ecclesia mater - notizie · web viewl’antropologia teologica è la disciplina che cerca di...
TRANSCRIPT
ECCLESIA MATER
ANTROPOLOGIA TEOLOGICA
Prof. Giovanni Ancona
1. Definizione e contenuti dell’antropologia teologica.
L’antropologia teologica è la disciplina che cerca di rendere ragionevoli e
credibili, secondo un percorso argomentato, le verità della fede cristiana circa
l’uomo, la sua storia e il suo mondo, perché l’uomo non può essere considerato
senza l’insieme di relazioni che costituiscono la sua storia.
Nel manifestare il suo assunto l’antropologia teologica deve essere adeguata
alla propria condizione, alle proprie possibilità, portando elementi di verità, la
quale, per dirla con gli scolastici, è “adeguatio rei et intellectus”.
Quindi la ragionevolezza è il logos veritativo di una disciplina, che diventa
credibile se ragionevole e comprensibile, ossia se usa un linguaggio attinente agli
interlocutori. Un grande problema odierno, infatti, è che molte cose spesso
vengono dette con linguaggi talmente complessi che i contenuti annessi
difficilmente risultano credibili.
L’antropologia teologica agisce mediante un confronto con le acquisizioni
sull’uomo tipiche dell’antropologia culturale, filosofica e religiosa, in quanto le
verità di fede sono sempre state mediate dal linguaggio proprio del tempo. Tale
confronto aiuta a formalizzare il principio ermeneutico, ossia il principio di
1
traduzione delle verità di fede all’uomo di oggi, altrimenti si perde
ragionevolezza e credibilità perché mancherebbe un supporto critico.
A prima vista si potrebbe confondere l’antropologia teologica con
l’antropologia religiosa, ma questa non è una scienza cristiana perché studia
come l’uomo si relaziona con un trascendente generico, non col Dio uno e trino.
Un esempio di antropologia religiosa si ha nell’uomo primitivo che si esprime
traducendo con simboli il suo rapporto col trascendente; i graffiti ritrovati in
alcune caverne esprimono la sua cultura o il suo rapporto con la divinità,
significando che l’uomo ha un rapporto con un’entità che lo supera e tale
rapporto non è più culturale ma religioso, perché cerca il senso ultimo della sua
esistenza in qualcosa che lo rimanda oltre. Quindi l’antropologia religiosa attinge
i suoi principi dal basso e non dall’alto, nel senso che esamina il fenomeno
religioso nel suo manifestarsi; studia anche il cristianesimo ma solo nelle sue
modalità liturgiche, nel suo modo di essere vissuto.
1.1. Le verità della fede cristiana circa l’uomo, la sua storia e il suo mondo.
Nel progetto salvifico di Dio (mysterion), l’uomo e tutto quanto esiste con
sono stati predestinati in Cristo Gesù (cfr. Ef 1, 4-5). In questo progetto voluto da
Dio per mezzo e in vista del suo Figlio Gesù nella potenza dello Spirito (da qui
l’origine trinitaria del progetto), ci è detto che l’uomo e tutto ciò esiste sono stati
predestinati in Gesù Cristo.
La predestinazione non va intesa in chiave deterministica, nel senso che una
certa cosa debba necessariamente andare così, ma esprime qualcosa di gratuito,
un accesso reso possibile non perché dovuto all’uomo ma perché voluto da Dio.
2
Questa predestinazione ebbe già manifestazione pubbliche quali la creazione
stessa, i profeti, i giudici, i re, ma si trova compiutamente rivelata nella singolare
vicenda storica di Gesù Cristo, con cui viene manifestata all’intera creazione il
progetto di Dio.
L’intera creazione viene totalmente svelata nel suo mistero salvifico (origine,
storia, compimento) e incontra la possibilità di essere redenta, liberata da ogni
forma di minaccia e di giungere al suo fine ultimo, alla sua compiutezza
escatologica (cfr. Col 1, 16-17, Gv 1, 4).
La Parola di Dio afferma che la singolare vicenda di Gesù Cristo è un dato
evenemenziale (di grazia), che nello Spirito e grazie alla sua potenza istituisce
universalmente l’accesso dell’uomo, della sua storia e del suo mondo a Dio e
media “tutte le forme dell’umano e del religioso che si lasciano plasmare da una
divina rivelazione” (F. G. Brambilla).
Le verità di fede vengono attinte dalla rivelazione; quelle riguardo l’uomo, la
sua storia e il suo mondo vengono attinte dal deposito di fede, che è la Parola di
Dio scritta e non scritta, contenuta nella tradizione non normata, ossia la Bibbia,
e nella tradizione normata, ossia la preghiera, la liturgia, la riflessione dei
teologi, il Magistero.
In Gaudium et spes 22 si afferma: ”In realtà solamente nel Verbo incarnato
trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di
quello venturo (Rom 5, 14), ossia di Gesù Cristo Signore. Cristo, il nuovo
Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche
pienamente l’uomo a sé stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione”.
