anello nibelunghi

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L'Anello del Nibelungo - Introduzione alla Tetralogia di Wagner Di Giorgio Locchi - Numero 49 del 01/05/2000 Stampa articolo Scarica l'articolo in formato PDF http://www.uomo-libero.com/images/articoli/pdf/243.pdf L'Oro del Reno - La Walchiria - Sigfrido - Il Crepuscolo degli Dei - [Traduzione, note e Appendice di Stefano Vaj] [Le numerose ed estese note presenti costituiscono una componente importante di quanto qui pubblicato. Per visualizzarle - o stamparle - a piè di pagina, anziché in fondo al testo principale, è possibile accedere alla versione PDF del testo. Per visualizzarle a piè di pagina conservando la possibilità di navigare i link ipertestuali presenti nel testo è necessario scaricare la versione HTML- ZIP, decomprimerla, ed aprirla con OpenOffice.org Writer] Il Ring (1) non può evidentemente essere "raccontato", né soprattutto è possibile far "indovinare" dal suo racconto, foss'anche di sfuggita, in cosa consiste la sua bellezza esaltante, il suo respiro ammaliatore, il livello della visione del mondo che esso esprime. Questa considerazione, che è valida per ogni capolavoro letterario, è particolarmente vera nel caso dell'Anello del Nibelungo, opera d'arte totale, che è impossibile cogliere nella sua interezza attraverso la mera lettura del poema o del libretto. ma che è necessario vedere- ed-udire nella sua rappresentazione scenico-musicale -- idealmente nel luogo privilegiato rappresentato dal teatro di Bayreuth (2). Il "riassunto" che viene qui proposto (3) non ha dunque altra ambizione che quella di offrire allo spettatore, specie a quello che non conosce il tedesco, una sorta di "programma", ed al tempo stesso una guida, rapida e succinta, per aiutarlo a comprendere i simboli del mito e le allegorie tramite cui la Tragedia rappresenta, ri-presenta sulla scena l'Eterno Divenire e l'Eterno Ritorno costituito dalla storia degli dèi e degli uomini. Ad un'epoca in cui ci si sforza sempre più di falsare, sterilizzare e "recuperare" l'opera di Richard Wagner, una "guida-programma" può d'altronde essere giudicata anche uno strumento di chiarezza e di demistificazione da parte di coloro che rifiutano di piegarsi all'omologazione imposta dal conformismo culturale dominante (4).

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L'Anello del Nibelungo - Introduzione alla Tetralogia di WagnerDi Giorgio Locchi - Numero 49 del 01/05/2000 Stampa articolo 

Scarica l'articolo in formato PDFhttp://www.uomo-libero.com/images/articoli/pdf/243.pdf

L'Oro del Reno - La Walchiria - Sigfrido - Il Crepuscolo degli Dei - [Traduzione, note e Appendice di Stefano Vaj][Le numerose ed estese note presenti costituiscono una componente importante di quanto qui pubblicato. Per visualizzarle - o stamparle - a piè di pagina, anziché in fondo al testo principale, è possibile accedere alla versione PDF del testo. Per visualizzarle a piè di pagina conservando la possibilità di navigare i link ipertestuali presenti nel testo è necessario scaricare la versione HTML-ZIP, decomprimerla, ed aprirla con OpenOffice.org Writer]

Il Ring (1) non può evidentemente essere "raccontato", né soprattutto è possibile far "indovinare" dal suo racconto, foss'anche di sfuggita, in cosa consiste la sua bellezza esaltante, il suo respiro ammaliatore, il livello della visione del mondo che esso esprime. Questa considerazione, che è valida per ogni capolavoro letterario, è particolarmente vera nel caso dell'Anello del Nibelungo, opera d'arte totale, che è impossibile cogliere nella sua interezza attraverso la mera lettura del poema o del libretto. ma che è necessario vedere-ed-udire nella sua rappresentazione scenico-musicale -- idealmente nel luogo privilegiato rappresentato dal teatro di Bayreuth (2).

Il "riassunto" che viene qui proposto (3) non ha dunque altra ambizione che quella di offrire allo spettatore, specie a quello che non conosce il tedesco, una sorta di "programma", ed al tempo stesso una guida, rapida e succinta, per aiutarlo a comprendere i simboli del mito e le allegorie tramite cui la Tragedia rappresenta, ri-presenta sulla scena l'Eterno Divenire e l'Eterno Ritorno costituito dalla storia degli dèi e degli uomini.

Ad un'epoca in cui ci si sforza sempre più di falsare, sterilizzare e "recuperare" l'opera di Richard Wagner, una "guida-programma" può d'altronde essere giudicata anche uno strumento di chiarezza e di demistificazione da parte di coloro che rifiutano di piegarsi all'omologazione imposta dal conformismo culturale dominante (4).

L'Oro del Reno

Come dire la nascita del mondo degli dèi e degli eroi? Solo la musica (5) può esprimere l'indicibile, essa soltanto è in grado di dire l'inconcepibile. Prima ancora che il sipario si levi sulla prima scena del Ring, un suono è già là, misterioso e senza volto, unico e fondamentale: affidato ai contrabbassi, che stanno per tenerlo in vita per centotrentasei misure, rappresenta la voce dell'Elementare, dell'universo in sé, a cui nessuna ragione può pervenire; è la voce delle acque fredde ed immobili, ove il mito ritrasmesso dall'Edda pone, giacente come in una placenta cosmica, il gigante Ymir, il cui corpo un giorno sarà smembrato dagli dèi per farne un mondo offerto ad ogni essere vivente; è la voce di questa stessa acqua di cui la nascente filosofia degli Elleni farà il "principio" di tutte le cose. Questo suono appare dapprima per quattro misure in una solitudine assoluta. Forse è là da tutta l'eternità, incommensurabile

durata di un momento totalmente vuoto. Poi un altro suono si aggiunge, al Mi-bemolle si sovrappone la quinta; poi, dopo molto tempo, l'ottava; poi ancora, con un ritmo sempre più sostenuto, tutte le altre armoniche naturali, secondo l'ordine stesso istituito dalla natura della musica (6).

Ed ecco che l'accordo perfetto ha disegnato il "presente": il primo presente. Entriamo nell'Eterno Divenire, nella storia. Ritmo, melodia, armonia, si organizzano; la melodia incessante si amplifica, le sue palpitazioni sono quelle della vita, invade tutto, in un crescendo lento e impetuoso. Infine, esplode: ci ritroviamo nelle glauche profondità del Reno, e le tre Ondine, figlie del fiume, giocano, spensierate, attorno allo scoglio dove riposa l'oro cui sono di guardia. Incipit tragoedia.

Grazie alla musica, abbiamo vissuto la nascita del mondo. ma abbiamo anche sorvolato, in una fantastica scorciatoia, tutto un periodo indicibilmente lungo. Se immaginiamo gli avvenimenti come una sequela che disegna una parabola, quando il sipario si leva sulla prima scena dell'Oro del Reno, svelando gli abissi del grande fiume, l'avventura degli dèi e degli uomini (7 ha già raggiunto l'apogeo: il momento che ci si appresta a vivere è quello in cui comincia, si precisa, la caduta da cui la tragedia va a realizzarsi. Abbiamo in effetti sorvolato sulla nascita dei giganti, poi su quella degli dèi; abbiamo lasciato alle nostre spalle lo smembramento di Ymir, la lunga lotta di Wotan/Odino e degli Asi per istituire un ordine delle cose, ed anche la guerra con i Vani e la pace che ne è seguita, ed infine la generazione degli uomini e l'organizzazione della loro società da parte di Heimdal, il "primo" degli Asi (8).

Tutto ciò è passato da un tempo immemore quando, nel canto ingenuo e gioioso delle Figlie del Reno fa irruzione il richiamo, che vorrebbe essere grazioso, ma che riesce solo ad essere rauco, del nano Alberico, l'orrido Nibelungo. Alberico vorrebbe sedurre una delle Ondine, non importa quale, per soddisfare la sua sete di piacere; ma le fanciulle, una dopo l'altra, si sottraggono e si burlano di lui, con l'innocente crudeltà della gioventù e della bellezza. Ingenue, esse confondono l'appetito sessuale con l'amore, e dal momento che il «bacio del sole», trafiggendo i flutti, risveglia l'«occhio dell'oro» e lo fa risplendere alla sommità dello scoglio immerso nelle acque. non temono di svelare il loro secreto: solo colui che rinuncerà all'amore potrà impadronirsi dell'oro, e, tramite questo oro che è potere, giungere a dominare il mondo. 

Alberico, infuriato dal rifiuto delle fanciulle a piegarsi al suo desiderio, non esita: se non potrà ottenere l'amore, avrà la potenza dell'oro e le voluttà che esso procura. E il nano strappa il prezioso metallo dallo scoglio. Subito, la fuga travolgente delle Figlie del Reno terrificate annuncia la sventura universale: l'oro, il tesoro sacro che in seno al Reno era il pegno di una giusta spartizione delle ricchezze della terra secondo il valore di ciascuno dei viventi, è caduto nel potere di mani egoiste ed indegne; l'armonia universale, che solo l'amore garantiva e preservava, è rotta.

Al sogno di potenza e di dominio di Alberico fa eco -- dalle cime montagnose ove si erge, appena compiuto, il Walhalla, la fortezza degli Asi -- il sogno di Wotan; a quello dell'Alp nero, quello dell'Alp-di-luce (9). Giacché anche Wotan aspira a una potenza assoluta, che sarebbe per lui «onore virile» e pegno di «gloria senza fine» 10. Nel suo disegno, lo strumento di questa potenza è rappresentato dal Walhalla. Per costruirlo, Wotan ha dovuto fare ricorso al lavoro di Fafner e Fasolt, i giganti, forze brute naturali di cui lo spirito stesso non può fare a meno per costringere la materia in forme nuove. Ora, ecco che il Walhalla è costruito: ai suoi piedi, nel giorno che si leva, Wotan si appresta a prenderne possesso. Ma ha dimenticato (o finge di dimenticare) che ad ogni diritto corrisponde un dovere -- e che aveva promesso un prezzo ai giganti, in cambio del loro travaglio: Freya, dea dell'amore e della gioventù eterna.

Sua moglie Fricka, temendo per la sorella Freya, gli ricorda la promessa e gli rimprovera la

leggerezza del suo "contratto", nonché il suo disprezzo per la donna e l'amore. Ma Wotan non ascolta Fricka. Non ha accettato il contratto che per scherzo. Fafner e Fasolt, pensa, non saprebbero cosa farsene della dolce Freya; accetteranno un altro salario, che Logi/Loki, il saggio consigliere, s'è impegnato a trovare. 

Wotan si inganna. I giganti, sopravvenendo sui passi di una Freya spaventata e prostrata, si ostinano a pretendere il prezzo convenuto per il loro lavoro e non accettano che lo si cambi; anch'essi sognano di sovvertire l'ordine del mondo, sottraendo agli Asi, insieme a Freya ed alle sue mele d'oro (11), il mezzo di un'eterna giovinezza.

Logi giunge nel bel mezzo di queste circostanze. Wotan conta su di lui per far "intendere ragione" ai giganti. Ma Logi si sottrae alle insistenze dell'Alp-di-luce. Non ha promesso niente, non ha nulla garantito, si è solo impegnato a riflettere sul mezzo di "risolvere" il problema costituito dal "contratto". Ora, la cosa si è rivelata impossibile, poiché nulla al mondo vale per l'uomo «virtù e voluttà di donna». Solo il Nibelungo Alberico -- ma è davvero l'unico! -- crede di aver trovato nell'oro il bene che varrebbe più di «grazia di donna»; ecco che ha rubato l'oro alle Figlie del Reno, che invocano ora il soccorso di Wotan. Lui, Logi, non è venuto che per trasmettere al dio la loro preghiera. Di fatto Logi, machiavellico, con il suo apparente disinteresse per la causa di Wotan, ha ottenuto l'effetto che si aspettava. I giganti, sentendolo parlare, hanno drizzato le orecchie, si preoccupano della nuova potenza di Alberico, si decidono a rinunciare a Freya in cambio del tesoro del Nibelungo. E portano via con sé la dea, dando appuntamento all'indomani a Wotan. Partiti i giganti, gli dèi si accorgono improvvisamente, con orrore, di invecchiare. Quel giorno, in effetti, non hanno mangiato i pomi dell'eterna giovinezza di Freya. Ciò decide Wotan ad accettare l'affare proposto da Fafner e Fasolt.

Wotan e Logi discendono perciò negli abissi sotterranei di Nibelheim, il mondo dei nani. Un trucco di Logi rende Alberico loro prigioniero, e i duedèi ritornano con lui (e con il tesoro) ai piedi del Walhalla. Nel frattempo, con l'oro del Reno, Alberico ha confezionato un anello magico, mentre suo fratello Mime, dietro sue istruzioni, fabbricava un elmo magico che permette di prendere tutte le sembianze, e persino di rendersi invisibili. Alberico, avendogli Wotan levatogli di forza l'anello di cui conosce la potenza, lancia nella sua rabbia impotente, prima di andarsene, una terribile maledizione: l'anello sarà fatale a chiunque lo possederà.

I giganti arrivano all'appuntamento, accompagnati da Freya. Fasolt, che ha rinunciato a malincuore alla dea, chiede che venga ammassato oro a sufficienza da celare completamente Freya. Ma l'oro non basta, giacché, attraverso un'ultima piccola superficie rimasta scoperta Fasolt intravede ancora l'occhio di Freya. Reclama perciò l'anello, che si trova ora al dito di Wotan. Questi rifiuta, benché, non avendo mangiato le mele dell'immortalità, la giovinezza abbandonarlo. Ma improvvisamente la terra si fende ed appare Erda, la Urmutter, la Madre di tutte le cose, colei che sa «tutto di ciò che fu, di ciò che diviene e di ciò che sarà». Ella lo mette in guardia: «Ascolta, ascolta! Tutto ciò che è prende fine. Un giorno scuro si leva per gli dei. Ascolta il mio consiglio, evita l'anello». Wotan vorrebbe saperne di più, ma Erda è già sparita. Tuttavia Wotan esita ancora. Fricka e gli altri dèi, Donner/Thor, Froh/Freyr e Freya, lo spingono a cedere. 

