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1 CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI Facoltà di Scienze Politiche Università di Cagliari Pakistan tra passato e presente di Natascia Mascia Relatrice Prof./Prof.ssa Annamaria Baldussi Anno Accademico 2007-2008

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CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI

Facoltà di Scienze Politiche Università di Cagliari

Pakistan tra passato e presente

di

Natascia Mascia

Relatrice Prof./Prof.ssa Annamaria Baldussi

Anno Accademico 2007-2008

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INDICE

Capitolo 1 1.1 Cenni storici 1.2 Zulfiqar Ali Bhutto: roti, kapra aur makan 1.3 Verso l’Islam 1.4 Zia e l’islamizzazione del paese 1.5 La posizione di Zia rispetto alle donne 1.6 Mawdudi e il JI 1.7 Anni tumultuosi Capitolo 2 2.1 L’Afghanistan solo un corridoio 2.2 L’invasione sovietica dell’Afghanistan 2.3 L’avvento del regime degli studenti 2.4 La “sindrome talebana” 2.5 Il sostegno del Pakistan al regime dei taliban 2.6 L’Asia centrale e i suoi legami con il Pakistan 2.7 Le conseguenze dell’11 settembre Capitolo 3 3.1 Operazione Brasstascks 3.2 La deriva nucleare 3.3 La guerra di Kargil 3.4 Il dopo Kargil e le trattative di Agra Capitolo 4 4.1 Una valutazione economica 4.2 Sistema finanziario islamico 4.3 Effetti della Rivoluzione Verde 4.4 L’annoso problema dei rifugiati Bibliografia

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CAPITOLO I Tra nazionalismo e islamizzazione

Premessa Il Pakistan è un paese estremamente eterogeneo. Dalle alte montagne nord-orientali, coperte di neve per gran parte dell’anno, si passa alle aree desertiche del Beluchistan, dalle fertili pianure del Panjab al degrado urbano di Karachi e Lahore. A questa eterogeneità geografica corrisponde una altrettanto notevole varietà socio-economica e culturale: dalle aree tribali settentrionali dominate da strutture consuetudinarie e identità primordiali si passa alle aree rurali del Sind e del Panjab, in cui prevalgono rapporti clientelistici legati al sistema feudale, mentre lo spazio urbano è condiviso da elite che navigano su Internet, un sottoproletariato recentemente inurbato e una classe media socialmente conservatrice ma semi-occidentalizata. Si tratta di gruppi con interessi e modelli di vita diversi, espressione di un diverso legame psicologico e materiale con la modernità. L’esistenza di gruppi etno-linguistici1 differenti costituisce un elemento di complessità nel quadro pakistano. Ai principali gruppi etnici autoctoni che furono inglobati nel Pakistan: panjabi, pashtun, sindi, beluchi e bengalesi, si aggiunsero nel 1947 i rifugiati musulmani provenienti dall’India. Il centro ha sempre cercato di indebolire il nazionalismo etnico facendo appello alla comune identità religiosa, ciò non impedì che nel ’71 in seguito ad una sanguinosa guerra civile il Pakistan orientale si separasse dal resto del paese, negli anni successivi si intensificarono inoltre le richieste di sindi e beluchi. L’esclusione dei gruppi etnici minoritari dalle leve del potere, detenute dai panjabi, il deterioramento del tessuto sociale in seguito all’urbanizzazione e l’acuirsi delle sperequazioni sociali interne, hanno favorito le spinte centrifughe. L’elite al potere, cerca di contrastare le rivendicazioni su base etnica di sindi e beluchi prospettando un modello centralizzato basato sull’idea di Umma2 panislamica, in cui l’appartenenza religiosa renderebbe irrilevante l’identità etnica. Le basi ideologiche del Pakistan sono, cosi, continuamente ridiscusse. Mezzo secolo dopo la nascita del paese, tre tipi di nazionalismo: etnico, secolare e religioso, continuano a contendersi la ricostruzione del passato e la definizione del futuro. Malgrado nasca sulla base dell’appartenenza confessionale, il Pakistan non è omogeneo neppure a livello religioso: accanto alla maggioranza musulmana sunnita vivono minoranze sciite, cristiane e indù e sette musulmane eterodosse. I rapporti fra maggioranza sunnita e minoranze religiose sono progressivamente degenerati,

1 L’urdu, che nell’India britannica era la lingua dell’elite musulmana dell’area di Lahore, venne imposto con la Costituzione del 1973. con questa operazione si pensava di poter sconfiggere i regionalismi, quando in realtà questi erano talmente radicati che la manovra del nuovo governo venne relegata a misura di facciata. Solo l’8% della popolazione pakistana oggi parla l’urdu, mentre la lingua più diffusa rimane il dialetto punjabi (48%) seguito dal pasto (13,14%) e dal sindhi (11,77%). 2 Con questo, termine nel mondo islamico, si designa la comunità originaria ed universalistica dei credenti. Infatti nell’Islam, il principio, il vincolo che tiene uniti gli uomini non è la lingua, il territorio o la nazione nel senso europeo del termine, ma la religione. La Comunità è superiore a qualsiasi formazione nazionale o statale. Inoltre, la umma è Comunità carismatica, poiché secondo quanto recita una celebre frase del Profeta, “non si metterà mai d’accordo su un errore”.

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sfociando a partire dagli anni ‘80 in scontri sempre più violenti. Il processo di islamizzazione perseguito da Zia ul-Haq ha acuito le differenze interne alla stessa maggioranza sunnita: tra Islam popolare delle confraternite sufi, Islam legalistico degli ulama, l’Islam fondamentalista, a sua volta frammentato in gruppi più o meno estremistici, e l’Islam modernista. Queste diversità, sono la manifestazione delle profonde divergenze sociali e dunque lo specchio della più vasta eterogeneità che caratterizza il paese. La storia del Pakistan è la storia della ricerca di un’identità che permetta di superare queste differenze e di creare una coscienza collettiva unitaria3. Il Pakistan rimane, comunque a cinquant’anni dall’indipendenza, un “contenitore” senza “contenuto” dato che non esiste una “nazione pakistana”, e anzi i confini amministrativi delle provincie del paese dividono gruppi etno-linguistici che hanno ben poco in comune tra loro.4 La metafora che maggiormente può rendere la situazione dell’attuale nonché del passato Pakistan, è quella utilizzata da Naipaul: “Esso è come le colline di sale di un sogno”, in cui si può aggiungere la sete è all’ordine del giorno. I cambiamenti demografici che hanno portato le masse alla vita politica, hanno spinto i governanti a favorire le mobilitazioni di massa facendo appello al denominatore comune più facile e di sicuro effetto: la religione. Questo è il paradossale risultato della cosiddetta occidentalizzazione degli ultimi 150 anni e della diffusione dell’alfabetizzazione che l’ha accompagnata5.

1.1 Cenni storici Il 23 marzo 1940 la Lega musulmana approvò la Risoluzione di Lahore, chiedendo formalmente la creazione di uno stato separato nelle aree del Subcontinente indiano a maggioranza musulmana. La risoluzione si basava sulla teoria delle due nazioni, secondo la quale musulmani e indù del subcontinente costituivano due nazioni distinte, con proprie tradizione e stili di vita inconciliabili. Solo la separazione avrebbe permesso ad entrambi di mantenere la propria identità e difendere i propri interessi. Venivano così annullati secoli di coesistenza per lo più pacifica e di sincretismo culturale, che avevano portato all’elaborazione di valori e pratiche condivise. Il graduale aumento di un identità comune era stata favorita dalla dissociazione fra sfera pubblica e privata che, pur essendo antitetica all’ideale armonico dell’Islam, aveva distinto i sultanati di Delhi e poi il dominio Mughal. La definizione di stato che emerse a Lahore anteponeva l’identità religiosa a quella storica o etnico-linguistica. Il Congresso, evidenziava un concetto di nazionalità che avrebbe garantito la diversità all’interno di uno stato secolare, la Lega lo considerava però, inadeguato ad esprimere e tutelare l’identità islamica. Si contrapponevano cosi due definizioni di nazionalità fortemente divergenti: una basata sull’unità territoriale e storica, l’altra sull’appartenenza religiosa. La Risoluzione, rappresentò un mutamento radicale nella posizione della Lega, fondamentalmente per due motivi. Innanzitutto, era un affermazione vaga, che non specificava quali sarebbero stati i confini del nuovo stato, riflettendo la fluidità della situazione politica e lo scarso radicamento della Lega nel nord-ovest. In secondo luogo, la Risoluzione assicurava in modo similmente confuso che il nuovo stato avrebbe avuto natura decentrata. L’intento dei membri della Lega era rinfrancare i nazionalismi etnici del nord-ovest sul fatto che la loro diversità sarebbe stata garantita, mentre per quanto riguarda le oligarchie feudali e tribali che la loro tradizionale autonomia dal centro

3 E. Giunchi, Il Pakistan tra ulama e generali, Angeli, Milano, 2002, pp. 10-17. 4 F. Alunni, Il triangolo nucleare: India, Pakistan, Afghanistan. Geopolitica di una regione, DeriveApprodi, Roma, 2002, p. 56. 5 P.J. Vatikiotis, Islam: stati senza nazioni, Il Saggiatore, Milano, 1998, pp.68-70.

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sarebbe stata preservata. Fu proprio la natura vaga della Risoluzione che sanzionò il successo del movimento nazionalista guidato da Jinnah6, ma che avrebbe deluso molti all’indomani della nascita del Pakistan. Il 3 giugno 1947 gli inglesi annunciarono che l’India sarebbe stata divisa in due stati indipendenti con lo status di Dominion del Commonwealth britannico. Due mesi dopo, il 15 agosto 1947, nacque il Pakistan. La denominazione del nuovo stato era formata dalle iniziali delle provincie che l’avrebbero costituito e dal termine “stan,” che significa paese. Poiché per una fortunata coincidenza “pak” in urdu significa puro, il termine Pakistan indicava la “terra dei puri.” La creazione del nuovo stato fu accompagnata da spostamenti massici di popolazione. Lo spostamento di persone in entrambe le direzioni fu accompagnato da saccheggi e massacri di civili, che a lungo avrebbero pesato sui rapporti fra India e Pakistan7. L’identità religiosa sembrava essere l’unico elemento accomunante, la base ideologica della Partition;8 gli studiosi sono infatti concordi, nel ritenere che la religione giocò un ruolo fondamentale nel generare un sentimento nazionale tra i musulmani dell’India britannica e che essa condusse alla creazione del Pakistan. In realtà l’Islam aveva significati diversi per i diversi gruppi che erano stati inclusi nel nuovo stato. La pluralità di Islam si rifletteva nel dibattito sul sistema politico da adottare, che fu polarizzato fin dall’inizio dalla contrapposizione dei diversi gruppi. Il movimento per il Pakistan fu osteggiato dai tradizionalisti e dai neo-tradizionalisti,9 esso fu guidato dai modernisti, la natura decisamente moderna del movimento nonché il suo insito conflitto con tradizionalisti e neo-tradizionalisti, è stato efficacemente riassunto da Emerson in queste parole: “Esso fu un movimento incoraggiato e diretto, non da leader religiosi o dai devoti dell’India musulmana, ma dagli stessi elementi della classe media occidentalizzata, i professionisti e l’intellighenzia, esattamente come quelli che guidarono gli altri movimenti nazionalisti, lo stesso Jinnah fu uno straordinario esempio di uomo, non particolarmente contraddistinto da un sentimento religioso”. Continua Emerson: “Una volta che il Pakistan diventò una realtà, essi vollero entrare a far parte dell’apparato decisionale, ed esso diventò uno strumento per la realizzazione dei loro obiettivi, il fulcro delle loro obiezioni era che l’Islam e il nazionalismo fossero diametralmente opposti in spirito e scopi.10” Cosi il Pakistan nacque con una profonda incrinatura tra le sue èlite dominanti; immediatamente dopo la sua creazione sorse una controversia sulla natura ideologica e l’orientamento del suo sistema politico. Per comprendere la natura di tale controversia, occorre analizzarne i protagonisti: modernisti, tradizionalisti e neo-tradizionalisti. I modernisti, si ispiravano alla tradizione di Iqbal11, il poeta-filosofo e Jinnah, fondatore del Pakistan, il cui modello era un sistema liberal-democratico; auspicavano uno stato musulmano, in cui l’Islam fosse percepito come fede religiosa dominante e il sistema politico come un moderno stato democratico. Costoro avevano ricevuto un educazione moderna e appartenevano alla classe media. I tradizionalisti, particolarmente gli ulama Deoband, i majlis-e-ahrar e i khaksars si opponevano alla creazione del Pakistan. Mentre gli ulama Deoband erano presenti in

6 Mohammed Ali Jinnah, (1876-1948). 7 E. Giunchi, op.cit. pp 22-31. 8 Con questo termine, tipico del linguaggio politico del subcontinente, si indica la separazione dell’India in due stati separati nell’estate del 1947. 9 Èlite religiose, ulama e gruppi politico-religiosi. 10 R. Emerson, From Empire to Nation: the Rise to Self Assertion of Asian and African People, Harvard University Press, Cambridge, 1960, p.164. 11 Allama Muhammad Iqbal (1875-1938) poeta, filosofo e uomo politico. Nato nel Sialkot nell’India britannica, la sua visione di uno stato indipendente per i musulmani dell’India britannica, ha ispirato la creazione dell’odierno Pakistan. È conosciuto come Allama Iqbal. L’anniversario della sua nascita è festa nazionale in Pakistan, poiché egli è considerato il poeta nazionale.

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tutta l’India, i khaksars e gli ahrar erano principalmente confinati in Panjab; la base sociale di queste èlite religiose erano le classi medio-basse. Arhar e Deoband controllavano le moschee ed erano potenzialmente capaci di mobilitare le masse su questioni religiose. Sheila McDonogh ha rilevato come dal collasso dell’autorità politica Mughal nel 1857, gli ulama del sub-continente indiano si fossero ritagliati un ruolo in politica. Loro ambivano ad un Pakistan basato sui dettami religiosi, il califfato rappresentava il modello ideale di stato islamico. I neo-tradizionalisti, la loro caratteristica distintiva consisteva nel non avere connessioni con alcuna scuola religiosa formale. Mawdudi si fece portavoce con il suo Jamat-i-Islam delle loro istanze. Egli disprezzava sia i modernisti che i tradizionalisti, era solito definirli: “Imitatori invertebrati dell’Occidente” nonché “Arco nemico dell’Islam”. Pertanto la controversia ideologica sulla natura del sistema politico pakistano emerse come una contesa per la supremazia e la leadership tra modernisti, tradizionalisti e neo-tradizionalisti. I tradizionalisti e i neo-tradizionalisti cercarono di delegittimare la base del potere dei modernisti chiamandoli “secolari, occidentali, non veri credenti”, tutto ciò al fine di ritagliarsi un ruolo nella politica pakistana, tenendo sempre presente il loro obiettivo, cioè la creazione di uno stato islamico12, “solo Dio può essere sovrano di uno stato islamico, non una persona, una classe o un gruppo, né l’intera popolazione di uno stato può mettere le mani sulla sovranità, solo Dio è il reale sovrano, tutti gli alti sono semplicemente suoi emissari” questo era quello che dichiarava Mawdudi. Questa ideologia era in antitesi con la struttura politica di Jinnah, che fin dal 1946 affermava: “Il nuovo stato dovrà essere un moderno stato democratico, in cui i membri avranno uguali diritti di cittadinanza a prescindere dalla loro religione, credo e colore” durante una dichiarazione l’11 agosto 1947, in qualità di Presidente dell’Assemblea costituente, delineò inoltre la differenza fra “cittadino” e “fedele” “Potete appartenere a qualsiasi religione o casta o credo, ciò non ha nulla a che fare con gli affari dello stato[…] Iniziamo con questo principio fondamentale che siamo tutti cittadini e cittadini uguali di uno stato. Col passare del tempo gli indù cesseranno di essere indù e i musulmani di

10B. Ghaliuon, Islam e islamismo: la modernità tradita, Editori Riuniti, Roma, 1998, pp. 22-25, Il Corano e la Sunna non utilizzano mai il termine Stato o un suo equivalente, infatti la creazione dello Stato non è mai stata una sua prerogativa, il termine stesso “Stato islamico” Dawla islamiyya è una creazione contemporanea, inventata recentemente per rispondere al desiderio dei moderni movimenti islamici d’accedere al potere nei loro rispettivi paesi e riflette la forte influenza del pensiero nazionalista dominante sul pensiero musulmano classico, imperniato essenzialmente sulla nozione di comunità. I musulmani hanno definito il loro spazio dar al islam cioè casa dell’Islam per loro il potere politico è strumentale non all’organizzazione della vita terrena quanto piuttosto alla preparazione degli uomini alla vita eterna, il Profeta infatti non promette uno Stato o una qualsiasi entità politica, quanto piuttosto il paradiso e il perdono. Questo modo di intendere la politica è incarnato perfettamente dal califfato, la cui missione non è la direzione di uno stato cioè l’amministrazione degli interessi temporali dei credenti quanto piuttosto la purificazione delle loro anime. Via via che la comunità si ingrandisce e che i territori conquistati aumentano la comunità religiosa si trasforma in comunità politica; questo soprattutto ad opera di Utman,la cui azione segna l’emergere del politico: egli distrugge tutte le copie del Corano tranne una, per evitare la frammentazione in molteplici possibili versioni, questo atto è determinante, fa del Corano il cuore della vita politica e religiosa dei musulmani, cristallizzando i sentimenti religiosi attorno ad un oggetto e ad un fine comune, l’applicazione della sharia, inoltre trasforma il Corano in una referenza giuridica indispensabile all’emergere di un nuovo potere statuale. La nascita dello stato nell’islam è segnata da un avvenimento ancor più importante che ha lasciato ferite indelebili, si tratta della guerra civile, la fitna, smarrimento collettivo la grande discordia, che porta alla divisione dei musulmani in due comunità quella sciita e quella sunnita. Lo stato nasce dunque in maniera tragica, con una guerra civile. Il risultato di questa nascita, è che da momento rivoluzionario imperniato di divino si passa a forma organizzata in cui la religione dipende dallo stato e cerca in esso prosperità e protezione.

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essere musulmani, non in senso religioso, poiché quella è la fede personale di ogni individuo, bensì in senso politico, quali cittadini dello stato.”13

1.2 Zulfiqar Ali Bhutto: roti, kapra aur makan La controversia ideologica, riemerse in maniera profonda quando Bhutto riassunse il potere nel “Nuovo Pakistan”, la maggiore sfida alla sua legittimità veniva dai neo-tradizionalisti, poiché i tradizionalisti, in particolar modo il JUI, dividevano il potere con il PPP14 nella Frontiera di nord-ovest e in Beluchistan. Essi iniziarono una campagna di proteste motivata dai miglioramenti dei rapporti con l’India, l’immoralità del suo governo e la guerra con il Bangladesh15; si opposero a Bhutto con la stessa veemenza con cui si erano opposti a Jinnah e alla creazione del Pakistan. Nel 1973 gli amir16 del JI diramarono una dichiarazione in cui si sollecitava l’esercito a rovesciare il governo a causa della sua immoralità. Ma per comprendere le cause che portarono a questi eventi occorre fare un passo indietro e analizzare l’evolversi della politica di Bhutto. Zulfiqar Ali Bhutto divenne presidente e amministratore capo della legge marziale nel 1971, il PPP aveva vinto le elezioni all’interno di una coalizione di gruppi sociali estremamente eterogenei: il ceto medio rurale e urbano in Panjab, i latifondisti e il proletariato urbano in Sind e Panjab, le famiglie recentemente inurbate e i settori più disagiati nelle aree rurali del Panjab. Egli faceva parte di una importante famiglia di latifondisti del Sind, era dunque vicino agli interessi dei proprietari terrieri, ma era al tempo stesso imbevuto di cultura occidentale e sensibile al discorso socialista e alle condizioni delle classi disagiate. Durante il momento iniziale del suo governo la sua politica si caratterizzò per la forte spinta idealista, cosi nella prima metà degli anni ’70 furono realizzate alcune delle promesse fatte in campagna elettorale, incentrata sulla riduzione delle disparità sociali e sull’impegno di dare a tutti “pane, abiti e casa”, il noto slogan: roti, kapra aur makan. Vennero nazionalizzate le industrie di base, riconosciuti maggiori diritti ai lavoratori e aumentato il potere dei sindacati. Il proletariato urbano, beneficiò di queste riforme, a scapito dei datori di lavoro, soprattutto dei piccoli imprenditori. La nazionalizzazione delle industrie ebbe inoltre un effetto negativo sulla crescita del paese, poiché comportò una diminuzione degli investimenti privati e una fuga dei capitali. A causa di tutti questi fattori, uniti all’incompetenza dei nuovi manager delle industrie nazionalizzate, tra il ’71 e il ’76 il prodotto industriale crebbe solo del 2% all’anno, contro l’8% negli anni ’60. Nel ’72 venne approvata una riforma agraria, che riduceva il limite massimo della proprietà fondiaria da 200 a 60 ettari per le terre irrigate e da 400 a 120 ettari per le terre non irrigate. La terra in eccesso veniva espropriata ai latifondisti, senza che essi ricevessero nessun genere di indennizzo in cambio e ridistribuita fra gli affittuari. Queste riforme favorirono i settori rurali più poveri, ma danneggiarono il ceto medio rurale, quello più dinamico, che avrebbe potuto intraprendere un processo di modernizzazione del settore agricolo. Il risentimento dei latifondisti e del ceto medio

13 F. Montessoro, (a cura di) Lo Stato Islamico, Guerini, Milano, 2005, pp. 141-165. 14 Partito Popolare Pakistano, fondato il 30 novembre 1967, si definiva esplicitamente partito socialista e islamico. 15 La perdita del Bangladesh fu vissuta come uno scacco militare e un umiliazione. Ma oggi la gente in Pakistan non è più cosciente del fatto che quella terra è stata parte del proprio territorio. Forse perché quella zona è molto povera, per cui non risultava conveniente amministrarla. Non sono favoriti neppure i permessi di permanenza in Pakistan dei cittadini del Bangladesh. 16 Egli è il capo supremo, colui che ha ricevuto la delega da parte di Dio, ha il dovere di far osservare i precetti divini, e quindi “invitare al Bene e scoraggiare il Male” secondo il dettato sciaraitico.

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rurale fu tale, da persuadere Bhutto, nella seconda metà degli anni ’70 a limitare le riforme di stampo socialista e a rilegare la sinistra del PPP ad un ruolo marginale. Anche il settore sanitario e scolastico fu investito dalle riforme, anch’esse ispirate ad una maggiore giustizia sociale. L’istruzione venne resa gratuita e obbligatoria fino ai 13 anni. I college e le scuole furono nazionalizzate, ad eccezione di quelle amministrate da missionari stranieri. Vi fu un aumento delle iscrizioni dell’8%, ma non un conseguente aumento delle risorse destinate all’istruzione, ciò causò una perdita di prestigio, che indusse l’elite a iscrivere i propri figli in istituzioni scolastiche straniere. Per quanto riguarda il settore sanitario, venne istituito un sistema piramidale che si basava sulle unità sanitarie di base, che facevano capo ai centri di salute rurali, a loro volta collegati agli ospedali rurali o di distretto, anche in questo settore, le risorse furono ampliate solo marginalmente, perciò la riforma, il cui obbiettivo era supplire alle limitatezze del sistema sanitario nelle aree rurali, ebbe un impatto limitato. Bhutto cercò di intervenire anche nell’ambito delle Forze armate indebolendone l’indipendenza; a tal fine rimosse numerosi ufficiali di alto livello, introdusse nella Costituzione alcune norme volte a eludere l’interferenza politica delle forze armate e creò una Forza di sicurezza federale. Le risorse destinate alla difesa, furono comunque aumentate, in risposta alla situazione sia interna, rivolte nazionalistiche in Sind e Beluchistan, e a quella internazionale, l’India realizzava il suo primo test nucleare.

1.3 Verso l’Islam La politica si stava polarizzando e la controversia sulla natura del sistema politico pakistano non accennava a migliorare, in un simile contesto Bhutto emanò nel ‘73 la Costituzione, questo gli consentì di placare gli animi, in virtù dei riferimenti che essa conteneva al modo di vita islamico, rendeva infatti obbligatorio l’insegnamento del Sacro Corano17, incoraggiava lo studio dell’arabo, si impegnava a promuovere l’istituzione della zakat18, rimuoveva le norme contrarie al Corano e alla Sunna19, creava inoltre un Concilio islamico. La Costituzione rispecchiava una confermata attenzione per l’Islam da parte della popolazione; essa attestava per la prima volta che l’Islam era la religione di stato; decretava che il Primo ministro e il Presidente dovessero essere musulmani e accresceva le competenze del Consiglio di Ideologia Islamica. Questo rappresentava un esplicito tentativo di includere tradizionalisti e neo-tradizionalisti nel sistema politico, in realtà le concessioni presenti nella costituzione aumentavano la fiducia di questi ultimi, convinti di poter ottenere un ulteriore islamizzazione del sistema politico. In

17 In lingua araba Qur’an, il nome significa letteralmente “recitazione” e indica la Rivelazione Divina trasmessa agli uomini attraverso Maometto, l’ultimo dei profeti inviati da Allah, e che secondo l’ortodossia avrebbe avuto una funzione di semplice ricettacolo della Parola Divina. Il Corano è diviso in centoquattordici capitoli (sure) di varia lunghezza, distinte in base ai periodi della Rivelazione e comunemente chiamate “sure medinesi o meccane” in riferimento ai due luoghi principali (Medina e Mecca) dove Maometto ha ricevuto la Parola Divina. Il Corano enfatizza particolarmente l’idea di movimento e di giustizia sociale. La legge morale contenuta in esso è considerata immutabile e ad essa gli uomini devono sottomettersi. La sottomissione alla Legge Divina è appunto chiamata “islam” e coloro che vi aderiscono sono definiti “muslimin” (musulmani cioè sottomessi alla volontà divina). All’epoca di Maometto, il Corano era stato affidato alla memoria dei fedeli, che lo recitavano nelle loro preghiere, e solo in parte era stato scritto su pergamene. Abu Bakr, il primo Califfo propose una prima redazione del Corano, ma il testo che è oggi comunemente accettato risale al periodo di Uthman, il terzo Califfo. Quest’ultimo decise dell’attuale dell’attuale sistemazione delle parti del Corano, principalmente basate sulla lunghezza delle sure. 18 Elemosina rituale, è il terzo pilastro dell’Islam, fra i più importanti doveri religiosi. L’imposta è in un certo modo, il debito verso Dio che il musulmano deve saldare per ciò che Egli gli ha dato: in questo modo ci si purifica e si rende legale tutto ciò che si possiede. Essa, come gli altri doveri è citata nel Corano, ma è dettagliata dagli hadith del Profeta: “Eseguite la preghiera, date l’elemosina” (Corano, sura II, v. 43). Il Profeta disse: “La carità è un obbligo per ogni musulmano, e colui che non ne avesse i mezzi, faccia una buona azione o eviti di commetterne una sbagliata. Questa è la sua carità.” 19 Sono gli atti e i detti del Profeta, che sono stati trasmessi negli hadith. Dopo il corano la Sunna costituisce la seconda fonte della legge islamica.

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questo clima, Bhutto accolse alcune di queste richieste, tra cui quella di dichiarare “non musulmana” la comunità ahmadiyya, che attribuendo a Mirza Ghulam Ahmad20 qualità profetiche contraddiceva un dogma fondamentale dell’Islam ortodosso. Per scongiurare il pericolo, in un clima di crescente violenza, Bhutto cercò di dare una sterzata al suo programma nel verso dell’islamizzazione, egli era perfettamente conscio del ruolo simbolico che la religione islamica poteva giocare nel catalizzare i consensi, cosi sostituì al socialismo la Musawat-i Mohammadi (egualitarismo del Profeta), spostò il giorno festivo dalla domenica al venerdì, vietò l’alcol, le corse dei cavalli, i night-club e annunciò in aprile l’applicazione completa della sharia nel giro di sei mesi.21 Indubbiamente, il peggioramento della condizione economica, tra il ’74 e il ’77 dovuto al tentativo di realizzare costose e imponenti opere pubbliche, allarmò gli imprenditori e il ceto medio, inoltre rese l’economia pakistana sostanzialmente dipendente dall’estero: nel ’77 il debito estero del Pakistan ammontava a sette miliardi di dollari, quasi il 6% della sua ricchezza nazionale. Gli unici a non essere preoccupati dalla situazione erano i latifondisti, che si erano resi conto della natura puramente simbolica che aveva avuto la riforma agraria e si erano avvantaggiati del precedente allontanamento dell’ala di sinistra del PPP, parallelamente a ciò essi accrebbero il proprio coinvolgimento nella politica e la propria influenza sulle scelte del governo. La commistione di diversi fattori, tra cui il maggiore coinvolgimento dei latifondisti all’interno del PPP, la mutata composizione sociale delle forze armate nelle quali era cresciuto un numero consistente di ufficiali di estrazione media urbana, la disaffezione del settore industriale e finanziario e la crescente influenza economica dell’Arabia Saudita, crearono alla fine degli anni ’70 una convergenza di interessi che si sarebbe rivelata letale per Bhutto, contribuendo all’involuzione autocratica del governo e alle sue concessioni al settore religioso nella seconda metà degli anni ’70. L’Islam divenne sempre più la lingua del dissenso politico e sociale: la classe media urbana, che era stata danneggiata dalle riforme di Bhutto, sempre più manifestò il proprio dissenso rispetto alle politiche socialiste del PPP in chiave religiosa. In un clima di crescente disordine e violenza, nel marzo del ’77 furono tenute le elezioni nazionali e provinciali. All’opposizione vi era l’Alleanza nazionale pakistana (PNA)22, un insieme di gruppi politici disparati, ma rappresentativi per lo più della classe media, ottenne solo l’8,8% dei seggi. Il PPP, con il sostegno dei latifondisti e dei settori più disagiati in ambito rurale e urbano, vinse in tre provincie su quattro, ma fu accusato dall’opposizione di brogli elettorali su vasta scala. Ovunque scoppiarono disordini e manifestazioni anti-governative, fino a quando un colpo di stato pose fine nell’estate del 1977 all’esperimento socialista di Bhutto.23 Tutti questi eventi furono influenzati dall’ “ondata islamica24” che investì la maggior parte dei paesi musulmani. Il movimento islamico del 1977 sembrò far riscoprire ai

20 Nasce e vive per la maggior parte del tempo in Panjab. Negli anni 1880-84 scrive i quattro volumi dell’opera Barahin-i-Ahmadiyya, destinata a mostrare la superiorità dell’Islam sulle altre fedi. Nel 1889 annuncia di aver ricevuto una rivelazione divina che gli consente di formare una comunità e di ricevere doni dai suoi seguaci. La rottura avviene quando lui si dichiara Masih e Mahdi. Cosi i musulmani ortodossi lo dichiarano eretico. Muore a Lahore nel 1908 e viene sepolto a Qadian, tuttora un importante luogo di pellegrinaggio per il movimento. 21 W.L. Richter, The Political Dynamics of Islamic Resurgence in Pakistan, in Asian Survey, 1979, pp.551-552. 22 Un insieme di nove partiti politici, in cui dominavano il JI e il JUI. Durante il ’77 esso era stato in grado di mobilitare le masse in nome dell’Islam. Venne descritto come un movimento della classe media islamica, che sentondosi alienata dalle politiche di Bhutto si era spontaneamente rivoltata. 23 E. Giunchi, op.cit., pp.43-45. 24 La Guerra dell’ottobre 1973, ha rappresentato una vittoria simbolica per Sadat e Assad, rispettivamente l’”Eroe della traversata” e il “Leone d’ottobre”, ma i veri vincitori della guerra furono i paesi esportatori di petrolio, primo fra tutti l’Arabia Saudita. Oltre al successo politico dell’embargo, questo paese ha rarefatto l’offerta di idrocarburi, facendo schizzare in alto i prezzi. Sommersi dai petrodollari, gli stati del

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pakistani la loro identità nazionale, le spaccature etniche e religiose sembravano essere state sommerse dalla forza unificante dell’Islam. Con l’allontanamento di Bhutto, la linea liberal-secolare del sistema politico pakistano collassò ancora una volta. In questo periodo aumentò decisamente l’influenza dei neo-tradizionalisti. Il suo lascito più originale fu aver cambiato radicalmente il modo di fare politica, coinvolgendo le masse con agitazioni di piazza e rivolgendosi direttamente ai settori più vulnerabili. Non sarebbe più stato possibile tornare indietro. Il crescente richiamo all’Islam da parte dello stesso Bhutto nella seconda metà degli anni ’70 e da parte di Zia nel decennio successivo può essere letto come un modo per mobilitare le masse e legittimare il governo, senza però dover fare ulteriori concessioni socio-economiche, e senza quindi alterare lo status quo25.

1.4 Zia e l’islamizzazione del paese Sorgono a questo punto alcune domande: quale fu la ragione che spinse il Primo ministro Bhutto a scegliere Zia come capo dell’esercito, quando avrebbe avuto a sua disposizione generali di qualità ben superiore rispetto a lui? E soprattutto perché Zia decise all’improvviso di rovesciarlo? Zia ul-Haq nacque a Jullundur il 12 agosto 1924, da una famiglia della piccola borghesia Arain. Gli Arain erano piccoli proprietari-contadini favoriti dai britannici per il loro duro lavoro, la frugalità e il senso di disciplina. Costoro furono inviati dai britannici nei territori del Panjab per coltivare le terre attorno alle città e fondare delle colonie. La definizione che alcuni antropologi forniscono di loro è “poco eleganti e raffinati rispetto ai proprietari terrieri tradizionali del Panjab; bere te, cacciare le pernici o giocare a polo non sono pratiche in uso fra loro. E tanto meno sprecare energie ballando con le ragazze o ubriacandosi la sera ascoltando poesie. Piuttosto investono il proprio denaro nell’istruzione, raccogliendone presto i frutti”. Molto presto arrivarono infatti, a dominare le professioni legali tra i cittadini musulmani in Panjab, e molti fra questi utilizzarono la stessa legge per entrare in politica. Il padre di Zia era un dipendente del governo britannico, un giovane ufficiale che fu appena capace di raggranellare sufficienti risorse per mandare il proprio figlio a Delhi, nel noto college di St. Stephen. Dopo la laurea ottenuta nel 1944, entrò nell’esercito dell’India britannica. L’esercito era un insolita carriera per un giovane Arain, i britannici non gli ritenevano una “razza marziale” dunque non incoraggiavano i suoi membri ad entrare nelle forze armate; ma la II Guerra Mondiale ruppe le vecchie barriere di classe e aprì il reclutamento a tutte le comunità indiane, marziali o meno. Zia non venne addestrato a Sandhurst, luogo in cui venivano formati i militari che avrebbero occupato le posizioni di rilievo, poiché la guerra richiedeva nuove reclute velocemente, cosi egli fu sottoposto ad un breve periodo di addestramento in India, e subito prese parte a numerose operazioni nel sud est asiatico. La partizione dell’India britannica lasciò la nativa Jullundur nel lato indiano del confine. La sua famiglia fu sradicata e lasciò dietro di se le scarse risorse di cui disponeva, migrando in Pakistan nella città di Peshawar, nella Provincia della Frontiera di nord-ovest, al confine con l’Afghanistan.

Golfo acquisirono una posizione dominante nel mondo musulmano. Potendo realizzare la vecchia vocazione di diventare egemone sul significato dell’Islam in tutta l’Umma. L’obiettivo è fare dell’Islam un protagonista capace di sostituirsi sulla scena internazionale al nazionalismo sconfitto. Questo è reso possibile dalla mole di denaro guadagnata, che fa di questi paesi i principi della beneficienza e della carità. Assieme al denaro arrivano però anche le idee. Il sistema trasnazionale saudita s’immischia nei rapporti tra società e stato in quasi tutti i paesi musulmani, grazie alle sue reti di proselitismo, e suoi sussidi e i flussi d’immigrazione che attira. 25 S. Wolpert, Zulfi Bhutto of Pakistan: His Life and Times, Oxford University Press, New York, 1993.

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“Io vi racconto cosa significhi l’Islam e il Pakistan per me” così esordì Zia durante una Conferenza internazionale sull’Islam a Islamabad nel 1983. “E’ la visione di mia madre che continua a lottare estenuata, con tutti i beni che possiede fra le mani, mentre attraversa il confine giungendo in Pakistan”. Zia non dimenticò mai le sue umili origini o il sistema di valori della comunità industriosa a cui apparteneva. La sua famiglia era estremamente devota, credeva in un tipo di Islam, in cui l’uomo trova la comunione con Dio solo con l’aiuto del Corano e gli insegnamenti del profeta, senza intermediari, nessun clero, pir26, santi o antenati. “La mia fede in Dio e nel suo insegnamento è forte abbastanza da essere capace di resistere malgrado la convivenza con gli ufficiali della cavalleria britannica e dei corpi armati pakistani” cosi raccontò a Shahid Javed Burki, “ bere, giocare d’azzardo, ballare e ascoltare musica erano i modi in cui gli ufficiali spendevano il proprio tempo libero. Io invece dicevo le preghiere.” Ma cerchiamo di trovare una risposta al primo dei nostri quesiti, cosa spinse Bhutto a scegliere fra un ampio e valido campionario, l’allora quasi sconosciuto Zia. Come già ricordato, nel ’72 Bhutto aveva epurato buona parte dell’esercito, riorganizzando l’Alto Comando delle forze armate. Nella Costituzione del 1973, Bhutto aveva cercato di arginare il ruolo delle forze armate nella politica. Alcuni tentativi di rovesciare il governo costituito legalmente erano stati classificati come alto tradimento, assoggettando questo reato alla pena capitale. Nel 1976 Bhutto tralasciò una mezza dozzina di generali e scelse il tenente generale Zia ul-Haq come prossimo Capo di Stato Maggiore. Zia a quel tempo era comandante di un corpo che stazionava nel Multan, nel sud del Panjab. Era una figura relativamente poco nota, si distingueva per la sua professionalità e la mancanza di interesse per la politica. Aveva inoltre la fama di servire i suoi superiori con assoluta lealtà, un attributo confermato a Bhutto dal generale Sahibzada Yaqub Ali Khan, molto vicino al Primo ministro. Inoltre il fatto che Zia non appartenesse ad una “razza marziale” giocò a suo favore, Bhutto riteneva fosse improbabile che un Arain stringesse alleanze profonde con i Pathan o i Rajput, le due comunità più radicate nelle forze armate. Inoltre il Primo ministro era informato del fatto che Zia fosse un devoto musulmano e non fosse molto vicino ai suoi colleghi nella cavalleria, un simile uomo non avrebbe costituito alcuna minaccia politica per un carismatico e popolare leader come Bhutto. Zia non sembrava possedere gli attributi di un uomo in grado di galvanizzare i suoi uomini e muoverli contro un regime popolare. Bhutto al contrario era un uomo a cavallo fra due mondi: un aristocratico appartenente alla nobiltà terriera che aveva dominato la politica pakistana per decadi. Contemporaneamente aveva sviluppato una notevole empatia nei confronti dei diseredati della società pakistana. “Io potrei apparire un pessimo esempio, se dicessi che sono una parola familiare in tutte le case, io appartengo al sudore e al dolore di questa terra, io ho un legame eterno con la gente di questa terra” cosi scrisse Bhutto nel 1978 dalla sua cella di morte a Rawalpindi. Ma l’esercito fu capace di stroncare Bhutto, non nel legame che lui aveva con i poveri di quella terra ma nell’influenza che esercitava sull’elite politica pakistana. L’esercito che il generale Zia ul-Haq fu chiamato a guidare nella primavera del 1976 era molto diverso da quello guidato dal generale Ayub Khan, soprattutto sotto il profilo della composizione sociale. Gli ufficiali addestrati a Sandhurst che avevano preso comando nell’esercito pakistano dopo l’indipendenza arrivavano dalle “razze marziali” del nord del Punjab e dalla provincia della Frontiera di nord-ovest, l’appartenenza all’esercito era nella loro tradizione, molti di loro facevano parte di famiglie che avevano prestato servizio nel Raj britannico ottenendone benefici economici e sociali. Ayub Khan e Yahya Khan, i primi due militari-politici pakistani, appartenevano a

26 Termine con cui in India, Pakistan e Afghanistan e nei paesi del Turkestan si indica un “santo”.

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questa classe sociale. Zia era diverso, come un significativo numero di ufficiali che entrarono nell’esercito negli anni finali della II Guerra Mondiale, che venivano dalla media borghesia, da piccoli villaggi e città del Panjab centrale. Costoro entrarono nell’esercito non per tradizione familiare ma per cercare un occupazione, a causa della carenza di lavoro in uno stato straziato economicamente. Questa fu la generazione di Zia, che lui inserì nelle posizioni di comando durante i suoi 11 anni come Capo di stato dell’esercito maggiore. Il loro sistema di valori era diverso da quello degli ufficiali-gentiluomini dei giorni di Ayub Khan e Yahya Khan, e Bhutto conosceva poco questa classe sociale. Di fatto, Bhutto scelse Zia poiché non lo riteneva un possibile competitor. I modi liberi del PPP avevano profondamente alienato i membri della classe media, essi giudicavano il governo non-islamico e anti classe media, incurante e irriverente nei confronti dell’ideologia pakistana. Erano persuasi che il Pakistan fosse stato creato per fornire all’Islam un posto sicuro nell’Asia del sud non per avvicinarsi e sposare la causa socialista. La ferocia delle agitazioni che seguirono le elezioni del febbraio 1977, lasciarono Bhutto basito, mentre Zia e i suoi ufficiali riuscirono a comprendere le motivazioni di coloro che scendevano in piazza. Quando alcuni dei suoi ufficiali superiori si rifiutarono di usare i proiettili per ripristinare l’autorità del governo di Bhutto, Zia si rese conto di non poterlo più sostenere, decise cosi di rovesciarlo. Gli eventi della primavera ’77: l’improvviso scoppio della rabbia della classe media contro l’amministrazione di Zulfikar Ali Bhutto, colsero Zia e le forze armate di sorpresa, loro conoscevano la disaffezione per Bhutto, ma non si aspettavano una campagna cosi vigorosa e violenta. Diversamente dai suoi predecessori militari, che entrarono in politica con una chiara visione del futuro, Zia non era preparato a governare quando assunse il controllo. Non possedeva un programma politico ne disponeva del tempo per realizzarne uno. Il movimento anti-Bhutto raggiunse proporzioni considerevoli in meno di tre mesi. All’inizio di marzo, era palese che Bhutto avrebbe fatto significative concessioni all’opposizioni oppure avrebbe rischiato un golpe militare, le sue concessioni arrivarono troppo tardi; l’incontro finale con l’opposizione si tenne il 4 luglio, quando Zia e i suoi colleghi militari avevano già lanciato la loro operazione “FAIR PLAY”. Il Primo ministro fu catturato a Muree, un luogo di villeggiatura. Zia assunse il titolo di Capo amministratore della legge marziale, promettendo elezioni entro 90 giorni. L’iniziale giustificazione del generale Zia per l’azione dell’esercito fu che Bhutto aveva perso il diritto morale a governare. L’esercito aveva il dovere etico di intervenire per prevenire ulteriori disordini e assicurare nuove elezioni, esso garantiva il ritorno non ad una democrazia multi-partitica cosi come previsto dalla Costituzione del 1973, ma ad una forma di democrazia islamica. L’iniziale promessa di indire elezioni entro 90 giorni a cui avrebbe potuto partecipare anche Bhutto e di non interrompere il sistema politico e costituzionale non venne mantenuta27. Come detto precedentemente i neo-tradizionalisti avevano incitato i militari a rovesciare il governo immorale di Bhutto; sulla scia dell’ondata islamica di protesta, le masse furono ampiamente mobilitate e lo stato fu largamente polarizzato, mancò quasi totalmente un accordo tra le èlite contestatarie, in questo contesto intervennero i militari, poiché si profilava lo spettro di una guerra civile. Quando il generale Zia-ul-Haq assunse il potere, egli sembrava bramoso di trasformare il Pakistan in uno “stato ideologico” esattamente come desiderato dai neo-tradizionalisti. Questa comunanza di idee tra Zia e i neo-tradizionalisti portò a quello che Jansen chiama “spettacolare cambiamento del Jamat”, per la prima volta nella storia del Pakistan i neo-tradizionalisti videro il loro sogno diventare realtà.

