believer3

6

Click here to load reader

Upload: eleonora9380

Post on 21-Jun-2015

280 views

Category:

Entertainment & Humor


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: Believer3

57

I dodici film di Gus Van Sant sono lenti d’ingrandimento dai mille colori puntate sull’inquietudine, piacevoli indagini sulla morte. La carriera del regista, cominciata ventitré anni fa, comprende anche un romanzo, dei video musicali, un libro di fotografie, un paio di cd e una serie di cortometraggi e si può

dividere approssimativamente in tre periodi.I primi film: Drugstore cowboy, Belli e Dannati, e Mala No-che, fatto uscire di recente, sono dei ritratti coraggiosi e lirici di poveri cristi drogati e vagabondi destinati a una morte precoce e insensata. Alla metà degli anni Novanta arriva una serie di film più commerciali: cowgirls – il nuovo sesso, will Hunting – genio Ribelle, Da morire, Scoprendo Forrester, e il remake inquadratura per inqua-dratura di Psycho. Questi film, realizzati ad alto budget e con attori

famosi, hanno di volta in volta portato Gus Van Sant agli Oscar e alla fama. In questo periodo Van Sant si è cimentato anche in un romanzo: Pink, da molti considerato una riflessione sulla morte di River Phoe-nix. Poi è stato il momento di gerry, un film fatto di lunghe sequenze in tempo reale, che segna il ritorno di Van Sant al tema della morte. Matt Damon e Casey Affleck vagano per cento minuti attraverso il deserto, nella desolazione più totale, parlando a stento, finché uno dei due muore. Qui le cose più banali, come il silenzio, acquistano una valenza metafisica. I dettagli della quotidianità ricostruiscono quei momenti che anticipano la morte, un tipo di percorso che Van Sant ha continuato con elephant, Last Days, per finire con Paranoid Park, tre elegie cariche di uno straordinario senso di compassione.In occasione di questa intervista Gus Van Sant stava partecipando

GUS VAN SANT[FiLMakeR, ScRiTToRe]

«iL ciNeMa MoDeRNo È uN coDice»

come descrivere il cinema dalle lunghe sequenze:RomanzescoEsperienzialeVerisimigliante

Compassionevole

Illustrazione di Tony Millionaire

Page 2: Believer3

58

alla prima nordamericana di Paranoid Park, all’International Film Festival di Toronto. Col suo stile sobrio e impeccabile, si è presentato in perfetto orario per l’intervista al Four Season Hotel Café, dove ha discusso della sua carriera assaporando dei waffle belgi.

È coN FRaNk cHe DeVi PaRLaRe

the believer: Hai attraversato un periodo molto interessante alla fine degli anni Novanta. Hai portato avanti due progetti commerciali, Will Hunting – Genio ribelle e Scoprendo Forrester, hai scritto un libro e hai rigirato scena per scena Psycho. Secon-do me un artista, se rifà un film scena per scena, o ci sta facen-do fessi oppure forse si trova in un momento molto difficile. o forse tutte e due le cose. Ma sembrava che davvero tu volessi tornare a ragionare in qualche modo sul linguaggio fondamen-tale del tuo medium. È così che ti sentivi in quel periodo?

gus van sant: a volte mi capita di leggere una sceneggiatura che per qualche motivo finisce per intrigarmi. a volte faccio delle cose in parte perché non le ho ancora fatte. Nel caso di Will Hunting immagino che il motivo fosse non aver mai fatto un film che aveva un eroe per protagonista. Nei miei film ci sono sempre stati degli antieroi, e allora mi sono detto: be’, vediamo come me la cavo. Poi visto il successo di Will Hun-ting – grandi incassi al botteghino e svariate nomination per la Miramax – per la prima volta una major ha cercato di fare affari con me, lasciandomi carta bianca e pagandomi molti più soldi di quanti ne avessi mai guadagnati.

