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numero due giugno 2010 paese ospite: USA

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La rivista di libri e culture letterarie

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numero due giugno 2010

paese ospite: USA

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Redazione

Paola Calvetti Carla Casazza Marco Crestani Layla El Sayed Michele Genchi Alen Loreti Valeria Merlini Geraldine Meyer Francesca Schirone

U�cio Stampa Paola Manduca

Colophon Agnese Trocchi

[email protected]

le foto di questo numero sono di: © B-S-P e 16Ale16 da Flickr

pag. Sommario 3 Editoriale

5 Speciale USA: Paul Auster interview Dove va il romanzo americano

20 Diari di Bordo Quella volta che sono morta a NY

26 Recensioni: Paul Auster, Invisibile David Foster Wallace, In�nite Jest

18 Il libro del mese: Miljenko Jergović:, Freelander

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Mentre “andiamo in macchina” è' morto il grande scrittore Josè Saramago. Aveva 87 anni.

José Saramago era nato ad Azinhaga, in Portogallo il 16 novembre 1922. Trasferitosi a Lisbona con la famiglia in giovane età, abbandonò gli studi uni-versitari per difficoltà economiche, mantenendosi con i lavori più diversi. Ha infatti lavorato come fabbro, disegnatore, correttore di bozze, traduttore, giornalista, fino a impiegarsi stabilmente in campo editoriale, lavorando per dodici anni come diretto-re letterario e di produzione.

Il suo primo romanzo, "Terra del peccato", del 1947, non riceve un grande successo nel Portogallo oscurantista di Salazar, il dittatore che Saramago non ha mai smesso di combattere, ricambiato con la censura sistematica dei suoi scritti giornalistici. Nel 1959 si iscrive al Partito Comunista Portoghese che opera nella clandestinità sfuggendo sempre alle insidie ed alle trappole della famigerata Pide, la polizia politica del regime. In effetti, bisogna sottolineare che per capire la vita e l'opera di que-sto scrittore non si può prescindere dal costante impegno politico che ha sempre profuso in ogni sua attività. Negli anni sessanta, diventa uno dei critici più seguiti del Paese nella nuova edizione della rivista "Seara Nova" e nel '66 pubblica la sua prima raccol-ta di poesie "I poemi possibili". Diventa quindi come detto direttore letterario e di produzione per dodici anni di una casa editrice e, dal 1972 al '73, è curatore del supplemento cultura-le ed editoriale del quotidiano "Diario de Lisboa" Sino allo scoppio della cosiddetta Rivoluzione dei Garofani, nel '74, Saramago vive un periodo

di formazione e pubblica poesie ("Probabilmente allegria", 1970), cronache ("Di questo e d'altro mon-do", 1971; "Il bagaglio del viaggiatore", 1973; "Le opinioni che DL ebbe", 1974) testi teatrali, novelle e romanzi. Il secondo Saramago (vice direttore del quotidiano "Diario de Noticias" nel '75 e quindi scrittore a tem-po pieno), libera la narrativa portoghese dai com-plessi precedenti e dà l'avvio ad una generazione post-rivoluzionaria. Nel 1977 lo scrittore pubblica il lungo e importante romanzo romanzo "Manuale di pittura e calligra-fia", seguito nell'ottanta da "Una terra chiamata Alentejo", incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più ad Est del Portogallo. Ma è con "Memoriale del convento" (1982) che ottiene final-mente il successo tanto atteso. In sei anni pubblica tre opere di grande impatto (oltre al Memoriale, "L'anno della morte di Riccardo Reis" e "La zattera di pietra") ottenendo numerosi riconoscimenti. Gli anni Novanta lo consacrano sulla scena interna-zionale con "L'assedio di Lisbona" e "Il Vangelo se-condo Gesù", e quindi con "Cecità". Ma il Saramago autodidatta e comunista senza voce nella terra del salazarismo non si è mai fatto avvincere dalle lusin-ghe della notorietà conservando una schiettezza che spesso può tradursi in distacco. Meno riuscito è il Saramago saggista, editorialista e viaggiatore, probabilmente frutto di necessità contingenti, non ultima quella di tenere vivo il suo nome sulla scena letteraria contemporanea. Nel 1998, sollevando un vespaio di polemiche so-prattutto da parte del Vaticano, gli è stato conferito il Nobel per la letteratura. Viveva a Lanzarote da molti anni.

La morte di Josè Saramago

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Gli Stati Uniti si compongono di una delle po-

popolazione è talmente dinamica da contare, su circa 300 milioni, più di 30 milioni di individui nati all'estero che parlano molte lingue e dialetti. Circa un milione di nuovi immigrati arrivano ogni anno nel paese, e molti di essi provengono dall'Asia e dall'America Latina.

Non può stupire pertanto che la letteratura ame-

che hanno plasmato e che furono proprie della popolazione del paese. Una letteratura che oggi possiamo rappresentare come altrettanto diver-

vecchie idee e adattando le tradizioni letterarie per soddisfare le mutate condizioni della vita nazionale. Progressi economici e sociali hanno consentito a gruppi in precedenza sotto-rappre-sentati di esprimersi in modo più pieno, mentre il cammino verso il futuro ha consentito, tramite le continue innovazioni tecnologiche, alla creazione di un rapido movimento pubblico. Oggi, il pano-rama letterario americano è fatto della moltipli-

libro, festival letterari, e i cosiddetti "poetry slams"

(competizioni di poeti emergenti); sono questi de-gli itinerari che attraggono un pubblico molto più che entusiasta, tanto che la selezione di un nuovo lavoro per un club del libro può lanciare uno scrit-tore sconosciuto alla ribalta nel giro di sole 24 ore.

Colui che ha avuto modo di vivere in America, conosce alla perfezione la tipica atmosfera della domenica mattina, quando dall'elenco dei libri best-seller del New York Times Book Review si testimonia la straordinaria varietà dell'attuale scena letteraria americana. Nel gennaio 2006, per esempio, l'elenco dei tascabili più venduti include-

nuovo thriller di John Grisham, ai sempre più po-

quelli dell'antropologo Jared Diamond o di socio-logia con gli scritti dell'editorialista del New Yorker Malcolm Gladwell, mentre si apriva il varco, sempre più esteso, di saggi sulla riabilitazione dalla droga e sulla criminalità. Nella ultima categoria, è stata una ristampa di Truman Capote 'A sangue freddo', un

-na la distinzione tra la letteratura e giornalismo e che poi è stato anche recentemente trasformato in

Un po’ più indietro, l’italo-americano Don deLillo

editoriale

la letteratura americana contemporanea e noi

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pubblicava il suo ‘Rumore Bianco’ (in lingua origi-nale White Noise, in Italia edizioni Einaudi 2005), di-ventando uno dei più prominenti autori della lette-ratura contemporanea americana e definito come il più grande esempio della letteratura postmoderna. Tra gli altri suoi scritti si citano Libra (1988), Under-world (1997), Mao II (1991) e Falling Man (2007). Si procede senza tralasciare il Nobel per la letteratura (1993) Toni Morrison, afro-americana, una delle più grandi scrittrici americane e madre di opere come L’occhio più azzurro, Sula, Il canto di Salomone, L’isola delle Illusioni e il celebre ‘Amatissima’ (Be-loved) con la quale ottenne il premio Pulitzer. Per non parlare di un’altro grande colosso dal nome di Philpip Roth molto amato dalla comunità che si stringe sotto il nome del nostro sito.L’editoria italiana segue e insegue con attenta vigilianza i fenomeni della letteratura americana contemporanea, basti pensare al grande lavoro di traduzione che l’editore Minimum Fax ha dedicato ad essa con autori del calibro di Jonatham Lethem o Rick Moody

Tra gli scrittori americani contemporanei, spicca Paul Auster. Conosciuto anche come traduttore della letteratura francese, porta alla letteratura americana un pool di influenze diverse, tra tra cui

quelle di Albert Camus, Jacques Derrida e Jean-Paul Sartre, o anche scrittori come Dashiell Ham-mett. Tra le sue opere più di successo troviamo ‘Trilogia di New York’ (1987), ‘Moon Palace’ (1989), ‘Leviathan’ (1992) e ‘Oracle Night’ (2004). Richard Ford sale alla ribalta letteraria nel 1986 con la pub-blicazione del celebre The Sportswriter, il primo di un terzetto di romanzi del memorabile Frank Bascombe. Seguono il celebre ‘Independence Day’ (1995), con il quale Ford vince il Premio Pulitzer per la narrativa, e il ‘The Lay of the Land’ nel 2006. Invisibile (2009) è il suo ultimo romanzo.Bookavenue è riuscita ad intervistarlo: l’articolo è in questo numero.

