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Anno 0 - n. 1

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Anno 0 - n. 1

Il cibo è amore

Digradano su noi pendici di basse vigne, a piane,quivi stornellano spigolatrici con voci disumane.Oh la vendemmia estiva, la stortura nel corso delle stellee da queste in noi deriva uno stupore tinto di rimorsoda Marezzo di Eugenio Montale(Battolla Margherita)

Le mani che curano la terra, seminano, attendono pazientemente il succedersi del-le stagioni e infine raccolgono il frutto com-piono atti d’amore. Le mani che prepara-no le reti per la pesca, e poi le gettano in mare, le ritirano sperandole colme di pesci per il mercato, compiono atti d’amore, sia pur nella inevitabile cruenza della catena alimentare. Le mani che cucinano il cibo e lo dispongono sulla tavola per offrirlo ai commensali compiono un atto d’amore. Perché il cibo nutre il corpo, è vita, ma se pensiamo a come è ottenuto può nutrire l’a-nima. Un vino può rappresentare la storia di un po-polo e di un territorio, così come un olio assume valore simbolico di pace e armonia. Gocce di Liguria è una riflessione sulle radici culturali di un territorio, che sono

soprattutto legate alla terra e al mare, di questo lembo di Liguria così bello e fra-gile, da salvaguardare e difendere con il sapere dei vecchi e la forza dei giovani.

Lo Sciacchetrà di Carlo

A Riomaggiore incontriamo Carlo, un si-gnore dagli occhi che sorridono, il volto scolpito dal tempo, le mani grandi e forti di chi la terra l’ha vissuta, ogni giorno, dal 1925. Aveva sei anni quando iniziò ad ac-compagnare il nonno ai cian; lo guarda-va scavare la roccia per ricavarne piccoli lembi di terra da coltivare, osservava i suoi movimenti e imparava come strappare la terra al mare; anche lui, piccolo uomo, spaccava la roccia, e inconsapevolmente prendeva il testimone di quella gara che avrebbe condotto per tutta la vita. Inizia a raccontare, qui, nella piazza del paese, e noi ascoltiamo rapiti e affascinati. La pietra veniva sbozzata e spianata con cunei, punte e scalpelli, e una volta pronta si sovrapponeva alle altre non “a madon-netta” ma sfasata, perché il muretto fosse più stabile e sicuro. Racconta “ I muretti a secco si fanno con pietre di circa 60 cm di lunghezza, sovrapposte; si comincia con due affiancate, la terza al centro, e si proce-de verso l’alto” (Carè Nicola).

Brillano ancora di soddisfazione, i suoi occhi ridenti , al ricordo di quel muretti a secco costruiti con il nonno, venuti così bene, belli da guardare, che sono ancora lì perché quel bimbo di sei anni ha impara-to a costruirli e per tutta la vita ha saputo conservarli . “Lavoravamo insieme, con altri uomini, proprietari dei campi vicini; allora era normale aiutarsi e i più giovani venivano istruiti a fare di tutto; il lavoro nei campi era molto faticoso, cominciava all’alba e finiva al tramonto del sole, quando gli uo-mini tornavano verso il paese” (Rachele Finollo).Carlo ha insegnato con la generosità di chi ama la vita a chi era disposto ad impara-re, ed oggi spera che qualcuno prenderà in consegna i suoi muretti a secco e quelle vigne per curarle con lo stesso amore.

“Per fare lo Sciacchetrà si possono usare l’uva Bo-sco e l’Albarola, ma è migliore la Bosco. Si raccoglie nelle terre più soleggiate, si prendono i grappoli più belli e si appendono con ganci, grappolo per grap-polo, in locali arieggiati, cantine e terrazze, per farli appassire. Arrivato il momento giusto il grappolo si sgrana e i chicchi si pigiano con le mani, il succo si ripone dentro piccole botti per circa un mese, e prima di imbottigliarlo si filtra fino ad ottenerne un liquido color oro. Si beve da un anno all’altro ed è il simbolo di questa terra” (Veronica Demaria)

“Il periodo della potatura è l’autunno inoltrato; si deve fare attenzione non tagliare la vecchia vigna, che è quella che dà il frutto, mentre si devono taglia-re i nuovi germogli, dopo averli scelti con cura”.

“Ci sono luoghi dove la tranquillità regna e tutto il resto tace. Dove la bellezza è nella semplicità e si trova in ogni dove. Dove la bellezza vince i pregiudizi della gente,che non riconosce più la meraviglia della natura. È li,dove batte il cuore del mondo. È lì,dove tutto ha avuto inizio”Antonietta Del Vecchio

“Prof. Ho scritto una poesia, le piace?”“Si, perché esprime bene il paesaggio marino di no-vembre, la tranquillità, la bellezza delle cose sem-plici... tutte sensazioni che solo in questa stagione si colgono così come le hai descritte.”