c’erano dei progetti che non avevo mai potuto realizzare, e uno di questi era Psycho. era un progetto che avevo proposto all’inizio degli anni Novanta, e quella era la prima volta che mi trovavo nella condizione di realizzare un progetto da me proposto. il motivo per cui avevo pensato a Psycho era in parte dettato da un desiderio di appropriazione artistica, e in parte dalla mia consapevolezza, dopo anni passati nel business cine-matografico, di quali fossero le reali aspettative dei capi. i film a cui sono più interessati gli studios sono i sequel. Preferiscono

quasi di più fare i sequel che fare gli originali, il che può essere visto come un altro esempio divertente del comma 22.

gli studios devono fare Bourne Identity prima di Bourne Ultimatum per questioni legali. Ma quello che vogliono fare davvero è Bourne Ultimatum. e così mi è venuta questa idea, perché non si rimettono allora a fare i remake dei loro grandi successi?

È stato dopo Drugstore Cowboy. ero nell’ufficio del presi-dente della universal, e con lui c’erano altri vertici della major, e uno di loro era il responsabile dell’archivio. così mi hanno guardato e mi hanno detto: questo è Frank. Si occupa dell’ar-chivio, e se ci sono dei vecchi film di cui vuoi fare il remake, è con Frank che devi parlare. Quello che intendevano dire – dandolo quasi per scontato – era che se avevo in mente dei vecchi film che la gente non conosceva, potevo semplicemente appropriarmene, o renderli più appetibili.

Quindi prima, mentre ero a una proiezione di Drugstore Cowboy, ho detto senza tanti peli sulla lingua – e bisogna ag-giungere che ero giovane, e che ero piuttosto arrabbiato dal modo in cui i capi delle major trattavano i film: be’ ragazzi, perché allora non sfruttate quello che piace alla gente e fate i remake dei vostri successi cercando di venderli proprio grazie al fatto che sono stati i vostri maggiori successi? Non cercate di rifare quegli oscuri film polizieschi di cui nessuno ha mai sentito parlare.

blvr: Mi sembra piuttosto logico.

gvs: c’erano altre cose simili in ballo in quel periodo. Si fa-cevano dei film a partire da vecchie serie televisive, come per esempio La famiglia Addams, che è stato il primo. Quello di cui avevano veramente bisogno era una specie di marchio di fabbrica. così se la gente andava al cinema, si andava a vedere La famiglia Brady perché, avendolo già visto in tv, sapeva di che si trattava. una cosa abbastanza simile a fare il remake di un film di successo.

Ho scelto Psycho a caso. Sapevo soltanto che era un film del-la universal e che a suo tempo era stato un successo. Ho detto: rifacciamo un film che vi piace – Psycho per esempio – senza

Page 3: Believer3

59

cambiare assolutamente nulla. Lo copiamo pari pari. Lo si rifà a colori, con un nuovo cast, con Jack Nicholson nel ruolo del detective, e altri attori moderni, una versione aggiornata. Ma il lato tecnico si lascia uguale: sembra funzionare, quindi perché mai stravolgerlo? e loro si sono tipo messi a ridere e mi hanno detto: be’, non ci pare il caso. Ma poi ogni volta che ritornavo lì, ripetevo la stessa cosa e loro si rimettevano a ridere.

e poi è arrivato l’autunno 1998, la vigilia degli oscar, e Will Hunting era in nomination come miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior sceneggiatura…nove categorie. gli agenti e i vertici dell’academy erano usciti fuori di testa. avevano sei o sette film come potenziali grossi vincitori, e al telefono – non c’era nemmeno bisogno di incontrarli di per-sona a quel punto – al telefono cercavano di farmi firmare un accordo, tramite il mio agente, un accordo che probabilmente, se volevano, potevano anche cancellare.

così il mio agente mi fa: «Sta chiamando la universal. Vo-gliono fare qualcosa. Qual è il tuo sogno nel cassetto? Qualsia-si cosa ti passi per la testa». e io gli rispondo: «ah, ce l’ho, digli Psycho. Senza cambiare nulla. La copia esatta del film. a colori e con un nuovo cast». e dopo cinque minuti mi richiama di-cendo che l’hanno trovata un’idea eccezionale. Dunque, prima non era questa grande idea, ma adesso, visto che Will Hunting stava andando bene, era diventata un’idea eccezionale.

