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Angelo Canevari DISEGNI VIRTUOSI PER UNA RILETTURA CRITICA DI “DON CHISCIOTTEL’artista e illustratore romano ha di recente pubblicato una preziosa edizione in 350 copie numerate in cui propone una sua interpretazione del capolavoro di Cervantes, attraverso immagini di straordinaria resa grafica secondo la tecnica dell’acquaforte (di cui pubblichiamo qui tre tavole). Nel suo visionario lavoro si attua una sorta di ‘rovesciamento’ della figura del Cavaliere errante che, quasi ispirata al ‘metodo Stanislavskij’, non attinge alla memoria, al vissuto, per immedesimarsi, ma si immedesima per captare dal reale una pulsione mnemo-emotiva nella quale ri-vivere qualcosa, invero, mai vissuta nella realtà. ***** di Luca Succhiarelli (…) sì che a me solo non è lecito dire ciò che a tutti è lecito (…). Torquato Tasso a Scipione Gonzaga [Ferrara, 15 aprile 1579] 1

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Page 1: DISEGNI RILETTURA CRITICA DI “DON CHISCIOTTE · Roma la statua del Bernini per capire subito che lei gode, non c’è dubbio». Così sentenzia Jacques ... poi nella struttura della

Angelo Canevari

DISEGNI VIRTUOSI PER UNA RILETTURA CRITICA DI “DON CHISCIOTTE”

L’artista e illustratore romano ha di recente pubblicato una preziosa edizione in 350 copie numerate in cui propone una sua interpretazione del capolavoro di Cervantes, attraverso immagini di straordinaria resa grafica secondo la tecnica dell’acquaforte (di cui pubblichiamo qui tre tavole). Nel suo visionario lavoro si attua una sorta di ‘rovesciamento’ della figura del Cavaliere errante che, quasi ispirata al ‘metodo Stanislavskij’, non attinge alla memoria, al vissuto, per immedesimarsi, ma si immedesima per captare dal reale una pulsione mnemo-emotiva nella quale ri-vivere qualcosa, invero, mai vissuta nella realtà.

*****

di Luca Succhiarelli

(…) sì che a me solo non è lecito dire ciò che a tutti è lecito (…).

Torquato Tasso a Scipione Gonzaga [Ferrara, 15 aprile 1579]

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«Per la Hadewijch in questione è come per santa Teresa – non vi resta che andare a guardare a Roma la statua del Bernini per capire subito che lei gode, non c’è dubbio». Così sentenzia Jacques Lacan ne Le séminaire. Livre XX. Encore (1972-1973). Di quanti si può dire che godano, nei sensi e nello spirito, alla visione di un’opera? Convinti che per vedere l’arte occorra entrare finanche fisicamente nella visione che se ne ha, penetrarla, toccarla per cogliersi còlti da cecità (prerogativa, assai frequentemente nei canovacci reticolati della mitologia, degli indovini), inaspettatamente inoltrarsi a tastoni e risvegliarsi, fin allora ed in fine, con le prove – per dirla con Joyce – di una «Luna di Miele» consumata in «Mano Propria», noi – così con l’Eudemonica schopenhaueriana – non «aspetteremo, proveremo, andremo a tentoni come novizi per vedere ciò che propriamente vogliamo e ciò che possiamo». Del «più brutto aspetto» che si sia mai visto ci sarebbe molto da dire: don Chisciotte, che dev’essere ergo uno studioso onesto, ri-vive (crediamo noi), parafrasa (ma come farebbe un San Juan de la Cruz) le letture fatte sulla propria pelle, perciò a che pro scrivere di una cosa, se si può scrivere la cosa? Valoroso hidalgo infatti, anziché limitarsi a trascriver de le cose sul suo scudo a mo’ d’«un’assai triste figura», solo, si concede il lusso di mostrar(n)e il volto. «(…) solo inviso è l’amor d’amor irriso / in franto specchio ’stretto a no vedersi / got ’ a ganascia stagna ch’è reclina / ’stringe amor a evitarsi ’n visavviso / che non più mai si sdua ’Stringe a nientar / i ’nnamorati vólti / vòlti a si star sconoscersi scordar / che s’era inprima / ne la distanza breve di due passi (…)»: nel bacio de Les Amants di René Magritte e in questi versi da ’l mal de’ fiori di Carmelo Bene dev’esser custodito – potenziale – un segreto che potrebbe tornare assai utile ad uno studioso incorrotto. Condicio sine qua non l’umiltà, questa rara capacità di essere “un solo” nulla con l’opera, di rinunciare all’io per esser tutto [in questo caso, nel Don Chisciotte] rapportato, di essere non in, ma osmosi con la pagina simile molto a quella tra don Chisciotte e Sancho Panza, dall’aspetto ossia di un dialogo monologato, “nologato”, “nologabile”, sì come quello messo in piedi da Giordano Bruno con il De gli eroici furori:

Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più risorgo; ch’i’ cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti, temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina».

