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1 Dispense di politica economica I fini della politica economica Quando si discute sugli obiettivi che la politica economica si propone di conseguire si citano in genere la massimizzazione della crescita del reddito pro capite, la riduzione della disoccupazione, il contenimento dell'inflazione. Quando l'orizzonte temporale si allarga al lungo periodo si può aggiungere anche il sostegno all'innovazione tecnologica ma, in definitiva, ciò che si vuole affermare è che gli interventi dello stato nell'economia devono proporsi di rendere massimo il benessere dei cittadini. In genere questo benessere viene identificato approssimativamente con il consumo della massima quantità possibile di beni e servizi compatibilmente con le risorse e le tecnologie disponibili. Questo è ciò che misura il più noto indicatore di benessere: il PIL. Nonostante anche molti economisti abbiano sollevato seri dubbi in proposito, questa semplificazione viene generalmente accettata senza troppe discussioni ed è alla base della stragrande maggioranza delle scelte di politica economica adottate da quasi tutti i governi del mondo. Esiste un consenso pressoché generale nella cultura del mondo occidentale moderno sull'idea che il fine ultimo, e pertanto il metro di giudizio, dell'economia, della politica e dell’organizzazione sociale sia il benessere di ogni individuo e della società. La Costituzione americana, stilata alla fine del XVIII secolo, dichiara che i cittadini hanno "diritto a perseguire la felicità", presupponendo quindi che lo Stato abbia il dovere di rendere concreto questo diritto o di fare in modo che i cittadini possano realizzarlo. Va ricordato che questa idea è nata con la rivoluzione filosofica (illuminismo) ed economico-politica del XVIII secolo, e che essa rappresenta una svolta radicale rispetto al pensiero dominante nei secoli precedenti. Secoli nei quali il compito richiesto allo Stato e al Sovrano era stato quello di realizzare un ordine sociale giusto, secondo criteri fissati in base a princìpi assoluti, in gran parte di natura teologica, totalmente indipendenti dai valori e dalle aspirazioni degli individui. Al contrario, il criterio del benessere presuppone la centralità dell'individuo e dei suoi valori soggettivi. Non c'è dubbio che tutto questo rappresenti un avanzamento rispetto all'etica dominante nei secoli precedenti che ci trova tutti d'accordo in linea generale. Ma subito una domanda sorge spontanea: cosa intendiamo quando parliamo di benessere? Il concetto di benessere è in realtà molto complesso e controverso, sia sul piano teorico, sia su quello della sua misurazione, sia dal punto di vista dei compiti delle autorità politiche. Sul piano teorico, dobbiamo porci quattro domande fondamentali: che cosa determina il benessere individuale? (problema del contenuto del benessere) chi, e con quali mezzi, può o deve mettere ciascuna persona nelle condizioni di ottenere ciò che crea benessere? quali limiti possono essere imposti alla ricerca del benessere individuale? quale relazione esiste tra il benessere del singolo e quello della società? La ricerca delle risposte a questi quesiti ha impegnato il pensiero filosofico, economico e politico negli ultimi due secoli. La loro complessità nasce dal presupposto stesso della moderna teoria del benessere, vale a dire la centralità dei valori soggettivi dell'individuo. Se il giudice ultimo di ciò che è bene per sé è l'individuo stesso, come possono altri individui, e con quale diritto, decidere che cosa determina il benessere individuale? E come è possibile confrontare il benessere di individui diversi, che hanno preferenze e valori diversi e sintetizzarli in un concetto collettivo di benessere sociale? Il problema di quali siano i mezzi più idonei per la realizzazione del benessere è altrettanto complesso e controverso. La teoria liberista intende dimostrare che il sistema di mercato è il

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Dispense di politica economica

I fini della politica economica

Quando si discute sugli obiettivi che la politica economica si propone di conseguire si citano in

genere la massimizzazione della crescita del reddito pro capite, la riduzione della disoccupazione, il contenimento dell'inflazione. Quando l'orizzonte temporale si allarga al lungo periodo si può aggiungere anche il sostegno all'innovazione tecnologica ma, in definitiva, ciò che si vuole affermare è che gli interventi dello stato nell'economia devono proporsi di rendere massimo il benessere dei cittadini. In genere questo benessere viene identificato approssimativamente con il consumo della massima quantità possibile di beni e servizi compatibilmente con le risorse e le tecnologie disponibili. Questo è ciò che misura il più noto indicatore di benessere: il PIL.

Nonostante anche molti economisti abbiano sollevato seri dubbi in proposito, questa semplificazione viene generalmente accettata senza troppe discussioni ed è alla base della stragrande maggioranza delle scelte di politica economica adottate da quasi tutti i governi del mondo. Esiste un consenso pressoché generale nella cultura del mondo occidentale moderno sull'idea che il fine ultimo, e pertanto il metro di giudizio, dell'economia, della politica e dell’organizzazione sociale sia il benessere di ogni individuo e della società.

La Costituzione americana, stilata alla fine del XVIII secolo, dichiara che i cittadini hanno "diritto a perseguire la felicità", presupponendo quindi che lo Stato abbia il dovere di rendere concreto questo diritto o di fare in modo che i cittadini possano realizzarlo. Va ricordato che questa idea è nata con la rivoluzione filosofica (illuminismo) ed economico-politica del XVIII secolo, e che essa rappresenta una svolta radicale rispetto al pensiero dominante nei secoli precedenti. Secoli nei quali il compito richiesto allo Stato e al Sovrano era stato quello di realizzare un ordine sociale giusto, secondo criteri fissati in base a princìpi assoluti, in gran parte di natura teologica, totalmente indipendenti dai valori e dalle aspirazioni degli individui. Al contrario, il criterio del benessere presuppone la centralità dell'individuo e dei suoi valori soggettivi.

Non c'è dubbio che tutto questo rappresenti un avanzamento rispetto all'etica dominante nei secoli precedenti che ci trova tutti d'accordo in linea generale. Ma subito una domanda sorge spontanea: cosa intendiamo quando parliamo di benessere?

Il concetto di benessere è in realtà molto complesso e controverso, sia sul piano teorico, sia su quello della sua misurazione, sia dal punto di vista dei compiti delle autorità politiche.

Sul piano teorico, dobbiamo porci quattro domande fondamentali:

che cosa determina il benessere individuale? (problema del contenuto del benessere)

chi, e con quali mezzi, può o deve mettere ciascuna persona nelle condizioni di ottenere ciò che crea benessere?

quali limiti possono essere imposti alla ricerca del benessere individuale?

quale relazione esiste tra il benessere del singolo e quello della società? La ricerca delle risposte a questi quesiti ha impegnato il pensiero filosofico, economico e

politico negli ultimi due secoli. La loro complessità nasce dal presupposto stesso della moderna teoria del benessere, vale a dire la centralità dei valori soggettivi dell'individuo. Se il giudice ultimo di ciò che è bene per sé è l'individuo stesso, come possono altri individui, e con quale diritto, decidere che cosa determina il benessere individuale? E come è possibile confrontare il benessere di individui diversi, che hanno preferenze e valori diversi e sintetizzarli in un concetto collettivo di benessere sociale?

Il problema di quali siano i mezzi più idonei per la realizzazione del benessere è altrettanto complesso e controverso. La teoria liberista intende dimostrare che il sistema di mercato è il

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mezzo più idoneo, in quanto perfettamente coerente con il principio soggettivista: date le risorse economiche a disposizione di ciascun individuo, il mercato consente a ciascuno di realizzare il proprio benessere personale producendo, comprando e vendendo i beni preferiti. La forza teorica di questo risultato sta nel fatto che esso prescinde totalmente da giudizi di valore esterni all'individuo (o almeno pretende di) e, per questa via, esclude la legittimità di norme o di interventi nella sfera del benessere da parte di autorità anteposte all'individuo come lo Stato o la Chiesa. Tuttavia numerosi fattori possono impedire al mercato di generare adeguati livelli di benessere individuale e sociale, rendendo necessari interventi correttivi o diverse forme organizzative della vita economica. La stessa teoria liberista ammette che la distribuzione dei beni realizzata dal mercato può non essere conforme a giudizi di valore extra soggettivi comunque presenti nella società, come quello di equità (ad es. mantenere differenze tollerabili tra ricchi e poveri, garantire a tutti capacità e opportunità), oppure può mancare di fornire beni di natura collettiva come i beni pubblici (ad es. sicurezza) o i beni meritori (intendendo con questo termine beni che, per la loro importanza sociale, meritano una particolare attenzione da parte del policy maker come l’istruzione, la salute o l’ambiente). La realizzazione del benessere quindi richiede non solo che il mercato sia affiancato o sostituito da altri strumenti, tra cui l'intervento dei poteri pubblici, ma che tale intervento sia guidato da principi etico-politici, in particolare da una qualche concezione della giustizia sociale.

Molti economisti ritengono che la scienza economica debba limitarsi ad analizzare i fatti indipendentemente da giudizi di valore che sono di competenza dei politici. Secondo una impostazione metodologica che si è soliti far risalire a Lionel Robbins, andrebbe posto un preciso limite al campo d’indagine della scienza economica che escluda gli argomenti di pertinenza dell’etica e della filosofia politica in genere. Mentre le discipline morali trattano di «valutazioni ed obbligazioni», e contemplano necessariamente un riferimento ad un «dover essere», l’economia si occupa di «fatti accertabili» e rimane nell’ambito di «ciò che è».

In questa divisione del lavoro il politico definisce gli obiettivi e l’economista fornisce le soluzioni più efficienti per conseguirli. Questa separazione fra analisi oggettiva o scientifica e giudizi di valore è veramente sostenibile? In realtà la stessa teoria economica è permeata di giudizi di valore che si annidano anche in ipotesi da cui sembrerebbero totalmente assenti.

Consideriamo, per esempio, la semplificazione del consumatore rappresentativo, cioè l'idea che sia possibile spiegare il funzionamento dell'economia esaminando le scelte di un singolo consumatore considerato rappresentativo di tutti gli altri. Un'ipotesi di questo genere esclude a priori qualunque differenza fra i consumatori stessi, ovvero asserisce implicitamente che qualunque sia la distribuzione del reddito (e le differenze fra i consumatori che ne derivano) il funzionamento dell’economia non cambia e può essere descritto allo stesso modo.

Quando si parla di crescita del reddito si afferma in genere che le politiche pubbliche dovrebbero mirare ad aumentare il tasso di crescita dell'economia, ma lo stesso tasso di crescita può essere associato a distribuzioni del reddito fra la popolazione molto diverse fra loro. Possiamo esimerci dal formulare un giudizio sulla preferibilità dell'una o dell'altra?

Ancora, se riteniamo che la tassazione sia un buon strumento per controllare l’inquinamento, stiamo sostenendo anche che un certo tasso di inquinamento è socialmente e moralmente accettabile. Possiamo considerare questo come un giudizio meramente tecnico o di efficienza? Il degrado ambientale comporta qualche conseguenza per le generazioni future nel senso che incide sulla qualità della loro vita. In genere questo problema viene affrontato dagli economisti semplicemente scontando i danni ambientali futuri rispetto a quelli attuali, il che significa attribuire ai primi un valore minore dei secondi ovvero affermare, implicitamente, che le generazioni future hanno minori diritti a godere di un ambiente non degradato. Si può fare una simile operazione prescindendo da qualunque considerazione morale? Se fossimo convinti che l’inquinamento sia moralmente inaccettabile, l’obiettivo da perseguire sarebbe la sua eliminazione

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per quanto possibile, non avrebbe senso cercare di controllarlo attraverso la tassazione proponendosi di raggiungere un livello ottimale. Nessuno si sognerebbe di affrontare il problema della tortura sottoponendola a tassazione con l’obiettivo di disincentivarla e portarla a un livello ottimale, la tortura è semplicemente esecrabile e deve essere bandita da qualunque società civile.

Lo stesso bene può essere considerato come un beneficio o come un costo a seconda della prospettiva etica dalla quale partiamo per analizzare il problema. Per esempio coloro che ritengono che il benessere consista nell’accrescere la felicità degli uomini considererebbero una nuova strada che consente l’accesso ad un punto dal quale è possibile ammirare uno splendido panorama come un beneficio. Viceversa coloro che partono dal principio etico secondo cui l’ambiente deve essere preservato, vuoi in sé vuoi per garantirne l’utilizzo alle generazioni future, la vedrebbero come un costo.

Normalmente qualunque intervento di politica economica comporta qualche forma di trade off tra l’aumento del benessere per alcuni e la sua riduzione per altri. Se decidiamo di situare un aeroporto in una certa località, la comunità locale e la popolazione nazionale in genere godranno di una maggiore facilità di movimento ma coloro che abitano nelle sue vicinanze avranno, con molta probabilità, qualche problema in più, per esempio in termini di rumore o di traffico.

Sul piano generale problemi di questo tipo non sono in alcun modo risolvibili senza esprimere qualche forma di giudizio etico o di valore. Sacrificare i diritti di alcuni per migliorare il benessere di molti altri, significa ragionare eticamente secondo una logica conseguenzialista, se rifiutiamo di farlo stiamo comunque applicando principi etici che discendono da una logica di tipo deontologico.

L’etica conseguenzialista consiste nel ritenere che ciò che conta per valutare le azioni come giuste o ingiuste sono le conseguenze che le azioni stesse producono.

L’etica deontologica afferma invece che un’azione è giusta o ingiusta in sé e per sé in base a principi inderogabili e indipendentemente dalle sue conseguenze.

La più famosa espressione del conseguenzialismo è l’utilitarismo di cui ci occuperemo fra poco. Una delle più lucide espressioni dell’etica deontologica è l’affermazione kantiana secondo cui l’uomo deve essere trattato sempre come fine e mai come mezzo.

Supponiamo, per esempio, che una certa misura di politica economica (per esempio di tassazione) permetta di migliorare considerevolmente il benessere di 100 individui benestanti, ma abbia lo spiacevole effetto collaterale di ridurre altri 10, meno abbienti, in una situazione di povertà. Immaginiamo anche di poter misurare quantitativamente il miglioramento del benessere complessivo dei 100 e l'impoverimento complessivo dei 10 e di verificare che il primo supera ampiamente il secondo. La logica conseguenzialista porterebbe a concludere che tale politica è eticamente giusta perché il risultato positivo supera ampiamente gli effetti negativi. Un approccio deontologico viceversa spingerebbe a valutare il valore etico intrinseco del diritto di proprietà e a ritenere che esso non possa essere violato per alcun motivo. Secondo questa impostazione, l'espropriazione di parte della ricchezza di coloro che sono colpiti negativamente deve essere giudicata come eticamente inaccettabile, pertanto la misura in questione sarebbe ingiusta.

Sarebbe errato tuttavia identificare la logica conseguenzialista con l'accettazione della disuguaglianza distributiva e quella deontologica con la difesa dell'uguaglianza. Come vedremo fra breve la teoria della giustizia maggiormente riconducibile all'impostazione deontologica, il libertarismo, è anche quella meno sensibile al valore etico dell'uguaglianza (almeno se la intendiamo come uguaglianza nella distribuzione del reddito). Nell’esempio precedente la visione deontologica vieterebbe l’espropriazione della ricchezza anche se questa fosse a carico di individui ricchissimi e a favore di altri ridotti a uno stato di forte deprivazione materiale.

Altri approcci, come quello delle capacità, contengono elementi di entrambe le impostazioni. È comunque utile mantenere questa distinzione perché aiuta a capire meglio il percorso logico attraverso il quale vengono affrontati i dilemmi etici in cui i benefici per alcuni comportano sacrifici per altri, e da cui discendono i principi generali della giustizia sociale. Sia pure con varie

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sfumature e qualificazioni, le teorie conseguenzialiste tendono a considerare giusto ciò che conduce al benessere della maggioranza, quelle deontologiche pongono l'accento sulla difesa dei diritti inalienabili dell'individuo.

Le teorie conseguenzialiste (o perlomeno la più importante di esse cioè l’utilitarismo) in genere rivendicano criteri operativi che consentano di evitare giudizi di valore e ciò ha conferito loro una certa attrattività, una presunta “avalutatività”. Secondo questo modo di ragionare l’etica è puramente arbitraria e soggettiva; i giudizi su ciò che è bene o ciò che è male, sul giusto o l’ingiusto, sul vero o sul falso, hanno basi intellettuali precarie e dunque l’unica politica pubblica ammissibile è quella che asseconda i desideri meramente soggettivi degli individui.

Nonostante gli economisti affermino che le proposizioni della teoria economica sono aliene da giudizi di valore, in realtà esse hanno un fondamento etico ben preciso: l'utilitarismo. E' opportuno pertanto prendere in esame le principali teorie del benessere e della giustizia sociale che si contrappongono nel dibattito filosofico e politico contemporaneo: l'utilitarismo, il neocontrattualismo, il libertarismo e l'approccio delle capacità.

Benessere e giustizia sociale secondo gli utilitaristi

Analizziamo in primo luogo il pensiero utilitarista poiché esso costituisce, come vedremo, il riferimento filosofico fondamentale della teoria economica dominante e quindi anche delle sue prescrizioni di policy.

L’utilitarismo è una scuola di pensiero filosofico fondata più di due secoli fa dal filosofo inglese Jeremy Bentham. In netta contrapposizione con le visioni metafisiche o teocratiche del benessere umano, assai diffuse nel XVIII secolo, un manipolo di intellettuali inglesi proponeva una concezione del benessere individuale ed un criterio di giustizia sociale orientati alla massima felicità. La felicità individuale è determinata dall’utilità ottenuta dall'individuo e questa è definita, a sua volta, come esperienza di piacere, soddisfazione ed appagamento connessa con particolari comportamenti o scelte dell’individuo.

Le prime teorie utilitariste sono quindi edonistiche, universaliste e individualiste. L'utilitarismo privilegia una visione edonistica e individualista, nel senso che assume come rilevanti per la valutazione del benessere sociale unicamente stati di piacere o di insoddisfazione delle singole persone. Ma è anche universalista poiché nessun soggetto deve essere escluso dal calcolo delle utilità e l'utilità di ciascun individuo ha lo stesso valore di quella di ogni altro. In pratica non esistono cittadini di serie A e di serie B sotto questo punto di vista.