blvr: Dopo Psycho e i film commerciali arriva Gerry. ed è il primo passo verso questa trilogia. io intravedo una certa pro-gressione: prima Psycho, poi Gerry e poi la trilogia di Elphant, Last Days e ora Paranoid Park. Nel momento in cui hai iniziato a lavorare a Gerry hai cominciato a interessarti alla tradizione del cinema anni Settanta con le lunghe riprese in tempo rea-le, ai lavori della regista belga chantal akerman, o di andrei Tarkovsky, o warhol prima di loro, e poi al maestro ungherese Béla Tarr, che continua ancora a fare film.

con Gerry hai allestito la cosa più semplice che un regista potrebbe immaginare: della gente nel deserto, un paesaggio desolato. e poi sembra che hai semplicemente piazzato la ci-nepresa da qualche parte tra la polvere lasciando che gli attori si muovessero all’interno dell’inquadratura. Quindi nonostan-

te sia uno stile chiaramente ispirato al movimento degli anni Settanta, è anche un primo passo verso la ricerca di un nuovo linguaggio.

gvs: Sì, penso che molto abbia a che fare con quello che hai detto tu, il linguaggio e poi aver visto il film Satantango di Béla Tarr.

blvr: il suo film di otto ore ambientato nell’ungheria post-comunista. una pioggia senza tregua e gli abitanti del villaggio che arrancano in mezzo alla fanghiglia, il tutto in lunghissime sequenze in tempo reale. ecco quello che mi ricordo del film. Non succede molto, ma è un film bellissimo.

gvs: Per me è stata una rivelazione, l’esempio di un diverso tipo di linguaggio. io venivo dal cinema sperimentale. Sono stato un pittore all’inizio, ecco cosa ero. al liceo non si ha una vera e propria identità, ma se proprio devo trovarne una direi che facevo il pittore. Facevo anche qualcosa in campo cinematografico, ma era tutta roba sperimentale. Sono andato a New York per vedere i corti dell’antology Film archive, e quando sono andato a Providence [alla Rhode island School of Design] ci facevano vedere corti sperimentali. Veniva a parlare Michael Snow e ci mostrava i suoi film, per esempio Wave-lenght. eravamo interessati al cinema espanso e al cinema di avanguardia.

Quando poi arrivi a Los angeles, e cominci a lavorare den-tro al sistema, hai sempre in mente quel genere di cinema. il cinema moderno è un codice che è stato inventato a un certo punto. Le regole che impari – e immagino che funzioni alla stessa maniera con qualsiasi medium – sono regole che vengo-no create, assorbite e ricreate. L’arte astratta è una specie di in-venzione che viene assorbita e diventa uno stile a sé, quello che m’interessava era un cinema popolare che avesse quello stile.

Ho letto anche McLuhan, la sua idea fondamentale di me-dium come messaggio, e allora è mi è diventato piuttosto chiaro come il cinema moderno usi i film semplicemente per presen-tare un qualcosa che in origine apparteneva a un altro medium, come la letteratura o il teatro. il cinema non aveva ancora una

Page 4: Believer3

60

sua autonomia e ha subito dei grossi sconvolgimenti con l’in-venzione del close-up e del campo medio nella metà degli anni Dieci, dal 1910 al 1920. Si trattava di innovazioni stilistiche che si sono poi trasformate in un linguaggio popolare.

Lo stesso vale per il modo di raccontare le storie, anche quello deriva da media preesistenti. Quello che McLuhan cri-tica, o che semplicemente constata, è che un nuovo medium saccheggia quelli vecchi fino a quando non acquista una sua autonomia. Si può usare lo scrivere come mera trascrizione di parole, ma a un certo punto il processo arriva a un suo stato di elaborazione mentale che lo fa confluire in un romanzo, che è una cosa diversa dal ricopiare le parole di un oratore, alla fine agisce come una narrazione psicologica. Quindi un film prende da altri media fino a quando arriva dove deve arrivare. Mentre guardavo Satantango, ho pensato: wow, questo tizio ha demolito il sistema.

una piccola regola del cinema è che non bisogna mai sca-valcare quella linea che unisce idealmente i due personaggi nella scena. Bisogna riprendere la scena rimanendo dalla stessa parte di questa linea, non si può passare dall’altra parte a pro-prio piacimento, dato che una cinepresa non dovrebbe far altro che imitare la presenza di un’altra persona nella stanza, di un osservatore esterno.