La letteratura americana ha attraversato un lungo, tortuoso sentiero, dall’epoca pre-coloniale ai giorni nostri. Società, storia, tecnologia, tutti hanno avuto grande impatto su di essa, e non poteva essere altrimenti. In definitiva, però, vi è una costante: l’umanità, sempre realmente rappresentata, anche con la fiction, con tutto il suo splendore e la sua cattiveria, la sua tradizione e le sue promesse.

Michele Genchi

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speciale giugno

la letteratura usa

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NO: Dunque: perché scegliere il periodo del Vie-tnam per aprire questo libro? Paul Auster: non riesco mai a dire 'perché' qualsiasi cosa faccia. Credo di poter dire 'come', 'quando' e 'cosa'. Ma 'perché' è impenetrabile per me. Le storie nascono e aumentano dal nulla, e se si sento-no impellenti, le seguo. Le lascio spiegare dentro di me e osservoe dove stanno andando a para-re. Questo mi affascinava. Penso di essere stato interessato a esplorare di nuovo l’essere giovane . I tre libri precedenti erano stati tutti su persone anziane. Ho pensato che forse avevo esplorato la questione a sufficienza. C'erano anniversari su anniversari; per esempio: il 40° del 68 era troppo incombente. La rivolta di Newark l’ho vissuta. Forse non a caso ho finito il libro nel '2008..

NO: Un sacco di invisibile si basa sulla memoria, su ciò che la gente ricordi il modo in cui certi fatti sono successi, chi ha le sue colpe. La memoria può avere i suoi difetti. Se vuole parlarne, mi piacereb-be sapere un po 'su come la memoria si riferisce alla narrazione e finzione per lei. PA: Lasci che le dica una storia di memoria. Non è collegata al libro, ma è collegata a quel tempo,

Paul Auster è stato definito "uno dei più grandi romanzieri viventi America" da più di un giornale o rivista letteraria o, comunque la si guardi, da molta parte delle comunità intellettuali esistenti.” Il suo ultimo romanzo, Invisibile , si apre a New York nel 1967 con il protagonista Adam Walker di 20 anni. Lui è un aspirante poeta e studente della Columbia, che incontra il francese Rudolf Born, un veterano e studioso dei conflitti francesi in Algeria. Quest’ultimo offrirà al giovane la possibilità di fon-dare una rivista grazie al lascito di una eredità. Il rapporto conseguente porta Walker a Parigi, dove incontra Cecile, uno studiosa ambiziosa e fiorente, in California, dove vive i suoi giorni scrivendo le storie della sua vita. Scritto in quattro parti, Invisibile, il 15 ° romanzo di PA scandaglia il significato della narrazione, di paternità e di verità, e penetra il complesso rap-porto tra memoria e identità. Ho avuto la possibilità scambiare una decina di domande con l'autore per discutere del suo nuovo romanzo, il suo approccio alla scrittura, i terro-ri della guerra, l'esplorazione della gioventù di Invisibile, sua moglie, la (mia amata) scrittrice Siri Hustvedt , e come il modo in cui Auster scrive è cambiato nel corso di tempo.

Speciale UsaIntervista a Paul Auster

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quindi è rilevante. Uno dei miei insegnanti alla Co-lumbia è stato Edward Said, scomparso pochi anni fa. Egli era il consigliere per la mia tesi di Master, che è stato l'ultimo passo nella mia educazione. Edward ha pubblicato postumo un libro intitolato On Late Style. E 'stato messo insieme da un altro mio vecchio professore della Columbia, Michael Wood, che ora è a Princeton e resta un buon amico. In realtà, Michael è la persona che mi ha intervi-stato per la revisione Parigi circa cinque o sei anni fa. Quindi è una amicizia che è continuata. Nel libro, vi è un saggio di Jean Genet. Non ricordo che anno era, poteva essere il '69, ma Genet venne al campus della Columbia a sostegno delle Pantere Nere. Egli tenne una conferenza presso la meridia-na, nel bel mezzo del campus. Dal momento che sapevo il francese, alcune persone che sapevano di questo evento mi chiesero se volevo essere il suo interprete per il giorno, cosa che avrei volentieri ha accettato di fare. Mi ricordo in giro con lui, ed era di ottimo umore. Aveva un piccolo fiore dietro l'orecchio, una modo di parlare morbido, sorriden-te, ed è stata una bella giornata di primavera. Edward scrive nel suo saggio che egli ricorda la visita di Genet al campus di Columbia. Ha scritto che si imbatté in uno dei suoi studenti in sua com-pagnìa, e che gli rispose:” sto interpretando per lui.' Non ricordo di essere incorso in Said e di avergli

detto questo. Poi, disse, Genet si alzò e parlò, e le sue osservazioni erano molto semplici e molto a sostegno delle Black Panthers e contro il razzismo negli Stati Uniti, ma che l'interprete studente aveva ri-elaborato tutti i suoi commenti e fatto ogni sorta di accuse contro l'America l'imperialismo e il capi-talismo. Non ho alcun ricordo di se ero o non ero io e mal interpretato il senso pieno del suo discor-so. Ero molto timido allora, e probabilmente non volevo farlo. So per certo, però, che se fossi stata quella persona a farlo, non ho avrei mai potuto ri-elaborare il suo discorso. Non è semplicemente qualcosa che sarei stato capace di fare o di voler fare. Quando ho visto Michael Wood di recente, abbia-mo parlato di questo. Ha detto 'sai, è molto proba-bile che Edward abbia mal re-interpretato tutto'. E così abbiamo questo buco di memoria: non ricordo se l’ho fatto o no, e lui non riusciva a ricordare ciò che è effettivamente accaduto. Sono rimasto scon-certato su questo per le settimane successive. Non riesco a far presa su quanto accaduto. Invisibile funziona un po 'come questo episodio.

NO: NEL libro è molto elaborataa l'idea della narrazione, le varie forme che essa può assumere, le voci diverse che può avere, come pure sono i diversi approcci che un autore e un lettore possono

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dare e avere da una storia. Per lei, nella creazione di questo libro, quali sono state alcune delle parti più importanti della narrativa? PA: E 'difficile da dire, tutto è importante.

NO: Ci sono state alcune parti che SONO venute fuori subito e da alcune parti che hanno preso un po 'di lavoro per uscire?

PA: La motivazione più forte che mi ha spinto nel libro è stata il rapporto Born / Walker. Questa è stata la cosa che è venuta fuori per prima. Il libro diventa qualcosa di più, naturalmente. Ma è una batteria costante nel libro. Penso che avesse a che fare con il modo in cui i giovani, anche persone molto brillanti e giovani, e Walker non è nulla se non molto brillante, troppo ingenuo e con poca l'esperienza. Troppo poco per capire certi tipi di persone che gli girano attorno. La maggior parte delle persone che hanno età analoghe e tipi di esperienze, forse non sono così drammatiche, ma l'idea generale è la seguente: certo, a 20 anni non capisci se le persone hanno la tua stessa profondità. E 'un momento affascinante nella vita, credo, perché a 30 non si fanno questi errori. Si può leggere la gente più rapidamente. Puoi fiutare il pericolo, ma a 20 anni, tutto è un'av-

ventura e tutto è nuovo e succede per la prima volta. Nè si desidera bloccare te stesso dal fare esperienza. Così Walker è aperto abbastanza per permettere a Born di fare amicizia con lui, ma anche stupido da pensare che uno o gli stranieri ti girano attorno e di darvi i soldi per avviare una rivista.

NO: Questa è una delle cose che mi e piaciuta di più: il loro rapporto in quella prima parte. Questa idea di iniziare questo tipo di rivista che si svolge in quel periodo di tempo è un'idea della quale sono davvero entusiasta.