Anche Antonella Bonanini, la nostra vi-cepreside, conosce Carlo; nata e vissuta a Riomaggiore fino agli anni dell’università, ricorda come il padre diceva “siamo anco-ra in quattro, ma il più in gamba è Carlo”. Ci racconta della sua infanzia regalandoci ricordi che sembrano dipinti e che ver-rebbe voglia di rivivere. “L’uva più bella, scelta dalla mamma, appoggiata su strati di foglie”, “i grappoli migliori messi ad essiccare sui tetti delle piccole case, se non c’era il porticato”, “le foto sono ra-rissime perché ci si fotografava solo col vestito della festa, non mentre si lavora-va”, “le vigne basse fino al ginocchio, le chiavi sulla porta, corbe e paniere piene d’uva sulla testa delle donne, a volte an-che piene di…bambini”. E l’orgoglio di di-ventare proprietari, anche di un piccolo drappo di terra; orgoglio scolpito su una lastra di marmo dal bisnonno (nato nel 1895): “proprietario” della Bella di Serra, ricordato oggi dal pronipote che continua a produrre il prezioso vino con la stessa passione, consapevole che quello non è solo un vino ma è soprattutto parte della sua storia familiare

Gente di mare

“Buona fortuna” disse il vecchio. Adattò gli stroppi dei remi agli scalmi e sporgendosi avanti a spingere le pale nell’acqua, incominciò a remare al buio per uscire dal porto. Vi erano altre barche che prende-vano il mare da altre spiagge e il vecchio udiva i tuffi e i colpi di remo pur non vedendoli ora che la luna era sotto le colline (…)Pensava sempre al mare come a la mar , come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte co-loro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna. Alcuni fra i pescatori più giovani, di quelli che usa-vano gavitelli come galleggianti per le lenze e ave-vano le barche a motore, comprate quando il fegato di pescecane rendeva molto, ne parlavano come di el mar al maschile.

Ne parlavano come di un rivale o di un luogo o per-fino di un nemico. Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiu-tava grandi favori e se faceva cose strane o malvage era perché non poteva evitarle. La luna lo fa reagire come una donna, pensò.Da “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway, 1952

I pescatori conoscono bene il mare, i ven-ti, le correnti ; sanno dell’interferenza della luna sui pesci e di come si pesca meglio durante la luna nuova; la corrente del mare è sempre opposta alla direzio-ne del vento quindi, sapendo che i pesci mangiano contro corrente, è di vitale im-portanza conoscere la direzione del vento. Temperatura, pressione atmosferica, fasi lunari e vento, sono tutti fattori da non sottovalutare.Se la corrente è favorevole le reti si riem-piono, il pesce si sistema nelle cassette destinate al mercato.E anche i gabbiani sono contenti; accom-pagnano le barche e sembrano festeg-giarne il ritorno quando gridano e rotea-no volteggiando maestosi sopra la scia spumeggiante che segue il peschereccio. I marinai ed i pescatori di un tempo sapevano ricavare queste informazioni

dalla loro vita quotidiana senza fare rife-rimento a particolari strumenti, peraltro inesistenti a quell’epoca.Controllavano la direzione del vento, osservavano il cielo, tastavano il sale da cucina per vedere se era umido o secco, controllavano la sabbia del bagnasciuga se era compatta o meno, osservavano se le onde mangiavano o rilasciavano la sab-bia ed i ciottoli sulla battigia, e osserva-vano se l’onda formava dei laghetti sulla battigia. Nel nostro mare, e grazie al nostro clima, racconta Antonio Brancaleone, si pesca-no molte varietà di pesci: con la rete ac-ciughe e sardine, con la pesca a strascico calamari, seppie e sogliole, con le reti da posta naselli e occhialoni e, soprattutto in autunno, si pescano a traino tonneti, lampughe e cavalle.

I pescatori

La pesca a strascico delle acciughe si può fare solo in alcuni periodo dell’anno, prin-cipalmente da marzo a novembre; da noi si conservano sotto sale (sono famose le acciughe sotto sale di Monterosso) pescate e aperte a metà vengono messe sotto sale nelle albanelle di vetro per 2-3 mesi, con un marmo sopra sino a che non sono pron-te. Le acciughe si pescano di notte. Quindi nel pomeriggio il pescatore-cuo-co prepara la cena e gli altri uomini

dell’equipaggio sistemano tutto l’occor-rente per la pesca, comprese le lampare che, montate sulle barche, attireranno le acciughe che poi resteranno nella rete tesa da un’altra barca chiamata stazza. Se il mare è generoso le reti si riempiono e il pescato viene sistemato nelle cassette con il ghiaccio. Si rientra il mattino e il pesce è pronto per il mercato.

Famoso è il loro giupin, zuppa di pesce fatto principalmente con lo scorfano, che nella riviera di levante si chiama bagnun.Non si può fare a meno di parlare dei Muscoli de Spesa, citati anche dal grande cantautore Fabrizio De Andrè in Creusa de Mà; da noi le cozze si chiamano mu-scoli , per la resistenza che fanno quando qualcuno vuole aprirli. Più piccoli di quel-li spagnoli, meno sabbiosi di quelli dell’A-driatico, hanno valve di un nero brillante e dalla fine degli anni ’40 vengono esposti sulle bancarelle nel mercato storico del pesce per la vendita.