Bentham aspirava a fondare una ‘scienza dell’etica’ basata su una proprietà concretamente osservabile, così che la valutazione delle azioni umane non dovesse dipendere da principi astratti o metafisici. Questa proprietà è l’utilità. La posizione più influente nella tradizione utilitaristica è quella che intende l’utilità come “edonismo del benessere”: la correttezza o non correttezza di un’azione, dunque il giudizio morale su un atto, la sua approvazione o disapprovazione, il suo essere giusto o ingiusto coincidono con la sua idoneità a generare piacere o pena. Il principio di utilità reclama la massima felicità per il maggior numero di persone.

I moventi del comportamento umano sono ridotti a due: soltanto il piacere è intrinsecamente buono e soltanto il dolore è intrinsecamente cattivo. Bentham definisce l’utilità come ciò che produce beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità (i termini sono sinonimi), e allontana o previene dolore, male o infelicità.

L’obbligo morale è dunque quello di massimizzare la felicità, intesa in termini di piacere e di assenza di dolore. L’intervento pubblico dovrebbe mirare a rendere massima la differenza fra la somma dei piaceri di tutti gli individui considerati come aggregato e la somma delle loro sofferenze, ovvero massimizzare l’utilità (piacere) netta aggregata. Nelle parole di Bentham lo Stato dovrebbe promuovere "il massimo bene per il più alto numero di individui".

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In questo contesto argomentativo l’ingiustizia consiste nella realizzazione di una utilità aggregata minore di quella potenzialmente ottenibile. Una società ingiusta è quella in cui gli individui, nel loro insieme, sono meno felici di quanto potrebbero essere. Il criterio benthamiano può essere definito più precisamente nel seguente modo:

Un’azione è giusta se e solo se la somma delle utilità totali prodotta da quell’azione è maggiore della somma delle utilità totali prodotta da qualunque altra azione che avrebbe potuto essere compiuta al suo posto.

La concezione utilitarista dei valori morali e della giustizia che ne discende è di tipo monistico, nel senso che si basa su considerazioni relative ad un unico aspetto: l’utilità, escludendo qualunque altra considerazione morale. Questa visione del benessere sociale è chiamata welfarismo. Una implicazione di questo modo di argomentare è che l'utilitarismo non riconosce l'esistenza di diritti individuali inalienabili in quanto tali. Il rispetto dei diritti non è giusto di per sé ma solo nella misura in cui essi contribuiscono a massimizzare l'utilità della società nel suo insieme. Ciò equivale a sostenere che, se fosse necessario sacrificare i diritti di pochi per massimizzare l'utilità di molti, sarebbe giusto farlo.

Si tratta di un principio tutt'altro che indiscutibile, con alcune implicazioni che molti giudicherebbero spiacevoli ed eticamente inaccettabili. Qualche esempio può essere utile a chiarire il perché.

Secondo gli utilitaristi non sarebbe giusto condannare una società schiavistica se la riduzione in schiavitù di un gruppo sociale (per esempio lavoratori) facesse aumentare la produzione aggregata e l'utilità totale della società stessa più di quanto gli schiavi soffrano a causa del loro stato. Al contrario una simile organizzazione sociale sarebbe desiderabile e giusta perché accrescerebbe il benessere sociale aggregato.

Se in una società l’uccisione degli individui con i capelli rossi, una minoranza della popolazione, procurasse un’enorme soddisfazione psichica alla stragrande maggioranza, essa dovrebbe essere ammessa: infatti il benessere procurato alla maggior parte degli individui è (o può essere) superiore al costo sociale rappresentato dalla soppressione dei pochi individui dai capelli rossi (notate che si potrebbero sostituire a questi ultimi gli ebrei nella Germania nazista).

Un altro esempio riguarda l'introduzione della pena di morte. Qualora il suo effetto deterrente riducesse i crimini e permettesse di risparmiare sui costi della detenzione in carcere, il benessere sociale aumenterebbe, in questo caso la pena di morte sarebbe giustificata.

E' difficile conciliare tali conclusioni con le idee morali saldamente radicate nel senso comune.

Utilitarismo e giustizia distributiva

Il principio della massimizzazione dell'utilità sociale aggregata sembra porre in secondo piano la distribuzione di tale utilità fra gli individui. Se ciò che conta è l'utilità complessiva, questo obiettivo può essere raggiunto sia con una distribuzione ugualitaria sia con una fortemente sperequata. In altri termini se ipotizziamo che vi siano due gruppi sociali, ricchi e poveri, secondo gli utilitaristi una società in cui la ricchezza fosse pari a 110, di cui 100 andasse ai ricchi e 10 ai poveri sarebbe più desiderabile di un'altra in cui la ricchezza 100 è distribuita equamente a metà fra i due gruppi.

Tuttavia l’utilitarismo non è contrario in linea di principio a politiche di redistribuzione del reddito. Il motivo è che l’utilità marginale del reddito è decrescente, si può quindi migliorare il benessere sociale trasferendo reddito da coloro che hanno un reddito più alto (e quindi un’utilità marginale più bassa) a coloro che si trovano nella situazione opposta. Fino a che le utilità marginali sono diverse, l’utilità complessiva aumenta in seguito a una ridistribuzione perché l’utilità marginale sottratta all’individuo più ricco è minore di quella aggiunta al più povero. Possiamo analizzare meglio questo punto attraverso un grafico.

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Ipotizziamo che la funzione di utilità, che descrive come varia l’utilità marginale al variare del reddito, sia identica per tutti e sia rappresentata dalla linea decrescente nella figura 1. La linea indica che, all'aumentare del reddito, l'ultima unità di reddito disponibile genera una utilità minore delle precedenti (la spiegazione è che con un reddito basso si possono acquistare solo beni essenziali, quando è alto il reddito aggiuntivo viene utilizzato per acquistare beni superflui che generano minore utilità). In corrispondenza del reddito Y1 l'utilità marginale è U1 e l'utilità totale è misurata dall'area del trapezio grigio scuro. Quando il reddito è Y2 sono rispettivamente U2 e la somma delle aree del trapezio grigio scuro e di quello grigio chiaro. Figura 1.

Consideriamo ora i due gruppi sociali e dei poveri e dei ricchi, possiamo rappresentare

graficamente le funzioni di utilità dei due gruppi mediante un grafico con due origini come nella figura 2. Stiamo sovrapponendo specularmente due grafici le cui origini sono rispettivamente Yp e Yr. A partire da Yp misuriamo, muovendoci verso destra, il reddito dei poveri. Facciamo lo stesso per i ricchi partendo da Yr e muovendoci verso sinistra. La distanza fra Yp e Yr misura il reddito complessivo distribuibile fra i due gruppi.

Figura 2.

U2

U1

U

Y Y2 Y

1

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Ogni punto dell'asse delle ascisse rappresenta una possibile distribuzione del reddito complessivo, per esempio nel punto Y2 i poveri hanno un reddito Yp-Y2 e i ricchi hanno Yr-Y2. Sui due assi delle ordinate misuriamo rispettivamente l'utilità marginale dei poveri e dei ricchi.

Se le funzioni di utilità sono uguali per i due gruppi, saranno rappresentate da due linee decrescenti simmetriche con la stessa pendenza e intercetta con i due assi delle ordinate. Quale sarebbe in questo caso la distribuzione che massimizza l'utilità complessiva? Osserviamo innanzitutto che le due linee si incontrano nel punto E che, data la simmetria del grafico, è equidistante dalle due origini. Ne consegue che il punto Y1 sull'asse delle ascisse rappresenta una distribuzione perfettamente ugualitaria fra i due gruppi (Yp-Y1 = Yr-Y1). Notiamo inoltre che in questo punto le utilità marginali dei due gruppi sono uguali (E-Y1 per entrambi). Possiamo facilmente dimostrare che questa è proprio la distribuzione che massimizza l'utilità complessiva. Quest'ultima è uguale alla somma dell'utilità totale dei poveri, ovvero l'area del trapezio Up1-E-Y1-Yp, e di quella di ricchi (area del trapezio Ur1-E-Y1-Yr). Per dimostrare che questa è la massima utilità totale possibile ragioniamo per assurdo, ipotizziamo cioè che la distribuzione sia un'altra, per esempio Y2. Rispetto alla distribuzione ugualitaria i poveri perdono un'utilità pari all'area del trapezio A-E-Y1-Y2 mentre i ricchi guadagnano l'area B-E-Y1-Y2 che è più piccola della precedente, pertanto l'utilità totale diminuisce (c'è una perdita secca pari al triangolo A-E-B). Qualcosa di molto simile accadrebbe se la distribuzione fosse Y3. In questo caso i poveri guadagnano E-D-Y1-Y3 ma i ricchi perdono di più, cioè E-C-Y1-Y3. Anche qui c'è una perdita secca pari a E-C-D. Potremmo prendere qualunque altro punto sull'asse delle ascisse ma l'utilità totale sarebbe sempre minore rispetto al punto Y1 in corrispondenza del quale l'utilità è quindi massima.

In una situazione del genere l'applicazione dei principi utilitaristi porterebbe ad una società perfettamente ugualitaria perché, solo uguagliando le utilità marginali e quindi i redditi di tutti gli individui l'utilità totale sarebbe massima (si ricordi che fra utilità marginale e reddito c’è una corrispondenza biunivoca pertanto, se le funzioni di utilità sono uguali, ad uguale utilità marginale corrisponde necessariamente un reddito uguale).

Nella realtà le funzioni di utilità sono diverse perché diversi sono gli individui e diversa è la loro capacità di trarre piacere dal consumo dei beni. In questo caso i principi utilitaristici possono suggerire scelte discutibili. Vediamo perché.

Figura 3

Up

Yr Yp Y1

Ur

Y* = perfetta uguaglianza

Y*

C

A

B

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Nella figura 3 la linea dell'utilità marginale dei ricchi sta più in alto rispetto a quella dei poveri, a parità di reddito i ricchi ottengono quindi un'utilità maggiore. Y* rappresenta il punto di equidistribuzione del reddito ma, in questo caso, non corrisponde a quello di massima utilità totale che è Y1 in cui le utilità marginali sono uguali. Infatti se partiamo dalla distribuzione Y1, tassando i ricchi per un ammontare Y1-Y* e distribuendo questo reddito ai poveri in modo da ristabilire una distribuzione egualitaria (Y*), i poveri guadagnerebbero il trapezio grigio scuro (A-C-Y*-Y1) mentre i ricchi perderebbero quest'ultimo più il triangolo grigio chiaro (A-B-Y*-Y1), ovvero la perdita dei ricchi sarebbe maggiore del guadagno dei poveri e l'utilità totale diminuirebbe. Questo risultato non sorprende perché sappiamo che l'uguaglianza delle utilità marginali è la condizione perché l'utilità totale sia massima. In questa situazione trasferire un’ulteriore unità di reddito dall’uno all’altro gruppo non cambierebbe nulla perché stiamo togliendo agli uni esattamente ciò che stiamo aggiungendo agli altri. L’utilità quindi non può aumentare, ovvero è massima.

In queste condizioni (diverse funzioni di utilità) una distribuzione ineguale sarebbe eticamente giustificata per gli utilitaristi. Il motivo è che, se l'obiettivo è la massimizzazione dell'utilità totale, il reddito deve essere distribuito a chi ne sa fare il migliore uso, cioè estrarne la massima utilità possibile.

Portata alle estreme conseguenze la logica utilitarista conduce addirittura a risultati insostenibili e quasi caricaturali. Nella sua critica all’utilitarismo Nozick immagina l’esistenza di una macchina del piacere collegandosi alla quale un individuo potrebbe raggiungere uno stato di godimento superiore a quello di chiunque altro. In un caso limite come questo la massima utilità sociale si otterrebbe in un solo modo: attribuendo a tale mostro di voluttà tutto il reddito disponibile!

Senza dover ricorrere ad esempi abnormi, basta pensare che storicamente la ricchezza della nobiltà veniva giustificata anche argomentando che solo i nobili avevano la sensibilità e raffinatezza necessarie per apprezzare certe forme di ricchezza (abitazioni lussuose, oggetti d’arte ecc.). Una logica molto vicina a quella utilitarista.

Gli utilitaristi non hanno quindi una concezione egualitaria della distribuzione del reddito. Come abbiamo visto l'uguaglianza distributiva o, comunque, una distribuzione meno diseguale del reddito possono essere effetti collaterali della massimizzazione dell'utilità totale e, in quanto tali, sono da considerare eticamente giuste ma non costituiscono un bene in sé. Gli utilitaristi dunque giustificano politiche ridistributive, non perché ritengano che tutti abbiano alcuni diritti irrinunciabili a una vita dignitosa e ad un certo ammontare minimo di risorse che consentano di esprimere la propria personalità e libertà, ma solo perché è ingiusto non aumentare il benessere aggregato quando è possibile farlo.

Può accadere, d'altro canto, che la massimizzazione del benessere richieda una distribuzione più diseguale cioè un trasferimento di reddito dai più poveri ai più ricchi. Ciò non dipende solo dalle utilità marginali ma anche dal fatto che l'uguaglianza riduce gli incentivi necessari a stimolare comportamenti efficienti da parte degli agenti. Si può pensare, per esempio, al caso dei lavoratori disoccupati che potrebbero impegnarsi meno nella ricerca di un nuovo lavoro se godono di sussidi di disoccupazione. Esiste un trade off fra efficienza ed equità nel senso che una distribuzione troppo egualitaria può causare una riduzione del reddito totale perché disincentiva l'impegno individuale. Questa argomentazione è stata largamente utilizzata negli anni recenti per giustificare gli enormi arricchimenti verificatisi nel settore finanziario. L'idea è che la prospettiva di forti guadagni spinge gli agenti a prendere decisioni che fanno funzionare in modo efficiente il sistema finanziario (oppure favorisce la selezione di operatori particolarmente abili) e questo, a sua volta, ha importanti effetti sull'efficienza dell'economia reale e sulla sua crescita, portando in definitiva ad un aumento del benessere sociale.

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Argomentazioni di questo tipo non sono prive di fondamento e, come vedremo più avanti, sono tenute in considerazione anche in altre teorie della giustizia più attente al problema della disuguaglianza.

La misurazione dell'utilità

Tutte le argomentazioni precedenti poggiano su un assunto implicito: l'utilità è misurabile. Se l'obiettivo è quello di massimizzare l'utilità è evidente che è necessario sapere con certezza in quali situazioni questa è maggiore o minore. Se giustifichiamo un'azione o una misura di politica economica perché riteniamo che i benefici siano maggiori dei costi (ossia l’utilità sociale netta aumenti) dobbiamo essere in grado di misurare gli uni e gli altri. In altri termini l'utilità deve poter essere misurata in termini cardinali, vale a dire con un indice numerico mediante il quale sia possibile un calcolo quantitativo dei piaceri e dei dolori. I primi utilitaristi erano convinti che questa misurazione quantitativa fosse possibile in quanto piacere e dolore sono sentimenti comuni a tutti gli individui e possono essere confrontati fra un individuo e l'altro. Soddisfazioni individuali misurabili cardinalmente e confrontabili possono essere aggregate, ossia sommate fra loro. Se, in seguito ad un’azione (per esempio una misura di politica economica), l’utilità di alcune persone si riduce ma l’aumento di utilità di altre persone è maggiore, quell’azione deve essere attuata. Si fa quindi la somma di tutti i piaceri e di tutti i dolori provocati da un determinato atto; se la bilancia pende dalla parte dei piaceri l’atto sarà buono, altrimenti sarà cattivo. Ciò significa che, dovendo scegliere fra due azioni (politiche) alternative A e B, la scelta deve cadere sull’azione che procura il più alto saldo netto tra piacere e dolore.

La questione della misurazione delle utilità è cruciale perché ad essa è inestricabilmente legata la possibilità di effettuare confronti interpersonali di utilità. Non si può infatti affermare che una certa azione (politica) provochi un vantaggio (in termini di utilità) per un individuo maggiore dello svantaggio arrecato ad un altro senza che si sappia con precisione quanto ciascuno dei due abbia guadagnato o perso. E per fare questo bisogna necessariamente confrontare i guadagni e le perdite dell’uno e dell’altro.

Questa idea è stata sottoposta ad una critica serrata all'interno della stessa teoria utilitarista. In base a che cosa è possibile affermare che bere un caffè è per l'individuo A fonte di un piacere doppio o triplo rispetto a quello provato dall'individuo B nel fare la stessa cosa? Nessuna teoria psicologica è in grado di dimostrare un'affermazione del genere.

Secondo i critici il piacere (o utilità) è un’esperienza puramente soggettiva e, come tale, non comparabile da individuo a individuo. La somma delle utilità di individui diversi non è quindi definibile per il semplice motivo che l'utilità non è misurabile con la stessa unità di misura.

Che senso ha allora la prescrizione di massimizzare la somma di qualcosa che non si può misurare? Non è difficile capire che si tratta di un punto cruciale, in grado di far crollare l'intero edificio teorico utilitarista. La soluzione escogitata dagli utilitaristi per superare questa difficoltà è stata quella di abbandonare l'idea che l'utilità sia quantitativamente misurabile (utilità cardinale) e che si possano fare confronti interpersonali di utilità.

L'utilità come soddisfazione delle preferenze

Rimane comunque la possibilità di formulare giudizi circa gli effetti delle scelte sociali sull'utilità adottando una concezione ordinale dell'utilità stessa. Sebbene non siamo in grado, dicono gli utilitaristi, di stabilire l'intensità del piacere o del dolore che un individuo prova nel compiere una certa azione (per esempio consumare un certo bene), osservando le sue scelte possiamo affermare che preferisce qualcosa a qualcos'altro anche se non sappiamo di quanto.

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In questa visione ogni agente ha un preciso ordinamento preferenziale soggettivo su diversi stati del mondo o allocazioni alternative delle risorse. Se abbiamo due possibilità X e Y, possiamo dire che, qualora un individuo preferisca X ad Y, allora, per lui, l’utilità di X è maggiore di quella di Y. In sostanza possiamo immaginare che il consumatore abbia una scala di preferenze che possono essere ordinate. Per esempio, dovendo scegliere fra la partita di calcio, il cinema e il teatro, un consumatore potrebbe preferire nell'ordine la prima al secondo e il secondo al terzo.

Il criterio della massimizzazione del benessere può essere allora riformulato nel senso che il massimo benessere si ottiene quando le preferenze degli agenti sono soddisfatte nella misura massima possibile.

Come si può stabilire se le preferenze sono soddisfatte? Se un individuo sceglie di consumare il bene A al posto di B, potendo scegliere uno qualunque

dei due, evidentemente ritiene che A accresca il suo benessere (utilità) più di B. Le scelte effettive (quelle che possiamo osservare, dette anche preferenze rivelate) di individui razionali rivelano la loro gerarchia di preferenze, pertanto una politica che consenta ai cittadini di realizzare le loro scelte meglio di un’altra, ovvero rispetti il più possibile tale gerarchia è senz’altro preferibile e contribuisce ad accrescere il benessere sociale.