PA: Tutti i giovani poeti avrebbero voluto avere riviste, allora. E molti di loro lo hanno fatto. Alcune erano molto a buon mercato, prodotti stampati da macchine ciclostile. Prima dell'esplosione della stampa off-set, le riviste mimeo (a fogli) erano dappertutto.

NO: si ricorda di quel periodo ogni o qualcosa che le è piaciuto particolarmente?

PA: Vediamo. Adventures in Poesia, a cura di Lewis Warsh e Anne Waldman. C'è stato anche un picco-lo editore con il nome bizzarro di Banana Press-che ha pubblicato il mio primo libro, una piccola anto-

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logia di poesie surrealiste, Traduzioni, gestito da un prosatore di nome Johnny Stanton. libri mimeo, con copertine di Joe Brainard e George Schnee-man. Poi naturalmente ci sono state riviste più bel-le, proprio come Walker descrive. Evergreen Review è stato molto importante allora. New Directions an-nuale e la Paris Review sono state alcune delle più importanti riviste di poesia. Insieme con alcune belle riviste come arte e letteratura, che è stata di breve durata. E 'stato un periodo molto fertile per la poesia e le riviste. Così Walzer, in questo senso, è semplicemente irresistibile.

NO: Il suo ultimo libro che ha molto a che fare con la guerra.

PA: Sì.

NO: E la guerra ha un anche un ruolo in questo libro.

PA: Sì.

NO: la prendo alla larga: perché e come si fa la fine della guerra per essere parte del processo di scrittura?

PA: Non ne siamo circondati ora, ? Siamo così im-mersi in essa che è difficile pensare ad altro. Siamo stati in Iraq più a lungo di quanto ci siamo battuti nella seconda guerra mondiale, ed è stato lo stesso tipo di catastrofe ma su una scala molto più piccola nel Vietnam. Ora c'è l'Afghanistan, che non sembra finire mai. Sembra che tutti stiano tentando di far saltare tutti in tutto il mondo. Ogni giorno apro il giornale e qualcuno ha sparato a qualcun altro o di qualche altro bombardamento, o minacciando di farlo. In questo libro, sto parlando del Vietnam. Sarebbe difficile spiegare a voi ciò che la guerra ha fatto alla società americana, come solo noi a pezzi. Non credo che abbiamo mai recuperato. Il fatto che saremmo potuti andare in Iraq per nessuna ragione al mondo mi sembra doppiamente tragica perché non hanno imparato la lezione. Non c'è fine a una guerra se non l'umiliazione, la sconfitta e la morte di un numero imprecisato di persone innocenti. Ho continuato a sbattere la testa contro il muro a causa della frustrazione. Born è francese ed è una persona che ha vissuto la debacle francese: cioè l'Algeria el’ Indocina, che è diventato il nostro Vietnam. Queste due cose hanno rovinato anche la Francia. La Francia non è mai stata più la stessa.

La violenza delle guerre imperiali erode il tessu-to della società conducendo la guerra. Entrambi i miei libri recenti esplorarano il fenomeno. Per quanto riguarda Born, la cosa curiosa è che non gli ho nome dal poeta provenzale, Bertran de Born. Born è Born e poi mi ricordai del poeta. Per qual-che motivo tutti i miei personaggi vengono da me con i loro nomi ad essi connessi. Non ho mai faticato per cercare i nomi.

NO: Un modo molto articolato per “trovare la qua-dra”, come di dice da noi in Italia…

PA: Sì, per un motivo o un altro, sono solo lì. Così Born è Born, per così dire, e poi ho cominciato a scavare nel suo poeta omonimo, il cui lavoro avevo letto quando ero studente, quando avevo l'età di Walker. Brutale, brillante, una poesia assolutamen-te scioccante. Lui è infatti presente nell’Inferno di Dante, passeggiando per il 28° Canto con una testa mozzata in mano. La poesia presente nel libro che ho tradotto è una vera poesia di Bertran de Born del 1185 o giù di lì. Non so il provenzale, ma ho usato una traduzione letterale francese per poi produrre la mia tradu-zione in inglese. Bertran è il poeta della guerra; Born, è qualcuno che è stato rovinato dalla guerra e anche, in un certo senso, è un sostenitore della guerra.

NO: Lei pensa che non ci sia un modo preciso in cui è possibile esplorare, nella sua scrittura, le idee di guerra o l'idea di cosa succede alle persone che sono coinvolte in guerra?

PA: E' una interessante domanda a cui si deve fare menzione, perché di recente ho finito un altro libro di un nuovo romanzo che è circa la stessa lunghezza Invisibile. Si svolge oggi (2008 e 2009) con ben pochi personaggi. La maggior parte delle persone nel libro sono tardoventenni, e una di queste persone è uno studente laureando che sta scrivendo la sua tesi sulle conseguenze immedia-te della seconda guerra mondiale e l'effetto sulla società americana ('45-'47) come riflesse nei libri, nei romanzi polizieschi, film e altre manifestazioni della cultura pop. Una parte del romanzo poi, esplora la giovane ge-nerazione di quel periodo, vale a dire, la generazio-ne dei miei genitori '. Mia madre è nata nel 1925, il che significa che quando aveva 16 anni quando l'America entrò in guerra. In altre parole, la sua tarda adolescenza e prima età adulta sono state

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vissute all'ombra della guerra. Tutta quella generazione è completamente segna-ta dalla Seconda Guerra Mondiale. L'effetto della guerra sui soldati si è preferito a volte spazzarlo sotto il tappeto fenomeno, questo, successo anche nelle guerre successive. La gente era in rovina. Le vite erano assolutamente distrutte. Il padre di mia moglie era una recluta di 19 anni nella seconda guerra mondiale. E 'diventato un sergente nel Pacifico. Siri, pure, ha usato la dimensione sociale come ambiente del suo romanzo più recente, Ele-gia di un americano. Parla di estratti di memorie di suo padre, che scrisse per la famiglia. Ha servito in esercito di occupazione in Giappone ed è stato dimesso nel '46. In quel momento furono finalmente smobilita-ti e rimandati a casa. Egli era la più sana, razionale, seria, morale persona che io abbia mai conosciuto. Un uomo buono, ma che tornò a casa pazzo. Tornò alla fattoria in Minnesota, in una azienda agrico-la in gravi difficoltà a causa della Depressione e trascorse tutta l'estate tagliare gli alberi. Uno dopo l'altro dopo l'altro. Questo è stato, per esempio, le ricadute traumatiche ad un singolo e chissa quan-te di queste storie potrebbero essere raccontate: un giovane uomo con la sua mente distrutta dal trauma. Ancora una volta, nel nuovo libro, faccio toccare guerra. E 'solo un frammento del romanzo, che è per lo più su altre cose, ma non posso smet-tere di pensarci.

NO: Un paio di recensioni di Invisibil,e in partico-lare quelle che Lei ha rilasciato per Kirkus e Publi-shers Weekly, tracciano un confronto con Cuore di tenebra. Quando si sta scrivendo un libro, come e quanto si è – meglio: Lei - è consapevole di altre opere della letteratura? E’ a conoscenza di questo fenomeno di incappare in qualcosa di già scritto, o cerca di spingere e concentrarsi sulla via da solo?

PA: Non penso. Posso capire che la gente possa trovare analogie, anche se è davvero molto diverso. Io di certo non avevo il pensiero di Conrad, quando stavo scrivendo.

NO: Non diciamo Conrad in termini di Invisibile allora, ma in generale, quando scrive pensa ad altri autori?

PA: La maggior parte del tempo, a malapena cerco di capire quello che sto facendo. Ad esempio, nei primi anni '90, quando stavo scrivendo il signor Vertigo, ho cominciato il libro e ho pensato che

sarebbe stato un racconto. Ha finito con l’essere un romanzo di 300 pagine. Quando ho cominciato, non c'era nessun personaggio della signora Wither-spoon nella mia mente. Entrò quando avevo scrit-to circa 20 o 30 pagine della prima parte. E diventa un personaggio molto importante nel libro. Più tardi, quando era finito e qualche tempo era passa-to, ho capito che quello che avevo scritto era una sorta di versione della storia di Pinocchio. Master Yehudi è stato un po’ 'come Geppetto, e la signora Witherspoon è stata la fata turchina. Così doveva essere lì, ma io non lo sapevo. Inconsciamente, e da “fuori”, ho capito senza essere consapevole che stavo scrivendo una versione della storia di Pinoc-chio.