Scuote allora la lancia, come in segno di decisione, strappa l'anello dal suo dito e lo getta a Fasolt. Freya è liberata. Fafner e Fasolt immediatamente intraprendono la divisione dell'oro, e non tardano ad affrontarsi brutalmente per il possesso dell'anello. Alla fine Fafner abbatte Fasolt. Un silenzio solenne avvolge gli spettatori di questa prima manifestazione della maledizione di Alberico. L'angoscia e la paura si impadroniscono dello spirito di Wotan, che prende già la risoluzione di scendere negli abissi sotterranei per domandarvi consiglio ad Erda. Scure e minacciose nubi si accumulano intorno alle cime. Donner, dio del fulmine, lancia una invocazione magica al tuono, che risponde all'appello del suo martello. La tempesta libera il

cielo. Froh, da parte sua, fa sorgere l'arcobaleno che conduce sino al Walhalla, ad Asgard.

È allora che un nuovo pensiero sorge nello spirito di Wotan, fatto al tempo stesso di speranza e di certezza. Per la prima volta si abbozza in esso un "grande disegno" che il dio è ancora il solo a conoscere, e che risuona -- come una premonizione dell'avvenire -- nel Leitmotiv, ancora privo di "oggetto attuale", che identificheremo più tardi come quello della spada dell'eroe redentore, di Siegmund e di Sigfrido (12). Gioiosi, di nuovo sicuri di sé, gli dèi si dirigono verso il Walhalla e passano sul Ponte Arcobaleno, al di sopra del Reno, ignorando il lamento lontano delle Ondine, mentre Logi sente nel suo cuore la voglia di abbandonare questi Asi divini che corrono alla loro rovina senza saperlo, e di trasformarsi in fiamma divoratrice per distruggerli, loro che, un tempo, l'hanno domato ed asservito. 

Vediamo ora il senso di questa rappresentazione. Gli Asi, i giganti, i Nibelunghi. che l'Oro del Reno ci mostra, rappresentano tre categorie in cui il mito germanico personifica, come scrive Robert Saitschick (13), i tre "livelli della realtà umana": la forza sovrana di uno spirito che, signore di se stesso, giunge a superarsi nella luce di un fine superiore; la forza fisica esuberante., fatta per il lavoro ma di per sé cieca ed incapace di creare; infine, la forza oscura di un'intelligenza egoista che di ogni cosa fa uno strumento di distruzione. 

I giganti, Urgeschaffene, creati prima di ogni altra creatura, simbolizzano la "prima umanità" -- una umanità ancora "animale", la cui vita cosciente non obbedisce che alla legge della specie, in cui essa trova il proprio limite. Per il tramite di Ymir, da cui discendono direttamente, i giganti rappresentano il prolungamento della storia del mondo "primevo", da lungo tempo scomparso, il mondo dell'Uno da cui è uscito il Due, da cui è sorta, per una nuova storia, una "seconda umanità", non più unicamente vincolata ai caratteri della sua specie, provvista di una coscienza superiore, ma anche, di per ciò stesso, di una "coscienza dei contrari" e che si divide perciò in Albe di luce e in Albe neri.

Tra gli Asi e i Nibelunghi, a Wagner non interessa esprimere giudizi. "«Ciascuno è fatto secondo la sua natura, e ciò non puoi cambiarlo» («Aller ist seiner Art, an ihr wirst du nicht ändern») dice Wotan ad Alberico (Sigfrido, II, 1). Di fatto, una morale del "bene" e del "male" non avrebbe qui alcun senso. Shaw ha voluto vedere in Alberico una personificazione del plutocrate, del capitalista malvagio, e negli altri Albe neri, così come nei giganti, degli "sfruttati, dei "dannati della terra". Più recentemente, registi influenzati da Brecht hanno affibbiato a Wotan ed agli altri dèi marsine e cappelli a cilindro, e trasformato il Walhalla in un'immensa fabbrica. Questa interpretazione non è unicamente semplicistica, è altresì stupida, perché lascia dei "vuoti" spalancati in una costruzione di cui le multiple categorie sociali, "divine" ed "umane", non si lasciano certo ridurre ad una contrapposizione manichea tra "sfruttatori" e "sfruttati" (14).

Che si tratti degli dèi, dei giganti o dei nani, tutti, senza eccezioni, aspirano in effetti al possesso dell'oro e desiderano un potere senza limiti. Mime, lo "sfruttato" per eccellenza, non pensa che ad impadronirsi del bene di Alberico. I giganti hanno all'inizio voluto Freya come compenso; hanno in seguito desiderato l'oro, avendo concepito il progetto di spossessare gli dèi del loro potere antico, Alberico del suo potere nuovo. Alberico, per ottenere l'oro del Reno, ha rinunciato all'amore ma, disgraziato per natura, non aveva altra scelta; può così rimproverare a Wotan, che lo "deruba": «Il sacrilegio che ho commesso non l'ho commesso che su di te e contro di te; ma il tuo sacrilegio profana tutto ciò che fu, che è e che sarà». Dal suo punto di vista (giacché non arriva neppure ad immaginare che «maledicendo l'amore» ha attentato all'unico principio suscettibile di ridare l'unità a un mondo di contrari), Alberico non ha torto. Wotan, garante dell'ordine cosmico, non ha forse fatto ricorso all'inganno per spossessare l'Alp nero di un suo bene, un bene che, dopotutto, Alberico aveva "conquistato" conformandosi ad una regola del gioco da sempre in vigore (15)? Ed ancora Alberico non sa

che Wotan, foss'anche per gioco, ma per un gioco leggero ed imprudente, ha ugualmente rinunciato a Freya, simbolo dell'amore e della donna!

Nel "presente" che è rappresentato dall'Oro del Reno l'atteggiamento e le intenzioni di Wotan appaiono dunque ambigue, avviluppate nel mistero. Se è il dio supremo, se già regna sul mondo, perché vuole -- come gli rimprovera Fricka -- «moltiplicare potenza e dominio»? Del resto, le ragioni stesse del suo potere sono anch'esse ambigue. Quando Wotan si rifiuta di onorare l'affare concluso per la costruzione del Walhalla, Fasolt gli lancia: «Attento a te! Rispetta fedelmente i contratti. Tu sei ciò che sei soltanto in virtù dei contratti. Il tuo potere è condizionato, ben pesato». ma più tardi, quando tutti gli Asi si oppongono alla consegna di Freya, il gigante grida «Voi che regnate attraverso la bellezza, razza splendida ed augusta, che follia da parte vostra l'aver desiderato delle torri di pietra, d'avere promesso come prezzo della fortezza amore e voluttà di donna. E voi ci dite, a noi poveri esseri grossolani, che ci siamo spossati di lavoro per ottenere una donna, voi ci dite ora che l'accordo era un gioco?». Ciascuno a modo suo ha ragione, ciascuno ha torto. Se vi è colpa, sembra dirci Wagner, allora tutti l'hanno commessa, a cominciare da Wotan, il dio garante dell'ordine del mondo. 

Il "presente" dell'Oro del Reno è perciò quello di una decadenza annunciata, che, come tutte le decadenze si impianta già nella certezza ottusa del "progresso" e dell'"eternità": partito con il suo tesoro, Fafner, trasformato in un drago, tiene il suo oro in una caverna in fondo alla foresta, certo che nessuno potrà riprenderglielo; Alberico, confidando nella "magia" della sua maledizione, ha anche lui la certezza che un giorno il "suo" oro gli sarà restituito; quanto a Wotan, benché messo in guardia da Erda. è entrato trionfalmente nel Walhalla, convinto che il suo "grande disegno" saprà salvaguardare per sempre il regno degli dèi e ristabilire il minacciato ordine del mondo. Beninteso, tutti si ingannano -- anche Logi, d'altronde, che divina malvagiamente la fine degli dèi e progetta già di tradirli, ma resta incapace di rendersi conto che tale fine sarà anche la sua e quella del mondo. Infine, lo spettatore, giacché vive l'"attualità" dell'Oro del Reno, non può che ingannarsi a sua volta: discerne nella colpa di Wotan e nella maledizione dell'oro la causa della minaccia che pesa ormai sugli dèi e sul mondo -- e forse ha il anche il presentimento della fine oscuramente profetizzata da Erda -- ma di fatto, in una prospettiva più vasta e più profonda, la causa di questa "fine" è tutt'altro. Non è che più tardi, nell'"attualità" del Crepuscolo degli Dei, che tale causa ci apparirà pienamente.

Wagner non "giudica" dunque i suoi personaggi secondo il metro di una morale del bene e del male. In compenso, al di là del bene e del male, prende partito, appassionatamente, per ciò che è "bello" e ciò che è "nobile". Nella rappresentazione che ci propone, i giganti sono stupidamente, tetramente brutali e disprezzabili. I nani, Alberico e Mime, sono schifosi, odiosi (16): tanto la loro ribellione che la loro sottomissione ipocrita rivela un'"anima di schiavi". Il destino tragico, marchio della più alta umanità, è riservato a Wotan – e agli eroi e le eroine nati dal lignaggio del dio padre, bagnato del suo riflesso luminoso.

La Walchiria

Contro la minaccia che pesa ormai sul mondo, Wotan nulla può. Dio sovrano, il cui potere riposa sui "contratti". non potrebbe strappare a Fafner con la forza il tesoro che gli ha ceduto, in forza precisamente di un contratto. Wotan è prigioniero dei suoi "negozi giuridici": le sue mani sono legate. Solo di un eroe che, agendo "liberamente" -- seguendo il suo solo istinto -- uccida il drago, si impadronisca dell'oro e dell'anello e li restituisse alle Figlie del Reno, potrebbe recidere il nodo gordiano posto in essere dal destino.

Il "grande disegno" di Wotan, simbolizzato dal Leitmotiv della spada, è stato concepito con questa intenzione, affinché un eroe intraprenda la sua missione redentrice. Presa una forma umana, sotto il nome di Wälse, Wotan ha perciò generato con una mortale due gemelli, Siegmund e Sieglinde, i Wälsungen (17.

Un giorno, però, ritornando con il figlio da una caccia, ha trovato la casa bruciata dai suoi nemici, che hanno parimenti ucciso sua moglie e rapito sua figlia. Wälse/Wotan ha dunque abbandonato Siegmund, facendogli questa promessa: un giorno verrà, in cui, all'epoca del «più grande bisogno» («in höchster Not»), troverà una spada invincibile, che suo padre ha forgiato per lui.

Quando il sipario si leva sulla Walchiria, l'ora del "bisogno più grande" si avvicina per Siegmund. Odiato da tutti, assolutamente estraneo allo spirito del tempo, il giovane eroe non ascolta che il suo cuore in un mondo di cui non comprende le leggi. Sogna di amore e di pace, ma semina, senza volerlo, la guerra e l'odio. Per soccorrere una fanciulla, ha ucciso i suoi fratelli. Nella lotta, ha perso la sua arma ed ha dovuto darsi alla fuga, inseguito dai suoi avversari. 

Una notte, cacciato dalla tempesta, spossato, cerca rifugio in una casa nel cuore della foresta. Una donna l'accoglie. Al primo sguardo, una medesima passione divorante si impadronisce dei loro esseri. Hunding, l'uomo che la donna ha dovuto sposare contro la sua volontà, fa la sua entrata. Siegmund gli racconta la sua avventura. Hunding riconosce immediatamente in lui il nemico della sua razza (la melodia fa intendere che Hunding appartiene ad una stirpe umana generata dai giganti). Hunding gli offre ospitalità per la notte, come esigono le usanze, ma lo sfida a singolar tenzone per l'indomani mattina. Rimasto solo nella sala, Siegmund invoca suo padre e gli ricorda la sua promessa. La donna, che non è altri che sua sorella Sieglinde, torna presso di lui, dopo aver addormentato Hunding con l'aiuto di una pozione. Gli rivela che il giorno delle sue tristi nozze un vegliardo, certamente suo padre, ha conficcato nel frassino una spada, che secondo la sua predizione soltanto il più grande degli eroi potrà estrarre.(18). Trascinati dalla passione, il fratello e la sorella si riconoscono. Siegmund strappa la spada piantata nel frassino e gli dà il nome di Notung, "Necessità". L'offre a Sieglinde come regalo di fidanzamento («als Brautgabe»). Poi, votati l'uno all'altra da un appello del sangue che è anche appello dell'amore, fuggono di notte nella primavera che li avvolge: «Che così fiorisca dunque il sangue dei Völsungen!».

Tutto dunque si è verificato secondo il disegno di Wotan. Gli avvenimenti, ormai, non potranno che seguire il corso anticipatamente tracciato dal dio. Alla sua figlia prediletta, Brunilde, Wotan ordina quindi di dare la vittoria a Siegmund nella lotta che deve opporlo a Hunding. Ma Fricka interviene: garante del vincolo coniugale, reclama la vittoria per Hunding, e la morte per Siegmund, adultero e incestuoso. Wotan rifiuta, e, a corto di argomenti, confida a Fricka l'ampiezza del suo disegno, la missione redentrice cui Siegmund è destinato. Ma la dea. inflessibile, rimprovera a Wotan la sua deliberata cecità. Come può l'Alp-di-luce abbandonarsi ad una simile illusione? Siegmund non è il "libero eroe" che Wotan vorrebbe vedere in lui. La sua invincibilità gli viene dalla spada magica forgiata dal padre; è l'aquila di Wotan che spinge Siegmund alle sue imprese, la sua "libertà" è in realtà una necessità creata dal dio. 

Vinto, Wotan finisce per cedere. Dà a Brunilde l'ordine di abbattere Siegmund. Ma la Walkiria non capisce. Vede l'immenso sgomento che si è impadronito del padre, osserva la sua disperazione. Confidandole il suo tormento, Wotan rivela anche a lei ciò che fu il suo disegno e il suo carattere vano: «Questo Altro che è tutta la mia speranza, non lo vedrò mai; giacché colui che è libero deve crearsi da solo, io non ho fabbricato che schiavi». E il dio ingiunge di nuovo alla Walchiria, sempre recalcitrante, di compiere la missione ricevuta. Ma Brunilde, giunta sul luogo del combattimento, non ha cuore di abbattere Siegmund. Tenta di dargli la

vittoria. Wotan stesso perciò interviene: la sua lancia fa volare in pezzi la spada di Siegmund, che è ucciso da Hunding sotto gli occhi di Sieglinde.