L'idea che è giusto ciò che soddisfa al meglio le preferenze dei cittadini è molto ragionevole, almeno in una società democratica, ma ha anche qualche risvolto discutibile e perfino inquietante.

Possiamo domandarci: le preferenze sono tutte ugualmente meritevoli di essere soddisfatte? Perché la società dovrebbe farsi carico di soddisfare preferenze particolarmente dispendiose come quelle di chi non potesse fare a meno di bere champagne durante i pasti quotidiani?

Se la gente ama molto fumare il governo dovrebbe astenersi dal tassare le sigarette o, addirittura, dovrebbe sovvenzionarle? Oppure, ancora, sarebbe giusto sottrarre risorse all'istruzione per sussidiare il consumo di droghe se un numero elevato di persone preferisse questa scelta?

Qualche dubbio inevitabilmente sorge. Nemmeno gli utilitaristi classici erano pienamente soddisfatti di queste implicazioni della loro teoria (non lo era per esempio John Stuart Mill).

Le preferenze non sono tutte uguali, alcune meritano di essere soddisfatte più di altre. Ma, se non sono uguali, in base a quali criteri dovrebbero essere distinte le une dalle altre?

E' possibile che un individuo preferisca un’alternativa in conflitto con i suoi reali interessi, ovvero con la piena realizzazione di sé. Ciò può accadere per vari motivi. Per esempio non è adeguatamente informato sulle conseguenze che ne derivano (es. il fumo), oppure è condizionato dal contesto sociale e adatta le sue preferenze alle norme che esso esprime (minore ambizione delle donne nel lavoro, accettazione della propria condizione economica da parte dei meno abbienti). Alcune preferenze sono palesemente illegittime e, se soddisfatte, potrebbero portare a conseguenze sociali disumane laddove fosse eccessivo il peso attribuito a individui con preferenze antisociali, come il fatto di ricavare piacere dalla tortura, dalla violenza sulle donne o, persino, dall’omicidio o altri tipi di perversioni socialmente inaccettabili.

Una teoria che identificasse la giustizia e il benessere con la soddisfazione di preferenze di questo tipo presterebbe il fianco a serie critiche e non favorirebbe certo l'armonia e la convivenza sociale. A questa critica gli utilitaristi rispondono che il benessere consiste nella soddisfazione di preferenze ben informate e razionali. Secondo Harsanyi, importante esponente dell'utilitarismo, le preferenze informate e razionali sarebbero quelle che l‘agente avrebbe in condizioni ideali di informazione e capacità di ragionamento razionale.

Possiamo concludere che le preferenze informate e razionali costituiscono un indicatore plausibile di benessere sociale mentre non lo è necessariamente qualunque tipo di preferenza. Per un individuo specifico può essere fonte di benessere prendere a pugni la gente che incontra per strada ma è dubbio che soddisfare queste preferenze accrescerebbe il benessere sociale. Quella delle preferenze per così dire “ripulite” sembra una soluzione ragionevole ma non è priva di insidie

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per la concezione utilitarista. In primo luogo occorre chiedersi chi stabilisce quali preferenze sono informate e razionali e quali non lo sono. E’ evidente che, se deve essere una qualche autorità sociale che si sovrappone all’individuo, stiamo sconfinando in una concezione paternalistica del benessere sociale che è, in genere, poco apprezzata dagli economisti che si ispirano all’utilitarismo, i quali la eviterebbero molto volentieri in nome della libertà di scelta di ciascun individuo e della sua piena autonomia nel giudicare il proprio benessere. Inoltre l’individuazione delle preferenze informate e razionali implica necessariamente un giudizio etico (mentre l’accettazione pura e semplice delle preferenze rivelate non presenta questo inconveniente), in base a che cos’altro si potrebbero distinguere preferenze di questo tipo dalle altre? Non è chiaro allora cosa significa massimizzare il benessere in questo contesto. In primo luogo bisognerebbe individuare le preferenze da soddisfare e quindi adottare politiche che ne massimizzino la soddisfazione. Ma questo significa anche che il massimo benessere non può essere definito e ottenuto indipendentemente da una valutazione etica delle alternative a confronto nelle scelte di politica economica. In altri termini non è possibile separare criteri di efficienza e giudizi di valore!

Ma i problemi non si fermano qui. Assumiamo che gli individui abbiano preferenze ben informate e razionali, come è possibile stabilire se le scelte del policy maker le soddisfano nel miglior modo possibile? Ogni individuo ha preferenze diverse da quelle degli altri, in base a quali criteri si può scegliere quali soddisfare e quali no e se sì, in che misura?

Il modo più ovvio è quello di adottare il metodo democratico mettendo ai voti preferenze contrastanti e soddisfare quelle che riscuotono la maggioranza fra i votanti. Questa soluzione funziona bene se si deve scegliere fra due alternative ma non quando le alternative sono più di due. In questo caso possono verificarsi situazioni in cui nessuna alternativa è in grado di prevalere sulle altre.

A B C

Poveri 15% 20% 25%

Classe media 40% 30% 35%

Ricchi 45% 50% 40%

Consideriamo, per esempio, una società composta da tre gruppi sociali (i cui componenti sono

ugualmente numerosi e hanno tutti le stesse preferenze): poveri, classe media e ricchi. Il problema di politica economica consiste nel definire uno schema di tassazione. La tabella precedente ne riporta tre: A, B e C che incidono in modo diverso sul reddito dei tre gruppi in quanto prevedono diverse aliquote fiscali. Naturalmente ogni gruppo preferirebbe lo schema che prevede per sé l’aliquota più bassa. In base a questa logica l’ordinamento delle preferenze sarebbe il seguente:

I poveri preferiscono A rispetto B e B rispetto a C (A > B > C) La classe media da priorità a B e poi, nell'ordine, a C ed A (B > C > A) I ricchi sceglierebbero C come prima opzione, poi A e infine B (C > A > B)

Immaginiamo di votare per lo schema A contro B, A avrebbe la maggioranza in quanto preferito dai poveri e dai ricchi. Ora consideriamo la scelta fra A e C, C avrebbe la maggioranza in quanto preferito da classe media e ricchi. C sembrerebbe quindi l'alternativa migliore, perché è preferita ad A la quale, a sua volta, è preferita a B. Proviamo quindi a votare fra C ed B per vedere se questa gerarchia di preferenze è confermata. Il risultato è che B sarebbe preferito a C in quanto votato da poveri e classe media. Questo risultato è incoerente con i precedenti, C non può più essere considerata l'alternativa preferita dalla società perché B è considerata migliore a maggioranza. In realtà il successo di C dipende dalla sequenza delle votazioni. Immaginiamo di votare prima per B

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contro C, B prevarrebbe perché votato da poveri e classe media. Successivamente però A avrebbe la meglio su B perché preferito da poveri e ricchi. Ugualmente se votassimo prima per A contro C, C prevarrebbe (votato da classe media e ricchi) ma soccomberebbe contro B che sarebbe quindi il vincitore finale.

Insomma chi è la più bella del reame? La risposta a questa domanda è: nessuna delle tre! È impossibile stabilire quale di esse sia preferita dalla società. Questo intrigante risultato è chiamato paradosso del voto e solleva seri dubbi sulla possibilità di soddisfare nel modo migliore preferenze individuali contrastanti fra loro, cioè di tradurle in scelte sociali ottimali.

Una soluzione alternativa sarebbe abbandonare il concetto soggettivo di benessere legato alle preferenze a favore di una nozione di benessere come insieme di valori definiti oggettivamente e a priori. In questo caso assoluta priorità è riservata a quei valori ritenuti oggettivamente necessari e sufficienti ad una piena realizzazione umana, in quanto tali invarianti da individuo a individuo e definiti da un decisore sociale.

Questa soluzione paternalistica entra però in conflitto con la libertà individuale, per questo motivo gli utilitaristi sostengono che non si può abbandonare il criterio della soddisfazione delle preferenze soggettive. Molti regimi autoritari si sono basati sull'assunzione implicita che i cittadini non sappiano esattamente che cosa è bene e cosa è male e che questa decisione spetti pertanto a un dittatore illuminato.

Il criterio paretiano

Le difficoltà che abbiamo descritto sembrano precludere la possibilità che il policy maker possa adottare scelte collettive in grado di soddisfare in modo ottimale le preferenze individuali. Se l’adozione della politica X modifica una situazione esistente in modo tale che l’individuo A può soddisfare meglio le sue preferenze mentre per B le cose peggiorano come possiamo essere sicuri che il benessere sociale sia aumentato? La risposta è: non possiamo esserne sicuri se non siamo in grado di misurare l’intensità delle loro preferenze, possiamo esserlo soltanto nel caso in cui uno dei due individui stia meglio di prima e la situazione dell’altro non peggiori a seguito dell’intervento. In altri termini possiamo dire che il benessere è aumentato se almeno un individuo (ovviamente anche più di uno) sta meglio di prima e nessuno sta peggio.

Quando questo accade possiamo parlare con sicurezza di un miglioramento del benessere sociale che viene denominato miglioramento paretiano. Il nome deriva da Vilfredo Pareto, economista italiano che formulò per primo questo criterio di valutazione del benessere all'inizio del secolo scorso. Possiamo definire quindi il concetto di miglioramento paretiano nel modo seguente: si ha un miglioramento paretiano quando un intervento di politica economica permette di soddisfare meglio le preferenze di almeno un individuo (accrescerne l'utilità) senza ridurre la soddisfazione (utilità) di nessun altro.

Questo principio, tutto sommato abbastanza semplice, è in grado di risolvere molti (ma non tutti) dei problemi che abbiamo visto. In primo luogo non è più necessario quantificare il grado di soddisfazione. Se una certa misura di policy migliora la situazione di A e quella di B rimane invariata non abbiamo bisogno di sapere di quanto la prima sia migliorata per poter affermare con sicurezza che nessuno dei due ha motivi per preferire la situazione precedente all'intervento, mentre almeno uno (A) preferisce certamente quella successiva. In altre parole quello paretiano è un criterio unanimistico nel senso che tutti sarebbero d'accordo nel preferire la nuova situazione (a meno ché B non sia invidioso del miglioramento di A ma l'analisi di questo aspetto, tutto sommato molto particolare, ci porterebbe troppo lontano). È ragionevole affermare in questo caso che il benessere sociale è aumentato.

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Il criterio paretiano presenta anche un altro vantaggio molto importante perché consente di individuare situazioni ottimali, vale a dire situazioni in cui non è possibile migliorare il benessere in alcun modo. La logica che guida verso questo punto è di una semplicità disarmante: quando non è possibile accrescere l’utilità di qualcuno senza ridurre quella di qualcun altro, si può affermare che non è possibile ottenere alcun miglioramento paretiano. Ci troviamo quindi in una situazione non migliorabile, qualunque cosa si decida di fare qualcuno subirebbe un danno e allora non potremmo più parlare con certezza di un miglioramento del benessere (perché non possiamo quantificare con precisione ciò che l’uno guadagna e l’altro perde). Una situazione di questo tipo proprio perché non migliorabile è, per definizione, ottimale e viene chiamata ottimo paretiano.

Un punto di ottimo paretiano implica che non vi siano sprechi nell'economia. Se non possiamo aggiungere nulla a qualcuno senza togliere a qualcun altro, significa che le risorse sono allocate in maniera efficiente, ovvero sono pienamente utilizzate. Non ci sono risorse disponibili per essere utilizzate senza costi per qualcuno, insomma non esistono pasti gratis in questa economia.

La situazione che abbiamo appena descritto è esattamente quella che si viene a creare quando un mercato concorrenziale è in equilibrio. Sappiamo dalla teoria microeconomica dei mercati concorrenziali che questo equilibrio è efficiente nel senso che tutte le risorse sono sfruttate appieno e generano la massima produzione e utilità possibili. È possibile dimostrare formalmente che qualunque punto di equilibrio in un mercato perfettamente concorrenziale è anche un ottimo paretiano. Questo risultato analitico è noto come primo teorema dell’economia del benessere.

Abbiamo trovato la bussola?

I pregi del criterio paretiano non finiscono qui. Basta un attimo di riflessione per comprendere che questo criterio può guidare le scelte di politica economica verso la massimizzazione del benessere. Se tali scelte sono conformi al criterio paretiano significa che esse danno luogo a miglioramenti paretiani. Ogni volta che questo accade l'economia si avvicina ad una situazione in cui non è possibile ottenere ulteriori miglioramenti, cioè all'ottimo paretiano che è anche l'equilibrio ottimale del mercato concorrenziale. Aggiungete a questo che l'equilibrio concorrenziale viene raggiunto attraverso meccanismi di mercato, sulla base di scambi volontari, in quanto tali moralmente legittimi. Si presume che chi ha effettuato uno scambio volontario lo abbia fatto perché ritiene di avere ricevuto una giusta compensazione (o perlomeno la ritiene tale). Su questa base si potrebbe conferire alla logica paretiana una patente di ineccepibilità non solo sotto il profilo dell'efficienza ma anche sotto quello etico della giustizia sociale.

Giù il cappello! È un risultato veramente ragguardevole. Ma non è tutto oro ciò che luccica, analizzando meglio il principio paretiano emergono difetti e limiti di applicabilità non marginali.

La frontiera delle utilità

La figura 3 riproduce la cosiddetta frontiera delle utilità, un modo per descrivere come il benessere misurato dall'utilità si distribuisce fra individui o gruppi sociali. Immaginiamo di considerare una società con due gruppi sociali: bianchi e neri. I punti della frontiera (linea spessa) rappresentano tutte le possibili distribuzioni fra i due gruppi dell'utilità derivabile dal consumo dei beni e servizi prodotti da questa economia. Se ci troviamo nel punto B l'utilità dei bianchi è Ub2, quella dei neri è Un2. Nel punto E sarebbero invece, rispettivamente, Ub1 e Un1.

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Figura 3. Frontiera delle utilità

La caratteristica fondamentale della frontiera è che, in tutti i suoi punti, la quantità di beni

prodotta è la massima possibile date le risorse e le tecnologie disponibili, e la somma delle utilità distribuite ai due gruppi è anch'essa massima. La frontiera ha un'inclinazione negativa perché, quando ci si trova su di essa, si sta utilizzando tutta la torta dei beni prodotti. Pertanto, se si vuole aumentare la fetta di qualcuno, occorre necessariamente ridurre quella di un altro. Il motivo per cui è denominata frontiera risiede proprio nel fatto che costituisce un limite invalicabile al di sopra del quale non è possibile arrivare. Per esempio il punto G non è raggiungibile perché implica una produzione e un'utilità complessiva impossibile da ottenere con le risorse esistenti anche se utilizzate nel modo più efficiente possibile. La differenza fra i punti B ed E (o C) quindi non sta nel fatto che l'utilità totale è diversa ma, semplicemente, che essa è distribuita in modo diverso: più ai bianchi e meno ai neri in B e viceversa in E. B, E e C sono tutti punti di ottimo paretiano, in quanto non è possibile aggiungere utilità ad uno dei due gruppi senza sottrarla all'altro.

Questo non è vero per il punto A che si trova all’interno della frontiera. Una azione di politica economica che facesse muovere l'economia verso un qualunque punto situato fra le due semirette grigie perpendicolari che partono dal punto A (compresi quelli giacenti sulle semirette) sarebbe preferibile ad A secondo il criterio paretiano. Prendiamo per esempio il punto B, è abbastanza evidente che in esso sia i bianchi che i neri godrebbero di un'utilità maggiore rispetto ad A (perché Ub2> Ub1 e Un2> Un3). Ma anche D ed E sono miglioramenti paretiani perché in D i bianchi stanno meglio che in A mentre per i neri non cambia nulla, e viceversa nel punto E. A è quindi un punto Pareto inefficiente perché si trova all'interno della frontiera ed è possibile ottenere miglioramenti paretiani con le risorse esistenti, segno che esse non sono utilizzate in modo ottimale. Qualunque punto sulla frontiera è invece efficiente in senso paretiano (è un punto di ottimo paretiano) perché non è possibile alcun miglioramento paretiano a partire da esso. E’ facile dimostrarlo, prendiamo per esempio il punto B, i possibili miglioramenti paretiani sono rappresentati da tutti i punti dell’area compresa fra le due semirette grigie che partono da quel punto. Tutti questi punti sono esterni alla frontiera pertanto sono irraggiungibili.

Possiamo cominciare a vedere un aspetto problematico. Abbiamo detto che B, E e C sono tutti punti di ottimo ma quale di essi è socialmente preferibile? Il principio paretiano non è in grado di dare alcuna risposta a questa domanda perché essi sono equivalenti dal punto di vista della

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massimizzazione dell'utilità sociale anche se sono molto diversi sotto il profilo della distribuzione dell'utilità.

Supponiamo di dover decidere se la politica X, per esempio una modifica della tassazione che riduce le imposte del 5% per un gruppo di contribuenti e del 10% per un altro gruppo di contribuenti più ricchi, dia luogo ad un miglioramento paretiano. Certamente sì perché entrambi i gruppi migliorano la loro situazione ma, in termini distributivi, la situazione è più diseguale di prima. La logica del principio paretiano è che un individuo razionale che benefici della riduzione del 5% approverebbe questa politica anche se la sua posizione relativa è peggiorata, perché ritiene che guadagnare il 5% è preferibile a non guadagnare nulla o a perdere qualcosa.

Tutto questo è indubbiamente razionale ma si può discutere sul fatto che sia altrettanto equo. Il criterio paretiano è inutilizzabile per qualunque considerazione relativa all'equità distributiva, anzi, in alcuni casi, potrebbe persino avallare la perpetuazione di situazioni di profonda iniquità. Un esempio può aiutare a capire il perché. Prendiamo il punto F in cui tutta l'utilità va ai bianchi (mentre i neri presumibilmente muoiono di fame), qualunque redistribuzione dell'utilità (anche muovendosi lungo la frontiera, per esempio passando da F a B) comporterebbe una perdita per i bianchi, pertanto B non può essere considerato un miglioramento paretiano rispetto ad F. Semplicemente la preferibilità di uno dei due punti rispetto all'altro non è valutabile in base al principio paretiano, non vi sarebbe alcuna ragione a favore della redistribuzione. Qualora dovessimo decidere se togliere 1 euro a Bill Gates per darlo a un barbone delle favelas brasiliane il principio paretiano non potrebbe esserci d’aiuto, nonostante il fatto che qualunque persona ragionevole si renderebbe facilmente conto che il contributo di quell’euro al benessere è molto diverso nei due casi, ed è sicuramente molto maggiore nel secondo.