NO: Questo mi da l’occasione per chiederle qualco-sa circa il suo Legame con la nostra letteratura e il nostro paese. Vuole parlarne?

PA: Sono stato onorato della cittadinanza di una vostra città del nord, Pordenone. Dove hanno fe-steggiato, nell’ambito di una serie di manifestazio-ni culturali, il mio lavoro. Come ho spiegato allora ritengo molto importanti per la mia formazione alcuni autori e poeti penso a Petrarca e a Cavalcanti in particolare, ma anche a Ungaretti. Ho raccontato in una conferenza stampa del mio incontro con questo uomo piegato in avanti dalla vecchiaia ma dalla vitalità inesauribile. Ci sono anche molti altri autori per me importanti dallo stesso punto di vista che mi hanno segnato: Leopardi ad esempio. Penso che lo Zibaldone sià una delle cose più belle che ho letto in vita mia.

Fine

©Nick Obourn Trueslant.com©tr. Bookavenue2010

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BookAvenueil social web che parla di libri

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Riflettere sulla letteratura americana, sul suo stato di salute e sulle direzioni verso le quali si sta orien-tando equivale prima di tutto a cercare di capire e assimilare un decennio difficile e contraddittorio, che si è aperto con una data tanto fatidica quanto extraletteraria. L'11 settembre 2001 e i suoi signi-ficati culturali vanno ben al di là del quadro socio-politico che l'attentato al World Trade Center ha sancito e inaugurato al tempo stesso: il crollo delle Torri ha scavato un vero e proprio abisso nella psi-che collettiva, traducendosi prima di tutto in una profonda crisi della rappresentazione, della parola, dei modi di racconto.

L'America emersa dall'11 settembre si è rifu-giata in un modello narrativo unico e rassicu-rante,

la nel quale il mito della democrazia, la ricodificazione del nazionalismo, i valori del

fondamentalismo cristiano sono stati riorganizzati in un nuovo mix, costruendo l'immagine di una nazione granitica, in grado di rinsaldare la propria identità collettiva anche al prezzo di una cessione di libertà individuali e di una omogeneizzazione del panorama culturale. Ne è emerso un paese chiuso dentro se stesso, sordo alla perdita di pre-stigio e di leadership internazionale (culturale ed economica), soprattutto incapace di riprendere quell'opera incessante di ascolto, assimilazione e rielaborazione che – la si voglia o meno sintetizzare nel termine melting pot – ne ha sempre rappresen-tato la forza attrattiva.

La letteratura americana ha pagato questa crisi senza riuscire, come pure era accaduto in altre circostanze – una su tutte: la guerra del Vietnam –, a trovare il linguaggio giusto per raccontarla e per invertire il modello narrativo dominante, o per svelarne le falsità. Per quasi tutto il decennio che si

speciale USA

Dove va il romanzo americano

di Luca Briasco

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avvia a conclusione, il compito di polemizzare con la vulgata dell'America di Bush è stato affidato a figure "pubbliche" che trovano nella forma scritta più un'occasione per sintetizzare percorsi creativi sviluppati all'interno di altri media che non uno spazio privilegiato: Michael Moore e David Sedaris, quest'ultimo, con un grado molto più forte di con-sapevolezza formale, su tutti. Il romanzo statuni-tense ha scelto altre vie, molto più indirette, nelle quali al corpo a corpo, allo scontro all'arma bianca con i nuovi conformismi , viene preferita la narra-zione distesa, la saga famigliare, la rievocazione no-stalgica di un "bel tempo andato" da contrapporre ai falsi valori del presente; o addirittura il romanzo storico, che proprio in questo inizio millennio ha conosciuto un ritorno di fiamma certamente non casuale.

Da questa prospettiva critica, l'autore che segna il vero e proprio spartiacque tra la letteratura degli anni Novanta e quella che si affaccia affanno-samente sulle rovine delle Torri è senza dubbio Philip Roth. Che al fervore di fine millennio aveva contribuito attivamente con due dei suoi romanzi più complessi e ambiziosi (Operazione Shylock e soprattutto Il teatro di Sabbath), e che subito dopo si è avventurato in una complessa opera di rico-dificazione dei propri temi privilegiati, nella quale all'esplorazione diretta della scena contemporanea si sovrappone la rievocazione nostalgica di un tem-po e di un sistema di valori ormai irrecuperabili. Di questa ricodificazione, che ha peraltro sancito in via definitiva l'ingresso di Roth nell'Olimpo dei clas-sici, è testimonianza una serie di romanzi struttu-ralmente perfetti e sorprendentemente armoniosi, spesso imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale, lontani dalla frenesia e dalla furi-bonda inventiva delle opere precedenti (due titoli su tutti: Pastorale americana e La Macchia umana).

La tendenza a sfuggire al confronto diretto con il presente, e a commentarlo in contrapposizione a una pienezza a volte immaginata almeno quanto reale, è anche la chiave per spiegare il successo improvviso di un autore che per anni aveva sim-boleggiato (non meno di Salinger e Pynchon) il mito dell'artista recluso e sdegnosamente in fuga dalla notorietà e dalle vendite. Già con la Trilogia della frontiera, e ancor più con Non è un paese per vecchi e La strada, Cormac McCarthy ha delibera-tamente preso le distanze dal pessimismo radicale che aveva contraddistinto la sua prima fase creati-va e quelle che restano forse le sue opere migliori

(Il buio fuori, Figlio di Dio, Meridiano di sangue), ricorrendo ai moduli narrativi consolidati del western, del noir e della fantascienza per contrap-porre la solidità di valori non recuperabili (ma forse per questo ancor più "autentici") alla catastrofe e alla deriva materialistica del presente (o del futuro prossimo). In questo moto oscillatorio tra nostalgia e catastrofismo, i romanzi dell'ultimo McCarthy – non diversamente da quelli dell'ultimo Roth – pro-pongono al lettore un "pessimismo rassicurante" assolutamente adatto a tempi di crisi; la forma narrativa subisce una corrispondente contrazione, nel momento in cui rinuncia al quadro complesso, al ritratto collettivo di una nazione,e preferisce ri-produrne le contraddizioni attraverso il conflitto tra personaggi (il vecchio sceriffo Bell e il killer Chigur-rh in Non è un paese per vecchi).

Partire da due autori che hanno esordito a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta per costruire un quadro della letteratura americana contempora-nea può sembrare contraddittorio, ma lo è solo in apparenza. Il ripiegamento di

McCarthy e Roth e il loro approdo a forme radicate nella tradizione americana li trasfor-ma in veri e propri capifila (più o meno rico-nosciuti) di quella che si può definire a tutti gli effetti la narrativa dominante negli Stati Uniti di questo inizio millennio.

I due romanzi forse più importanti di questi ultimi anni – Le correzioni di Jonathan Franzen e Middle-sex di Jeffrey Eugenides – presentano infatti più di un'analogia con il percorso che ha condotto Roth e McCarthy verso lo status di classici contemporanei. Tanto nel caso di Franzen quanto in quello di Euge-nides, infatti, la forma e i temi trattati, dietro la scin-tillante patina postmoderna, configurano un vero e proprio ritorno della grande narrazione, quando non, come in Eugenides, del romanzo storico. Ed entrambi gli autori giungono al loro magnum opus partendo da opere imperfette e irrequiete (La ven-tisettesima città per Franzen, Le vergini suicide per Eugenides), nelle quali alla sperimentazione narra-tiva si accompagnavano diagnosi ben più distrut-tive e a diretto contatto con il contemporaneo, tra crisi del modello famigliare e distopia.

Ne Le correzioni e in Middlesex, come anche nella fantasmagoria "storica" di Le fantastiche avven-ture di Kavalier e Clay di Michael Chabon, esiste

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un'evidente, a tratti esplicita contrapposizione tra un mondo favoloso e sentimentale, disperso nei meandri della storia e ricreato da personaggi alla deriva nel presente, e una realtà inaridita o ma-scherata dietro falsi miti.

Una realtà, soprattutto, che appare "illeggibi-le", irreparabilmente opaca, cosicché allo scrit-tore e all'intellettuale non resta che leggerla attraverso ciò che essa non è più, o, in alterna-tiva, attraverso lo sguardo vergine e ingenuo del bambino, del folle, dello straniero.