27 S.J. Burki, Pakistan under Zia, 1977-1988, in Asian Survey, Vol.II, 1988, pp.1082-1100.

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Lo stesso giorno del colpo di stato che lo portò al potere, nel suo primo discorso il 5 luglio 1977, Zia promise alla nazione di introdurre il nizam-e-mustafa, “il Pakistan, che fu creato nel nome di Allah continuerà a sopravvivere solo se aderirà all’Islam, Io considero l’introduzione del sistema islamico un pre-requisito essenziale per lo stato.” Cosi Zia procedette a formulare i parametri del “sistema islamico” eliminando le già indebolite strutture liberal-secolari del paese, in nome della cancellazione del malvagio “bhuttismo”. Veniva cosi adottata la re-invenzione delle origini del paese compiuta nei decenni precedenti dal JI, che aveva collegato l’Islam al nazionalismo pakistano e al destino del paese. A questa equazione Zia aggiunse un ulteriore elemento: l’esercito come garante della sopravvivenza dell’Islam e della nazione28: Pakistan e Islam, avrebbe affermato nel 1982, sono nomi che indicano la medesima cosa; qualsiasi idea o azione contraria a ciò significherebbero colpire le radici dell’ideologia, della solidarietà e dell’integrità del Pakistan. Anche la struttura giudiziaria venne riformata. Nel ’79 furono istituite quattro Corti Shariat, una presso ogni alta corte provinciale. L’anno successivo le corti furono unificate in un’unica Corte Federale Shariat29, il suo compito era esaminare dietro petizione o di propria iniziativa leggi e proposte di legge per stabilire la loro conformità all’Islam, ad eccezione di alcune materie tra cui la Costituzione e il diritto privato musulmano, nonché ascoltare appelli per casi hudud giudicati in prima istanza dalle corti distrettuali e di sessione. Contro il verdetto della Corte Federale Shariat ci si poteva appellare alla Sezione sharia della Corte Suprema. Accanto a giudici che avevano ricevuto una formazione di tipo occidentale, nelle due corti d’appello furono inclusi ulama senza alcuna formazione giuridica formale ma versati nella giurisprudenza islamica, studiata nelle madrasa. La loro autonomia era però limitata, poiché erano nominati dal Presidente. Nel contesto dei ripetuti tentativi di Zia di controllare la magistratura, è lecito sospettare che il coinvolgimento degli ulama nelle corti d’appello fosse motivato almeno in parte dal desiderio di integrarli in strutture controllate dall’esecutivo. È significativo che dalla competenza della Corte Federale Shariat fosse stato escluso il diritto di famiglia, e quindi la controversa Ordinanza del ’61. Ma l’attivismo giudiziario delle corti pakistane avrebbe sopperito a questa limitazione. A partire dalla metà degli anni’80 si sarebbero moltiplicati i casi in cui i tribunali di primo grado applicarono espressamente principi di diritto islamico non codificato e talora addirittura contrari a norme vigenti. Questo attivismo giudiziario di segno fondamentalista non iniziò dalle corti sharia, in cui sedevano ulama graditi all’esecutivo, ma dalle alte corti composte da magistrati laici, formati in facoltà di giurisprudenza di tipo occidentale. La loro formazione era tipicamente quella della classe media urbana istruita in scuole pubbliche di tipo occidentale. Com’era accaduto per gli ufficiali dell’esercito, nel corso degli anni ’70 il ceto medio urbano, che era influenzato dall’interpretazione fondamentalista, era entrato in maggior numero nella magistratura, e particolarmente nelle corti di sessione, nelle corti distrettuali e nelle alte corti. È significativo che i primi tentativi di attivismo giudiziario ispirati all’interpretazione fondamentalista si verificarono nell’Alta corte di Karachi, la città dove il JI godeva del maggior sostegno. E lo è anche il fatto che le decisioni delle Alte corti a favore della preminenza della sharia non codificata sul diritto vigente vennero spesso respinte in seconda istanza dalla Corte federale Shariat e dalla Sezione sharia della Corte Suprema, i cui ulama e magistrati appartenevano alla generazione precedente, influenzata rispettivamente dal conservatorismo tradizionale e dal modernismo islamico.

28 M. Ahmad, The Crescent and the Sword: Islam, the Military, and Political Legitimacy in Pakistan, 1977-85, in Middle East Journal, 1996, p.382. 29 La leadership neo-tradizionalista le acclamò come “una pietra miliare nella storia dello Stato”.

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Nel 1979 furono promulgate le Ordinanze hudud, che emendavano il Codice di procedura penale emanato nella seconda metà del XIX secolo dagli inglesi e adottato nel 1947 dal Pakistan. Conformemente al diritto islamico classico, le Ordinanze introducevano punizioni severe per alcuni reati considerati dal Corano e dalla Sunna particolarmente gravi, appunto i reati hudud, come ad esempio il consumo di bevande alcoliche, le relazioni sessuali illegali (zina30), la calunnia di zina, il furto e il brigantaggio. Le Ordinanze non hanno ridotto l’incidenza dei reati hudud e hanno avuto l’effetto di ampliare le differenze fra gruppi sociali e tra province: sono infatti state applicate principalmente nelle aree rurali sedentarizzate del Panjab e della Frontiera e hanno coinvolto quasi esclusivamente la popolazione meno abbiente. Nel Beluchistan, in Sind e nelle aree tribali della Frontiera il ricorso alle Ordinanze è stato minimo. A ciò ha contribuito il permanere in queste aree di sistemi consuetudinari extragiudiziari di risoluzione dei conflitti, soprattutto per i reati inerenti alla sfera privata, ma anche l’ostilità con cui si vede ogni tentativo di islamizzazione imposto dall’elite panjabi e contrario all’Islam popolare a cui aderisce gran parte della popolazione rurale in Sind e in Beluchistan. L’Ordinanza maggiormente criticata è stata l’Ordinanza zina, che tratta i vari tipi di reati sessuali. Il 10 febbraio 1979 fu annunciata l’islamizzazione dell’economia e l’Ordinanza sulla zakat31. Il fondo zakat era stato costituito con un capitale iniziale di 2 mila milioni di rupie in aggiunta alle generose donazioni fatte dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, lo scopo dell’ordinanza era tassare i ricchi per adempiere ai fabbisogni dei poveri. L’islamizzazione dell’istruzione e la riscossione delle imposte islamiche avrebbe avuto però un effetto sul lungo periodo più importante, non previsto dal potere, che vi vedeva l’occasione per controllare da vicino le sfere religiose e manifestare la propria sollecitudine per i poveri attraverso la zakat. Questa “elemosina legale”, destinata ai bisognosi, uno dei cinque pilastri dell’Islam, è rimasta un atto privato nella maggior parte degli stati musulmani contemporanei. Il regime di Zia la prelevò invece dai conti bancari, ogni anno al momento del Ramadan, in misura del 2,5% dei depositi. Era un imposta più dottrinale che efficiente: serviva ad esaltare il carattere religioso del regime militare e il suo impegno in materia di giustizia sociale, poiché tassava soltanto le classi medio-alte urbane a vantaggio dei diseredati. Ma le decine di milioni di pakistani poveri non ne trassero alcun vantaggio. L’imposizione della zakat ebbe invece effetti deleteri sul campo religioso, contribuendo, ben oltre gli anni di Zia e fino ad oggi, alla sua frammentazione e alla crescita della violenza al suo interno: per cominciare, la minoranza sciita, il 15-20% della popolazione, rivelò che versava già la zakat, su base volontaria, ai propri ayatollah e respinse l’intromissione dello stato nella gestione dei suoi affari religiosi. Il potere dovette fare marcia indietro ed esentò gli sciiti, suscitando le ire degli ulama sunniti più conservatori, assai ostili allo sciismo, per i quali molti pakistani sarebbero stati tentati di dichiararsi sciiti pur di eludere il fisco. Fu questo uno dei contenziosi che avrebbero opposto i militanti delle due comunità in sanguinosi scontri nel decennio successivo. Anche nei confronti della comunità sciita, il regime adottò una politica di divide et impera tramite la cooptazione di figure importanti della comunità sciita nelle nuove istituzioni religiose. I dissidi che si verificarono negli anni ’80 fra sciiti e sunniti, indebolirono la società pakistana e diffusero la violenza settaria, ma rafforzarono il regime militare, poiché permisero a Zia di assumere il ruolo di mediatore tra interpretazioni diverse e di controllare maggiormente il settore religioso, che in ragione della sua frammentazione interna era incapace di fare richieste comuni al governo e di rappresentare una minaccia reale per il potere costituito. 30 Adulterio, fornicazione. 31 C. Kennedy, Islamization in Pakistan, in Asian Survey, Vol.I, 1988, pp. 307-316.

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D’altra parte, il denaro della zakat serviva per finanziare le scuole religiose tradizionali, le madrasa, controllate dagli ulama e in maggioranza legate al movimento Deoband. Il controllo di questa rete di scuole rappresentava una posta di strategica importanza, in quanto esse erano nate per assicurare istruzione, vitto e alloggio alla massa di giovani di umili origini, proprio col denaro delle donazioni. In condizioni di promiscuità e di disciplina spesso denunciate dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani, le madrasa pakistane trasmettevano agli allievi il sapere religioso in una prospettiva tradizionale e rigorista, e dando loro una visione del mondo improntata a tali precetti. Per lo stato islamico di Zia, finanziare le madrasa, sovvenzionando gli allievi bisognosi con i proventi della zakat significa attivare una prima forma di controllo su una classe d’età e uno strato sociale potenzialmente pericolosi. Allo stesso tempo la scuola religiosa fu parificata a quella statale: i corsi di Islam, obbligatori per gli studenti di ogni ordine e grado, fornivano posti di insegnante ai laureati delle madrasa, ai cui diplomi venne riconosciuta l’equivalenza con quelli nazionali, purché fossero svecchiati i programmi di studio. Aprendo prospettive di carriera ai giovani discepoli degli ulama, queste misure aumentarono l’interesse e il prestigio delle loro scuole. Assieme al denaro della zakat e all’esplosione demografica, esse provocarono una crescita esponenziale del numero delle madrasa durante gli anni ’8032. Ciò diede agli ulama, soprattutto ai più intransigenti, un maggiore potere di controllo sui giovani disagiati, anche afghani, in quanto si presero cura di molti figli di profughi. È li che si formarono i taliban, il cui nome significa “allievi di madrasa”. Ma di fronte al tentativo di ingerenza dello stato in cambio delle sovvenzioni provenienti dalla zakat, alcuni direttori delle più importanti madrasa preferirono contare sulle proprie risorse, grandi abbastanza da non dover bussare alla porta di Zia e svendere la propria indipendenza ad un generale, quale che fosse lo zelo che egli mostrava nell’islamizzazione. In questo modo gli ulama Deoband conservarono intatto il loro potere politico: potevano permettersi di non giurare fedeltà a Zia, dato che detenevano la chiave della pace sociale, mobilitando all’occasione i giovani poveri, sia in città che nelle campagne, reclutati nelle loro scuole. E, come mostrarono in Afghanistan, erano perfettamente capaci di trasformare gli allievi in militanti del jihad, pronti a uccidere e morire per la causa che si fosse indicata loro. Zia aveva bisogno di questi ulama, quanto loro avevano bisogno di Zia, poiché controllavano i gruppi sociali più instabili, sui quali il regime militare non aveva nessuna presa. Concludendo, i fondi raccolti con la zakat non ebbero un effetto redistributivo significativo, anche a causa della diffusa evasione fiscale e della dipendenza dei comitati rurali da logiche clientelistiche. L’imposizione della zakat ebbe invece importanti conseguenze sul settore religioso tradizionale e sul suo rapporto con il potere centrale. Essa permise la cooptazione di figure religiose tradizionalmente autonome in strutture controllate dalla burocrazia civile: 18.000 comitati locali della zakat che vennero creati negli anni ’80 coinvolsero circa 126.000 figure religiose tra imam33, predicatori e altri34. La decisione di corrispondere parte dei fondi zakat alle madrasa, favori inoltre la loro proliferazione nelle aree rurali e nei campi profughi: se nel ’71 ve ne erano 900, nel 1988 arrivano a 8.000 quelle ufficiali e 25.000 non ufficiali, per un totale di circa mezzo milione di studenti35.

32 Malik in Consultation of Islam, Dissolution of Traditional Institutions in Pakistan, osserva che il numero delle madrasa controllate dai deoband è aumentato di oltre il 500% tra il 1979 e il 1984, data in cui l’autore ne ha contate 1.097. 33 Con questo termine i sunniti indicano la persona che dirige la preghiera nella moschea. 34 M. Ahmad, Revivalism, Islamization, Sectarianism, and Violence, Westview, Boulder, 1998, p.106. 35 A. Rashid, Talebani: Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli, Milano, 2001, p.115.

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Nel settore finanziario, fu vietato da diverse transazioni finanziarie l’interesse36, in quanto non conforme ai precetti islamici. Conti bancari basati sulla compartecipazione agli utili e alle perdite furono inoltre aperti accanto ai tradizionali conti nelle banche di risparmio. L’eliminazione parziale dell’interesse permise al regime di allargare il consenso popolare tramite l’adozione di uno dei principi fondamentali dell’Islam, e di aumentare al tempo stesso il livello di risparmio: in un contesto sociale caratterizzato da una tradizionale diffidenza nei confronti delle istituzioni finanziarie, la creazione di conti rispettabili ideologicamente e che permettevano profitti superiori ai conti convenzionali perché limitati a progetti sicuri del settore pubblico favorirono un aumento, seppur limitato, nel livello di risparmio. La riforma era conforme, inoltre, alla politica di privatizzazione e di liberalizzazione economica perseguita da Zia sotto l’influenza degli Usa. La de- regolazione dei tassi di interesse e l’introduzione di nuovi strumenti finanziari ispirati all’Islam contribuirono negli anni successivi ad un crescente disimpegno del governo nel settore economico. Le altre misure socio-economiche caldeggiate dal Consiglio di ideologia islamico, quali la riorganizzazione del sistema previdenziale, la limitazione della proprietà privata e la redistribuzione della ricchezza, furono ignorate dal governo, questa è un'altra dimostrazione del fatto che il tentativo di islamizzare la società fosse solo di facciata. La politica di islamizzazione del generale fu funzionale perfino al velocizzare l’integrazione del paese nell’area di riferimento islamica internazionale37. Uno dei simboli più forti sarà la creazione a Islamabad nel 1980 dell’Università islamica internazionale, dove si ritroverà tutto il gotha islamista mondiale di tendenza wahhabita38 influenzato dai Fratelli musulmani, generosamente finanziata dall’Arabia Saudita. Fu incoraggiato l’apprendimento dell’arabo e degli studi islamici. Furono potenziati il Consiglio ideologico islamico39 e l’Istituto di Ricerca Islamica40. Le due principali e controverse misure di islamizzazione furono: il nono emendamento e il progetto shariat. Il nono emendamento fu accolto come una brillante realizzazione del governo, venne introdotto dal Senato il 23 dicembre 1985 e fu approvato senza alcun dibattito. L’emendamento alla Costituzione conteneva i seguenti punti:

a. Le ordinanze dell’Islam come previste dal Sacro Corano e dalla Sunna dovranno essere la legge suprema e la fonte di guida per le leggi emanate dal Parlamento e dalle Assemblee provinciali, nonché per le politiche del governo.

b. Esso autorizza la Corte Federale Shariatica (FSC) a fare raccomandazioni in modo tale che le leggi fiscali e le leggi relative all’imposizione e alla riscossione delle tasse avvenga in conformità con quanto disposto dalla presente ingiunzione.

36 Il termine riba indica l’usura, proibita dal Corano, ed è generalmente equiparato al prestito di denaro o di beni dietro interesse, come a ogni guadagno speculativo che non proviene da attività lavorative e produttive. Le autorità musulmane contemporanee ritengono che l’interdizione si applichi all’interesse piuttosto che al profitto: laddove il denaro sia guadagnato a partire dal denaro, si tratta di riba e per tale ragione il guadagno è proibito. Quando la fonte del commercio o da investimenti produttivi, anche se ciò implica un’operazione speculativa, il riba è evitato. Gli economisti musulmani contemporanei interpretano la proibizione nel suo contesto coranico : non è condannata la ricchezza in sé ma la sua ricerca come obiettivo principale delle attività umane. 37 A metà degli anni ’80 il flusso migratorio raggiunse il suo punto massimo con circa 2.000.000 di pakistani presenti nel Golfo che inviavano in patria circa 3 miliardi di dollari ogni anno. In quel periodo le rimesse degli emigranti costituivano quasi la metà delle entrate di valuta estera del Pakistan. Nel 1987 quasi la metà delle famiglie di ceto basso del quartiere più antico di Lahore aveva almeno un congiunto che risiedeva in un paese del Golfo Persico. 38 Wahhabiyya, movimento pietistico affermatosi sulla penisola arabica, che viene fatto risalire a Muhammad Abd al-Wahhab (1703-1792). 39 Istituito nel 1962, Zia aumentò il numero dei suoi membri e ampliò le sue funzioni nel 1980. le sue funzioni sono descritte negli art. 229-30 della Costituzione, e la sua composizione nell’art. 228. 40 S. Shafqat, Politics of Islamization: The Ideological Debate on Pakistan’s Political System, in Asian Profile, 1987, pp.445-457.

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c. Esso amplia la giurisdizione della FSC alla legge personale musulmana e alle leggi relative alle procedure delle Corti e dei Tribunali.

L’altro progetto conosciuto come Shariat Bill fu presentato in Senato da Maulana Shami-ul-Haq e Abdul Latif, senatori del JI della frontiera di Nord-Ovest. Conteneva rinnovamenti al sistema legislativo, giuridico e sociale dello stato. I principali provvedimenti erano i seguenti: Le principali fonti della Sharia sono il Corano e la Sunna e gli atti della Sharia devono essere basati su di essa. a. Tutte le azioni legali devono essere decise in accordo con la sharia. Una decisione che è contro la Sharia deve essere invalidata e deve essere impugnata dalla FSC.

b. Tutte le Corti del paese sono obbligate a decidere in merito a tutti i generi di casi, inclusi quelli finanziari ecc., in accordo con la Sharia i casi decisi in contravvenzione della Sharia devono essere annullati.

c. Nessun ufficiale dell’esecutivo, incluso il Presidente e il Primo Ministro devono impartire direttive che sono contro la Sharia, qualora ciò accada esse devono essere annullate dalla Corte.

d. Le decisioni delle FSC devono essere applicate a tutti i funzionari del governo. e. I cittadini non-musulmani devono essere liberi di impartire la propria

educazione religiosa ai propri figli e devono avere il diritto di occuparsi dei propri affari personali decidendo in accordo con le proprie leggi religiose.

f. Ulama riconosciuti esperti ed eminenti, devono essere nominati come giudici in tutte le corti.

g. Efficaci arrangiamenti, devono essere adottati per l’insegnamento della sharia e della giurisprudenza islamica.

h. I mass media devono essere epurati dai programmi che sono contro la Sharia. i. Tutti i guadagni ottenuti in maniera contraria alla sharia devono essere proibiti.

Malgrado tutte le riforme di stampo islamico promosse da Zia i partiti religiosi divennero sempre più critici nei confronti della lentezza con cui il governo realizzava il programma di islamizzazione. La loro delusione nei confronti di Zia nacque dalla consapevolezza che dietro all’individuo vi era un sistema di potere e di interessi che non era mutato e che si opponeva ad un islamizzazione sostanziale della struttura statale che potesse minacciare lo status quo: l’esercito, la burocrazia e le elite economiche ponevano, infatti, un limite al processo di islamizzazione, permettendo solo riforme “cosmetiche” e secondarie rispetto al sistema politico ed economico del Paese. Anzi, era interesse del governo e delle elite rafforzare alcuni aspetti della modernizzazione del sistema, pur servendosi di un linguaggio e di forme istituzionali accettabili e comprensibili alla popolazione. In questo modo l’Islam era manipolato a fini politici ed economici dalle stesse elite laiche, mentre i suoi aspetti più tradizionali e devozionali erano relegati ad un posto marginale. Con il passare del tempo i settori religiosi si resero conto, inoltre, che l’islamizzazione promossa dal governo costituiva un’appropriazione della religione da parte dell’apparato secolare dello stato, che tramite la cooptazione degli ulema, la creazione di istituzioni religiose prive di reale autonomia, e l’uso di un linguaggio religioso e simbolico rischiava di privare di potere gli stessi gruppi religiosi. L’accusa mossa dai partiti religiosi al governo di non promuovere seriamente l’islamizzazione aveva una certa validità, poiché la maggior parte delle loro proposte non fu accolta. La natura limitata del processo di islamizzazione era in realtà anche una conseguenza delle stesse richieste dei gruppi religiosi: questi ultimi si concentreranno, infatti, sul ruolo della donna e sul diritto di famiglia, ma mancarono di una visione più generale sul sistema islamico da applicare, e le riforme politiche ed economiche da loro proposte

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erano contraddittorie e puramente cosmetiche. In questo non erano aiutati dalla dottrina islamica, che per quanto sia presentata dai revivalisti come un sistema ideologico coerente e completo, in materia politica ed economica non è dettagliata né sistematica. È significativo che quasi un terzo degli scritti dei partiti religiosi pakistani riguardi la moralizzazione della società, mentre le questioni di giustizia socioeconomica sono trascurate41. La natura limitata del processo di islamizzazione era dovuta in parte alla stessa eterogeneità del settore religioso pakistano, frazionato in scuole teologiche incapaci di superare le divergenze interne e di fare richieste comuni al governo. L’islamizzazione di Zia, invece di favorire il formarsi di una coscienza nazionale e di promuovere l’integrazione, esasperò le differenze religiose tra sunniti, sciiti e ahmadi e acuì il dissidio interno alla stessa maggioranza sunnita fra scuola teologica deobandi, rappresentata politicamente dal JUI e scuola barelvi, rappresentata dal JUP. In seguito alla posizione sempre più critica dei gruppi religiosi aumentarono l’isolamento politico di Zia e la delegittimazione dell’esercito. Nel febbraio 1981 i partiti del PNA ad eccezione di JI, JUP si unirono al PPP nel Movimento per la Restaurazione della Democrazia, le cui richieste principali erano la restaurazione della Costituzione del ’73, la fine della legge marziale, elezioni libere e il rilascio dei prigionieri politici. Lo stesso JI si allontanò progressivamente dal governo. Si schierarono contro Zia anche importanti pir, contrari al suo tentativo di unificare le pratiche religiose nel Paese dando preferenza all’interpretazione sunnita ortodossa. La risposta di Zia alle critiche del settore religioso fu di due tipi: da una parte convocò varie conferenze per discutere il modo in cui il processo di islamizzazione poteva essere accelerato42 e promulgò nuove leggi islamiche; dall’altra sottolineò in dichiarazioni pubbliche che tale processo, per avere successo, doveva essere necessariamente graduale. Questa posizione era conforme alla visione di Mawdudi del processo di islamizzazione come di un processo evolutivo: “Se desideriamo veramente vedere i nostri ideali islamici tradotti in realtà, non dovremmo trascurare la legge naturale secondo cui tutti i cambiamenti duraturi nella vita collettiva di una popolazione si verificano gradualmente. Più improvviso è il cambiamento, più ha vita breve. Non può essere utile, anche se fosse possibile, cambiare la struttura legale del Paese, poiché allora il modo di vivere della popolazione e la struttura legale sarebbero agli antipodi. I cambiamenti nelle leggi dovrebbero essere effettuati in modo da essere conformi ai cambiamenti nella vita morale, educativa, sociale, culturale e politica della nazione”43. Come già osservato, la natura graduale del processo di islamizzazione era dovuta in realtà alla necessità del governo di non alienarsi i settori modernisti e le minoranze religiose, e in parte era conseguenza del potere detenuto dalla burocrazia e dalle elite economiche, per le quali era essenziale non frenare il processo di modernizzazione. Tuttavia, proprio nella fase in cui perdeva l’appoggio dei partiti religiosi Zia si alienò ulteriormente i settori modernisti promulgando nuove leggi islamiche. Il 28 ottobre 1984 il governo promulgò il Qanun-i-Shahadat, (Legge sulla Testimonianza) che sostituì l’Atto sulla Testimonianza del 1872. La sua prima stesura proposta nel 1983 dal Consiglio di Ideologia Islamico, stabiliva tra le altre cose che solo due uomini o un uomo e due donne avrebbero potuto deporre testimonianza, ad eccezione dei casi hudud in cui solo gli uomini avrebbero potuto testimoniare. Le proteste che seguirono

41 Gli scritti di JI, JUI, JUP e JUAH nel periodo 1984-’87 riguardavano per il 33% questioni morali e solo per il 3% questioni di giustizia socioeconomica. 42 Si vedano ad esempio la conferenza del 26 gennaio1983 e la convenzione di ulema tenuta il 4-5 gennaio 1984: M. Amin, Islamization of laws in Pakistan, Lahore, 1989, p.136 43 E. Giunchi, Radicalismo Islamico e condizione femminile in Pakistan, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, p.48.

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indussero i legislatori a modificare la proposta di legge. Il testo definitivo, promulgato nell’ottobre 1984, stabiliva che i giudici avrebbero potuto decidere la competenza e il numero dei testimoni in conformità alle ingiunzioni del Corano e della Sunna. Neanche la fine della legge marziale il 30 dicembre 1985 diede stabilità al governo, e il 29 maggio 1988 Zia sciolse l’Assemblea Nazionale, dichiarando di essere diventato impaziente per la lentezza con cui il processo di islamizzazione proseguiva. Il 15 luglio fu promulgata l’Ordinanza sull’Applicazione della Shariat, che rendeva la sharia la “fonte suprema di legge” del Paese e disponeva che sezioni speciali delle alte corti potessero prendere in considerazione qualsiasi legge esclusa dalla competenza della Corte Federale Shariat per decidere sulla sua conformità ai precetti islamici. L’Ordinanza decadde dopo la morte di Zia, avvenuta in un incidente aereo il 17 agosto 1988. Il programma di islamizzazione di Zia, pur toccando vari aspetti di natura economica e politica, si concentrò sullo status e i diritti delle donne. I motivi sono molteplici e caratterizzano il processo di islamizzazione anche in altri paesi. È sicuramente vero che “è più facile segregare le donne che creare un economia che non sia basata sull’interesse, porre fine alla corruzione o realizzare i molti aspetti dell’islamizzazione”44, e che l’attenzione sullo status della donna ha avuto anche la funzione di soddisfare i partiti religiosi, i settori conservatori, la classe media recentemente inurbata e più in generale gli interessi androcentrici della società pakistana. Vi sono poi spiegazioni di tipo economico: alcuni studiosi hanno osservato che l’applicazione della legge islamica tradizionale nel settore della famiglia è conforme ad un economia mista, di transizione, in cui il passaggio ad un economia capitalistica è incompleto. Altri hanno sottolineato come le necessità del mercato del lavoro capitalista, costituendo una sfida al sistema patriarcale, portino inevitabilmente al tentativo di ristabilire il controllo sulla popolazione femminile. A ciò si collega un'altra considerazione: in una fase in cui i rapidi cambiamenti legati alla modernizzazione e all’introduzione del sistema capitalistico rendono il mondo esterno sempre più incomprensibile e incontrollabile, qualsiasi forma di emancipazione femminile è vista come una minaccia immediata e visibile alla famiglia che è l’unico ambito in cui gli uomini mantengono ancora un certo livello di autorità e controllo. In questo modo in periodi di notevoli cambiamenti socioculturali la funzione dei movimenti revivalisti è quella di reintegrare l’Io in un sistema stabile di significati e di arginare la perdita di controllo simbolico e reale da parte delle comunità tradizionali. In fasi di rapida modernizzazione, in cui si diffonde un senso crescente di alienazione culturale e anomia, le popolazioni tendono ad identificare la propria identità con le proprie tradizioni culturali, cercando cosi di ristabilire lo status quo ante. Tutto ciò contribuisce a spiegare perché la retorica revivalista, che chiede un ritorno alla tradizione, tenda a concentrarsi sul controllo del comportamento e della sessualità femminile.

1.5 La posizione di Zia rispetto alle donne Alcuni studiosi hanno sostenuto che il governo di Zia ebbe un atteggiamento contraddittorio nei confronti dello status femminile: pur promulgando leggi, come Ordinanze Hudud, che penalizzavano le donne, egli avrebbe introdotto riforme a loro favorevoli e auspicato nei suoi discorsi la fine della reclusione femminile. Effettivamente in diverse occasioni Zia affermò pubblicamente che le donne devono partecipare alla vita pubblica della nazione e non essere costrette a vivere segregate, e

44 Ivi, p. 51.

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che l’Islam riconosce pieni diritti ad entrambi i sessi, senza alcuna discriminazione.45 Tuttavia queste affermazioni erano vaghe e spesso ambigue, come mostra una dichiarazione fatta da Zia nell’agosto 1982: “L’obiettivo principale di questo governo è creare una posizione rispettosa e dignitosa per le donne della nostra società in conformità agli insegnamenti dell’Islam e alle esigenze del giorno d’oggi.”46 Nel febbraio 1979 Zia istituì il Dipartimento Femminile, che aveva la funzione di formulare proposte di legge a favore della donna, assistere le associazioni femminili, condurre ricerche sulla condizione femminile, assicurare l’uguaglianza di opportunità nell’istruzione e nel mondo del lavoro e la piena partecipazione femminile in tutti i settori della vita nazionale. L’istituzione del Dipartimento ebbe in realtà un impatto minimo, poiché era privo di autonomia e non godeva di fondi adeguati per realizzare le proprie funzioni. La sua attività principale consistette nella realizzazione di studi sulla condizione femminile nel Paese, mentre la sua pressione sul governo affinché tale situazione migliorasse fu minima. L’ambivalenza di Zia nei confronti dello status femminile nasceva probabilmente dal tentativo di soddisfare al tempo interessi di tipo patriarcale ed economico. La necessità che le donne avessero un ruolo più attivo nell’economia nazionale era, infatti, accompagnata dal desiderio di non alienarsi la destra religiosa e i conservatori. La reclusione femminile contraddiceva le politiche economiche governative previste dal V Piano Quinquennale (1978-83) che, mantenendo gli obiettivi di sviluppo del piano precedente, sottolineava l’importanza della partecipazione attiva delle donne all’economia nazionale, della pianificazione familiare e dell’istruzione femminile. Reiterando il IV Piano, Zia riconosceva che questi obiettivi erano necessari allo sviluppo economico del Paese. Di fatto il V Piano ebbe un impatto minimo: negli anni successivi la crescita demografica non diminuì e i tassi di alfabetizzazione e impiego femminile aumentarono solo marginalmente47. L’istituzione della Commissione Nazionale e del Dipartimento Femminile e le dichiarazioni pubbliche di Zia, oltre ad essere strumentali alle necessità economiche del Paese erano dirette a non alienarsi i settori modernisti, le organizzazioni femminili e l’opinione pubblica internazionale. Proprio nell’83, i delegati pakistani riferirono ad una commissione statunitense che il governo pakistano stava prendendo tutte le misure possibili per assicurare la parità di opportunità tra uomo e donna in tutti gli ambiti, “in conformità con l’Islam, la Costituzione pakistana e gli obiettivi del decennio delle Nazioni Unite dedicato alle donne, 1976-85”. In quegli stessi anni Zia adottò varie riforme che portarono ad una maggiore separazione tra i sessi nelle scuole, nelle attività sportive e sui luoghi di lavoro. Ad esempio, nel settembre 1977 annunciò la creazione di università separate, secondo una richiesta de JI, e l’anno successivo stabilì che le donne avrebbero potuto esercitare attività sportive solo in aree segregate. Fu poi deciso che le donne non avrebbero più potuto recarsi all’estero per tornei sportivi, o in qualità di funzionari pubblici del Ministero degli Affari Esteri48.

1.6 Mawdudi e il JI È necessario, a questo punto fare un analisi di uno dei personaggi considerato all’unanimità uno degli studiosi che più hanno condizionato il pensiero islamico

45 A. M. Weiss, Women’s position in Pakistan: social cultural effects of islamisation, in Asian Survey, 1985, p. 864. 46 The Pakistan Times, 7 agosto 1982. 47 E. Giunchi, op.cit. pp.41-65. 48 J.H. Korson \ M. Maskiell, Islamization and Social Policy in Pakistan, in Asian Survey, 1985, pp. 589-612.

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contemporaneo, indubbia è la sua influenza sul processo di islamizzazione iniziato in Pakistan alla fine degli anni ’70. Fondatore e ideologo del JI, sviluppa le idee cardine della sua teoria fra il ’37 e il 41 in India, in un particolare momento storico per la sua comunità, in cui forte è il senso di accerchiamento nei confronti della maggioranza hindu; fu proprio questa sensazione di assedio che lo spinse ad adottare una posizione estremista, ultra conservatrice su quasi ogni aspetto della vita: scienza e tecnologia , ruolo della donna, status dei non musulmani, relazioni con altre culture e in modo particolare la politica e lo stato. La giurisdizione tradizionale, non aveva dedicato molta attenzione alla situazione dei musulmani in stati con una maggioranza non musulmana. I suoi scritti erano una richiesta di non essere esclusi. Il suo fondamentalismo potrebbe essere in parte conseguenza dell’idealismo, in parte un riflesso di ansietà: l’inquietudine diminuisce quando si decide di agire vigorosamente in una certa direzione e un interpretazione inequivocabilmente fondamentalista delle scritture spesso da energia emotiva alle persone. Egli si oppose sia alla Lega che al Partito del Congresso, ritenendole entrambe secolari. La sua aspirazione non era l’instaurazione di uno stato musulmano ma di uno stato islamico, cioè basato sul Corano e sulla Sunna. Diresse tutti i suoi scritti del periodo ’37-’41 contro il nazionalismo e la democrazia, in virtù del loro non essere islamici ma concetti di derivazione occidentale quindi non adatti al mondo islamico. La sua soluzione consisteva nel migliori musulmani, solo cosi si sarebbe potuti liberare dagli indiani, dagli occidentali e dai secolarismi, influenzando con il buono esempio tutti coloro che avrebbero voluto aderire. Inizialmente, non riuscì ad attrarre molti seguaci. Egli fondò il JI nel 1941, nel ’47 migrò nel nuovo stato, li trovò i suoi maggiori sostenitori, fra i muhajir, i rifugiati che provenivano dall’India e che pativano la stessa insicurezza e inquietudine della migrazione forzata. Come spiegò Hamza Alavi: “Loro rispondevano prontamente alla retorica sciovinista del JI”, in breve tempo il partito iniziò a beneficiare di ingenti donazioni che venivano da grandi uomini d’affari e proprietari terrieri pakistani, nonché dai conservatori del Medio Oriente, grati del fatto che il Partito riuscisse a contrastare i gruppi di sinistra e i radicali49. Per quanto riguarda le caratteristiche essenziali dell’ordinamento politico islamico, esso si basava per Mawdudi su tre principi: tawhid, risalat e khilafat50; per comprendere gli aspetti della politica islamica è necessario enunciarli brevemente. Tawhid, significa che la sovranità di questo regno risiede solo nelle mani di Dio, questo implica che solo lui ha il diritto di comandare e vietare. Questo principio dell’Unità di Dio nega, nello stesso tempo, il concetto della sovranità legale e politica degli uomini, presi individualmente o collettivamente. Nessuno può rivendicare a se stesso la sovranità, si tratti di un essere umano, una famiglia, una classe, un gruppo di persone o anche la specie umana tutta intera. Dio solo è il Sovrano e i suoi Comandamenti sono la Legge dell’Islam. Lo strumento attraverso cui noi riceviamo la Legge è la risalat, noi abbiamo ricevuto due cose da questa fonte: il Libro e la Sunna. I principi su cui deve basarsi il sistema di vita dell’uomo sono contenuti in queste due fonti. La combinazione di questi elementi, secondo la terminologia islamica viene chiamata sharia. Consideriamo ora la khilafat, che secondo il lessico arabo significa “luogotenenza” “rappresentanza” la reale posizione e funzione dell’uomo, secondo l’Islam è quella luogotenente di Dio sulla terra; ciò significa che egli, in virtù dei poteri a lui delegati da Dio, ha il compito di esercitare la divina autorità in questo mondo, entro i limiti prescritti da Dio.

