woman, da Sciuscià a Matrix. Si nutre dell’attualità voracemente, non c’è tema corrente, anche il più controverso, che non venga assimilato e riciclato, dall’11 settembre alle tematiche transgender. Per questo motivo Bol-lywood mi ha preso, nonostante la sua distanza dalle cose che mi dovrebbero piacere, nonostante i suoi aspetti ostici, il suo ripetere temi e situazioni, le lunghissime sequenze di canto e di ballo a cui malgrado tutto non riesco ad abituarmi. Perché Bollywood è uno dei pochi casi di cultura di massa che è an-cora cultura popolare, come la canzone napoletana o com’era il jazz. La caratteristica di una cultura popolare è di assorbire tutta l’attualità e di reinterpretarla, il cannibalismo di tutto ciò che le avviene intorno le è fondamentale. Non finisco di stupirmi dell’ampiezza di questa produzione e della sua capacità di essere “presente”, “contemporanea”, come può esserlo oggi la musica pop o quella elettronica. Nonostante la qualità generale non sia eccelsa né curata. ma a fronte della scarsa qualità generale, sta la quantità prodotta e in questa si trovano ogni tanto vere e proprie perle.

Bollywood è quanto di più lontano ci possa essere dalla sen-sibilità europea, è ingenuo, prolisso, usa format che a noi non piacciono, come il richiamare alcune scene, il flashback a iosa, l’anticipazione della fine all’inizio, insomma un’im-postazione narrativa spesso vecchia di cui non si capisce la ripetitività. eppure è questa sua stessa ingenuità a essere una chiave: soprattutto perché Bollywood si rivolge non a un pubblico di nicchia o a un’élite, ma a centinaia di milioni di spettatori che sono dei veri appassionati. entra nelle case, ne-gli ospedali, negli slum, nelle ville dei ricconi e dei gangster indiani, è oggetto di furiosi scontri o può esserne all’origine, ma è un linguaggio condiviso da “tutti gli indiani” (anche da

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pachistani, tamil, egiziani, mediorientali). La gente ne ama e ne canta le canzoni, ne comprende le danze.La danza nei film di Bollywood riveste il ruolo che ha il coro nella tragedia greca, serve a interrompere la narrazione con un metalinguaggio, funge da commento esterno a ciò che sta accadendo nel film.mi riesce sempre difficile convincere i miei amici a guardare i film di Bollywood, li trovano insopportabili, e ritengono la mia mania una forma di debolezza da perdonare alla pari di altre mie stranezze. eppure sono per me una ricchezza e un’i-nesauribile fonte di spunti per capire tutto un mondo e per leggere il nostro con occhi indiani.Questo però non basta a spiegare perché ho cominciato a in-teressarmi a Bollywood. Ci sono ovviamente ragioni perso-nali. e casuali. Ho incontrato una sera a cena, in occasione del festival del cinema indiano river to river a Firenze, (or-ganizzato dall’infaticabile Selvaggia Velo), un’attrice indiana, amrita, che avevo visto la sera precedente in un film, e le ho parlato per pochi minuti. Tutto nella più assoluta brevità e informalità. Ho gettato lì scherzando che sarebbe stato inte-ressante capire perché nei film di Bollywood in genere non si arriva mai a baciarsi veramente. Credo che amrita mi abbia trattato con gentilezza, ma senza particolare attenzione. mi ha detto, o almeno mi pare, che effettivamente sarebbe stato interessante e mi ha passato il suo biglietto da visita. ma era una serata in cui tutti si scambiavano i biglietti, una serata informale solo all’apparenza. Poco prima avevo parlato con il suo regista, ketan mehta, e anche lui mi aveva passato il biglietto da visita. Poi, come accade a volte, uno manda qualche e-mail di simpa-tia e così è cominciata la corrispondenza con amrita. Sapevo che amrita era qualcosa di più di un’attrice di Bollywood. mi aveva impressionato la sua esilità, stava in piedi su due gam-bette sottili e sembrava un po’ spaventata anche da Firenze,

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per quanto protetta dal fidanzato robusto e con la barba ispida. I capelli lunghi, neri, i tratti fini avevano poco a che fare con l’attrice che avevo visto sullo schermo il giorno prima, una musa esotica e sensuale che diventava la vittima consenziente del grande pittore indiano raja Varma, il primo a raffigurare gli dèi e le dee d’India praticamente nudi. Nella scena dell’am-plesso amrita si mostrava con i seni al vento, di una bellezza timida, antica e struggente. ma ben poco di tutto ciò traspa-riva dalla persona con cui avevo parlato sì e no dieci minuti. Sapevo che era figlia di un Premio Nobel, e solo in seguito venni a sapere che sua madre era una delle più famose e ac-clamate scrittrici bengalesi. Ci siamo scambiati varie e-mail e ogni volta amrita era brillante, divertente, semplice e curiosa e mi ripeteva che questo progetto – progetto? – le interessava.