E’ questa l'altra via che la nuova letteratura ame-ricana ha intrapreso per rapportarsi con la realtà dell'oggi. Ed è la via seguita da Dave Eggers nel suo notevole romanzo di esordio L'opera struggente di un formidabile genio, purtroppo rimasto senza seguiti all'altezza, come anche da Jonathan Safran Foer in Ogni cosa è illuminata (il suo libro migliore) e in Molto forte, incredibilmente vicino. Si tratta di tre opere – a cui merita di essere accostato anche Lowboy di John Wray, forse l'autore più interessan-te dell'ultima generazione – nelle quali le grandi ferite remote e recenti della contemporaneità, dall'Olocausto all'11 settembre, al riscaldamento globale, vengono elaborate e portate sulla scena attraverso uno sguardo altro, in grado di percepirle, a partire da un sistematico straniamento, nei loro elementi essenziali e più autentici.

Nel ricorrere alle due strade del romanzo-saga e della Bildung, la nuova narrativa americana sembra perseguire un ritorno alle proprie radici profonde (in fondo, all'antica polarità Henry James – Mark Twain), abbandonando quella vena più sperimen-tale, aperta e coraggiosa che, tra gli anni Ottanta e i Novanta, aveva animato una generazione di nuovi, grandi autori, da William Vollmann a David Foster Wallace, a Richard Powers. D'altro canto,alla ricerca di una nuova (o antica) solidità si accompagna il consapevole tentativo di preservare le innovazioni del postmoderno, se non altro attraverso il ricorso all'ironia, al disincanto, al gioco metanarrativo. Un tentativo che – proprio ora che del postmoderno sembra essersi esaurita la spinta critica e l'ambizio-ne – si configura come sempre più decisamente maschile: non è un caso che gli autori citati finora siano tutti uomini, e bianchi (anche se non neces-sariamente WASP).

Affidandosi alla solidità della trama e alla centralità

dei personaggi e della loro psicologia, gli eredi dei postmoderni, di Roth e di McCarthy "invadono" un territorio a lungo affidato alla gelosa custodia delle scrittrici. La narrazione al femminile resta infatti profondamente innervata dentro la tradizione del romanzo di famiglia: con in più un radicamento nei luoghi e nei territori che ha indotto spesso la critica a parlare (non senza un fondo di sprezzo) di regionalismo, quasi a voler trasformare la geografia in "gabbia" e in fattore riduttivo. Eppure, proprio a partire dal suo radicamento, la narrativa al fem-minile ha saputo raggiungere un'universalità e profondità di sguardo capace di dire sull'America di oggi molto e forse più rispetto alle saghe no-stalgiche maschili cui sono andati troppo spesso il plauso e gli allori. E’ il caso di Marylinne Robinson, rimasta per molti anni l'autrice di un unico, memo-rabile romanzo, Housekeeping (ancora in attesa di traduzione), e poi in grado di superarsi con la splendida elegia di Gilead; oppure, guardando alle nuove generazioni, di A. M. Homes, che nei suoi romanzi, ma soprattutto nei superbi racconti de La sicurezza degli oggetti, ha esplorato le patologie dell'America contemporanea a partire dall'istituzio-ne famigliare, con un'esattezza di sguardo e un'in-novatività di forme che hanno pochi eguali.

E ancora, quasi a voler proporre un percorso inver-so e complementare rispetto a quello (essenzial-mente centripeto) della narrativa maschile,

le migliori e più coraggiose scrittrici statuni-tensi si sono lanciate nell'esplorazione a tutto campo del nuovo (e artefatto) sogno america-no, svelandone limiti e menzogne.

E’ quanto ha saputo fare Joyce Carol Oates, narratri-ce di inarrivabile eclettismo, capace di spaziare tra romanzo di famiglia, giallo, neogotico e saggistica. Il suo Sorella, mio unico amore, prendendo le mos-se da una tipica famiglia suburbana americana e raccontandone le ambizioni smodate e la pubblica caduta, riesce a rivelare la marcescenza, la volgarità e la finzione sottesa all'America di Bush meglio di qualunque altro romanzo degli ultimi anni. Insieme a E poi siamo arrivati alla fine, romanzo di esordiodi Joshua Ferris, ritratto collettivo della nuova gene-razione di colletti bianchi davvero notevole per profondità e innovazione formale, l'ultimo libro di Oates rappresenta un segnale di ritrovata vitalità e ambizione: bisognerà però attenderne i seguiti per avere la certezza che il romanzo americano abbia ripreso le armi e possa reclamare quel ruolo

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di laboratorio del nuovo che per tanti anni aveva saputo ricoprire.

Luca Briaschi

http://www.ilprimoamore.com/testo_1615.html

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Che mattina! Fa freddo più del solito. New York a genna-io può tirare brutti scherzi. Si passa dal freddo perforante in cui devi uscire intabarrata tanto da sembrare la sorella gemella dell’omino Michelin, alle giorna-te miti, in cui non è che proprio sudi, ma te la puoi godere. Per esempio puoi andartene per strada senza quegli orridi berretti di lana che certi turisti osano sfoggiare (ma che, a loro avviso, risultano perfetti per evitare le stilettate di ven-to gelido che spira dall’Hudson). Il colbacco che mi aveva prestato mia madre prima di partire, quello in visone nero, l’unica povera bestiola che ammettevo portabile (solo ed esclu-sivamente perché non avendolo sempre sotto gli occhi non me ne rendevo conto), era perfetto. Uscita dall’albergo, devo rincorrere Bubi che, al so-lito impaziente di fare colazione (ma ben più stufo di aspettare il mio quarto cambio d’abito), si è già infilato nell’abituale caffé all’angolo. Per la nostra per-nulla-leggera colazione: uova strapazzate con bacon per me, pancake con frutta fresca per lui, succo d’arancia, caffé. O la parvenza di un caffé. Ma non rimpiango certo il mio misero Nescafè italia-no…

Programma della giorna-ta definito. Prima un giro dalle parti di Wall Street con il Battery Park e la striz-zatina di palle al toro…chis-sà mai che porti fortuna (quelle in gal-leria Vittorio Emanuele sono un vero pacco…). Poi le nostre stra-de si divide-ranno. Quella di Bubi verso Canal Street. La mia se-gnata da un

personale pomeriggio da favola.All’uscita del coffee shop mi rendo conto che il doppio paio di guanti oggi è d’obbligo. Il tempo di arrivare davanti alla borsa, scattare due foto, e siamo obbligati a rintanarci nel primo e più vicino Starbucks. Cavolo, non mi ricordo proprio un fred-do del genere. Mai. Da nessuna parte. Qui si tratta di folate gelide, ma gelide vere, che non danno scampo. E le mie mani sono ormai insensibili. Tanto che tolti i doppi guanti e preso tra le mani il bic-chierone di caffé bollente, il risultato è una sensa-zione orribile di bruciore. Che non passa. Incredibile, mi viene da piangere. Il solo pensiero di tornare là fuori è tremendo. Ma alla fine si esce di nuovo. Perché quando senti

Diari di Bordo

Imprevisti di viaggio...ovvero,

Quella volta che sono morta a New York

di Valeria Merlini

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che questa sarà la giornata giusta, allora trovi la forza dentro te stessa per affrontare quei -16°C che oggi hanno colpito la città. Me la ricorderò sicuramente, questa sensazione. E questa giornata.…Il taxi mi porta all’entrata di Saks, sulla Quinta. Quel Saks visto in tutti i miei film e letto in tutti i miei libri. Ora sono qui. E, cosa più importante, sono sola. Con a disposizione tutto il tempo che voglio. Non posso non trovare tra tutte quelle scarpe, ben 10022 paia a disposizione per una sola settimana, quelle che fanno per me.L’ascensore arriva all’ultimo piano. Non guardo nul-la, testa bassa e prima di tutto operazione bagno. Prima la pipì. Poi posso non pensare più a nulla. Eccetto che a loro.Faccio finta di non aver visto tutte quelle donne che si accalcano sui vari divanetti. No, non guar-dare! Mi piacerebbe dilungarmi sui bagni che accolgono le clienti nei magazzini Saks, ma non c’è tempo. Ad aspettarmi, loro. Scarpe, centinaia di scar-pe, anzi migliaia, tra cui scegliere. A pensarci bene io odio queste cose. Sono così intime le mie svendite speciali per i giornalisti nei

vari uffici stampa milanesi, che qui mi viene quasi un mancamento. Tentenno. Troppe scarpe.