La Walchiria, spaventata, fugge sul suo cavallo con Sieglinde. Furioso, il padre la insegue. Brunilde cerca rifugio presso le sue sorelle e là decide di attendere Wotan, per permettere a Sieglinde di sottrarsi alla collera del dio in una vicina foresta ove nessuno osa avventurarsi -- e precisamente la foresta ove Fafner custodisce gelosamente il suo tesoro. Ma Sieglinde non vuole scappare. Vuole raggiungere Siegmund nella morte. Allora Brunilde le rivela che porta in seno il «pegno ricevuto da Siegmund»: «Vivi, donna, in nome dell'amore... Un Wälsung cresce nelle tue viscere!». Subito raggiante, Sieglinde invoca ora «la più alta protezione» («mit mächitgstem Schutz»). Fugge, portando con sé i frammenti della spada di Siegmund, che Brunilde ha raccolto sul campo di battaglia. 

Giungendo sul posto, Wotan scaccia le Walchirie che implorano perdono per la sorella, e annuncia a Brunilde la pena che l'attende: privata per sempre della sua natura divina, immersa in un sonno profondo, essa sarà la sposa del primo venuto che la troverà sulla sua strada e che la sveglierà. La Walchiria cerca di piegare il padre. affermando che non ha fatto che seguire la sua segreta volontà. All'inizio inflessibile, il dio è ben presto sempre più commosso dalle preghiere di colei che è la più amata tra le sue figlie, e più ancora dalla sua fierezza: un muro di fiamme proteggerà Brunilde addormentata, un muro che solo l'eroe più forte e valoroso potrà spezzare per risvegliarla e farne sua moglie.

Delle quattro opere della tetralogia, la Walchiria passa da sempre per essere quella preferita da ciò che viene chiamato il grande pubblico. Tutto in effetti in essa è sublime; l'emozione, insostenibile. Il carattere tragico del destino dell'eroe è interamente messo a nudo, e ci commuove tanto più profondamente per il fatto che questo destino si confonde con quello di Wotan. A prima vista l'azione si svolge su un doppio binario, "umano" e "divino". Di fatto, il primo non è che il riflesso del secondo: Siegmund che, all'annuncio della propria morte, rifiuta di seguire la Walchiria nel Walhalla, ove mai Sieglinde potrebbe raggiungerlo, è un "riflesso" terrestre del dio che costretto ad abbandonare la sua ultima illusione, accetta la sua propria fine, e diventa così la coscienza superiore che saprà "prendersi cura della rigenerazione". La spada spezzata dalla lancia del dio è una premonizione ed una prefigurazione della lancia divina spezzata da questa stessa spada che diventerà tra le mani di Sigfrido lo strumento di una fatalità ormai voluta dal dio stesso, giacché la tragedia degli eroi e degli uomini non trova la sua realtà e la sua verità ultime che nella tragedia di Wotan, nella coscienza che sa e nondimeno vuole.

Così, posto che tutto si riassume, che tutto supera se stesso nella coscienza di Wotan, dato che tutti i personaggi del Ring non sono che aspetti del Rein-menschliches, del sovrumano o, nel linguaggio di Wagner, del "puramente umano" che è Wotan, l'Anello del Nibelungo è anche, in fondo, lo psicodramma per eccellenza, il dramma in cui l'immenso genio di Wagner ha proiettato, in una stupefacente intuizione, tutte le "immagini conduttrici" (Leitbilder) con cui qualche decennio più tardi la psicanalisi tenterà di puntellare le sue teorie. La Brunilde addormentata da Wotan è la "segreta volontà", la volontà più intima del dio, il suo indomabile istinto di vita, di amore, di "durata" e di eternità -- questo istinto che noi saremmo tentati di chiamare in linguaggio contemporaneo Es se questa denominazione non ci apparisse particolarmente mal scelta. Parimenti, Fricka è l'"immagine"di ciò che Wotan ha voluto divenire e di ciò che è divenuto: il suo Super-ego costrittivo. Ed a partire da questo, comprendiamo meglio l'ammirevole simbolismo del fuoco che circonda Brunilde addormentata: Wotan, direbbe la psicanalisi, rimuove nell'inconscio una volontà ed un istinto che, lo sa, non possono più che ingannarsi. Questo fuoco che circonda Brunilde non è altro che Logi (19), lo spirito che ha tradito e che domato una volta di più non ha più che un ruolo di strumento di censura e di interdizione. 

Infine, l'allegoria "psicanalitica" ne ricopre un'altra, questa volta "storica". Il Wotan che ha sacrificato la sua volontà più intima, che ha rimosso ciò che amava di più di se stesso, il Wotan che, diventato "viaggiatore", comincerà a percorrere infaticabilmente il mondo per interrogare i segni del tempo (20), è l'immagine stessa del mondo pagano che declina, che accetta come una fatalità dolorosa la maschera "cristiana". Ciononostante, la sua volontà più intima non è morta per sempre; essa dorme -- e la sua presenza incosciente, che invoca colui che saprà risvegliarla, è quella stessa della Musica in seno alla nostra civilizzazione. La "fine" che il dio attende, per farne una "rigenerazione" -- l'inizio di una nuova storia -- non sarà che l'ultimo "effetto" del risveglio della Walchiria addormentata.

Sigfrido

È stato detto che nella grandiosa sinfonia rappresentata dal Ring, il Sigfrido è in qualche modo lo "scherzo" -- l'alba radiosa che fa seguito alla notte di tempesta. Al personaggio di Sigfrido, Wagner ha prestato i tratti dell'eroe mitico uccisore del drago (21), ma altresì quelli di un altro eroe mitico, caro ai racconti popolari tedeschi e mitteleuropei, quello del "ragazzo che se ne andò per il mondo per imparare la paura"; ed ancora, e soprattutto, il carattere (e il destino) dell'eroe di un'epoca che ha dimenticato il suo passato, che lo cerca e che soltanto al momento della sua morte giungerà ad indovinarlo. "Residuo", in una religione nuova, di un dio primordiale, di un Naturgott solare, Siegfried, nel mito wotanico messo in scena da Wagner, resta un eroe "primordiale", che non ha nulla dietro di sé, che non è cosciente di alcun passato, che non vive che l'attualità immediata dei suoi istinti e delle sue passioni, e che, come sempre, ucciderà il drago per essere alla fine ucciso (cfr. Die Wibelungen) da quelli della stirpe del drago (22).

Sieglinde, raccolta da Mime, il fratello di Alberico, è morta dando alla luce Sigfrido. L'Alp nero alleva il fanciullo facendosi passare per «il padre e la madre al tempo stesso» ("Vater und Mutter zugleich"), contando sul fatto che un giorno ruberà per lui il tesoro di Fafner e gli procurerà il "dominio del mondo". Ma Sigfrido non ama affatto Mime; lo spettacolo degli uccelli e delle fiere della foresta gli anno insegnato che il nano schifoso non può essere sua madre e suo padre -- e che non può averlo generato, dato che ogni cucciolo rassomiglia ai suoi genitori («mai un uccello nasce da un rospo!»). Una volta cresciuto, costringe perciò Mime a rivelargli la verità. Apprende così che suo padre, di cui Mime ignora il nome, è stato ucciso in combattimento, che sua madre è morta dandolo alla luce e che i frammenti di spada conservati dal nano sono quelli dell'arma di suo padre. Sigfrido comanda allora a Mime di forgiargli con questi pezzi una nuova spada. L'arte di Mime si rivela però impotente -- e il Viaggiatore, che non è altri che Wotan, predice al Nibelungo, al termine di un crudele gioco di enigmi, una morte prossima. Sigfrido forgia da solo la sua spada, mentre il nano malignamente lo sfida a fare conoscenza con la paura. L'eroe, che non conosce la paura, si lascia guidare da Mime verso la caverna di Fafner, al fine di "imparare" questa sensazione misteriosa, che lo affascina.

Nella caverna, trasformato in drago, il gigante Fafner veglia sul suo tesoro: «giace e possiede». Alberico, che si aggira intorno all'antro del mostro, veglia anch'egli, attendendo l'occasione di riprendere il "suo" bene. Passa il Viaggiatore, provocando il furore di Alberico, che riconosce in lui il suo nemico. Il nano rimprovera al dio di bramare l'oro, di voler assicurare la vittoria di Sigfrido sul drago. Wotan lo rassicura: non è venuto per agire, ma per assistere; ed è di Mime, suo fratello, che Alberico dovrebbe piuttosto diffidare! Con gioioso disprezzo, Wotan richiama quindi Fafner, cui predice la venuta di un eroe che lo ucciderà se non si disfa del suo tesoro. Ma Fafner resta sordo a questa messa in guardia -- come del resto a quella di Alberico, che gli

promette salva la vita in cambio del solo anello. 

Partito il Viaggiatore, Alberico si nasconde dietro una roccia. Sigfrido arriva, accompagnato da Mime che gli indica la caverna del drago per poi allontanarsi. Sigfrido si addormenta ai piedi di un albero. Quando si sveglia, è solo -- e la foresta mormora dolcemente. Sigfrido si interroga come in sogno sulle sembianze della madre; poi il canto di un uccello lo distrae, e cerca di imitarne il canto, con una canna, con un corno... Ma riesce solo a risvegliare il drago, che cerca di divorarlo. Sigfrido allora lo uccide immergendogli la spada nel petto. Di colpo, avendo leccato sulle sue dita il sangue bruciante del drago, Sigfrido comprende improvvisamente il canto dell'uccello, che lo esorta ad entrare nella caverna per impadronirsi del tesoro, e ne segue il consiglio. Mime esce allora dal suo nascondiglio e si appresta a seguire Sigfrido, quando Alberico gli sbarra la strada, provocando una disputa ridicola, in cui ciascuno dei fratelli reclama il suo diritto al possesso dell'oro. Dopo di che, i due nani si allontanano, mentre Sigfrido riappare, l'anello al dito, l'elmo magico alla cintura.

Questa volta, l'uccello lo mette in guardia contro Mime, ritornato a proclamare il suo "amore" per Sigfrido, che lo invita a bere una pozione rinvigorente che gli ha preparato. Ma l'eroe intende ora, dietro le parole menzognere di Mime, i suoi propositi omicidi (giacché la pozione è avvelenata) e con un colpo di spada abbatte il traditore. L'uccello vola via, invitando Sigfrido a dirigersi verso la roccia circondata da fiamme che solo potrà spezzare colui che non ha ancora appreso la paura. Sigfrido lo segue con una gioia straboccante: «Là dove tu volerai, io ti seguirò!».

Ai piedi di una montagna rocciosa, in una notte di tempesta, il Viaggiatore costringe Erda, con la sua invocazione, ad uscire dal suo sonno eterno e a comparire davanti a lui. Da colei il cui «sonno è sogno, e il sogno riflessione, e la riflessione amministrazione del sapere», Wotan vorrebbe apprendere «come il dio possa superare la sua angoscia» ("Wie besiegt die Sorge der Gott"). ma Erda non conosce la risposta. Ormai, constata Wotan, persino il sapere della Madre di tutto ciò che è declina, si piega davanti alla volontà del dio. Lui, Wotan, non teme più la fine degli dèi, ed è liberamente, gioiosamente, che dà esecuzione alle decisioni un tempo prese nel dolore più violento. La sua eredità la vota all'eroe che ha conquistato il tesoro del Nibelungo e che ben presto si unirà a Brunilde. Qualsiasi cosa possa succedere «il dio cede nella gioia all'eterna giovinezza» ("dem ewigen Jungen weicht in Wonne der Gott").

Non appena Erda è scomparsa, Sigfrido fa la sua apparizione. È solo: l'uccello che lo ha accompagnato fino a là è partito. E' dunque al Viaggiatore che si rivolge per chiedere il cammino che porta alla roccia circondata dalle fiamme. Gli racconta le sue avventure, ma il vegliardo sembra burlarsi di lui. Altero ed impetuoso, gli ingiunge di togliersi dalla sua strada, e il Viaggiatore gli rivela di aver un tempo spezzato la spada che il giovane regge in pugno. I due si affrontano. La lancia di Wotan vola in pezzi. «Vai per la tua strada! Non posso fermarti!» ("Zieh hin! Ich kann dich nicht halten") gli lancia il dio prima di scomparire.

Spezzata la barriera di fiamme. Sigfrido, ai piedi di un albero, scopre un «uomo in armi» ("in Waffen ein Mann"), addormentato, il cui volto è celato dall'elmo. Esitando, lo slaccia, e toglie la corazza allo sconosciuto, e si rende conto di trovarsi in presenza di una donna. Subitamente infiammato d'amore, crede di conoscere infine la paura. Bacia Brunilde: la magia di un istante sacro invade l'altezza silenziosa, mentre la Walchiria, finalmente risvegliata, saluta il sole e la luce del giorno ("Heil dir, Sonne! Heil dir, Licht!"), poi lascia esplodere la sua gioia alla vista di colui che ha tanto atteso e che essa ama da tanto tempo («Tu eri il mio solo pensiero... prima ancora che fossi concepito»). Il ricordo della sua divinità perduta turba Brunilde un breve istante, la passione di Sigfrido spaventa la vergine guerriera, poi anche in essa la passione esplode, selvaggiamente. Sarà il turno di Sigfrido ad aver paura? No, l'eroe ha già dimenticato questa sensazione appena intravista! Uno slancio irresistibile unisce la coppia meravigliosa in

una promessa di amore eterno.

Il Crepuscolo degli Dei

Contrariamente a Siegmund, che sapeva da dove veniva, che portava in sé l'immagine di suo padre. Sigfrido ignora tutto delle sue origini. Ha soltanto indovinato che Mime non poteva essere «suo padre e sua madre», e l'ha ucciso. Per lui, nessuna "necessità" è stata sapientemente arrangiata in anticipo dal dio. È interamente libero. E Wotan, che l'ha messo alla prova per averne la certezza, ha visto la sua lancia magica, simbolo del potere, andare in pezzi. In compenso, per il fatto di non avere un passato, Sigfrido non ha neppure un avvenire. La sua natura "primordiale" fa di lui, nell'era di Wotan, una sorta di eroe nichilista, che non esita a distruggere il mondo putrido di cui non riconosce i valori, ma che non possiede alcun fine. La "redenzione" che assicurerà involontariamente con la sua morte non è pertanto legata che ad una distruzione. Essa è la condizione necessaria, ma non sufficiente, della "rigenerazione del mondo" di cui Wotan ha concepito il disegno.