In origine per la loro coltivazione si usa-vano paletti di legno; in seguito il legno fu sostituito dal ferro tubo, per durare nel tempo, e le reste, ovvero le corde che ser-vono da ancoraggio per i mitili, ora sono sorrette da bottiglie di plastica

Franca e la sua tripperia: una storia fra tante

Franca Secco gestisce una bottega stori-ca della Spezia, la tripperia di Piazza del Mercato, aperta dai nonni nei primi del ‘900. A quei tempi gli operai dell’Arsena-le facevano colazione con il brodo che vendevano i suoi nonni . Ai genitori di Franca spettò il compito di continuare l’attività ma il padre morì quando lei aveva pochi mesi. La madre si trovò sola a condurre il negozio e a crescere la figlia, che studiò fino a diventare assi-stente sociale. Vive il ’68 con i suoi coetanei, con la speranza di contribuire un mondo mi-gliore; inizia a fare tirocini all’ospedale psichiatrico di Cogoleto tra grate e serra-ture, con il reparto infantile per bambini autistici ed epilettici, anche di tre anni, rinchiusi perché ritenuti pericolosi .

Spera nella legge Basaglia, nella chiusu-ra dei manicomi e nella possibilità di una gestione più umana del disagio mentale. Contribuisce attivamente a riportare i ma-lati spezzini dall’ospedale di Volterra alla loro città d’origine, dove trovano ospitalità in alcuni alberghi locali ma l’esperienza dura poco, in realtà non fu mai costruita una valida alternativa ai manicomi. Nel ’92 la madre si ammala e lei fa una scelta radicale. Lascia il lavoro che svolgeva con tanta passione e torna in tripperia, tra lo stupore dei clienti. Ora continua l’attività col figlio, e nonostante la crisi gli affari vanno a gonfie vele. Sia per la bontà del prodotto, sia per la gentilezza con cui Carla e il figlio accolgono tutti.

La comunità custode dell’olioL’olivo è stata la prima pianta che l’uomo ha imparato a coltivare circa 6.000 anni fa grazie ai molteplici usi dell’olio che se ne ricava: alimentazione, unguento per gli atleti, medicina per le ferite e per prodotto di bellezza, come combustibile per rischiarare il buio della notte. La sua fama di albero immortale deriva dalla longevità del suo tronco principale il quale può rigenerarsi continuamente; prima che una nuova pianta dia i frutti occorrono però decenni.Nell’antichità si diceva che il Mediterra-neo comincia e finisce dove è possibile coltivare l’ulivo; infatti l’area geografica del Mediterraneo è strettamente legata a questa coltura che ha condizionato anche il tipo di alimentazione grazie all’uso dell’olio come condimento, in sostituzione del grasso animale.Nella zona del Parco di Montemarcello- Magra si pratica ancora l’olivicoltura di tipo tradizionale; le olive si raccolgono manualmente, si pratica la brucatura, e l’estrazione dell’olio avviene con processi meccanici e fisici.Antichi oliveti terrazzati ricoprono ancora la superficie del Caprione, bellissimo promontorio che collega l’area del Golfo dei Poeti alla Val di Magra e che in ogni stagione dell’anno offre escursioni suggestive per i colori, i profumi, e gli scorci di paesaggi che ad ogni passo si schiudono agli occhi del passante.

In primavera negli oliveti fioriscono anemoni, orchidee e in estate papaveri e gladioli e numerose erbe aromatiche.La produzione di olio è stata una delle principali fonti di guadagno per la popola-zione locale fino agli anni cinquanta ma successivamente l’abbandono della terra ha provocato il progressivo deperimento delle piante e il deterioramento dei mu-retti a secco. Per contrastare l’abbandono di que-sto tipo di coltura sono nate comunità custodi, come quella degli olivicoltori di Ortonovo.Queste comunità nascono per recuperare, conservare e tutelare il territorio attra-verso la valorizzazione dei suoi prodotti, come l’olio; la loro funzione è preziosa e andrebbe riconosciuta e incentivata e soprattutto ne andrebbe colto il grande messaggio educativo.

Non soltanto il vino canta,anche l’olio canta,vive in noi con la sua luce maturae tra i beni della terraio seleziono,olio,la tua inesauribile pace,la tua essenza verde,il tuo ricolmo tesoro che discendedalle sorgenti dell’ulivo.

Da “Ode all’olio” di Pablo Neruda

Platone sosteneva “ non converrà , forse, cercare (per governare), quelli che sono nobilmente capaci di seguire le tracce della natura del bello e dell’armo-nioso, affinché i giovani, vivendo in un luogo salubre, ne traggano giovamento, allorché dalle opere belle colpisca la loro vista e l’udito, un’aura apportatrice di salute da luoghi sani, e li conduca, sin da fanciulli, senza che se ne avvedano, a farsi conformi, amici e concordi con la retta ragione e di educare i giovani al bello e all’armonioso (…)”