Bisogna avere metodo. Vado per settori. Balencia-ga, Marc Jacobs, Dolce & Gabbana, Gucci, Alexan-der McQueen, Lauboutin, Dior…fino a loro. Nella loro esposizione perfetta le Blahnik, poi le Jimmy Choo. Passo da una all’altra indecisa. Chiedo il mio numero di queste e di quelle. Le provo, ma poi mi dico “Ma dove le indosserò mai?”. Metto giù. A ma-lincuore. E passo oltre. Caovilla. … Caovilla. mi dice qualcosa… e poi le vedo. Delle René Caovilla, un unico paio, assolutamente giovani. Le provo.

Perfette. Le prendo. Appagata. Le voglio indossare subito. Fa un freddo cane fuori, ma devo metterle subito. Tanto torno in albergo in taxi. Oh! Come mi stanno bene. Oh! Come cammi-no bene. Esco. Sono al settimo cielo. Chiamo un taxi con la

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mano senza guanto (non sento nemmeno più il freddo). Non si ferma. Scendo dal marciapiede per farmi vedere. Il tacco si spezza. Traballo. Barcollo. Infine cado in avanti. E, in quel mentre, sulla Fifth Avenue, quella dei film ame-ricani, quella dai cui tombini esce davvero il vapore, passa un taxi. Occupato da due donne che rientrano al loro albergo cariche di sacchetti di Saks. L’altro Saks. Con i loro acquisti. Con le loro scarpe perfette. Le mie non lo era-no… Poi lo schianto. Accom-pagnato dallo stridio della frenata.

Valeria Merlini

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Invisibile, l'ultimo romanzo ancora una volta su Brooklyn di Paul Auster, è un libro abilmente e amabilmente tracciato e compulsivamente leggi-bile. Diversi elementi danno sostanza alle pagine: con alcuni incidenti tipo soap opera, la morte di un paio di uomini con terribili segreti, e poi a segui-re: spie, triangoli amorosi, tradimenti, un incesto, un omicidio, un inganno, e una ingovernabile lussuria, tutti temi così perfettamente intrecciati insieme che fuggono dal sentimento esagerato o artificioso. Invisibile è un piacere raro per i lettori: un "pezzo" incredibilmente strutturato di buona letteratura e (pure) per chi vuole leggerlo così, un avvincente thriller, ma anche un bellissimo libro di formazione.

Nella prima parte del libro è raccontata, dal punto di vista di Adam Walker,la storia di uno studente giovane e ambizioso alla Columbia e Rudolf Born. James Freeman romanziere di successo lo troviamo quasi in controcanto mentre seziona il manoscritto a forte connotazione auto-biografica che gli ha ha inviato, decenni più tardi il suo vecchio amico del college e malato terminale di una gravissima malattia, non senza sorpresa e a conferma del fatto che molte cose scritte nel libro sembrano riconoscibili dai principi che lo muovono e ai tempi in cui James finisce con il riconoscersi.La storia nella parte finale si rivela al lettore attra-verso il diario di Cecile Juin, una donna francese che si innamorò di Adam da ragazza. Nel frattempo...c'è una promessa di incontro e delle lettere che guidano Freeman alla lettura non senza qualche sgomento. Si narra la storia di Born benefattore di una fanzine letteraria che potrebbe risolvere i non pochi problemi economici del giovane Adam salta-ti per aria dopo la passione scoppiata tra il giovane universitario e Margot, la sua compagna. C'è il paradossale perdono del tradimento nei confronti di Adam e la cacciata di casa di Margot, la giovane amante francese di lui.

Paul Auster, Invisibile

recensione di Michele Genchi

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C'è un fatto di sangue molto grave che non vi svelo per non rovinarvi la lettura. E molte altre cose ancora, compreso un trasferimento in Francia e il ritrovamento di Margot la giovane amante rifiutata dal Born che sembra essere uscito da un romanzo giallo alla Le Carrè. C'è ancora Born che sembra inseguirlo anche a Pa-rigi dove Adam si è recato per una borsa di studio. C'è pure Gwyn la sorella di Adam: vi sorprenderete a leggere di questa passione fraterna. Insomma, un sacco di cose.Questi piani narrativi in continuo cambiamento potrebbero offuscare e non illuminare la trama centrale del romanzo. Non c'è pericolo: tutto torna. Invisibile è ricco di ironia drammatica che è un piacere leggerlo. C'è questo strano gioco del protagonista che legge e interpreta il libro arrivato e il Paul Auster che da scrittore confeziona i suoi temi ad alta densi-tà. Il romanzo che Freeman legge sembra contenerli e non renderli facili. Qui si giocano alcune questio-ni letterarie di approccio, di tecnica di scrittura, e su come raccontare una storia in modo esplicito dominando la narrazione. In una lettera a Walker sul tema del blocco dello scrittore, Freeman scrive: "Il tuo approccio è sbagliato, scrivi il testo in prima

persona" e Adam risponde in una successiva rispo-sta: "Scrivendo su di me in terza persona, mi sono soffocato e reso invisibile me stesso, rendendo impossibile trovare la cosa che stavo cercando". Questo è rilevante per la trama del romanzo, ma è anche una grande lezione di scrittura. Freeman sostiene (e presumibilmente Paul Auster crede) che gli scrittori devono avvicinarsi al loro soggetto su un pendio, il tema, il soggetto, il suo protagonista. Parlare in prima persona e andare diritto al dunque rende invisibile la trama. Dice proprio cosi Adam/Paul. Un quadro chiaro a diapositive che svelano a poco a poco la trama al suo soggetto da angolazioni diverse. Appunto. Proprio come Paul Auster stesso fa con tanta abilità.In una intervista di qualche tempo fa gli è stato cheisto: Come mai scrive una storia di formazione dopo aver superato i sessanta anni? «E' una storia scritta a cavallo tra il 2007 e 2008, il quarantesimo anniversario del biennio 1967-1968, un momen-to fondamentale. Avevo vent' anni come Adam e vedevo intorno a me l' estate dell' amore e la guerra dei sei giorni, il Viet-Nam e l' omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King. Il libro nasce dal ri-pensamento, spesso amaro, di quegli anni». Quan-to c' è di Paul Auster in Adam Walker? «Ci sono certamente alcuni elementi superficiali, ma credo

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solo quelli. Ogni scrittore utilizza dati personali, la propria memoria e la propria esperienza»Le domande dell'uomo sulla responsabilità, sul senso di colpa, sull'innocenza, il tradimento, l'in-vecchiamento, la morte, e per l'esaurirsi del tem-po, comunicano attraverso la narrazione lo stato d'animo dello scrittore: questo è un fatto. Invisibile è letterariamente complesso e ancora una volta la prova di cambio di passo dal punto di vista lin-guistico del suo autore con grande contenimento emotivo.

Le domande dell’uomo sulla respon-sabilità, sul senso di colpa, sull’in-nocenza, il tradimento, l’invecchia-mento, la morte, e per l’esaurirsi del tempo, comunicano attraverso la narrazione lo stato d’animo dello scrittore...

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Mi ci sono voluti cinque mesi per terminare Infinite Jest e alla fine mi sono reso conto di aver letto quattro o cinque libri. Forse perché è un romanzo vasto e tentacolare che sembra essere lì a sfidarti solo per il suo peso (la versione Einaudi conta 1179 pagine scritte in corpo minuscolo, più altre 100 di note e aggiunte al testo) o perché è complesso e pretende impegno oltre

che ritmo. Oppure perché è il libro di un sogno che annulla ogni regola di fiction e leggerlo è come versare del mercurio sul pavimento.

Scritto nella prima metà degli anni '90, coglie con chiarezza l'importanza della tecnologia per la vita

quotidiana. Un futuro tecnologico in cui la tecnolo-gia di rete non sembra però mai unire le persone.