Distanti ormai pochi centimetri dal su presente esempio di “citazionismo” intelligente, lasciamo riposare il collage ed offriamo una prova di quanto finora sostenuto: ad aver totalmente compiuto i fatidici «due passi» è certamente il disegnatore, scultore e scenografo Angelo Canevari il quale – nel suo Don Chisciotte recentemente pubblicato dalla Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon (in un’edizione di 350 copie numerate e con scritti di Mons. Gianfranco Ravasi, Andrea Camilleri e Vitaliano Tiberia) – compie un vero e proprio esercizio di lettura critica (vale a dire creativa), epperò – proprio come un Alberto Burri fa pittura ma non sempre la dipinge – con il linguaggio che più gli è congeniale, ossia con quello del disegno. L’artista romano (che nel 2005 ha offerto simìl prova con le ottave ariostee dell’Orlando Furioso) giunge ad un siffatto risultato “guardando” – dapprima – la pagina del Cervantes e trasmigrandola poi nella struttura della figurazione, il tutto utilizzando come viatico un’impaginazione di natura sì tridimensionale, ma all’interno della quale le regole prospettiche non sempre sono rispettate. La straordinaria resa grafica dell’edizione, oltre a non tradire la calata mimetica nella tecnica dell’acquaforte (operata dal Canevari pensando ai grandi cicli incisori realizzati tra la fine del