In sostanza il criterio paretiano può fornire indicazioni utili all’azione se quest’ultima accresce il benessere di qualcuno senza ridurre quello di nessun altro ma è completamente inutilizzabile se alcuni sono beneficiati ed altri danneggiati. Questo limite ha implicazioni quasi paralizzanti per la politica economica perché la grande maggioranza delle situazioni reali che si vengono a creare in seguito a una misura di policy implicano vantaggi per alcuni e perdite per altri. Per di più questo problema si presenta, talvolta, anche quando si passa da una situazione inefficiente ad una efficiente. Supponiamo di trovarci nel punto A (inefficiente) e che la misura di policy consenta di spostarsi verso il punto C (sulla frontiera quindi efficiente). Il buon senso suggerirebbe che la misura andrebbe applicata perché l'utilità sociale complessiva aumenterebbe ma, in questo caso, il principio paretiano sembra fare a pugni con il buon senso e ci dice soltanto che i due punti non sono confrontabili perché lo spostamento provocherebbe perdite di utilità per i bianchi.

Dovremmo concludere che qualunque distribuzione del reddito è moralmente giusta purché l'utilità complessiva sia massima, cioè l'economia si trovi sulla frontiera. È un'idea indubbiamente discutibile.

Tuttavia, in linea di principio, il criterio paretiano non è incompatibile con una distribuzione più equa. Un qualunque ottimo paretiano (quindi una qualunque distribuzione efficiente) può essere raggiunto attraverso il funzionamento di un libero mercato competitivo se si parte da una opportuna distribuzione delle dotazioni iniziali degli agenti (le dotazioni iniziali possono essere modificate attraverso una opportuna tassazione). Questo è l'enunciato del secondo teorema dell’economia del benessere. In teoria, a seconda delle dotazioni iniziali, il percorso che conduce all'equilibrio del mercato sarebbe diverso, gli scambi sarebbero diversi e, in equilibrio, l'economia potrebbe approdare in uno qualunque dei punti della frontiera, quindi anche in un punto giudicabile come equo dal punto di vista distributivo (per esempio il punto E nella figura 3).

È la quadratura del cerchio perché avremmo insieme equità ed efficienza il tutto ottenibile attraverso i meccanismi del libero mercato. Questo spiega perché gli economisti ritengono di poter prescindere da giudizi di valore, il loro compito non è quello di decidere quale distribuzione del reddito sia giusta ma semplicemente mostrare che quella che si ritiene giusta è raggiungibile

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attraverso meccanismi di mercato e quali sono le condizioni perché questo avvenga. In altri termini il compito degli economisti è quello di occuparsi di questioni di efficienza lasciando ai politici la scelta della distribuzione ritenuta più equa e limitandosi a mostrare loro come raggiungerla in modo efficiente attraverso il libero gioco del mercato.

Il problema è che questa idea è in contraddizione con lo stesso principio paretiano perché, per redistribuire le dotazioni iniziali, bisognerebbe togliere qualcosa a qualcuno.

Il principio di compensazione

A che cosa serve un principio che non può guidare la politica economica nella stragrande maggioranza delle situazioni? Due economisti, Kaldor e Hicks, hanno cercato di ovviare a questa evidente difficoltà elaborando il principio di compensazione. In pratica il ragionamento è il seguente: se coloro che vengono beneficiati da un'azione di policy potessero cedere parte dei benefici acquisiti e compensare così interamente le perdite dei danneggiati, i primi starebbero meglio mentre per i secondi nulla cambierebbe. Insomma la nuova situazione sarebbe un miglioramento paretiano.

Nella figura 4 supponiamo che l'economia si trovi in A e che l'azione di policy la sposti in B. Notate che l'effetto è di spostare l'economia da un punto inefficiente (A) ad uno efficiente (B). I neri guadagnerebbero più di quanto i bianchi perderebbero (N1-N2 > B1-B2) ma, sulla base al principio paretiano questo spostamento non costituirebbe un miglioramento perché i bianchi perdono qualcosa. Tuttavia il punto B può essere considerato come un miglioramento paretiano potenziale perché, se i neri cedessero ai bianchi un'utilità pari a N2-N3 (= B1-B2), l'economia finirebbe nel punto C dove i bianchi hanno la stessa utilità di prima e i neri hanno in più N1-N3. Possiamo immaginare che attraverso una opportuna tassazione sia possibile attuare questa redistribuzione e portare l'economia nel punto C. Siamo ora di fronte a un miglioramento paretiano, dunque l'azione sarebbe giustificata.

Figura 4

Sembra l’uovo di Colombo ma, attenzione, il diavolo si nasconde nei particolari. Kaldor e Hicks

affermano che la compensazione non deve avvenire concretamente, è sufficiente che sia solo potenzialmente fattibile. Se la compensazione avvenisse veramente per ogni azione intrapresa, il

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principio di compensazione non sarebbe niente di diverso dal principio paretiano ma, semplicemente, una sua applicazione perché l'economia si sposterebbe alla fine nel punto C e questo sarebbe nient'altro che un miglioramento paretiano. Insomma siamo tornati al punto di partenza, a che serve allora tutto questo? Se la compensazione avviene non abbiamo fatto nessun passo avanti rispetto al principio paretiano, se non avviene come possiamo dire che i danneggiati non stanno peggio di prima?

Una prima risposta è che, se tutte le azioni intraprese in base al principio di compensazione generano sempre più benefici che costi (altrimenti non verrebbero attuate), coloro che sono danneggiati in un caso sarebbero beneficiati in un'altra occasione e viceversa. Considerando un numero sufficientemente elevato di azioni, benefici e costi si distribuirebbero casualmente fra i vari individui cosicché, in media, tutti sarebbero alla fine beneficiati perché i benefici di ogni azione sono sempre superiori ai costi (quindi anche i benefici totali lo sono).

La risposta non è però ancora completa, dobbiamo infatti essere in grado di stabilire che i benefici sono maggiori dei costi perché la compensazione sia possibile. Dobbiamo cioè misurarli e renderli comparabili in qualche modo. Non possiamo farlo in termini di utilità perché, come abbiamo visto, le utilità di individui diversi non sono comparabili. Possiamo però utilizzare, dicono Kaldor e Hicks, una misura del valore monetario che gli individui attribuiscono ai benefici e ai costi generati dall'azione intrapresa. Tale valore è misurato dalla disponibilità a pagare da parte dei beneficiari per i benefici ottenuti e dalla disponibilità a pagare dei danneggiati per evitare che l'azione venga attuata o ad accettare un indennizzo a titolo di risarcimento per i danni che ne derivano (teoricamente queste ultime due cifre dovrebbero essere uguali perché misurano la valutazione soggettiva dello stesso danno). A sua volta la disponibilità a pagare corrisponde ai prezzi di mercato dei beni e servizi generati dall'azione (se un individuo è disposto a pagare un certo prezzo per un bene significa che gli attribuisce una capacità di soddisfare le sue preferenze almeno pari al prezzo che paga altrimenti non lo acquisterebbe). Ma non è sempre facile misurare tale disponibilità, in particolare quando i beni e servizi in questione non hanno un prezzo di mercato come accade per i beni pubblici.

Come si può vedere le difficoltà di applicazione non sono poche ma, anche assumendo che siano superabili, il principio di compensazione potrebbe fornire indicazioni contradditorie in diverse situazioni.

Figura 5

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Supponiamo di dover risolvere un problema decisionale come quello dei trasporti che consente due possibili soluzioni o tecnologie: una consiste nello sviluppo della rete ferroviaria, l'altra di quella stradale. Nella figura 5 le due curve rappresentano le frontiere delle utilità associate alle due tecnologie (FF' quella ferroviaria e SS' quella stradale). Immaginiamo che la FF' sia la tecnologia in vigore e che la distribuzione delle utilità fra bianchi e neri sia data dal punto A. Ipotizziamo che, passando alla soluzione stradale (SS'), la distribuzione diventi B che non è un miglioramento paretiano rispetto ad A perché i neri stanno peggio. In base al principio di compensazione il punto B potrebbe però essere considerato come un miglioramento paretiano potenziale perché, attraverso una opportuna redistribuzione, si potrebbe arrivare muovendosi lungo la frontiera SS' al punto B' che invece sarebbe un miglioramento paretiano rispetto ad A. Sembrerebbe quindi che la soluzione stradale sia migliore di quella ferroviaria ma, una volta che avessimo fatto questa scelta potremmo avere qualche motivo per pentirci. Infatti immaginiamo di essere arrivati in B, a questo punto potremmo domandarci se abbiamo fatto la scelta giusta perché, mantenendo la tecnologia ferroviaria e attuando una compensazione dai neri ai bianchi, saremmo potuti arrivare in A’ che è un miglioramento paretiano rispetto a B.

Questo è un punto importante perché mostra che non è possibile separare questioni di efficienza da questioni di distribuzione. In casi di questo genere non possiamo dire quale delle due tecnologie sia la migliore dal punto di vista paretiano ovvero sia la più efficiente, tutto dipende dal punto preso in considerazione che definisce una particolare distribuzione dell’utilità. Le distribuzioni sulla linea FF' da F a C sono miglioramenti paretiani rispetto alle distribuzioni da S a C sulla SS'. Ma è anche vero che tutte le distribuzioni da C a S' sulla SS' sono migliori in senso paretiano di quelle da C a F' sulla FF'. I risultati sono quindi contraddittori, a seconda della distribuzione ognuna delle due tecnologie può essere superiore all'altra e viceversa.

Un altro esempio può essere utile. Giorgio ha due biglietti per un concerto rock che valuta complessivamente 100 euro (50 ciascuno). Anna è una ricca ereditiera che non possiede alcun biglietto ma è disposta ad acquistarli per 200 euro. L'allocazione dei biglietti fra i due non è efficiente, se Anna acquistasse i due biglietti da Giorgio per 150 euro li pagherebbe 50 euro in meno di quanto li valuta. Giorgio, dal canto suo, otterrebbe 50 euro in più di quanto valuta gli stessi biglietti. Attraverso lo scambio il benessere totale potrebbe aumentare, si realizzerebbe un miglioramento paretiano perché entrambi starebbero meglio.

Ora supponiamo che Giorgio sia l’erede e abbia i biglietti mentre Anna non dispone di nulla (oppure ha meno di 50 euro). In questo caso l’allocazione esistente è efficiente perché non è possibile aumentare l'utilità complessiva. Anna, infatti, pur valutando i biglietti più di Giorgio, non può acquistarli. La conclusione è semplice: la definizione di allocazione efficiente (ottimo paretiano) dipende dalla distribuzione del reddito.

A questo punto siamo in grado di renderci conto che l'intera costruzione utilitarista basata sul principio paretiano traballa un po'. Una delle motivazioni fondamentali dell'adozione del principio paretiano da parte degli economisti di ispirazione utilitarista è che esso consente di fondare le decisioni di politica economica su un calcolo di pura efficienza. Se una certa politica accresce l'utilità di qualcuno ma riduce quella di altri non possiamo dire che essa sia desiderabile da un punto di vista sociale senza esprimere un giudizio morale sul fatto che l'utilità degli uni sia più importante di quella degli altri, ovvero senza domandarci se la nova situazione sia più o meno equa rispetto alla precedente. Il principio paretiano consente di evitare questa spiacevole (per gli economisti) necessità e di separare le questioni di equità da quelle di efficienza perché, se nella nuova situazione tutti stanno meglio o, perlomeno, qualcuno sta meglio e nessuno sta peggio, possiamo affermare senza formulare alcun giudizio morale che il benessere sociale è aumentato, tutti sarebbero d'accordo con questa conclusione.

La discussione precedente ci dimostra che questo non è vero. Nella stragrande maggioranza dei casi per poter stabilire se un'azione di politica economica ha generato un miglioramento

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paretiano, anche solo potenziale, dobbiamo partire da una certa distribuzione dell'utilità e confrontarla con un'altra e questo è tipicamente un campo in cui non si può prescindere da un giudizio morale sulla preferibilità dell'una o dell'altra.

L’analisi costi-benefici

Abbiamo visto che il principio di compensazione permette di confrontare la desiderabilità di due situazioni anche quando il passaggio dall’una all’altra favorisce alcuni e danneggia altri. Nonostante i suoi difetti questo principio viene largamente applicato in pratica e costituisce il fondamento della principale tecnica di valutazione degli investimenti pubblici: l'analisi costi-benefici. Se una decisione del governo o di un’amministrazione pubblica genera più benefici (che favoriscono alcuni) che costi (che danneggiano altri) essa migliora il benessere sociale.

Come si misurano benefici e costi? L’analisi costi-benefici valuta gli uni e gli altri in base alle preferenze degli individui. Se un individuo è disposto a pagare 1 euro per lasciare la propria auto in un parcheggio a pagamento possiamo dedurre che attribuisca a questo servizio un'utilità almeno equivalente, altrimenti non avrebbe senso acquistarlo. Sarebbe più razionale acquistare per lo stesso costo qualcos'altro che procurasse quell'ammontare di utilità. Possiamo quindi quantificare in almeno 1 euro i benefici che l'acquirente ricava dalla fruizione del parcheggio, vale a dire i benefici equivalgono alla disponibilità a pagare dell'acquirente per il servizio in questione. Stimando il numero dei potenziali fruitori e calcolando la spesa complessiva per il parcheggio si possono ottenere i benefici totali prodotti dalla decisione di aprire il parcheggio stesso e mantenerlo in funzione.

I costi sono rappresentati dalle risorse necessarie per la costruzione e il funzionamento del parcheggio, risorse che potrebbero essere impiegate in altro modo. Per esempio qualcuno potrebbe preferire un museo al posto del parcheggio e trarrebbe benefici dalla fruizione del primo per i quali sarebbe disposto a pagare. I costi possono essere dunque misurati dai benefici perduti per il fatto che quelle risorse non possono essere impiegate per scopi alternativi. Coloro che devono fare a meno di tali benefici (i potenziali fruitori del museo) sono i danneggiati, e il danno che subiscono è misurato dall'utilità alla quale devono rinunciare, quantificabile nella spesa che sarebbero disposti a sostenere per non rinunciarvi (ovvero per fruire del museo).

Se il valore monetario dei ricavi ottenibili dal parcheggio supera la somma complessiva che i fruitori del museo pagherebbero, la scelta di aprire il parcheggio sarebbe quella giusta dal punto di vista utilitarista perché farebbe aumentare il benessere sociale. In teoria gli automobilisti potrebbero risarcire gli appassionati d'arte e conservare una parte dell'utilità che ottengono. Naturalmente a seconda dei costi e dei benefici la scelta migliore potrebbe essere quella opposta.

Questo metodo di valutazione delle scelte ha una sua ragionevolezza e può fornire indicazioni utili per l'azione. L'analisi costi-benefici è una tecnica di valutazione molto sviluppata e raffinata che costituisce un punto di forza della concezione utilitarista dal punto di vista pratico. Il problema è che, se si sposa pienamente ed unicamente questa logica argomentativa, si può giungere - quasi senza accorgersene - a conclusioni molto discutibili e perfino stravaganti sotto certi punti di vista.

Il memorandum di Summers

Lawrence Summers è un economista americano molto influente tanto da essere stato nominato segretario al tesoro da Bill Clinton (Presidente USA negli anni 90). Nel 1991 Summers inviò un memorandum ai suoi colleghi in cui esaminava il problema dell'inquinamento e della sua distribuzione fra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Il memorandum è una impeccabile applicazione dell'analisi costi-benefici e argomenta in questo modo. I costi dell’inquinamento sono misurati dai redditi perduti a causa delle malattie e della mortalità che ne

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derivano. I redditi sono uguali ai salari percepiti, pertanto i costi in termini di reddito perduto sono minori laddove i salari sono minori. Date le premesse la conclusione è lapalissiana: trasferire produzioni inquinanti dai paesi con salari più elevati verso paesi dove i salari sono più bassi aumenta il benessere complessivo, in quanto le perdite di reddito dovute all’aumento dell’inquinamento nei paesi con bassi salari saranno più che compensate dai guadagni derivanti dalla contemporanea riduzione dell'inquinamento nei paesi ricchi. Per essere più chiari si sta affermando che il disastro di Bhopal, avvenuto nel 1984 in uno stabilimento indiano della Union Carbide India Limited che costò la vita a più di 2.000 persone e avvelenò decine di migliaia di altre, avrebbe prodotto più costi se fosse accaduto negli U.S.A. Dal punto di vista del benessere globale è quindi meglio che sia accaduto dove è, di fatto, accaduto.

I cardini dell'argomentazione sono i seguenti:

gli agenti razionali nei paesi poveri sarebbero disposti ad accettare un maggiore inquinamento in cambio di un indennizzo minore di quello richiesto nei paesi ricchi

qualunque cosa gli individui preferiscano migliora il loro benessere

spostare l’inquinamento nei paesi poveri pagando un indennizzo migliora il benessere di tutti

è giusto adottare politiche che migliorino il benessere complessivo

è giusto adottare politiche che favoriscano lo spostamento dell’inquinamento nei paesi poveri Secondo la logica utilitarista non c'è nulla di moralmente perverso nel ragionamento di

Summers, al contrario, esso è eticamente ineccepibile. Il caso della Ford Pinto

Un altro caso altrettanto interessante quanto problematico dal punto di vista etico è quello della Ford Pinto, una utilitaria che fu immessa sul mercato dalla Ford negli anni 70 del secolo scorso.

L’auto aveva un difetto conosciuto dalla Ford: il serbatoio della benzina poteva esplodere in caso di urto violento causando la morte dei passeggeri. Il problema poteva essere risolto rinforzando il serbatoio con un costo di 11 dollari per auto, ma la Ford decise di non farlo dopo avere effettuato un’analisi costi-benefici con i seguenti risultati.

Ipotizziamo che la modifica consenta di evitare 180 decessi e che ognuno di essi sia valutato 200.000 dollari. Inoltre si eviterebbero 180 feriti (le spese per le cure sono valutate in 67.000 dollari a testa) nonché costi di riparazione dell'auto per 700 dollari ciascuna. L'analisi mostra chiaramente che i costi della modifica superano di gran lunga i benefici, utilitaristicamente parlando la decisione della Ford è dunque perfettamente razionale e giustificata. La Ford fu in seguito chiamata in giudizio per rispondere delle proprie colpe negli incidenti che si verificarono e si difese proprio mostrando i risultati dell’analisi costi-benefici.