49 N. Ayubi, Political Islam: Religion and Politics in the Arab World, Routledge, London, 1991, pp.127-130. 50 Rispettivamente: Unità di Dio, Profezia e Califfato.

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Dalla nozione di khilafat si ricava il concetto di democrazia insita nella religione islamica, nessun individuo, dinastia o classe può essere un khalifa, poiché l’autorità del califfato risiede nel popolo, sulla comunità intesa come un tutto organico pronto a soddisfare le condizioni di luogotenenza dopo aver accettato i principi di tawhid e risalat. Una tale società assume nella sua totalità, la responsabilità del califfato e ciascun membro di essa partecipa al califfato divino. È a questo punto che si può parlare, nell’Islam, di responsabilità popolare nel governo. Ogni persona nella società islamica, partecipa dei diritti e dei doveri del califfato di Dio, sotto questo profilo esiste una parità fra i cittadini. La formazione del governo avverrà tenendo conto del pensiero e della volontà dei singoli. Chi meriterà la fiducia del popolo si assumerà i doveri e gli obblighi del califfato; se perderà la sua fiducia dovrà abbandonare e sottomettersi dinnanzi alla loro volontà. Sotto questo profilo,il sistema politico islamico è una forma perfetta di responsabilità popolare di governo, per quanto una tale forma di governo possa essere perfetta. Ciò che distingue la democrazia occidentale da questa forma di partecipazione e rappresentanza sta nel fatto che la prima è una sorta di autorità che esercita il suo potere in maniera libera e incontrollata, mentre il sistema islamico della responsabilità popolare è ossequiante alla Legge divina ed esercita la sua autorità in conformità con i comandamenti di Dio ed entro i limiti da lui descritti51. Dopo aver analizzato le idee cardine del pensiero di Mawdudi, possiamo occuparci dell’atteggiamento adottato dai suoi discepoli del JI. Al contrario degli ulama, i discepoli di Mawdudi fecero molta fatica a liberarsi della compromettente sollecitudine del dittatore. Buona parte dei ceti medi religiosi, a cui si rivolgevano, aveva finito per identificarli col regime, sotto il quale prosperava. Il JI non rappresentava più i loro interessi. A partire dalla metà degli anni ’80 il movimento fu scosso da alcune tensioni, che contrapposero i militanti preoccupati per la perdita di influenza del partito ai sostenitori di una collaborazione duratura con Zia. La JI subiva la concorrenza dei partiti legati agli ulama, che approfittavano del loro radicamento presso i giovani formati nelle madrasa in piena espansione. La fazione più turbolenta dell’intellighenzia islamista, gli studenti maududisti, riuniti nella Islami jami’at tulaba (Associazione degli studenti islamici, JIT), scelse la strada più radicale per superare questo dilemma. Dopo due anni di luna di miele con Zia, nei quali avevano eliminato manu militari la sinistra nei campus, gli studenti islamisti si adoperarono affinché il movimento prendesse le distanze dal regime. Ma quando quest’ultimo acconsentì, accortosi dell’erosione della sua base elettorale dopo il 1985, era troppo tardi per costruire una opposizione credibile a un potere, per il quale la JI aveva svolto il ruolo di ideologo compiacente. Alle elezioni che seguirono alla morte di Zia, nell’agosto 1988, il partito fu duramente punito, mentre la vittoria andò al Movimento per la restaurazione della democrazia di Benazir Bhutto, il cui padre era stato impiccato nell’aprile 1979 su sollecitazione di Mawdudi e dei suoi discepoli. Durante gli anni di Zia, la collaborazione della JI assicurò al dittatore la legittimazione religiosa del suo atto di forza e del suo potere. Gli permise inoltre di allargare la sua base di consenso alla classe media e alla borghesia religiosa che si riconoscevano nel movimento e che, pertanto, si allinearono con il regime, traendone vantaggi economici e procurando a Zia una notevole longevità. Il generale riscosse meno successo nel ramo studentesco del movimento, il quale però, nonostante la sua violenza, non rappresentava un grande pericolo politico. La massa dei giovani poveri, parte dei quali era inquadrata dagli ulema nelle madrasa, beneficiò della distribuzione della zakat e di nuove opportunità di impiego. Inoltre, pur non riuscendo a reclutare gli ulama, come invece gli era riuscito con Maududi e i suoi seguaci, Zia si assicurò la loro neutralità. Approfittò della conflittualità tra il clero tradizionale e gli islamisti moderni per mettere 51 A. Mawdudi, Vivere l’Islam, (tradotto da) Unione Studenti Musulmani in Italia, Edizioni Mediterranee, Roma, 1978, pp.53-65.

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gli uni contro gli altri, favorendo la frammentazione del mondo religioso, per meglio governarlo. La politica di islamizzazione fu per lo più un successo per la dittatura, che se ne servì per raccogliere il sostegno di gruppi sociali diversi. I ceti medi laici e il popolo minuto, che avevano votato per il PPP di Bhutto, non rialzarono la testa, dopo l’impiccagione del capo carismatico, di fronte a Zia, che equiparava ogni contestazione al suo potere a un attacco all’Islam e la reprimeva senza pietà. Eppure, gli eccessi della dittatura favorirono una corrente di opposizione alla testa della quale si mise Benazir Bhutto e, soprattutto, portarono all’attentato, tutt’oggi non chiarito, in cui perse la vita Zia nell’agosto 198852. La morte del dittatore permise un ricambio al vertice, ma gli effetti della politica di islamizzazione sarebbero rimasti, contribuendo all’escalation di violenza che fece esplodere il mondo religioso pakistano nel decennio successivo,sull’onda della jihad afghana.53 Concludendo, il programma di islamizzazione iniziato in Pakistan nel 1978, durante il regime guidato dal generale Zia, fu la diretta e necessaria conseguenza di uno stato fondato nel 1947 come patria per i musulmani del subcontinente indiano. L’opportunità fallita nei primi anni dell’indipendenza era stata ricreata al tempo in cui il mondo musulmano stava riconoscendo la validità della formula originale dell’Islam. Molti erano scettici sulla possibilità che il programma di islamizzazione promosso dal regime sarebbe stato in grado di portare stabilità. Inoltre l’intero programma sembrava riguardare solo la superficie e non il nucleo dell’Islam. Solo coloro che non erano dei musulmani sinceri potevano dubitare delle sue buone intenzioni. Cosi nel settembre del 1980, durante un discorso per celebrare la morte di Jinnah, lui affermo: “Le misure che oggi stiamo introducendo in Pakistan per stabilire un ordine sociale islamico, rappresentano i sogni reali di Jinnah”. Se Jinnah non avesse guidato il movimento per il Pakistan sarebbe stato ricordato come uno dei più eminenti avvocati indiani, e probabilmente avrebbe avuto dei dubbi circa la struttura che il Pakistan stava assumendo. La domanda che dobbiamo porci ora è, quanto effettivamente l’enfasi dell’elite sul modernismo islamico fosse reale o nascondesse piuttosto un intolleranza nei confronti di molti aspetti del governo autoritario di Bhutto. Il dibattito su queste tematiche è stato condotto prettamente a livello ideologico, ad esempio le agitazioni del ’77 furono presentate dal generale Zia come indicative delle istanze islamiche della popolazione, questo era in parte vero, infatti lo slogan utilizzato era nizam-i-mustafa, cioè uno stato basato sugli insegnamenti del profeta, in parte però chi utilizzava questi slogan erano anche coloro che avevano appoggiato le politiche nazionaliste di Bhutto, ma che erano stati delusi da alcuni aspetti del suo stile autoritario. Complessivamente le agitazioni possono essere considerate come una protesta generalizzata contro il governo oppressivo, per molti aspetti simile agli eventi del 1968-9. Per quanto riguarda il regime di Zia, malgrado esso durò molto a lungo, la sua base politica rimase molto ristretta e le sue riforme non gli portarono molti sostenitori. Egli rimase al potere in parte a causa della disunione dell’opposizione e in parte a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Ciò significa che coloro che volevano l’instaurazione di un regime di stato islamico, non ritenevano che i militari fossero uno strumento idoneo allo scopo, sia a causa dell’insita sfiducia nei confronti della buona fede dell’esercito sia come risultato di un calcolo politico, i partiti islamici, incluso il Jamat, che rappresentava la base ideologica di Zia, non ritenevano prudente identificarsi con il regime.

52 Zia morì nell’esplosione di un aereo militare, assieme ad un ambasciatore americano a Islamabad e al generale Akhtar, responsabile della jihad in Afghanistan. 53 G. Kepel, Jihad: ascesa e declino, Carocci, Roma, 2005, pp.108-117.

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Sia in Pakistan che nel resto del mondo islamico ci furono dubbi sul fatto che lui avesse realizzato un adeguato programma di cambiamento, sembrava si concentrasse troppo sugli aspetti punitivi, vi era poi poca attenzione nel creare un senso di coinvolgimento personale. Nel complesso sembrava che i valori applicati dal generale fossero più simili ai valori tradizionali militari di lealtà e disciplina. Il generale Zia aveva cercato di imporre la sua personale visione di ordine sociale e politico islamico da una posizione di grande debolezza politica54 Zia ha fatto dell’applicazione della sharia la priorità ideologica dei suoi 11 anni di dittatura. Mentre tutta l’attenzione del mondo era rivolta verso i fatti iraniani, una rivoluzione islamica a forti tinte antioccidentali, il Pakistan realizzava un vasto programma di islamizzazione dello stato e della società, strumentale al rafforzamento dell’ordine costituito che per giunta godeva del sostegno degli Usa e degli stati del Golfo. Sia Khomeini che Zia diedero vita ad un processo di islamizzazione, che imposero nei rispettivi paesi, attribuendo però a quel concetto valenze differenti. Innanzitutto, era diversa la dimensione sociale dei due fenomeni, infatti mentre in Iran l’eliminazione brutale dei gruppi dirigenti del tempo dello scia e il loro avvicendamento con la borghesia religiosa si verificò grazie al coinvolgimento della gioventù urbana povera, che indusse gli intellettuali islamisti iraniani a fare appello ai “diseredati.” In Pakistan, invece l’islamizzazione servì a fondere la borghesia religiosa e gli intellettuali islamisti attorno ad un sistema dove le elite dirigenti, rappresentate dalle gerarchie militari, erano rimaste al loro posto e ancor più importante a dissuadere le masse popolari dal ribellarsi in nome di Allah. Quello stesso anno, 1979, l’Armata Rossa invadeva l’Afghanistan facendo del Pakistan del Generale Zia, assistito da Mawdudi e dai suoi allievi, il principale punto d’appoggio della politica americana nella regione e snodo attraverso il quale sarebbe giunto l’aiuto di Washington alla jihad contro i sovietici.”55 Per il generale Zia, la promozione di Mawdudi e dei suoi seguaci permetteva di bloccare la ripresa della vita democratica e giustificare la legge marziale, presentandola come uno strumento essenziale per instaurare lo stato islamico. Gli anni della dittatura furono proficui per i ceti medi religiosi che si riconoscevano nel partito islamista, si pensi alla mole di denaro che giungeva dai paesi del Golfo sotto forma di aiuto alla jihad afghana e ai lucrosi traffici tra il Pakistan e l’Afghanistan, senza considerare il denaro portato dagli immigrati nel Golfo56, che tornavano in patria ricchi e animati da fervore religioso. Quanto ai quadri e ai lavoratori dipendenti di orientamento islamista, la presenza al governo di ministri della JI permise loro carriere rapide nei posti dirigenziali della pubblica amministrazione. Cosi la borghesia religiosa non fu tentata di allearsi con i giovani disagiati per rovesciare le elite al governo. Il generale Zia riuscì cosi, a piegare il PPP evitando il pericolo del socialismo, a gestire i ceti medi e a ingraziarsi l’intellighenzia islamista che si riconosceva in Mawdudi. Questa politica si tradusse nelle misure di islamizzazione adottate nel 979: verifica di conformità delle leggi esistenti alla sharia, introduzione di un codice penale islamico e delle pene corporali o hudud (ablazione degli arti dei ladri, lapidazione delle donne adultere, flagellazione dei bevitori di alcol ecc.), islamizzazione dell’insegnamento e dell’economia57. In ognuno di questi campi il potere si premunì affinché le decisioni di

54 D. Taylor, The Politics of Islam and Islamization in Pakistan, in Islam in the Political Process, University of Cambridge, New York, 1986, pp.181-197. 55 G. Kepel, op.cit. p.107. 56 L’emigrante pakistano appartiene, generalmente alla classe dei lavoratori, pochi sono i tecnici e i professionisti. Egli lascia in patria la propria famiglia e si mette in viaggio da solo, consapevole che quella rimane la sua unica possibilità per sfuggire alla povertà in una società contraddistinta da una limitata mobilità sociale verso l’alto. Il periodo di lavoro dura generalmente da 5 a 10 anni, dopodiché si ritorna a vivere in patria. 57 O. Nomar, The Political Economy of Pakistan, 1947-85, Praeger, New York, 1988, p.142.

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giustizia “islamica” non sfuggissero al controllo della gerarchia militare e non si scontrassero con le gerarchie sociali consolidate. Le numerose domande di verifica della conformità islamica delle leggi furono quindi girate, dal 1980, a una Corte federale di sharia, che le filtrava per prevenire ogni eccesso in tal senso. Quanto al codice penale islamico, in Pakistan come altrove, serviva ad applicare qualche pena esemplare, che procurava al potere una garanzia di moralità, a scapito della libertà individuale, soprattutto delle donne.

1.7 Anni tumultuosi Durante gli anni in cui Zia rimase al potere, l’opposizione interna fu duramente repressa. In seguito alla condanna a morte di Bhutto, accusato di aver commissionato l’omicidio di un oppositore politico, il PPP rimase privo del suo leader carismatico, la sua morte avvenuta per impiccagione il 4 aprile 1979 ne accrebbe la popolarità, e indirettamente quella di sua figlia Benazir che assieme a sua madre assunse le redini del partito. Nel 1981 il PPP e altri partiti formarono il Movimento per la restaurazione della democrazia (MRD) che chiedeva la fine della legge marziale e il ripristino della Costituzione. In quegli stessi anni si intensificarono le rivendicazioni nazionalistiche in Sind, che videro l’adesione di latifondisti, elementi radicali del PPP, importanti pir e il JUI locale. Come abbiamo già sottolineato, anche il JI prese le distanze dal regime militare, una delle cause fu la repressione della sua ala studentesca, il Jamat-e-Islami-e-tulaba (JT), inizialmente esso aveva goduto dell’appoggio di Zia al fine di ridurre l’influenza del PPP nelle università. Ma i violenti scontri che si verificarono negli anni ‘80 fra le associazioni studentesche, fomentati dal JT, rappresentavano una minaccia per la stabilità spaventando inoltre il ceto medio urbano che sosteneva il regime. Cosi il regime bandì, nel 1984 il JT, insieme alle altre associazioni studentesche. Il progressivo allontanamento del JI da Zia, era motivato anche da motivi di strategia politica, infatti il partito si era reso conto che la sua influenza sul processo di islamizzazione era limitata dai legami opportunistici che Zia teneva con altri gruppi religiosi. Inoltre un legame troppo stretto con un regime repressivo e sempre meno popolare metteva a rischio il suo prestigio e il suo ascendente presso il ceto medio urbano. Essi, si erano inoltre persuasi, che il ripristino del processo democratico gli avrebbe potuti avvantaggiare, soprattutto se il PPP ne fosse rimasto escluso, questa convinzione, nasceva dai risultati elettorali delle elezioni municipali apartitiche del settembre ’79, in cui ottenne il 35% dei seggi58. Le critiche del JI al governo, furono tuttavia limitate fino al 1987, quando in seguito ad un cambiamento nei vertici del partito, il JI condannò apertamente il regime e paventò addirittura la possibilità di una collaborazione con il PPP all’interno del MRD. Ma ormai il JI soffriva di un certo indebolimento a vantaggio di altri partiti, come quelli che rivendicavano una maggiore autonomia per la minoranza etnica dei mohajir. Era notevolmente aumentata anche l’importanza del JUI, questo era rimasto indipendente dal governo grazie agli aiuti esterni e alla sua possibilità di mobilitare le masse. Zia morì in un incidente aereo nell’agosto del 1988, conformemente al testo costituzionale, il Presidente del Senato Gulam Ishaq Khan indisse nuove elezioni nazionali. Vi erano due raggruppamenti politici: l’Alleanza Islamica Democratica IJI, che includeva i partiti religiosi, prometteva di completare il processo di islamizzazione iniziato alla fine degli anni ‘70 e il PPP che pur facendo riferimento all’Islam,

58 S.V.R. Nars, Islamic Opposition to the Islamic State: the Jamat-i-Islami, 1977-1988, in International Journal of Middle East Studies, 1993, p.26.

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prometteva di abrogare le riforme islamiche di Zia, eliminare la povertà e l’analfabetismo, restaurare la libertà di espressione e migliorare la condizione femminile. Le elezioni del novembre ’88, furono vinte dal PPP che ottenne il 37,4% dei voti, Benazir Bhutto divenne Primo ministro e Ishaq Khan Presidente. Il IJI tentò di screditare il processo elettorale sostenendo che l’elezione di una donna a capo di governo fosse contraria alla tradizione islamica. Quest’affermazione non era veritiera, infatti altre donne nella storia islamica avevano detenuto ruoli di potere, ma l’aspetto interessante delle elezioni dell’88 fu che nessuno obiettò che le elezioni a suffragio universale fossero contrarie alla tradizione islamica, accettando di fatto le “regole del gioco” politico di matrice occidentale59. Molti furono i problemi che si presentarono all’azione del PPP, innanzitutto la maggioranza risicata di cui godeva nell’Assemblea nazionale, l’opposizione del IJI, che controllava il Panjab, nonché la frammentazione interna allo stesso PPP; ciò impedì l’attuazione di qualsiasi riforma. Inoltre, prima della nomina della Bhutto l’esecutivo le aveva imposto di non intervenire nelle decisioni dell’Isi o dell’esercito in relazione al programma nucleare e alla politica estera in Afghanistan e Kashmir. La Bhutto acconsentì, ma cercò in svariate occasioni di limitare la libertà di manovra delle due istituzioni, chiaramente invano. A causa di tutto ciò e della grave crisi economica, il governo della Bhutto era sempre più percepito come inefficiente e corrotto. Non giovò all’immagine del Primo ministro il fatto che suo marito, soprannominato “Signor 10%”, fosse implicato in numerosi casi di corruzione. Cosi, nell’agosto del 1990 fu destituita dal Presidente sotto sollecitazione dell’esercito con l’accusa di corruzione, nepotismo e abuso di potere. Nell’ottobre del 1990 furono tenute nuove elezioni nazionali e provinciali, vinte dall’IJI. Nawaz, leader della Lega musulmana ed ex alleato di Zia, assunse la carica di Primo ministro. Egli continuò la politica di islamizzazione iniziata da Zia, approvando l’Atto sull’applicazione della sharia, che rendeva il diritto islamico la Legge suprema del paese e il Decreto sulla blasfemia, che permetteva di condannare a morte chiunque si fosse reso colpevole di miscredenza. I partiti religiosi che speravano in un completamento del processo di islamizzazione rimasero delusi dalla natura per loro limitata delle riforme, ciò comportò che il loro atteggiamento diventasse sempre più critico nei confronti del suo operato. Il JI lasciò l’IJI nel 1992 e successivamente ritirò il proprio appoggio a Sharif. Nello stesso periodo peggiorarono anche le relazioni con l’India a causa della distruzione della moschea Babri ad Ayodhya60, nell’Uttar Pradesh avvenuta nel dicembre del 1992 ad opera di fanatici indù appartenenti a gruppi affiliati al partito nazionalista di destra Bharatiya Janata Party. Anche la situazione economica peggiorò visibilmente, acuita dai massici finanziamenti pubblici a progetti costosi ma non prioritari e soprattutto dalla fine del sostegno americano, in seguito alla ritirata sovietica dall’Afghanistan. In conseguenza della guerra del Golfo, gran parte della manodopera pakistana tornò in patria. Ciò comportò una riduzione delle rimesse, che nel decennio precedente erano state una fonte importante di valuta pregiata. All’inizio della crisi nel Golfo il Pakistan aveva inviato 11.000 soldati per proteggere l’Arabia Saudita da un eventuale invasione irakena. Ma le pressioni dell’esercito e dell’opinione pubblica per lasciare la coalizione anti-irakena provocarono divisioni in seno all’IJI. Aumentarono inoltre, i dissensi fra Sharif e il Presidente, fino a quando nell’aprile del ’93, il Primo ministro fu deposto per incompetenza e corruzione dal Presidente. La Corte Suprema impose il ritorno allo

59 F. Mernissi, Le sultane dimenticate: donne capi di stato nell’Islam, Marietti, Genova, 1992, p.4. 60 Secondo la mitologia indù il Dio Ram era nato in quella località e lì era stato costruito un tempio, che era stato distrutto da Babar (1483-1530), il fondatore della dinastia Mughal, e sostituito con una moschea.

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status quo ante, ma in seguito al persistere del dissidio fra le due figure, nel luglio del medesimo anno l’esercito obbligò entrambi a presentare le dimissioni. Nel 1993 si tennero nuove elezioni nazionali, vinte dal PPP, Benazir tornò a ricoprire la carica di Primo ministro e Farooq Khan Leghari divenne Presidente. Per la prima volta i partiti religiosi, si presentarono come una terza forza indipendente, ottennero però un numero di voti non sufficiente, questo insuccesso elettorale contribuì all’involuzione violenta di alcune delle loro frange. Anche il secondo mandato della Bhutto fu caratterizzato da inefficienza e corruzione e dal diffondersi nel paese della violenza settaria. L’immagine del PPP fu ulteriormente indebolita dalle lotte interne al partito causate dal ritorno nel paese di Murtaza Bhutto, fratello di Benazir, nel 1993. Il 5 novembre 1996 la Bhutto fu destituita dal Presidente, su pressione dell’esercito. Essa si adoperò per indebolire il partito islamista, come sappiamo sempre ostile al PPP. Il JI fu ulteriormente indebolito dalla decisione della casa reale saudita di ridurgli drasticamente i finanziamenti, a causa delle critiche mosse a Riad per aver ricorso all’aiuto militare statunitense durante la prima Guerra del Golfo. Le elezioni del febbraio 1997 riportarono al potere Nawaz Sharif. Il suo secondo mandato fu ricordato soprattutto per gli esperimenti nucleari del maggio 1998, che fecero entrare il Pakistan nel novero degli stati dotati di bombe nucleari. Nel 1997, la lotta tra l’SSP61 e la sua controparte sciita, l’SMP (Sipah Mohammed Pakistan), non ha dato tregua al Pakistan. Peraltro, anche a causa del probabile coinvolgimento di servizi segreti stranieri, la situazione si è deteriorata, specialmente nel Punjab. Il 1997 è stato in assoluto l’anno più violento nella storia di questo Stato dove le forze dell’ordine si sono dimostrate praticamente impotenti. In questo contesto, l’Assemblea nazionale e il Senato hanno approvato, il l3 agosto 1997, senza un formale dibattito e in sole tre ore, l’Anti-Terrorism Act 1997 (ATA), una controversa legge antiterrorismo che mina i diritti fondamentali dei cittadini e che conferisce al governo federale il potere di costituire tribunali speciali. La polizia e le forze armate, oltre a gruppi paramilitari, dal canto loro sono state autorizzate ad aprire il fuoco “contro chi abbia commesso atti terroristici o contro coloro nei confronti dei quali esista un ragionevole sospetto che abbiano commesso o stiano per commettere simili atti”, e a perquisire o arrestare, senza alcuna garanzia o permesso, e a requisire qualsiasi proprietà o armi che si reputi siano finalizzate a un uso terroristico62. L’iter delle indagini deve essere completato in sette giorni, anziché in due settimane, e i procedimenti giudiziari devono arrivare al verdetto finale in una settimana invece che in trenta giorni. Le alte corti di giustizia non hanno potere di controllo sulle corti speciali, e le pene capitali sono confermate da corti d’appello che hanno l’autorità di cancellare ogni rinvio a giudizio. Una volta arrestati, gli accusati hanno solo sette giorni per preparare la propria difesa. Questa legge, non solo trasferisce l’onere della prova sull’accusato, ma permette alla polizia di usare elementi quali audio e registrazioni estorte durante la detenzione. I giudici delle corti speciali, a differenza di quelli dell’Alta Corte, possono poi essere trasferiti a discrezione dell’esecutivo. In sostanza, l’assunto su cui si fonda l’ATA è che una giustizia sommaria e rapida possa frenare il terrorismo diffuso in particolare nel Punjab. In passato provvedimenti simili si sono dimostrati fallimentari a causa della lentezza del sistema giudiziario. Nel caso dell’ATA, l’imposizione di scadenze cronologiche restrittive, di fatto assai difficili da rispettare, porta all’aumento della coercizione e della tortura da parte della polizia. I procedimenti e quindi le esecuzioni diventano del tutto sommari. Inoltre la legislazione vigente impedisce di fatto

61 Sipah Sahaba Pakistan, nata nel 1984. Formazione di estremisti sunniti favorita dal regime dell’epoca e finanziata dall’Arabia Saudita. 62 “Pakistan News Service” (http://www.paknews.org).

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l’individuazione e la punizione di coloro che fanno un uso distorto dei poteri concessi dalle leggi antiterrorismo. Sharif aveva già tentato di far approvare le misure dell’ATA durante il suo primo mandato, nel 1990-93, riuscendovi in parte in un secondo tempo. Questi provvedimenti, che si erano rivelati inefficaci, vennero poi fatti cadere dal governo di Benazir Bhutto. L’approvazione dell’ATA è stata favorita dall’eliminazione del cosiddetto VIII emendamento, che ha rafforzato i poteri del primo ministro. Il presidente, che ha ora una funzione rappresentativa, non ha sollevato obiezioni, mentre non sono mancate le proteste del potere giudiziario che hanno alimentato il conflitto con il governo. Le leggi antiterrorismo hanno intaccato le relazioni tra Sharif e alcuni suoi alleati, come il Munehada Quami Movement (MQM), che non le ha votate. Dal canto loro, l’Awami National Parti (ANP) e il Jamhoori Watan Party (JWP) hanno espresso in merito numerose riserve. Solo il comandante in capo delle forze armate, generale Jehangir Karamat, ha dato il suo consenso alle leggi antiterrorismo. Il 15 maggio 1998, a nove mesi dalla sua approvazione, 1’ATA è stato ridimensionato da una commissione della Corte Suprema che vi ha riconosciuto dodici violazioni dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Già in quella data, comunque, era chiaro che l’introduzione delle nuove norme non si era rivelata sufficiente a colpire il terrorismo: l’alto numero di vittime della violenza, soprattutto nel Punjab, e l’incapacità del governo di fronteggiare la situazione hanno condotto il Pakistan sull’orlo di una guerra civile a base confessionale. Quasi a voler prendere le distanze dal governo, il Mohajir Quami Movement, dopo anni in cui aveva rappresentato i mohajir, ha deciso di estendere la propria base politica ad altri gruppi etnici e a tal fine, il 3 luglio 1997, ha cambiato il suo nome in Muttehada Quami Movement, Movimento di unità nazionale. Il termine mohajir aveva sempre limitato l’appartenenza al partito ai pakistani di lingua urdu, discendenti di coloro che si erano trasferiti in Pakistan dall’India al tempo della partizione, nel 1948. Sebbene la leadership dell’MQM continui ad essere di lingua urdu, le parole d’ordine a carattere etnico sono state bandite dai raduni del partito, cercando così di garantire una nuova immagine pubblica. Tuttavia, gli eventi non sembrano favorire una simile evoluzione, specialmente per i veri e propri combattimenti che a Karachi hanno opposto i militanti dell’MQM a quelli del rivale Mohajir Quami Movement Hiqiqi63. Il 28 agosto 1998, il Primo ministro ha presentato all’Assemblea Nazionale una proposta di emendamento costituzionale finalizzata ad «islamizzare» il paese. Il 15° emendamento ha proposto di fare del Corano e della Sunna le fonti supreme del diritto in Pakistan, «obbligando» il governo federale a prendere provvedimenti per rafforzare la shariah, per rendere obbligatori per legge i cinque quotidiani momenti di preghiera, per amministrare la zakat, per sradicare la corruzione e per garantire la giustizia socio-economica in base ai principi dell’Islam. Il 15° emendamento, è stato olio sul fuoco della violenza religiosa nel paese, prevedeva due sezioni operative. Secondo questa norma, il Parlamento avrebbe dovuto trasferire al governo federale il potere di prescrivere un codice di condotta ispirato ai dettami della legge islamica, per essere poi applicato anche ai funzionari di stato, giudici inclusi. L’autoritarismo insito in tale disegno di legge ha suscitato dure opposizioni da parte di partiti politici, gruppi attivi nella salvaguardia dei diritti umani, partiti religiosi, minoranze non musulmane, gruppi sciiti e da parte della stampa in generale, finendo per causare defezioni in seno alla stesso partito di Sharif. I partiti regionali del Belucistan, Sind e NWFP si sono invece opposti al disegno di legge sulla base del

63 M. Corsi, Pakistan: modernizzazione senza modernità, in Asia Major, 1998, pp. 117-126.

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timore che questo, se approvato, avrebbe potuto minare il carattere federale del sistema politico pakistano e sovvertire i rapporti di forza all’interno del Senato. L’opposizione regionale a Sharif è giustificata dal fatto che tutte le principali cariche (primo ministro, presidente della Repubblica, presidente del Senato, capo delle Forze Armate, capo della Corte Suprema) sono ricoperte da panjabi o da mohajir. Sindhi, beluchi e pathan, tra gli altri, sono pertanto in sostanza esclusi dal processo decisionale. Indicativa è, per esempio, la decisione di Sharif di costruire una diga a Kalabagh, in Punjab, la roccaforte del partito di Sharif, un progetto di cui beneficeranno gli agricoltori panjabi a spese di quelli delle altre tre province. La decisione, come d’altronde quella dei test atomici del maggio 1998, è stata presa senza previa consultazione dei governi provinciali, i quali hanno, a più riprese, messo in guardia il governo circa i danni che la diga può portare alle altre province: diminuzione della fornitura d’acqua al Sind, con conseguenti danni socio-ambientali, e probabili allagamenti nella NWFP64. A questi problemi si aggiunse la crisi di Kargil, nell’autunno del ’98, in una fase delicata per la situazione politica interna dell’India, circa 1.000-1.500 combattenti kashmiri, probabilmente infiltrati da truppe regolari dell’esercito pakistano, occuparono le alture di Kargil, in prossimità della Linea di controllo. Nonostante l’iniziale smentita di Sharif, l’operazione era stata pianificata dall’esercito pakistano con il beneplacito di Islamabad. Dopo pochi mesi, nel luglio’99, Sharif dovette però cedere alle pressioni dell’amministrazione Clinton, che temeva che la crisi sfociasse in uno scontro su vasta scala, e ordinò il ritiro delle forze paramilitari da Kargil. Mentre in India la crisi rafforzò la destra, in Pakistan creò le premesse per un nuovo colpo di stato. L’esito della crisi di Kargil e il tentativo di Sharif di riversare la responsabilità dell’intervento e il suo esito sulle forze armate amareggiarono molti ufficiali e approfondirono la loro sfiducia nei confronti della classe politica. Ad ottobre mentre il capo di stato maggiore Pervez Musharraf tornava a Karachi da una visita ufficiale all’estero, Nawaz Sharif annunciò la sua rimozione e ordinò di impedire l’atterraggio dell’aereo su cui viaggiava. L’esercito si mobilitò immediatamente per permettere all’aereo di atterrare, e il governo Sharif fu deposto con un colpo di stato, giustificato con la necessità di prevenire un ulteriore destabilizzazione del paese. Nell’ottobre del ’99 Musharraf sospese il Parlamento, promettendo di ripristinare il sistema democratico appena fossero stati realizzati sette obiettivi: la restaurazione dell’ordine e della sicurezza, la ripresa economica, la coesione nazionale, la de-politicizzazione delle istituzioni, la decentralizzazione amministrativa e l’eliminazione della corruzione. Nel suo primo discorso alla nazione, il 17 ottobre, Musharraf presentò una visione dell’Islam simile a quella di Ayub Khan, in cui la religione veniva vista come una forza progressista e liberale: “l’Islam insegna la tolleranza, non l’odio; la fratellanza universale, non l’astio; la pace, non la violenza. Ho un grande rispetto per gli ulama e mi aspetto che si facciano avanti e presentino l’Islam nella sua vera luce. Li invito a eliminare elementi che stanno sfruttando la religione per interessi acquisiti e che stanno dando un cattivo nome alla nostra fede65.” Sostenuto dalla classe medio-alta, Musharraf introdusse varie riforme volte a limitare la corruzione, ammodernare lo stato, porre le madrasa sotto controllo statale e promuovere l’emancipazione femminile. Le riforme furono realizzate solo in parte a causa della resistenza di interessi consolidati nell’amministrazione, nell’Isi e nello stesso esercito. Il tentativo di ammodernare i curriculum della madrasa, introducendo l’insegnamento obbligatorio di alcune materie scientifiche, come quelli di imporre la loro registrazione

64 M. Corsi, La contrastata marcia di Nawaz Sharif verso autoritarismo e islamizzazione, in Asia Major, 1999, pp. 342-368. 65N. Haron, Keesing’s Record of World Events, Longman, Harlow, 1999, p.44594.

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o di emendare la Legge sulla blasfemia non andarono a buon fine a causa dell’intransigenza della destra religiosa e del riaccendersi nella Frontiera di nord ovest di rivendicazioni fondamentaliste da parte di gruppi tribali infiltrati dai jihadisti. Per quanto riguarda le madrasa, le principali erano restie sia a rivelare le proprie fonti di finanziamento e quindi, i propri legami con l’esterno, sia a modificare il proprio corso di studi, per timore di aprirsi all’interferenza di burocrati e insegnanti statali66. Egli si fece dei nemici all’interno dell’esercito, rimuovendo ufficiali di simpatie fondamentaliste e annunciando la riduzione del budget militare. Scontenti anche i commercianti, a causa dell’imposizione di una tassa generale sulle vendite e gli agricoltori a causa di una tassa sul reddito agricolo. Nell’estate del 2000, cercò di indebolire i gruppi terroristici islamici e di arginare la violenza settaria, imponendo il divieto di portare armi in pubblico, approvando una nuova legge anti-terroristica, e mettendo al bando alcune organizzazioni estremiste sunnite e sciite. Ma anche in questo caso le riforme incontrarono forti resistenze e furono più che altro rivolte a limitare le lotte settarie interne piuttosto che a smantellare le organizzazioni terroriste pakistane che con l’appoggio dell’Isi agivano in Kashmir. Il regime dovette sempre più giungere a compromessi con vari settori, affievolendo il riformismo iniziale.67

66 P. Affattato, op.cit. p. 59. 67 E. Giunchi, op.cit. pp.67-80.

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CAPITOLO II IL NUOVO GREAT MIDDLE GAME

Premessa La storia di questa regione assiste da tempo ad un eterno ritorno di cicli sempre uguali, e come se non si sottraesse ai corsi e ricorsi vichiani; assistiamo cosi al lavorio delle grandi potenze che muovono come delle pedine di un grande scacchiere attori regionali per riuscire a raggiungere i propri scopi, oggi però accade sempre più spesso che le super potenze si trovino in balia di forze che esse stesse hanno contribuito a scatenare ma di cui non hanno più il controllo; esempio lampante di questo tentativo di strumentalizzazione sono i jihadisti, usati in funzione anti sovietica durante gli anni ’80 poi trasformatisi in taliban, ma come rispose Brzezinski68 ad un settimanale politico francese, quando gli chiesero se sentiva un po’ di rimorso per aver favorito i musulmani estremisti o per aver addestrato futuri terroristi “Che cos’era più importante nella storia del mondo? I taliban o la caduta dell’impero sovietico? Un pugno di islamici eccitati più del dovuto o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della Guerra Fredda?”69. Il crollo dell’Unione Sovietica e la fine dell’ordine mondiale basato sul bipolarismo ha implicato una serie di conseguenze in Asia centrale; in primo luogo è venuta meno l’immagine tradizionale di uno spazio geografico “inesistente” in quanto inglobato nell’ex impero sovietico, ciò ha fatto emergere un “vuoto politico” proprio nella regione che già nel diciannovesimo secolo Sir Halford Mackinder, padre fondatore della moderna geopolitica avrebbe definito, il centro politico del mondo perché qui si trovavano più frontiere che in qualsiasi altra regione. Chiunque controllasse l’Asia centrale avrebbe detenuto un enorme potere: “E’ la fortezza naturale più grande del mondo, divisa da calotte di ghiaccio polare, deserti, altipiani aridi e catene montuose”70. È emersa inoltre una zona ricca di risorse del sottosuolo che ha scatenato le mire di numerosi stati antagonisti. Inoltre, l’indipendenza delle repubbliche musulmane dell’Asia centrale sotto il profilo geopolitico ha, da un lato, caricato di un valore autonomo la regione del Medio Asiatico71, ridefinendo dall’altro i confini tradizionali della regione del Medio Oriente72. Secondo alcuni esperti americani, l’indipendenza delle repubbliche del Caspio-Asia centrale ha ridisegnato i confini mediorientali verso nord-est al punto che attualmente, non solo vi rientrano paesi che prima non ne facevano parte, come le ex repubbliche sovietiche o il Pakistan, ma anche paesi come Turchia, Iran e Afghanistan, che

68 Considerato uno dei maggiori esperti di politica internazionale con particolare riferimento ai rapporti con l’Unione Sovietica. È stato Consigliere per la Sicurezza nazionale durante il mandato presidenziale di Jimmy Carter (dal 1977 al 1981). 69 K.E. Meyer, La polvere dell’impero, il grande gioco in Asia centrale, Corbaccio, Milano, 2004, p. 205. 70 M. Hauner, What is Asia to Soviet Union? Russia’s Asian Heartland, Yesterday and Today, Unwin Hyman, London, 1990, p. 58. 71 In questo contesto il termine Medio Asiatico seppur difficilmente delimitabile in termini geografici, comprende non solo le cinque ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan), ma anche l’Afghanistan, l’Iran e il Pakistan. In relazione ai problemi di equilibri strategici e ai rapporti di potere, poi, non si può non considerare l’importanza nella regione di Turchia, Arabia Saudita, Russia, Cina e India. 72 Il concetto di “Oriente”, con la differenziazione tra religioni e culture orientali e quelle del mondo romano che risale addirittura ai classici latini, è molto antico ed è andato modificandosi con il tempo. Geograficamente, il confine tra Oriente e Occidente venne definito con più precisione dal momento della divisione dell’impero romano in Impero d’Occidente (con capitale Roma) e Impero d’Oriente (con capitale Bisanzio). Quando poi Marco Polo scoprì l’esistenza di un mondo ancor più a oriente, come quello cinese, emerse l’ulteriore divisione tra “Estremo Oriente” e la via di mezzo “Medio Oriente”. D’altra parte quest’ultima area, con la frantumazione dell’Urss, si è espansa fino a ricomprendere i territori che vanno dalla Turchia alla regione cinese dello Xinjiang.