Mi è sempre interessato questo piccolo quesito, ossia: come si fa a superare la linea? e guardando i film di Béla Tarr, ho pensato: ah, ecco, il modo per superare la linea è ovviamente evitare di avercela. Lui ragionava mettendosi fuori dallo sche-ma. Senza linee. La cinepresa così non fa avanti e indietro. e l’ho trovato geniale, perché, in fondo, a che serve creare una linea? Perché bisogna fare campi e controcampi? un osserva-tore non si comporterebbe così. gli occhi saettano di continuo da un punto a un altro, il montaggio imita questo movimento, ma alla fine non è veramente un montaggio, è più una pano-ramica velocissima.

blvr: Le panoramiche veloci non mancano di certo nei film contemporanei. Tutte le scene di inseguimento o di combat-timento nella serie Bourne sembrano fatte per lo più con delle panoramiche svelte.

gvs: È un modo per creare un nuovo linguaggio. Forse non servirà a tagliare i ponti con l’aspetto letterario, che è quello di cui parla McLuhan e che è una cosa difficilissima da superare. Non è così semplice, non è come dire: basta con le opere tea-trali o la letteratura, facciamo qualcosa di totalmente diverso. e i filmaker veramente sperimentali, come kenneth anger o Stan Brakage, ci provano davvero, rompono le regole, escono fuori dallo schema letterario, creano un cinema nuovo. Ma è un cinema che non è ancora stato assorbito dal consumatore o dall’osservatore medio.

VeRiTà ciNeMaTica

blvr: Mi piace come nei tuoi film più recenti riesci a creare un universo personale all’interno degli spettatori. e credo che in parte questo derivi dalle scene lunghe, o quanto meno sembra che attraverso queste lunghe scene tu abbia cominciato a sco-prire il modo in cui farlo.

gvs: credo che questi siano in un certo senso dei film stili-sticamente innovativi, anche se non infrangono veramente il codice letterario. anzi vanno proprio nella direzione di un modello letterario. o quantomeno mi sembra che assomiglino di più a qualcosa che potrebbe esistere dentro un romanzo. La presenza dello spazio in questi film è tale da restituire una forte percezione del fluire del tempo. Quando in Elephant c’è qualcuno che passeggia nel corridoio per tre minuti, secondo me è romanzesco nel senso che anche uno scrittore potrebbe descrivere per tre pagine la scena di qualcuno che cammina lungo un corridoio. gli scrittori usano pagine e pagine per descrivere le cose più semplici. Per dire, c’è un racconto di David Foster wallace in cui viene descritto un uomo steso sua una chaise longue nel cortile sul retro di casa. una descrizione di dieci pagine, o una cosa del genere, da cui non riesci a stac-carti, perché ti prende veramente.

blvr: in questo tempo che metti a disposizione degli spetta-tori, possiamo attivarci e immaginare i vari dettagli. Notiamo

Page 5: Believer3

61

piccoli particolari, il colore delle pareti, un’alzata di spalle, la trama del pavimento, gli sguardi degli altri ragazzini, le loro diverse espressioni.

gvs: Di certo i film sono orientati verso un superamento del codice, ma l’impasse è grosso e il superamento non avviene. Secondo me succederà qualcos’altro prima che il cinema riesca ad acquistare un suo linguaggio specifico. Per esempio l’in-venzione di uno spazio tridimensionale, che dovrà attingere da altri media prima di ottenere una sua autonomia. a quel punto il cinema sarà diventato obsoleto, come il cinema muto. ci sarà un nuovo tipo di cinema tridimensionale. Sarà come il vecchio cinema ma non più piatto.