Collocato in un futuro in cui i tragicomici progressi della tecnologia e gli irreali sviluppi della politica non hanno cambiano certe difficoltà tipiche dei sentimenti e dei rapporti umani, questo secondo spropositato romanzo dallo spirito dark consacra David Foster Wallace tra i grandi della narrativa americana degli ultimi decenni. Colpendo soprat-tutto per la complessità linguistica e la sperimen-tazione stilistica. Oltre che per la complessità delle sue trame barocche e per l’umorismo sorprenden-te ricco di riferimenti culturali, Una strana massa labirintica, un intreccio di minutissime linee che tratta di tossicodipendenza e recupero, di intratte-nimento popolare e di tennis. Forse il romanzo più innovativo in lingua inglese dopo l'Ulisse di James Joyce.

Un futuro tecnologico in cui la tecnologia di rete non sembra però mai unire le persone.

Infinite Jest è davvero un enorme groviglio e un sacco di storie separate,

David Foster Wallace, Infinite Jest

recensione di Marco Crestani

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Leggendolo si resta sorpresi, sconcertati, stupefatti, sbalorditi, incuriositi, sconvolti, ci si rinfresca intel-lettualmente, si viene provocati, sfidati, decisamen-te stimolati... Perché Foster Wallace è un virtuoso e la creatività è una sua costante.

Infinite Jest è davvero un enorme groviglio e un sacco di storie separate, ma mai del tutto conver-genti. Wallace salta da trama a trama, ma anche avanti e indietro nel tempo in ogni capitolo. E’ un romanzo splendido paragonabile a una scultura incompiuta di Michelangelo.

Ogni pagina è divertente e piena di fatti interes-santi, di osservazioni, di intuizioni. Il linguaggio è molto erudito e senz’altro affascinante. Non è mai pedante, è una sorta di divertente, eccentrico gioco di parole.

Infinite Jest è un libro sul tennis come espressione figurata dei processi di competizione che governa-no le nostre vite nelle società industrializzate; è un

libro sulla Dipendenza (sull’America come la terra delle dipendenze), scomposta in ogni sua forma e variante; è un libro su una società basata sul diver-timento, in cui il termine party viene adoperato quasi fosse un verbo, e in cui l’Intrattenimento è l’obiettivo primario, un mondo di persone total-mente dedite al divertimento che, anche se vives-sero tutta la loro vita nel dolore, non potrebbero mai rinunciare nemmeno a un secondo di piacere; è un libro sulla pubblicità, dove il messaggio pub-blicitario si è intrufolato dappertutto nella vita di tutti i giorni, persino gli anni sono “sponsorizzati” e hanno il nome di un prodotto; è un libro sul terrori-smo insurrezionalista del Quebec e sui drammatici contraccolpi della nostra aberrante produzione di spreco, di rifiuti, di immondizia, sul disastro ecolo-gico, ambientale, umano; è un libro sulla tristezza per una mancanza di senso o di scopo, che emer-ge anche momenti più divertenti del romanzo; è un libro che conquista con una potenza creativa sconfinata e libera con pagine di "profonda e lucida tristezza" (J. Franzen, dalla quarta di copertina dell'edizione Einaudi).Il problema principale di Infinite Jest è forse l'ecces-so. E’ davvero troppo. Troppo storia, troppi perso-naggi, troppo testo.

è un libro sulla pubblicità, dove il messaggio pubblicitario si è intrufolato dappertutto nella vita di tutti i giorni,

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E' chiaro che Wallace quando lo ha scritto aveva in mente un fine teorico-estetico, ma tutto poteva essere realizzato in meno di duecento pagine? E' intenzionale, certo, ma è necessario? E' utile?

Infinite Jest è un lavoro impressionante, non c'è dubbio su questo. Non è una narrazione conven-zionale e si nota come Wallace si diverta con la scrittura e certe sue intuizioni sono notevoli.

Il problema principale di Infinite Jest è forse l’eccesso. E’ davvero troppo. Troppo storia, troppi personaggi, troppo testo.

Fine

©Marco Crestani foto e scheda di David Foster Wallace©dal sito Einaudi

David Foster Wallace (1962-2008) è considerato da larga parte della critica come il piú importante autore americano dell’ultima generazione: uno scrittore ge-niale, capace di innovare e reinventare tutte le forme con le quali si è cimentato: dal romanzo al racconto, al saggio. Einaudi Stile libero ha pubblicato i suoi due romanzi La scopa del sistema e Infinite Jest, le raccolte di racconti Brevi interviste con uomini schi-fosi, Oblio e Questa è l’acqua, e la collezione di saggi Considera l’aragosta, e pubblicherà nel 2010 il suo romanzo inedito e incompiuto The Pale King.

recensione

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Un Nobel preventivo - Qualche settimana fa su L'espresso Marco Belpoliti chiudeva così la recen-sione a Freelander, il romanzo di Miljenko Jergović: “un libro che non si dimentica”. Da un conservatore di memorie come Belpoliti, curatore dell’opera di Primo Levi, quella frase mi ha molto incuriosito. Non era il solito invito alla lettura mascherato da marketta. Era un avvertimento reale, un indice alzato. Immaginavo una trappola costruita sulla bontà del giudizio. Mi sbagliavo. Era solo bravura, dannata bravura, seminata con sapienza lungo 174 pagine.

Il talento di Jergović tra qualche anno potrebbe far compagnia a Orhan Pamuk e Günter Grass. Magari grazie alla Volvo del protagonista di questo roman-zo, secondo capitolo di una trilogia dedicata all’uo-mo e all’automobile, che si pone tra Buick Riviera (già uscito per Scheiwiller nel 2004) e Volga, Volga (in attesa di una traduzione italiana). Ma lo scrittore bosniaco, pur avendo ricevuto il Grinzane Cavour nel 2003, è sconosciuto ai lettori italiani quanto ba-sta per essere premiato dall’Accademia Svedese? Sì. Vincerà perché è pubblicato da Zandonai, piccola editrice trentina, come capitò a Keller con Herta Müller? Sì. Sarà celebrato perché Claudio Magris lo ha definito “uno scrittore epico”? Sì. Questa è una recensione obiettiva? No. È un’infatuazione ogget-tiva... per un Nobel preventivo, appunto.

Zagabria-Sarajevo, solo andata - Karlo Adum è un professore di storia in pensione, vedovo, abita da solo al sedicesimo piano in un palazzone di Zaga-bria. Un giorno la sua molle quotidianità è scossa da un telegramma spedito da Sarajevo, la città dove è cresciuto e che non vede da oltre 50 anni. Quel pezzo di carta nasconde un mistero e il solo modo per svelarlo è partire. Non sa cosa aspettarsi, il postino gli procura una vecchia pistola e duecen-

to proiettili che nasconde nel fondo della valigia. Pilotando una Volvo arancione del 1975 - “non gli era rimasto nulla al mondo di più caro”- il professor Adum parte verso la città da dove era scappato appena tredicenne; una città-simbolo cucita come un bottoncino nero sull'insanguinato mantello del Novecento.

Quella Volvo l’aveva tenuto fermo al tempo in cui era un trentacinquenne professore di storia, l’aveva ancorato a quelle stagioni della vita da cui tutti gli esseri umani, croati e cattolici compresi, dovrebbero una buona volta uscire, per cominciare a respirare. A costo di dover morire il giorno dopo, ma da uomini liberi. (pag.42-43)

Il demone del ricordo - Mentre il professor Adum guida verso la capitale bosniaca, milioni di pensieri lo guidano altrove. L'infanzia di tribolazioni con la madre che frequenta i nazisti, la morte accidentale di un bimbo ebreo che a scuola lo stuzzica conti-nuamente, la folle rabbia del padre senza un pollice per colpa dello stesso zio che ora gli promette una eredità, la propria carriera universitaria stroncata da una discriminazione, il dolcissimo ricordo della moglie la cui scomparsa accentua tutto l’amore che non è stato capace di esprimere. Jergović crea attorno al suo personaggio un mondo vitale e in-quietante dove la tensione drammaturgica emerge nelle varie forme del dolore: il dialogo in ospedale tra il professore e la madre ammalata di Alzheimer incapace di riconoscere il figlio e convinta di averlo abortito; la sfida immaginaria di un bambino che gioca a tennis contro il muro di un palazzo e men-tre tutto il quartiere lo segue dai balconi sceglie di far vincere l’avversario, il muro, “perché non c’è vittima senza sconfitta” e si allontana con le mani sul viso, forse piangendo davvero. Sono scene che turbano, scene dove amarezza e impotenza si

il libro del mese

Freelander, la “forza epica” di Miljenko Jergovićdi Àlen Loreti

Miljenko Jergović, Freelander, edizioni Zandonai

il libro del mesebookavenue n.2

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confondono.