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precedentemente costituivano l’estrema propaggine nord-orientale della regione, sono ora il cuore pulsante del nuovo Great Middle Game. Questo sistema potrebbe essere suddiviso in tre sub sistemi73, tra i quali, quello che maggiormente qui interessa è il sub sistema del Medio Oriente settentrionale. In questa area sono implicate le grandi multinazionali del petrolio. In questa regione “incrocio” tra tre grandi aree come quella russa, quella mediorientale tradizionale e quella dell’Asia sud occidentale, la contiguità geografica con popolazioni della medesima fede islamica e il coinvolgimento nella questione afghana, dischiudono al Pakistan nuovi panorami nella sua competizione con il vicino indiano. Dal punto di vista geopolitico, la marginalità geografica rispetto al mondo islamico di cui il Pakistan soffriva durante il periodo della Guerra Fredda è scomparsa. Il mondo di allora cristallizzato in due blocchi, costringeva i soggetti minori a perseguire gli obiettivi di politica estera alleandosi con uno dei due schieramenti. A questa logica, non sfuggì neppure il confronto fra India e Pakistan, con il primo affiancato all’ex Unione Sovietica e il secondo associato al fronte americano. Questa morfologia di alleanze raggiunse il suo massimo momento durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan degli anni ’80. Il ritiro dell’ex Unione Sovietica da Kabul e la successiva disgregazione hanno senza dubbio comportato un ridimensionamento dell’importanza geostrategica di Islamabad per l’Occidente. Il Pakistan da quel momento non poté più ambire al ruolo di bastione contro l’espansione comunista verso le rotte petrolifere del mar Arabico che gli era valso il sostegno economico, politico e militare di Washington. Questo, ha però prodotto un ravvicinamento spaziale del paese al mondo musulmano sunnita che gli ha permesso di far pesare una sorta di accerchiamento sul suo antagonista indiano, soprattutto sulla questione mai sopita del Kashmir. Inoltre, per un paese frustrato dalla superiorità indiana nella regione del subcontinente e costantemente alla ricerca di una posizione di prestigio nel mondo islamico, la fine del dominio sovietico sui musulmani dell’Asia centrale ha avuto anche altri significati. Il Medio Asiatico, operando un collegamento tra due regioni musulmane, ha offerto al Pakistan aspettative per un area economica e culturale allargata e integrata sulla base della comune fede religiosa. In definitiva, il Pakistan nel tentativo di “sganciarsi” dal subcontinente dominato dal colosso indiano ha trovato nell’ex regione sovietica un Islamic Heartland, a cui sa bene di non poter rinunciare. Questo è testimoniato anche dal fatto che Islamabad rimane il fulcro attorno al quale girano tutte le preoccupazioni occidentali sul problema del fondamentalismo islamico in Asia centrale74. Analizziamo ora gli eventi che maggiormente segnarono la storia della regione e del Pakistan in particolare. 2.1 L’Afghanistan solo un corridoio? Vercellin definisce la Repubblica Islamica dell’Afghanistan non tanto un corridoio, quanto piuttosto un perno, un cardine, questa variazione lessicale sarebbe giustificata da una osservazione empirica della sua posizione geografica, situata nel cuore del continente asiatico, all’incrocio delle grandi vie di comunicazione terrestre che da sempre collegano il bacino del Mediterraneo e di conseguenza l’Europa e il cosiddetto Levante (o con gergo a noi più usuale il Vicino e Medio Oriente) al subcontinente

73 Gli altri due subcontinenti del Great Middle East sono l’asse Mashrek-Egitto, caratterizzato dal conflitto arabo-israeliano e il Golfo, in cui la determinante fondamentale è, invece, la competizione per il controllo dell’acqua e del petrolio. Questi tre subcontinenti tendono, a seconda delle circostanze, a isolare e interagire con reciproci condizionamenti e per ciò essi costituiscono un unico grande sistema. 74 F. Alunni, op.cit., pp.36-41.

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indiano e all’Asia sud-orientale verso meridione e dall’altra le grandi steppe dell’Asia centrale e soprattutto al mondo cinese verso nord ed est75; il territorio occupato dall’attuale Stato dell’Afghanistan si è infatti trovato coinvolto, volente o più spesso nolente, non solo e non tanto nelle ondate migratorie epocali di popolazioni che nel corso dei millenni l’hanno attraversato, quanto soprattutto, in anni a noi più vicini, nelle grandi rivalità tra le superpotenze delle varie fasi storiche, in particolare dapprima quelle coloniali europee (categoria in cui bisogna comprendere anche la Russia) e poi, dalla Seconda Guerra Mondiale quelle imperialiste, ossia Unione Sovietica e soprattutto Stati Uniti. Tutti questi condizionamenti geografici, hanno influenzato la nascita stessa del moderno Stato afghano nel XIX secolo e in seguito ne hanno dominato quando non vincolato, quasi sempre in modo negativo per gli interessi delle popolazioni indigene, l’evoluzione tanto nello scacchiere internazionale quanto negli sviluppi interni. Malauguratamente analoghi obblighi persistono ancora oggi alla base del ruolo svolto dal, o imposto all’Afghanistan nel contesto internazionale attuale, magari con qualche nuovo protagonista, ad esempio la Repubblica Popolare Cinese o l’India. È necessario ora, analizzare in che senso l’Afghanistan sia un corridoio e come ciò ne vincoli l’esistenza. Cosi come attualmente delineato, l’Afghanistan è uno stato nel cuore dell’Asia centrale, confinante verso nord con le repubbliche ex sovietiche del Turkmenistan, dell’Uzbekistan e del Tagikistan, ma anche con la Repubblica Popolare Cinese per un tratto di poche decine di chilometri verso nord est, mentre verso est e sud è limitrofo con il Pakistan e verso ovest con l’Iran. Tale descrizione, pur essendo estremamente concisa, mette in luce immediatamente due elementi che da sempre hanno limitato fortemente la vita economica e politica dell’Afghanistan: si tratta di uno stato privo di sbocchi diretti al mare e nello stesso tempo un luogo di transito tra diverse zone della massa continentale asiatica. Non solo, c’è un ulteriore condizione non trascurabile proprio per comprendere la chiave di lettura che qui ci concerne. Lo stato afghano è infatti, caratterizzato da una struttura geofisica in cui predomina la catena dell’Hindukush che attraversa il paese come una spina dorsale iniziando a est nel nodo del Pamir per terminare verso ovest nell’altopiano iranico. Questa enorme massa digrada verso meridione nell’altopiano desertico del Registan abitato soprattutto da tribù nomadiche delle etnie pashtun e baluchi, mentre a nord si apre in una fertile ma relativamente sottile fascia collinare che giunge fino alla sponda del fiume Amu Daria che segna per gran parte il confine con l’ex URSS. Storicamente esso non è mai stato sottoposto a dominio coloniale diretto, questo non per meriti intrinseci, quanto perché trovandosi nel XIX secolo stretto fra due imperi rivali, la Gran Bretagna che dominava nell’India e la Russia che avanzava in Asia centrale, l’Afghanistan vedeva la sua esistenza legittimata proprio in quanto “stato cuscinetto”, decisivo in quello che nel secolo scorso si chiamava il Great Game. Dunque, i confini dell’odierna Repubblica Islamica dell’Afghanistan sono il risultato non già delle strategie e delle scelte autonome di Kabul e degli attori politici locali bensì delle strategie e delle scelte di Londra e in misura assai minore di Mosca. In particolare se si esclude il confine settentrionale, in gran parte delimitato in maniera naturale dal fiume Amu Daria e quello verso l’Iran a occidente, il quale comunque non è riconosciuto definitivamente dalle due parti, le altre frontiere afghane a est e sud sono il risultato di un’operazione di demarcazione attuata nel 1893 da un suddito britannico, Sir Mortimer Durand. Costui divise i territori sottoposti alla Corona britannica verso est da quelli dello stato afghano a ovest dando vita ad una linea di confine di tipo moderno, territoriale, ancora oggi universalmente nota come Durand Line. Una frontiera segnata volutamente a smembrare territori da secoli percorsi dalle tribù pashtun. Lo snodo

75 A.A.V.V., Enciclopedia della geografia, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 2001.

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veniva disarticolato, nel corridoio si creavano serpentine e sbarramenti, ma soprattutto si aprivano gravi fratture all’interno dell’etnia pashtun e nello stesso tempo nasceva un contenzioso territoriale che persiste tutt’ora come una ferita aperta tra le realtà politiche statuali contemporanee, ossia le due repubbliche islamiche dell’Afghanistan e del Pakistan, con conseguenze tutt’altro che trascurabili. Prima di procedere è bene indugiare sul accezione di grave frattura all’interno dell’etnia pashtun. Gli appartenenti a questo gruppo etnico sono nomadi, utilizzano una lingua indoeuropea che si chiama pashto e che è contrassegnata fra l’altro da notevoli difformità di pronuncia di talune consonanti nelle diverse varietà regionali. Tradizionalmente stanziati fra le pendici orientali dell’Hindukush e le rive occidentali dell’Indo, i pashtun da due secoli e mezzo hanno mantenuto le redini del potere sul territorio che nel corso del tempo è venuto a ridursi all’attuale Afghanistan e dove per altro essi hanno sempre dovuto fare i conti con turbolenze sia al proprio interno, sia all’esterno. È bene evidenziare che parlando di “pressione esterna” in questo contesto si devono intendere perlomeno quattro piani: in primo luogo quelle nei confronti delle altre etnie abitanti all’interno delle “frontiere” degli stati afghano e pakistano; in secondo luogo quelle con i membri dell’etnia pashtun abitanti al di fuori di quelle frontiere statuali, e infine quelle con le realtà politiche circostanti. Per quanto riguarda il livello interno si deve tener conto che i pashtun insediati nelle regioni più occidentali, si distinguono dai gruppi che in base alla pronuncia di un certo fonema della loro lingua si definiscono pakthun e che sono in massima parte insediati nell’attuale Pakistan, nelle zone intorno a Peshawar o nelle Province della Frontiera di Nord Ovest. Sennonché quella che per secoli era una semplice contrapposizione tipica di tutte le tradizionali dialettiche tribali è diventata un polo di conflittualità dopo che nell’Ottocento è stato costituito quello stato di tipo occidentale chiamato Afghanistan. In esso infatti il potere era controllato appunto dai pashtun ma per ragioni di nazionalismo interno le classi dirigenti hanno cercato di far prevalere l’equazione pashtun = afghano, la qualificazione di afghano veniva usata come sinonimo di pashtun e viceversa. Tutto ciò occultava l’esistenza e la forza degli altri gruppi etnici abitanti all’interno dei confini dello stato e ai primi sottoposti. Infatti, tutti i cittadini del moderno stato, a qualsiasi etnia appartengano, sono ovviamente afghani in quanto sudditi dell’autorità che governa nella capitale Kabul. Un ovvietà che non è ancora tale e che per esempio spiega perché la Costituzione del 2003, abbia all’articolo 4 la seguente affermazione: “The nation of Afghanistan is comprised of the following ethnic groups: Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbak, Turkman, Baluch, Pashai, Nuristani, Aymaq, Arab, Qirghiz, Qizilbash, Gujur, Brahwui and others. The word Afghan applies to every citizen of Afghanistan.” Sennonché una simile confusione nello stesso tempo tendeva a mettere in disparte i legami che esistono fra i pashtun insediati in Afghanistan e i pashtun o paktun abitanti nel Pakistan. Una dinamica conflittuale che ha dimostrato la propria incessante pregnanza in questi ultimi anni, quando molti pashtun residenti nel Pakistan si sono qualificati senza problemi come “rifugiati afghani” per poter usufruire degli aiuti internazionali previsti per i fuoriusciti dall’Afghanistan76. L’indipendenza concessa da Londra al Vicereame dell’India nel 1947, alimentò le speranze di non pochi dirigenti politici delle tribù pashtun che abitavano sia in 76 Testimonianza esplicita di tale realtà si trova ad esempio in un articolo di Giulietto Chiesa, Allah e Kalashnikov, la pace di Kabul, apparso su “La Stampa” del 14 ottobre 1996: “In tempi di torbidi come in quelli di pace, il visto pakistano sul passaporto vale poco o nulla per attraversare lo Stato del Pashtunistan, tanto inesistente sulle carte quanto silenziosamente presente sul terreno”. Dunque la “ferita” provocata dalla Durand Line, non solo ha assunto un nome ben preciso, Pashtunistan, ma rimane ancor’oggi aperta, da mezzo secolo essa complica la realtà geopolitica a livello regionale, senza contare che rimane come un non trascurabile intralcio nella stessa strategia dell’attuale lotta contro il terrorismo per quanto riguarda i due principali protagonisti locali, appunto l’Afghanistan e il Pakistan.

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Afghanistan sia soprattutto nelle terre sottoposte in precedenza alla Corona britannica, si sperava, che questo potesse consentire la riunione di tutti i membri dell’etnia attraverso la creazione di uno Stato autonomo e indipendente. Quando fu palese che ciò non sarebbe accaduto, i pashtun si opposero alla creazione dello stato del Pakistan respingendo il risultato del referendum tenuto nel luglio del 1947, nel quale la popolazione si trovò a scegliere solamente fra due opzioni: l’unione con l’India o l’unione con il Pakistan. La situazione era cosi tesa che quando il nuovo stato del Pakistan presentò domanda di adesione all’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Afghanistan diede voto negativo, con una decisione che è rimasta negli annali. L’aspetto oltremodo straordinario, è che a oltre cinquant’anni dall’indipendenza del Pakistan, nonostante tutte le successive evoluzioni, la crisi connessa alla questione del Pashtunistan continua a rimanere viva sotto la cenere, giungendo addirittura alla chiusura della frontiera negli anni ’70, con la conseguenza di provocare enormi perdite per l’economia di Kabul. Addirittura, alcuni studiosi, sostengono che essa fu una delle componenti non secondarie che nel 1978 portarono al colpo di stato militare che provocò la caduta dell’allora presidente Muhammad Da’ud e la presa del potere da parte del Partito Democratico del Popolo (PDPA). Furono appunto le tendenze filosovietiche del PDPA e la sua politica di riforme a innestare quel processo che nel giro di pochi anni portò alla ribellione dei mujahideen sostenuti dalla Cia e dal Pakistan, all’intervento dell’Armata Rossa, alla sanguinosa guerra civile, alla presa di potere dei taliban, fino a Enduring Freedom. Certamente non esiste una consequenzialità diretta di causa ed effetto tra la questione del Pashtunistan e Enduring Freedom, ma indubbiamente l’attuale drammatica situazione è legata alla Durand Line poiché essa mutò lo status di corridoio dell’Afghanistan e le conseguenze politiche che essa incarna. Il confine del Pakistan con l’Afghanistan misura 2.240 chilometri di lunghezza e interessa due regioni del territorio pakistano, la Frontiera di nord-ovest e il Baluchistan. Il suo significato strategico deriva dal fatto che la linea di confine divide territori che hanno in comune trascorsi storici, gruppi etnici e peculiarità geografiche77. La cosiddetta Linea Durand, venne tracciata in tutta fretta dagli statisti europei nel 1893, quando venne creato l’Afghanistan come Stato cuscinetto per dividere i possedimenti dell’impero russo in Asia centrale da quelli dell’impero britannico in Asia sud-occidentale78. Questa linea immaginaria, non rispetta dunque, la funzionalità storica di queste valli e dei loro accampamenti, pretendendo di separare capanne di uno medesimo villaggio e di arrestare la libera circolazione delle tribù che da sempre vivono su queste terre. 2.2 L’invasione sovietica dell’Afghanistan Il 24 dicembre 1979 l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan, rovescia il governo di Amin, esponente del partito Khalq e mette al suo posto Babrak Karmal, leader della fazione Parcham79 dando il via ad un conflitto, che malgrado siano passati ormai quasi trent’anni e sia venuto meno il contesto bipolare, continua a mantenere la sua attualità per gli sviluppi che sta producendo.

77 M. Nordio (a cura di), Sguardo a Oriente, Asia centrale, Pakistan, Afghanistan, Turchia, Marsilio, Bolzano, 2005, pp. 105-117. 78 Al momento dell’indipendenza, il Pakistan eredito come proprio confine occidentale la Linea Durand, che da allora venne contestata da tutti i governi afghani succedutisi a Kabul: dalla monarchia di Shah, alla repubblica di Daud, fino ai regimi filocomunisti del 1978. 79 Le due fazioni: Parcham (bandiera) e Khalq (popolo) erano il prodotto della scissione del Partito democratico popolare afghano PDPA, fondato nel 1965 durante la monarchia di Shah su basi anti-feudali e antimonarchiche.

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L’intervento sovietico a Kabul rispecchiava la politica dell’Urss di quegli anni, finalizzata non tanto all’acquisizione di nuovi territori, quanto piuttosto all’esportazione del modello comunista ad altri paesi, in modo da renderlo irreversibile80. Inoltre la mossa sovietica si indirizzava nella linea di espansione tradizionale dell’impero zarista, cioè i mari caldi del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano, area vitale per l’approvvigionamento petrolifero occidentale. Le implicazione sia a livello regionale che internazionale furono molto ampie, soprattutto per il Pakistan. La presenza sovietica a Kabul fu immediatamente percepita come una minaccia da Islamabad, che risentiva di un complesso di accerchiamento, avendo a est l’India e a ovest l’Urss, il suo timore era che il passo successivo, sarebbe stato l’invasione del suo territorio, ultimo baluardo filo-americano sulla strada verso il Golfo Persico. La preoccupazione più immediata e concreta era che un governo ostile insediato a Kabul avrebbe potuto fomentare le aspirazioni indipendentiste delle tribù baluchi e pashtun81; la percezione negativa della presenza sovietica a Kabul da parte di Islamabad derivava sia dal ricordo dell’appoggio indiretto che l’Urss aveva concesso all’India in occasione dell’indipendenza del Bangladesh nel 1971, sia dal fatto che Mosca, in passato, non aveva negato il sostegno alle rivendicazioni dei pashtun sul Pashtunistan. Se riflettiamo sulla conformazione geografica del Baluchistan, è presto chiaro la rilevanza che avrebbe potuto avere per i sovietici un governo amico con un litorale di 1.500 chilometri sull’Oceano Indiano. Inoltre, se si fosse insediato un governo filo-sovietico in Afghanistan, si sarebbe formato un asse Kabul-Nuova Delhi che avrebbe aumentato il suo senso di accerchiamento82. Tutti questi accadimenti spinsero il Pakistan a modificare la sua strategia difensiva, in virtù del nuovo accerchiamento su due fronti, e dunque a doversi concentrare non più su un solo fronte, bensì su due, Durand Line compresa. Anche la Cina fu molto allarmata dai fatti di Kabul, essa aveva sempre considerato il Pakistan un perno importante della geopolitica regionale, se esso fosse caduto in mano sovietica, l’Urss si sarebbe avvicinata pericolosamente alle frontiere sud-occidentali di Pechino. Per gli Usa l’Afghanistan non aveva nessuna importanza in se stesso, erano infatti persuasi che esso da tempo facesse parte della sfera di controllo sovietica, ma non potevano accettare di perdere anche il Pakistan, ultimo baluardo di difesa del Golfo Persico, cosi lo rifornirono di tutto quello che era necessario per appoggiare i mujahideen afghani nella guerriglia antisovietica. Cosi Islamabad ricevette 3 miliardi di dollari l’anno e almeno fino al 1987 un atteggiamento tollerante nei confronti del riarmo nucleare a cui stava lavorando. Lo scopo degli Stati Uniti, non era tanto contribuire alla vittoria dei mujahideen, alla quale per giunta neppure credevano, quanto piuttosto fare in modo che i sovietici pagassero il prezzo più alto dell’invasione, sia in termini di vite, sia in termini di prestigio internazionale.

80 In seguito alla rivoluzione islamica in Iran dell’inizio del 1979, Teheran era uscita dall’orbita di influenza americana, l’Afghanistan rappresentava cosi per Mosca un ulteriore passo nella creazione di un blocco filo-sovietico che comprendesse tutto il subcontinente indiano; questo avrebbe dovuto costituire allo stesso tempo, un area fuori dalla portata di Washington e un cordone sanitario con cui isolare la Cina. 81 I primi si erano già ribellati nel 1973 e ’74 contro il governo centrale, mentre i secondi non avevano mai abbandonato il sogno di un indipendenza. 82 Il valore strategico che ricopre l’Afghanistan per il Pakistan in funzione anti indiana non riguarda soltanto il caso di un eventuale conflitto ufficiale tra i due paesi, ma anche la guerra di “bassa intensità” del Kashmir, alla quale i guerriglieri islamici vengono preparati proprio nei campi di addestramento afghani.

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Vista questa concomitanza di interessi, si formò un’alleanza triangolare Washington-Pechino-Islamabad, alla quale ben presto si aggiunse anche l’Arabia Saudita, tradizionale alleato del Pakistan83. L’Arabia Saudita, già minacciata dalla rivoluzione di Khomeini in Iran, vide l’avanzata dell’Urss come un pericolo in più e sulla medesima esigenza consolidò l’amicizia con Islamabad. Riyad poteva offrire un supporto totalmente privo di vincoli democratici o giuridici, rispetto invece a quello statunitense, esso era composto sia da fonti pubbliche che private, una specie di “joint venture tra i sauditi, i Fratelli Musulmani e lo JI, il tutto coordinato dall’Isi”. I principali canali di trasmissione degli aiuti furono i servizi di spionaggio diretti dal principe Turki al-Faisal, il Comitato del principe Salaman, governatore di Riyad e la Lega islamica mondiale. Quando nel ’79 i russi invadono l’Afghanistan, il Pakistan concede il suo aiuto ai mujahideen, per ottenere vantaggi economici e politici, ma il suo intervento viene motivato come aiuto ai “fratelli musulmani” per cacciare gli infedeli. Il ritorno di immagine è immenso e il paese, può ergersi a difensore del dar al Islam messo in pericolo dall’invasione russa. Per la prima volta il paese gode di una posizione centrale all’interno del mondo musulmano; questa sua nuova posizione gli consente di guardare al suo vicino con accresciuta sicurezza. Durante la guerra in Afghanistan si mette in moto la rete di solidarietà delle reti religiose transazionali che fanno capo agli ulama, questi emettono inoltre numerose fatwa84, interpretando l’arrivo dei sovietici, come un invasione da parte degli infedeli dei territori dei musulmani. Possiamo qui notare una netta strumentalizzazione del concetto di jihad, esso serve a sollevare la solidarietà dell’opinione pubblica di tutto il mondo musulmano e dall’altro consente al governo pakistano di non occuparsi della grave condizione in cui verte la stragrande maggioranza della popolazione. Il termine jihad, tradotto in Occidente come “guerra santa” in arabo significa letteralmente “sforzarsi”. Il jihad ha acquisito con il tempo due significati diversi ma tra loro correlati, cioè “conflitto armato” per la difesa del territorio islamico (piccola jihad) e “sforzo” per rafforzare con la propaganda religiosa l’Islam (grande jihad). In entrambi i casi esso ha come obiettivo realizzare l’unità della comunità islamica, infatti, se il mondo è diviso fra i fedeli dell’Islam e gli infedeli, il jihad non è altro che uno strumento per combattere il secondo e sottometterlo al primo. Questo ci fa comprendere il valore del concetto richiamato nel mobilitare le masse nel mondo musulmano; analizzando la storia del Pakistan ci si rende conto di come il concetto di jihad sia entrato a far parte integrante dell’azione strategico-politica del governo di Islamabad. Mentre prima dell’indipendenza, il jihad e le prescrizioni per metterlo in atto appartenevano al mondo interiore di ogni musulmano e l’accezione a cui si faceva riferimento era quella di “grande jihad”, dopo l’indipendenza il Pakistan si rende conto della necessità di mobilitare tutte le risorse presenti sul territorio, da quelle umane e morali a quelle economiche e militari, cosi le elite scendono a patto con i leader religiosi tradizionali, gli unici capaci di assicurare l’appoggio della piazza, in una società, che come abbiamo già avuto modo di sottolineare era profondamente divisa in molteplici gruppi etno-linguistici. L’esercito diventa il grande garante della stabilità interna e il jihad il suo strumento d’azione, attraverso questa operazione esso perde la sua prerogativa esclusivamente religiosa e viene inquadrato nella strategia politico-

83 L’alleanza fra l’Arabia Saudita e il Pakistan si consolidò all’inizio degli anni ’70, quando la secessione del Bangladesh fece riscoprire a Islamabad una vocazione più medio orientale in un momento in cui, peraltro, il boom petrolifero di Riyad fece riversare grandi flussi di emigranti pakistani in Arabia. 84 La risposta fornita dal qadi, il giudice musulmano, su un quesito presentatogli per sapere se una data fattispecie sia regolamentata dalla sharia e quali siano le modalità per applicarne il disposto.

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militare pakistana, diventandone la giustificazione. Per il nuovo Stato musulmano che manca dei contenuti essenziali della statualità, la religione diventa politica e si mischia anche con la ragion di Stato. Da questo momento, la religione islamica, diventa il nesso di ogni aspetto politico-sociale della vita e gli obiettivi politico-strategici vengono presentati alle masse in termini religiosi, al fine di trarre il consenso sul proprio operato. La conseguenza di ciò è che il jihad diviene strumentale al consolidamento del regime al potere, e gli interessi terreni dello stato vengono occultati dietro nobili principi religiosi. Il jihad dichiarato nella guerra afghana, non è un attacco il cui scopo è conquistare un territorio appartenente al dar al harb85,qui si combatte per il ribat, cioè la costruzione di una linea difensiva insuperabile per gli infedeli, dunque essa è caratterizzata dall’aspetto prettamente difensivo. In questi casi, l’obbligo di combattere non è più collettivo, ma diventa un obbligo individuale, rivolto a ogni singolo musulmano, è quasi un imperativo, i musulmani hanno il dovere di prendere le armi anche se non vi fosse nessuna indicazione da parte dell’autorità e di partecipare al conflitto come comunità e con tutti i mezzi, compresi quelli morali e finanziari86. L’Afghanistan invaso dagli infedeli diventa cosi, il jihad simbolo, il primo esempio di riconquista di un territorio usurpato.87 L’invasione e la successiva occupazione dell’Afghanistan, si rifletterono sulla sicurezza sia dell’India che del Pakistan. Per quanto riguarda il Pakistan, esso si trovava a dover fronteggiare ora due paesi potenzialmente ostili, ci si aspettava che il regime insediato dai sovietici, fosse nemico del Pakistan, sia a causa dell’impiccagione di Zulfiqar Ali Bhutto da parte del generale Zia ul-Haq sia per le relazioni che univano l’India all'Unione Sovietica e il Pakistan al nemico di sempre, gli Stati Uniti. Questa condizione di precarietà, non durò a lungo, infatti l’abile generale Zia riuscì a trasformare un evento negativo e potenzialmente pericoloso per il suo paese in una possibilità da cui ottenere il massimo risultato. Subito dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il Presidente Carter, negli ultimi giorni del suo sfortunato mandato, offrì al Pakistan 400 milioni di dollari, sotto forma di assistenza militare ed economica per rinsaldare la volontà del regime di resistere ai sovietici. Zia definì l’aiuto di Carter “noccioline”, il calcolo fatto dal generale era estremamente astuto, infatti egli presupponeva che un amministrazione più conservatrice sarebbe stata molto più disponibile a cedere alle richieste pakistane in virtù della sua posizione geografica, culturale e strategica. I suoi calcoli si dimostrarono esatti, infatti Carter non venne rieletto nelle elezioni del 1980 e salì alla presidenza Reagan. Il Pakistan divenne cosi, il destinatario di una considerevole assistenza economica e militare. Questi aiuti permisero a Zia di migliorare la sua posizione dal punto di vista della sicurezza nella regione. Chiaramente il consolidamento del rapporto fra Usa e Pakistan, basato sul trasferimento di armamenti, ebbe significativi contraccolpi sull’India che addirittura cercò di inviare alcuni segnali di distensione al Pakistan, ma poiché questi andarono invano essa si affrettò a rafforzare la sua relazione militare con l’Unione Sovietica. L’invasione sovietica, fu veramente una mossa inaspettata, essa sconcertò non solo gli Stati Uniti e il mondo occidentale, ma anche i paesi del subcontinente. La stessa India che dopo la guerra con il Pakistan del ’71 aveva stretto un solido legame con l’Unione Sovietica ne rimase stupita. La vicinanza delle due era basata su considerazioni

85 È un termine islamico, usato per indicare i luoghi in cui il potere politico non è detenuto da gruppi musulmani. 86 Non prendere parte al jihad quando esso ha carattere difensivo e individuale, è un peccato capitale alla stessa stregua di non officiare le preghiere o non rispettare il digiuno nel mese del Ramadan. 87 F. Alunni, op.cit. pp. 77-81.

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strategiche, e malgrado la presenza nel partito del Congresso e nel Ministero per gli Affari Esteri di alcuni ideologi filosovietici, le affinità ideologiche erano ben poche. L’intento dei sovietici era avversare l’influenza cinese e statunitense in Asia meridionale e di conseguenza si avvicinarono all’India, per fare in modo che questa non si legasse né alla Cina, né tantomeno agli Usa. L’India dal canto suo, aveva maturato una profondo sospetto nei confronti delle intenzioni e delle capacità militari cinesi in seguito agli eventi del 1962. A parte occasionali avvicinamenti dopo l’ormai noto “Mao smile” del 197088, i rapporti sino indiani rimanevano tesi, e anzi si erano acuiti in seguito all’attacco cinese al Vietnam nel 1978. I cinesi dichiararono che “stavano dando una lezione al Vietnam proprio come ne avevano dato una a un altro paese nel 1962.” In ragione di tutto quanto appena detto, in India esisteva un sostegno univoco, a prescindere dagli orientamenti partitici o ideologici, che l’avvicinamento all’Unione Sovietica rappresentasse un forte scudo contro eventuali provocazioni cinesi. Anche nei confronti degli statunitensi, gli indiani provavano una certa sfiducia, e anche queste considerazioni contribuirono all’avvicinamento ai sovietici. La situazione politica interna indiana era, nel momento in cui avvenne l’invasione, estremamente travagliata, infatti Indira Gandhi era stata rovesciata dal premierato nelle prime elezioni dopo il suo sconsiderato stato di emergenza. Il regime che le successe, guidato dal Janata Party, con Primo ministro Morarji Desai cadde anch’esso ed era ora in carica, un Primo ministro ad interim, Charan Singh, un uomo politico di origine contadina con nessun interesse per la politica internazionale, egli affermò che l’invasione sovietica avrebbe avuto per l’Afghanistan e per l’Asia meridionale conseguenze negative e assai ampie, non solo, durante un incontro privato rimproverò all’ambasciatore sovietico, Yuri Vorontsov, di aver concorso a scatenare nuove tensioni a livello regionale. Contemporaneamente il Ministro degli Esteri indiano mostrava tutti i suoi timori all’ambasciatore statunitense, Robert Goheen, riguardo alla rinnovata volontà statunitense di fornire armi al Pakistan. Lo stesso Singh, scrisse a Carter spiegando la sua preoccupazione nei confronti della decisione americana di togliere l’embargo sulle armi, imposto al Pakistan dopo la guerra del ’71. Singh ebbe però vita breve, infatti nelle elezioni del gennaio 1980, Indira Gandhi e il Partito del Congresso ottennero una clamorosa vittoria. Con il cambio di regime, la politica internazionale mutò repentinamente, riproponendo un allontanamento dagli Stati Uniti e un contemporaneo riavvicinamento all’Unione Sovietica. Questa nuova strategia avrebbe potuto proteggerli da un Pakistan sostenuto dagli Usa. I sovietici, dal canto loro erano ansiosi di non alienarsi l’India, cosi vennero incontro prontamente alle sue richieste. Innanzitutto, inviarono il Ministro degli Esteri Andrej Gromyko a Nuova Delhi nel ’80 affinché spiegasse la loro posizione sulla questione afghana, gli indiani ricevettero di buon grado il ministro, ma si rifiutarono di sostenere totalmente e pubblicamente l’invasione. Per attirarli definitivamente a se, nel maggio del 1980 gli offrirono un pacchetto militare eccezionalmente generoso: 1,63 miliardi di dollari in forma di crediti pagabili in un periodo tra i 10 e i 15 anni, inoltre un trasferimento di armi, in cui fossero compresi caccia MIG-25 “Foxbat” e carri T-72. Accettare questa generosità economica ebbe però un consistente risvolto politico per l’India, essa dovette astenersi nei dibattiti delle Nazioni Unite il cui tema fosse la questione afghana. Questa tacita approvazione mise in crisi le relazioni sia con gli Stati Uniti che con le altre potenze occidentali. Le relazioni tra India e Pakistan, peggiorarono ulteriormente in seguito al massiccio appoggio statunitense al Pakistan. Per dipingere il Pakistan come un paese conciliante,

88 Il “Mao smile” si riferisce all’evento altamente simbolico del 1° maggio 1970, quando Mao Tse- tung salutò calorosamente l’incaricato d’affari indiano all’ambasciata di Pechino, nello schieramento di ricevimento durante le celebrazioni del 1° maggio a Nuova Delhi.

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Zia nel dicembre del 1981 offrì all’India un patto di non belligeranza89, la risposta fu una richiesta di un trattato di pace più completo. La risposta di Zia fu negativa. Sebbene gli indiani ritenessero i sovietici colpevoli di aver innescato i disordini nella regione, pubblicamente biasimavano gli Stati Uniti per aver armato il Pakistan, dando il via ad una corsa agli armamenti nel subcontinente. Questa posizione ufficiale contribuì ad esacerbare le relazioni indo-americane. I primi miglioramenti nelle relazioni tra i due paesi si ottennero in seguito all’incontro fra Indira Gandhi e il Presidente Reagan al North-South Summit, a Cancun nell’ottobre 1981, in seguito alla quale gli indiani misero da parte la retorica antiamericana e gli americani le loro reticenze nel concedere prestiti multilaterali all’India. Successivamente all’assassinio di Indira Gandhi nel 1984, la carica di Primo ministro fu assunta da suo figlio, Rajiv Gandhi, questo non comportò nessun cambiamento in politica estera. Malgrado il suo viaggio negli Usa nel ’85 le relazioni fra i due rimasero tese a causa della posizione indiana sulla faccenda afghana e del rifornimento di armi al Pakistan. Le tensioni si acuirono allorché gli Stati Uniti vagliarono la possibilità di vendere al Pakistan aerei AWACS Haw-keye EC-2. Secondo gli analisti indiani grazie a questi aerei le forze armate pakistane avrebbero ottenuto significativi vantaggi bellici in una possibile guerra con l’India90. 2.3 L’avvento del regime degli “studenti” Neppure il crollo del regime “comunista” agli inizi degli anni ’90 fu sufficiente a por termine ai massacri, perché a quel punto lo scontro assunse un nuovo aspetto, trasformandosi in una vere e propria guerra civile tra i diversi movimenti costituenti appunto il fronte dei mujahideen e dei loro alleati. Con la scomparsa dell’Armata Rossa e del comunismo e con la contemporanea rarefazione per svariate ragioni degli aiuti americani ed europei, la carenza propositiva e la eterodirezione dei gruppi di mujahideen si palesarono in maniera eclatante. Non desta dunque meraviglia che ad un certo punto questi siano stati estromessi dai taliban, apparsi quasi di sorpresa tra il 1994 e il 1996 grazie all’esplicito sostegno dell’Arabia Saudita e del Pakistan. Ancora una volta ricompare il destino di corridoio dell’Afghanistan: da un lato Riyad voleva usare questo territorio come trampolino per l’esportazione della sua interpretazione dell’Islam nell’Asia centrale appena uscita dall’Unione Sovietica; dall’altro Islamabad cercava di espandere il suo retroterra politico per riequilibrare le difficoltà con l’India e inoltre accettava di svolgere il ruolo per cosi dire di longa manus delle compagnie petrolifere statunitensi interessate a controllare le nuove risorse che dopo il 1989 si erano rese disponibili, ossia gli enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale dell’Asia centrale. Per fare ciò era però necessario sfruttare e soprattutto commercializzare quella materia prima: i giacimenti infatti per la loro posizione nel cuore del continente asiatico, dovevano essere collegati a gasdotti e oleodotti che trasportassero quanto estratto o verso zone industriali, peraltro del tutto mancanti nella regione, o verso porti dove potessero essere caricate su navi petroliere ed esportate verso aree industrializzate. Questi porti si trovano nel Mediterraneo, mare però chiuso, già molto inquinato e sulle rive del quale prevale una diffusa coscienza ecologica, oppure nell’Oceano Indiano. Ma per arrivare dall’Asia centrale a questo sbocco, stante la situazione geopolitica diventava giocoforza passare attraverso l’Iran, controllato però dagli ayatollah della Repubblica Islamica, decisi oppositori dell’Occidente e ritenuti non solo inaffidabili ma anche non rovesciabili a breve. Rimaneva dunque un'unica opzione: attraverso l’Afghanistan e poi il Pakistan. Il Pakistan è ritenuto, affidabile per gli interessi 89 L’India aveva fatto un’offerta di non-belligeranza al Pakistan nel 1949, ma la leadership dell’epoca aveva rifiutato seccamente. 90 S. Ganguly, Storia dell’India e del Pakistan, Mondadori, Milano, 2004, pp. 94-100.

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dell’Occidente, sia in ambito politico che economico, in Afghanistan invece la situazione di generale insicurezza provocata dai mujahideen era eccessiva addirittura per le compagnie petrolifere occidentali malgrado queste ultime fossero avvezze a gestire situazioni di guerre civili, si pensi al caso della Nigeria. Non desta alcuna meraviglia che ad un cero punto i mujahideen ormai privi dell’aiuto statunitense, che si combattevano in una cruenta guerra civile senza possibilità di un accordo effettivo con le compagnie petrolifere, siano stati emarginati dai taliban, appoggiati dai servizi segreti pakistani (ISI). Fu ben presto evidente che dietro le manovre militari dei guerriglieri di Allah, si celassero gli interessi e gli accordi delle grandi multinazionali occidentali, attirate dai ricchi giacimenti di gas e di petrolio della regione centroasiatica, strumentale era a quel punto, come abbiamo più volte sottolineato una forza amica in Afghanistan, il quale doveva fungere da corridoio per far arrivare queste risorse ai mercati. La compagnia argentina Bridas fu la prima a mettersi in contatto con i nuovi detentori del potere, convinta che il controllo dei talibani sul percorso da far compiere al gas e al petrolio estratto in Asia centrale potesse rendere fattibile il suo progetto di fruttamento. Nel 1994 la Bridas riesce a convincere Turkmenistan e Pakistan a formare un gruppo di lavoro per uno studio di fattibilità su un gasdotto che attraversasse l’Afghanistan fino al Pakistan. Nella primavera del 1995, Pakistan e Turkmenistan sottoscrissero un accordo che autorizzava la Bridas a preparare uno studio di prefattibilità del gasdotto. Quasi contemporaneamente entrò in gioco la compagnia americana Unolocal, che propose la costruzione di un proprio gasdotto con percorso simile a quello proposto dalla Bridas. Siamo negli anni ’90 ed ecco che riprende vita il “Grande Gioco” nel nuovo scacchiere del Medio Asiatico. Il Turkmenistan, da cui devono partire le condutture, è titubante, poiché non vorrebbe lasciarsi sfuggire l’opportunità di agevolare l’importante compagnia statunitense e di conseguenza l’amministrazione Clinton, dalla quale avrebbe potuto ottenere vantaggi economici. Washington, esercita la sua influenza anche sul Pakistan, che appoggia i talibani, a concedere il suo sostegno alla Unolocal, piuttosto che la Bridas. I giochi sono ormai fatti, e nell’ottobre del 1995, il governo turkmeno firma un accordo con la Unolocal e con il suo partner saudita, la Delta Oil Company, per il passaggio di gas e petrolio attraverso l’Afghanistan. Il progetto prevedeva inoltre, che una volta terminata la realizzazione del gasdotto, sarebbe stato realizzato un oleodotto per il trasporto di petrolio fino alle coste del Pakistan sul mare Arabico. Lo scopo, era trasportare il gas e il petrolio attraverso condutture non russe, rompendo cosi il controllo monopolistico di Mosca sulle risorse dell’Asia centrale. Perché il progetto sia fattibile, manca solo un tassello: l’unificazione del territorio afghano sotto un unico comando politico che fosse in grado di garantire la sicurezza del percorso. Ed ecco qui intervenire i servizi segreti pakistani, che suggeriscono alla Cia e all’amministrazione americana di appoggiare gli studenti delle madrasa, sperando in una loro rapida conquista del paese. Quando i talibani si insediarono definitivamente a Kabul, la Unolocal non potè nascondere la sua soddisfazione, lo stesso Chris Taggart, dirigente della Unolocal e responsabile del progetto, dichiarò che la sua società stava facendo “donazioni in denaro” ai talibani in cambio della loro collaborazione nell’affare. Quando nel 1997 i talibani vengono respinti dall’Alleanza del Nord dalla roccaforte settentrionale di Mazar-e Sharif riportando gravissime perdite nelle proprie fila, il vicepresidente della Unolocal, Marty Miller, sostenne che il progetto era in pericolo, essendo la pace in Afghanistan dipendente da un governo stabile, di qualunque natura esso fosse. La momentanea sconfitta costrinse il Pakistan, il Turkmenistan e la Unolocal a rivedere la data di avvio del progetto, non sarebbe più partito nel 1997, come previsto, ma nel 1998.