blvr: una cosa dei tuoi film che trovo estremamente impor-tante è il loro senso di compassione. Faccio una distinzione tra questo genere di compassione e l’effetto tipico dei film hollywoodiani, dove ci sentiamo costretti a empatizzare sen-timentalmente con un personaggio. i film sentimentali con-venzionali si basano su un precondizionamento emotivo già insito dentro di noi. Non ci fanno vedere niente di nuovo ma semplicemente uno schema che fa scaturire un tipo di rispo-sta già predefinita. Quello a cui sembri essere interessato tu è invece un senso di compassione più profondo, che ci consenta di stabilire una nostra personale relazione emotiva con il per-sonaggio e con la storia.

gvs: Sono molti i film che mi innervosiscono, dove anche se ti interessa un personaggio non hai nessuna possibilità di apprez-zarlo perché staccano di continuo su altro, pure se si tratta di Brad Pitt o Meryl Streep. Magari nel film c’è un grande lavoro di recitazione, ma per gustarti davvero quello che viene fatto hai appena tre secondi, e poi via, e poi di nuovo sugli attori, e poi via di nuovo. Sarebbe così semplice invece starsene seduti lì a osservare questi tizi per un bel po’ di tempo.

È proprio questo che mi piace nei lavori di Béla, o in altri film che ho visto come quelli di chantal akerman, è che li guardi con la sensazione di essere davvero dentro quello che stai guardando. Hai tutto il tempo di partecipare all’evento

e non di fare soltanto una toccata e fuga. in Gerry è come se attraversassi il deserto insieme ai protagonisti, non li vedi semplicemente iniziare e terminare il loro cammino, ma ne diventi parte integrante.

in Elephant non c’è stata una sceneggiatura nel senso clas-sico del termine. Non c’era nessuna sceneggiatura. La prima cosa che abbiamo fatto è stato un casting di gruppo dove ab-biamo incontrato i personaggi che sarebbero entrati nel film. Li abbiamo selezionati e accoppiati in modo da far lentamente venir fuori un gruppo di dieci personaggi che ci piacessero e che potessero funzionare come diverse tipologie di liceali: la ragazza della biblioteca, il ragazzo con i capelli biondi, il foto-grafo alto, i due assassini.

avevamo questo gruppetto di ragazzi e Mali Finn, la diret-trice del casting, ci ha semplicemente parlato. Ma è riuscita a parlarci con una tale intensità che sembrava quasi una seduta di psicoterapia. Loro, grazie al tipo di interviste che faceva Mali, le raccontavano degli episodi veramente forti della loro vita dopo neanche un minuto di conversazione. così ci siamo detti: ok, questi sono i personaggi, ora dobbiamo capire cosa farne. al che ho cominciato a delineare una sceneggiatura co-struita intorno a questi personaggi. in parte ho sfruttato degli elementi della loro vita reale, per esempio elias faceva davvero il fotografo, e in parte ho usato quello che mi ricordavo del-la mia personale esperienza di liceale. Quindi è come se in qualche modo la ricostruzione storica sia stata fatta a partire dai personaggi. e poi ci sono tutti quei tempi lunghi che lo spettatore si trova a condividere con loro. il processo di vero-simiglianza diventa quasi una forzatura.

Ho appena visto Jesse James [L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford]. È un film tranquillo in cui sembra che non succeda nulla. Ma poi quando i personaggi sono nel bosco e chiacchierano ti viene da pensare: ah, mi fa proprio piacere essere qui con questi tizi. e allora mi sono chiesto: «e perché? Di che si tratta?». La stessa cosa di quando leggi le prime pagine di un libro che ti prende veramente. Magari è semplicemente la descrizione di un fiume e tu non sai bene perché ma sei pro-prio contento di essere lì a pagina tre.