Da qui, tutto si chiarisce. La "colpa" di Wotan, la colpevole sete di dominio e di ricchezze senza fine di Alberico e dei giganti, non sono la causa del ragnarök, del fatale crepuscolo degli dèi e del mondo (23). Ne hanno al più determinato il momento, la modalità. La fine era iscritta nelle cose sin dall'inizio. Ora, nel "presente" della Götterdammerung, percepiamo la verità. Ai piedi di Yggdrasill, il frassino perno del mondo, le tre Norne sentono montare in loro un terrore sacro. Tessendo il filo del destino, si interrogano su tutto ciò che è stato, che avviene e che sarà. Ed ecco che sorgono i loro ricordi. Prima che il regno degli dèi iniziasse, prima che la storia non fosse cominciata, Wotan si era recato presso presso la sorgente che sgorga ai piedi di Yggdrasill, e aveva bevuto della sua acqua, al fine di acquisire un sapere di cui uno dei suoi occhi fu il "prezzo". Avendo spezzato un ramo del frassino del mondo, ne aveva fatto una lancia, sulla quale aveva impresso le rune della conoscenza, e l'arma, tra le sue mani, era divenuta la garanzia dei contratti tanto quanto lo strumento della sua potenza (24). Ora, noi sappiamo sin dall'inizio perché Wotan ha voluto sacrificare un occhio, acquisire la sapienza, e di per ciò stesso la potenza. A Fricka che gli rimproverava di aver dato in pegno Freya per far costruire il Walhalla, l'Alp-di-luce ha risposto: ««Come puoi dire che io disprezzi l'amore e la donna? Non è per ottenerti come moglie che ho sacrificato un occhio?». Se Wotan bramava il sapere e la potenza, fu dunque per amore -- e precisamente per amore di Fricka. 

L'amore, solo mezzo della Erlösung, della "redenzione", è anche il principio che, sempre, chiama una "fine". Agli occhi di Wagner, amore e morte sono indissolubilmente legati, sono la legge stessa della vita. Nella concezione wagneriana, l'amore non è caritas, ma amor, cioè eros, geschetliche Liebe, amore sessuale, fusione e superamento dei contrari complementari nati da una stessa matrice -- espediente che solo permette alle creature umane di pervenire alla loro totalità, alla loro propria perfezione. E la vita, di cui questo amore è la legge e metafora suprema, è eterna alternanza: "tutto ciò che vive, muore" -- è così, e bisogna che sia così. Esserne coscienti, in ogni momento, senza cercare rifugio nell'oblio e nell'illusione, e nondimeno, ad ogni momento, accettare ed affermare la vita, è pervenire -- al di là della vita stessa -- alla dimensione tragica dell'umano e della storia, conquistare la vera "pura umanità", la status "divino", la coscienza che nessun animale possiede né potrebbe possedere (25).

Una tale visione della vita spaventa persino le divinità primordiali, che, nell'"era di Wotan", perpetuano e rappresentano il "primo uomo". Quando il filo del destino si rompe, annunciando la prossima fine del mondo, le Norne fuggono, terrorizzate, nel ventre della terra, presso la loro madre Erda. immersa nel suo sonno eterno. Infatti, il momento della fine si avvicina.

Sigfrido ha conquistato l'anello. L'ha dato in pegno di amore a Brunilde, che gli ha trasmesso la scienza delle "rune sacre" (heilige Runen) e che lo esorta a nuove imprese eroiche, a nuove vittorie. Sigfrido parte dunque nel mondo, trascinato e guidato dal suo ardore esuberante, giurando alla Walchiria eterna fedeltà. Ma già i tempi si oscurano. Hagen, il figlio di Alberico, spera di perdere Sigfrido e di recuperare l'anello, e tesse la sua trama. Il suo fratellastro, Gunther, re dei Gibichungen, non ha moglie, perché non ne trova alcuna che sia degna di lui. Sornionamente, Hagen gli parla di Brunilde, «la donna più meravigliosa del mondo» ("das herrlichste der Welt"), una donna che un fuoco insuperabile protegge e che Gunther stesso non saprebbe conquistare. Soltanto Sigfrido, prosegue Hagen, potrebbe realizzare questa prodezza; e senza dubbio accetterebbe di farlo per Gunther, se gli si desse per sposa la bella Gutrune, sorella del re, che anch'essa si strugge di non essere sposata. 

È a questo momento che Sigfrido arriva alla corte dei Gibichungen. Sempre altrettanto impetuoso ed ingenuo, ingiunge a Gunther di divenire suo amico o di battersi con lui. Su consiglio di Hagen, Gutrune offre da bere all'eroe un filtro di amore e di oblio. Subito Sigfrido si innamora di lei e la chiede in sposa. Questo "filtro", come tutti i filtri dei drammi wagneriani, non è che un simbolo. Sigfrido, l'eroe senza passato, non ha memoria, non vive che nel "presente" (nell'attualità dell'istante vissuto, diremmo in linguaggio non-lineare) (26); è sempre in preda ai moti che si susseguono nella sua anima. Un "patto" è presto sancito: Sigfrido, cui l'elmo magico darà le sembianze di Gunther, vincerà la resistenza di Brunilde e la offrirà al re, cui si lega nella "fraternità di sangue" -- mentre Hagen, prendendo a pretesto l'"impurità" del suo sangue, si astiene dal partecipare al giuramento. 

Sulle alture montagnose, Brunilde vive nell'attesa del ritorno di Sigfrido. Un'altra Walchiria, sua sorella Waldtraute, appare di fronte a lei e la supplica di rendere l'anello alle Figlie del Reno, al fine di «salvare gli dèi e il mondo». Waldtraute dipinge l'infinito sgomento di Wotan, da quando è tornato nel Walhalla con in mano i pezzi della sua lancia. Ai guerrieri riuniti nel Walhalla, ha ordinato di abbattere il frassino perno del mondo e di farne un immensa catasta ardente tutto intorno al "recinto sacro", poi, in quel recinto, ha riunito il consiglio degli dèi, e da allora attende in silenzio, senza più toccare i pomi della giovinezza, mentre un terrore infinito opprime gli dèi e gli eroi. Ma questo racconto non giunge a toccare il cuore di Brunilde: mai ella sacrificherà l'anello., pegno dell'amore di Sigfrido, mai lo priverà del suo amore «dovesse il radioso splendore del Walhalla cadere in rovina» ("stürzt'auch in Trummern Walhalls strahlende Pracht").

Scoppia una tempesta. Le fiamme circondano le alture che salgono verso il cielo, più furiose che mai. Un guerriero si avvicina, le oltrepassa. Non è Sigfrido! Avvicinatosi a Brunilde, le ingiunge di seguirlo e di divenire sua moglie. In vano la Walchiria tenta di rifiutarsi, l'uomo la piega al suo volere e le sottrae l'anello -- senza tuttavia toccarla, dato che Notung, la spada di Sigfrido separa la Walchiria e colui che , conformemente al suo giuramento, la destina a Gunther, di cui ha preso le sembianze. 

Di fronte al palazzo dei Gibischungen, dove monta la guardia, Hagen vede in sogno apparire Alberico. Costui, ricordandogli l'"ingiustizia" di cui è stato vittima, reclama vendetta. Chiede a Hagen di uccidere Sigfrido e di impadronirsi dell'anello. Tetramente, Hagen lo rassicura: ha giurato a se stesso di impadronirsi dell'anello fatale, e di tenerlo per sé. Al ritorno di Sigfrido, una esultanza selvaggia si impadronisce di Hagen. Con il suo corno, il figlio di Alberico chiama gli uomini di Gunther, che si precipitano in armi intorno a lui, credendo il loro signore minacciato da qualche nemico. Con gioia maligna, Hagen li lascia per qualche tempo nell'incertezza, poi li invita a preparare i sacrifici nuziali per Gunther e Brunilde, e per Sigfrido e Gutrune. Tutti sono presto riuniti -- e si realizza così il malefico piano immaginato da Hagen. 

Brunilde, che segue Gunther, irrigidita nella umiliazione più profonda, scorge improvvisamente Sigfrido al fianco di Gutrune, al tempo stesso che riceve l'annuncio dei loro sponsali e delle nozze imminenti. In un lampo, l'anello al dito di Sigfrido le rivela la sconvolgente verità: è Sigfrido, non Gunther, che l'ha vinta! A tutti i presenti, la Walchiria grida la verità; denuncia la frode, il tradimento, e rivela anche di essere stata moglie di Sigfrido. Ma questo nega ferocemente. Non ha più alcun ricordo del suo primo incontro con Brunilde, e quando Hagen lo invita a prestare giuramento sulla sua lancia, non esita un istante. Trascinata da un furore selvaggio, Brunilde giura a sua volta di aver detto il vero. Sigfrido, noncurante, la dichiara allora "malata", ed invita gioiosamente Gunther a "guarirla": un giorno, certamente, la donna le sarà grata di averla conquistata per il re! Restato solo con Hagen e Brunilde, umiliato davanti al suo popolo dalle rivelazioni di Sigfrido, che hanno fatto conoscere a tutti l'estensione della sua frode, Gunther ascolta il suo fratellastro che gli consiglia di lavare l'onta nel sangue di Sigfrido. Brunilde stessa, per vendetta, reclama la morte dell'eroe. Gunther, il debole, però esita: Sigfrido è diventato il suo fratello di sangue, e non è sicuro che lo abbia tradito. Non si lascia convincere che allorché Hagen gli rivela il potere dell'anello, che potrebbe assicurare a lui, Gunther, il dominio del mondo. Avendo Brunilde rivelato che Sigfrido è invincibile, invulnerabile, e che non può essere abbattuto se non con un colpo alla schiena (27), viene deciso che se ne incaricherà Hagen, nel corso di una caccia, così che sarà possibile dire a Gutrune che Sigfrido è stato ucciso da un cinghiale. La vendetta è decisa: Gunther, Hagen e Brunilde lo giurano solennemente: "Così sia! Che Sigfrido soccomba!" ("So soll es sein! Siegried falle!).

Là dove il Reno, ai piedi di un massiccio scosceso, traversa una vallata ricoperta di foreste, le Figlie del Reno cantano nostalgicamente, sulla superficie delle acque, la perduta purezza delle origini. Improvvisamente, Sigfrido appare. Si è perduto durante la caccia, inseguendo un orso. Un dialogo birichino si intreccia tra l'eroe e le tre Ondine. Queste vorrebbero che Sigfrido facesse loro dono del suo anello d'oro, ma Sigfrido rifiuta, con il pretesto dei rimproveri che gli muoverebbe Gutrune. Le fanciulle spariscono allora nel fiume burlandosi di lui. Quando riappaiono, Sigfrido, indispettito, offre loro il suo anello. Ma le fanciulle non ne vogliono sapere; non prima, quanto meno, che l'eroe abbia appreso dalla loro bocca la sorte che lo attende: se rifiuta di dare l'anello, morirà prima del tramonto. Non ci vuol altro perché Sigfrido rifiuti di nuovo di disfarsi dell'anello, che avrebbe potuto cedere per amore, ma che non cederà mai sotto minaccia; la paura non l'ha mai conosciuta; «vita e corpo» ("Leben und Leib"), come una zolla di terra, li getta lontano da sé!

Allontanatesi le Figlie del Reno, sopraggiungono Hagen, Gunther e gli altri cacciatori, che sono preoccupati per aver perso di vista Sigfrido. Tutti si dispongono a fare una sosta -- e Hagen, secondo il suo piano, chiede a Sigfrido se è vero che comprende il canto degli uccelli. L'ero gli risponde di no: "da quando ho ascoltato il canto delle donne, ho dimenticato quello degli uccelli. Tuttavia, riportato al ricordo della sua gioventù, Sigfrido si offre di raccontare la sua storia -- proposta che gli altri accettano con gioia. Il figlio di Siegmund evoca dunque la sua infanzia con Mime, il modo in cui forgiò la sua spada, la lotta con il drago, la vendetta sul Nibelungo. Hagen gli fa quindi bere un "filtro del ricordo" affinché «non ometta nulla del lontano passato». Subito, Sigfrido ritrova la memoria! Si ricorda del suo primo incontro con Brunilde, e lo racconta con rapimento, provocando lo stupore generale. Hagen ne approfitta per colpire Sigfrido con un colpo di lancia nel dorso, per allontanarsi poi, proclamando di aver «vendicato il falso giuramento». Colpito dal dolore, Gunther si china su Sigfrido che, prima di morire, come trasfigurato, evoca un'ultima volta il suo incontro con Brunilde ed il bacio che la svegliò. 

Una volta caduta la notte, nel palazzo dei Gibichungen, Gutrune attende il ritorno dei cacciatori. Si preoccupa tanto più che ha scorto una donna, certamente Brunilde, discendere verso il Reno. Improvvisamente risuona il tetro appello del corno di Hagen, che presto appare,

annunciando che Sigfrido è stato ucciso da un cinghiale. Sopravviene poi Gunther, con il corteo funebre che circonda la spoglia dell'eroe. 

L'azione precipita. Accorgendosi che è stato ucciso da un colpo di lancia, Gutrune, resa folle dal dolore, accusa suo fratello di assassinio. Il re si schernisce e rigetta la colpa su Hagen che da parte sua non esita a rivendicare l'uccisione ed a rivendicare l'anello facendo valere il suo "sacro diritto al bottino" ("heiliges Beuterecht hab'ich mir nun errungen"). Volendo preservare l'"eredità"della sorella, Gunther cerca di opporsi. Hagen lo uccide, ma quando cerca di impadronirsi dell'anello, la mano di Sigfrido si leva, minacciosa, provocando l'orrore dei presenti. 