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Quando la conquista dell’Afghanistan da parte dei talibani sembrava ormai cosa fatta, nel dicembre ’97, la compagnia statunitense donò 900.000 dollari al Centre of Afghanistan Studies dell’Università di Omaha, nel Nebraska, al fine di aprire una scuola a Kandahar. Il compito di gestirla venne affidato a Gerald Boardman, che si era distinto negli anni ’80 per aver diretto l’ufficio di Peshawar dell’Agency for International Development americana, incaricata di fornire ogni tipo di assistenza ai mujahidiin. Coinvolta nel progetto è anche la compagnia saudita della Delta Oil Company, anche se non vi sono prove del suo coinvolgimento con i guerriglieri afghani. Queste due multinazionali, costituiscono il consorzio Central Asia Gas Pipiline sorto ad hoc per la realizzazione di vari progetti che prevedono lo sfruttamento delle risorse della regione. Il consorzio è composto da sette soggetti con differenti percentuali di partecipazione: la Unolocal (americana) con il 46,5% del capitale, la Delta Oil Company (saudita) 15%, il governo turkmeno 7%, l’Indonesia Petroleum (giapponese) 6,5%, la Itochu Oil Co. Ltd (cieco-giapponese) 6,5%, la Hyudai Engineering&Costrucion Co. Ltd (coreana) 5%, il Crescent Group (pakistano) 3,5%. A queste avrebbe dovuto aggiungersi anche il colosso russo del Rao Gazprom con una partecipazione del 10%, ma Mosca si oppose al consorzio per evitare che il gas e il petrolio dell’Asia centrale potessero essere esportati attraverso condotti che fossero al di fuori del suo controllo. Il gasdotto, secondo il progetto,avrebbe dovuto percorrere 1271 chilometri dal confine tra Afghanistan e Turkmenistan alla città di Multan, nel nord del Pakistan. Da qui si sarebbe collegato alle condutture già esistenti, che dalla città di Sibi, si diramano sia verso sud che verso nord, percorrendo tutta la spina dorsale del territorio pakistano. Ma il progetto sfumò, alla fine degli anni ’90, quando gli Usa, iniziarono a dubitare del possibile insediamento effettivo dei talibani in tutto il territorio afghano, così presero la distanze dal movimento estremista91 e da Islamabad, valutando percorsi diversi per esportare le risorse delle ex repubbliche sovietiche. È stato dunque all’ombra degli interessi delle multinazionali e delle loro strategie relative allo sfruttamento delle risorse di gas e di petrolio della regione del Centro Asia che si è formato l’asse politico-economico Washington-Ryad-Islamabad92 che ha determinato il successo iniziale dei talibani e il successivo capovolgimento delle alleanze93. Il seguito di questa vicenda è fin troppo noto, i taliban sempre più isolati dalla comunità internazionale, e dunque esclusi dall’accesso alle fonti di finanziamento necessarie per garantirsi un minimo di strutture indispensabili al mantenimento del potere, furono costretti a far ricorso a capitali provenienti da reti parallele, non ufficiali e illegali. Quando facciamo riferimento a reti parallele, intendiamo droga e contrabbando, a queste si aggiunse ben presto anche il sostegno in denaro e in appoggi internazionali, di un personaggio come Osama bin Laden; questo terrorista si creò una base in Afghanistan, essa era nota a tutta la comunità internazionale.

91 Fra le cause che determinarono il cambiamento di rotta dell’amministrazione statunitense non si può dimenticare la dura opposizione dei gruppi femministi americani alla politica della Unolocal, colpevole di collaborare con un regime che stava discriminando le donne afghane, nonché gli attentati dinamitardi alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania che provocarono il bombardamento di ritorsione americano sui campi di addestramento di Osama bin Laden in Afghanistan nel 1998. 92 L’appoggio dei servizi segreti americani e pakistani ai talibani, considerati uno strumento per sgombrare il campo da tutto ciò che ostacolasse i progetti delle multinazionali, fu dichiarato esplicitamente da Charlie Santos, assistente americano di Mahmud Mestiri, ex rappresentante dell’Onu a Kabul: “I talibani sono i liberatori dell’Afghanistan”. Un anno più tardi Santos è stato nominato consigliere della Unolocal. 93 S. Akbarzadeh, Afghanistan, la Guerra del gasdotto, in Internazionale, Novembre 1996, pp.12-19.

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2.4 La “sindrome talebana” Ideologicamente, questa sindrome è la miscela di una rigida osservanza dell’islam basato sulla tradizione della salafiyya dell’Arabia Saudita e le pratiche sociali osservate dagli elementi più conservatori delle tribù afghane e della classe medio-bassa del subcontinente, che non lasciava spazio alcuno all’interpretazione. Occorre però fare due importanti precisazioni: queste pratiche tribali, non sono uniformemente seguite dall’intera società afghana; inoltre esse trascendono i confini formali dell’Afghanistan e del Pakistan. In questo ambiente tutti gli aspetti dell’educazione secolare sono percepiti come antitetici all’islam. Furono proprio le forze islamiche pakistane a creare e nutrire gli “attori” di questa sindrome, proprio nelle madrasa, dove i talibani ricevettero la loro educazione. Le madrasa sono gestite dal JUI, di conseguenza questo partito ha profondamente influenzato il carattere socio-politico nonché religioso dei talibani. Spinti dall’educazione ricevuta e dalla volontà di stabilire un governo islamico essi, combatterono numerose battaglie militari per riunificare il paese. A questa sindrome dobbiamo, l’escalation del ruolo dei radicalisti islamici nella politica interna e internazionale del Pakistan e degli altri stati contigui; l’obiettivo infatti era stabilire forme di governi islamici in ogni luogo della regione a prescindere dai confini. Questa concezione è basata sulla nozione di umma, secondo cui gli uomini e le donne musulmane sono fratelli e sorelle nella fede e tutti devono lavorare insieme per migliorare la umma. Questa posizione teologica è comune a tutti i partiti islamisti simpatizzanti con i talibani. Per esempio se i talibani fossero rimasti al potere in Afghanistan e i loro alleati avessero avuto la meglio nella guerra civile in Tagikistan, probabilmente avrebbero cercato di espandere le ragioni del conflitto anche ai loro vicini Kazakistan e Kirghizistan, lo stesso Uzbekistan a dispetto di tutto il fervore dimostrato contro le forze islamiche di cambiamento continua a rimanere estremamente vulnerabile. La situazione era talmente compromessa, che nell’aprile del 2000 i presidenti di Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan firmarono un accordo per condurre operazioni congiunte nella lotta al terrorismo internazionale, l’estremismo politico e religioso, le organizzazioni criminali transnazionali e altri argomenti relativi alla sicurezza. Un altro paese ha ragione di essere inquieto per i possibili effetti propaganti della sindrome talebana, è senz’altro la Repubblica Popolare Cinese, in virtù della presenza dei musulmani Uighur nella sua provincia dello Xinjiang che hanno tendenze secessioniste. Numerosi rapporti sulle sommosse politiche nella regione parlano di, “un sentimento separatista, mai completamente soffocato, che si è riacceso in anni recenti inseguito alla rivoluzione islamica iraniana e alla recente indipendenza dei paesi dell’Asia centrale, creati dopo il collasso dell’Unione Sovietica”. Ragguagli più recenti sull’escalation delle turbolenze politiche nella provincia mettono in risalto il ruolo primario di un piccolo numero di separatisti, terroristi e estremisti religiosi accusati di intessere legami con forze estere ostili che hanno come obiettivo la secessione. Secondo molti osservatori, la situazione nello Xinjiang è più compromessa di quella in Tibet. Fare delle analisi sui dati certi rimane comunque molto complesso a causa delle poche e controllate informazioni che giungono dal governo cinese; infatti non sono disponibili dati certi sul numero reale della popolazione musulmana in Cina, gli ultimi rilevamenti risalgono al 1949, secondo quest’ultimi la popolazione musulmana si aggirava intorno ai 50 milioni, appare dubbio che i dati del 1990 parlino soltanto di 17 milioni. Questo, se reale, sarebbe il risultato delle migrazioni nelle vicine repubbliche dell’Asia centrale, stimolate dai trasferimenti forzati di popolazione di cinesi han promossa dal governo centrale.

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Questa regione risulta essere estremamente importante a causa della presenza in essa di abbondanti risorse naturali, preziosi minerali, gas naturali, carbone e infine petrolio. La crescente politicizzazione degli Uighur nello Xinjiang preoccupa molto la leadership cinese94. Proprio per questo ha dato vita ad un dialogo sfociato nella formazione dei Cinque di Shanghai, un gruppo permanente formato da Cina, Russia, Kazakistan e Kirghizistan, che ha preso l’impegno di riunirsi una volta all’anno. I Cinque di Shanghai sono diventati in breve tempo un patto ad ampio raggio di carattere militare, economico e di sicurezza. Quando i capi dei cinque paesi si sono riuniti nell’agosto del 1999 a Bishkek, il Miu95 aveva appena lanciato i suoi primi attacchi in Kirghizistan prendendo come ostaggi i quattro geologi giapponesi e creando un enorme imbarazzo per il padrone di casa del summit, il presidente kirghiso Akayev. Il vertice si è trasformato in una sorta di forum per discutere della minaccia del fondamentalismo islamico, della droga e delle armi che si diffondevano dall’Afghanistan lacerato dalla guerra destabilizzando l’intera regione. Alla fine della riunione, i cinque leader hanno firmato un documento comune dichiarando l’intenzione di accrescere la cooperazione per combattere il terrorismo internazionale, il commercio delle droghe, il traffico delle armi, l’immigrazione illegale, il separatismo e l’estremismo religioso. L’anno seguente a Dushambe i Cinque diventano il Forum di Shanghai, con la partecipazione dell’Uzbekistan in qualità di osservatore, anche se non ha confini in comune con la Cina. Il summit concorda per la prima volta di aggiungere una dimensione militare, la creazione di un centro antiterrorismo congiunto a Bishkek per fronteggiare la minaccia del Miu e dei talibani. Il forum è cosi diventato l’alleanza geostrategica più importante della regione. Paesi come l’India, il Pakistan, la Mongolia, la Corea del sud e l’Iran chiedono di aderire, mentre l’Uzbekistan rivendica la partecipazione a pieno titolo. Nel 2001, l’Uzbekistan diventa membro e il Forum cambia nuovamente nome, assumendo quello di Shanghai Cooperation Organization. Obiettivo fondamentale è uno sforzo congiunto per combattere le forze del separatismo, del terrorismo e dell’estremismo96. 2.5 Il sostegno del Pakistan al regime dei talibani È senz’altro interessante notare l’ammontare del sostegno offerto dal Pakistan al nuovo regime insediatosi in Afghanistan. Siamo al 28 giugno del 1998, ad appena un mese dai test nucleari effettuati dal Pakistan, che hanno avuto come risposta pesanti sanzioni punitive, questo ha chiaramente contribuito a peggiorare la profonda depressione che attanagliava il paese già dal 1996. Malgrado questo, il ministero delle Finanze, a corto di denaro liquido, autorizza il pagamento di stipendi per trecento milioni di rupie (sei milioni di dollari) a favore dell’amministrazione talebana di Kabul. Il ministero degli esteri doveva però occultare questo denaro nel proprio budget o in quelli di altri ministeri, così che non apparisse nella registrazione del bilancio 1998-1999 e rimanesse cosi invisibile allo sguardo indiscreto dei donatori internazionali, che chiedevano massici tagli alle spese per salvare l’economia in crisi. Nel 1997-1998 il Pakistan fornì aiuti ai talibani per una cifra stimata in trenta milioni di dollari: fra cui seicentomila tonnellate di grano, diesel, petrolio e cherosene pagate in parte dall’Arabia Saudita; armi e munizioni, bombe, parti di ricambio e di manutenzione per un equipaggiamento militare che risale all’epoca dei sovietici, composto da carri

94 M. E. Ahrari, China, Pakistan, and The “Taliban Syndrome” in Asian Survey, 2000, pp. 658-671. 95 Movimento islamico dell’Uzbekistan, gruppo militante islamico fondato nel 1999 da Tohrir Yuldeshev e Juma Namangani che ha dichiarato il jihad contro il governo dell’Uzbekistan. 96 A. Rashid, Nel cuore dell’Islam, geopolitica e movimenti estremisti in Asia centrale, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 180-183.

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armati e artiglieria pesante; riparazioni e manutenzioni della forza aerea talebana; strutture aeroportuali, costruzioni stradali, energia elettrica per Kandahar e stipendi. Il Pakistan facilitò anche ai talibani l’acquisto in proprio di armi e munizioni dall’Ucraina e dall’Europa orientale. Il flusso di aiuti è un eredità del passato, durante gli anni ’80 fu attraverso l’Isi che passarono i miliardi destinati alla causa dei mujahideen. Questo denaro era stato utilizzato anche per favorire l’enorme espansione dell’Isi, con l’incoraggiamento e il supporto della Cia. Esso arriva a controllare e manovrare centinaia di ufficiali dell’esercito per controllare non solo l’Afghanistan, ma anche l’India e tutti i servizi d’informazione, la politica interna, l’economia, i media e ogni aspetto della vita sociale e culturale del Pakistan. Nel corso degli anni ’90, esso ha mantenuto la sua presa esclusiva sulla politica afghana del Pakistan. Tuttavia, la fine della guerra fredda aveva privato l’Isi dei suoi fondi, inoltre a causa della grave crisi economica in cui versava il paese, il suo budget aveva subito un drastico taglio. Le poche risorse venivano dirottate verso la guerra di logoramento in Kashmir. Durante il secondo mandato del primo ministro Benazir Bhutto, l’ex ministro degli interni, il generale Naseerullah Babar, promosse la causa talebana. Il suo intento era liberare la politica afghana dall’Isi; erano persuasi che l’Isi avesse alimentato il malcontento contro la Bhutto durante il suo primo mandato conclusosi con le dimissioni nel 1990. Inoltre l’Isi in quel momento nutriva dei dubbi sul potenziale dei talibani e continuava a sostenere Gulbuddin Hekmetyar97 e disponeva di poche risorse per finanziare un movimento di studenti afghani. Il compito di Babar fu “civilizzare” il sostegno ai talibani, a tal fine all’interno del ministero degli interni venne creata una cellula per la promozione del commercio afghano, con la mascherata motivazione di coordinare gli sforzi per facilitare una rotta commerciale verso l’Asia centrale, mentre lo scopo effettivo era fornire supporto logistico ai talibani, non più attraverso fondi segreti bensì attingendo ai bilanci dei ministeri. L’ente delle telecomunicazioni pakistana approntò una rete telefonica per il nuovo regime che diventava parte di quella del Pakistan, Kandahar può essere raggiunta via telefono da ogni parte del Pakistan utilizzando il prefisso 081, lo stesso prefisso di Quetta. Ingegneri del dipartimento dei Lavori pubblici e l’autorità per lo Sviluppo dell’acqua e dell’energia si occuparono della riparazione delle strade e della fornitura di elettricità alla città di Kandahar. I Corpi di frontiera, formazioni paramilitari direttamente sotto il controllo di Babar, aiutarono i talibani a installare una rete radio interna per i loro comandanti. La Pakistan International Airlines e l’autorità per l’Aviazione civile inviarono tecnici per la riparazione dell’aeroporto. In seguito alla conquista di Herat nel 1995, gli sforzi del Pakistan si intensificarono. Nel gennaio del 1996, il responsabile della Cellula per lo sviluppo del commercio afghano viaggiò via terra da Quetta al Turkmenistan, accompagnato da funzionari dell’Aviazione civile, di Pakistan Telecom, Pia, Pakistan Railways, Radio Pakistan e Banca nazionale del Pakistan. Nonostante tutti questi sforzi per aiutarli e controllarli, i talibani non furono i fantocci di nessuno e resistettero ad ogni tentativo di Islamabad di manovrarli98. I profondi legami dei talibani con le istituzioni statali, i partiti politici, i gruppi islamici, la rete delle madrasa, la mafia della droga e i gruppi dei traffici e dei trasporti dl 97 Comandante afghano, fondatore del Hizb-i-islami, Partito dell’Islam, il partito più estremista dei mujahideen, fondato per resistere all’invasione sovietica dell’Afghanistan. 98 Per tutto il corso della storia afghana, nessuno stato esterno è stato in grado di manipolare gli afghani, come hanno appreso a proprie spese inglesi e sovietici. Il Pakistan sembra non abbia imparato nessuna lezione dalla storia e vive ancora nel passato, quando il denaro della Cia e dell’Arabia Saudita gli davano la forza per padroneggiare il corso della jihad. Inoltre i legami sociali, economici e politici dei talibani con le terre pashtun al confine con il Pakistan sono fortissimi, forgiati attraverso secoli di guerra e di vita da profughi in Pakistan.

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Pakistan si sono sviluppati quando la struttura di potere del paese era scollegata e frammentata. Ciò ha consentito ai talibani di non sentirsi legati a una singola lobby pakistana99, questo accesso senza precedenti gli ha consentito di contrapporre una lobby all’altra e di estendere ancora di più la loro influenza in Pakistan. In alcune circostanze hanno potuto sfidare l’Isi servendosi dell’aiuto dei ministri del governo o della mafia dei trasporti; altre volte si sono addirittura rivolti contro il governo federale con il sostegno dei governi provinciali del Baluchistan e della Provincia della Frontiera di nord-ovest. Mentre il movimento di talibani si estendeva, diventava sempre più inesplicabile comprendere se fossero i pakistani a dirigere i talibani o se invece accadesse il contrario. Il Pakistan anziché essere il padrone dei talibani, stava in realtà diventandone vittima. Il regime degli studenti fu estremamente abile nello sfruttare la questione kashmira, obiettivo determinante della politica pakistana verso l’Afghanistan, essi sapevano che Islamabad non avrebbe potuto negare loro nulla finché avessero continuato a fornire basi ai militanti kashmiri e pakistani. “Noi sosteniamo la jihad in Kashmir” dichiarò il mullah Omar nel 1998. Aggiunse inoltre, “E’ anche vero che alcuni afghani stanno combattendo contro le forze di occupazione indiane in Kashmir, ma questi afghani lo stanno facendo per conto proprio.”100 Il motivo effettivo del sostegno a questo regime, è intrinsecamente legato al concetto di “profondità strategica”101 contro l’India il suo nemico da sempre. La conformità geografica del Pakistan, allungata, unita alla mancanza di spazio, profondità e retroterra, non permetteva alle sue forze armate di combattere una guerra di lunga durata con l’India. Un Afghanistan amichevole avrebbe permesso ai militanti kashmiri di avere una base in cui addestrarsi, finanziarsi e armarsi. I militari pakistani, ritenevano inoltre che i talibani avrebbero riconosciuto la Durand Line, secondo loro quest’ultimi avrebbero tenuto a bada il nazionalismo pashtun e avrebbero fornito uno sbocco per i radicali islamici del Pakistan, prevenendo un movimento islamico interno. In realtà è accaduto esattamente il contrario, essi non solo non hanno riconosciuto la Durand Line ma hanno anche fomentato il nazionalismo islamico pashtun, allo scopo di estendere la propria influenza sui pashtun pakistani. Il trionfo dei talibani, ha eliminato il confine fra Pakistan e Afghanistan, su entrambi i fronti, le tribù pashtun stanno scivolando verso il fondamentalismo sempre più implicate nel traffico della droga e stanno guadagnando autonomia. Il riflusso dell’Afganistan porta alla “talebanizzazione” del Pakistan. Paradossalmente non è l’Afghanistan ad offrire profondità strategica al Pakistan, ma esattamente il contrario. Mentre le critiche dalla comunità internazionale crescevano, il neoeletto governo di Nawaz Sharif e l’Isi resero ancora più esplicito il loro sostegno ai talibani. Il Pakistan reagì attaccando coloro che lo criticavano, compresa l’Onu, contraria a qualsiasi appoggio al regime. L’ambasciatore del Pakistan all’Onu, Ahmad Kamal, dichiarò nel gennaio del 1998 “L’Onu si è progressivamente defilata in Afghanistan e ha perso di credibilità come madiatore imparziale” in un'altra circostanza affermò che non era il Pakistan a essere isolato in Afghanistan, ma il resto del mondo a essersi isolato dal

99 Negli anni ’80, I capi mujahideen avevano rapporti esclusivi con l’Isi e con il JI ma nessun contatto con altre lobby politiche ed economiche, viceversa i talibani godevano di un accesso a numerosi gruppi e lobby influenti in Pakistan. 100 Yousufzai, Rahimullah, “We have no intention of exporting jihad”, in News, 19 agosto 1998. 101 Per molti il concetto di profondità strategica è minato da interpretazioni erronee e idée sbagliate perchè non tiene conto di alcune ovvie realtà di fondo: più che dai fantasiosi miraggi della profondità strategica fra le montagne afghane, la sicurezza nazionale dipende dalla stabilità politica interna, dallo sviluppo economico, dall’alfabetizzazione diffusa e dalle relazioni amichevoli con i vicini. Il conseguimento della “profondità strategica” è stato un obiettivo primario della politica afgana del Pakistan dai tempi del generale Zia.

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Pakistan e che alla fine tutti avrebbero dovuto accettare la posizione del Pakistan sull’Afghanistan. Fornendo questo ostentato appoggio, incurante delle critiche internazionali, il governo perdeva di vista i suoi interessi. Il commercio clandestino verso e dall’Afghanistan rappresento la manifestazione più desolante di questa crisi. Il contrabbando che oggi si estende all’Asia centrale, all’Iran e al Golfo Persico, rappresenta una perdita paralizzante di entrate per tutti questi paesi, ma in particolare per il Pakistan, la sua industria locale è stroncata dall’introduzione clandestina di beni di consumi esteri. Quello che è definito Afghan Transit Trade è di fatto il più grande racket clandestino del mondo che coinvolge i talibani, i trafficanti pakistani, i trasportatori, i politici e gli ufficiali dell’esercito e della polizia. Questo commercio, metteva a repentaglio le economie degli stati confinanti e fu la principale fonte di entrate per i talibani102. Tutto questo Far West del libero commercio si estendeva a causa della guerra civile in Afghanistan, del business della droga, del collasso e della corruzione delle istituzioni pakistane, iraniane e degli stati dell’Asia centrale lungo i confini con l’Afghanistan. Da ciò dipendeva la necessità di generi di consumo in tutto la regione, le mafie dei trasporti e della droga si allearono per alimentare questo bisogno, la situazione era totalmente fuori controllo. Il commercio ha da sempre rappresentato un aspetto importante nei paesi islamici. La Via della Seta che nel Medioevo collegava la Cina all’Europa attraverso l’Asia centrale e l’Afghanistan era controllata dagli stessi autisti di camion di oggi, appartenenti alle stesse tribù. La sua influenza è stata enorme, poiché le carovane non trasportavano soltanto generi di lusso, ma idee, religioni, nuove armi e scoperte scientifiche. Il Pakistan è la prima vittima di questo traffico. La Commissione centrale delle entrate stima una perdita delle entrate doganali di tre miliardi e mezzo di rupie (ottanta milioni di dollari) nell’anno finanziario 1992-1993, undici miliardi di rupie nel 1993-1994, ventimiliardi di rupie nel 1994-1995 e trenta miliardi di rupie (seicento miliardi di dollari) nel 1997-1998. l’impressionante incremento annuo rifletteva l’espansione del talibani. Un enorme nucleo di corruzione emergeva in Pakistan a causa dell’Att103. Tutti gli organismi pakistani prendevano tangenti. Il sistema era esteso in maniera capillare, il sistema si estendeva ai politici e ai ministri di gabinetto in Baluchistan e nella Provincia della frontiera di nord-ovest. I mercati clandestini di queste due provincie in particolar modo, furono inondati di beni di consumo, con gravi perdite per l’industria pakistana. Il Pakistan, che produceva in proprio i suoi condizionatori d’aria, ne importò dall’estero per un valore di trenta milioni di rupie. L’Afghanistan, un paese all’epoca del tutto

102 Il posto di frontiera tra Chaman nella provincia del Baluchistan e Spin Baldak in Afghanistan era un punto di osservazione privilegiato per osservare le mosse del racket. In una buona giornata transitavano circa trecento camion. Autisti, doganieri pakistani e talibani si mescolavano in modo casuale e amichevole scolandosi una tazza di te dietro l’altra mentre lunghe file di camion aspettavano di passare. Tutti sembravano conoscere tutti mentre gli autisti raccontavano storie; molte delle enormi Mercedes e dei camion Bedford erano rubati e avevano targhe false; le merci non erano fatturate, gli autisti potevano attraversare fino a sei frontiere internazionali con patenti false e senza permessi di transito o passaporti. La merce andava dalle videocamere giapponesi alla biancheria intima inglese e al tè Earl Grey, dalla seta cinese a parti di computer americani, dall’eroina afghana al grano e allo zucchero pakistani, dai kalashnikov dell’Europa dell’est al petrolio iraniano. Nessuno pagava diritti di dogane o imposte. 103 Nel 1950, sulla base di accordi internazionali, il Pakistan ha dato all’Afghanistan, privo di sbocchi al mare, il permesso di importare merci esenti da dazio attraverso il porto di Karachi, questo accordo si chiama Att. I camionisti partivano da Karachi con i loro container sigillati, entravano in Afghanistan, vendevano alcuni beni a Kabul e poi deviavano per rivendere il resto sui mercati pakistani, era un business fiorente ma limitato che dava ai pakistani la possibilità di accedere ai beni di consumo stranieri esenti da dazio e a prezzi bassi. L’Att si è esteso negli anni ’80, servendo le città dell’Afghanistan controllate dai comunisti. La caduta di Kabul nel 1992 coincise con l’apertura di nuovi mercati in Asia centrale e con la nuova necessità di generi alimentari, carburante e materiali da costruzione dovuta al rimpatrio dei profughi afghani.

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privo di elettricità, importò attraverso l’Att condizionatori d’aria per un valore di un miliardo di rupie, questi finivano tutti nei mercati clandestini pakistani, indebolendo i produttori locali. I consumatori messi a scegliere fra elettrodomestici giapponesi allo stesso prezzo di quelli fabbricati in Pakistan, sceglievano quelli giapponesi. Questo appoggio quasi incondizionato e anzi ormai fuori controllo, fece del Pakistan agli occhi del mondo uno stato fallito o sull’orlo del fallimento, al pari dell’Afghanistan, del Sudan o della Somalia. Per stato fallito non si intende uno stato moribondo, anche se potrebbe esserlo; uno stato fallisce quando i ripetuti insuccessi delle politiche perseguite da un elite in bancarotta non sono mai considerati come un motivo sufficiente per metterle in discussione104. 2.6 L’ Asia centrale e i suoi legami con il Pakistan Nel 1996, vennero terminati i lavori di costruzione del nuovo imponente aeroporto internazionale nella città di Ashkhabad, capitale del Turkmenistan. Questa infrastruttura, enorme e sfarzosa risponde all’esigenza di accogliere il previsto flusso di aerolinee occidentali, verso questa regione ricca di gas e petrolio. Nel giro di pochi mesi però venne chiuso, perché non si riusciva a sostenerne i costi di mantenimento. Nel 1995, a Sarakhs, al confine tra Turkmenistan e Iran, venne completata una nuova stazione ferroviaria estremamente elegante, con pareti e biglietterie di marmo. Questa è la prima via di comunicazione diretta fra l’Asia centrale e i paesi musulmani a sud. Anch’ essa non conobbe però il flusso sperato, restando per la maggior parte del tempo chiusa. Le vie di comunicazione con il mondo esterno costituiscono la priorità assoluta per le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Aeroporto e stazione, monumenti all’eccesso sono opera del presidente turkmeno Saparmurad Niyazov, obiettivo del presidente era fare del suo paese il nuovo Kuwait. Il problema di questi paesi è rappresentato dalla difficoltà che incontra nel far giungere le sue ricchezze, petrolio e gas nei mercati esterni. Essi sono infatti privi di sbocchi sul mare e circondati da potenze invidiose ed ostili: Russia, Iran, Afghanistan e Uzbekistan. Il loro obiettivo resta la costruzione di oleodotti che pongano fine al loro isolamento, liberandoli dalla dipendenza economica dalla Russia, per settant’anni, tutte le loro vie di comunicazione, strade, linee ferroviarie e oleodotti, furono costruite verso la Russia. Adesso è necessario orientarsi verso il Mar Arabico, l’Oceano Indiano, il Mediterraneo e la Cina. Malgrado le previsioni iniziali sull’effettiva disponibilità di petrolio si siano ridimensionate, la regione caspica rimane l’ultima regione ricca di petrolio ancora non sfruttata e inesplorata, questo ha provocato una febbrile eccitazione fra le compagnie petrolifere internazionali. La corsa al petrolio delle grandi potenze e l’impegno per l’influenza nella regione caspica riportano alla situazione in Medio Oriente negli anni ’20. L’Asia centrale è oggi un complesso ginepraio di interessi contrastanti, le grandi potenze come Russia, Cina e Stati Uniti, i vicini Iran, Pakistan, Afghanistan e Turchia nonché i giocatori più potenti in assoluto, le compagnie petrolifere, competono in quello che è stato definito il “Nuovo grande gioco”. Cosi come il Grande Gioco della fine del diciannovesimo secolo, anche questo si svolge fra imperi che si espandono e si restringono: mentre una Russia indebolita e in bancarotta tenta di serrare la presa su quelle che ancora considera le sue frontiere in Asia centrale e cerca di mantenere il controllo del flusso del petrolio caspico attraverso gli oleodotti che passano per il suo territorio; gli Stati Uniti tentano

104 A. Rashid, op. cit. pp. 223-236.

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di spingersi nella regione con un disegno di oleodotti petroliferi che dovrebbero escludere la Russia. Iran, Turchia e Pakistan stanno costruendo le loro vie di comunicazione con la regione con l’intento di tracciare un percorso preferenziale per i futuri oleodotti a est, ovest o sud. La Cina vuole assicurare stabilità alla sua regione irrequieta dello Xinjiang, come abbiamo già sottolineato popolata dagli stessi gruppi etnici musulmani che abitano l’Asia centrale. Inoltre deve reperire energia necessaria per alimentare la sua rapida espansione economica ed espandere la sua influenza politica in una regione di confine critica. Su tutto questo incombe l’agguerrita competizione tra le compagnie petrolifere americane, europee e asiatiche. Ma analizziamo ora gli intricati rapporti che legano questa regione al paese da noi preso in considerazione, anche in relazione al fatto che il Pakistan, potrebbe rappresentare per essi quello sbocco al mare, per loro cosi importante, peccato però che quest’eventualità sia allontanata da rapporti caratterizzati da una diffusa diffidenza reciproca. I leader dell’Asia centrale ritengono l’Isi responsabile di aver sostenuto fino a poco tempo fa il Miu e altri gruppi radicali nei loro paesi. Costoro non dimenticano che negli anni ’80, quando si trovavano sotto il regime sovietico, il regime pakistano del presidente Muhammad Zia ul Haq spinse i mujahideen afghani ad attaccare l’Asia centrale e che per questo scopo la Cia fornì le armi ai mujahideen tramite l’Isi. L’avversione di questi leader verso ogni forma di pratica di devozione islamica, anche la più pacifica, nasce in conseguenza alla guerra afghana, allorché il Pakistan era schierato dall’altra parte. Il successivo sostegno a talibani e pashtun, e il ripudio, da parte del presidente Musharraf di tutti i gruppi etnici non pashtun in Afganistan come irrilevanti per gli interessi del Pakistan105, hanno ulteriormente inasprito i rapporti con i leader asiatici. Questa politica, quasi miope, ha ulteriormente allontanato i vicini settentrionali dal Pakistan. Malgrado il governo pakistano abbia svariate volte rassicurato i leader dell’Asia centrale in merito al porre un freno al sostegno fornito dall’Isi ai partiti islamici del Pakistan, ai talibani e ad altri gruppi militanti centroasiatici, proibendo inoltre ai militanti dell’Asia centrale di studiare nelle madrasa pakistane, Islamabad non ha mai messo in pratica queste promesse, sia per salvaguardare i suoi interessi sia per non generare il malcontento della componente islamica all’interno del paese. Cosi, militanti centroasiatici e uiguri hanno continuato a riversarsi nelle numerosissime madrasa presenti nel paese. Il Pakistan sperò che la rinascita islamica in Asia centrale e la guerra civile in Tagikistan potessero spazzare via l’attuale generazione di leader centroasiatici formatisi con i sovietici. Mentre i governi militari estendono l’idea di profondità strategica all’Asia centrale come corollario naturale alla loro politica in Afghanistan, i governi civili cercano di seguire politiche più positive e di stringere legami economici con l’Asia centrale. Nel 1991 il governo di Nawaz Sharif si propose di instaurare una nuova relazione con l’Asia centrale, basata sul commercio, il trasporto degli idrocarburi, gli investimenti e uno sviluppo economico congiunto. Questo piano, era sicuramente sensato, Karachi è la città più prossima per gli stati centroasiatici e Islamabad è più vicina a Tashkent che a Karachi. La distanza tra Dushanbe e Karachi, per via terra, è di soli 2700 chilometri contro i 3420 per il porto iraniano di Bandar Abbas, i 4225 per Rostov sul Don nella Russia occidentale, e i 9560 per Vladivostok nella Russia orientale.

105 Durante una conferenza stampa che si tenne e Islamabad il 25 marzo del 2000, il capo dell’esecutivo pakistano (poi presidente), generale Pervez Musharraf, ha fornito una spiegazione dei motivi per cui il Pakistan continuava ad appoggiare i talibani. Egli spiegò che alla luce del modello demografico e geografico, la maggioranza etnica pashtun dell’Afghanistan “deve essere dalla nostra parte. Questo è il nostro interesse nazionale. Al momento i pashtun sono rappresentati dai talibani, quindi questi non possono essere respinti dal Pakistan” e aggiungeva: “Questa è una questione di interesse nazionale”.

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Per realizzare questo ottimo progetto non serviva che la pace in Afghanistan, ma l’Isi si contrapponeva a questo esito, i partiti islamici pakistani, dal canto loro vedevano nell’Asia centrale un territorio vergine, ideale in cui immettere la loro corrente di islamismo. Il qazi Hussein Ahmad, capo del JI, sollecitò Sharif affinché fornisse una guida islamica piuttosto che un aiuto economico all’Asia centrale. Quando nel 1994, comparirono i talibani, terminarono le speranze di stringere legami produttivi con l’Asia centrale. Questa volta però, non è l’Isi a dare il colpo di grazia a questo possibile nuovo rapporto con l’Asia centrale, bensì Benazir Bhutto, la leader più liberare e laica della storia recente del Pakistan. Costei, anziché favorire il processo di pace in Afghanistan, sostenne il regime, seguendo una linea azzardata e arrogante che mirava a creare una nuova rotta, per le pipeline e i traffici commerciali, che puntava a occidente , dal Turkmenistan attraverso il sud dell’Afghanistan per giungere infine in Pakistan. Garantire la sicurezza di questo commercio era compito dei talibani. Il fatto che il Pakistan non prendesse in considerazione l’Asia centrale a favore del Turkmenistan, appoggiando contemporaneamente i talibani in Afghanistan, originò un ulteriore apprensione tra i leader centroasiatici nei confronti degli intenti pakistani. Secondo molti l’Isi sostiene il Miu, poiché vede in esso una forza che seppur non sufficientemente stabile da prendere il potere in Uzbekistan, può essere utile a scompaginare la leadership centroasiatica. Ma il Pakistan prevede un riavvicinamento con l’Asia centrale agendo da mediatore fra i regimi centroasiatici e il Miu, ancora una volta il Pakistan cerca di servirsi dei partiti islamici, in questo caso per far leva in Asia centrale. Nonostante il Pakistan continui a sconfessare il suo appoggio al Miu, fino all’11 settembre il regime militare ha mostrato di seguire un cammino in cui intratteneva rapporti amichevoli con i governi centroasiatici e contemporaneamente appoggiava gruppi dissidenti come il Miu, allo scopo di accrescere la sua influenza su quei regimi. Lo scopo di Islamabad era sostituire la dirigenza centroasiatica con una generazione di leader più orientati all’Islam, che cercherebbero appoggio più verso il Pakistan che l’India o la Russia106. 2.7 Le conseguenze dell’11 settembre L’11 settembre 2001, due aerei civili si sono schiantati sulle torri del World Trade Center107 a Manhattan e un terzo sul Pentagono, tutto ciò avvenne poco prima delle nove del mattino ora locale, diciotto minuti più tardi un altro aereo, un bireattore, ha centrato la seconda Twin Tower. Un quarto aereo, un Boeing 767108 della United Airlines 93 diretto da Newark, nei pressi di New York, a San Francisco, cadeva vicino a Pittsburg, in Pennsylvania109. L’attacco dell’11 settembre sia a causa dell’alto numero di morti che per il forte significato simbolico, è stato paragonato a Pearl Harbor. Gli Usa si sono sentiti vulnerabili, attaccati nel loro territorio, cosa alla quale come ben sappiamo sono poco abituati, infatti per la prima volta hanno compreso che anche il loro territorio può essere minacciato.

106 A. Rashid, op.cit. pp. 188-193. 107 In questo edificio lavoravano circa cinquantamila persone, si componeva di due torri gemelle, al secondo posto nella graduatoria degli edifici più alti del mondo. Ogni giorno il centro ospitava circa settantamila visitatori. Inaugurato nel 1970, venne costruito con duecentomila tonnellate di acciaio che, sottoposte a uno spaventoso calore generato dal carburante dei velivoli utilizzati per l’attentato, si sono sciolte nel lasso di un ora. 108 La scelta degli aerei non è stata casuale, infatti i Boeing 757 e 767 dirottati sono tra i velivoli più diffusi al mondo e sono dunque moltissimi i paesi a poter vantare uomini in grado di pilotarli. 109 Sembra che questo aereo sia caduto in seguito alla ribellione dei passeggeri che, avendo compreso le intenzioni dei dirottatori, avrebbero lottato tenacemente evitando cosi che il velivolo centrasse il bersaglio.

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Oltre alle perdite in vite umane e al diffuso senso di insicurezza, ne ha risentito anche lo sconfinato ottimismo nei confronti del mercato, capace di ripristinare tutti gli equilibri politici, economici e militari, questo ha provocato un irrigidimento del versante commerciale. Subito dopo i drammatici attentati, il presidente Bush, in un discorso in diretta alla nazione, affermò che l’attentato alle Torri Gemelle era da ricondurre a un attentato terroristico, facendo intendere che la responsabilità sarebbe ricaduta sull’estremista Osama bin Laden e la sua organizzazione internazionale al-Qaeda110. Per gli Usa, egli afferma sarà “un conflitto senza campi di battaglia né teste di sbarco”.111 Il 14 settembre il Congresso degli Stati Uniti conferì al presidente i pieni poteri di impiegare tutta la forza militare che riteneva opportuno per combattere il terrorismo internazionale112. Ciò segnò l’inizio dell’operazione “Libertà Duratura”, diretta contro i covi afghani che addestravano e nascondevano il creatore del terrorismo islamico globale, bin Laden. Bisogna però ricordare che il 17 agosto 2001, ossia un mese prima dell’attentato delle Twin Towers, il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel suo rapporto quadrimestrale su “la situazione in Afghanistan e le sue implicazioni per la pace e la sicurezza internazionali” denunciò il pericolo rappresentato da al-Qaeda, questo venne presentato al Consiglio di Sicurezza cosi come stabilito da una risoluzione del dicembre 2000. Malgrado la chiarezza e l’eloquenza delle parole di Kofi Annan, la comunità internazionale non prese alcun provvedimento e l’attività di addestramento dei terroristi di al-Qaeda continuò: da questo hub prese avvio la preparazione dell’attentato alle Twin Towers e al Pentagono dell’11 settembre 2001; ma questa è un'altra storia ed esula dallo scopo della nostra analisi. Le conseguenze immediate degli attacchi, si palesarono in particolare in Pakistan e Afghanistan. Gli attacchi diminuirono la volontà degli Stati Uniti, di migliorare i rapporti con l’India. In seguito all’implosione dell’Unione Sovietica, il Pakistan venne relegato nel quadro internazionale, e specialmente nell’ambito della politica estera statunitense. Questo dipendeva dalla scelta di rispondere ai test nucleari indiani nel 1998, alla sua disastrosa violazione della LoC che causò la guerra di Kargil, nonché al colpo di stato militare del generale Musharraf; tutti questi fattori gli originarono la disapprovazione e l’isolamento da parte del resto della comunità internazionale. A tutto ciò, si univa il miglioramento della situazione dell’India. Ma ecco che finalmente il fato, riserva un asso nella manica alla politica estera pakistana. La guerra ai talibani in Afghanistan la caccia a Osama bin Laden, fece nuovamente del Pakistan un “utile alleato” nella guerra degli Stati Uniti al terrorismo di matrice islamica. In questo nuovo contesto, grazie alla sua posizione geografica e al ruolo che avrebbero potuto svolgere i leader di partiti come il JUI esso tornò ad essere un buon alleato. Qualsiasi sortita aerea sull’Afghanistan dalle portaerei o dalle basi aeree degli Stati Uniti a Diego Garcia nell’Oceano Indiano avrebbero dovuto sorvolare il territorio pakistano, e ciò chiaramente richiedeva l’approvazione del Pakistan.