La vita assente - Nel suo viaggio il professor Adum attraversa una Jugoslavia già ex, un puzzle incom-pleto di frontiere geopolitiche e religiose, un terri-torio alla deriva con paesini e città che accendono ricordi da ricomporre nella mente - il socialismo di Tito, la frantumazione del dopo-Muro, le guerre etniche, l’intervento americano e quello dell’ONU. La fatica del tragitto lo costringe a misurare la pro-pria goffaggine, l’insignificanza di una vita opaca, la rassegnazione di fronte a episodi spiacevoli (la colonna di blindati americani che sorpassandolo gli distruggere una fiancata della Volvo) e sopra-tutto sente sulla pelle l'inaccettabile condizione di straniero, straniero nei luoghi che abitano i suoi ricordi. Lungo strade secondarie e in autostrada - “quel sentiero lungo e dritto ai margini del quale la vita è assente” - Adum incontra personaggi che lo mettono in crisi. Come se le zone minate, le colline spettrali, i cimiteri dimenticati, le “slanciate matite bianche delle moschee” o i cartelli in cirillico non bastassero a stabilire un contatto con la realtà. Ogni sosta si trasforma così in rivelazione, “da se ne zaboravi!”, come recita la t-shirt di una ragazzina che vende CD e DVD in un rappezzato chiosco sul bordo della strada: “perché non sia dimenticato!” Ma cosa non va dimenticato quando nemmeno si riesce a cancellare ciò che si desidererebbe non ricordare?

Umili e ossequiosi erano soltanto coloro che guidava-no automobili targate Belgrado e Novi Sad, loro non suonavano e non protestavano, nel tentativo di arri-vare, invisibili e il prima possibile, al proprio confine. (pag.50)

Quale Patria, quale Uomo? - Le persone che incontra (una cameriera, un tassista, un poliziotto, un albergatore) tentano di inquadrarlo, di ricono-scerlo, di collocarlo in questo o quel gruppo etni-co, di strappargli una dichiarazione di autenticità culturale partendo dalla targa dell'automobile o dall'accento. Quando un ambulante serbo gli dice: “Ecco, tenga, io le regalo questo disco, glielo regalo di cuore, lo porti con sé a Zagabria e non si vergo-gni di quello che è. La cosa peggiore è quando un uomo si vergogna di ciò che è”, Adum risponde: “Io non sono quello”. La somma delle numerose negazioni non fa che comprimere la sua identità producendolo in imbarazzi e reazioni scomposte. Il viaggio del professore diventa l’oscillazione di

quella che potrebbe essere una Weltanschauung che cerca di sganciarsi da modelli ideologici fino a quando di sé dice di essere, sì, un uomo, anzi, "qualcosa". Ma non basta. "Ogni uomo è qualcosa. [...] A differenza del libro e del computer, l'uomo è più di un qualcosa. Che cosa, allora?". Cerca una risposta. Dice di non essere croato, ha un accen-to zagabrese ma è nato nella capitale bosniaca. Insomma, da dove viene davvero? Chi è il professor Adum? Di quale cultura è veicolo? In questa terra imbevuta del sangue del genocidio, della crudeltà dei cecchini, delle fosse comuni, delle violenze dei liberatori, qual è la posizione di Adum? La pistola che porta con sé lo rassicura - “la gente è infelice e a causa della propria infelicità è pronta a compiere ogni tipo di male”- ma servirà a salvarlo, a pro-teggerlo? Forse lo sottrarrà a una fuga senza fine dall’invisibilità? Il professore di storia Karlo Adum cerca se stesso attraverso una Patria oppure cerca di definire una patria portatile dove responsabilità e appartenenza non siano una sola cosa? L'arrivo a Sarajevo, il chiarimento di quel telegramma, il destino che attende la sua Volvo riveleranno, oltre al significato del titolo del romanzo, il senso di una intera esistenza.

Così come in terra di Bosnia, patria dei cimiteri di au-tomobili, dei gommisti e dei cigni di cemento, in quei Balcani stretti tra le bandiere verdi e l’alfabeto cirillico, esiste un unico e reale valore derivato, fondato sulla rinuncia di sé e della propria patria, allo stesso modo esistono croati fatti così, tristi e filtrati. (pag.115)

Poeta, drammaturgo, linguista - Miljenko Jergović (coetaneo per intenderci dei nostri Niccolò Amma-niti e Fabrizio Gatti) è approdato in Italia grazie a

Einaudi: una breve comparsa nei Coralli con I Kari-van (1997) e poi il salto nel catalogo Scheiwiller (sei titoli dal 2002). Ora Zandonai lo lancia con questo testo uscito all'estero nel 2007. Jergović ha com-piuto studi filosofici e sociologici esordendo come poeta a 22 anni. Poi i primi romanzi, le sceneggia-ture, le collaborazioni con i quotidiani e le opere tradotte in oltre venti lingue. Paolo Rumiz, che

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dell'area balcanica è un grande esperto, lo giudica come l’erede del premio Nobel della letteratura Ivo Andrić (lo scrittore di Belgrado premiato nel 1961). Curiosamente Jergović pone il luogo di nascita del professor Adum proprio nel paese natale “di quel balbettone di Ivo Andrić”. Originario di Sarajevo, vive oggi a Zagabria. Si considera un apolide ─un freelander appunto - come il suo protagonista e per questo è criticato dai nazionalisti. A loro rispon-de inserendo nei romanzi la ricchezza plurale e lin-guistica del territorio slavo, attraversato nei secoli da popoli altri che hanno seminato vocaboli turchi e germanici. In queste parole mescolate e messe a confronto, smaschera le finte purezze degli uomini e l’origine dei conflitti. Una sfida linguistica che in Freelander viene restituita integralmente e con en-tusiasmo dalla traduttrice Ljiljana Avirović, docente all’università di Trieste e teorica della traduzione, autrice della bella postfazione che chiude il volu-me.

Parole come zolle, vera lettaratura - Qualificare Freelander come romanzo ‘on the road’ è un poco sbrigativo. Meglio sarebbe definirlo ‘on the reading’ cioè un viaggio sulla lettura, e precisamente sulla lettura storica dell'ex-Jugoslavia che si compie at-traverso l’esperienza del protagonista. Una straight story in cui Jergović spacca la terra, va in profondi-tà, a volte con un sorriso, a volte mostrando l’orro-re. Lo diceva anche Heinrich Böll: “Qualcosa deve essere spezzato, persino la terra dev’essere spacca-ta per portare frutti”. In un bel libro di interviste del 1986 (Writers and Politics) - poco prima che il Muro crollasse e la geografia europea cambiasse volto offrendo alla letteratura una nuova frontiera - Su-san Sontag, che poi visse per alcuni mesi a Sarajevo durante l'assedio, disse: “Penso che lo scrittore sia uno stregone, e dalla finzione voglio un senso di magia, di meraviglia. Voglio che il mio senso del linguaggio si rafforzi e che la mia sensibilità si mo-difichi. Voglio che la mia capacità di comprensione venga allargata”. Nella confusa e fragile geografia dei Balcani le parole di Jergović restituiscono un orientamento, una direzione possibile, quasi una nuova cittadinanza. Potere della letteratura, potere di un bravo stregone.

Àlen Loreti per BookAvenue

• Appunti / 1: ripescare il legame tra auto e uomo in un lontano racconto di Buzzati, Vecchia auto, nella raccolta Le notti difficili.

• Appunti / 2: far seguire alla lettura di Freelander il capolavoro di Emir Kusturica Underground e con-centrarsi bene sulle ultime parole del film: “C’era una volta un Paese...”. Suoneranno vicine, vicinis-sime, allo sforzo narrativo e poetico di Miljenko Jergović.

fine

il libro del mese

Page 32: Bookavenue n.2

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numero 3, lugliopaese ospite: irlanda