Non c'è forse un pizzico di surrealismo in tutto questo? È veramente possibile affidarsi

unicamente ad argomentazioni razionali, per giunta di un certo tipo, e prescindere totalmente da considerazioni etiche nel valutare casi di questo genere?

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Il welfarismo

In conclusione i principi utilitaristici possono essere descritti sinteticamente come segue:

qualunque giudizio morale sul benessere sociale dipende solo dall'utilità che gli individui conseguono, questa concezione è detta welfarismo

una società giusta è una società in cui è massimo il benessere del più alto numero di cittadini, il concetto utilitarista di giustizia è fortemente conseguenzialista

il benessere corrisponde alla soddisfazione delle preferenze

le preferenze si manifestano nelle decisioni relative al consumo dei beni e possono essere misurate in termini di disponibilità a pagare

il benessere coincide quindi con il valore monetario dei beni che i consumatori acquistano e consumano

l’obiettivo delle politiche pubbliche deve quindi essere quello di massimizzare il reddito o il consumo

il benessere può aumentare anche trasferendo reddito dai più abbienti ai meno abbienti a condizione che non vengano meno gli incentivi all’efficienza.

La giustizia sociale secondo Rawls

Le teorie di Rawls hanno influenzato profondamente il dibattito sulla giustizia. La pubblicazione nel 1971 della sua opera più conosciuta: "Una teoria della giustizia" è stata considerata da molti un punto nodale nella filosofia politica del novecento. Robert Nozick, filosofo libertario e suo fiero avversario, ha scritto "I filosofi politici d’ora in poi o dovranno lavorare con la teoria di Rawls o dovranno spiegare perché non lo fanno".

La teoria della giustizia di Rawls cerca di dare una risposta alla seguente domanda: come possiamo organizzare la società in modo tale che i principi di cooperazione sociale che la governano siano equi e, per questo motivo, accettati da tutti nonostante il fatto che, in una società pluralista, coesistano visioni diverse del bene e della giustizia sociale? La risposta di Rawls è molto articolata e complessa ma si basa su un'idea in fondo semplice. L'idea centrale è che una società giusta non deve essere ugualitaria, nel senso che il benessere sia distribuito a tutti in parti uguali. Equità significa che a ciascuno deve essere dato ciò che gli è dovuto in base ai suoi meriti a all'impegno profuso nelle sue attività socialmente rilevanti. Ma le disuguaglianze spesso non dipendono né dal merito né dall'impegno, bensì da fattori oggettivi che sono al di fuori del controllo di ciascun individuo. Rawls ritiene quindi che la società non possa non farsi carico della sfortuna di alcuni suoi membri e debba in qualche modo compensarla. Alcuni individui sono beneficiati dalla fortuna (per esempio hanno talento o nascono in famiglie agiate), altri dalla sfortuna (per motivi opposti) ed è responsabilità della società nel suo complesso modificare la distribuzione dei beni e dei mali determinata dalla lotteria della vita che non ha alcuna giustificazione morale. La giustizia distributiva richiede che i fortunati trasferiscano parte dei benefici dovuti alla fortuna agli sfortunati che non ne possono godere. In sostanza la teoria di Rawls suggerisce come definire il confine tra la sfortuna che è responsabilità della società e quella che non lo è, distinguendo fra disuguaglianze profonde e superficiali. Le prime sono quelle presenti dalla nascita, dovute a circostanze sociali di cui l'individuo non è responsabile. Le seconde invece emergono successivamente come risultato di processi che sono influenzati dalle scelte volontarie degli individui.

Rawls parte da una critica all'utilitarismo secondo cui una società giusta è quella che rende massimo il benessere del maggior numero di individui. Il principio di efficienza (massimizzazione

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dell’utilità) non può essere il solo vincolo da imporre alla struttura di base della società in quanto darebbe luogo a forti disparità nella distribuzione dei beni e delle opportunità.

Non basta nemmeno che il principio di efficienza sia accompagnato dal requisito che tutte le posizioni sociali siano aperte alle persone dotate di talento. Questa è la caratteristica di una società di libertà naturale. Tuttavia, Rawls pensa che tale società garantirebbe solo una formale (legale) uguaglianza di accesso alle posizioni importanti e di prestigio, in quanto molti anche se dotati di talento, non potendo usufruire per ragioni economiche di una adeguata istruzione, di fatto non potrebbero accedere alle posizioni migliori. Prevarrebbero forti disuguaglianze nella distribuzione del reddito come effetto di dotazioni individuali già precedentemente accumulate. Una società liberale, al contrario, dovrebbe garantire efficienza e parità di opportunità effettive. In altre parole coloro che hanno le stesse qualità e la stessa volontà di utilizzarle dovrebbero avere la stessa probabilità di successo indipendentemente dalla situazione iniziale in cui si trovano nel sistema sociale. Ad esempio, dovrebbe essere garantita a tutti la possibilità di accedere ad una istruzione adeguata.

Ma anche questa società sarebbe, secondo Rawls, ingiusta in quanto le prospettive future di un individuo dipenderebbero da una distribuzione casuale del talento, ovvero sarebbero il risultato di una “lotteria naturale” che è completamente arbitraria da un punto di vista morale. La società preferita da Rawls è quella dell'uguaglianza democratica. Una società che presenta pari opportunità per tutti come la società liberale, ma che integra il principio di efficienza con il principio di differenza (sul quale torneremo fra poco). Ad esempio, nelle parole di Rawls, i vantaggi socioeconomici della classe imprenditoriale in una “democrazia con proprietà privata” sono accettabili fino al punto in cui una loro riduzione porterebbe ad un peggioramento delle condizioni delle classi lavoratrici. Così, gli imprenditori sono giustificati nell’accumulare la propria ricchezza solo se ciò rappresenta uno stimolo per fare nuovi investimenti, sostenendo la crescita economica e migliorando anche le condizioni dei lavoratori. Se però l’imprenditore accumula eccessiva ricchezza senza che ciò porti benefici alla classe lavoratrice, il governo è legittimato a tassare la classe imprenditoriale ed a trasferire i proventi della tassazione alla classe lavoratrice.

A questa visione della società, qui molto sommariamente descritta, Rawls perviene attraverso argomentazioni filosofiche molto raffinate e originali. Lo scopo che il filosofo americano si propone è definire le condizioni necessarie perché una società possa essere definita giusta. La prima di queste condizioni è che tutti devono essere d'accordo sui principi fondamentali di giustizia che governano la società, in sostanza tali principi devono scaturire da un contratto sociale. Una teoria della giustizia deve fondarsi su alcuni principi di ragionevolezza e di equità condivisi da tutti i membri della società, per questo tali principi devono essere definiti in modo obiettivo, prescindendo dagli interessi personali e di gruppo.

Rifacendosi alle teorie giusnaturalistiche del settecento, Rawls ipotizza una situazione originaria in cui è possibile raggiungere l'obiettività necessaria per definire le regole del gioco. L'idea è, tutto sommato, molto semplice: chiunque debba esprimere un giudizio sulla giustizia e il benessere sociale è necessariamente influenzato dalla posizione che occupa nella gerarchia sociale. Un individuo ricco sarebbe favorevole a regole che proteggano la proprietà mentre un povero riterrebbe ingiusta una forte concentrazione della ricchezza. Possono quindi essere formulati molti criteri diversi fra loro, tutti ugualmente plausibili, ma condizionati e non sufficientemente obiettivi. Per formulare criteri obiettivi che siano anche equi e condivisibili da tutti, è necessario prescindere dalla propria condizione sociale. Tali criteri possono essere formulati soltanto da qualcuno che elabora le sue argomentazioni senza sapere quale posizione occuperà nella società quando quei criteri verranno concretamente applicati.

Rawls immagina che, nella situazione originaria, chi deve decidere le regole della giustizia sociale sia coperto da un velo di ignoranza che gli impedisce di sapere quale posizione sociale

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occuperà nella futura società governata da quelle regole. Come argomenterebbe un individuo razionale in queste condizioni?

Secondo il filosofo americano si preoccuperebbe soprattutto di minimizzare le conseguenze negative che potrebbero derivare dal fatto di trovarsi in una condizione svantaggiata o di povertà. In altri termini cercherebbe di fare in modo che chiunque venga a trovarsi in quella condizione, per circostanze indipendenti dalla sua volontà, sia in qualche modo tutelato dalla società.

Partendo da queste premesse Rawls formula due principi di giustizia sociale: 1. principio di libertà: tutti hanno un uguale diritto a un sistema il più esteso possibile di libertà

fondamentali (personale, di pensiero, di parola, di voto ecc.) compatibile con le stesse libertà per gli altri;

2. principio di differenza: le disuguaglianze sociali devono soddisfare due condizioni: a) devono essere collegate a incarichi o posizioni aperte a tutti in condizioni di uguaglianza di

opportunità di accesso; b) sono accettabili solo se contribuiscono al miglioramento delle condizioni dei membri più

svantaggiati della società. Il primo principio ha a che fare con le libertà fondamentali. Lo stato deve garantire ad ogni

singolo cittadino la tutela di tali libertà che non possono essere violate nemmeno in nome del massimo bene sociale. Secondo Rawls: "Ogni persona possiede un'inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri". Rawls è fortemente critico nei confronti dell'utilitarismo, la sua difesa delle libertà personali ha una forte matrice deontologica e anti conseguenzialista.

Il principio di differenza affronta invece il problema dell'equa distribuzione delle opportunità aperte ai cittadini. L'idea espressa nel punto a) è che le posizioni sociali che danno prestigio, potere e ricchezza non devono essere aperte soltanto in un senso formale, tutti dovrebbero avere un'equa possibilità sostanziale di ottenerle. Più precisamente, supponendo che esista una distribuzione delle doti naturali, coloro che hanno lo stesso grado di abilità e talento e la medesima intenzione di servirsene, dovrebbero avere le stesse prospettive di riuscita, indipendentemente dal loro punto di partenza all'interno del sistema sociale, cioè indipen-dentemente dalla classe di reddito della famiglia in cui sono nati. Nessuno può essere discriminato sulla base di differenze di sesso, razza o religione, ma anche di posizione sociale, cioè caratteristiche irrilevanti ai fini del buon svolgimento dell'incarico assegnato.

La seconda parte del principio di differenza è indubbiamente l'argomentazione più controversa ma anche più nota del pensiero di Rawls. Sostanzialmente vi si afferma che le disuguaglianze sono socialmente giustificate solo se permettono ai cittadini più svantaggiati di migliorare la propria condizione. Come abbiamo già visto in precedenza, anche una forte differenza fra i profitti dell'imprenditore e il salario dei suoi operai può essere moralmente giustificata, ma a patto che l'attività dell'imprenditore permetta agli operai di avere una salario più alto di quello che avrebbero in sua assenza. Si potrebbe obiettare che, se l'imprenditore ottiene i suoi profitti grazie ad una elevata abilità negli affari, i suoi meriti dovrebbero essere sufficienti a legittimarne i guadagni. Ma Rawls non accetta nemmeno che le differenze di retribuzione siano interamente determinate dal merito, perché il merito è influenzato da fattori come il talento naturale o da posizioni sociali che permettono di estrinsecarlo meglio in rapporto al talento naturale di cui si dispone. Secondo Rawls nessuno dovrebbe essere considerato meritevole o immeritevole in base a fattori che sono al di fuori del suo controllo, sui quali non può fare nulla. Tutto sommato il talento naturale è una dote casuale allo stesso modo della bellezza e anche la posizione sociale che si occupa non è necessariamente meritata (pensiamo a chi studia in una università prestigiosa perché la famiglia può pagargli gli studi rispetto ad un altro, dotato dello stesso talento naturale, che non può permetterselo). Pertanto le disuguaglianze connesse al merito devono avere una

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giustificazione ulteriore, cioè andare a vantaggio dei più disagiati che, presumibilmente, sono anche coloro che hanno svantaggi nel concretizzare i loro meriti. Per esempio i più intelligenti possono ottenere di più in termini di ricchezza o posizione sociale ma questo è pienamente giusto solo se c’è una compensazione a favore di coloro che non hanno avuto la fortuna di essere altrettanto intelligenti e dotati di talento.

Questo è il fondamento del principio di differenza. Sarebbe comunque errato dedurne che per Rawls il talento naturale non debba essere premiato e valorizzato. Al contrario egli ritiene che ciò sia essenziale per accrescere il benessere della società. Una società che non valorizzi il talento, lo spirito di iniziativa, l'intelligenza dei singoli sarebbe condannata alla povertà. Rawls ritiene però che il talento non possa giustificare interamente posizioni di privilegio per i motivi esposti in precedenza, occorre anche tener conto che chi non ne dispone è svantaggiato per motivi indipendenti dalla sua volontà e dal suo impegno e questa è, sul piano morale, un'ingiustizia alla quale la società deve cercare di porre, almeno in parte, rimedio.

Un esempio può aiutare a capire l'idea di Rawls. Se dovessimo dividere una torta di determinate dimensioni, in mancanza di specifiche ragioni a favore di altre soluzioni, la divisione più equa sarebbe quella che assegna a tutti fette uguali. Ma supponiamo che la dimensione della torta dipenda dalla disuguaglianza nella divisione delle fette, perché chi ricevesse una fetta più grande sarebbe più motivato ad impegnarsi e a sfruttare le sue capacità e il suo talento, cosicché il suo contributo al benessere della società (dimensioni della torta) sarebbe maggiore. In questo caso la disuguaglianza sarebbe giustificata perché consentirebbe di assegnare anche ai più svantaggiati fette più grandi rispetto a quanto potrebbero ottenere in condizioni di perfetta uguaglianza (torta più piccola).

Il principio di libertà e quello di differenza non hanno la stessa importanza. Il primo ha una priorità assoluta sul secondo. Questo significa che il primo principio non può essere violato per perseguire il secondo, inoltre le prescrizioni della prima parte del secondo principio non possono essere contraddette da azioni volte ad applicare la seconda parte. Rawls quindi ritiene ingiusti i regimi totalitari come quello comunista che, in nome dell'uguaglianza nella distribuzione del reddito, sacrificano le libertà individuali.

Una società giusta deve quindi farsi carico di garantire ai più disagiati un livello minimo di benessere e condizioni di vita dignitose ma senza violare alcune libertà fondamentali. Cosa dobbiamo prendere in considerazione per stabilire se questo principio è soddisfatto e, più in generale, quale è la posizione di ciascun individuo nella società? In altri termini come possiamo misurare l'ingiustizia e, insieme, il rispetto dei diritti fondamentali?

Rawls rifiuta le misure utilitariste e welfariste che implicano una visione monistica del bene e afferma, invece, che una società democratica dovrebbe permettere ai cittadini di esprimere una pluralità di concezioni del bene, di cui una semplice scala dell'utilità o della felicità non può tener conto. La giustizia per Rawls non consiste quindi nel distribuire equamente o massimizzare un fattore di benessere preventivamente determinato (utilità, piacere derivante dal consumo di beni) ma nel porre ciascun cittadino nelle condizioni di perseguire liberamente la propria visione del bene compatibilmente con la garanzia della stessa libertà per gli altri. Egli ritiene che il giudizio debba essere espresso in termini di beni primari definiti come "cose che si presume ogni uomo razionale desideri avere indipendentemente dai suoi specifici obiettivi nella vita o, più precisamente, ciò di cui necessitano persone nel loro status di cittadini liberi ed uguali, come membri normali e pienamente cooperanti nella società". In altri termini per beni primari si intendono quei beni e diritti fondamentali di cui ogni individuo razionale si presume abbia bisogno per condurre una vita libera e dignitosa e per esprimere appieno la propria cittadinanza nella società. Secondo il filosofo americano essi sono la base su cui fondare la valutazione della giustizia sociale e dello status sociale di ciascun individuo. Rawls distingue due tipi di beni primari: 1. beni primari sociali che includono:

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a. libertà di base: di pensiero, di coscienza, di associazione, diritto all'integrità della persona, libertà politiche

b. libertà di movimento e di scelta dell'occupazione in base a un ventaglio di opportunità c. il potere e le prerogative che derivano da incarichi e posizioni di responsabilità nella società

e in particolare nelle istituzioni politiche d. reddito e ricchezza e. essere rispettato dagli altri ed essere quindi nelle condizioni di avere autostima

2. beni primari naturali: intelligenza e talento, immaginazione, salute I beni primari sociali sono quindi quei beni che sono sotto il controllo delle istituzioni sociali

mentre non lo sono i beni primari naturali. La distribuzione di beni primari naturali non può essere né giusta né ingiusta, è semplicemente un fatto naturale. Dato che la teoria della giustizia si occupa delle istituzioni sociali, Rawls non li prende direttamente in considerazione. Tuttavia, le conseguenze di un'ineguale distribuzione di questi beni sono influenzate da come sono distribuiti i beni primari sociali. Ad esempio, una persona affetta da una grave malattia avrà migliori prospettive di vita se è abbastanza ricca da permettersi cure adeguate. Ciò che conta ai fini della giustizia è, innanzitutto, la distribuzione dei beni primari sociali perché su di essa le istituzioni possono intervenire per modificarla e renderla più giusta.

Una condizione necessaria di giustizia è che tutti gli individui abbiano una uguale dotazione di base di beni primari sociali. Questa condizione è rigida per quanto riguarda i beni in a) e b), tutti i cittadini indistintamente devono godere di queste libertà di base. Agli altri beni primari sociali (d ed e) si applica invece il principio di differenza, vale a dire: la distribuzione può essere diseguale ma la diseguaglianza si giustifica solo se contribuisce ad accrescere la dotazione di beni primari dei più svantaggiati. Per quanto riguarda il punto c, Rawls afferma che devono essere garantite a tutti uguali opportunità di accesso agli incarichi e alle posizioni sociali di responsabilità (ovvero assenza di discriminazione basata su fattori irrilevanti: razza, religione, condizione sociale ecc.) ma l’effettivo conseguimento di tali posizioni dipenderà dal talento e dall’impegno di ciascuno (cioè da fattori rilevanti). Pertanto si creeranno inevitabilmente delle disuguaglianze che saranno quindi governate dal principio di differenza.