110 Utilizzando l’immensa ricchezza della sua famiglia, Osama bin Laden aveva dato vita ad una serie di campi di addestramento in Afghanistan durante l’invasione sovietica, verso la fine degli anni ’80 costituì un database, in cui erano iscritti tutti i volontari che avevano partecipato alla jihad e che erano stati addestrati nei suoi campi. Ciò diede vita ad una struttura organizzata intorno a un archivio elettronico che in arabo prende il nome di al-Qaeda (la base). 111 F. Alunni, op.cit., pp. 155-162. 112 La decisione venne adottata dal Senato e dalla camera quasi all’unanimità, abilitando l’amministrazione Bush a “utilizzare tutta la forza necessaria e appropriata contro le nazioni, organizzazioni o persone che si ritiene abbiano pianificato, autorizzato, commissionato o appoggiato gli attentati verificatisi nel settembre 2001, allo scopo di prevenire ogni atto futuro di terrorismo internazionale contro gli Usa da parte di tali organizzazioni o persone”

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L’appoggio fornito dal Pakistan agli Stati Uniti, come è logico sortì numerose proteste in patria, come più volte sottolineato gli abitanti della Provincia della frontiera di nord-ovest, appartengono alla stessa etnia dei talibani. I principali oppositori della politica di appoggio furono il JI e il JUI. Anche membri chiave dell’Isi lavorarono attivamente per ledere i rapporti con gli Usa. Anche alcuni scienziati del programma nucleare parvero simpatizzare per i talibani. Musharraf fu quasi costretto ad optare per il sostegno agli Stati Uniti poiché il suo regime era ormai accerchiato. Il debito estero del Pakistan ammontava a 38 miliardi di dollari e la possibilità che lo stato potesse estinguere il debito era assai remota. Inoltre il regime di Musharraf non era mai riuscito a ottenere legittimità interna e internazionale. Oltre a queste considerazioni, il Presidente considerò che se avesse negato il suo sostegno probabilmente gli Stati Uniti avrebbero intessuto maggiori e più saldi legami con New Delhi e lo stesso Pakistan sarebbe potuto diventare un possibile obiettivo, in virtù del suo sostegno ai talibani e al suo supporto agli insorti kashmiri113.

113 S. Ganguly, op.cit., p.168.

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CAPITOLO III IL NEMICO DI SEMPRE

Premessa Internazionale del 25 ottobre 2007, dedica la copertina al “gasdotto della pace”; l’articolo 6 del Trattato di non proliferazione nucleare impone agli stati di negoziare per eliminare definitivamente le bombe atomiche. Nessuno dei paesi in possesso di armi nucleari l’ha mai fatto. In prima fila gli Stati Uniti, il 27 luglio Washington ha stipulato con l’India un accordo che contraddice apertamente la parte centrale del sopra citato Trattato. L’India, come Israele e il Pakistan (ma non l’Iran) non hanno firmato il Trattato. L’accordo viola la legislazione statunitense e scavalca il Nuclear suppliers group, il gruppo di 45 paesi che ha stipulato una normativa rigorosa per ridurre i rischi di proliferazione. Daryl Kimball, direttore esecutivo dell’Arms control association, osserva che l’accordo non impedisce all’India di compiere ulteriori esperimenti nucleari e cosa incredibile, Washington si impegna ad aiutare New Delhi ad assicurarsi forniture di combustibile da altri paesi, anche nel caso che l’India riprenda gli esperimenti. Chiaramente questo rappresenta una violazione diretta degli accordi internazionali in materia di non proliferazione114. La stipula di questo accordo, potrebbe portare altri paesi a violare le regole. Il Pakistan, ad esempio in continua rincorsa verso l’India, risponde secondo voci non del tutto certe con la costruzione di un reattore per la produzione di plutonio da usare nelle armi atomiche; nel mentre Israele fa pressione sul Congresso americano per ottenere privilegi analoghi a quelli dell’India. Dietro l’accordo di luglio ci sono varie motivazioni, militari e commerciali, ma la prima ragione è strategica: isolare l’Iran. Kimball osserva che gli Stati Uniti, accordano all’India “condizioni commerciali più favorevoli di quelle riconosciute a paesi che rispettano tutti gli obblighi” imposti dal Trattato. Washington ricompensa gli alleati e i clienti che ignorano le disposizioni del Trattato di non proliferazione, ma al tempo stesso minaccia di fare guerra all’Iran, che a quanto risulta non l’ha mai violato. In questi ultimi anni India e Pakistan hanno fatto grandi passi per rallentare le tensioni bilaterali. Sono stati incoraggiati i contatti fa i due popoli e i governi hanno avviato colloqui sulle numerose questioni ancora aperte. Sono sviluppi promettenti che rischiano di essere vanificati dall’accordo nucleare fra Stati Uniti e India. Uno dei mezzi proposti per creare fiducia nella regione era un gasdotto che dall’Iran, attraversando il Pakistan, arrivasse in India. Il “gasdotto della pace”, cosi era noto, avrebbe costituito un elemento di coesione della regione e avrebbe aperto nuove possibilità di integrazione. Ma Washington non lo vuole, perché preferisce isolare il nemico iraniano, e offre all’India il nucleare in cambio del gas iraniano perduto. Nel 2006 il Congresso americano ha approvato lo Hyde Act, un provvedimento legislativo che impegna il governo “a garantire la piena e attiva partecipazione dell’India agli sforzi intrapresi dagli Stati Uniti per dissuadere, isolare e se necessario, sanzionare e contenere l’Iran per i suoi tentativi di dotarsi di armi di distruzione di massa.” Vale la pena ricordare che la grande maggioranza degli americani e degli iraniani è favorevole a trasformare il Medio Oriente in una regione libera dalle armi atomiche. Inoltre la risoluzione numero 687 adottata il 3 aprile 1991 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, cui Washington si richiamava quando cercava una giustificazione per

114 http://italian.cri.cn/364/2005/09/20/[email protected].

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invadere l’Iraq, sostiene la creazione nel Medio Oriente di una zona libera da armi di distruzione di massa e da tutti i missili usati per lanciarle115. 3.1 Operazione Brasstascks Per Zia poter godere del sostegno degli Stati Uniti, grazie al ruolo svolto nel conflitto afghano significava sentirsi in una posizione di forza e fruttare di conseguenza le debolezze dell’India. Cosi alla fine degli anni’80, quando l’insurrezione dei sikh raggiunse livelli ragguardevoli nel Punjab indiano, Zia sostenne segretamente gli insorti, in modo che l’insurrezione avesse costi ancora maggiori per New Delhi. Il Punjab indiano era cosi infiammato da continui disordini e violenze, che costavano quotidianamente una perdita di vite umane, il tutto abilmente manipolato dai pakistani. Fu proprio in questo clima che l’India tenne un esercitazione militare chiamata in codice “Brasstascks”, essa era stata ideata dal generale Krishnaswami Sundarji, il dotato e spregiudicato capo di Stato maggiore dell’esercito indiano, il fine era sia militare che politico. A livello militare doveva verificare la prontezza operativa delle varie unità meccanizzate appena istituite, doveva verificare l’effettiva fattibilità del sistema di comando, controllo e informazione disegnato su base nazionale, infine doveva accertare l’impatto della nuova strategia di deterrenza convenzionale concepita dallo stesso Sundarji116. L’esercitazione era ovviamente carica anche di significato politico. L’atteggiamento pakistano di sostegno agli insorti in Punjab aveva inasprito i decision-makers indiani, e alcuni di loro ritenevano necessario che il Pakistan sapesse che nonostante l’India fosse impegnata nella repressione degli insorti in Punjab, il suo esercito era ancora in condizioni di infliggere considerevoli sconfitte militari al Pakistan. Innegabile dunque il contenuto intimidatorio dell’esercitazione. La portata di questa operazione fu senza precedenti nella storia dell’India indipendente, era infatti comparabile alle esercitazioni della NATO o del Patto di Varsavia durante la guerra fredda, oltre alla sua gittata, mutata e pregna di significato era la direzione, fu tenuta infatti non sul solito asse nord-sud nello stato del Rajastan, bensì sull’asse est-ovest, puntando dunque verso il Pakistan. Islamabad fu estremamente scossa sia dall’ampiezza che dalla posizione geografica dell’esercitazione. Inoltre quando il Primo ministro Khan Junejo cercò di reperire informazioni sulle dimensioni della stessa da parte di Rajiv Gandhi ricevette solo informazioni elusive e dati non accurati. Non riuscendo a leggere i fatti in maniera chiara, la risposta pakistana fu l’ampliamento delle esercitazioni militari che avevano in programma, “Saf-e-Shikan” e “Flying Horse”. Questo significa che anche dopo il completamento delle loro esercitazioni, pianificate per il novembre e dicembre 1986, le forze pakistane non ritornarono ai loro acquartieramenti di pace, ma rimasero su posizioni di combattimento vicino alla frontiera indo pakistana. Anche l’aviazione pakistana rimase in stato di allerta dopo il completamento della sua esercitazione “Highmark”. Come in un domino, un’azione comporta sempre una reazione a catena, dunque il mantenimento dello schieramento delle divisioni corazzate pakistane causò notevoli preoccupazioni a New Delhi, i motivi del suo allarme erano grosso modo tre: in primo luogo, le forze pakistane erano disposte in modo tale che con un movimento a tenaglia, avrebbero potuto isolare le loro controparti indiane in zone strategiche; in secondo luogo, una dimostrazione di forza pakistana lungo le sensibili aree di frontiera del

115 N. Chomsky, Cinismo atomico, in Internazionale, Ottobre 2007, pp.17-26. 116 Riprendeva la strategia statunitense della deterrenza. Era composta da tre componenti: le capacità militari richieste per dissuadere un avversario dall’intraprendere un’azione ostile, i mezzi per comunicare efficacemente l’esistenza di queste capacità all’avversario e la volontà politica necessaria per usare questa forza.

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Punjab avrebbero potuto incoraggiare i terroristi khalistani117 che avrebbero potuto credere in un sostegno militare vero e proprio. Infine ma non per questo meno importante, le forze pakistane avrebbero potuto interdire lo stesso accesso al Kashmir. La crisi esplose a metà gennaio, quando le fonti di informazione indiane appresero che le forze pakistane non erano tornate alle posizioni di partenza dopo le esercitazioni, ma si erano mosse verso posizioni di frontiera nel Punjab e nel Kashmir. Temendo un attacco pakistano, l’India decise di rispondere allo stesso modo e mosse truppe in posizioni avanzate nel Punjab e nel Kashmir. Per fine gennaio queste mosse e contromosse avevano posto i due paesi su una direttrice di scontro. La crisi fu scongiurata, grazie ai colloqui che si tennero dal 31 gennaio al 4 febbraio, i quali portarono al mutuo scambio d proposte per disinnescare la crisi e definire un insieme di misure atte alla costruzione della fiducia e della sicurezza reciproche per evitare tensioni future. L’aspetto di maggior rilievo di questo potenziale conflitto, fu un intervista rilasciata da Abdul Quadir Khan, uno dei più importanti scienziati nucleari pakistani, il 28 gennaio a Kuldip Nayar, noto giornalista indiano. In quest’intervista egli affermò: “Nessuno può disfare il Pakistan o considerarci remissivi. Noi siamo qui per restare e sia chiaro che useremo la bomba se la nostra esistenza viene minacciata.118” Gli indiani interpretarono questa intervista come un allusione a possibili armamenti nucleari e quindi come l’inizio di una nuova epoca per la presenza e il ruolo delle armi atomiche nell’Asia meridionale. Ad onore del vero, in seguito Abdul Qhadir Khan sostenne di essere stato indotto a fare una tale affermazione. Ancora una volta si riscontra il problema dell’analisi delle fonti, infatti la documentazione risente dell’origine geografica dell’autore, trovare imparzialità nelle fonti rispetto alle dinamiche fra i due paesi non è cosa semplice; infatti da parte pakistana si parla solo di capacità nucleare ormai acquisita. In seguito all’accordo di Simla119, l’Asia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità, dovuto all’avvenuta presa di coscienza da parte pakistana delle proprie carenze militari, inoltre la leadership pakistana si trovò a dover affrontare prettamente, problemi di politica interna. Vi era ormai la consapevolezza della superiorità militare dell’India nelle armi convenzionali che rendeva la possibilità di un conflitto minima. La stabilità si concluse alla fine del decennio. Il punto di svolta critico per le vicende del Kashmir si ebbe in seguito alle elezioni locali del 1987. Queste elezioni videro l’alleanza fra Farooq Abdullah120 e il Partito del

117 Il termine Khalistan, significa letteralmente “terra del puro”ed era il nome dato dagli insorti allo stato nazionale indipendente che volevano creare con la secessione dell’India. 118 “The Observer”, 1° marzo 1987. 119 Accordo di Simla, 2 luglio 1972, “I due governi hanno risolto che i due paesi pongano fine al conflitto e al confronto che hanno finora danneggiato le loro relazioni e il lavoro per la promozione di una relazione amichevole e armoniosa e l’instaurazione di una pace duratura nel subcontinente, cosi che i due paesi possano d’ora in poi dedicare le proprie risorse e le proprie energie al compito pressante dell’avanzamento del benessere dei propri popoli.” Nella pratica ciò significò che la Cfl diventava Line of Control (LoC). Questa, che venne tracciata sulla base della linea raggiunta dagli eserciti il 17 dicembre del 1971, percorre lo stesso tragitto della precedente Linea di Cessate il Fuoco (Cfl del 1949), ma con la differenza che lascia l’area intorno alla città di Kargil all’India. Esiste tuttavia una fondamentale differenza fra le due demarcazioni nel Kashmir: la Cfl fu, infatti, il prodotto di un accordo multilaterale poiché essa venne definita nell’accordo di Karachi del 27 luglio del 1949 grazie all’intervento delle Nazioni Unite; la LoC fu, invece, il risultato di un accordo strettamente bilaterale perché le Nazioni Unite ne furono del tutto escluse a testimonianza del fatto che esse non erano più in grado di svolgere la funzione di intermediario, vista la mancanza di accordo sul tema tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. 120 Figlio dello sceicco Abdullah, il “Leone del Kashmir” morto nel 1982, egli gli successe vincendo le elezioni nel 1983. Egli era un neofita della politica, aveva infatti trascorso la maggior parte della sua vita professionale come medico a Londra. A differenza di suo padre, cresciuto e giunto alla maturità nel ruvido mondo della politica indiana.

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Congresso. Le consultazioni furono caratterizzate da frodi e brogli: elettori intimiditi, politici dell’opposizione vessati, urne elettorali manomesse. La vittoria ci fu, ma totalmente priva di reale legittimità. Questa nuova generazioni di kashmiri121, politicamente molto più consapevole, era assai meno disposta ad accettare passivamente elezioni segnate dalla corruzione. Cosi, in assenza di un modello alternativo di protesta sociale, come per esempio la disobbedienza civile, si ricorse alla violenza. Di li a poco le proteste diventarono richieste di secessione. Proteste, dimostrazioni, attentati dinamitardi e altri avvenimenti violenti travagliarono la valle negli anni 1988 e 1989. Culminando l’8 dicembre dello stesso anno, nel rapimento di Rubiya Sayyed, figlia del ministro degli interni dell’Unione Mufti Mohammed Sayyed. Gli autori dell’azione erano membri del Jammu and Kashmir Liberation Front (JFLK), un organizzazione secessionista laica formata nel 1976. Per assicurare il rilascio della prigioniera, il governo accolse le richieste del JFLK, rilasciando cinque attivisti politici incarcerati con varie accuse. La disponibilità del governo ad arrendersi, esaltò gli insorti e presto la valle fu in fiamme. Fu proprio questo lo sfondo, in cui esplose la successiva crisi nelle relazioni indo pakistane. Paradossalmente la discesa del Kashmir nel caos politico avvenne in un periodo di miglioramento delle relazioni fra Pakistan e India. Durante i due anni precedenti infatti, entrambi avevano lavorato ad un riavvicinamento politico, ma la rivolta fece deragliare tutti questi sforzi. All’interno del Pakistan Benazir Bhutto, da sempre in contrasto con gli elementi importanti dell’organico militare pakistano, si sentiva ora costretta a un voltafaccia nei confronti delle relazioni con l’India a causa del crescente sentimento anti indiano all’interno della società pakistana. Dopo lo scoppio della rivolta in Kashmir, decise di difendere apertamente il “diritto all’autodeterminazione”dei kashmiri e di condannare la dura risposta indiana all’insurrezione. La leadership pakistana vedeva nel sostegno agli insorti, un eccellente opportunità di imporre significativi costi materiali, e non solo, all’India con poco rischio per se stessa. Dichiarazioni ostili e movimenti di truppe continuarono per quasi tutto il 1990, suscitando anche le preoccupazioni di Washington per la sempre più possibile nuova guerra in Asia meridionale. Queste paure erano motivate dai nuovi sviluppi politici del subcontinente, nello specifico Benazir Bhutto continuava a chiedere pubblicamente “azadi” libertà per i kashmiri, mentre la violenza continuava nella regione. La risposta dell’esercito indiano, fu lo spostamento di tre divisioni dal settore orientale a quello occidentale. Una venne stazionata in Punjab, una in Kashmir e una in un luogo non specificato della frontiera internazionale. Contemporaneamente, l’esercito mosse verso la frontiera anche parte dell’artiglieria pesante. L’aviazione indiana ridusse le licenze e mise le installazioni radar in assetto di guerra. I pakistani, a loro volta, mobilitarono le forze muovendo una divisione verso la frontiera internazionale, dal Multan al Punjab pakistano. Nessuna delle due parti però mosse le unità d’attacco. Le tensioni arrivarono quasi al culmine, quando finalmente alla fine di aprile, vi fu un inversione dell’escalation, dovuta ai colloqui fra i due ministri degli esteri, Inder Kumar Gujral dell’India e Shahibzada Yakub Khan del Pakistan, tenutisi a New York. Nessun accordo sostanziale fu raggiunto, ma entrambi convennero sulla necessità di esercitare un certo controllo sulle rispettive azioni e dichiarazioni. Anche se lo scontro frontale non si verificò, le tensioni continuarono per tutto il decennio. L’India accusava regolarmente il Pakistan di palese interferenza nei suoi affari interni e gli chiedeva incessantemente di cessare di sostenere i vari gruppi insurrezionali operanti in Kashmir. Il Pakistan, a sua volta, accusava regolarmente l’India di negare ai kashmiri il loro “diritto all’autodeterminazione”122 e di sistematiche 121 V. Schofield, Kashmir: India, Pakistan e la guerra infinita, Fazi, Roma, 2004, pp. 231-238. 122 S. Casci, Kashmir: l’identità negata, in Il Mulino, 2002, p. 371.

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violazioni dei diritti umani e contemporaneamente affermava di non fornire agli insorti alcuna forma di assistenza materiale123. 3.2 La deriva nucleare La corsa agli armamenti nel subcontinente è nata con l’indipendenza di India e Pakistan, al punto che la storia di questi due paesi potrebbe essere schematizzata in base ai progressi militari di volta in volta raggiunti. Negli anni ’50 il Pakistan spendeva circa il 3% del suo Pil in armamenti contro l’1,8% dell’India124. Questa propensione dei due governi a destinare larga parte del bilancio alle spese militari non ha conosciuto sosta. L’invasione sovietica dell’Afganistan venne fruttata da Islamabad, che come abbiamo più volte ricordato operava nel territorio per conto degli Usa, per approvvigionarsi nuovamente di armi americane; ma queste non erano ancora sufficienti per riequilibrare la situazione con New Delhi, che in ossequio alla politica del “non allineamento” e all’esigenza di assicurarsi uno status di grande potenza su scala mondiale, aveva intrapreso un riarmo accelerato; tutto questo accadeva all’inizio degli anni ’80. Chiaramente questo acuiva il senso di insicurezza di Islamabad, già forte da quel primo esperimento nucleare nel Rajastan nel luglio del 1974, interpretato da Islamabad come puro atto di forza. Da quel momento il Pakistan, considerò di primaria importanza dare il via ad un programma nazionale nucleare per fronteggiare la minaccia che sentiva gravare sugli importanti centri di Lahore, Karachi e Islamabad125. L’allora leader pakistano Z. Ali Bhutto, dichiarò che il Pakistan avrebbe dovuto sviluppare un proprio arsenale nucleare anche a costo di “mangiare erba o morire di fame”. Cosi a dispetto delle sue condizioni economiche, anche Islamabad riuscì a dotarsi della sua “bomba”. Il possesso di un arsenale nucleare per il Pakistan rispondeva a due importanti funzioni, dimostrava che era possibile uno sviluppo tecnologico-militare “interamente musulmano”, sia come rivincita della “nazione pakistana” nei confronti del vicino e più potente Stato laico indiano. Non è casuale che esista in Pakistan in merito al nucleare un consenso trasversale a tutte le formazioni politiche; né va sottovalutato il valore psicologico che ha per il mondo islamico l’idea che un paese “fratello” può competere in un settore che era sempre stato considerato esclusivo appannaggio dei nemici israeliani, dei cinesi e dei mai troppo odiati occidentali. I pilastri che gli hanno consentito di entrare in possesso della tecnologia, dei componenti e dei materiali necessari allo sviluppo del nucleare, sono due: il primo consiste in una rete di spionaggio e traffico clandestino che hanno coinvolto intermediari nei vari paesi occidentali che hanno provveduto all’acquisto e alla vendita del Know-how necessario126. Le importazioni segrete di tecnologia e materiali

123 S. Ganguly, op.cit., pp. 102-118. 124 A. Benvenuti, India e Pakistan fra guerra e pace armata, in Politica Internazionale, 1996. 125 Il momento ufficiale in cui in Pakistan venne predisposto il programma di sviluppo nucleare viene generalmente indicato nel Convegno di Multan, del 20 gennaio 1972. Il fatto che la data del convegno sia antecedente il primo esperimento nucleare indiano, non può essere addotto per dimostrare che tra l’uno e l’altro non vi è una connessione, né per sostenere che il Pakistan aveva già deciso di procedere sulla via del nucleare indipendentemente da quello che allora stava facendo New Delhi. Infatti, già nei primi giorni di gennaio del 1972 Ghandi aveva reso nota la decisione dell’India di procedere all’esperimento nucleare; inoltre, era dal 1970 che circolavano rapporti sui progressi dell’India e sul fatto che essa nel giro di qualche anno avrebbe portato a termine il suo primo esperimento. 126 La figura centrale per la realizzazione del programma nucleare in Pakistan fu l’esperto metallurgico pakistano di formazione culturale tedesca, A.Q. Khan. Egli acquisì importanti conoscenze lavorando per il consorzio tedesco-britannico Urenco, ma fuggì in Pakistan nel momento in cui le autorità tedesche, allertate da una serie di sparizioni illecite di materiale, lo licenziarono. Tornato in patria, convinse Z.A. Bhutto che in 6 o 7 anni sarebbe riuscito a ottenere la bomba.

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dall’Occidente continuarono praticamente per tutti gli anni ’80 e resero possibile, ad esempio, la costruzione dello stabilimento pakistano di Dera Ghazi Khan127. In secondo luogo, è risultata fondamentale la collaborazione con il tradizionale alleato cinese, fu proprio Pechino che, volendo trovare un contrappeso all’India nel subcontinente indiano, rese possibile il programma nucleare di Islamabad fornendo tecnologia, progetti di bombe nucleari e forse anche la collaborazione in alcuni esperimenti128. Per l’India l’esigenza del nucleare nacque nel momento in cui essa rivendicò una posizione di rilievo a livello mondiale, cercando di affrancarsi dal quadrante geopolitico indiano. Il nucleare, era considerato un mezzo per mantenere e accrescere la propria superiorità nei confronti del Pakistan, ma essa doveva svolgere anche una funzione di deterrenza nei confronti della troppo invadente Cina, che l’aveva umiliata nel 1962 e non perdeva occasione per ricordarglielo129. In seguito a questi sviluppi, entrambi gli stati furono oggetto di una considerevole pressione degli Stati Uniti e di buona parte dei suoi alleati più importanti, affinché sospendessero i loro programmi. Né l’India né il Pakistan raccolsero queste richieste. I portavoce indiani continuavano ad affermare che l’India non avrebbe abbandonato le sue capacità nucleari finché non fosse stato raggiunto un qualche piano di disarmo globale con precise scadenze temporali. Il Pakistan, da parte sua, sosteneva che non poteva permettersi di abbandonare il suo programma nucleare a fronte delle capacità atomiche dell’India e della sua schiacciante superiorità militare convenzionale. Sul fronte della denuclearizzazione non ci furono dunque grandi progressi nel subcontinente. Lo status ambiguo dei rispettivi programmi di armamento nucleare cessò nel maggio 1998, quando entrambi i paesi testarono una serie di ordigni atomici. Il quadro della sicurezza in Asia meridionale, venne profondamente e irreversibilmente modificato in seguito ai test nucleari indiani dell’11 e del 13 maggio 1998 e dalla successiva risposta pakistana del 28 e 30 maggio. Questi eventi posero fine alla politica dell’ambiguità nucleare, era ormai palese che i due paesi possedessero le proprie derrate130, solo che fino a quel momento avevano evitato l’armamento. Il risultato di queste azioni fu rendere l’Asia meridionale e il mondo intero un posto più pericoloso. Si potrebbe sostenere, che la risposta pakistana fosse prevedibile, in virtù del fatto che esso aveva sempre basato la sua politica nucleare sulle orme di quella indiana. Inoltre, ci furono segnali, nel periodo immediatamente precedente all’esplosione indiana, che il Pakistan avrebbe rinviato, ma non abbandonato la detonazione nucleare. Inizialmente i governi pakistani resistettero alle pressioni dei gruppi interni favorevoli al nucleare, costoro sostenevano che qualora l’India si fosse dotata di armi non convenzionali, questo avrebbe creato una situazione a somma-zero per il Pakistan, determinandone la fine. Immediatamente dopo la detonazione, la leadership militare e civile, convocò i più eminenti scienziati nucleari del paese; essi ricevettero le istruzioni necessarie per intraprendere la detonazione nucleare. Questi iniziarono i lavori preparatori sul già

127 Questo stabilimento che lavora l’uranio per l’impianto di Kahuta, fu inviato pezzo per pezzo dall’impresa tedesca CES Kalthoff GmbH tra il 1977 e il 1980. 128 Cina e Pakistan firmarono nel 1986 un accordo di collaborazione militare, ma l’assistenza segreta cinese al programma pakistano si realizzò anche nel cosiddetto “evento sismico” del 1983 nel Xinjiang che, secondo alcuni rapporti dell’intelligence americana, fu un test nucleare cinese al quale era presente l’allora ministro degli esteri pakistano Yayub Khan. Con l’accordo sino-pakistano del 1991, la Cina rese possibile anche la costruzione della centrale termonucleare di Chashma, messa in funzione nel 1999. 129 B. Challaney, The challenge of nuclear arms control in South Asia, in Survival, 1998, pp. 23-29. 130 Entrambi le possedevano dalla metà degli anni ’80.

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selezionato sito in Chagai, nel Baluchistan. Resero il sito operativo per il 20 maggio i giorni che seguirono furono necessari a catalizzare il consenso dei decision-makers. Per comprendere i fattori che indussero il Pakistan alla nuclearizzazione, è necessario analizzare quattro fattori intercorrelati: la dottrina strategica pakistana; la posizione dell’India verso il Pakistan nel momento successivo alla detonazione; la reazione della comunità internazionale all’esplosione nucleare indiana, nonché la non-disponibilità nel fornire garanzie di sicurezza credibili e incentivi materiali appetibili e infine il contesto politico interno. Quando affrontiamo il discorso della dottrina strategica pakistana, non possiamo prescindere da alcune osservazioni preliminari, come ad esempio il radicato complesso di inferiorità nei confronti dell’India, se vogliamo un continente proteso verso un piccolo paese, che manca sia di un robusto settore industriale che di risorse naturali, dunque sia un handicap geografico che economico. Ben conscio di questa oggettiva inferiorità il Pakistan non aspira ad una parità militare con l’India, che non sarebbe né possibile, né tanto meno desiderabile. Il suo obiettivo è dotarsi di una deterrenza minima che gli consenta di resistere alle pressioni militari e rendere un eventuale conflitto armato, il più costoso possibile per l’India. Per dotarsi di una capacità minima di deterrenza, il Pakistan necessità di una connessione e di un supporto esterno. Questo è necessario non soltanto per fornirsi di armi ed equipaggiamenti, ma anche e soprattutto per dotarsi di una diplomazia che compensi l’inferiorità militare dello stato e costruisca un sostegno internazionale nel contenzioso perenne con l’India. Queste furono le principali ragioni che spinsero il Pakistan a sviluppare legami con gli Usa negli anni ’50 e di nuovo negli anni ’80 contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Il medesimo desiderio di rafforzare la sua sicurezza lo spinse ad un alleanza con la Cina e all’interazione con gli stati islamici. Poiché l’India si era dotata di armi nucleari, il Pakistan per poter condurre una politica estera e interna autonoma doveva fare altrettanto. Decise cosi di iniziare la costruzione di un armamento nucleare dopo la debacle del 1971 della guerra indo-pakistana, ma non acquisì alcuna nuova tecnologia se non prima dell’esplosione indiana avvenuta nel maggio 1974. Nel 1976 il Pakistan firmò un accordo con la Francia131 per un piano di rivalorizzazione, ma questo piano non fu realizzabile a causa di alcune difficoltà dovute principalmente all’opposizione degli Usa; l’accordo cessò di esistere nel 1978, quando ormai il Pakistan si stava imbarcando in uno sforzo clandestino per sviluppare l’uranio arricchito. Islamabad portò a termine il suo primo test tra l’83 e l’85, essendo da allora in poi in possesso di un proprio piano nucleare. Ancora in questa fase però, il governo pakistano preferiva non palesare la propria capacità, quanto piuttosto mantenere una certa ambiguità, nella certezza che qualora l’India avesse ripreso i test nucleari, la risposta sarebbe stata “appropriata”. La formazione del governo guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP) nel marzo 1998 fece riaccendere lo spettro dell’India nucleare. I leader del partito avevano più volte manifestato la volontà di una politica nucleare manifesta. I toni diventarono sempre accesi quando si parlò di “esercitare l’opzione dell’installazione di armamenti nucleari” a queste dichiarazioni Islamabad rispose con l’avvio di una propria politica nucleare, al fine di salvaguardare la sua sovranità, la sua integrità territoriale e i suoi interessi nazionali. Il primo ministro pakistano indirizzò una lettera ai leader delle maggiori potenze in aprile, esprimendo la sua apprensione rispetto all’atteggiamento del BJP rispetto al nucleare. L’ambasciatore americano Bill Richardson e il segretario di stato Strobe Talbott si recarono sia a Islamabad che a New Delhi, e rassicurarono i pakistani sul fatto che l’India non aveva intenzione di portare a termine i propri test nucleari. 131 Ricordiamo, che nel 1966 Charles de Gaulle decise di rimuovere la Francia dal comando militare NATO per poter perseguire il proprio programma di difesa nucleare.

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Proprio a causa di queste rassicurazioni, il Pakistan rimase basito di fronte alla detonazione indiana; anche in virtù del fatto che non si erano verificati profondi cambiamenti nella sicurezza della regione, tali da giustificare la nuclearizzazione agli inizi di maggio. Un altro fattore da analizzare fu l’atteggiamento dell’India verso il Pakistan. Una parte dell’elite indiana e alcuni membri del gabinetto dello stato affermarono che il Pakistan non fu un elemento considerato nella formazione della decisione di procedere verso il nucleare, piuttosto essa fu motivata dalla volontà di fronteggiare il deterioramento della sicurezza dovuto alla fine della Guerra Fredda, nonché la minaccia data dalla crescita dell’arsenale convenzionale e nucleare cinese, specialmente la chiusura di Pechino e la cooperazione con Islamabad al fine di uno sviluppo nucleare e missilistico. Questo potenziamento avrebbe affermato il ruolo indiano a livello globale nelle cambiate circostanze internazionali, l’India nel lungo periodo avrebbe potuto competere con la Cina nell’influenzare e plasmare la politica regionale e non solo. Non sembra comunque sostenibile l’affermazione che l’India non prese in considerazione il Pakistan quando optò per la nuclearizzazione. L’11 maggio del 1998, il governo indiano annunciò i test puntualizzando il ruolo dei vicini, India e Pakistan, nella presa di questa decisione. Quegli stessi giorni, il primo ministro indiano Atal Behari Vajpayee scrisse una lettera al Presidente Clinton, in cui veniva messo in risalto il ruolo del Pakistan piuttosto che quello della Cina. I circoli ufficiali e non ufficiali pakistani respinsero la spiegazione indiana della reazione alla minaccia cinese; per loro essa dipendeva da una moltitudine di fattori, vale a dire il desiderio indiano di essere considerato come una grande potenza a livello globale, un insicurezza dovuta alla nuova situazione post Guerra Fredda, una ristretta visione del mondo da parte dei nazionalisti del BJP oltre all’ottimo risultato elettorale raggiunto. Un numero ragguardevole di persone in Pakistan era convinto che l’India avrebbe usato il suo status nucleare per fare pressione sul Pakistan affinché accettasse la sua politica regionale. Queste apprensioni erano rafforzate dalle dichiarazioni anti-pakistane fatte dai leader del BJP immediatamente dopo il test. L. K. Advani, ministro dell’interno indiano, invitò il Pakistan a “ritirare la sua politica anti-indiana” e specialmente il suo supporto all’insurrezione in Kashmir e alluse che l’India avrebbe compiuto dei raid aerei nel Kashmir amministrato dal Pakistan. Addirittura, il portavoce del BJP K.L. Sharma, avvertì il Pakistan che se avesse proseguito nella sua politica anti indiana avrebbe dovuto fronteggiare “la collera dell’India”, queste dichiarazioni belligeranti erano accompagnate da un intensificazione degli scontri tra le truppe indiane e pakistane sulla LoC in Kashmir, nonché dalla decisione del primo ministro Vajpayee di assegnare Advani agli affari kashmiri. Tutte queste dichiarazioni cosi profondamente aggressive, probabilmente facevano parte di una strategia indiana per indurre il Pakistan a compiere i suoi test nucleari, questo per fare in modo che venissero sviate le critiche internazionali e che la comunità internazionale avrebbe biasimato entrambi gli stati. L’atteggiamento indiano in Pakistan era interpretato come una dimostrazione di arroganza dei leader indiani dovuta alla recente acquisizione del loro status di potenza nucleare. Quale fu l’atteggiamento della comunità internazionale? Gli Usa, il giorno seguente i test indiani imposero pesanti sanzioni economiche, tutto ciò all’interno dei termini previsti dall’Atto di Prevenzione della Proliferazione Nucleare del 1994, le altre grandi potenze non si mostrarono desiderose di intraprendere simili azioni. La Conferenza al vertice delle Nazioni Unite del G-8, che si

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tenne a Birmingham, in Inghilterra, non andò oltre la semplice critica132, questa fiacchezza spinse Islamabad a dichiarare “profondo disappunto rispetto alla loro debole risposta”. Lo scopo della comunità internazionale era scoraggiare il Pakistan dall’intraprendere i test, attraverso una serie di vantaggi economici che mancavano di concretezza, non risultando dunque appetibili e convincenti. Il presidente Clinton chiamò il primo ministro pakistano Nawaz Sharif ben quattro volte, raccomandandogli di trattenersi dal fornire una risposta, lo stesso fece il primo ministro britannico e quello giapponese. Alcuni importanti uomini statunitensi, fra cui Strobe Talbott, il deputato segretario di stato, il generale Antony Zinni, comandante del comando centrale Usa , e Karl Inderfurth assistente del segretario di stato per l’Asia meridionale, visitarono il Pakistan a quattro giorni dai test indiani offrendo assistenza economica e militare. Queste offerte furono descritte dall’ambasciatore Usa in Pakistan come un evento eccezionale, poiché il suo paese non aveva mai offerto un trattamento del genere a un “non-alleato come il Pakistan”. Nella pratica vennero offerti F-16 e la promessa di revocare l’emendamento Pressler133. Il severo testo dell’emendamento richiedeva che il presidente degli Stati Uniti certificasse che il Pakistan “non possedesse un ordigno esplosivo atomico” per permettere a quest’ultimo di poter ricevere l’assistenza statunitense. Islamabad fu titubante rispetto alle proposte di offerte statunitensi, non credeva che Clinton sarebbe riuscito nell’intento di rettificare l’emendamento, inoltre il pacchetto di aiuti non era come nel caso di quello offerto dalle potenze del G-8 particolarmente appetibile. Effettivamente gli Usa non mostrarono molta solerzia nella faccenda, lo stesso Stephen P. Cohen, esperto in questioni del subcontinente indiano, affermò che “gli Usa non stavano offrendo nessun reale incentivo affinché il Pakistan non testasse i suoi armamenti, Pyongyang riceveva circa 4 miliardi di dollari in assistenza americana per terminare il suo programma nucleare, mentre i pakistani ricevevano solo vaghe promesse”. Come notò Islamabad, non stavano ricevendo garanzie neppure da Pechino, sebbene la Cina reiterasse il suo tradizionale supporto al Pakistan, anche in seguito alla visita del segretario degli esteri pakistano non fornì alcun vantaggio economico né tanto meno decisivo supporto diplomatico. I membri della comunità internazionale, Usa in primo luogo schierati per la non proliferazione nucleare, erano fermamente convinti che gli esperimenti nucleari indiani e pakistani avrebbero reso la regione maggiormente esposta e pronta alla guerra. Mentre i decision-makers indiani e pakistani, sostenevano con forza che la possibilità di una guerra nella regione era altamente improbabile, proprio grazie all’emergere di una rudimentale forma di deterrenza atomica, infatti se essa aveva preservato la pace tra i due blocchi avversi durante la guerra fredda, una sistemazione strategica simile sarebbe potuta emergere anche in Asia meridionale. Se analizziamo gli eventi, possiamo affermare che nonostante siano aumentate le preoccupazioni della comunità internazionale che sostiene la non proliferazione nucleare, in seguito alle detonazioni, in realtà l’India e il Pakistan possedevano armi atomiche da oltre un decennio, la differenza consisteva nel fatto che non erano potenze atomiche dichiarate. Come abbiamo già ricordato, i due paesi passarono attraverso due

132 Un ruolo importante nella volontà di non imporre sanzioni sull’India venne dalla Russia. 133 Nonostante il virtuale abbandono da parte dell’amministrazione Reagan del programma di restrizione della proliferazione nucleare, personaggi chiave del Congresso USA cercarono di mantenerne alcuni elementi. Nel 1985, per esempio, il Congresso approvò l’emendamento Solarz, che ritirava l’assistenza statunitense ai paesi che cercavano di importare materiale atomico a scopi militari; si giunse a questo emendamento in seguito all’arresto negli Stati Uniti, di un cittadino pakistano, Arshad Pervez, che stava cercando di esportare dei krytoni, elementi d’innesco essenziali per le armi nucleari in Pakistan. Successivamente, nel tentativo di mantenere il ruolo statunitense in Pakistan, l’esecutivo trovò un accordo con il Congresso nella forma dell’emendamento Pressler.