È allora che si avanza Brunilde, di ritorno dal Reno; ella, la vera sposa di Sigfrido, cui il dolore ha reso la sapienza delle figlie di Erda, saprà vendicare l'eroe. Gutrune, apprendendo la verità sul primo incontro di Brunilde e di Sigfrido, maledice Hagen che ha ordito il complotto, e si getta sul corpo di suo fratello. Brunilde, contemplato lungamente il viso di Sigfrido, poi dominando la sua tristezza, esalta con voce solenne il coraggio e la fedeltà di colui che, simile a nessun altro, rispettò tutti i suoi giuramenti, ed eppure, senza averlo voluto, dovette tradirli. Agli dèi che li votarono, lei e Sigfrido, alla maledizione, invia i due corvi portatori del messaggio desiderato: la fine del mondo è giunta -- e il fuoco della catasta dove brucia il corpo di Sigfrido è lo stesso che infiammerà «il borgo splendente del Walhalla». Brunilde stessa, montata a cavallo, si getta sulla pira ardente, per unirsi a Sigfrido «nel più potente amore» ("in mächstiger Minne"). L'incendio raggiunge la reggia dei Gibichungen. Tutto crolla, le acque del Reno si gonfiano, invadono la terra. Hagen fa un ultimo tentativo di impadronirsi dell'anello (28), ma le figlie del Reno lo trascinano con se negli abissi del fiume. Nel cielo, a sua volta il Walhalla prende fuoco. Le fiamme circondano Odino e gli altri dei riuniti in assise. Tutto è finito.

Allora, dalla fossa dell'orchestra (29) si leva un Leitmotiv, che era sinora risuonato che una sola volta, nella Walchiria (III, 1), quando Sieglinde, avendo appreso che porta in seno il figlio di Siegmund, esclama, rivolta a Brunilde: «O mistero supremo! Vergine magnifica! È a te, alla tua lealtà che devo questo questa sacra consolazione! Io salvo nel mio seno ciò che è più caro a colui che amavamo!». Questo Leimotiv è l'inno alla vita che ri-nasce, che si perpetua, simile nella forma e purtuttavia sempre diversa. Nel Crespuscolo degli Dei, succedendo al frammischiarsi dei motivi conduttori della potenza degli dèi e delle acque originali, costituisce il simbolo musicale, enigmatico ed "aperto", della rigenerazione, del "mistero supremo" che Wagner ha voluto affidare unicamente alla musica, e, nello stesso tempo, l'evocazione della ancestrale visione dell'Edda, secondo cui tre figli di Wotan, sfuggiti alla catastrofe del ragnarök, ritrovano le antiche "tavole degli dèi" -- e costruiscono un mondo nuovo (30).

Giorgio Locchi

Segue Appendice al Ring secondo Giorgio Locchi di Stefano Vaj

(1) Il Ring des Nibelungen, grande rappresentazione operistica, teatrale e letteraria composta da una "vigilia" (Das Rheingold) e tre "giornate" (Die Walküre, Siegfried, e il Götterdämmerung)

rappresenta una pietra miliare, e in un certo senso il compimento di tutta la parabola della grande musica europea, la musica tonale e polifonica che va dai contemporanei di Johann Sebastian Bach a Mozart, a Beethoven sino a Richard Strauss e Carl Orff. Opera complessa e "maledetta" quanto poche altre, fa parte con il Parsifal del programma fisso dell'annuale festival di Bayreuth voluto da Wagner come rito sacrale di rigenerazione della storia, la cui costante ripetizione è stata interrotta unicamente dalla censura degli occupanti alleati negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Come ben illustra Locchi, il Ring rappresenta simbolicamente, insieme con Also Sprach Zarathustra (versione italiana Web, versione originale Web, versione italiana cartacea, versione originale cartacea) l'irruzione sulla scena europea di uno Zeitumbruch, una "discontinuità" con la visione del mondo dominante da quasi duemila anni, di una tendenza storica radicalmente nuova, e che pure si riallaccia a radici che affondano nel passato più lontano, ai miti fondatori stessi della cultura indoeuropea.Le originarie manifestazioni artistiche e filosofico-religiose di tale tendenza non tarderanno, a cavallo della Grande Guerra, ad esplodere anche sul piano politico, culturale e di costume, dalla poetica di di Stefan George, al dannunzianesimo, alla cosiddetta Konservative Revolution, per giungere al futurismo, al "romanticismo d'acciaio" francese ed alle rivoluzioni nazionali, sino alla Passione consumatasi con la fine del secondo conflitto mondiale ed alla aperta repressione successiva.L'occultamento, il travisamento e l'oblio del significato profondo di tali opere non ne impedisce d'altronde la costante "riscoperta".Con la “primaâ€? scaligera del S. Ambrogio 1999 dedicata al Crepuscolo degli Dei -- “primaâ€? curiosamente "in sordina" rispetto al consueto risalto mediatico e "sociale" tributato ogni anno all'evento clou del dicembre milanese --, si è in particolare concluso il viaggio di Riccardo Muti che l'ha visto passare negli anni attraverso tutta la Tetralogia, di cui perciò i nostri lettori milanesi hanno avuto recente occasione di fare diretta conoscenza nella loro stessa città. [Nota del Traduttore]

(2) «Wagner seduce o ripugna, suscita l'amore o l'odio, il coinvolgimento o il rifiuto. Nessun altro compositore ha suscitato una simile devozione. Nessuno quanto lui è stato associato ad idee di culto, di divinità, di tempio, di redenzione. Se esiste una religione della musica, per parlare come Camille Mauclaire, si tratta a colpo sicuro della sua. Si parla del teatro di Bayreuth come di un santuario. Tutti sanno che là una folla si riunisce per assistere al Parsifal, senza applaudire. Una rappresentazione wagneriana prende, lo si voglia o no, il carattere di una cerimonia, di una solennità, di un rito. L'esecuzione della sua opera è l'elevazione di un altare all'autore, sacrificare al dio. Quest'opera è un mistero che domanda un'iniziazione». (Jean Matter, Wagner l'enchanteur, La Baconnière, Neuchâtel 1968). [Nota dell'Autore]

(3) Questo articolo è stato pubblicato in francese da Giorgio Locchi sul n. 30 di Nouvelle Ecole, nell'autunno-inverno del 1978, all'apice dell'influenza del filosofo italiano sulla corrente culturale che sarà di lì a poco battezzata dai media internazionali Nuova Destra, i cui principali esponenti, da Alain de Benoist a Guillaume Faye, usavano trovarsi nella sua casa di Saint-Cloud a Parigi ad ascoltarlo parlare per lunghe serate; una feconda stagione malauguratamente interrottasi proprio con l'accendersi dei riflettori della stampa mondiale, e tra i cui frutti migliori troviamo l'operetta debenoistiana su Nietzsche (tradotta in italiano con il titolo Nietzsche, morale e grande politica, Il Labirinto, Sanremo 1980).La presente esegesi del Ring si inserisce in un complesso studio pubblicato sulla rivista citata (che ha dedicato interamente a Wagner anche il numero doppio successivo, n. 31-32), avente per oggetto il significato in generale dell'opera wagneriana nel quadro della corrente filosofica, artistica e politica che l'autore definisce "sovrumanista". Tale studio costituirà la premessa ed il nucleo dell'opera pubblicata parecchi anni dopo direttamente in italiano, per i tipi della LEdE-Akropolis, sotto il titolo Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista, cui Maurizio Cabona riuscì ad ottenere un'introduzione di Paolo Isotta, che fu all'origine di un fecondo scambio tra il filosofo ed il più noto critico musicale italiano, che all'epoca lavorava già al Corriere della Sera. L'opera in questione, insieme con L'essenza del

fascismo (Edizioni Arktos, Roma 1980, poi ripubblicata in l'Uomo libero n. 53, marzo 2002, con il titolo "Espressione politica e repressione del principio sovrumanista"), ha consacrato Locchi, scomparso nel 1992 (v. l'omaggio di Gennaro Malgieri in occasione della sua morte), come uno dei pensatori non-conformisti più significativi ed originali di tutta la seconda metà del secolo. La scarsissima prolificità dell'autore -- di cui resta tuttora inedito un saggio sul pensiero di Heidegger cui ha lavorato sino agli ultimi giorni di vita, e di cui chi scrive ha avuto la fortuna di ascoltare alcuni stralci -- è compensata infatti dall'estrema "densità" dei suoi scritti, che continuano a pesare come macigni, anche per la profondità e la semplicità folgorante del suo stile, che lo situa molto al di sopra del ruolo di intellettuale, glossatore od enciclopedista in cui si sono spesso rinchiusi anche coloro da Locchi stesso sono stati profondamente influenzati nel corsi degli anni. La "pigrizia" sfoggiata come un vezzo da Giorgio Locchi tradiva in effetti lo sforzo costante di approfondimento (vedi ad esempio la intensissima frequentazione di Nietzsche in versione originale) e soprattuto di revisione, per piegare nei suoi scritti il linguaggio ad esprimere nella forma più semplice e coerente concetti originali, "originari", di cui una visione del mondo ancora in fase "mitica", e perciò costretta nella sua riflessione su se stessa ad utilizzare la lingua di un mondo ad essa estraneo, essendo ancora priva di un "linguaggio proprio". Per rendersi conto dei risultati, è sufficiente del resto rileggere i suoi altri articoli già pubblicati da l'Uomo libero. Tra le altre opere pubblicate in italiano ricordiamo Il male americano, pubblicato sempre da LEdE-Akropolis, (in collaborazione con Alain de Benoist). La pubblicazione del presente articolo costituisce anche un omaggio alla memoria dell'autore ed alla sua perenne (in-)attualità [Nota del Traduttore].

(4) La durata totale di una rappresentazione della Tetralogia supera le quindici ore. Trentaquattro personaggi prendono parte all'azione. Tra loro, ventidue non appaiono che in una sola opera; i più importanti (Wotan, Brunilde, Alberico) non intervengono direttamente che in tre di esse. Solo l'antichità greca offre dei precedenti paragonabili ad un lavoro di tale ampiezza. Difatti, Wagner è stato in questo spesso paragonato ad Omero (salvo eventualmente concludere come von Karajan che "Wagner è più grande" e anche "più completo).Per la sua durata, la sua suddivisione in parti semiautonome, il tenore della narrazione, il Ring non manca di affinità con il ciclo rappresentato dall'Iliade e dall'Odissea. Come i Greci parlavano del "divino Omero", Mallarmé, in un celebre "omaggio" pubblicato nella Revue wagnérienne (gennaio 1886) scriveva «Trompettes tout haut d'or pamé sur les velins/ le dieu Richard Wagner irradiant un sacre/ Mal tu par l'encre même en sanglots sybillins» ("Trombe spiegate d'oro che svine sulle veline/il dio Richard Wagner che irradia un sacro/ mal taciuto dall'inchiostro stesso, in singhiozzi sibillini"). [Nota di Nouvelle Ecole. Questa nota, come le analoghe seguenti, è stata aggiunta al testo originale dell'autore in sede di prima pubblicazione dell'articolo. Il tenore delle stesse, nonché il ruolo del tutto particolare di Alain de Benoist proprio con riferimento alla rivista in questione, inducono ad attribuirle a quest'ultimo]

(5) Wagner è da molti considerato il compimento della grandiosa avventura, maturata in un breve volgere di secoli, della cosiddetta "musica classica", che lungi dal presentarsi come un fenomeno universale costituisce il portato di una specifica epoca, cultura ed area geografica, senza equivalente alcuno in altre ere o civiltà. In effetti, anche nell'Europa pre-bachiana, la musica che la Chiesa aveva imposto all'ecumene cattolico riposava sulla ripetizione di una tradizione greco-romana d'origine fondamentalmente mediterranea ed orientale, al cui riguardo si può parlare di sensibilità esclusivamente melodica.Ora, poco dopo l'epoca carolingia e la conversione forzata seguita al massacro dei Sassoni ed alla restaurazione dell'impero, un'altra sensibilità musicale, questa volta armonica, comincia a penetrare nell'universo sino a quel momento chiuso della musica di chiesa. Quale ne era l'origine? In Das Atlantis Buch des Musik (Atlantis, Zürich-Freiburg 1934), Fred Hamel parla, a proposito dei paesi del nordeuropa, di una "cultura musicale indigena... portatrice di una tradizione pagana". La Chiesa non poteva non considerare questa tradizione come una forza

reazionaria ostile; si sforzò dunque, nella misura del possibile, di reprimerla, e per secoli riuscì a confinarla in una pratica popolare appena tollerata. Ma la "sensibilità armonica" riuscì progressivamente ad abbattere le mura del ghetto in cui la si voleva rinchiudere. e ad "invadere" le forme stesse della musica sacra. È da questa opposizione tra la Chiesa e la "cultura musicale indigena" che sorse l'Auseinandersetzung di cui parla Georgiades -- e da cui finirà per emergere, nel corso dei secoli, il sistema tonale. [Nota dell'Autore].