L’o d o r e d e L L’In d I a, d I c e va Pa s o L I n I…

Ieri, arrivando, ho riconosciuto attraverso i finestrini aperti del taxi l’odore tipico di bruciaticcio della notte di Bombay, smog, spazzatura incendiata, tropico. e il gracchiare conti-nuo dei corvi che sono dove c’è spazzatura, e cioè dapper-tutto. La prima impressione è “ma come si fa a vivere qui?”. Le case sono mangiate dalla vecchiaia del Tropico, tutto ha un’aria malandata, abbandonata, i marciapiedi qui, ma sem-bra una mania di tutta l’asia, sono approssimativi, pieni di botole e mensole ribaltate da radici di alberi immensi, polve-rosi anch’essi: come si fa?Poi la mattina esci dall’hotel un po’ malandato appartenuto a quattro generazioni di zoroastriani, che si trova a due passi dal gigantesco Taj che dà sul Gate of India, ma costa dieci volte meno (pur avendo lussuose camere vittoriane), e Bom-bay diventa tua, non la discuti più. Questa città non riesce a metterti addosso tristezza: ma perché? Qui su ogni mar-

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ciapiede dormono persone, famiglie, la povertà è visibile in maniera totale, una bambina che avrà sì e no cinque anni mendica con un’aria da adulta tra le macchine. eppure que-sta città non ti fa paura, c’è una vitalità impressionante, c’è un tessuto forte, nessuno è davvero solo. La città è enorme, 38 milioni di abitanti, il traffico assurdo, ma anche negli an-droni più malandati c’è un’atmosfera di casa. ed è proprio l’approssimazione di questa metropoli, o meglio quasi-me-tropoli, che la fa sentire non troppo dura, non troppo spietata. Invece probabilmente lo è. Leggendo Giochi sacri di Vikram Chandra, un giallo bellissimo ambientato a Bombay, si capi-sce che qui c’è corruzione, violenza, sfruttamento, miseria, ma anche tantissima vita che pretende di esistere, di esserci, di occupare il proprio spazio minimo nella metropoli. Gio-chi sacri è una saga urbana, un affresco dettagliato di come questa città sia diventata un mito, un inferno e un paradiso, il calderone di tutti i mali e però anche un luogo da cui si fa fatica a distaccarsi. È il leitmotiv che nel libro, interminabile ma che vi si appiccica alle mani, unisce il poliziotto onesto e il gangster a cui dà la caccia. È il luogo che attrae tutti gli indiani e che è diventato il simbolo di una modernità “all’in-diana”. e non si ha l’impressione di una città maledetta. Vado a spasso con l’autista – si chiama Bharat, cioè India, proprio come in Italia qualcuno si chiama Italia – che amrita (lei non c’è, è a Parigi, a casa mia) mi ha mandato stamat-tina e che mi porta attraverso i vari quartieri, da Colaba, la punta di Bombay, a Worli, fino alla spiaggia di Juhu, dove mi aspetta aparna, la fotografa con cui dovrei lavorare nei pros-simi giorni. C’è una luce magnifica e il traffico sembra scivo-lare bene nella striscia d’asfalto tra gli edifici e il mare. Nella zona di Worli sono in corso restauri alle bellissime facciate fine ottocento che guardano il mare. a Worli, dice Bharat, la gente viene quando ci sono le mareggiate per farsi bagnare, infradiciare dalle onde.

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Più avanti vediamo l’Hotel Taj davanti al quale, su una riva di scogli, vanno a baciarsi i lovers people, spiega l’autista. Dietro si apre uno slum, con i tetti di lamiera e le pareti che sembrano di cartone. Tra noi e lo slum, karina kapoor, una delle star di Bollywood, ci sorride pubblicizzando un profumo.Bombay è ancora il modo in cui buona parte delle persone di qui chiamano mumbai, ribattezzata così dal partito nazionali-sta hindu BJP in un impeto anticolonialista e soprattutto fon-damentalista. mumbai richiamerebbe un nome preesistente, autoctono, quello della dea mumbadhevi, la protettrice dei villaggi di pescatori che esistevano prima della fondazione della città: la Buona Baia, Bom-Baia, Bom-bay, dei porto-ghesi. La città è una delle più recenti dell’India, è l’insieme di sette isole che i portoghesi prima e gli inglesi poi trovarono utili per il commercio marittimo.

aparna mi aspetta al caffè del teatro Privit, vicino alla spiag-gia di Juhu. La sua aria è spavalda ma da bambina, la sua taglia un po’ oltre misura ma compensata da una sensualità schietta. Viene voglia di portarla subito a nuotare perché ca-pisca quanto è potente in questa bellezza circondata di chili, ma come sarebbe bello se ne perdesse alcuni in mare. Subito iniziamo a scherzare come se ci fossimo visti ieri e a fare piani. Come agire qui? Chi incontrare, chi intervistare, che tempi hai? Con cosa lavoriamo? Poi mi porta a vedere una pièce di teatro, terribile, al rallentatore, piena di attori, ma giocata come se fossimo ancora negli anni ’60 e si dovesse far soffrire il pubblico con la lentezza, l’ermetismo, il simbo-lismo pretenzioso. Due ore dopo, finita la pièce, riaccompagno aparna a casa per-ché deve cambiarsi per andare a una cena. Prima però si ferma a comprare dolci, il suo paradiso, il suo inferno. mi porta a casa dei suoi. Stanno in un condominio a Bandra, moderno, pulito, ben fatto anche se semplice e privo di ostentazione.

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mi lascia a parlare con il padre che è a letto raffreddato e sta vedendo Sherlock Holmes. Interrompe il film mentre mi seggo vicino a lui, assaggio un bicchiere di rosso che viene da Nashik, a nord di Bombay, e pasteggio con delle banane secche del kerala. La famiglia viene da lì. Parlo anche con la madre, vispa, che vuole sapere come mai conosco bene Bol-lywood. aparna va a cambiarsi e quando torna è vestita con un pigiama palazzo nero che le lascia scoperte le braccia. mi chiede se se lo può permettere e si risponde da sola dicendo che dopo due bicchieri di vino sì. Quando siamo in strada le dico che i suoi genitori sono giovani. Lei mi informa che quella non è sua madre. Sua madre, la donna bellissima di cui ho appena visto la foto in casa, è morta otto anni fa.

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