3
La storia è coinvolta in un progetto, con un’alfa (una protologia) e un omega
(un compimento), non una fine ma un fine che è il discorso sulle cose ultime,
ossia l’escatologia. Tra alfa e omega è racchiuso tutto il progetto di salvezza che
la Scrittura chiama il mysterium della volontà di Dio. In Gesù Cristo l’uomo,
espressione del mistero salvifico, capisce la sua origine, da dove viene, da chi è
voluto, che senso ha la sua storia e a chi è destinato.
In definitiva, i pronunciamenti fondamentali della fede cristiana sull’uomo e
sull’intera creazione sono riassumibili in tre punti.
1. Uomo e mondo sono stati liberamente creati da Dio, per mezzo di Cristo e
nella forza dello Spirito, secondo un progetto di salvezza (creazione non come
azione salvifica puntuale ma come economia che si dispiega in continuo).
2. Gesù Cristo incarnato rivela e compie il progetto di Dio, libera l’uomo dalla
minaccia e dal peccato (eredità di Adamo), lo risolleva dalla sua condizione
(giustificazione) e gli offre le possibilità concrete (vita nuova) per compiere il
suo essere immagine di Dio.
In Gesù Cristo si coglie non solo che Dio libera, ma anche la possibilità di
raggiungere un fine, che per l’uomo è la salvezza, il compimento di quanto si è,
la realizzazione, la felicità, la beatitudine, il voler vivere per sempre, la
distruzione di ciò che è intralcio radicale come la morte.
A volte per l’uomo è difficile capire tutto ciò, in quanto sembra che ci sia
sempre qualcosa che lo minacci al punto da far scelte spesso contrarie al progetto
salvifico. In negativo la salvezza per l’uomo è la liberazione dalle minacce, da
ciò che lo ostacola, che non gli fa raggiungere il fine, ma in positivo la salvezza è
anzitutto una liberazione da qualcosa; nel suo incontro con Cristo l’uomo trova
4
la possibilità di essere liberato dal peccato, che non fa essere uomini fino in
fondo e disturba il cammino del progetto salvifico.
Ma la salvezza non è solo questo; va pensata non solo come liberazione da ma
anche come liberazione per. Questo aspetto si trova anche nell’Antico
Testamento, quando Dio liberò Israele dall’Egitto per farne il suo popolo santo,
offrendogli nell’esperienza dell’esodo le possibilità per giungere ad un fine.
In Gesù Cristo, Dio si fa uomo perché l’uomo possa essere divinizzato. Al di
fuori di Cristo (la grazia di Dio in persona) non è possibile la realizzazione, il
compimento dell’umano, che l’uomo desidera e trova inscritto dentro di sé per
l’appello e l’autocomunicazione di Dio (condizione antropologica originaria). E
ciò vale per ogni uomo di ogni tempo e luogo, grazie all’azione potente dello
Spirito della vita.
3. Nel globale mistero (mysterion, il progetto salvifico di Dio) di Gesù Cristo
(evento escatologico), l’uomo, la sua storia e il suo mondo trovano il
compimento definitivo e futuro, la grazia della salvezza assolutamente compiuta,
che supera la morte e si definisce in termini di resurrezione (escatologia).
In Gesù Cristo Dio ci dà tutto questo, per essere veramente come lui ci ha
voluti, ossia creature felici, beate, compiute. L’ultima vocazione dell’uomo è ciò
a cui lui è chiamato, cioè la santità, la pienezza dell’umano, la compiutezza
escatologica, la realizzazione di tutto. E’ un percorso che ciascuno è chiamato a
fare nei sentieri particolari delle storie individuali, nella molteplicità delle strade
che lo Spirito suscita nelle comunità.
5
2. L’antropologia teologica e il suo statuto epistemologico.
L’antropologia teologica, a differenza delle altre scienze antropologiche che
affrontano il problema uomo dal basso, assume il criterio di lettura dell’umano a
partire dall’alto, nell’orizzonte della rivelazione cristiana, da quanto Dio ha detto
sull’uomo. Occorre sempre tener presente che la teologia è una scienza
subalterna, perché non ha in sé i principi ma li trae da una scuola superiore, che è
la scienza stessa di Dio, attinta dalla rivelazione da cui assumiamo ciò che
diventa oggetto della nostra indagine.
In altre parole, il discorso dell’antropologia teologica si realizza in concreto nel
porre l’umanità singolare di Gesù, criterio primo ed ultimo di ogni discorso di
fede sull’uomo, in relazione con l’autocomprensione storica della persona di
ogni tempo.
Il contenuto specifico dell’antropologia teologica è dato dalle verità della fede
cristiana circa l’uomo, la sua storia e il suo mondo. Il percorso metodologico
viene realizzato, conseguentemente, nell’orizzonte storico-salvifico che rischiara
il mistero dell’uomo e che trova il suo compimento nell’evento storico e
singolare di Gesù Cristo, il quale, come uomo-Dio, è l’immagine compiuta di
Dio e dell’uomo (GS, 22).