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crisi militari, nel 1987 e nel 1990, senza utilizzare le armi nucleari di cui disponevano. Gli eventi del 1998, non fecero che palesare una realtà già esistente; l’unica differenza consiste nella fine della “tacita contrattazione” con le armi atomiche: ogni contendente ha dovuto esplicitamente prendere atto della capacità nucleare dell’altro. In virtù di ciò molti indiani e pakistani sostengono che si sia raggiunta una situazione di “stabile deterrenza”. Secondo altri però, il problema risiederebbe nei ridottissimi tempi di volo dei missili balistici nella regione, in un eventuale crisi se una delle due parti ricevesse un falso allarme di un imminente attacco missilistico, si troverebbe a non avere scelta e sarebbe fortemente incalzata a lanciare i suoi missili per paura di un immediata decapitazione. La medesimo riflessione consiglierebbe anche che le molteplici tensioni e le forti ostilità aumentino la possibilità di un inavvertito e malinteso impiego di armi atomiche. Tuttavia queste considerazioni non reggono alla luce di alcune considerazioni storiche. Infatti i missili sovietici, per esempio avrebbero potuto colpire le forze statunitensi in Germania occidentale, durante la Guerra Fredda, con tempi abbastanza brevi, lasciando agli Usa ben poco tempo per rispondere. Le tensioni fra le due super potenze durante quel periodo raggiunsero livelli anche molto alti e furono punteggiate da molte gravi crisi. I problemi più seri in Asia meridionale, dunque, vengono dalla possibilità di un errore tecnologico e da possibili malintesi. Fintantoché India e Pakistan non includeranno efficacemente le loro armi atomiche in una struttura di comando, controllo, comunicazione e informazione solida, il rischio di un impegno inavvertito o, peggio, non autorizzato persisterà. L’analisi delle dinamiche di guerra del conflitto del 1999 tra India e Pakistan nella zona di Kargil, offre un utile banco di prova per le due diverse argomentazioni e letture relative alla stabilità o instabilità atomica nell’Asia meridionale134. Sul versante interno, il progetto nucleare godeva di numerosi supporter in Pakistan. Gli elementi islamici (principalmente ma non esclusivamente partiti politici) e gli ultra-nazionalisti erano in prima fila nel sostenerlo. Numerosi partiti politici incluso la Lega Musulmana e il PPP, oltre a larga parte di intellettuali e giornalisti chiedevano una ferma risposta ai test indiani, poiché ritenevano che ritardarla avrebbe rappresentato una forte minaccia per la sicurezza pakistana. L’opinione pubblica leggeva i test indiani come un tentativo di essere annoverata fra le grandi potenze, questo aumentava sensibilmente lo storico senso di inferiorità pakistano; bisognava dunque agire tempestivamente e competentemente. Inizialmente, il governo tenne tutte le opzioni possibili aperte, infatti le opinioni dei suoi membri erano divergenti, un numero di loro chiedeva cautela, mentre altri fra cui Gohar Ayub Khan, allora ministro degli esteri, sostenevano che la questione fosse “non del se ma del quando”. Dal canto loro i militari, tradizionalmente favorevoli al programma nucleare erano indecisi rispetto alla tempistica, memori delle considerazioni del precedente presidente della Commissione dell’Energia Atomica Pakistana, Munir Ahmad Khan, il quale affermò che un fallimento avrebbe fortificato la percezione che la capacità nucleare pakistana fosse esagerata e sopravvalutata e il Pakistan non avrebbe più potuto bleffare. A tutte queste considerazioni si unirono le tensioni sulla LoC, più o meno verso il 20 maggio, le truppe indiane e pakistane iniziarono a scambiarsi colpi sempre più frequentemente, era difficile determinare chi sparasse per primo, ma una cosa appariva certa, la volontà di entrambi di rispondere efficacemente. Il timore che l’esercito indiano muovesse verso il Kashmir intimoriva profondamente il Pakistan. Il capo dell’esercito pakistano, il generale Jehangir Karamat, visitò le posizioni in Kashmir fra il 23 e il 25 maggio, l’impressione che trasse fu la radicata tensione fra truppe e ufficiali

134 S. G., op.cit. pp.129-133.

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rispetto al nuovo status indiano; enfatizzavano il bisogno di vigilanza e sollecitudine, e lui gli rassicurò sul fatto che qualora ci fosse stata un azione indiana lungo la LoC ci sarebbe stata una “risposta adeguata” e che “nessun sacrificio sarebbe stato troppo grande per garantire un equilibrio”. Pressante diventava anche la voce dei mass media che chiedevano di condurre i test e di non basarsi sulla comunità internazionale per avere delle garanzie di sicurezza. Il 25 maggio, una ricerca condotta da Gulliup Pakistan mostrava che circa il 70% della popolazione era favorevole alla sperimentazione nucleare contro il solo 30% che ne chiedeva l’astensione, questi crebbero al 40% quando vennero accresciute le sanzioni sull’India. Un'altra indagine pubblicata dal preminente magazine pakistano, Newsline, ribadiva il vigoroso sostegno pubblico per il nucleare, circa il 64% auspicava ad un esplosione immediata, il 15% ne supportava una ritardata mentre il 21% si opponeva a qualsiasi esplosione immediata o futura. Lo stesso giorno in cui venne pubblicato il risultato dell’indagine, cioè il 25 maggio si tenne un incontro fra i leader pakistani, il generale Jehangir Karamat e il primo ministro Nawaz Sharif, fu proprio in questo incontro che si decise di condurre una serie di sei esperimenti atomici. Questa decisione fu motivata anche dalla volontà di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla grave crisi economica in cui versava il paese, cavalcando l’euforia nazionale rispetto ai temi del nucleare; in realtà l’entusiasmo generato dall’esplosione si dissolse entro il primo fine settimana e lo stato si trovò a dover fronteggiare la grave crisi economica135. 3.3 La guerra di Kargil Tra l’aprile e il giugno del 1999 l’India e il Pakistan rischiarono nuovamente di scatenare un'altra guerra su vasta scala lungo la LoC nel Kashmir. Il conflitto fu causato dal tentativo pakistano, nella primavera del 1999, di infiltrare truppe regolari della Northern Light Infantry e insorti kashmiri in tre diversi punti di un tratto di 150 chilometri della LoC, a Batalik, Dras e Kargil. Quest’intrusione colse completamente di sorpresa l’esercito indiano e gli ufficiali dei servizi d’informazione, che non prevedevano un’ incursione pakistana su un terreno tanto inospitale. Ma facciamo un passo indietro, in seguito agli esperimenti nucleari del 1998, la comunità internazionale, soprattutto gli Stati Uniti avevano fatto forti pressioni sui due paesi affinché stabilissero reciprocamente dei rapporti distesi. Fu proprio in risposta a queste pressioni che il primo ministro Nawaz Sharif e la sua controparte indiana, Atal Behari Vajpayee, all’inizio del 1999, tentarono di migliorare le relazioni fra i due paesi. A febbraio Vajpayee, inaugurò un servizio di pullman fra le città di confine di Amritsar in India e di Lahore in Pakistan, al termine del viaggio in pullman i due primi ministri firmarono un accordo a Lahore, capitale dello stato pakistano del Punjab, in cui venivano ripresi i principi cardine dei precedenti accordi, compreso quello di Simla. L’accordo richiedeva anche alle due parti di “prendere immediate misure per la riduzione del rischio di un uso accidentale o non autorizzato delle armi nucleari, e di discutere concetti e dottrine, con uno sguardo all’elaborazione di misure per lo scambio di informazioni nei campi nucleare e convenzionale, miranti a prevenire un conflitto.”136 Nonostante i sentimenti positivi e cooperativi espressi nella dichiarazione di Lahore, l’esercito pakistano con il consenso di Nawaz Sharif, diede il via ad un operazione militare in Kashmir, con l’intento di riproporre la questione nell’agenda internazionale 135 H. A. Rizvi, Pakistan’s Nuclear Testing, in Asian Survey, 2001, pp. 943-955. 136 Testo della Dichiarazione di Lahore firmato da Atal Mehari Vajpayee e Muhameed Nawaz Sharif il 21 febbraio 1999.

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e possibilmente riavviare l’insurrezione che si era indebolita. Il Pakistan prese questa decisione convinto di poter contare su un appoggio esterno, senza però averlo chiesto e ottenuto preventivamente. Esso era inoltre convinto che la comunità internazionale non sarebbe stata poi cosi intransigente nei suoi confronti, soprattutto gli Stati Uniti visto l’atteggiamento tenuto nei precedenti conflitti indo pakistani. L’India dal canto suo, non prevedeva un tentativo pakistano di invadere la LoC proprio in quel segmento, esso era inoltre difficile da pattugliare a causa del terreno aspro e inospitale. Le cattive condizioni climatiche limitavano inoltre le attività di ricognizione, inoltre le pesanti nevicate nei mesi invernali, rendevano gli spostamenti estremamente difficoltosi se non addirittura impossibili. Il 5 maggio, la 121° brigata dell’esercito indiano mandò una pattuglia di ricognizione ordinaria nell’area di Kaksar lungo la LoC, lo scopo, era accertarsi che la neve si fosse sciolta in modo che le truppe indiane potessero rioccupare i territori abbandonati nei mesi invernali. Della pattuglia non si ebbero più notizie; probabilmente subì un imboscata e tutti i suoi membri vennero uccisi. Come conseguenza della sparizione della pattuglia, nonché dalle intensificate ricognizioni, i comandanti della brigata, stimarono che vi fossero circa cento intrusi ostili sui picchi montagnosi vicini a Kargil, essi conclusero che la loro brigata era in grado di scacciare gli intrusi. Una decina di giorni dopo, le autorità si resero conto di aver sottovalutato la situazione e che gli intrusi potevano essere addirittura ottocento, essi avevano inoltre infranto la LoC anche nella Mushkoh Valley, a Kaksar e a Batalik. Fu solo nell’ultima settimana di maggio, che l’esercito indiano comprese che le forze regolari pakistane e gli insorti kashmiri, avevano occupato posizioni strategiche sopra la strada che andava da Kargil a Leh ed erano ora nella condizione di tagliar fuori le porzioni settentrionali del Kashmir dal resto dello stato. La sorveglianza aerea rivelò che gli intrusi erano equipaggiati con mezzi da neve, artiglieria e sostanziali riserve di provviste. L’India nella prima fase reagì in maniera goffa a causa della disinformazione, le truppe indiane tentarono di spingersi fino ai 5000 metri di quota, ma a causa della mancanza di copertura a terra e del controllo delle vette da parte degli intrusi, esse diventavano facili bersagli per cecchini e artiglieri pakistani. Questi eventi fecero comprendere agli indiani che la risposta doveva essere più potente. Durante un incontro del potente Cabinet Committee on Security (CCS), venne presa la decisione di inviare nella regione tre brigate. In virtù del fatto che le truppe si sarebbero dovute acclimatare prima di essere impiegati a quelle altezze, il CCS decise nel frattempo di permettere l’utilizzo delle forze aeree contro i pakistani trincerati. La Indian Air Force (IAF) sferrò dunque una prima serie di attacchi aerei contro le vette il 26 maggio. Il 27 maggio, la IAF lanciò una seconda serie di attacchi aerei con l’obiettivo di allontanare gli intrusi da Batalik, Turtuk e Dras. Durante tutto l’arco dell’operazione, nota come “Operazione Vittoria” la IAF effettuò 550 sortite. Le autorità indiane insistevano sul fatto che tutti gli attacchi aerei erano confinati alle aree che l’India riteneva essere sul proprio lato della LoC. Al contrario, gli ufficiali dell’esercito pakistano, sostenevano che gli aerei della IAF avevano attraversato la LoC e avevano colpito obiettivi all’interno dell’Azad Kashmir. Le forze indiane fecero ricorso alle forze aeree poiché compresero che non era possibile far allontanare gli intrusi utilizzando truppe di terra in un attacco frontale. Questo operazione fu molto costosa sia dal punto di vista umano che materiale, ma ottennero un discreto successo, anche grazie al poco sostegno esterno offerto al Pakistan, inoltre gli Stati Uniti non assecondarono la richiesta pakistana di portare la questione davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La diplomazia indiana accelerò il passo e il ministro per gli affari esteri, Jaswant Singh, mentre si preparava a partire per la Cina, si accordò per incontrarsi con la sua controparte pakistana, Sartaj Aziz, a New Delhi. Malgrado mostrasse la volontà di voler giungere ad una soluzione diplomatica della crisi, assunse

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pubblicamente una posizione forte, affermando che il suo governo non sarebbe rimasto inattivo finché non fossero stati allontanati tutti gli intrusi. Inoltre, anche se l’India era pronta a trattare con il Pakistan, le discussioni sarebbero state relative alla sola questione di Kargil. Venne fissato un incontro per il 12 giugno, ma questo si dimostrò infruttuoso. Aziz voleva una parziale contro-escalation a Kargil e la considerava necessaria per porre fine agli sbarramenti all’artiglieria indiana e agli attacchi aerei. Inoltre insisteva sul fatto che il Pakistan non avesse nessun controllo sugli intrusi. Dal canto suo Singh, pretendeva semplicemente che i pakistani ritirassero le truppe. Solo intorno al 14-16 giugno le forze indiane riuscirono a riconquistare posizioni strategiche vicino a Dras e a Batalik. Posizioni di notevole importanza perché controllavano la principale via di rifornimento dell’esercito indiano sul ghiacciaio del Siachen, dove India e Pakistan stavano combattendo dal 1984 una battaglia dispendiosa e senza sbocchi. Un ulteriore motivo di discordia fra i due eterni nemici, agli inizi degli anni ’80, fu la disputa sul ghiacciaio di Siachen, localizzato nella catena del Karakorum nello stato del Jammu e Kashmir. Il ghiacciaio è lungo 75 chilometri, varia in larghezza dai due agli otto ed è profondo più di 300 metri. L’area totale coperta è approssimativamente di 10.000 chilometri quadrati. La temperatura superficiale può scendere a -40° in inverno e le tempeste nella zona possono produrre venti fino a 230 nodi. Non c’è da stupirsi che la zona sia comunemente nota come il “terzo polo”. La disputa nasceva dalla inadeguata demarcazione della linea del cessate il fuoco (CFL) dopo l’accordo del 1949. “La CFL corre lungo la frontiera internazionale India-Pakistan e poi a nord e nord-est fino al punto mappa NJ 9842, posto vicino al fiume Shyok alla base della catena di montagne Saltoro. Poiché non vi erano truppe indiane o pakistane, nelle aree geograficamente inospitali a nord-est di NJ 9842 la CFL non venne tracciata fino alla frontiera cinese. Le due parti convennero, nel vago linguaggio che è alla base della disputa di Siachen, che la CFL si estendeva fino al punto terminale, NJ 9842 e di lì a nord fino ai ghiacciai”.137 Anche dopo le guerre del 1965 e del 1971 non venne fatto alcun tentativo per estendere la CFL poi LOC fino al ghiacciaio. Quali fattori contribuirono alla militarizzazione della zona non demarcata del ghiacciaio sono difficili da indicare. Fu l’India a schierare per prima le proprie truppe al fine di rivendicare le sue pretese, ma sembra che precedentemente ci avesse provato il Pakistan; secondo il generale di corpo d’armata M.L. Chibber, a capo del Northern Command a quel tempo, l’azione militare indiana, denominata in codice “Meghdoot” (messaggero celeste) fu causata da rapporti informativi che contenevano informazioni secondo cui il Pakistan stava pianificando un operazione per impossessarsi del ghiacciaio. Messo di fronte alla presenza militare indiana, il Pakistan, lanciò una propria operazione militare “Abadeel” (rondine), nell’aprile del 1984. La conseguenza più significativa della presenza dei due eserciti schierati in quel territorio così inospitale fu la morte di un consistente numero di soldati avvenuta per congelamento ed edema polmonare. L’importanza strategica di questo ghiacciaio è però enorme, questo ha spinto i due paesi ad tale atteggiamento. Esso infatti tocca da una parte la frontiera indo tibetana lungo il territorio conteso di Aksai Chin, la Shaksgam Valley, che l’India considera illegalmente ceduta dal Pakistan alla Cina, a nord-ovest e il triangolo Northern 9842, è un cuneo che taglia un più breve collegamento territoriale sino-pakistano. Tornando alla situazione a Kargil, intorno al 20 giugno riuscirono a ristabilire il controllo sulla stessa Batalik. Morirono in questa battaglia alcune centinaia di soldati e ufficiali indiani, e vennero abbattuti almeno due aerei della IAF e un elicottero.

137 S. Ganguly, ibidem.

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Poiché le ostilità non accennavano a diminuire, nell’ultima settimana di giugno il generale Antony Zinni, comandante in capo dell’US Central Command, visitò il Pakistan e disse espressamente al primo ministro Sharif di richiamare le proprie truppe. Dopo la visita di Zinni, Gordon Lanpher, vice assistente per l’Asia meridionale della Segreteria di stato statunitense, visitò New Delhi per informare le sue controparti indiane della sostanza del messaggio del generale Zinni a Islamabad e anche per raccomandare moderazione. Nonostante l’ammonizione di Zinni, il conflitto continuò fino all’inizio di luglio, Sharif allora visitò Washington alla ricerca di uno stratagemma per salvare la faccia, ma gli Stati Uniti si rifiutarono di accettare la versione pakistana, che faceva ricadere l’intera responsabilità sull’India, e di mediare fra le parti. Anche se ormai era chiaro alla leadership pakistana che sarebbe stato impossibile avere la meglio sul conflitto, gli insorti kashmiri non mostrarono alcuna intenzione di porre fine alla loro lotta. Uno dei principali capi coinvolti nell’insurrezione, Sayed Saluhuddin, il capo dello United Jihad Council, proclamò che la volontà di Sharif di ritirare le sue truppe “equivaleva a pugnalare il movimento alla schiena”. La reazione dell’amministrazione Clinton era insolita, generalmente era interventista nei confronti delle dispute regionali, ciò può essere spiegato con il pressoché generale disinteresse in seguito alla fine della Guerra Fredda, nei confronti dell’Asia meridionale. Fu proprio per questo che furono restii ad intervenire in una disputa di lunga durata con prospettive di risoluzione nulle. Mentre Sharif cercava una soluzione per uscire dal conflitto, l’India manteneva salda la sua pressione militare. Questa perseveranza portò gli indiani ad alcuni successi fra cui, la vetta strategica di Tiger Hill. A metà di luglio, le forze pakistane si trovarono a dover fronteggiare implacabili sbarramenti di artiglieria e attacchi aerei delle forze armate indiane. Probabilmente se avessero ottenuto una risposta statunitense favorevole, Sharif avrebbe lasciato che l’esercito pakistano continuasse nei suoi progetti invece di fronte alle crescenti perdite fu costretto a riconsiderare la sua strategia. Cosi, il 9 luglio, il Pakistan si offrì di inviare a New Delhi un inviato speciale per discutere una contro-escalation. Il 12 luglio Nawaz Sharif, dopo la sua visita a Washington, tenne un discorso televisivo alla nazione nel quale richiedeva il ritiro dei mujahideen, dalle postazioni sulle montagne. Questa affermazione tendeva a ribadire l’estraneità del comando pakistano rispetto alle iniziative degli insorti. Fu solo alla fine del mese che il conflitto giunse al termine. Quali furono i motivi che spinsero l’esercito pakistano ad intraprendere questa rischiosa impresa? A livello tattico, l’intrusione lungo la LoC aveva tutte le caratteristiche di quella che può essere definita una “incursione limitata”, che consiste nel fare una piccola e calcolata incursione per verificare la volontà e l’impegno dell’avversario nel combattere e nel difendere il proprio territorio, la risposta a queste incursioni è decisiva, se l’attacco incontra una ferma opposizione, la rotta viene invertita. Generalmente chi compie l’incursione crede che i rischi siano calcolabili e controllabili; l’errore dei decision makers pakistani, fu espandere drammaticamente l’ambito dell’incursione dal momento che incontrarono un opposizione ridotta o nulla, ma l’ampliamento rese di conseguenza necessaria una risposta più salda da parte indiana. La scelta del momento da parte pakistana, non fu casuale, infatti la situazione nella valle si stava diciamo normalizzando, grazie alle tre tornate elettorali che avevano sancito un governo popolare eletto che aveva qualche sembianza di legittimità. Sebbene gli abitanti musulmani della valle continuavano a essere maldisposti nei confronti dello stato indiano vivevano anche in condizioni di costante paura dei più violenti gruppi di insorti come gli Al-Faran, i Laskar-e-Toiba, gli Harkat-ul-Ansar (in seguito ridefinitisi Harkat-ul-Mujahideen) e gli Al-Badr. Il timore della leadership pakistana era che la situazione di normalità, se consolidata avrebbe poi precluso la possibilità di un futuro

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incitamento all’insurrezione. Inoltre il Kashmir era uscito dall’agenda della comunità internazionale grazie alle abili strategie diplomatiche e militari dell’India, che era riuscita a convincere il mondo intero di aver risposto ai problemi relativi alla violazione dei diritti umani, che aveva tenuto elezioni libere ed eque, e che ora stava tentando di ristabilire nello stato sia la legge che l’ordine. Attraverso la forza militare era riuscita a indebolire diversi gruppi di insorti. La conclusione del Pakistan a tutto ciò fu che per mantenere un ruolo rilevante nella questione del Kashmir, doveva ravvivare l’insurrezione. La scelta di Kargil fu motivata dal suo essere una regione impervia e remota. L’altro se vogliamo errore della leadership pakistana fu ipotizzare che Stati Uniti e grandi potenze sarebbero intervenuti nel conflitto per prevenire un escalation della crisi. Quest’ipotesi si basava sui timori della comunità internazionale connessi alla nuclearizzazione della regione. La guerra di Kargil, ha portato all’emergere del paradosso “stabilità-instabilità”, l’acquisizione da parte di entrambi i paesi della forza di distruzione totale delle armi nucleari rende il proseguimento di guerre su ampia scala più improbabile: nessuno dei due contendenti scatenerebbe facilmente un conflitto con tutti i mezzi a disposizione per paura di una escalation a livello nucleare. D’altra parte, ambo le parti possono essere tentate di compiere azioni in aree periferiche per mettere alla prova la risolutezza dell’altro fronte, sicuri dell’idea che la probabilità di un escalation sia calcolabile e controllabile138. 3.4 Il dopo Kargil e le trattative di Agra Dopo la guerra di Kargil, il rapporo fra India e Pakistan riprese il solito schema, cioè un marasma di accuse reciproche. I rapporti peggiorarono ulteriormente in seguito al colpo di stato del generale Pervez Musharraf, che rovesciò Nawaz Sharif, autodichiarandosi “capo esecutivo” della nazione, questo era dovuto al fatto che Musharraf era stato il principale architetto dell’operazione di Kargil. Il colpo di stato militare concorse nell’isolare ulteriormente il Pakistan dalla comunità internazionale, gli Usa imposero ulteriori sanzioni, questa generale disapprovazione comportò immediati benefici per l’India. Si pensi alla visita di Clinton nel subcontinente del 2000, mentre trascorse alcuni giorni in India si fermò solo alcune ore al campo di aviazione di Islamabad, chiaro gesto di biasimo nei confronti del regime militare. Durante il primo anno di governo militare i rapporti bilaterali si deteriorarono ulteriormente. Ed ecco che ancora una volta il fato, assistette la politica pakistana, si verificarono infatti due eventi che modificarono il negativo status quo: l’apertura dei colloqui bilaterali di Agra nel luglio del 2001 e l’improvviso e rinvigorito interesse statunitense per le politiche del subcontinente in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 sul World Trade Center e sul Pentagono, e la successiva guerra contro il regime dei talibani in Afghanistan. Il 19 novembre del 2000, all’inizio del Ramadan, il mese sacro dei musulmani, il governo del primo ministro Atal Mehari Vajpayee dichiarò nello stato del Jammu e Kashmir, un cassate il fuoco unilaterale. Inizialmente il cessate il fuoco sarebbe dovuto terminare alla fine di Ramadan, ma venne successivamente prolungato per i sette mesi successivi. Questo non significa che le violenze cessarono o diminuirono e ciò comportò la richiesta interna affinché l’ordine fosse ritirato. Infatti, il cessate il fuoco non stava procurando alcun beneficio al governo. Alcuni gruppi insurrezionali, specie i Lashkar-e-Toiba e gli Hizb-ul-Mujaheddin ignorarono le restrizioni e continuarono i loro attacchi nella valle contro obiettivi sia civili che militari. Eppure il primo ministro

138 S. Ganguly, op.cit. pp. 134-157.

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non si poteva permettere di ritirare il cessate il fuoco senza mostrare in qualche modo il desidero di risolvere il rebus del Kashmir. Cosi, quando il cessate il fuoco venne revocato il 23 maggio 2001, Vajpayee, consultandosi con il ministro degli affari interni, Advani, decise di invitare in India il generale Pervez Musharraf per discutere dei metodi per migliorare le relazioni bilaterali139. Musharraf accettò prontamente l’invito e fu programmato un summit per il 14-15-16 luglio ad Agra, la città del famoso Taj Mahal, nell’India settentrionale. Pochi nutrivano speranza sul buon andamento dei summit. Mentre l’obiettivo dei pakistani era quella del Kashmir, nella ferma considerazione che la LoC non doveva essere trasformata in un confine internazionale. La controparte indiana, voleva focalizzare il summit sull’appoggio del Pakistan agli insorti kashmiri oltre a trattare questioni bilaterali come frenare il traffico di narcotici, le dispute sul Sir Creek e sulla Wular Barrage. Nonostante questi intoppi iniziali, nel primo incontro formale sembrò prevalere un atmosfera di cordialità e di civiltà. Ma le cose sarebbero andate presto peggiorando; la prima sera, il ministro indiano dell’informazione e delle comunicazioni, Sushma Swaraj, tenne una conferenza stampa per Doordarshan, il canale televisivo statale dell’India, durante la quale riepilogò le questioni che erano state discusse nei colloqui. Nel suo resoconto incluse temi come il timore dell’India sul terrorismo di confine, un rapporto dettagliato sui prigionieri di guerra indiani tenuti in Pakistan e il bisogno di iniziare i colloqui sulla riduzione delle tensioni nucleari nel subcontinente. Nelle sue annotazioni mancava qualsiasi riferimento al Kashmir. La parte pakistana fece immediato riferimento a questa rilevante mancanza, la sera stessa la delegazione pakistana incontrò la stampa, e diramò una dichiarazione che affermava come Musharraf e Vajpayee avessero trascorso la maggior parte del tempo del loro incontro faccia a faccia parlando del Kashmir. Il secondo giorno del summit, cominciò in modo poco propizio, poiché Musharraf decise di tenere una conferenza stampa di prima mattina per i direttori dei giornali indiani, l’intera conferenza fu trasmessa in diretta via satellite da un canale d’informazione. La posizione di Musharraf era particolarmente dura sulla questione del Kashmir e fece anche alcuni aspri commenti sulle continue violenze in quella zona. A causa di questo atteggiamento e delle affermazioni della sera precedente i colloqui si conclusero rapidamente, senza che le parti riuscissero a trovare un accordo neppure sulla lingua di un comunicato congiunto. Più tardi quella sera stessa, in seguito alla visita di Vajpayee, Musharraf convocò un'altra conferenza stampa, ma la sua richiesta venne respinta perché non c’era il tempo necessario per prendere adeguate misure di sicurezza. In seguito a questo rifiuto la delegazione pakistana ripartì per Islamabad. In conseguenza dei risultati disastrosi del summit, il governo guidato dal BJP venne profondamente criticato sia dall’opposizione che dai suoi stessi alleati. Gli si rimproverava di non aver tenuto una linea sufficientemente dura. Lo stato d’animo in Pakistan era molto più ottimistico. Musharraf aveva scaricato le colpe del fallimento del summit sulla controparte indiana. In questo clima di giudizi cosi profondamente divergenti sul summit, le due parti si accordarono per tenere colloqui tra i ministri degli esteri; il fallimento di Agra aveva però scoraggiato e disinteressato l’opinione pubblica e i vertici verso una pollitica di dialogo con il Pakistan. Malgrado ciò, Vajpayee volle incontrare Musharraf nella

139 Molte congetture sono circolate nella stampa popolare indiana e pakistana sul fatto che Vajpayee invitò Musharraf su ordine degli Stati Uniti. Comunque nessuna prova è stata portata a sostegno di questa teoria. Al massimo si può affermare che gli Usa spinsero l’India e il Pakistan a cominciare le trattative per ridurre le tensioni. Fonti informate sui fatti sostengono che la decisione di invitare Musharraf fu presa da Vajpayee e Advani dopo che i due avevano parlato della situazione nel Kashmir con il governatore dello stato, Girish Safena.

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sessione del dicembre 2001 all’assemblea generale delle Nazioni Unite, per tentare nuovamente un dialogo che portasse alla pace. Quel che accadde poi, cioè gli eventi dell’11 settembre 2001 cambiarono il corso degli eventi140.

140 S. Ganguly, op.cit. pp. 158-164.

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CAPITOLO IV POSSIBILITA’ DÌ SVILUPPO

4.1 Una valutazione economica Il Pakistan diventò un membro della Banca Mondiale nel 1950. Dagli anni fiscali 1994 al 2003, esso ha ottenuto dalla Banca Mondiale, un ammontare di 4,7 miliardi di dollari per la realizzazione di 35 progetti. Durante il periodo preso in esame, la Banca si è imbarcata in una serie di strategie a supporto di importanti e rivelanti cambiamenti nel paese. Gli esiti sono stati incerti, poiché è estremamente complicato per il governo dover fronteggiare gravi problemi fiscali, causati sia da fattori endogeni che esogeni. La situazione macroeconomica si è aggravata maggiormente nel periodo preso in esame, essa ha rappresentato la questione principale. Durante l’anno fiscale 1993\94, il clamoroso debito ammontava approssimativamente al 93% del PIL. Comunque dopo questa crisi e durante il resto della decade, gli indici di crescita stavano al di sotto del 4 %. Il Pakistan sembrava essere entrato in un circolo vizioso, infatti la crescita del debito e del disavanzo di bilancio, impediva al governo la manutenzione delle infrastrutture o di investire nella formazione di nuovo capitale o nello sviluppo sociale, tutte cose di cui aveva estremo bisogno per raggiungere alti livelli di crescita. Le strategie della Banca riflettevano il forte bisogno del paese di instaurare riforme fiscali e strutturali. La Banca poneva l’accento soprattutto sulla riforma fiscale, specialmente per allargare la base imponibile e eliminare le esenzioni, e adeguare i costi della ripresa per i servizi pubblici. I componenti dei costi della ripresa erano abbinati ad una forte ripresa della partecipazione del settore privato nell’erogazione dei servizi (sia attraverso privatizzazioni che attraverso la partecipazione dei settori privati ai nuovi progetti) in particolar modo nei settori dell’energia e delle infrastrutture. Le riforme dovevano riguardare, la pubblica amministrazione, la gestione della spesa e anche il settore finanziario. Durante i primi anni ’90 il principale strumento della Banca per le riforme fiscali e gli aggiustamenti strutturali fu il dialogo. La Banca stava preparando già dal 1990 un allineamento del prestito, ma non poté procedere a causa di una fragile congiuntura macroeconomica. Il 23 settembre 1993, approfittando delle riforme supportate dal Governo ad interim, relative al settore pubblico, il piano fu approvato. La situazione macroeconomica continuava a peggiorare, e cosi la Banca si astenne dal portare a termine ampie operazioni di aggiustamento economico, tornando a lavorare con il Fondo Monetario Internazionale, che divenne il principale strumento di supporto di quest’area. In seguito ai test nucleari pakistani, si sviluppò una forte crisi del cambio estero. Malgrado gli scarsi risultati delle riforme macroeconomiche, la Banca approvò un prestito di 350 milioni di dollari come parte di un generale programma finanziario in collaborazione con il FMI, l’ADB e il Paris Club. Poiché si percepì la portata della crisi, le riforme non furono sostenute, e nel settembre del 1999, il FMI sospese formalmente l’ESAF141.

141 Enhanced Structural Adjustment Facility Program.

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Circa un anno dopo prese il potere il governo guidato dal generale Musharraf. Egli cercò un nuovo avvicinamento con il FMI e negoziò nel gennaio del 2001, altri Paris Debt Restructuring.142 La situazione ha subito un miglioramento dal 2000, il governo ha fatto solidi progressi su un numero di questioni chiave, incluso il controllo dell’inflazione, la riorganizzazione delle riserve e la ristrutturazione del debito. La combinazione di un miglioramento finanziario, una buona agenda di riforme, il supporto internazionale ha consentito al Pakistan di accedere al mercato delle obbligazioni private. Comunque le riforme sono ancora fragili, sebbene il debito fiscale sia stato ridotto, escludendo le sovvenzioni che rimangono al 4% del PIL. Nel complesso le raccomandazioni della Banca (implemento della privatizzazione, semplificazione della struttura delle tasse, crescita dell’imponibile, semplificazione della macchina amministrativa) erano efficaci e rimangono valide per tutto il corso del periodo preso in esame; esse soprattutto negli ultimi anni, hanno ispirato le politiche di governo. Bisogna anche sottolineare il cambiamento dell’ambiente, durante il periodo della ricerca; infatti negli anni ’90, l’instabilità del governo ha reso difficile l’adozione di valide riforme, mentre negli ultimi cinque anni di governo la sua stabilità ha reso possibile la realizzazione di un ampio numero di riforme. Come non ricordare però, che l’economia pakistana è anche affetta da fattori esogeni. L’alluvione dei primi anni ’90 e le sanzioni economiche del 1998 hanno senz’altro avuto effetti negativi sui suoi risultati. in seguito all’11 settembre 2001, il paese ha beneficiato del supporto di diversi donatori: gli Usa con un contributo di 600 milioni di dollari, il FMI con un pacchetto di aiuti pari circa a un miliardo di dollari. Concludendo possiamo affermare che i migliori risultati si sono ottenuti nelle aree sotto il controllo diretto del governo federale, incluse le riforme del servizio civile, la revisione contabile e la contabilità pubblica, le riforme sul commercio e la ripartizione di bilancio. Le riforme nelle aree come il potere,la determinazione del prezzo del gas ecc. non hanno ricevuto i fondi necessari per essere avviate. Malgrado i lievi miglioramenti verificatisi all’inizi del 2000, i risultati non possono dirsi soddisfacenti, infatti il totale del debito rimane ancora molto alto, circa il 69%143. I risultati dei programmi della Banca nell’ambito della riduzione della povertà e nello sviluppo del settore sociale non sono soddisfacenti. Statistiche governative, stimavano che il livello di povertà nel biennio 1992/93 era del 26,8% delle famiglie. Lo stato riteneva che la causa dell’alto livello di povertà fosse dovuto in larga parte al limitato accesso dei poveri all’assetto produttivo e agli inadeguati servizi pubblici. Per intenderci, forniamo alcuni dati preliminari: mortalità infantile al 91%, indice di analfabetismo al 65% nonché alta malnutrizione tra i bambini. Secondo la Banca il debole sviluppo sociale potrebbe affliggere il paese nella crescita e nello sviluppo umano a lungo-termine. La Banca ha ritenuto obiettivo primario la riduzione della povertà. Cosi nel 1992 ha adottato un triplice approccio: supporto al Programma di Azione Sociale del governo; supporto ai progetti agricoli e industriali che aumentassero le opportunità per i piccoli contadini e le piccole e medie imprese e infine, particolare attenzione sull’obiettivo della riduzione della povertà come parte delle politiche macroeconomiche della Banca, includendo quei fattori che avrebbero potuto avere effetti sulla capacità dell’economia di crescere e creare nuovi posti di lavoro, nonché la questione fiscale che avrebbe potuto influire sulla capacità del governo di mettere in contatto infrastrutture e bisogno di sviluppo umano.

142 Piani di aggiustamento strutturale promossi da enti privati. 143 IEG, Pakistan’s: An Evaluation of the World Bank’s Assistence, The World Bank, Washington, 2006, pp.11-14.

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Il veicolo primario per il raggiungimento del primo punto era la SAP144, in seguito indirizzò l’attenzione sull’erogazione dei servizi. Nel 1998 la strategia della Banca introdusse una discussione sulla possibilità di indirizzare un programma che provvedesse alla protezione sociale, cosi come la costituzione di un Fondo per Alleviare la Povertà in Pakistan, cosa che venne realizzata nel 1999, inoltre un sostegno al microcredito (specialmente per le donne) e un miglioramento delle infrastrutture su piccola scala. Nel 2001 fu chiaro che malgrado tutti gli sforzi, la SAP non era stata in grado di realizzare tutti gli obiettivi prefissati, malgrado gli investimenti governativi nonché quelli di donatori internazionali. La nuova strategia di governo fu aumentare la devolution e la contabilità a livello locale per migliorare l’erogazione dei servizi. La Banca supportò queste iniziative in Sindh e nella Provincia della Frontiera di nord-ovest. La questione di genere, rappresentava un ulteriore e profondo problema, cosi sia la Banca che il governo disegnavano progetti con grande attenzione all’erogazione di servizi che ponessero rimedio ai bassi livelli di istruzione femminile, alle scarse iscrizioni scolastiche e agli indicatori sanitari. Il supporto della Banca nel programma governativo per la salute delle lavoratrici donne, per esempio, migliorò l’accesso delle donne all’assistenza sanitaria, particolarmente nelle aree della pianificazione familiare, dell’assistenza prenatale e natale. Venivano distribuiti incentivi extra per incoraggiare le ragazze a frequentare la scuola, cosi come borse di studio e libri di testo gratis. Vennero assegnate risorse anche per incrementare il numero di insegnanti donna. La Banca cosi come molti pakistani ben informati, definiscono gli anni ’90 come la “decade perduta”, secondo questa indagine, nel 2001 le famiglie al di sotto della linea di povertà sono cresciute dal 26,8% del 1992/93 al 32,1%. Inoltre si assiste ad un peggioramento nella qualità dei servizi erogati. Per esempio, gli ospedali rurali e i dispensari mancano di personale, e non hanno un sistema effettivo di supervisione sulla distribuzione dei medicinali. Le condizioni igieniche di alcuni fra i migliori ospedali sono inadeguate. Il personale è scarsamente motivato e malamente amministrato. La non curanza e la negligenza sono usuali. Le condizioni nell’istruzione, nel welfare sociale, la protezione dell’ambiente e i programmi di welfare per la popolazione sono ampiamente simili. Sebbene siano stati fatti progressi in importanti aree come la vaccinazione infantile, la fertilità, la mortalità infantile e l’indici di iscrizione femminile alla scuola primaria si nota che nel 2004 “lo sviluppo degli indicatori umani continua a stagnare dietro quei paesi con simili indici di reddito pro capite, e malgrado gli incoraggianti progressi in alcune aree si necessita di innescare un più rapido progresso. Il Pakistan si trova al 138° posto su 177 nella classifica degli indici di sviluppo umano. L’indice di mortalità infantile del 76% e addirittura al di sopra di quella del Bangladesh che ha un indice del 48% e più di quattro volte grande di quello dello Sri Lanka al 16%. Il suo indice totale di fertilità è più alto rispetto a quello dell’India al 2,9% e del Bangladesh al 2,95%. La mortalità femminile è del 66%, ciò significa che il Pakistan ha una più bassa percentuale di popolazione femminile rispetto al normale. L’iscrizione femminile a scuola e l’alfabetizzazione resta indietro rispetto a quella maschile. Permangono anche differenze fra aree rurali e urbane e tra province. Mentre la povertà nelle aree urbane tra il 1992/93 e il 2002/03 è passata dal 28,3% al 22,4%; nelle aree rurali è cresciuta dal 24,6% al 38,7%, un sostanziale allargamento del gap rurale-urbano.