Il criterio del massiminimo

All'applicazione pratica del principio di differenza è associato il criterio del massiminimo (massimo dei minimi) il quale prescrive che, dovendo scegliere fra diverse alternative, la regola decisionale consiste nel classificare prima le alternative secondo il loro peggior risultato possibile, quindi adottare l'alternativa il cui peggior risultato è superiore ai peggiori risultati delle altre (in pratica il meno peggio o il minor male). Proviamo ad applicare questa idea alla distribuzione del reddito. Immaginiamo di dover comparare 4 società (A, B, C, D) composte ciascuna da tre gruppi sociali (rossi, azzurri e verdi). La domanda che ci poniamo è: quale di queste società sarebbe preferibile secondo Rawls in base al criterio del massiminimo e quale lo sarebbe invece per gli utilitaristi? In questo caso il peggior risultato possibile è il livello di reddito di chi sta peggio. La società preferibile sarebbe quindi quella in cui il reddito di chi sta peggio è il più alto. Ordinando le società in base ad esso la gerarchia sarebbe D > A > C > B.

Rawls direbbe che la società A è più giusta della società B perché coloro che stanno peggio (verdi) stanno comunque meglio in A rispetto a B. Il reddito medio è uguale nelle due società e la sua distribuzione è più equa in A, è quindi ragionevole preferire A rispetto a B. Ciononostante il criterio del massiminimo non implica affatto la scelta di una società ugualitaria. Dovendo scegliere fra tutte le alternative, la società D sarebbe preferibile secondo Rawls nonostante sia quella in cui la distribuzione del reddito è più diseguale. Il motivo è che i più poveri stanno meglio rispetto alle

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altre. Il criterio del massiminimo trascura la distribuzione complessiva del reddito e focalizza l'attenzione solo sul gruppo più disagiato.

Criterio del massiminimo

Società Rossi Azzurri Verdi Reddito medio

A 100 100 100 100

B 150 100 50 100

C 600 600 99 433

D 1096 102 101 433

Per gli utilitaristi sarebbe indifferente scegliere C o D perché il reddito medio è massimo in

entrambe, ne segue che anche il reddito totale è massimo (se il numero di membri è lo stesso). La differenza fra la scelta utilitarista e quella rawlsiana si può vedere meglio nella figura 6.

Consideriamo una società composta da due soli individui A e B. A è un povero (magari perché disabile) che vive di un sussidio ottenuto tassando B. A è anche il più disagiato fra i due. Sull'asse delle ordinate misuriamo la parte del reddito complessivo che va ad A, su quello delle ascisse la parte di B. Diamo per scontato che B produca meno reddito quanto più è tassato. Infatti i trasferimenti da B ad A diminuiscono la ricchezza totale. Il reddito prodotto da B è indicato dalla curva a forma di semicerchio. Il punto L indica il reddito prodotto quando B mantiene tutto per sé stesso (nel punto L il reddito di A è uguale a zero). In questo caso il reddito è il massimo possibile.

Figura 6. La giustizia distributiva secondo Rawls e gli utilitaristi Se B viene tassato, una parte del reddito va ad A il cui reddito aumenta mentre quello di B

diminuisce. Ma il reddito di A aumenta meno di quanto diminuisce quello di B (infatti ci muoviamo lungo una curva e non una retta) per via del fatto che il reddito totale prodotto da B diminuisce all'aumentare delle tasse. Attenzione il reddito complessivo è prodotto solo da B, tale reddito non diminuisce perché una parte viene trasferita ad A ma perché, dato che non può godere di una parte del reddito che produce, B ha meno incentivi a lavorare sodo. Quale distribuzione sarebbe

45°

A

B

U

Punto di massima utilità totale

Distribuzione egualitaria

Distribuzione giusta secondo il criterio del massiminimo

RC

A1

B1

A2

L

D

F

C

B2 L

U C R

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giusta secondo il criterio del massiminimo? Sarebbe il punto R in cui B ha un reddito B1 ed A ottiene un sussidio pari ad A1. Il motivo è che, se B venisse ulteriormente tassato, il reddito prodotto si ridurrebbe a tal punto che anche il sussidio di A diminuirebbe (questo avviene nel punto C, infatti A2<A1). Nel punto R la distribuzione del reddito è diseguale (B ha più di A) ma la diseguaglianza è giustificata dal fatto che il reddito di A è il massimo possibile.

Si può notare che la distribuzione ottimale secondo Rawls non è ugualitaria (lo sarebbe nel punto C, perché la retta tratteggiata è inclinata a 45°, ascissa e ordinata sono pertanto uguali in ogni suo punto infatti A2=B2).

Il punto ottimale per gli utilitaristi sarebbe invece U perché in esso il reddito totale (A+B) è massimo. Possiamo immaginare che ciascuno dei segmenti inclinati negativamente a 45° rappresenti un livello complessivo di reddito o utilità che aumenta via via che ci allontaniamo dall'origine, e che tutti i punti di ciascun segmento siano le possibili distribuzioni di questo reddito fra A e B. L'inclinazione negativa si spiega con il fatto che, se consideriamo un certo livello di reddito misurato da uno di questi segmenti, modificare la distribuzione significa necessariamente dare qualcosa in più all'uno e togliere qualcosa all'altro. La forma rettilinea e l’inclinazione a 45° riflettono l'idea che le utilità di tutti gli individui hanno lo stesso peso. Il punto U si trova sul segmento più lontano dall'origine e anche sulla curva del reddito prodotto, indica quindi il più alto livello di reddito complessivo ottenibile nell'economia che stiamo considerando.

Possiamo anche notare che la distribuzione rawlsiana è diseguale, ma meno di quella utilitaristica.

La critica di Harsanyi

La critica serrata di Rawls all'utilitarismo non poteva rimanere senza una risposta che giunse da parte di un importante esponente (vincitore del Nobel) della teoria utilitarista, John Harsanyi.

Harsanyi sostiene che il criterio del massiminimo è troppo rigido per avere i crismi della piena razionalità, infatti può condurre ad esiti paradossali. Vediamo perché nell'esempio seguente. Immaginiamo che a un individuo che vive a Cagliari e fa un lavoro piuttosto noioso e poco gratificante venga offerta una possibilità di lavoro molto allettante a New York. Per recarvisi il fortunato dovrà prendere un aereo (deve essere là il giorno dopo, pena la perdita del lavoro) ma esiste una certa probabilità, sia pure molto bassa, che l'aereo precipiti.

l’aereo precipita l’aereo arriva a destinazione

Cagliari lavoro pessimo ma vivo lavoro pessimo ma vivo

New York lavoro ottimo ma morto lavoro ottimo e vivo

Proviamo a ragionare secondo il principio del massiminimo. Bisognerebbe valutare ogni

possibile scelta in base alla peggiore eventualità possibile a seguito di quella particolare decisione. Se il nostro uomo scegliesse di restare a Cagliari, il peggiore risultato (ed unico) possibile sarebbe quello di avere un brutto lavoro, ma di essere ancora in vita (assumendo che le probabilità di morire nel prossimo futuro per ragioni diverse da un incidente aereo siano praticamente nulle). Al contrario, se scegliesse l'opzione New York, il peggior risultato possibile sarebbe quello di morire in un incidente aereo. Di conseguenza, il peggior risultato possibile nel primo caso sarebbe decisamente meglio del peggior risultato possibile nel secondo caso. Quindi, volendo seguire la regola del massiminimo, egli dovrebbe scegliere Cagliari, senza tener

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conto di quanto bassa sia la probabilità di un l’incidente aereo, né di quanto forte sia la sua preferenza per l'ottimo lavoro di New York. Questa sarebbe, chiaramente, una scelta irrazionale. Se assegnassimo una probabilità sufficientemente bassa all'incidente aereo, e avessimo una preferenza abbastanza forte per il lavoro di New York, allora di certo dovremmo scegliere di lasciare Cagliari. Sostanzialmente Harsanyi pone l’accento sul fatto che le alternative fra le quali dobbiamo scegliere non possono essere confrontate indipendentemente dalla probabilità che hanno di verificarsi, è irrazionale assegnare lo stesso peso ad un evento, per quanto negativo, che ha però una probabilità bassissima di verificarsi e ad un evento positivo che invece si verificherà con probabilità molto elevata. Volendo portare la logica del massiminimo alle estreme conseguenze, non dovremmo neppure attraversare la strada, dopo tutto potremmo essere investiti da un'automobile.

Messa in questi termini la critica di Harsanyi è forse troppo formale e parzialmente inappropriata, ma coglie comunque un punto debole da non sottovalutare.

Il libertarismo e lo stato minimo

Il libertarismo è una filosofia politica e morale secondo cui ogni individuo è proprietario assoluto di se stesso, del suo corpo, della sua mente (autoproprietà) ed ha un diritto naturale alla massima libertà negativa possibile, compatibile con quella degli altri individui. Per libertà negativa si intende l'assenza di qualunque forma di interferenza nelle proprie decisioni ed azioni da parte di altri individui. L'individuo ha inoltre il potere morale di acquisire diritti di proprietà su oggetti esterni a se stesso e tali diritti non possono essere violati in alcun modo senza il suo consenso. In generale si potrebbe affermare che, se l'obiettivo fondamentale dell'utilitarismo è quello di massimizzare l'utilità sociale, quello del libertarismo è la massimizzazione della libertà individuale.

La dottrina libertaria si sviluppa a partire dalla metà del Novecento, principalmente negli Stati Uniti, per opera di autori come Ayn Rand, Murray Rothbard, David Friedman, Robert Nozick, Walter Block ed altri, ma ha radici più lontane nel pensiero di John Locke e dei giusnaturalisti dei diritti; l’anarchismo individualista di Josiah Warren, Lisander Spooner, Benjamin Tucker, Henry D. Thoreau; la Scuola austriaca di economia di Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek.

Attualmente il principale esponente di questa dottrina è Robert Nozick autore di un testo molto famoso dal titolo Anarchy State and Utopia, in cui conduce una critica molto serrata alle teorie di Rawls.

Nozick afferma che una certa distribuzione dei beni è giusta se è il risultato di un libero scambio partendo da una situazione giusta, anche se il processo che ne segue produce disuguaglianze. Non si può definire uno stato delle cose come giusto o ingiusto osservandolo al momento attuale, occorre domandarsi come si è venuto a creare. Ciò che conta è soltanto la legittimità delle azioni che hanno condotto a quello stato. La legittimità si basa su tre principi fondamentali:

Principio di giustizia nell’acquisizione: legittimità dell’acquisizione originaria dei beni

Principio di giustizia nel trasferimento: legittimità dei modi in cui i beni sono trasferiti dall’uno all’altro

Principio di rettifica delle ingiustizie passate Il primo principio parte dal presupposto che le risorse sono scarse e possono sorgere conflitti

sul loro utilizzo perché l’uso da parte di una persona ne esclude o restringe l’uso da parte di un’altra. È quindi necessaria una regola etica che governi l’uso di risorse e beni finiti. Il criterio per l’assegnazione del diritto di proprietà è quello lockiano del “mescolare il lavoro umano con la natura”. L’applicazione su una risorsa fisica, che non è proprietà di nessuno, delle energie mentali e/o fisiche di un individuo la trasforma fisicamente e legittima la costituzione di un titolo di proprietà sulla risorsa stessa, o sul bene frutto della sua lavorazione. L'acquisizione del titolo può

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avvenire anche semplicemente impossessandosi per la prima volta di qualcosa che non appartiene a nessuno. Questa modalità di appropriazione legittima viene definita occupazione originaria.

Il diritto di proprietà implica il potere assoluto di disporre ad arbitrio del bene, tra cui la facoltà di cederlo ad altri attraverso lo scambio. Il secondo principio stabilisce quindi che chi ha ottenuto un bene attraverso un libero scambio volontario e legittimo ne acquisisce la piena proprietà e può, a sua volta, trasferirlo legittimamente a chiunque desideri.

Tutto questo non è ancora sufficiente per stabilire se un assetto sociale è moralmente giusto. Può accadere infatti che, in alcuni casi, l'acquisizione della proprietà non sia avvenuta con le modalità descritte bensì in modo illegittimo (per esempio il furto o uno scambio coatto). Deve essere quindi possibile correggere queste ingiustizie attraverso opportune regole e procedure che permettano di ripristinare la piena legittimità delle proprietà individuali.

Una volta che ciò è accaduto ogni individuo dovrebbe essere libero di fare tutto ciò che ritiene opportuno con le proprie risorse, purché questo non interferisca con il godimento delle risorse di un’altra persona. La definizione di ciò che è giusto o ingiusto è esclusivamente procedurale e storica. In altri termini la legittimità di una proprietà deve essere valutata non in base a un principio astratto, bensì esaminando il percorso storico che ha condotto alla situazione attuale.

In questo quadro la funzione fondamentale del diritto e dello Stato non può che essere quella di proteggere l’individuo e la sua proprietà dalla violenza degli altri.

La concezione libertaria della società implica una visione radicalmente individualista della vita, che comporta la drastica riduzione della sfera di intervento dello Stato negli affari dei cittadini. Nozick definisce come "Stato minimo" questa forma di organizzazione politica. Questo approccio avvicina le teorie libertarie ai programmi della destra neo-liberista (ma non mancano anche posizioni anarchiche) e assume una posizione aspramente critica nei confronti delle Politiche del Welfare State (Stato sociale).

Il libero mercato, inteso come luogo in cui gli individui interagiscono liberamente, è la migliore forma di organizzazione economica in quanto rispetta i diritti fondamentali di libertà individuale, genera opportunità e crea benefici economici. Qualunque intervento volto a perseguire l’uguaglianza distributiva (es. tassazione), violando diritti di proprietà legittimamente acquisiti, distrugge la libertà ed è non solo ingiusto ma anche dannoso perché riduce gli incentivi degli agenti ad adottare comportamenti efficienti. La ricchezza ottenuta attraverso il gioco del mercato è legittima anche perché rispecchia i meriti, le capacità e i talenti individuali. Secondo i libertari, come per gli utilitaristi, i meccanismi di mercato fanno sì che gli individui ottengano esattamente ciò che meritano. Il riferimento teorico di questa affermazione è la teoria della distribuzione marginalista, secondo cui ciascun partecipante al processo produttivo riceve una remunerazione pari al suo contributo (produttività) marginale alla produzione stessa.

I compiti dello Stato sono quelli del "guardiano notturno" della concezione liberale classica, ossia garantire il rispetto della legge nell'ambito del proprio territorio attraverso la punizione (con l'uso della forza) dei trasgressori. Soltanto uno Stato minimo, ridotto strettamente alle funzioni di protezione contro la forza, il furto, la frode, di esecuzione dei contratti e così via, è giustificato; qualsiasi forma più estesa di autorità collettiva è ingiustificata in quanto viola i diritti delle persone a non subire costrizioni.

Lo Stato non può usare il suo apparato coercitivo allo scopo di imporre ad alcuni cittadini di aiutare altri. Uno Stato che si proponesse di redistribuire il reddito e di riequilibrare le condizioni sociali, perseguendo politiche di "riparazione" nei confronti delle persone meno avvantaggiate, è uno Stato che non considera le singole persone come fini, ma semplicemente come mezzi in vista del bene della Società, intesa come la maggioranza dei cittadini. Nozick va oltre affermando che la redistribuzione della ricchezza costringe un individuo a lavorare per scopi diversi da quelli che si propone e questo equivale a una forma di schiavitù. Non si possono infrangere i diritti di alcune persone anche se, così facendo, si ottiene un benessere sociale maggiore perché la categoria

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"società" non esiste in quanto tale, esistono solo individui, ciascuno distinto dall’altro e una società può essere giusta se e solo se sono rispettati i diritti inviolabili di tutti gli individui che la compongono.

In questo senso il pensiero di Nozick è fortemente deontologico e anti conseguenzialista, anti utilitarista e anti Rawlsiano. Egli pensa che sia necessario abbandonare l'utopia di una società perfetta, valida per tutti, al contrario dobbiamo prendere in considerazione l'utopia di un luogo in cui la gente sia libera di associarsi volontariamente per cercare di attuare la propria individuale visione della vita, senza imporla agli altri. L'utopia, dunque, dev'essere una struttura-per-la-libertà, che superi sia l'anarchia (di un ipotetico "stato di natura") sia lo Stato pianificatore (che obbliga qualcuno a fare sacrifici per aiutare altri). Da qui il titolo dell'opera principale di Nozick: Anarchia, Stato e Utopia.

Sen e l'approccio delle capacità

L'approccio delle capacità, elaborato a metà degli anni Ottanta grazie al contributo fondamentale dell’economista indiano Amartya Sen, Professore di economia e filosofia ad Harvard e Premio Nobel per l’Economia nel 1998, e di Martha Nussbaum, filosofa politica dell’Università di Chicago, si è progressivamente sviluppato grazie al contributo di studiosi che operano nei più diversi ambiti disciplinari, e rappresenta oggi uno dei più importanti paradigmi teorici per lo studio dei problemi dello sviluppo, della povertà e della diseguaglianza e per l'elaborazione di politiche di intervento da parte di governi, organizzazioni internazionali, ONG e, più in generale, attori dello sviluppo.

L'approccio delle capacità non è una vera e propria teoria della giustizia che ambisce ad essere completa come quella di Rawls o di Nozick che si propongono di stabilire le regole fondamentali di una società giusta. E' piuttosto un approccio, un metodo che mira a definire quale deve essere la metrica del benessere sociale, ossia su quali informazioni bisogna basarsi per definirlo e misurarlo. L’idea alla base dell'approccio delle capacità consiste nell'analizzare e valutare il benessere sociale concentrando l'attenzione non tanto sulle variabili solitamente utilizzate a questo scopo come il reddito, il consumo, o anche la felicità, quanto su ciò che Sen chiama le "capabilities to function" (capacità di funzionare), definite come le effettive opportunità che gli individui hanno di essere e di fare ciò che realmente vogliono, ovvero come libertà reali di vivere la vita a cui attribuiscono valore per valide ragioni. Secondo questo approccio, lo sviluppo, nel senso più ampio del termine, deve essere inteso non solo in termini di crescita economica ma come promozione del progresso umano e delle condizioni di vita delle persone, la cui realizzazione non può prescindere da elementi fondamentali quali la libertà di scelta e di azione, il benessere non solo materiale e la qualità della vita.

Sen, come Rawls (ma differenziandosi da lui), rivolge una critica serrata all'utilitarismo mettendone a nudo i limiti come teoria del benessere sociale. L’approccio utilitarista privilegia la massimizzazione dell’utilità sociale, identificando il benessere con il piacere o l'utilità ricavabile dal consumo di beni e servizi. Ciò porta a trascurare la dimensione dei diritti e delle specificità individuali considerandoli solo come mezzi in funzione della massimizzazione del benessere sociale aggregato. A questa visione conseguenzialista si contrappone quella rigidamente deontologica dei libertari che attribuiscono importanza soltanto ai diritti individuali, in particolare a quello di proprietà, e rifiutano qualunque concetto di giustizia sociale che comporti una loro violazione sia pur minima.