È un cosa che nemmeno un romanziere è ben consapevole

Page 6: Believer3

62

di come fare, anche se l’ha fatta un sacco di volte. Si arriva a questa specie di agevolezza totale nel proprio lavoro ed è una cosa che il pubblico riconosce e apprezza. Dipende dal fatto di averci provato parecchio. Non si tratta tanto di regole, quan-to di sensazioni. Magari io vado avanti per tre pagine con la descrizione di un fiume, e a pagina tre il lettore pensa: vab-be’, adesso però basta. Ma qualcun altro, tipo Nabokov, può descrivere un fiume per tre pagine e a pagina tre ne vorresti ancora. credo che ciò dipenda dalla familiarità che ha [un ar-tista] rispetto al proprio stile.

blvr: Mi sembra che nel tuo romanzo a un certo punto Todd Truelove, un regista sperimentale tedesco, dice di voler con-trollare l’immagine in un modo che consenta al filmaker di avvicinarsi a una verità il più possibile rivelatoria e comuni-cabile.

gvs: È una cosa che ho sentito dire da werner Herzog al nostro museo di Portland, in occasione di una proiezione. Herzog è un oratore fantastico, nonché un pensatore straordinario ed originale, come tutti sanno. Stava parlando di verità cinema-tica, un argomento spesso affrontato da chi fa cinema in ma-niera molto diversa. e mi ricordo che ha detto alcune cose a proposito del cinéma verité, che è stato un movimento francese degli anni Sessanta.

Penso che l’idea del cinéma verité consista nel girare senza operare nessun tipo di manipolazione. Fondamentalmente non si fanno tagli, non si spegne mai la cinepresa, si continua a girare, e a quel punto la verità affiora perché non c’è mani-polazione, non ci sono close-up, non ci sono altri movimenti di camera, perché sarebbero tutti falsi, perché il montaggio significa falsificazione. Herzog presenta le cose in questa ma-niera fantastica, al limite del surreale, e a volte gira dei docu-mentari manipolando i suoi soggetti in uno stile anti-cinéma-verité. Lì ci stava spiegando come il cinéma verité fosse stato un momento assolutamente irrilevante all’interno della storia del cinema, perché non dice la verità assolutamente su nulla. Non so se essere o meno d’accordo con lui, ma penso che il cinema di Herzog sia incredibilmente potente e che il suo

tentativo sia quello di avvicinarsi a una verità trasmissibile.

blvr: anche tu cerchi di avvicinarti a queste verità?

gvs: Sì, certo. Di sicuro questi tre film [Elephant, Last Days, Paranoid Park] cercano di avvicinarsi a qualche tipo di verità che non si vede da altre parti.

in Last Days aleggia costantemente il mistero di cosa abbia fatto [kurt cobain] nel periodo in cui si sono perse le sue trac-ce, come se fosse da trovare lì la vera ragione della sua morte. e io ho pensato che magari non c’era una risposta e quello era semplicemente un momento come un altro della sua vita. un periodo in cui probabilmente non è successo niente di straor-dinario, magari l’unica cosa che ha fatto era di aggirarsi per quella casa. Magari non è la verità assoluta, però può essere la verità su quei giorni di sparizione, che per me restano un mi-stero importante e interessante. e ci sono dei piccoli indizi per capire quello che è successo veramente. Dei brevi istanti in cui qualcuno è riuscito a vedere kurt. Tutti questi piccoli puntini con cui riempire il vuoto. e io cercavo di arrivare alla verità di quei tre giorni, ma una verità che riguardasse in effetti gli aspetti più quotidiani della sua vita.

Mentre in Elephant ci sono molte più verità che non ven-gono propriamente manifestate, sono soltanto suggerite. La prima è l’assenza del genitore, la responsabilità del genitore di essere alcolizzato. e poi c’è l’ambiente del liceo, l’assen-za di un sistema, o la presenza di un sistema troppo limitato per poter controllare davvero i ragazzi. e i soliti sospetti che entrano lentamente in scena innescando una tua riflessione sull’argomento, che poi si accelera mentre tu, nel tempo che hai a disposizione, porti avanti i tuoi ragionamenti e le tue considerazioni personali. Per cui alla fine del film ti ritrovi ad aver meditato autonomamente sull’argomento, sfruttando le informazioni che avevi, senza che io ti abbia rivelato la veri-tà in proposito. Non c’è nessuna ipotesi che venga dichiarata. Non viene data una risposta, perché dare una risposta, o anche cinque o sei risposte, lascerebbe comunque fuori le altre centi-naia di risposte che ci sono, che potrebbero essere date da noi, dal pubblico e da ogni singolo spettatore. ✯ vr