144 Social Action Program.

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Oltre ai risultati sulla povertà sociale, il programma della Banca fallì nel raggiungere il suo obiettivo primario intermedio, cioè la destinazione di maggiori risorse al settore sociale. Sebbene, l’ambiente per un miglioramento dei servizi sociali è stato impedito da uno spazio fiscale estremamente ridotto la crescita della spesa mirava ai poveri, la strategia della Banca per la riduzione della povertà e lo sviluppo del settore sociale aveva in se stessa la sua debolezza. Primo, la strategia si focalizzava sull’erogazione dei servizi piuttosto che sull’origine delle cause della riduzione della povertà e sulla promozione di reddito generato da attività per i poveri, particolarmente nelle aree rurali145. Il supporto della Banca nei confronti dello sviluppo rurale, per esempio, era focalizzato sull’irrigazione e la bonifica non curante delle attività legate al bestiame, poca attenzione fu dedicata all’accesso dei poveri agli approvvigionamenti di acqua, inoltre non a tutti erano garantiti accessi all’irrigazione, che finì per diventare la questione principale delle ineguaglianze di reddito. Un altro limite fu rappresentato dal non aver supportato l’elettrificazione completa delle aree rurali. Secondo, malgrado la Banca avesse compiuto un numero considerevole di analisi e studi rispetto alla questione dell’economia politica e delle relazioni di potere che erano rilevanti per generare sviluppo, questi avevano ampiamente ignorato la concessione di prestiti o la designazione di progetti relativi all’accesso femminile al mercato del lavoro e all’ineguaglianza dei territori in cui veniva ad operare. Terzo, all’interno dell’erogazione dei servizi, la concessione di prestiti della Banca era focalizzata maggiormente sulla SAP, e all’interno di questa aumentare la quantità piuttosto che la qualità del servizio. Tutti i documenti sulla politica della Banca e del governo riconoscono che la povertà dipende da questioni come l’accesso alla terra, il credito e altri input, la capacità di migliorare i mezzi di sussistenza, il bisogno di protezione sociale ecc.. La questione della povertà dovrebbe essere tradotta nella scelta di progetti realizzati da membri di diversi settori in modo da avere un approccio il più possibile olistico nel concedere prestiti per alleviare la povertà. I progetti hanno inoltre estremo bisogno di essere fortemente sponsorizzati dall’apparato istituzionale ed essere concordati con gli enti locali. Malgrado in alcune aree ci sia stato un miglioramento, la povertà continua a crescere e il paese ristagna ancora fra i suoi vicini e altri a basso reddito negli indicatori chiave. Il settore sociale soffre di una compressione delle risorse e di una situazione fiscale deteriorata durante l’ultimo periodo della ricerca, la mancanza di una forte strategia di indirizzo è la causa della povertà e dei pochi programmi di miglioramento. Mentre cresce lo spazio fiscale e la devolution dell’erogazione dei servizi dovrebbero migliorare i servizi sociali, queste iniziative non hanno ancora avuto nessun impatto. I risultati sono considerati insoddisfacenti. Gli ultimi due anni hanno visto una ripresa della crescita. Questo potrebbe essere dovuto al supporto internazionale o al nuovo afflusso di fondi stimolato dalla fiducia degli investitori nel governo. Dove la Banca ha focalizzato il suo supporto, si è assistito a progressi in importanti aree come il commercio e i servizi bancari. Recentemente, sono iniziate le riforme infrastrutturali, in aree come il gas e il petrolio, le autostrade e le telecomunicazioni. Il governo a continuato privatizzare le compagnie e ha aperto la competizione nelle aerolinee, nelle telecomunicazioni e nel settore finanziario. Comunque questi settori sono ancora in una fase iniziale di riforme. Le infrastrutture hanno mostrato limiti di miglioramento concreti, primariamente nel settore di potere, dove gli investimenti sono trattati in un modo che danneggia la percezione del clima degli investimenti nel paese.

145 Ivi. pp. 15-19.

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Pochi i risultati anche nel settore agricolo. Mentre la crescita agricola era solida, gli effetti sulla povertà rurale erano minimi, come la questione principale della sperequazione della terra, l’impari accesso all’acqua, al credito e ad altre risorse; mentre non erano affrontati la crescita dell’occupazione rurale e dei redditi rurali. Un altro problema fu rappresentato dal fatto che la Banca non diede troppa importanza nella formulazione dei programmi all’ambiente nella quale avrebbero dovuto produrre degli effetti146. Poiché la maggior parte della popolazione povera si sostenta attraverso attività legate all’agricoltura, la carenza d’acqua, l’incremento della salinità del suolo se non presi in considerazione sufficientemente potrebbero nel futuro aumentare il numero dei poveri. Sono inoltre state ignorate problematiche come l’industrializzazione e l’inquinamento urbano. Nel complesso i risultati della crescita sostenibile sono stati moderatamente soddisfacenti. La Banca ha lavorato per supportare il governo nel miglioramento della pubblica amministrazione. Comunque, la corruzione è ancora endemica nell’erogazione dei servizi base e il rafforzamento della disciplina fiscale non ha ottenuto un miglioramento nell’ottemperanza fiscale o nella crescita del gettito fiscale. I risultati in quest’area sono da considerare insoddisfacenti. Per quanto miglioramenti ci siano stati in alcune aree della direzione macroeconomica e nella crescita, le riforme in queste aree sono ancora fragili. Complessivamente, il risultato è moderatamente insoddisfacente147. Analizziamo ora ogni aspetto preso in considerazione dall’analisi della Banca Mondiale. 4.2 Sistema finanziario islamico Il Corano148, vieta categoricamente il pagamento di interessi e proibisce qualsiasi richiesta di rimborso superiore alla somma prestata, a prescindere dal fine per il quale il prestito è stato concesso: dunque l’interesse è inaccettabile, sia che i prestiti siano destinati ad attività produttive, sia per i prestiti destinati al consumo149. Il fatto che l’interesse sia vietato, fa automaticamente del prestito un attività caritatevole, gli imprenditori possono scegliere se finanziare le proprie attività con capitali propri oppure con capitali acquisiti concedendo una partecipazione agli utili. Le attività commerciali e il profitto che ne deriva sono lecite. Il profitto si può ricercare, impiegando capitali propri, oppure in società con altre persone che contribuiscano con una quota di capitale. È inoltre lecito ricercare il profitto attraverso accordi di mudaraba150. In tutti e tre i casi

146 Ivi. pp. 21-27. 147 Ivi. pp. 37-40. 148 In lingua araba Qur’an, il nome significa letteralmente “recitazione” e indica la Rivelazione Divina trasmessa agli uomini attraverso Maometto, l’ultimo dei profeti inviati da Allah, e che secondo l’ortodossia avrebbe avuto una funzione di semplice ricettacolo della Parola Divina. Il Corano è diviso in centoquattordici capitoli (sure) di varia lunghezza, distinte in base ai periodi della Rivelazione e comunemente chiamate “sure medinesi o meccane” in riferimento ai due luoghi principali (Medina e Mecca) dove Maometto ha ricevuto la Parola Divina. Il Corano enfatizza particolarmente l’idea di movimento e di giustizia sociale. La legge morale contenuta in esso è considerata immutabile e ad essa gli uomini devono sottomettersi. La sottomissione alla Legge Divina è appunto chiamata “islam” e coloro che vi aderiscono sono definiti “muslimin” (musulmani cioè sottomessi alla volontà divina). All’epoca di Maometto, il Corano era stato affidato alla memoria dei fedeli, che lo recitavano nelle loro preghiere, e solo in parte era stato scritto su pergamene. Abu Bakr, il primo Califfo propose una prima redazione del Corano, ma il testo che è oggi comunemente accettato risale al periodo di Uthman, il terzo Califfo. Quest’ultimo decise dell’attuale dell’attuale sistemazione delle parti del Corano, principalmente basate sulla lunghezza delle sure. 149Corano, II, 275, “ La compravendita è come l’usura. Ma Dio ha permesso la compravendita e ha proibito l’usura”. 150 È un tipo di finanziamento fiduciario dove una parte fornisce il capitale e l’altra il lavoro. In caso di insuccesso, la parte che ha fornito il capitale perde i propri fondi e il socio non è corresponsabile. Dato l’elevato rischio dei contratti di questo tipo, le banche investono prevalentemente in progetti a breve termine, come l’acquisto di materie prime e le operazioni di import-export.

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(autofinanziamento, società e partecipazione agli utili) il rischio è a carico del proprietario dei capitali. Nelle economie semplici, nella quale le principali attività sono l’agricoltura e l’allevamento si utilizza prevalentemente l’autofinanziamento. Quando le economie diventano più complesse, essa non risponde più alle esigenze, le attività commerciali non possono che essere finanziate sulla base di accordi di società e di partecipazione agli utili. Il finanziamento diretto però, genera alcuni problemi di incontro fra domanda e offerta, nasce dunque un sistema di finanziamento indiretto, nel quale gli individui che possiedono capitali in eccedenza e gli individui in condizioni di passività non tratterebbero direttamente gli uni con gli altri, ma si servirebbero di intermediari il cui compito consiste nell’ottenere fondi dalle eccedenze fornendole a coloro che ne hanno necessità. Gli intermediari, svolgono svariate e importanti funzioni, oltre a ripartire il rischio, accertano la redditività dei progetti da finanziare, sorvegliano l’andamento dei progetti e si assicurano che vengano osservati i principi della buona gestione e i termini del contratto. Tutti questi vantaggi fanno si che, mano amano che l’economia si diversifica e il mercato si espande, i finanziamenti indiretti assumono importanza maggiore rispetto ai finanziamenti diretti. Una banca commerciale nell’Islam151 è organizzata come una società per azioni i cui soci forniscono il capitale iniziale. Essa viene gestita dai soci attraverso i loro rappresentanti al consiglio di amministrazione. La sua principale attività consiste nell’ottenere fondi dal pubblico sulla base di accordi di mudaraba e nell’erogare fondi con il medesimo sistema. L’utile lordo della banca è costituito dalle quote degli utili di coloro che si servono dei fondi, secondo la percentuale stabilita. Una volta detratte le spese connesse alla gestione dei fondi, l’utile viene ridistribuito proporzionalmente fra capitale azionario e depositi. La principale differenza con le banche tradizionali che emerge da questo quadro iniziale, è la sostituzione dell’interesse con la partecipazione agli utili. Il finanziamento del debito prevede l’obbligo di rimborsare la somma prestata, più un utile predeterminato a prescindere dall’esito del progetto nel quale i fondi sono stati impiegati. La partecipazione agli utili obbliga colui che utilizza i fondi a cedere alla banca, oltre ai fondi ricevuti, una percentuale prefissata dei profitti realizzati. Qualora non si realizzi alcun profitto, il mutuatario dovrà restituire i fondi ottenuti, se ha realizzato delle perdite, dovrà risarcire la somma prestata, meno l’ammontare delle perdite subite. Le obbligazioni finanziarie dei mutuatari nei confronti della banca non corrispondono ad una somma fissa (capitale più interessi) ma variabile a seconda degli effettivi risultati ottenuti dall’impresa. Il vantaggio di un sistema di finanziamento basato sulla partecipazione agli utili, sta nel fatto che imprenditori, banche e depositanti sono tutti nella stessa condizione. Le loro prospettive di guadagno o di perdita variano armonicamente; quanto più sono elevati i profitti dell’attività economica, tanto maggiore saranno gli utili per i depositanti e per gli azionisti. Attualmente, le attività bancarie includono numerosi servizi convenzionali, quali ad esempio la custodia di sicurezza, il trasferimento dei fondi, consulenza ecc., questi servizi vengono erogati in cambio di una tariffa o commissione superiore al loro costo, 151 Una banca islamica è una società pubblica o privata, o un misto delle due che funziona secondo i precetti della shari’a, cioè la legge cranica. Nello svolgimento di tutte le attività economiche, industriali e commerciali devono essere osservati in modo particolare due principi della Legge coranica: l’eliminazione dell’interesse e la prestazione dei servizi sociali ai bisognosi. Le banche islamiche si propongono di ottenere un profitto attraverso le loro operazioni, ma senza speculazioni. Nella maggior parte dei paesi, le banche islamiche svolgono quattro attività fondamentali: prestazione dei normali servizi bancari; fornitura di servizi per l’apertura di conti non finalizzati all’investimento; fornitura di servizi destinati a promuovere gli investimenti nelle attività commerciali e produttive; erogazione di servizi sociali umanitari tramite concessione, in circostanze particolari, di scoperti di fondi gratuiti e prestiti a condizioni speciali.

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in modo che la banca si garantisca un utile netto. Le nuove attività svolte dalle banche oltre a quelle già citate, sono il murabaha, il ijara e il bai’salam. Il murabaha, la banca acquista le merci di cui il cliente ha bisogno e gliele vende ricavandone un utile lordo, le vende cioè al prezzo di costo, accresciuto di un margine di utile prestabilito; il pagamento è rateale e avviene nell’arco di un tempo prestabilito. Il ijura, è una forma di leasing. La banca acquista un macchinario o un edificio e lo affitta all’utilizzatore in cambio del pagamento periodico di una somma fissa. Una variante a questo contratto è rappresentato dallo ijura wa igtina 152, in base al quale il cliente acquisisce la proprietà del bene noleggiato pagandone il costo a rate insieme al canone di affitto. In questo caso, l’ammontare dell’affitto diminuisce mano a mano che la quota di proprietà della banca si riduce e la quota di proprietà del cliente aumenta. Fino a quando la banca è proprietaria del bene essa è soggetta ai rischi che questo comporta, questi sono tuttavia assicurabili e facilmente trasferibili al cliente. In virtù del fatto che il canone di affitto viene stabilito per l’intera durata del contratto, questo frutta alla banca un utile stabilito sui fondi investiti. Esiste inoltre, il salam che è un contratto di vendita nel quale il prezzo del bene è pagato al momento della firma del contratto, mentre la consegna avviene successivamente. Questo genere di accordo è utilizzato prevalentemente per i prodotti agricoli, talvolta anche per i manufatti; l’unica differenza consta nel fatto che il pagamento immediato del prezzo complessivo è obbligatorio per i prodotti agricoli, mentre non lo è per i manufatti. L’acquirente ha la facoltà di rivendere a terzi i beni acquistati, con un nuovo contratto di salam. Le banche islamiche hanno adattato questi contratti alle loro attività, va sottolineato che esse sono però dal punto di vista giuridico attività commerciali, non operazioni finanziarie. In una società islamica la banca centrale rappresenta l’unica fonte di moneta ad alto potenziale. Essa è in grado di controllare l’offerta di moneta e di credito. Oltre ad assicurare la liquidità e la stabilità dell’economia, essa è tenuta ad esercitare uno stretto controllo sui mercati finanziari, in modo da garantirne la correttezza e l’equità. Un aspetto notevole di questa mansione risulta l’assicurare l’adeguata gestione della contabilità da parte dei mutuatari, delle banche e degli altri intermediari finanziari. In un sistema finanziario basato sulla partecipazione agli utili, sia il profitto ottenuto dai capitali sia il rimborso dei capitali stessi dipendono dagli utili effettivamente realizzati dall’azienda che ha ricevuto il finanziamento. Gli interessi degli attori coinvolti possono essere preservati soltanto tramite l’accurata revisione dei conti delle aziende, delle società per azioni, delle banche e delle altre organizzazioni economiche o finanziarie. Sarebbe auspicabile che, in una economia islamica, questa funzione fosse svolta da un ente autonomo in stretta relazione con l’autorità monetaria. Inizialmente le banche islamiche nacquero come piccole realtà locali che si occupavano prevalentemente di aiutare i fedeli a risparmiare in vista dello hajj153. Queste assunsero via via più funzioni e si estesero dal Medio Oriente anche in Asia. Fino alla nascita nel 1975 di un istituzione finanziaria islamica internazionale, la Islamic Development

152 A differenza del contratto di ijura, il cliente è obbligato in questo caso ad acquistare il bene al termine del periodo di affitto. In pratica, il cliente apre in un primo tempo un conto presso l’istituzione finanziaria con cui è stato concluso il contratto. Il conto è bloccato per tutta la durata del contratto e il cliente è tenuto a effettuare versamenti periodici che sono reinvestiti dalla banca. Quando il saldo del conto del cliente raggiunge il costo di acquisto del bene più un margine di guadagno per la banca, i fondi del bene sono trasferiti alla banca e il cliente diventa proprietario del bene oggetto del contratto. 153 Uno dei precetti fondamentali dell’Islam, indica il pellegrinaggio ai luoghi santi della Mecca e di Medina ed è obbligo per ogni musulmano in salute ed abbiente. Esso è, in parte considerato come una parziale realizzazione della umma, comunità in quanto entità fisica. I riti dello hajj si tengono nell’ultimo mese dell’anno musulmano.

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Bank154 che mirava alla promozione dello sviluppo economico e sociale delle comunità e dei paesi islamici nel rispetto della shari’a. I fondi di queste banche erano costituiti dal capitale azionario proveniente dai depositi di investimento basati su accordi di musharaka155 e mobilizzati sotto forma di mudaraba e da depositi a vista sotto forma di qard156. Le attività bancarie conformi alle norme islamiche sono diffuse in diverse zone del mondo e in alcuni paesi sono state adottate a livello nazionale. In quanto istituzione interislamica, la Islamic Development Bank è cresciuta a ritmo costante. Nel complesso le banche islamiche hanno ottenuto risultati positivi ma tutto ciò non esclude l’esistenza di alcuni problemi157. Le istituzioni finanziarie islamiche hanno dimostrato che è possibile svolgere attività finanziarie prescindendo dall’interesse. Sono riuscite a eliminare gli interessi passivi, in quanto non gestiscono fondi su interesse, mentre per quanto riguarda gli interessi attivi, le banche hanno dovuto ricorrere al murabaha158 e ad altri sistemi di finanziamento che hanno una caratteristica comune: il rendimento sul capitale viene stabilito a priori. I principali vantaggi del sistema bancario islamico rispetto ai sistemi bancari fondati sull’interesse sono connessi all’impiego della partecipazione agli utili in luogo dell’onere fisso sul capitale. Le argomentazioni a favore del sistema basato sulla partecipazione, in confronto a uno basato sull’interesse, sono:

1) L’imposizione di un onere fisso sui capitali è iniqua, dal momento che i risultati dell’operazione nella quale i capitali vengono investiti sono incerti. Una partecipazione ai profitti effettivamente realizzati dall’impresa sarebbe senz’altro più giusta.

2) L’interesse consente una distribuzione delle risorse meno efficace di quanto non accada per la partecipazione agli utili. Quest’ultima consente infatti di convogliare i fondi investibili verso i progetti con le maggiori prospettive (teoriche) di redditività, mentre nel sistema basato sull’interesse i fondi vengono erogati ai mutuatari più meritevoli di credito, i cui progetti non sono necessariamente i più redditizi.

3) Un sistema basato sulla partecipazione agli utili è più stabile, dal momento che il costo del capitale si adegua automaticamente alle oscillazioni della produttività causate da un mutamento del clima economico. Oltre a prevenire i fallimenti questo sistema garantisce la corrispondenza tra gli efflussi di cassa di un’azienda e i suoi obblighi di pagamento, consentendo al sistema finanziario di funzionare senza impedimenti. Un eventuale deterioramento delle attività risulta inoltre facilmente assorbibile sul versante delle passività, quando le une e le altre siano basate sulla ripartizione degli utili. Infine, la creazione di moneta in un sistema basato sulla partecipazione agli utili avviene in funzione degli investimenti: questo impedisce il verificarsi di eccessi nell’offerta di moneta, eventualità

154 Fondata nell’ottobre 1975 con la partecipazione di quarantaquattro paesi membri (paesi dell’Organizzazione della Conferenza Islamica), ha sede a Gedda e ha iniziato le sue operazioni nel 1977. i principali azionisti sono l’Arabia Saudita (26%), la Libia (16%) e il Kuwait (13%). I suoi obiettivi principali sono, la promozione del commercio estero tra i paesi membri e la creazione e il funzionamento di fondi speciali per obiettivi determinati, in particolar modo per programmi di sviluppo. 155 Tipo di finanziamento sotto forma di partecipazione dove, a differenza dei contratti di mudaraba, le due parti contraenti apportano entrambe quote di capitale. La ripartizione dei futuri utili è fissata al momento della conclusione del contratto, le perdite sono ripartite proporzionalmente alle quote di capitale investite dai contraenti. 156 Prestito senza interesse. 157 N. Ayubi, op.cit., pp.178-200. 158 È un tipo di finanziamento a costo aggiuntivo (o compravendita con margine di profitto) dove l’istituzione finanziaria, in genere una banca, acquista beni contro la promessa del cliente di comperarli alla consegna, a un prezzo superiore a quello di acquisto. Il costo fatturato deve riflettere un costo “reale”, cioè il prezzo di mercato del bene acquistato, a cui viene aggiunto un margine di profitto per i servizi della banca. In taluni casi, l’acquisto e la vendita possono avvenire simultaneamente.

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sempre possibile in un sistema nel quale la creazione di moneta è basata sul prestito.

4) La sostituzione dell’interesse con la partecipazione agli utili incoraggia la crescita economica, dal momento che la disponibilità di capitali a rischio destinati agli investimenti aumenta, mentre il costo del capitale rimane costantemente inferiore alla sua produttività, condizione che un sistema basato sugli interessi non sarebbe in grado di garantire.

La ricerca di un’alternativa ai sistemi bancari basati sull’interesse ha preso le mosse dalla proibizione dell’interesse secondo i precetti islamici. Le alternative all’interesse proposte dagli economisti musulmani si basano sulla compartecipazione e i presupposti economici del sistema islamico risultano strutturati in funzione di questo concetto. È stato detto che alcuni di questi sistemi di finanziamento contengono qualche elemento di rischio : in ogni caso si tratta di rischi assicurabili e assicurati. L’incertezza o il rischio connessi con l’attività finanziaria vengono interamente trasferiti alla controparte. Un sistema finanziario costruito esclusivamente su questi modelli di finanziamento non può dirsi superiore, in termini di equità, efficienza, stabilità e potenzialità di crescita, a un sistema basato sull’interesse. È necessario prendere in considerazione la capacità di sopravvivenza del sistema finanziario basato sulla partecipazione agli utili esaminando i fattori che ne determinano la scarsa popolarità: essi risultano validi e convincenti se si considera l’intero contesto economico ma non necessariamente a livello microeconomico. In primo luogo, è evidente che i capitali impiegati in un’impresa sono produttivi e determinano un utile netto a livello macroeconomico. La seconda argomentazione riguarda la possibilità che coloro che utilizzano i fondi si comportino slealmente, non notificando alla banca gli effettivi utili ottenuti e quindi privandola della quota di sua competenza sui profitti effettivi o addirittura di parte del capitale erogato. L’attività bancaria secondo i precetti islamici ha avuto inizio da singoli istituti di credito che agivano nell’ambito di un sistema finanziario basato sull’interesse : in una simile situazione, la seconda argomentazione non è valida. Per quanto riguarda la prima argomentazione, la sua applicabilità alle singole banche islamiche è inficiata dalla predominanza del sistema bancario basato sull’interesse. Per quanto riguarda le singole banche islamiche, il fatto che esse siano riuscite ad applicare in qualche misura il sistema della partecipazione agli utili va attribuito in parte alla buona qualità morale dei loro clienti, e in parte ai vantaggi economici connessi allo stesso sistema. Le difficoltà che le banche incontrano nell’ampliare il raggio d’azione di tale pratica sono comprensibili. Il problema del rischio morale può essere affrontato sia sul piano istituzionale sia su quello etico solo se l’intero sistema bancario viene strutturato secondo il regime di partecipazione agli utili. Lo stesso problema può invece assumere dimensioni preoccupanti per le singole banche islamiche che si trovano a operare in un ambiente “ostile”. Prima che le banche islamiche possano ampliare la portata delle loro operazioni di partecipazione agli utili, dovranno dunque verificarsi tre condizioni:

1) Le istituzioni finanziarie dovranno disporre di strumenti adeguati per valutare i progetti in base alla loro redditività e per tenere sotto controllo il loro andamento.

2) Gli anticipi concessi sulla base della partecipazione agli utili dovranno essere assicurati contro la cattiva amministrazione intenzionale e la frode.

3) Tramite accordi istituzionali, dovrà essere elaborato un sistema di garanzia e/o di assicurazione parziale o totale contro le perdite per gli investimenti effettuati sulla base della partecipazione agli utili.

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La prima condizione, ossia il controllo dei progetti, viene attuata con sempre maggiore frequenza e da essa dipende gran parte del successo di un’operazione di partecipazione agli utili. La seconda condizione implica la necessità di specificare le circostanze nelle quali il socio operante nell’ambito di un accordo di mudaraba è soggetto alla legge islamica. L’attuazione del sistema basato sulla partecipazione agli utili richiede alle singole istituzioni finanziarie una buona dose di coraggio e di ingegnosità. Tra i vari metodi di finanziamento senza partecipazione attualmente praticati dalle banche islamiche, il murabaha è quello che ha conquistato maggiore popolarità. Pur essendo un’operazione corretta e lecita il murabaha ha in realtà un funzionamento simile a quello dei prestiti su interesse, tanto che sia gli oppositori che i sostenitori del sistema bancario islamico sono indotti a chiedersi in che cosa consista la cosiddetta “islamicità”. Come osservano i più esperti professionisti del sistema bancario islamico, il murabaha è adatto soltanto per le operazioni commerciali. Di conseguenza, il capitale depositato nelle abnche islamiche serve soltanto a potenziare le attività commerciali, laddove il presupposto originario era che il capitale fosse distribuito in tutte le attività e nei diversi settori dell’economia. Il murabaha è per sua propria natura un atto di vendita e un contratto di vendita equivale a un’operazione commerciale. Pertanto l’impiego di enormi quantità di fondi negli accordi di murabaha restringe il campo di attività delle banche islamiche in confronto a quanto esse avrebbero potuto fare alla luce della teoria economica islamica. La predominanza del murabaha ha rappresentato dunque un problema per le banche islamiche, grave al punto da aver creato una sorta di crisi di identità all’interno del movimento finanziario islamico. Un altro problema che si pone alle istituzioni finanziarie islamiche riguarda il modo di affrontare i ritardi nel pagamento e le inadempienze dei clienti. L e conseguenze di questo fenomeno sono disastrose poiché i ritardi nel pagamento hanno gravemente ostacolato il funzionamento della Idb ( Islamic Development Bank). Vi è inoltre un altro punto da prendere in considerazione: l’emissione di lettere di garanzia. Questa è un’operazione normale per le banche di tipo tradizionale ma pone qualche problema alle banche islamiche. Alcune di esse forniscono questo servizio in cambio di un onorario; la questione è tuttavia controversa dal momento che alcuni giuristi sostengono che le garanzie andrebbero emesse gratuitamente. Secondo gli studiosi islamici è lecito richiedere un compenso tale da coprire soltanto le spese amministrative, a patto che la somma non cambi in funzione dell’importo che è oggetto della garanzia. La maggior parte degli studiosi non approva l’addebito di un costo calcolato in percentuale sull’importo della garanzia. Infine un ultimo problema è dato dal collocamento dei fondi a breve termine. Alcune istituzioni finanziarie potrebbero trovarsi di fronte a una temporanea carenza di liquidità che potrebbe essere risolta ottenendo fondi per uno o due giorni. Altre istituzioni potrebbero invece essere interessate a utilizzare in modo proficuo, anche se temporaneo, le loro eccedenze di liquidità. L’abolizione dell’interesse obbliga il sistema a trovare un metodo alternativo di transazione fra soggetti in condizione di passività e soggetti con capitali in eccedenza. Tuttavia la brevità dei termini impedisce di assoggettare questi accordi al regime di partecipazione agli utili. Alcuni hanno quindi suggerito di basare le transazioni su una percentuale dei profitti “normali” dell’ente mutuatario, calcolata in proporzione al periodo di tempo in oggetto159. In Pakistan la trasformazione ebbe inizio nel settembre del 1979, quando il presidente della Repubblica chiese al Consiglio dell’ideologia islamica di preparare un progetto di 159 M. Ariff, Islam e finanza. Regione musulmana e sistema bancario nel Sud-est asiatico, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino,1991, pp. 3-59.

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sistema economico non basato sull’interesse. Il Consiglio presentò il suo Report on the Elimination of Interest from the Economy nel giugno del 1980160. Oggi l’interesse è stato ufficialmente eliminato, alla fine di un processo graduale iniziato nel 1981 e terminato nel 1985, dal sistema di funzionamento delle banche commerciali, le prime cinque delle quali sono state nazionalizzate. L’unica eccezione è rappresentata dai depositi in valuta straniera, che sono tutt’ora fondati sull’interesse. La Banca statale del Pakistan, banca centrale del paese, ha eliminato l’interesse da tutte le operazioni di ambito nazionale, che si basano ora sulla partecipazione agli utili o sul prestito senza interesse. Inoltre “a decorrere dal 1° luglio 1985, nessun istituto bancario potrà accettare depositi a interesse e tutti i conti di risparmio, indipendentemente dalla data di apertura, dovranno essere basati sulla partecipazione ai profitti e alle perdite della banca”. Le banche pakistane utilizzano attualmente quattro principali forme di finanziamento: il prestito, il leasing, il margine di utile lordo e la partecipazione ai profitti. I prestiti vengono erogati sotto forma di qardhasan161 concessi a titolo di sovvenzione senza interessi né spese bancarie, rimborsabili se e quando il mutuatario è in grado di restituire la somma, oppure di prestiti con spese bancarie non superiori al costo proporzionale dell’operazione. La Banca statale del Pakistan determina periodicamente l’ammontare massimo delle spese che ciascuna banca può addebitare. Lo stesso metodo viene utilizzato per il finanziamento delle esportazioni in base al Programma delle Banche statali per il finanziamento delle esportazioni e del Programma per il finanziamento delle produzioni meccaniche locali. Inoltre, questi vengono erogati agli studenti dei corsi superiori. Il leasing viene utilizzato per il finanziamento degli investimenti industriali in capitali fissi. I macchinari vengono affittati al finanziatore del progetto per un certo periodo, in cambio del pagamento di una somma prefissata. “Non vi è alcun limite al tasso di remunerazione che la banca o l’istituzione finanziaria hanno diritto a ricevere”. La vendita con riserva della proprietà è una forma di leasing in cui “le rate di affitto sono stabilite in modo tale che nell’arco del periodo concordato e della normale durata utile del bene finanziato, la banca possa recuperare sia la somma effettivamente investita sia la sua quota di reddito da locazione”. Questa modalità di finanziamento viene utilizzata anche nel settore agricolo per il leasing di macchinari, pozzi tubolari, attrezzature per l’immagazzinaggio e per altre funzioni, e macchinari per la produzione casearia. Il margine di utile lordo viene impiegato per l’acquisto da parte della banca di beni che vengono rivenduti con un adeguato margine di utile in aggiunta al prezzo, sulla base di pagamenti rateali, nonché per l’acquisto di proprietà mobili e immobili destinate a essere cedute ai clienti della banca sulla base di accordi di riacquisto o simili. È interessante sottolineare che il sistema pakistano permette inoltre di effettuare detrazioni sulle cambiali documentarie interne emesse contro lettere di credito e tratte di esportazione in rupie. Il margine di utile lordo viene utilizzato per finanziare le operazioni commerciali dei governi provinciali e federali e delle loro agenzie, le tratte di importazione emesse contro lettere di credito, gli investimenti di capitali fissi del settore industriale, gli acquisti di materiali agricoli, animali da tiro o da latte e altro bestiame, frutteti, vivai e boschi. Viene inoltre utilizzato per l’edilizia abitativa. La partecipazione agli utili avviene sotto forma di partecipazione azionaria, certificati di mudaraba, certificati di partecipazione a termine e fornitura di capitali a rischio sulla base della partecipazione ai profitti e alle perdite. La banca partecipa in quanto erogatrice dei finanziamenti. Anche la controparte fornisce finanziamenti ed è

160 Si trattava della House Building Finance Corporation, della Investment Corporation of Pakistan, del National Investment Trust, della Bankers Equity Limited e della Small Business Finance Corporation. 161 Denominazione in lingua urdu per qard al-Hassan, prestito senza interesse e spese di servizio, erogato da un istituzione finanziaria islamica.

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responsabile della conduzione e della gestione del progetto. La banca, dal canto suo, può valutare, sorvegliare e controllare l’andamento dell’impresa. Essa ha diritto di richiedere alla controparte garanzie adeguate alla sicurezza dei fondi investiti. La ripartizione delle rendite fondiarie viene utilizzata per finanziare l’edilizia abitativa, il deposito dei titoli e altre strutture agricole162. 4.3 Effetti della Rivoluzione verde La Rivoluzione Verde inizia nel 1940 quando la Fondazione Rockefeller lanciò un progetto di ricerca per aiutare il miglioramento dei raccolti agricoli. Negli anni ’60, la fame e la malnutrizione rappresentavano un consistente problema nel subcontinente, la situazione era ulteriormente aggravata dalle condizioni di siccità. La Rivoluzione Verde ha rappresentare un approccio innovativo ai temi della produzione agricola che, attraverso l’accoppiamento di varietà ad alto potenziale genetico a sufficienti input di fertilizzanti, acqua e altri prodotti agrochimici, ha consentito un aumento significativo delle produzioni agricole in gran parte del mondo. Tale processo di innovazione delle tecniche agrarie iniziò in Messico nel 1944, ad opera del Premio Nobel per la Pace e scienziato statunitense Norman Borlaug, con l’obiettivo di ridurre le aree a rischio di carestia. La storia della Rivoluzione Verde in Pakistan è una storia di riso e di grano, ma soprattutto di fame; è il tentativo del governo di rispondere alla sofferenza. Il Pakistan ha iniziato la sua sperimentazione nel 1964; i risultati sono stati promettenti, un anno dopo si è avuto il più grande raccolto mai visto prima di allora nel subcontinente indiano. Il Pakistan passò da 4,6 milioni di tonnellate a 7,3 milioni di tonnellate nel 1970. La produzione alimentare è aumentata più velocemente rispetto alla crescita demografica. Ma il processo non è stato semplice, presto ci si rese conto che affinché esso fosse produttivo di effetti positivi, dovevano intervenire quattro fattori. In primo luogo, doveva esserci uno sviluppo della tecnologia, affinché i rendimenti siano alti è necessario disporre di fertilizzanti capaci di annientare malattie e insetti nocivi. In secondo luogo, bisogna fare un percorso psicologico per convincere gli agricoltori ad adottare le nuove varietà e seguire le raccomandazioni per la loro coltivazione. Il terzo fattore è economico, se gli agricoltori hanno abbastanza credito, sono disposti ad investire in nuove sementi, fertilizzanti e pesticidi. Infine il fattore politico è determinante per sostenere gli altri tre. I governi possono infatti facilitare o ostacolare la disponibilità di credito. Ben presto però si sono palesati i problemi connessi alla Rivoluzione Verde, come ad esempio l’inquinamento. Infatti, lo scolo di fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi continua ad essere una rilevante fonte di inquinamento, rappresentando la maggior parte dell’inquinamento delle acque. Benché i pesticidi più pericolosi, tossici e alle volte cancerogeni della prima meta del secolo, come ad esempio il DDT siano stati pressoché eliminati dall’uso agricolo, i loro effetti non sono stati del tutto cancellati. Per quanto riguarda il degrado del suolo, i critici sostengono che la Rivoluzione Verde distrugge la qualità del suolo su un lungo raggio. Questo è il risultato di una pluralità di fattori, inclusa l’accresciuta salinità del suolo derivante da una pesante irrigazione; “bruciatura” del suolo a causa di un uso pesante di fertilizzanti chimici, che uccidono i microbi benefici del suolo e altri organismi; erosione del suolo e perdita di importanti elementi residuali. Questo può condurre ad una dipendenza crescente dagli input chimici per compensare il deterioramento del suolo, un processo che in definitiva può fallire.

162 M. Ariff., op.cit. pp.59-64.

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Inoltre, vi è anche una dimensione sociale importante, che deve essere presa in considerazione. La Rivoluzione Verde ha introdotto grandi cambiamenti in un mondo dove la maggior parte delle persone dipende ancora dall’agricoltura per la sopravvivenza. Il risultato di molte di queste tecniche è stato l’incoraggiamento di un agricoltura di vasta scala ai danni dei piccoli contadini, che non erano capaci di competere con l’alta efficienza delle sementi della Rivoluzione Verde. I risultati sono stati gli spostamenti di massa e urbanizzazione e povertà crescenti presso questi contadini, e la perdita della loro terra a vantaggio di grandi aziende agricole.

Malgrado ci siano prove schiaccianti rispetto ai costi derivanti dalla Rivoluzione Verde la Banca Mondiale continua a promuovere una strategia volta all’eliminazione della fame, senza prendere in considerazione i problemi connessi ad una seconda Rivoluzione Verde, come l’ulteriore impoverimento del suolo, con la possibilità di incrementare fenomeni di desertificazione, inquinamento e problemi correlati alla sicurezza alimentare. Essa non è basata sull’intensificazione dei processi naturali, ma sull’intensificazione del credito e l’acquisto di beni di produzione come i fertilizzanti chimici e i pesticidi. È basata non sull’autonomia, ma sulla dipendenza, non sulla diversità, ma sull’uniformità. Dall’America vennero consiglieri e esperti, per convertire la ricerca e la politica agricola da un modello indigeno e ecologico a un modello esogeno e ad alto investimento produttivo, trovando, naturalmente, dei partner in settori dell’élite, perché il nuovo modello era conforme alle loro priorità politiche e ai loro interessi163.

4.4 L’annoso problema dei rifugiati

Prima dell’ultimo attacco all’Afghanistan, il Pakistan aveva chiuso i confini per gli afghani che non fossero in possesso dei documenti richiesti, cioè la gran parte di loro. Le ragioni erano le seguenti: “il governo pakistano non vuole accettare nuovi rifugiati e aprirà i confini solo in caso di attacco militare contro l’Afghanistan; la paura che si infiltrino taliban e terroristi tra i rifugiati; il paese non ha la possibilità di sostenere nuovi rifugiati, considerando che già due milioni di afghani sono stati ospitati”. Alcune migliaia di rifugiati afghani entrarono in Pakistan, con documento o clandestinamente, mentre un gran numero di persone rimasero bloccate sul lato del confine afghano. Stiamo parlando di circa 100.000 persone. Questi non sono fra quelli che erano in grado di pagarsi le spese di trasporto, quindi appartenenti alla classe media. I nuovi profughi vennero accolti nei campi profughi già esistenti o nelle città. Il governo voleva che i nuovi rifugiati fossero separati da quelli di vecchia data. A tal fine furono individuati 100 siti nella Provincia della Frontiera di nord-ovest e 5 in Baluchistan, tutti situati in aree tribali, molto lontane e adiacenti al confine, inaccessibili se non con il permesso rilasciato dalle autorità e con scorta armata. Il governo voleva che questi campi fossero “chiusi e controllati”, senza alcuna libertà di movimento verso l’esterno164. Il Pakistan non vuole riconoscere loro lo status di rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951165. Lo stato pakistano non ha ratificato i testi di diritto internazionale e

163 http://www.zmag.org/italy/shiva-terrorismoagricolturausa.htm 164 http://www.intersos.org/crisiafgana.htm 165 28 Luglio 1951.la Convenzione detta a chiare lettere chi può essere considerato un rifugiato e le forme di protezione legale, altra assistenza e diritti sociali che il rifugiato dovrebbe ricevere dagli stati aderenti al documento. L’articolo 1della Convenzione definisce rifugiato, una persona che si trovi fuori dal proprio paese di nazionalità o dalla propria residenza abituale, che ha un ben fondato timore di essere oggetto di persecuzione per motivi razziali, religiosi, nazionali, di appartenenza ad un particolare gruppo

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sottopone i rifugiati afghani alla legge pakistana che impedisce l’accesso al territorio nazionale ad ogni straniero non provvisto di passaporto o di un visto pakistano. Gli afghani rifugiati in Pakistan sono arrivate in ondate successive che hanno seguito il ritmo degli alti e bassi politici ed economici in Afghanistan a partire dall’invasione sovietica del 1979. Essi sono stati stimati a ben un milione e mezzo nel settembre del 2002, i più vivono in una situazione di illegalità e sono considerati “indesiderabili” da un opinione pubblica che nutre un intolleranza sempre più crescente nei loro confronti. Essi non sono denunciati all’anagrafe e di fatto non hanno alcuna esistenza giuridica, dunque nessun diritto ai sensi della legge pakistana. Le comunità afghane rifugiate in Pakistan vivono principalmente nella Provincia della Frontiera di nord-ovest, una provincia in cui vivono principalmente pashtun,vicina geograficamente e culturalmente all’Afghanistan. Peshawar, la capitale, è un nodo commerciale storico, una tappa della Via della Seta situata alla confluenza tra il subcontinente indiano, la Cina, l’Asia minore e l’Afghanistan. Questa rigogliosa attività commerciale è fonte d’opportunità di reddito per i rifugiati che gestiscono una buona parte dei commerci della città e costituiscono una mano d’opera a buon mercato per gli imprenditori locali. Numerose famiglie rifugiate, hanno preferito stabilirsi al di fuori dei campi, scegliendo la vicinanza alla città piuttosto che la rete di aiuti internazionale.

sociale o di opinione politica; ed è impossibilitato o non vuole avvalersi della protezione del suo stesso paese o ritornarvi per il timore di persecuzioni.