(6) La musica tonale trova il suo effettivo atto di nascita nella "artificiale" parificazione degli intervalli compresi nell'ottava, del "clavicembalo ben temperato" di Bach, operazione da cui proviene tutta la musica occidentale successiva, con la sola eccezione della musica dedecafonica, e della musica atonale in generale, ma inclusa tutta la musica leggera, popolare e di consumo contemporanea. Essa affonda d'altra parte le sue radici nella Riforma luterana, che marca, nei paesi tedeschi, la fine del canto gregoriano e dei "modi" medievali. Per Lutero (la cui celebre cantica Ein feste Burg ist mein Gott, "Una salda rocca è il mio dio", sarà ripresa da Bach all'inizio della sua cantata n. 80) la musica è una "grazia divina", parente prossima della teologia e della filosofia -- un mezzo di espressione sovrano. Permettendole di emanciparsi dal quadro costrittivo dei canoni gregoriani, il fondatore del protestantesimo tedesco avrà contribuito a liberare un elemento musicale di cui la Chiesa aveva sempre temuto il carattere "lascivo" e "sovrumano" (fino al punto che il gesuita Conzenio, morto nel 1635, rimprovererà a Lutero di aver condotto più anime alla perdizione con la musica che con tutti i suoi sermoni riuniti!). Nelle sue famose Betrachtungen eines unpolitischen [trad. Italiana: Le considerazioni di un impolitico, che Adriano Romualdi in Il fascismo come fenomeno europeo pone tra i manifesti fondatori della Konservative Revolution, prima e anche dopo la "conversione" democratico-umanista dell'autore, NdT], Thomas Mann ha lungamente celebrato il "verbo sonoro" dello spirito della Riforma: «Con la sua prodigiosa polifonia, i suoi esempi potenti ove la fantasia più capricciosa si allea alla sottomissione più disciplinata, essa ben ci presenta l'immagine sorprendente. il simbolo vivente in cui si riconosce, come in uno specchio, l'anima tedesca». [Nota dell'Autore]

(7) La mitologia nordica e germanica, fondamentalmente unitaria, è sopravvissuta come noto quasi solo nella versione nordica. A partire dalla terribile repressione seguita alla battaglia di Verden ed allo sterminio e conversione forzata dei Sassoni da parte di Carlomagno la religione dei Germani veniva pressoché cancellata, almeno nelle sue fonti tradizionali e nella memoria storica cosciente, se non dall'inconscio collettivo, delle popolazioni stanziate tra il Reno e l'Elba, con un grandioso tentativo di genocidio culturale senza precedenti nella storia -- certo non nell'area mediterranea dove la classicità greco-romana, per quanto non pacificamente, riesce comunque a tramandarsi, e potrà essere in gran parte riscoperta a partire dall'Umanesimo. I miti dell'Europa centro-settentrionale ci sono giunti perciò soprattutto nella versione contenuta nelle tardissime fonti provenienti dall'Islanda, tra cui spiccano sopra ogni altra l'Edda di Snorri (di cui l'Università di Verona sta preparando un'edizione critica digitale), l'Edda poetica e la Saga dei Volsunga.Tali fonti non sono altro che la trascrizione dei miti degli dèi e degli eroi tramandati oralmente dai Vichinghi emigrati verso l'Ultima Thule islandese per sfuggire alla conversione imposta dalla monarchia norvegese ai fini del suo progetto di centralizzazione politica, miti ancora vivi in Islanda sino al basso medioevo, quattro o cinquecento anni dopo Carlomagno. Non è perciò una sorpresa che tali miti sono penetrati nella cultura contemporanea soprattutto in tale forma -- sino ad arrivare al cinema, ai fumetti (cfr. il personaggio di Thor nei fumetti della Marvel Comics) ed ai cartoni animati -- e non nel poco che ci è giunto di quella germanica, che anzi è sopratutto nota nella trasposizione wagneriana e confusa tout court con essa. Per favorire la comprensione del lettore, oltre ai nomi divini wagneriani e germanici (es. Wotan), riportiamo perciò il loro più noto equivalente norreno (nell'esempio, Odino). [Nota del Traduttore]

(8) L'ambientazione del Ring nello spazio mitologico delle origini germaniche, così come il

riferimento di Nietzsche alle origini della Ellenità ed ancora più in là alle radici indoeuropee emerse alla luce per la prima volta nell'Ottocento attraverso le acquisizione della linguistica, dell'archeologia e dell'antropologia, così come ancora i richiami di altri alla Romanità della Fondazione tramandata da Tito Livio, etc., non costituisce un tentativo di replicare o resuscitare meccanicamente ciò che è morto, ma corrisponde ad un assioma preciso della tendenza sovrumanista e della visione tridimensionale del tempo storico, per cui esiste un rapporto diretto, quasi di proporzionalità diretta, tra la radicale novità del messaggio di cui ci si fa portatori, tra la grandezza dell'avvenire, del progetto e del destino che ci si sceglie, tra i mille possibili, e il richiamo al passato più remoto -- non solo nel senso di passato lontano cronologicamente, ma nel senso di passato originario, primevo, ancestrale.In questo quadro concettuale, la profondità storica di tale richiamo al tempo stesso costituisce la misura del "gradiente rivoluzionario", della alterità della nuova tendenza rispetto a quella dominante; e definisce, da quanto affondano le radici, le dimensioni dell'"albero" di cui chi aderisce al nuovo sentimento del mondo si propone di essere il seme.Questo tipo di richiamo alle origini (pur essendo con essi storicamente apparentato e "politicamente" frammisto) finisce così per essere ben distinto tanto dalla Sehnsucht o nostalgia per il "passato prossimo" propria del movimento romantico, che dall'attaccamento a "ciò che del passato è ancora presente nell'attualità" che è proprio del tradizionalismo. Le radici che la tendenza sovrumanista fa proprie costituiscono viceversa lo strumento rivoluzionario che rende possibile un rifiuto radicale del presente, tanto nella sua attualità, che nel suo passato, che nei suoi possibili e "progressivi" sviluppi a venire. La dialettica "conservazione-progresso" risulta altrettanto estranea alla nuova prospettiva quanto quella tra "buoni" e "cattivi". Il richiamo delle origini è cioè in Wagner (e in Locchi!) ispirazione "magica", richiamo esemplare, non ad una ripetizione, ma alla possibilità di un "nuovo inizio", all'avvento di una nuova epoca di "eroi fondatori". All'epoca dei "nuovi dèi" di cui parla Hölderlin, che attendono in nuova alba chi avrà saputo vegliare nella notte più profonda. [Nota del Traduttore]

(9) In tedesco die Alben, singolare der Alp. Cfr. l'alto norreno alfr, l'anglo-sassone oelf, l'anglico elf, l'islandese alfar, termini che designano gli "spiriti dei morti", i "morti scomparsi che rivivono in ispirito", gli "spiriti" (nel caso pure gli "spiriti maligni"), ed anche gli "antenati morti", i "Penati". Nelle lingue latine, abbiamo la parola "elfo". Nella mitologia germanica, gli Alfi o Elfi bianchi (Jusalfar), divinità secondarie e geni, si contrappongono agli Elfi neri (Dunekalfar). L'espressione alfrödul, il "raggio degli elfi", divorato dal lupo Fenrir durante il Ragnarökr, o crepuscolo degli dèi (Vafthrudnir, 47) designa talvolta il sole. Cfr. anche l'alfablot, il "sacrificio agli antenati" della tradizione scandinava. La radice originale sarebbe *albho, che si rapporta al colore bianco (greco alphos, latino albus, da cui "albino", "album", "albume", etc.); attraverso uno slittamento semantico si sarebbe passati dall'idea di "forme bianche" (secondo la tipica raffigurazione del fantasma) a quella di "spiriti". Vedi Alois Walde e Julius Pokorny, Vergleichendes Wörterbuch der indogermanischen Sprachen, Walter de Gruyter, Berlino 1930, 1, 93. [Nota di Nouvelle Ecole]

(10) È interessante notare che l'espressione "gloria imperitura", "gloria che non muore", che fa riferimento del resto a un elemento centrale della visione del mondo indoeuropea, e dello "spirito della tragedia" nel senso nietzschano del termine, costituisce l'elemento lessicale-stilistico la cui identica ricorrenza in ambiti culturali disparati come quello norreno, scita, ellenico o indo-iranico. ha fornito la prima prova della positiva esistenza di una "letteratura" indoeuropea unitaria anteriore alla diaspora. Cfr., tra gli altri, Jean Haudry, Gli indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 2000 [Nota del Traduttore]

(11) Wagner si ispira qui fedelmente alla mitologia germanica. Iduna/Idhunn, sposa di Bragi, figlio di Wotan/Odino, dio della saggezza e dell'eloquenza (ha delle rune sulla lingua), possedeva mele d'oro che gli Asi mangiavano per assicurarsi una perpetua giovinezza. Iduna fu

rapito da un gigante, ma Logi/Loki, avendolo trasformato in noce, lo riportò ad Asgard. Il mito delle mele di Iduna può essere utilmente comparato a quello ellenico delle mele del giardino delle Esperidi. [Nota di Nouvelle Ecole]

(12) L'uso dei Leitmotive, o "motivi conduttori", unità melodiche riconoscibili connesse a personaggi, situazioni, oggetti, ed utilizzate in funzione narrativa, è tanto fondamentale e tipico in Wagner da essere superficialmente considerato l'essenza stessa della rivoluzione musicale introdotta dal compositore. Tale tecnica, che avrà infiniti epigoni a tutti i livelli (Andrew Lloyd Webber fa ad esempio un vasto uso di una sorta di Leitmotive nel musical Evita approdato nel 1997 in versione cinematografica con l'interpretazione di Madonna, per la regia di Alan Parker), e che è ben distinta dalla "reminiscenza musicale" dell'opera italiana, giunge al suo apogeo nella complessa struttura del Ring, come si è già visto Gesamtkunstwerke, opera d'arte totale in cui la narrazione non è affidata soltanto al testo, ma si dispiega a diversi livelli attraverso il testo stesso, l'azione scenica e la musica; così che ad esempio la presenza di un oggetto o la premonizione di un avvenimento o il significato di una circostanza possono essere resi palesi non dal libretto, ma dal rincorrersi dei motivi conduttori nel contesto sempre nuovo della complessa polifonia di ciascuna scena. Questa tecnica è del resto tutt'altro che innocente, e rappresenta uno degli elementi fondamentali di quella "fantasmagoria" che Lukaks rimprovera a Wagner, in quanto «occulta la realtà fondamentale del conflitto di classe», nel linguaggio marxista dell'autore -- o meglio sospende e contraddice nello spirito dell'ascoltatore la percezione lineare del tempo storico cui da duemila anni si ispira la nostra psicologia, trasportandolo direttamente nel tempo tridimensionale a cui gli uccelli di Zarathustra non riescono che ad enigmaticamente accennare. In ogni istante della rappresentazione, con l'attualità dell'azione scenica possono essere compresenti le origini e premesse della stessa, o addirittura essere richiamati fatti non ancora accaduti, attraverso la endlos Musik, la “musica senza fineâ€?, del dramma, in cui non sono più veramente distinguibili "arie" e "recitativi" come nella tradizione operistica. Il fatto che ogni parte del Ring sia intimamente legata sia sincronicamente alla contestualità di azione, testo e musica, sia diacronicamente a tutto ciò che la segue e precede, fa sì non solo che come già discusso il libretto preso isolatamente sia poco significativo, ma anche che è difficile "isolare" brani musicali dal contesto senza menomarne il significato e la stessa godibilità. Ci sono certo moltissime arie wagneriane divenute singolarmente note, spesso eseguite separatamente od utilizzate per colonne sonore, eventi particolari, spot, etc. Tra tutte, basti ricordare la Marcia Nuziale del Lohengrin (cfr. l'MP3 di Karadar; sull'opera in generale i DVD direzione Abbado e direzione Levine, la versione originale del libretto sul Web, la trad. Italiana cartacea) eseguita all'ingresso in chiesa durante almeno il novanta per cento delle cerimonie nuziali celebrate nel nostro paese, e conosciutissima anche da chi non ha la minima idea della sua provenienza o di chi possa essere Wagner. È interessante per altro notare che le uniche arie tratte dal Ring, che pure costituisce indubbiamente il capolavoro del compositore, si può dire siano il Preludio all'Oro del Reno, la Cavalcata delle Walchirie (cfr. l'utilizzo del tema nel film Apocalypse Now di Coppola ed oggi persino nella musica di attesa di alcuni centralini aziendali) e la Marcia Funebre di Sigrido (cfr. il relativo MP3 e il film Excalibur di Boorman, in cui diventa... il Leitmotiv di Artù). In ogni modo, l'opera propriamente letteraria rappresentata dal poema dell'Anello del Nibelungo, così come dagli altri libretti wagneriani, appare alquanto lontana dai più tipici precedenti operistici e melodrammatici della tradizione musicale in cui Wagner si situa, quali potrebbero essere libretti del Don Giovanni di Mozart o del Fidelius di Beethoven (lo stesso Beethoven che Wagner definisce il "Cristoforo Colombo della musica", scrivendo un manuale su come dirigere l'esecuzione della Nona che fa ancora oggi testo): anzi, rispetto alla tradizione lirica semmai i testi risentono molto più della profonda influenza che su Wagner in gioventù esercitò William Shakespeare, ad esempio nella fusione tra l'elemento tragico e l'elemento epico propriamente detti. [Nota del Traduttore]

(13) Robert Saitschick, Götter und Menschen in Richard Wagners "Ring des Nibelungen", Katzmann, Tubinga 1957. [Nota di Nouvelle Ecole]

(14) I tentativi di "recupero" dell'opera di Wagner ai valori della cultura dominante non solo sono di solito apertamente "tattici" e "furbastri", ma sono soprattutto irrimediabilmente naïf. Mentre un discorso filosofico, come quello di Nietzsche, o quello dello stesso "Wagner filosofo" (spesso piuttosto confuso ed involuto), può essere più o meno facilmente travisato nei suoi contenuti espliciti, il significato di un'opera artistica sta nelle suggestioni e nella visione del mondo che direttamente trasmette al suo fruitore, che sono molto più difficili da "falsificare".Un esemplare ed "insospettabile" tentativo fallito di arruolare Wagner nel campo della "tendenza" egualitaria, progressista ed umanista è ad esempio proprio quello di Friedrich Nietzsche, là dove lo stesso tenta per questioni "umane, troppo umane" di rivalità personale, di far passare la improponibile tesi secondo cui il Parsifal (cfr. DVD direzione Nagano e direzione Levine, libretto originale sul Web, edizione cartacea con traduzione italiana) sarebbe sintomo ed espressione di una "conversione" giudeocristiana del compositore. Tesi volta in questo caso non tanto ad avvalorare una improbabile political correctness di Wagner. ma al contrario a squalificarlo, a comprometterlo, agli occhi del pur minuscolo pubblico che all'epoca comprendeva e condivideva il significato dell'opera titanica e rivoluzionaria dei due autori, e soprattutto della loro molto più numerosa posterità (cfr. Der Fall Wagner e Nietzsche contra Wagner; versione cartacea italiana di entrambi sotto il titolo Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1978),Tentativo fallito, non solo perché l'opera in questione è semplicemente "scandalosa" da un punto di vista cristiano, nella sua dichiarata intenzione di "redimere il Redentore" (Erlösung des Erlöser), ma perché la sua rappresentazione cortocircuita e trasfigura nello spirito dello spettatore il mito cristiano per esprimere valori diametralmente opposti ai suoi valori fondanti come propugnati da tutte le chiese cristiane storiche -- cosa del resto ben percepita dagli esponenti di queste ultime.In questo senso, la proiezione sullo sfondo dell'opera wagneriana, non importa se ingenua o strumentale, delle categorie della vecchia morale, ad esempio quella degli "sfruttatori" e degli "sfruttati", dei "peccatori" e dei "virtuosi", si apparenta al riflesso condizionato per cui dopo duemila anni di giudeocristianesimo l'adolescente che per la prima volta viene scolasticamente a contatto con l'Iliade resta confuso dal suo immediato tentativo di stabilire chi, se gli Achei o i Troiani, siano i "buoni", e chi i "cattivi"; e non porta molto più lontano, né preserva lo spettatore dalla "malìa" che su di lui rischia di gettare l'opera.Al contrario dell'opinione di Guillaume Faye, ad esempio in Archeofuturismo, secondo cui la potenzialità direttamente "politica" dell'opera wagneriana è ormai sterilizzata dalla sua "museizzazione", la sua capacità"eversiva" sopravvive così anche oggi -- con il solo limite della progressiva rarefazione a livello di massa dei linguaggi e delle categorie minime che ne possono rendere possibile o più facile la "fruizione", dal teatro, al canto lirico, al linguaggio mitologico-allegorico, alla musica tonale, alla stessa conoscenza della lingua tedesca, tutte cose al cui accesso non aiutano certo il primitivismo e la superficialità della cultura di massa mondializzata di fine millennio. [Nota del Traduttore]