Sen propone di andare oltre entrambe queste visioni del benessere e della giustizia sociale con un approccio flessibile che, pur mantenendo un impianto conseguenzialista, presta particolare attenzione ai diritti di libertà e, soprattutto, alle effettive opportunità di esercitarli, intese come

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precondizioni necessarie per il perseguimento di un’idea di benessere o qualità della vita più ampia rispetto al puro consumo di beni. Sostanzialmente Sen cerca di costruire una teoria deontologica ma "attenta alle conseguenze". Una teoria, cioè, che integra insieme la valutazione delle conseguenze di un'azione e il rispetto dei diritti.

In comune con Rawls, egli rifiuta l'idea che il benessere possa essere identificato con la soddisfazione delle preferenze intese come puri stati mentali, perché questo comporta i problemi che abbiamo già esaminato, tra i quali quello dell'adattamento delle preferenze allo stato in cui ci si trova anche se di disagio o deprivazione. Sen sostiene che le preferenze spesso non riflettono i veri desideri e aspirazioni degli individui. Per esempio il fatto che nei paesi musulmani molte donne non ambiscano a conseguire un elevato livello di istruzione può essere considerato come una reale manifestazione delle loro aspirazioni o è, invece, una forma di adattamento ad un contesto culturale che le educa a rinunciare a questa aspirazione?

Inoltre se l’utilità coincide con uno stato di piacere soggettivo, allora è possibile provare piacere o ottenere soddisfazione avendo desideri o nutrendo preferenze tali da non venire mai frustrati o delusi (preferenze adattive). Questo fenomeno si può osservare in molti studi sullo standard di vita di una comunità, nei quali un risultato molto frequente è che la percezione del proprio stato di indigenza è tanto più attenuata quanto minori sono le opportunità di sfuggire a tale stato. Insomma ci si può abituare alla condizione di povertà fino a considerarla come una condizione normale e a perdere la percezione di stati alternativi possibili.

La base su cui fondare il concetto di benessere non può quindi essere un insieme di stati mentali puramente soggettivi, il benessere deve avere un fondamento oggettivo, collettivamente riconoscibile come misura del bene. Rawls individua questa base nei beni primari, definiti come quei beni che qualunque individuo ragionevole ha motivo di desiderare e ai quali non può rinunciare. Sen ammette l’importanza dei beni primari, anche di quelli più propriamente materiali (come il reddito e i consumi) nella valutazione del benessere, ma ritiene che il metro di misura appropriato della giustizia non sia né quello dell'utilità (come sostengono gli utilitaristi), né quello dei beni primari (come afferma Rawls), né quello delle libertà negative (libertà da vincoli come sostengono i libertari) ma, piuttosto, quello delle libertà positive o, nella sua definizione, capacità di scegliersi e vivere una vita a cui si hanno giustificati motivi per attribuire valore. I beni (anche quelli primari) sono solo un mezzo per il raggiungimento del benessere. E' necessario invece spostare l’attenzione dai mezzi a ciò che ciascuno riesce ad essere e a fare grazie ad essi perché i risultati effettivi possono essere molto diversi a parità di mezzi. Ciò che conta quindi è quanto le persone riescono effettivamente a fare con le risorse a loro disposizione o, meglio, ciò che sono poste in condizione di poter fare con esse. Le persone differiscono tra loro sotto diversi punti di vista. Sul piano fisico e psicologico (ad esempio, per sesso, età, condizioni di salute, abilità naturali), sul piano sociale ed economico (livello di istruzione, reddito, condizione occupazionale, struttura familiare etc.) o dal punto di vista ambientale (diverso è, ad esempio, l’ambiente naturale in cui viviamo o anche il contesto istituzionale, politico, culturale). L’insieme di queste caratteristiche personali, familiari, sociali e ambientali, che Sen chiama fattori di conversione, determina e condiziona la nostra capacità di tradurre i beni e le risorse a disposizione in conseguimenti reali. A parità di reddito e di risorse, persone diverse hanno necessità diverse e differenti capacità o possibilità di trasformare queste risorse in risultati effettivi.

Sen definisce tali conseguimenti con il termine di funzionamenti. I funzionamenti sono sia azioni che un individuo compie (mangiare, bere, camminare, leggere, ecc.), sia stati in cui l'individuo si trova (essere ben nutrito, in salute, ecc.). Nelle parole dell'economista e filosofo indiano sono cioè le cose che una persona “riesce a fare o ad essere nel corso della sua vita”.

Secondo Sen, la nozione di funzionamento è una valida approssimazione al concetto di soddisfazione di un bisogno o di raggiungimento di uno stato di benessere, in quanto indica stati di

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fatto (ad. es. essere in buona salute) e non si limita alla constatazione dell’insieme di risorse disponibili che possono (ma non necessariamente) consentire di raggiungere uno stato di fatto.

I funzionamenti sono quindi una importante misura del benessere ma ancora più importanti sono per Sen le modalità con cui tali stati di fatto vengono raggiunti. In particolare è importante la libertà di fare ciò che è necessario per raggiungere quel risultato. Questa libertà è definita da Sen capacità. Qui la libertà va intesa nel senso positivo, come libertà di realizzare concretamente delle opportunità e non in quello negativo, cioè come libertà da vincoli (così come è intesa dai libertari). Le capacità sono dunque le opportunità effettive che un individuo ha di conseguire determinati funzionamenti. Il concetto di capacità (capability) riassume in sé quello di “possibilità” o “opportunità”, cioè assenza di impedimenti esterni, e quello di “abilità”, cioè un potere interno, una disponibilità personale di risorse (fisiologica o acquisita).

Un modo semplice par capire la distinzione fra capacità e funzionamenti è considerare la differenza che passa fra un individuo che soffre la fame perché non ha risorse per pagarsi un pasto e chi invece si trova nella medesima condizione perché sta facendo uno sciopero della fame per motivi di protesta politica: nessuno dei due consegue il funzionamento di essere nutrito, ma il secondo ha la libertà di scegliere se nutrirsi o meno mentre per il primo questo non è vero. Il secondo ha quindi la capacità di essere ben nutrito ma sceglie di non utilizzarla, il primo si trova in uno stato di costrizione e non dispone di quella capacità. Entrambi hanno fame ma si trovano in condizioni molto differenti.

Avere una capacità significa dunque essere nelle condizioni di poter conseguire tutti i funzionamenti che essa rende possibili e avere la libertà di compiere o meno le azioni necessarie per ottenerli. Questo spiega perché il concetto di capacità si differenzia da quello di risorse o anche di beni primari. Questi ultimi sono condizioni necessarie ma non sempre sufficienti per raggiungere il benessere: ciò che vi si frappone sono proprio i fattori di conversione.

Prendiamo l'esempio di una bicicletta. La bicicletta è un mezzo di trasporto (una risorsa) che permette di raggiungere il funzionamento della mobilità nello spazio. Ma questo presuppone che chi ne dispone si trovi nelle condizioni fisiche per poterla utilizzare (per esempio essere in grado di pedalare). In questo caso la risorsa conferisce una capacità e, se l'individuo sceglie di sfruttarla, ha la concreta possibilità di muoversi nello spazio (funzionamento). Un disabile non si troverebbe in queste condizioni, i suoi fattori di conversione personali (condizioni fisiche) non gli consentono di trasformare quella risorsa in una capacità effettiva e nei corrispondenti funzionamenti. Anche altri fattori entrano in gioco, per esempio fattori di conversione sociali come l'esistenza di convenzioni che impediscono di andare in bicicletta (le donne musulmane non possono farlo). Oppure fattori di conversione ambientali: è poco agevole usare la bicicletta in una città piena di salite o priva di piste ciclabili. In tutti questi casi disporre di una risorsa non è sufficiente ad ottenere un certo risultato se non si dispone della capacità rilevante.

Questa è la principale ragione della critica di Sen al concetto di beni primari. Ad una uguale disponibilità di beni primari possono corrispondere diverse capacità a seconda dei fattori di conversione di ciascun individuo. Ecco perché il metro di misura dell'equità e del benessere non possono essere i beni primari bensì le capacità. Secondo Sen le capacità, come possibilità di scelta tra diversi stati di cose o attività, esprimono l’estensione della libertà effettiva di un individuo. Una teoria della giustizia deve avere come fine quello di rendere eguali le capacità, le opportunità dei soggetti, non semplicemente quello di attribuire a ciascuno uguali risorse. L’idea è che la politica sociale ha per fine il benessere del destinatario inteso come esercizio dei suoi poteri di autonomia, come opportunità concreta di scelta tra diverse alternative. L’approccio delle capacità, quindi, si inserisce nell’alveo delle teorie liberali della giustizia, in quanto riconosce che l’azione dei pubblici poteri deve non solo rispettare ma accrescere alcune libertà individuali.

Sen attribuisce priorità alle capacità rispetto ai funzionamenti perché in questo modo non si impone agli individui nessuna specifica concezione del bene da perseguire ma si offrono,

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piuttosto, un insieme di opportunità all'interno delle quali l'individuo può esercitare le proprie scelte e definire attraverso di esse la propria specifica visione della vita buona. In questo senso l'approccio delle capacità è una teoria anti paternalistica e liberale.

La figura 7 illustra sinteticamente le relazioni esistenti fra risorse, capacità e funzionamenti nella visione di Sen. La disponibilità di risorse non è sufficiente a determinare le effettive possibilità di fare e di essere degli individui (capacità) perché esse dipendono non solo dalle risorse ma anche dalle caratteristiche e circostanze individuali che condizionano la conversione delle risorse stesse in capacità (fattori di conversione). Ecco perché la valutazione del benessere e dell'equità con cui è distribuito deve essere fatta in termini di capacità e non di risorse. Sulla base delle capacità di cui dispone, ovvero delle opportunità effettive di ottenere funzionamenti, ciascun individuo compirà le proprie scelte e, in seguito ad esse, otterrà un certo insieme di funzionamenti, nell'ambito di quelli per lui possibili, che rispecchiano la sua particolare concezione del benessere e della vita buona.

Figura 7.

Le capacità fondamentali

Uno dei problemi dell'approccio delle capacità rilevato dai suoi critici risiede nel fatto che le capacità sono moltissime e non tutte possono essere garantite simultaneamente quando le risorse disponibili sono scarse. In questo caso (molto frequente nella realtà) è necessario definire delle priorità in grado di fornire indicazioni utili per le politiche pubbliche. L'approccio delle capacità si propone proprio come un metodo per valutare il benessere sociale e per orientare le scelte in direzione del suo miglioramento, ma in che modo è possibile farlo? Non solo, se esso sostiene che alcuni diritti dell'individuo devono essere tutelati e che non possono essere sacrificati in nome della massimizzazione dell'utilità, come si può stabilire quali di questi diritti sono irrinunciabili e quali no? In altri termini quali capacità devono essere considerate come fondamentali alla stregua dei beni primari di Rawls?

Per rispondere a queste domande sarebbe necessario definire un nucleo di capacità essenziali verso la cui realizzazione è prioritario orientare l'azione delle politiche pubbliche. Sen sostiene che non è possibile definire a priori questo catalogo di capacità di base perché individui diversi avrebbero opinioni diverse su di esse e la diversità delle culture porta a definire priorità diverse. La

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composizione di questo conflitto (per esempio bisogna fare più investimenti in ospedali pubblici per tutelare la capacità «accesso ai servizi sanitari», o più investimenti nelle università per garantire la capacità «ingresso a livelli di istruzione superiore»?) può essere raggiunta solo attraverso la discussione pubblica in un clima di confronto democratico, e i contenuti di questo accordo possono cambiare nel tempo e nello spazio.

Martha Nussbaum ritiene invece che questa lista debba essere redatta a priori e debba essere invariante e universale, cioè applicabile a tutte le culture. Ella si pone la seguente domanda: "Quali attività svolte dagli esseri umani sono così centrali da definire una vita come veramente umana?" Per rispondere è necessario individuare un nucleo di capacità che possano essere considerate come le costituenti fondamentali e oggettive della dignità e libertà umana e dalle quali non si può prescindere se si vuole valutare la qualità della vita e la giustizia sociale in qualunque contesto sociale e culturale. L'elenco di tali capacità, che la Nussbaum non considera comunque definitivo ma aperto a cambiamenti, è il seguente. 1. Vita: essere capaci di vivere fino alla fine una vita normale e di una durata normale; 2. Salute fisica: essere capaci di avere una buona salute, un adeguato nutrimento e riparo; 3. Integrità fisica: avere la possibilità di libera circolazione, di considerare il proprio corpo

inviolabile da nessun tipo di violenza e di scegliere e godere della propria sessualità; 4. Sensi, immaginazione e pensieri: aver la possibilità di usare i propri sensi per immaginare

pensare e ragionare in modo “veramente umano” sulla base di una istruzione adeguata e delle esperienze che si sarà liberi di fare;

5. Emozioni: essere capaci di provare attaccamento verso le cose e le persone al di fuori di noi stessi;

6. Ragione pratica: essere capaci di formarsi un'idea di ciò che è giusto o sbagliato e riflettere criticamente sulla pianificazione della propria vita;

7. Appartenenza: a) poter vivere con gli altri e per gli altri serenamente, b) avere le basi del rispetto di se stessi;

8. Altre specie: essere capaci di vivere non solo con gli essere umani ma anche in sintonia con vegetali ed animali;

9. Gioco: essere capaci di ridere, giocare, divertirsi, e godere di attività ricreative; 10. Controllo del proprio ambiente:

a) politico: aver diritto e possibilità di partecipazione alla vita politica della propria comunità. b) materiale: aver diritto al possesso e a godere dei diritti di proprietà. Non possiamo entrare in questa sede in un'analisi approfondita dei diversi elementi di questa

proposta ma può essere utile per formarsi un'idea di quelle che l'approccio delle capacità considera priorità importanti.

Non di solo pane vive l'uomo…

Se la concezione utilitarista del benessere è limitata e parziale, le misure del benessere che su di essa si basano, prima fra tutte il PIL, devono essere sottoposte ad un giudizio critico che ne valuti l'adeguatezza. L’uso del reddito monetario esclude informazioni non utilitarie come, per esempio, le esigenze aggiuntive di individui soggetti a limitazioni fisiche, oppure giudizi morali come il principio deontologico di pagare lo stesso salario a uomini e donne o, ancora, non tiene conto di un insieme di fattori come la distribuzione del reddito, la sicurezza dei cittadini e il degrado ambientale, cruciali nel determinare la qualità della vita. Il PIL misura soltanto ciò che è oggetto di transazioni monetarie, non tiene conto di ciò che le famiglie producono al loro interno né del tempo libero. Per esempio se un datore di lavoro sposasse la propria badante e questa continuasse a svolgere gli stessi servizi di prima, il PIL diminuirebbe. Si può arrivare al paradosso

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che una catastrofe naturale che causasse migliaia di morti potrebbe fare aumentare il PIL. Questo perché il PIL è come un calcolatore che può aggiungere ma non sottrarre. I morti non vengono sottratti al PIL né lo sono i danni ambientali né, persino, le perdite di beni capitali (impianti ecc.). Nell'immediato il PIL misura comunque l'impatto negativo di una catastrofe in termini di chiusura di impianti e produzione perduta, ma gli effetti negativi possono essere più che compensati successivamente dall'impulso dato all'economia dagli investimenti necessari alla ricostruzione. Qualcuno ha svolto questo esercizio per l'uragano Katrina, giungendo alla conclusione che esso ha, in definitiva, generato benefici netti per l'economia americana!

Come disse una volta Robert Kennedy: "Il PIL misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta". Questo giudizio è certamente troppo drastico ma contiene elementi di verità. Il fatto che si focalizzi l'attenzione su altri fattori non significa comunque che le risorse e il reddito non siano importanti, al contrario lo sono per qualunque teoria del benessere perché, per esempio, sono una condizione necessaria per esercitare capacità e ottenere funzionamenti. Per godere di buona salute è necessario avere le risorse per pagare le cure, per essere istruiti bisogna finanziare gli studi e così via. Questo suggerisce che non possiamo sbarazzarci del reddito come se fosse irrilevante, tuttavia le critiche di inadeguatezza come misura del benessere ad esso rivolte hanno spinto alla ricerca di misure alternative.

Una di esse è l'Indice di Sviluppo Umano o ISU (Human Development Index o HDI) sviluppato da una commissione nominata dall’O.N.U. proprio ispirandosi all’approccio delle capacità. L'ISU include, oltre al reddito, fattori come aspettative di vita e livelli di istruzione ed è calcolato come media aritmetica di tre indici: - indice di aspettativa di vita - indice di istruzione - indice del PIL

Questo indice viene utilizzato soprattutto per valutare il grado di sviluppo dei paesi poveri. L'indice si basa sull'idea che l'obiettivo fondamentale dello sviluppo è creare le condizioni perché la popolazione possa godere di una vita lunga, sana e creativa. Lo sviluppo umano è un processo di allargamento delle possibilità di scelta, in ogni stadio dello sviluppo le tre capacità essenziali sono poter condurre una vita lunga e in buona salute, acquisire conoscenze e avere accesso alle risorse necessarie. Poiché i redditi bassi soddisfano essenzialmente i bisogni di base mentre quelli alti sono utilizzati anche per il tempo libero e bisogni non strettamente necessari, nell’ISU il reddito pro capite subisce una trasformazione non lineare per tener conto del contributo decrescente del reddito allo sviluppo umano.

Figura 8. Componenti dell'Indice di Sviluppo Umano

Nonostante il suo vasto uso, l’ISU non è esente da difetti. In primo luogo è funzione di tre soli

parametri, che non sembrano sufficienti a rappresentare compiutamente la condizione umana di

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un Paese. In secondo luogo questi parametri, sia pur normalizzati, entrano nell’indice come una semplice media aritmetica, cioè sono considerati tutti e tre della stessa importanza. Tuttavia esso costituisce un primo importante avanzamento rispetto al PIL pro capite e presenta il vantaggio di essere calcolabile sulla base dei dati disponibili. Inoltre fornisce informazioni abbastanza diverse dal PIL e può contribuire ad orientare le scelte di politica economica in altre direzioni.