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Seicento e gli inizi del Settecento), a mantenere quindi funzionale il respiro dei neri, rende alla perfezione quelli che lo stesso artista definisce gli «intrecci e le sovrapposizioni grafiche che determinano gli andamenti chiaroscurali», necessari a restituire i colori (ovvero la dinamica insita nella narrazione).Occorrerebbe conoscere l’uomo, almeno non per comprendere, ché sarebbe impossibile altrimenti, ma intuire, percepire – paventare quel tanto che basta per spaventarsi (giacché là dove ce ne sarebbe gran bisogno, nei luoghi bonificati della poesia ad esempio, non c’è più nessuno in grado di farlo) – di qual fattura sia l’artista, l’esicasta Angelo Canevari il quale, come il Cide Hamete Benengeli “coautore” del Don Chisciotte, “inserito” si inserisce e lo fa nella propria lingua con innumerevoli motivazioni ed espedienti: facendolo suo, metabolizzando il testo, trasmigrando dietroltre le righe, proiettandosi analogicamente, offrendo invero il proprio al contributo della narrazione, arricchendo con del suo il “ritratto aperto” dell’ingegnoso hidalgo, Canevari, con le sue 161 tavole sottobraccio, non solo illustra, ma impreziosisce il testo con nuovo materiale narrativo e con modi altri di “pausare” sul foglio le pause (ossia le narrazioni) preesistenti; innesta – e lo fa da personaggio-assente («è in un luogo a causa di taluni effetti che egli produce in quel luogo», ricorda il Cusano nella Predica Ubi est qui natus est rex Iudaeorum?) – il suo nel Don Chisciotte trasmessoci da Miguel de Cervantes, quale analogamente accade al Benengeli nella prima parte e allo stesso scrittore di Alcalá de Henares nella seconda. In un simile romanzo – il cui protagonista (quel gentiluomo Quijada che appare nella narrazione il solo tempo d’andarsene) sembra si lasci inventare e scrivere da tutte le persone e cose che incontra sul suo cammino («e molte volte fu tentato di prendere la penna e scriver lui la fine»), tanto che, si potrebbe affermare, non esisterebbe senza di esse (viene, ad esempio, armato cavaliere dal locandiere) – ogni personaggio – l’hidalgo incluso – fa il suo don Chisciotte, facendo conseguentemente un po’ suo il Don Chisciotte. “Opera a cera persa” e continua (interminabile: con più promesse che lettere, proprio come i biglietti che don Fernando scrive a Dorotea) della quale il romanzo altro non è che una componente, l’intercapedine ossia tra l’anima e la materia, l’idea del Cervantes sembra qui plasmata su un originario tremulo nucleo cavalleresco, ricoperta di terra ed infine lasciata defluire: l’intercapedine che ne scaturisce è il romanzo dell’ingegnoso hidalgo – risultato del “commercio” tra il vacillante mondo incantato della cavalleria che sotto pulsa e la disincantata-reale concreta terra che sopra preme – all’interno del quale passa il liquido narrativo. Canevari entra nella narrazione follando nelle proprie tavole figure fors’anche anonime, ma capaci di arricchire, alterare da un momento all’altro, magari con la loro sola presenza, la biografia chisciottesca: disposte per lo più a mo’ di cornice all’apparenza senza scopo alcuno se non quello decorativo, ma – rubiamo l’espressione ad Emilio Villa – «in pieno alterco con» esso, se ne stanno – nemmen tanto in disparte – nella pagina con il “perché” che potrebbero avere antiche misteriose antefisse “a testa”. Talvolta infine zoomorfo, talaltra quasi teriomorfo (è il caso dei demoni della tavola n. 155, La visione di Altisidora con i diavoli che si lanciano i libri. Cap. 70, parte 2, la “predella pubica” di uno dei quali va intesa come “rilettura” de I dannati affrescati da Luca Signorelli ne Il Giudizio Universale del Duomo di Orvieto), il segno – sotto mentite spoglie (maschili, femminili, animali) – si fa più tosto capoverso, input, preparazione teatrale: è il caso della piramide di volti in primo piano nella tavola n. 66 (Il soldato smargiasso Vincenzo della Rocca canta e suona una sua “Ballata” a Leandra. Cap. 51, parte 1), citazione di talune questioni sì dell’arte spagnola, ma anche di quella greca, grottesca, espressionista. Nella tavola n. 43, Sancio Panza ritrova il suo asino. Cap. 30, parte 1, Canevari, chiudendo a cerchio e don Chisciotte col suo cavallo e – soprattutto – Sancho con il somaro appena “riavuto” da Ginesio Di Passamonte, ossia circoscrivendo il dialogo tra lo scudiero e il suo ciuco secondo le regole di un’intima circolarità, sottolinea il ruolo indubbiamente non secondario che gli animali (basti pensare a Ronzinante o alla scimmia indovina), sulla scia del genere esopico ovvero della favolistica di Fedro, hanno nel romanzo, imposta perciò un discorso di natura eziologica su quella cultura contadina (tradita anche dal cappello, dalle maniche di camicia avvoltolate e dallo studio da fisiògnomo delle mani) rappresentata da Sancho e che a noi ricorda, ad esempio nell’esprimersi spesso per proverbi, I Malavoglia di Verga. Canevari, grazie anche alla freschezza di una tecnica

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veloce simile a quella dell’acquaforte, asseconda la grande intuizione del Cervantes, rende ovvero fedelmente l’analogia tra i tempi della narrazione e quelli dell’accadimento reale. Nella tavola n. 58, Don Chisciotte per l’improvviso movimento di Ronzinante rimane appeso al laccio tesogli da Maritornes, fa partire il segno dallo zoccolo del cavallo, in basso a destra, lasciando pertanto presentire al fruitore quello che sarà il proseguo dell’azione, cioè l’uscita di scena di Ronzinante e la conseguente disavventura di Chisciotte; il mancato uso di qualsivoglia cornice o fondino libera e il segno (i neri) e la pagina (il bianco), facendo sì che la composizione (la narrazione) resti aperta e distribuita – come avviene nel montaggio cinematografico – per l’intero volume come con tanti fotogrammi, i quali non solo mostrano, ma assecondano, quindi interpretano, l’immagine suggerita dal testo: è il caso delle tavole Don Chisciotte viene ingabbiato e circondato dal gruppo degli uomini mascherati. Cap. 46, parte 1 (n. 62), Il trasporto di Don Chisciotte ingabbiato. Cap. 47, parte 1 (n. 63), Don Chisciotte discute e risponde al canonico sul tema della cavalleria. Cap. 50, parte 1 (n. 64), Don Chisciotte fatto uscire dalla gabbia inizia ad ascoltare il racconto del capraio che è seguito dalla capretta Toppina. Cap. 50, parte 1 (n. 65). In esse la prigione, dapprima insufficiente a contenere il cavaliere, si adegua (modellamento del reale sul visionario) man mano alla figura dell’hidalgo sino a diventare, una volta vuota, una sorta di tempio in lontananza, la sacralità del quale è suggerita anche dall’animale – sul genere dell’Api egiziano – stante nelle sue vicinanze.