(15) Il destino legato alla violazione coatta delle regole da parte di chi deve esserne il garante, e del suo rapporto tragico con la distruzione dell'ordine precedente e la nascita di un nuovo ordine, è un tema costante della riflessione e della letteratura dei popoli indoeuropei, ed è particolarmente acuto in ambito nordico e germanico. È esemplare al riguardo l'inganno di Tyr dio dei contratti ai danni del lupo Fenrir, che lo vede perdere tra le fauci di quest'ultimo la mano destra data in pegno di una promessa (di liberarlo dopo averlo legato) che nessuno aveva mai pensato di rispettare, la stessa mano che non potrà impugnare la spada durante l'ultima battaglia; ma non è difficile trovare spunti analoghi in Omero (cfr. la figura di Agamennone nell'Iliade), nella tragedia greca, o persino nel mondo tardo e crepuscolare del Mahabharata (vedi anche la versione italiana del riassunto di Rasupuram Krishnaswami

Narayan), quando Krishna sovverte ogni regola naturale ed umana per assicurare la vittoria dei Pandavas (guidati da Yodishdira, figlio di Dharma, pure personificazione dell'ordine e dell'equilibrio naturale) sui cugini Kauravas, la cui necessaria sconfitta è nel fato eppure è "impossibile" -- su tale punto insiste molto la (discutibile) trasposizione cinematografica dell'episodio da parte di Peter Brook. [Nota del Traduttore]

(16) In Alberico e Mime, i commentatori, sino a Guttmann e ad Adorno, hanno sempre visto una "caricatura degli ebrei". Wagner, che era dichiaratamente antisemita, ha in effetti prestato i tratti convenzionali antisemiti dell'"Ebreo" alle personificazioni dei "tipi umani" che detestava. Nelle sue intenzioni, Alberico potrebbe rappresentare il Börsenjude, mentre Mime incarnerebbe il Ghettojude, e Berkmesser (nei Maestri Cantori di Norimberga, cfr. i DVD direzione Hampes e direzione Stage, il libretto sul Web, la versione cartacea con traduzione italiana), la "critica giudaica". Come è noto, Wagner considerava nefasta l'influenza dell'elemento ebraico nella società tedesca e nelle società europee del suo tempo, e lo combatteva con accanimento. Rendeva Æ’l'ebraizzazione responsabile della "corruzione" di un cristianesimo (la cui "originarietà europea" poteva a suo avviso essere astratte dalla origine ebraica, tanto da renderlo un innocuo "aspetto moderno" della religione wotanica), così come vedeva nella "corruzione democratica e parlamentare" degli Stati europei l'opera sorniona della "potenza finanziaria giudaica". Per Wagner, gli ebrei restavano perciò i principali responsabili della diffusione della ideologia "biblica" e del "principio giudaico" in seno alle società europee, punto su cui l'autore del Ring si opponeva a Nietzsche, anch'egli avversario feroce del "giudaismo", ma secondo il quale gli ebrei concreti del suo tempo non avrebbero avuto in realtà altra ambizione che di "assimilarsi" completamente, di cessare di essere ebrei, così che un antisemitismo politico non era destinato che a rafforzare la coscienza religiosa e razziale degli stessi, rinsaldandone la identità e coesione, e spingendoli, "unica vera razza che oggi esiste in Europa", ad impadronirsi di tutte le leve del potere. Ugualmente, se come abbiamo visto Nietzsche esprime, a differenza di Wagner una condanna totale e senza appello anche del cristianesimo, è esattamente perché assimila per intero il principio essenziale del cristianesimo e quello del giudaismo (mentre Wagner non assimila al giudaismo che il "cristianesimo storico"). Di fatto, Wagner materializza nell'"Ebreo eterno" -- ed anche nell'ebreo contemporaneo, attraverso una proiezione che Nietzsche giudica relativamente arbitraria nel concreto contesto sociale del suo tempo -- un "tipo umano" e un "principio storico" che sono tanto quelli della Bibbia ebraica che quelli del cristianesimo, e che ai suoi occhi costituiscono l'antitesi assoluta (non dialettica) del Rein-menschliches (il "puramente umano", o in termini nietzschani il superuomo) e dell'"idea della musica". Di per ciò stesso, nel discorso wagneriano, il termine "ebreo" -- come del resto il termine "tedesco" -- finiscono per designare categorie metafisiche dello spirito, le cui incarnazioni sono in certo modo universali. [Nota dell'Autore]

(17) La dinastia semileggendaria dei Völsungen (Völsungar o Völsungs) appare nella Völsungasaga e nella seconda parte dell'Edda poetica. Il Detto di Völsi (Wolsa thàttr), che appartiene al ciclo del re Olaf e che ci è pervenuto nel manoscritto del Flateyjarbok islandese, è un poesia rituale e di culto dal carattere "fallico" pronunciato. Descrive pratiche molto antiche (il testo può essere trovato in Régis Boyer, Les réligions de l'Europe du Nord, Fayard-Denoël, Parigi 1974, pagg. 79-84). Il termine Völsi, nel senso di vingull, "pene", ha la stessa etimologia del greco phallos. Da questo nome proviene quello dei Völsungen, discendenti del dio-fallo, di "Priapo" in altri termini. La Völsungasaga è stata scritta verso il 1260 (testo in François Wagner, Les poèmes héroiques de l'Edda et la saga des Völsungs, Ernest Leroux, 1929, pagg. 179-270). Il re Volsun, nato in maniera soprannaturale, è ucciso dal genero Siggeir, così come tutti i suoi figli, ad eccezione di Siegmund e di sua sorella Signy. Il personaggio principale della saga è Sigurd (Sigfrido) Fafnersbane, figlio di Siegmund e di Hyördis. Su un fondo mitologico si appuntano allusioni storiche, in particolare alla Völkerswanderung, alle invasioni degli Unni, ai regni dei Goti e dei Burgundi. Anche qui, Wagner si ispira abbastanza fedelmente alle leggende

germaniche. [Nota di Nouvelle Ecole]

(18) E' quasi inutile attirare l'attenzione sulla messe di simboli che affiorano dalla Walchiria, la più "romantica", in senso proprio, delle opere di Wagner, dall'incesto della coppia semidivina, alla spada pacificatrice forgiata dal dio e simbolo del destino e alla sua estrazione dal ceppo da parte del predestinato, centrali nel ciclo arturiano in tutte le sue innumerevoli varianti e propaggini moderne; dal frassino perno del mondo (cfr. Yggdrasill, cui si crocifigge sacrificandosi a se stesso Odino per scoprire il segreto delle rune) alla "bella addormentata nel bosco". Per una versione moderna, ben nota ai lettori di fantasy, della leggenda tragica dei due amanti e gemelli 3Wölsungen, cfr. La spada spezzata di Paul Anderson, pubblicata in italiano da Fanucci Editore, e ancora disponibile in lingua originale (The Broken Sword) [Nota del Traduttore]

(19) Giova ricordare come Logi/Loki, figura certamente complessa ed ambigua nel suo rapporto con gli altri Asi, sia comunque nella mitologia germanica proprio il dio del fuoco. [Nota del Traduttore]

(20) La raffigurazione di Odino come il Viaggiatore, che spesso si aggira sotto spoglie umane tra i villaggi e capita nelle case degli uomini, e che può celarsi in qualsiasi straniero, nascondendo il terribile occhio solo del dio con la tesa di un ampio cappellaccio, non è una creazione wagneriana, ma è assolutamente tipica e peculiare della raffigurazione mitologica del dio da parte della tradizione nordica e germanica, che non ha in questo equivalenti nelle altre mitologie indoeuropee. D'altronde, le leggi dell'ospitalità sono garantite in ambito classico proprio da Zeus/Iuppiter, omologo di Wotan/Odino nello spazio greco-latino.[Nota del Traduttore]

(21) Sigfrido è inoltre, ancor più di Parsifal, il "puro folle", il "redentore" «che i tedeschi chiamano Sigfrido, e gli altri popoli Cristo». Il tentativo di "salvare" il "vero cristianesimo", ispirato a Wagner da una sorta di pietà ancestrale che si ostinava a giustificare la conversione dei popoli germanici alla nuova religione, non può resistere evidentemente ad una fredda analisi "nietzschana" dell'essenza del cristianesimo.Storicamente parlando, solo il giudeocristianesimo -- il cristianesimo che Wagner pretende in varie occasioni essere "falso" -- è mai esistito. Se il vero Cristo fosse davvero stato il personaggio parsifaliano, l'eroe nordico, di cui Wagner traccia il ritratto, la sua esistenza non avrebbe rappresentato che un'avventura individuale senza alcun seguito -- e il suo messaggio, un evento abortito, del tutto sganciato da qualsiasi confessione del cristianesimo positivo e da qualsiasi esperienza religiosa che ad esso abbia successivamente, in un modo o nell'altro, fatto riferimento. Il problema resta nondimeno di sapere se la strategia wagneriana, consistente nell'introduzione di questo Leitbild, o "immagine conduttrice" di un "vero Cristo" in opposizione al "cristianesimo storico", non potrebbe alla fin fine rivelarsi più produttiva della condanna immediata e senza appello pronunciata da Nietzche contro ogni possibile tipo di cristianesimo -- più produttiva ai fini stessi dell'obbiettivo "sovrumanista" che ci è proposto proprio da Nietzsche.Da un cristianesimo epurato secondo i desideri di Wagner non resterebbe certo nulla -- se non al più una sorta di "religione del cuore", di “religione privata" dell'anima, tale da rinviare ad un Gesù almeno altrettanto immaginario di quello veicolato dalle Chiese cristiane. Similmente a Kundry, questo cristianesimo "redento" morrebbe d'un sol colpo, come dolcemente fulminato dal bacio di Parsifal. In un dramma intitolato Gesù di Nazareth, che Wagner scrisse nel 1848 poco dopo La Morte di Sigfrido, Giuda chiede a Gesù se il "regno" di cui parla si trovi nei cieli, o se possa aò contrario essere realizzato in questo mondo di peccatori. Gesù risponde: «Aprite gli occhi, e vedete ciò che vede ogni fanciullo. Il regno dei cieli non è al di fuori di voi, ma all'interno di ognuno di noi». Senza ovviamente citare la fonte suddetta che non poteva non conoscere, Nietzsche, nell'Anticristo (cfr. versione italiana Web, versione originale Web,

versione cartacea italiana,, versione cartacea originale) attribuisce a Gesù, per cui ha parole profondamente amiche, questa stessa concezione del "regno dei cieli" -- di cui fa, come Wagner, l'antitesi del "cristianesimo storico": come per Wagner Parsifal è il "puro folle", il Cristo di Nietzsche è un "puro idiota", nel senso etimologico del termine. [Nota dell'Autore]

(22) In questo senso, Sigfrido stesso è il redentore che ha bisogno di essere redento, la cui opera è inverata, compiuta, ed al tempo stesso superata dalla "nuova religione" wotanica, in una metafora di come il "puro cristianesimo", in quanto contrapposto al "cristianesimo storico", è destinato ad essere sussunto e superato nel "nuovo mito" nato dall'idea della musica e dalla frattura del tempo della storia di cui Wagner si rende artefice e fautore (vedi nota precedente).Tutto ciò naturalmente è da un punto di vista cristiano in senso proprio semplicemente blasfemo, ed appartiene ad un "dibattito" puramente interno alla tendenza alla tendenza sovrumanista, la cui esemplificazione si troverà infinite volte rinnovata, come nei simmetrici atteggiamenti di un giovane Mussolini ferocemente anticlericale e "ateo" e di un D'Annunzio che asservisce ad un progetto esistenziale, e ad un'opera artistica apertamente "immoralista" in rapporto ai canoni dominanti, una pietas profonda per le credenze popolari delle stirpi italiane ed innumerevoli simboli religiosi (da S. Sebastiano all'eredità dell'arte sacra alla messe di simboli montastici di cui si circonda fin nel Vittoriale e con cui spesso fa riferimento alla propria persona).Ora, sembra innegabile che al di là della storicità della figura di Cristo e del pochissimo che su di essa si può fondatamente argomentare l'inidoneità pratica del cristianesimo storico a costituire un "bagaglio mitico" da conservare "per le masse" dopo essere stato svuotato dei suoi contenuti e trasfigurato nella luce del Nuovo Mito si è potentemente manifestata nella recuperata "coscienza di sé" delle confessioni cristiane contemporanee, ritornate in Europa minoranza sociale, e come tali inevitabilmente tese tanto a riaffermare la propria identità essenziale che a "competere", sullo stesso piano ed in riferimento ad identici valori, con la loro progenie laicizzata (e secondariamente con le altre “religioni del libroâ€?, stretta com'è tra "fratelli maggiori" veterotestamentari e cugini musulmani a loro volta ritornati a prendere sul serio ciò che predicano).In ogni modo, la posizione wagneriana sull'argomento sarà più diffusamente rappresentata in ambito nazionalsocialista di quella ortodossamente nietzschana; cfr., a proposito di "redimere il redentore" e di "giustificare" la conversione tedesca ed europea al cristianesimo, il tentativo di Alfred Rosemberg, nel Mito del XX Secolo, di accreditare la "leggenda" per cui Gesù "non sarebbe stato in realtà ebreo", ma figlio illegittimo di Maria di Nazareth e di un centurione romano; o ancora, il formale e preteso "agnosticismo" delle SS, in cui pure più che in ogni altro ambiente il sovrumanismo, e il "neopaganesimo" che esso fonda, si sono fatti pratica religiosa positiva ed unanimemente osservata, con relativi riti, catechismi, etc. -- cosa che del resto ha contribuito all'aura particolarmente “sulfureaâ€? che oggi circonda la memoria della SS nell'ambito delle istituzioni del Reich. [Nota del Traduttore]