Nella figura 9 sono riportati alcuni dati relativi allo Stato indiano del Kerala e all'intera India. Se consideriamo l'ISU, il Kerala figura al primo posto nella graduatoria del benessere degli stati indiani nonostante il suo reddito pro capite sia inferiore alla media indiana. L'ISU , al contrario del PIL pro capite, riflette bene il fatto che quasi tutti gli indicatori di qualità della vita diversi dal reddito sono migliori nel Kerala.

Figura 9. Indicatori di sviluppo umano per lo stato del Kerala e per l'India.

La commissione Fitoussi-Sen-Stiglitz

Recentemente il presidente francese Sarkozy ha nominato una commissione di lavoro presieduta da J. Stiglitz di cui fanno parte 5 premi Nobel per l’economia al fine di formulare raccomandazioni utili alla costruzione di nuove misure del benessere. Tra le altre cose i risultati del lavoro della commissione suggeriscono che anziché concentrarsi sul PIL, si deve privilegiare la misura del benessere delle persone, ma non esiste una misura singola che possa dar conto di tutte le varie dimensioni del benessere. Occorre quindi focalizzare l'attenzione sulle dimensioni rilevanti. A giudizio della commissione le più importanti sono otto: lo stato psicofisico delle

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persone, la conoscenza e la capacità di comprendere il mondo in cui viviamo, il lavoro, il benessere materiale, l’ambiente, i rapporti interpersonali e la partecipazione alla vita della società.

Un altro aspetto posto in luce è che bisogna guardare alla distribuzione di tutte le dimensioni del benessere (equità) non solo nel presente ma anche con riferimento alle generazioni future. La sostenibilità non è solamente un problema ambientale, ma comprende elementi di carattere economico e sociale e può essere misurata solamente guardando agli stock di capitale che la generazione attuale lascia in dote a quelle successive (stock di capitale prodotto, di capitale naturale, di capitale sociale e di capitale umano). Il debito pubblico può essere visto come uno stock negativo nel senso che impone costi sulle generazioni future che dovranno pagare attraverso le imposte l'eccesso di consumi delle generazioni precedenti.

Il Genuine Progress Indicator

Il Genuine Progress Indicator è una misura del progresso economico e sociale alternativa al PIL sviluppata dall'organizzazione non profit "Redefining Progress". L'indice misura l’aumento del PIL nel tempo con una serie di aggiustamenti. In primo luogo tiene conto della distribuzione del reddito, quando la quota del PIL destinata ai più poveri aumenta, il GPI aumenta anch'esso e viceversa quando la quota diminuisce (anche se il PIL complessivo è aumentato). Aggiunge il contributo economico stimato di tutti i servizi familiari gratuiti e del volontariato che sono invece ignorati dal PIL perché non danno luogo a transazioni monetarie. Aggiunge inoltre il valore del tempo libero anch'esso ignorato nel calcolo del PIL.

Il GPI calcola invece negativamente, ovvero sottrae dal computo altri elementi come:

i costi sociali dovuti alla criminalità (spese legali, danni alla proprietà, spese mediche ecc.) mentre il PIL li aggiunge (per esempio le spese per farsi curare in seguito alle ferite riportate durante una rapina sono conteggiante come fatturato del settore sanitario);

i costi dovuti all'inquinamento, danni ambientali, riduzione delle risorse non rinnovabili. Anche in questo caso il PIL non calcola i danni ambientali ma considera come valore prodotto le spese per l'acquisto di depuratori;

Figura 10. Genuine Progress Indicator

La figura 10 mostra l'andamento del PIL e del GPI relativo agli Stati Uniti nel periodo che va dal

1950 al 2000. Si può osservare come il PIL cresca di circa il 250% nel periodo considerato mentre il

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GPI aumenta di meno del 100%, tra l'altro partendo da un valore pari alla metà del PIL. Colpisce inoltre il fatto che i due indicatori si muovono in modo abbastanza simile fino all'inizio degli anni 70 per poi prendere strade completamente diverse nel periodo successivo. Il PIL continua a crescere mentre il GPI si stabilizza o, addirittura, diminuisce leggermente descrivendo uno scenario molto diverso e assai meno ottimistico. Il motivo di questa divaricazione è in gran parte dovuto al fatto che il GPI, al contrario del PIL, incorpora i costi ambientali.

Teorie della giustizia e ruolo dello stato

Le teorie che abbiamo esaminato formulano prescrizioni diverse sul ruolo dello stato nell'economia e sui fini che dovrebbero essere perseguiti mediante le politiche pubbliche. Nessuna di esse suggerisce un completo controllo pubblico dell'economia come avverrebbe in un sistema socialista. Al contrario, la visione di base dell'economia e della società delle quattro teorie ha un'impronta fondamentalmente liberale, ma esse differiscono sia nella definizione dei fini che l'intervento dello stato deve proporsi sia nei modi in cui tali fini devono essere perseguiti.

Per gli utilitaristi il fine ultimo è la massima utilità o felicità per il maggior numero di individui. Le autorità pubbliche dovrebbero quindi attuare qualunque intervento che aumenti l'utilità sociale netta. Come abbiamo visto questo indubbiamente avviene quando si realizza un miglioramento paretiano, ma sappiamo anche che il criterio paretiano non ci aiuta in tutti i casi in cui qualcuno subisce danni. Gli utilitaristi ritengono comunque che i danneggiati possano essere indennizzati da coloro che hanno beneficiato di una certa politica se i benefici goduti da questi ultimi superano i costi subiti dai primi. L'analisi costi-benefici permette di fare queste valutazioni e di stabilire quindi quali azioni di politica economica siano giuste e quali no. Lo sono tutte quelle che generano benefici superiori ai costi perché creano un'utilità sociale netta positiva.

In generale i meccanismi del libero mercato producono risultati di questo tipo perché si fondano sullo scambio volontario. Se in uno scambio il venditore cede un'automobile e il compratore cede moneta per acquistarla, significa necessariamente che il venditore preferisce avere moneta (con cui può acquistare altri beni) piuttosto che l'automobile, e il contrario accade per il compratore (altrimenti lo scambio non avrebbe senso). Entrambi stanno meglio di prima dello scambio nel senso che soddisfano meglio le loro preferenze, siamo di fronte quindi ad un miglioramento paretiano.

Il mercato deve dunque essere lasciato libero di funzionare in tutti i casi simili a quello descritto. Questo non significa che gli utilitaristi siano aprioristicamente sostenitori del libero mercato in tutti i casi. Se i meccanismi di mercato danno luogo a una distribuzione del reddito fortemente diseguale gli utilitaristi ritengono che sarebbe giusto redistribuire reddito a favore di coloro che hanno un'utilità marginale più alta perché l'utilità totale aumenterebbe. Ma questo principio incontra un limite nel fatto che una politica redistributiva altera gli incentivi degli individui a compiere tutti gli sforzi necessari per massimizzare la propria utilità. Essa può quindi condurre a una diminuzione dell'utilità sociale anziché ad un aumento.

Ci sono altri casi in cui l'intervento pubblico è giustificato e sono quelli in cui il mercato non funziona in modo da massimizzare l'utilità. Sono i ben noti casi dei beni pubblici, delle esternalità del monopolio ecc. È giusto per gli utilitaristi smembrare un'impresa monopolistica se il suo comportamento è inefficiente, così come lo è l'intervento pubblico volto a fornire beni pubblici che non sarebbero prodotti dai privati. Tutto questo accresce l'efficienza e l'utilità totale.

In definitiva, secondo gli utilitaristi, il libero mercato è la forma di organizzazione dell'economia che massimizza nel miglior modo l'utilità ma, in alcuni casi particolari, l'intervento pubblico è giustificato sempreché il risultato finale sia quello di accrescere l'utilità sociale.

La posizione libertaria è ancora più fondamentalista di quella utilitarista ma per motivi profondamente diversi. I libertari sostengono che nessun tipo di politica che violi i diritti

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fondamentali di proprietà e di libertà di scelta individuale è eticamente accettabile anche se il risultato è un aumento dell'utilità. Per i libertari questo risultato non ha alcuna rilevanza dal punto di vista morale. Le libertà di scelta e di iniziativa individuale si esplicano attraverso il libero scambio in un mercato competitivo. Ciascuno ha il diritto di appropriarsi di ciò che ha prodotto con il suo lavoro e le sue capacità individuali, purché ciò sia avvenuto nel rispetto delle regole del gioco. Il ruolo dello stato è solo quello di assicurare che i diritti di proprietà legittimamente acquisiti, che sono il fondamento del libero scambio e della libertà di scelta, siano adeguatamente tutelati. Qualsiasi altro intervento tendente a modificare gli esiti del libero scambio equivarrebbe a sottrarre a qualcuno i legittimi frutti del suo lavoro e sarebbe pertanto assimilabile a una forma di schiavitù, a meno ché non avvenga con il consenso di chi viene espropriato.

La visione liberal-democratica di Rawls e Sen, pur con alcune differenze, giunge a conclusioni profondamente diverse. Per entrambi l'equità è un aspetto fondamentale della giustizia sociale (per i libertari non lo è affatto e per gli utilitaristi è solo un sottoprodotto eventuale della massimizzazione dell'utilità aggregata) ma essa non va cercata in una uguale distribuzione di beni materiali bensì in una molteplicità di aspetti che caratterizzano le relazioni sociali. I meccanismi di mercato danno luogo ad esiti ingiusti perché le condizioni di partenza e le opportunità non sono uguali. Per poter esercitare la loro libertà e realizzare le opportunità esistenti, i cittadini hanno bisogno di alcune condizioni di base.

Per Rawls tali condizioni sono date dalle dotazioni di beni primari che non necessariamente devono essere uguali ma, se non lo sono perché gli individui hanno talenti diversi, la disuguaglianza non è eticamente giustificata in sé, ma solo in quanto va a beneficio dei più svantaggiati per motivi indipendenti dalla loro volontà. Rawls ritiene che lo Stato abbia un ruolo fondamentale nel giustificare eticamente la disuguaglianza agendo in modo da far sì che quest'ultima vada a beneficio dei più disagiati. Soprattutto deve assicurare che tutti siano posti in condizioni di pari opportunità iniziali nella competizione per le migliori posizioni sociali.

Nella sua opera principale Rawls presenta un sistema sociale disegnato in maniera tale che assicuri una giusta distribuzione per tutti qualunque sia la posizione di partenza di ciascun individuo. Egli ipotizza che la struttura di base sia regolata da una costituzione che assicuri le libertà elementari a tutti i cittadini; che ci sia la proprietà privata e si faccia ampio uso del sistema di mercato per allocare le risorse e che il processo politico sia condotto tramite una giusta procedura per selezionare governi alternativi. Ipotizza anche che ci sia una effettiva parità di accesso al sistema educativo per persone con simili capacità e motivazioni tramite un sussidio pubblico alle scuole private o per mezzo di un sistema di scuole pubbliche. Inoltre il governo deve assicurare pari opportunità nelle attività economiche e nella scelta dell’occupazione. Ciò può essere garantito sorvegliando le attività delle imprese e delle associazioni di categoria, al fine di prevenire barriere all’entrata e condizioni monopolistiche. Infine, il governo deve garantire un minimo sociale alle famiglie più bisognose attraverso un sistema di servizi sociali o, più in generale, tramite sussidi al reddito.

L'approccio delle capacità rappresenta una visione multidimensionale e a largo spettro del benessere umano (o dello “star bene” come Sen preferisce dire). Lo sviluppo e il benessere sono esaminati in modo comprensivo e integrato e molta attenzione è dedicata ai legami fra gli aspetti materiali, mentali, spirituali e sociali del benessere e alle dimensioni economiche, sociali, politiche e culturali della vita.

La complessità e multidimensionalità hanno però anche aspetti problematici soprattutto dal punto di vista dell'applicabilità pratica. Tenere conto nelle scelte di tutti questi aspetti e dimensioni è tutt'altro che semplice e un approccio di questo genere, affascinante in teoria, rischia di essere poco utile nell'arena delle decisioni concrete.

Tuttavia l'approccio delle capacità ha avuto un grande successo come metodo per l'orientamento e la valutazione delle scelte di politica economica e sociale, soprattutto nella realtà

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dei paesi in via di sviluppo ed ha stimolato grandi sforzi da parte di numerosi studiosi per elaborare criteri di misurazione delle capacità e costruire indicatori utili per il policy maker. L'approccio delle capacità non definisce una dettagliata road map per le scelte di politica economica e sociale ma offre una concettualizzazione criticamente diversa degli obiettivi e principi che devono ispirare le politiche pubbliche.

Una prima indicazione generale è che le politiche pubbliche devono essere valutate in base al loro impatto sulle capacità dei cittadini e non alla quantità di beni che permettono di produrre o alla loro distribuzione. Sembra un indicazione molto generica ma in realtà è cruciale perché sposta il focus verso variabili che non vengono normalmente prese in considerazione dagli economisti, più concentrati sulla crescita della produzione e del reddito.

Le domande da porsi nella valutazione dell'impatto delle politiche pubbliche sono per esempio:

migliorano la salute delle persone? mettono a disposizione le risorse necessarie? (acqua pulita, l'accesso a servizi sanitari, protezione da infezioni, conoscenze mediche)

garantiscono un livello di nutrizione sufficiente alla popolazione? permettono l’accesso a una formazione di alta qualità, alla partecipazione politica reale, alle attività comunitarie ecc... Per alcuni funzionamenti, l'input principale sono beni e risorse finanziarie, per altri possono

essere pratiche politiche, come garantire la tutela della libertà di pensiero, religione o partecipazione politica o pratiche sociali o culturali, strutture sociali, istituzioni sociali, beni pubblici, norme sociali.

Consideriamo un problema specifico, per esempio il problema della nutrizione. L’approccio utilitarista si limita a considerare il reddito disponibile: due individui con la stessa disponibilità di risorse hanno anche le medesime possibilità di nutrirsi. Per l’approccio delle capacità il problema è più complesso: occorre tenere conto delle differenti caratteristiche e bisogni delle persone (età, condizioni particolari come la gravidanza, problemi metabolici) e i differenti contesti (ad esempio, per motivi religiosi un indiano non saprebbe che farsene di una bistecca di manzo e un musulmano di una di maiale ). In questi casi sono differenti le opzioni di scelta e anche il modo in cui interpretiamo i risultati.

Un altro problema sul quale l'approccio delle capacità ha contribuito a modificare radicalmente il modo di definirlo e affrontarlo è quello della povertà. Anche qui si passa dalla prospettiva tradizionale di analisi caratterizzata da un’attenzione ai mezzi (il reddito), ad una sui fini che gli individui cercano di raggiungere, convertendo le proprie risorse in “funzionamenti”. La povertà viene intesa come scarsità di capacità e non più come scarsità economica.

La povertà economica di un individuo, non può rappresentare essa stessa il concetto di povertà, ma ne identifica solo una delle cause, unitamente ad altri fattori (che incidono sulla conversione del reddito in capacità) di tipo personale, sociale e ambientale. Le politiche pubbliche sono eticamente giustificabili?

In conclusione le teorie esaminate offrono risposte differenti alla domanda cruciale che ci siamo posti all'inizio: l'intervento dello stato nell'economia e nelle relazioni sociali è eticamente giustificabile? E se lo è, quali fini deve perseguire?

Possiamo distinguere due forme di intervento pubblico entrambe al centro del dibattito attuale: le politiche macroeconomiche di stabilizzazione e quelle sociali del Welfare State.

La posizione più netta in entrambi i casi è quella dei libertari. Le politiche keynesiane di regolazione della domanda implicano necessariamente un'imposizione fiscale che va al di là dei limiti dello stato minimo e, in quanto tale, è una violazione inaccettabile dei diritti di proprietà. La medesima argomentazione è applicabile allo Stato sociale, anche in questo caso i trasferimenti di risorse non possono essere eticamente giustificati in assenza del consenso da parte di coloro che li subiscono.

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Questa è esattamente la posizione della destra repubblicana americana che si ispira al paradigma libertario e, sia pure con qualche lieve differenza, anche dei conservatori inglesi.

Le prescrizioni utilitariste sono meno fondamentaliste ma restano saldamente ancorate alla difesa del libero mercato, non tanto perché è la forma di organizzazione economica che garantisce meglio le libertà individuali (principale motivazione dei libertari) quanto, piuttosto, perché è quella che assicura la massima efficienza e massimizza l'utilità totale. Tuttavia, nei casi in cui il mercato non sia perfettamente efficiente (beni pubblici, monopolio ecc.), l'intervento pubblico può essere giustificato nella misura in cui contribuisce a correggere le imperfezioni del mercato e a renderlo più efficiente. Gli utilitaristi sono in genere critici sia nei confronti delle politiche macroeconomiche keynesiane (ma non tutti) sia nei confronti dello Stato sociale (ma con minore decisione rispetto ai libertari). Anche qui il motivo è che questi interventi da un lato estendono eccessivamente il settore pubblico in cui gli incentivi all'efficienza sono minori che nel settore privato, dall'altro riducono gli incentivi ad adottare comportamenti efficienti degli stessi agenti privati. Tuttavia alcune politiche sociali possono essere giustificabili nei limiti in cui non riducono l'efficienza complessiva dell'economia e contribuiscono ad accrescere l'utilità dei gruppi sociali più disagiati la cui utilità marginale è maggiore.

Sull'altro versante si collocano le teorie di Rawls e Sen. Entrambe esprimono una posizione favorevole sia alle politiche di stabilizzazione che a quelle sociali pur restando in un alveo fondamentalmente liberale. Rawls sviluppò la sua teoria della giustizia negli anni 60 del secolo scorso, proprio nel periodo di massima applicazione delle politiche keynesiane ed espansione del Welfare State. La sua teoria si collocava all'interno di quella temperie culturale e apparve a molti come una sostanziale giustificazione dell'intervento pubblico al fine di correggere almeno alcune delle palesi ingiustizie sociali causate dall'economia di mercato.

Le argomentazioni di Sen vanno, in una certa misura, oltre Rawls, attirando l'attenzione sul fatto che l'economia e le risorse prodotte dal mercato devono essere al servizio della piena realizzazione della personalità umana e non viceversa e che, molto spesso, le ingiustizie sociali non possono essere eliminate con una semplice redistribuzione delle risorse. I suggerimenti di Sen vanno quindi in direzione di un approfondimento e di una più complessa articolazione dei principi e dei criteri di valutazione che costituiscono la base delle politiche sociali per tenere in maggior conto le diverse situazioni individuali che esse devono affrontare.