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Nel romanzo di Cervantes letto da Canevari si attua una sorta di “rovesciamento”, premonizione e cura di quello che sarà il “metodo Stanislavskij”: don Chisciotte – che se talvolta si comporta «come se fosse davvero innamorato», talaltra parla «come se veramente stesse combattendo con qualche gigante» – non attinge alla memoria, al vissuto, per immedesimarsi, ma si immedesima per “guadagnare”, sorprendere dal reale una memoria atta nella quale ri-vivere un qualcosa che non ha mai vissuto nella realtà. Per far questo pare servirsi di una platea sterminata di “coautori di se stesso”, al contrario di Stanislavskij il quale – son parole di Angelo Maria Ripellino da Il trucco e l’anima –

non sente la metafisica della partecipazione del pubblico, metafisica che incanterà Mejerchòl′d e molti altri registi (sino a culminare in Ochlòpkov). Non avverte, anzi afforza i limiti della ribalta; non prova l’impulso di infrangerla, per proiettare gli attori nella parvenza d’uno spazio senza confini, dove si rappresenti – per dirla con Diderot – la «grande comédie, la comédie du monde». Non vuole coinvolgere, ma tenere a distanza il pubblico-Argo e, benché il suo teatro pretenda di imitare la vita, gli esseri vivi, cioè anche quelli che stanno in platea, dalle «finestre» del palcoscenico gli spettatori gli appaiono estranei e funesti manichini impalati sulle sedie d’una nera spelonca, manichini che bisogna ignorare.

Canevari pretende, così prende-rende il contingente chisciottesco servendosi di una sorta di sima intervallata da maschere (concatenate come una sirima con una fronte); lo stesso “Cavaliere dalla Triste Figura” – secondo una tradizione propria anche del Manierismo toscano ed europeo – si serve di questi volti in primo piano in quanto testimoni delle sue “favolose gesta” agli occhi di Dulcinea, attribuendo ossia loro una funzione assai analoga a quella che potrebbe avere uno zelante-scriba per un visionario o, addirittura, un congedo in una canzone. Basterebbe, per acquisire siffatta corale-“motorioespressionista” chiave di lettura del Don Chisciotte di Cervantes-Canevari, la pagina che sussegue il frontespizio dal libretto de La Forza del Destino di Verdi-Piave:

CORISTI

Mulattieri – Paesani spagnuoli e italiani. Soldati spagnuoli e italiani d’ogni arma

Ordinanze relativeReclute italiane – Frati Francescani – Poveri questuanti.

CORISTE

Paesane e vivandiere spagnuole ed italianePovere questuanti.

BALLO

Paesani, Paesane e Vivandiere spagnuole e italianeSoldati spagnuoli ed italiani

COMPARSE

Oste, Ostessa, Servi d’osteria, Mulattieri, Soldati italiani espagnuoli d’ogni arma, Tamburini, Trombe, Paesani,

Paesane e fanciulli delle due nazioni, Saltimbanco, Venditorid’ogni specie.

Scena: Spagna e Italia

Il don Chisciotte di Canevari non solo non ignora gli elementi – animati e non – circostanti, ma ne è tormentato a tal punto che impone ad essi, per far la vita facendo tesoro della memoria che si inventa, un respiro: se la memoria – oracolo di Delfi docet – «è la vista di chi è cieco», se è fondamentale ch’egli veda i giganti guadagnandoseli dal reale, si rammenti ossia di loro al solo presentirli in loco dei mulini a vento, altrettanto lo è che questi ultimi rimangano tali; v’è quindi una