(23) L'etimologia del termine ragnarök o ragnarökr risale innanzitutto ad un primo elemento, ragna, che è il genitivo del nome plurale neutro norreno regin, "gli dèi" (in quanto governano l'universo, "regnano" su di esso), che compare in numerosi composti. La terminazione -rök(k)r significherebbe invece di per sé "crepuscolo, oscuramento", da cui la traduzione wagneriana Götterdammerung, che significa esattamente "crepuscolo degli dei"; ma ad essa sembra dover essere preferita la versione della parola con la terminazione -rok, che significa invece "ragione (d'essere), origine", poi "segno (stupefacente), meraviglia), ed infine "ciò che scorre", e, per analogia, "il destino". Ragnarök significherebbe perciò in questo caso "destino degli dèi". Sulla questione cfr. l'articolo “'Crépuscule' ou 'Destin' des dieux?â€? di Alain de Benoist, pubblicato sullo stesso numero di Nouvelle Ecole su cui è per la prima volta uscito lo scritto qui tradotto. [Nota del Traduttore]

(24) Non sarà infatti sfuggito che nel racconto wagneriano Wotan riassume in sé entrambi gli

aspetti della prima funzione, l'aspetto magico-sovrano e l'aspetto giuridico-religioso, normalmente scissi nella tradizione indoeuropa nelle diadi divine Iuppiter/Dius Fidius, Odino/Tyr, Varuna/Mithra (cfr. Georges Dumézil. Gli dèi dei Germani, Adelphi, Milano 1970). [Nota del Traduttore]

(25) Esattamente in questi termini è in Così parlò Zarathustra (versione italiana Web, versione originale Web, versione italiana cartacea, versione originale cartacea) soltanto l'amor fati, connaturato a questa "coscienza superiore" che può sublimare l'uomo, «corda tesa tra la bestia e il superuomo». La creazione umana ha valore, la vita è tale, in quanto destinata a perire, eppure il sovrumanismo recupera e trasfigura il senso tragico dei miti fondanti della cultura europea in funzione di un'etica del superamento di sé, della "gloria che non muore", della sfida ed accettazione al tempo stesso della caducità delle cose, necessaria perché contro di esse si possa misurare l'uomo superiore. [Nota del Traduttore]

(26) Nel linguaggio di Locchi, così come nella parte di esso che si è trasmessa a de Benoist, Faye, Vial, Krebs, Steuckers, etc., la visione del tempo storico che sostituisce quella "lineare" propria alla tendenza umanista, nelle sue varianti giudeocristiane, marxiste, liberali, etc., viene definita "tridimensionale" o "sferica", anche per distinguerla dalla visione "ciclica", "circolare" propria alla visione del mondo europea precristiana. In essa, ciascun "presente" comprende in sé tanto l'attualità, l'attimo vissuto in quel dato momento, che il passato, come "memoria" ed identificazione delle proprie radici, che il futuro, l'avvenire, progetto e "destino" cui si sceglie di appartenere, e ridefinisce tutte e tre le dimensioni del tempo storico in una prospettiva irripetibile e sempre nuova, che permette appunto all'uomo di celebrare la propria libertà rendendosi artifex historiae e faber fortunae suae. In ogni presente tutto eternamente ritorna, perché al passato non si può sfuggire, ma nulla è mai lo stesso, nulla è predeterminato, perché la prospettiva del "presente" che rappresenta la superficie di una sfera in espansione costantemente cambia, tanto verso il centro (i possibili passati) che verso l'esterno (i possibili futuri). Questo concetto è ovviamente incompatibile con quello del tempo storico come una retta composta da tanti "presenti-istanti", che disegna un costante e necessario miglioramento, controllato dal progresso, dalla provvidenza o dalla dialettica del materialismo storico, a partire da una "caduta originaria" per arrivare sino all'“happy endâ€? rappresentato dalla rivoluzione, dalla perfetta società liberale o dal giudizio universale. Tale visione è piò o meno cosciente in tutti coloro che hanno davvero aderito, pure a vari livelli ed in vario modo, alla Weltanschauung sovrumanista. Se Oswald Spengler si richiama ad una visione quasi biologica dei grandi cicli storici della nascita e morte delle civiltà, ogni grande civiltà è nella prospettiva del Tramonto dell'Occidente (cfr. versione originale cartacea, versione italiana cartacea, versione spagnola Web) irriducibilmente e fatalmente diversa; mentre il futurismo vuole paradossalmente fondare un'identica storica sulla "distruzione del passato" che è in realtà eversione del presente, il fascismo italiano si riallaccia con decisione alla romanità, ma per creare un "uomo nuovo", che come tale ovviamente non è mai esistito; e Adolf Hitler, nelle sue Conversazioni a tavola (cfr. versione inglese cartacea), per esprimere la sua visione della storia e i nuovi concetti -- certo difficili da spiegare in un linguaggio permeato dalla logica linearistica e progressista quale è inevitabilmente quello in cui ci esprimiamo -- utilizza anziché la metafora della sfera, quella di una spirale tridimensionale, in termini e con esiti per altro pressoché identici.Giova notare come alla crisi della visione linearistica del tempo storico, crisi prontamente rimossa, repressa e dissimulata dalla ideologia dominante e sinora vittoriosa, sia seguita negli ultimi anni una crisi della raffigurazione tradizionale della "freccia" del tempo fisico, ad esempio nella fisica delle particelle elementari, in cosmologia, e nella correlata riflessione epistemologica, per arrivare sino alla psicologia teorica ed alla neurologia. Ciò sembra contribuire se non altro alla messa in prospettiva della rappresentazione che tuttora ci facciamo comunemente dei vari aspetti del fenomeno "tempo", rappresentazione meno

"evidente", "universale" ed "oggettiva", e più culturalmente condizionata, di quanto non si immaginasse un secolo fa (cfr. ad esempio, Brian Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà disponibile in versione cartacea originale, e in versione cartacea italiana [Nota del Traduttore]

(27) Secondo una tradizionale variante del mito, Sigfrido si è bagnato nel sangue del drago Fafner, ed ha acquisito così l'invulnerabilità, ma una foglia posataglisi sul dorso in corrispondenza del cuore ha impedito che l'area cutanea interessata venisse bagnata. Salta agli occhi il parallelismo con il tallone da cui veniva trattenuto l'Achille post-omerico dalla madre durante un'immersione dagli analoghi esiti. [Nota del Traduttore]

(28) L'“anello del potereâ€? -- del resto uno degli oggetti simbolici della funzione sovrana e della regalità, con lo scettro, la corona o tiara, e la spada -- ha conosciuto innumerevoli richiami mitici e letterari. È curioso osservare come in John R. R. Tolkien -- autore che ha avuto un certo successo anche in ambienti almeno teoricamente apparentati con la nuova tendenza incarnata, tra gli altri, dall'autore del Ring -- un materiale mitico ampiamente affine a quello utilizzato da Wagner (cfr. ad esempio David Day, Tolkien's Ring, Barnes & Nobles 2002) viene in qualche modo rovesciato nella sua valenza e asservito alla radicale condanna della tentazione "faustiana". Tentazione che appunto in momento o un altro affligge -- nella forma del desiderio quasi irrefrenabile di ribellarsi alla decadenza e di far proprio l'anello per utilizzarlo "a fin di bene" -- la maggiorparte dei personaggi positivi (od "originariamente" positivi, ma colpiti da una successiva corruzione) del racconto del Signore degli Anelli (cfr. versione italiana cartacea, versione originale cartacea), come Bilbo Baggins, Gollum, Frodo, Gandalf, Aragorn, Saruman, etc.Del resto, in tutta l'opera tolkieniana, ogni successiva caduta nasce dal peccato di chi si vuol fare "simile a dio", dalla ribellione di Melkor, all'emigrazione degli elfici creatori dei Silmarillion, ai Numenoreani, a Saruman, ai Nazgûl «divenuti come ombre» perché corrotti dai nove anelli degli uomini. L'ammirazione, e talvolta la compassione, dell'autore per il destino titanico dell'eroe fondatore non si scinde mai dalla condanna morale del sogno di grandezza da esso rappresentato, cui viene contrapposta l'esaltazione della a-storicità in fin dei conti piccolo-borghese della "insignificante" contea degli hobbit, sorta di Inghilterra rurale idealizzata pre-rivoluzione industriale.In Tolkien, la figura di Alberico-Hagen si trasforma così in Sauron, il "Signore degli anelli", personificazione di un male metafisico, ma correlativamente soffuso di una sorta di luciferina grandezza direttamente sottratta all'eroe; Sigfrido si trasforma a sua volta in questo contesto nell'anti-eroe Bilbo-Frodo; mentre l'"anello" diviene simbolo di un potere che va comunque combattuto, e di cui è "umanamente" impossibile farsi carico assumendolo nelle proprie mani. In questo quadro, anzi, l'unica scelta "umana" è la Resistenza a ciò che esso rappresenta, in questo caso non in nome del "progresso", ma, come nelle Scogliere di Marmo di Ernst Jünger (cfr. versione italiana cartacea, versione originale cartacea) a mera difesa delle vestigia di un passato che non potrà tornare.E questo anche se la guerra, con la distruzione dell'Anello nel fuoco del monte Fato, non farà che accelerare la inevitabile decadenza, così che comunque dopo la vittoria «la dolcezza del vivere non potrà mai più ritornare la stessa», ed il sacro (rappresentato dai reami elfici) resta destinato a scomparire ineluttabilmente e definitivamente dal mondo.Vale la pena di notare che, se Tolkien non ha direttamente nulla a che vedere con la "famiglia spirituale" sovrumanista, il trauma rappresentato dalla tragedia storica costituita dalla seconda guerra mondiale ha favorito in molti sopravvissuti alla catastrofe un atteggiamento di rimozione, un ripiegamento, una svolta in vario modo "reazionaria", spesso non estranei a suggestioni di questo genere. Oltre al già citato Jünger -- già autore in altra epoca dell'Operaio (Der Arbeiter) e della Mobilitazione totale (compreso in Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997, tit. orig. Die totale Mobilmachung), di segno ben diverso -- basti pensare a quanto accaduto nel nostro paese, per limitarci al campo filosofico, a personaggi tanto diversi come Julius Evola e

Ugo Spirito. [Nota del Traduttore]

(29) In rottura con la tradizione settecentesca che voleva l'orchesta in vista, e normalmente à-cotê, il teatro wagneriano introduce l'elemento architetturale del "golfo mistico", fossa in cui prende posto l'orchestra e il coro, sita tra il pubblico (posto in una platea ad emiciclo senza separazioni e distinzioni di posti) e lo spazio dell'azione sacra rappresentata sul palcoscenico, con esiti acustici e psicologici di cui è ovviamente esempio archetipico la Festspielhaus di Bayreuth. La stessa Scala milanese, non diversamente da altri teatri ottecenteschi e della Belle Epoque, adotta qualcosa del genere, sia pure in un contesto più o meno eclettico. Le idee architetturali su cui si fonda il teatro wagneriano troveranno uno sviluppo nell'esperienza del teatro Thing (dall'antico nome norreno dell'assemblea all'aperto degli uomini liberi) che negli anni trenta tedeschi mescola elementi popolari ed arcaizzanti a sperimentazioni d'avanguardia, per altro con una de-enfatizzazione degli elementi narrativi a favore di quelli rituali, sacrali e politici. [Nota del Traduttore]

(30) Il lettore, il cui istinto storico si è inevitabilmente formato alla visione e mentalità linearistica, potrebbe essere tentato di chiedersi: «e adesso? cosa succede dopo? come è possibile che Wagner sia il profeta di una rigenerazione universale -- dove Balder rinato ritrova le "tavole degli dèi", o Artù («rex quondam, rex futurus») ritrova Excalibur -- di cui nulla ci dice, perché la narrazione si interrompe enigmaticamente?».In realtà, chi riesce a porsi nella prospettiva di una storia "sferica", per penetrare la quale il Ring stesso costituisce emotivamente la chiave migliore, si rende invece conto a questo punto che tutto è già stato detto, null'altro è necessario. Intanto infatti che l'attualità si consuma nella distruzione del vecchio mondo e nell'annuncio del mondo nuovo, la narrazione del "passato" wotanico, come creazione, scelta e prospettiva storiche di un particolare "presente" (quello sovrumanista) tra mille altri possibili, determina e descrive già il "progetto" che tale presente ugualmente incarna, il "destino" che Nietzsche chiama non a caso ewige Wiederkehr, Eterno Ritorno, e che il Ring misticamente prefigura alle nostre generazioni.Wotan, come narrato e vissuto oggi da chi sceglie di appartenere a Lui anziché all'universo biblico ed ai suoi avatar laicizzati sotto forma di materialismo storico, di progresso universale, etc., non è più (solo) il dio indoeuropeo precristiano della prima funzione, l'inconoscibile noumeno di una religione estinta ed irripetibile, ma è già il nuovo dio postumanista, il "terzo uomo", che sa farsi tragicamente carico del proprio destino e della propria autocreazione, e che tende così all'Übermensch.Per questo la musica wagneriana, precorrendo uno slogan politico involontariamente felice degli anni cinquanta, è davvero "nostalgia dell'avvenire"; e ad essa ben si applica un verso del Parsifal, che riassume la natura essenziale del Mito e che recita: «Es klang so alt, und war doch so neu» (Risuonava così antico, eppure era così nuovo). [Nota del Traduttore]