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realtà immaginaria – vera – “in gioco” con la reale, secondo quello che potremmo definire “relativismo poetico” o “poetica del mezzo di contrasto”, dialettica altercata – con il solo scopo di creare – tra gli elementi dell’innesco – demiurgici – e i consequenziali proietti visionari del Chisciotte: «la realtà – ricorda Canevari – si trasferisce con tutta la sua potenza in una invenzione di surrealtà parallela e analogica. Ma tutto ciò può all’improvviso interrompersi nell’intermittenza delle percezioni individuali, come accade appunto alla “visionarietà” di don Chisciotte, prossima molto a una possessione di tipo mistico religioso che il personaggio condivide con i santi della sua epoca (pensiamo a Santa Teresa d’Avila e a San Giovanni della Croce); sono raptus fortissimi vissuti violentemente sia nello spirito sia nella realtà della carne. Raptus che deformano l’immagine della natura circostante e dell’uomo, rendendoli come protesi verso una dimensione altra». Canevari appare nella narrazione al cospetto dei lettori e lo fa offrendosi dall’alto della pagina, da-nel romanzo, improvvisamente «ai loro occhi» come la pastora Marcela o, sempre pronto ad imboscarsi, «in cima ad una montagnola (…), saltando di rupe in rupe e di cespuglio in cespuglio con straordinaria rapidità» come Cardenio, tramite quindi financo sua la voce «che, senza essere accompagnata dal suono di alcuno strumento», risuona «dolcemente e deliziosamente» in un panorama – quello del bianco e del nero – dove non sembrava, fino a ieri, potesse esserci grossa alternativa all’alternativa, cioè ad un’“avanguardia” – troppo spesso – “pro bono pacis” tradita. Centrale è il testo, al quale Canevari con estremo rispetto si avvicina per allontanarsene (non certo per impadronirsene), avanzando con le gambe e indietreggiando con gli occhi per non distaccarsene, con un procedimento ossia analogico tanto più vitale del metodo para“scientifico” riscontrabile, assai di frequente, in quegli storici dell’arte e della letteratura che nemmen sanno d’esserlo, specie di animo accademico («gregari!», ne siam certi, sentenzierebbe Canevari), i quali spesso si nascondono (non abbiam detto «si sbarrano», ché sarebbe un far torto agli anziani del deserto) – quasi non avessero niente da dire – dietro il documento come per togliersi d’imbarazzo. Angelo Canevari, invece, entra nel testo quasi fosse il Fegato di Piacenza, con le mani di un aruspice e le certezze di un tempo che potrebbe anche essere il nostro, con la confidenza, il sapere e la memoria tattili (ossia le vie preferenziali) che vorrebbe avere un tombarolo, con un occhio alla visionarietà ed uno alla realtà, che non si fondono né prevalgono l’una sull’altra, ma convivono e procedono parallelamente, collaborando l’una per l’altra, l’una nell’altra. Sebbene in pochi conoscano «con certezza il suo rifugio», Canevari – forse l’unico ad aver accolto l’invito di Emilio Villa a «sottrarsi dalla baraonda, a rientrare nell’eremo della propria oscura e serena vitalità, nel grembo della interiore misura del signum, del verbum, e preparare lì, e soltanto lì, i maggiori elaborati di una preziosa, rara immagine del perenne» – continua da decenni a versare nel suo sogno d’arte una tal dose di dolcezza frammista a spietata coerenza, che si potrebbe trovare l’eguale forse solo leggendo a pagine alterne la Vita di Gesù di Renan o rivisitando quella di pochi altri artisti: e si sente subito, sulla propria pelle, l’emozione che parte dalla sua voce nel rievocare le frequentazioni con Alberto Burri e Corrado Cagli (dei quali è stato allievo-collaboratore), con Ettore Colla e Mirko, con l’Ezra Pound del tempus tacendi o con lo stesso Villa. Canevari, forte di una concezione sacrale – e non liturgica – del fare artistico, sembra aver conservato, se non la fede in un mondo – quello dell’arte – a dir poco mortificato, certamente l’entusiasmo per il gesto creativo, per il poiêin (fare!) ancor più grande se “minimato”, quotidiano e vitale, come egli stesso ricorda nel suo Legna per ardere (Edizioni dell’Altana, 2003): «Cerco sempre di sollevare la mia scultura verso l’alto; è una specie di fissazione che porto avanti da quando, bambino, costruivo gli aquiloni: volavano in alto con le loro code di carta multicolore, poi, per un colpo di vento improvviso, precipitavano fracassandosi a terra. Comunque il giorno dopo sentivo che bisognava costruirne un altro». Un ancóra di salvezza che sentiamo il bisogno di condividere.

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