Il metodo utilizzato dall’antropologia teologica per cui si ricevono dall’alto le
informazioni sull’uomo, è detto genetico o progressivo. Il materiale per
l’indagine si attinge dalla fonte, dove è contenuto tutto quanto Dio ha detto o
fatto, ossia dalla tradizione biblica, non normata, non soggetta ad altro perché
riconosciuta ispirata come Parola di Dio (Dei Verbum). Guardando all’Antico e
6
al Nuovo Testamento ci si rende conto che quanto Dio vuol dire sull’uomo si
attua nella persona del Figlio, l’evento storico-escatologico in cui Gesù si
presenta come l’uomo perfetto, come l’archetipo di ogni uomo, che realizza nella
sua esperienza come Dio vuole l’uomo nella sua creazione.
Ma la Scrittura, scritta peraltro in contesti ben determinati e in tempi molto
circoscritti, è stata declinata lungo la storia dell’esperienza cristiana in diversi
modi, ossia con i grandi scritti ecclesiastici dei primi secoli, la liturgia, la
preghiera, i Concili, l’esperienza dei mistici, insomma la tradizione normata che
con la Scrittura forma il depositum fidei che attualizza il percorso
dell’antropologia teologica.
Si potrebbe ingenuamente dire che l’evento singolare di Cristo accadde
duemila anni fa, con protagonista un ebreo contestualizzato nella sua storia e nel
suo tempo, per cui può risultare difficile pensare come un fatto storico possa aver
realizzato l’umano nella sua interezza. Ma l’evento Cristo, oltre ad essere
singolare, è anche universale, perciò valido per gli uomini di ogni tempo nella
realizzazione dello Spirito, che universalizza la portata rivelatrice e salvifica di
tale evento, rendendo possibile ad ogni uomo l’accesso alla comprensione del
suo mistero, tanto che nella celebrazione eucaristica se non ci fosse lo Spirito a
riattualizzare l’evento, non faremmo altro che un rito.
“Così, nella cristologia sta il principio nuovo e il termine nuovo
dell’antropologia” (M. Bordoni). In Gesù Cristo, l’alfa e l’omega, c’è la
comprensione totale dell’origine della vita e del mistero dell’uomo, una
ricomprensione resa possibile dall’azione dello Spirito.
7
“Nel suo assumere la rivelazione quale principio e criterio del proprio sapere,
l’AT non diventa l’offerta di verità eterne ed universali nella forma di una
cultura rivelata; diventa invece l’offerta di un luogo ermeneutico nel quale, in
obbedienza alla rivelazione cristiana, ripensare la propria determinata
congiuntura storica” (G. Colzani).
Le fonti proprie dell’antropologia teologica, in quanto disciplina teologica che
assume la rivelazione quale principio e criterio del proprio sapere, sono le
testimonianze della fede cristiana nel loro complesso intreccio della tradizione
biblica e storico-teologica. Nei documenti di fede non si rintracciano mai
definizioni dell’uomo o del cosmo, perché definire significa eliminare parte del
discorso, mentre nelle testimonianze di fede non si chiude mai il discorso, ma si
trovano sempre descrizioni dell’uomo in rapporto a Dio, agli altri simili, alle sue
vicende e al suo mondo. In altri termini, il discorso sull’uomo (antropologia) è
unicamente collocato all’interno della storia della salvezza (interesse
soteriologico).
Da qui si può comprendere come nell’evento Gesù Cristo (l’evento
soteriologico per eccellenza) l’uomo trova pienamente lo svelamento totale del
suo mistero: la sua origine (creato in Cristo), la sua storia (come storia della sua
libertà minacciata dal peccato) e la possibilità di essere liberato da ogni forma di
male per essere pienamente uomo, secondo il progetto di Dio (redento in e per
Cristo), il suo futuro (destinato in Cristo come compimento dell’azione salvifica
di Dio a suo favore e conseguente realizzazione di tutte le sue speranze di
compimento, ossia vita risorta/eterna come antropologia compiuta).
8
Nelle fonti le descrizioni salvifiche universali riguardanti l’uomo vengono
confezionate con l’utilizzo degli strumenti culturali esistenti nell’universo di
comprensione di determinati bacini culturali (semitico, ellenistico,….) Le
testimonianze di fede, infatti, assumono e reinterpretano tutte le possibilità di
linguaggio che aiutano a comprendere la verità annunciata, secondo il processo
di inculturazione o, ancor meglio, di contestualizzazione della fede.
9
3. La relazione tra cristologia e antropologia.
L’antropologia teologica riferisce che il mistero dell’uomo è rivelato
nell’umanità di Gesù crocifisso e risorto, il criterio primo e ultimo dell’umano;
l’accoglienza nella fede di tale rivelazione (conformazione a Cristo) offre ad
ogni uomo la possibilità di compiere la propria umanità (che da solo non può
darsi), un compimento strutturalmente invocato da tutti (la salvezza), perché
inscritto nel desiderio di ogni esperienza umana, che sono le domande
fondamentali e universali dell’uomo, ossia la ricerca della verità.
Si accede al mistero di Cristo con un’adesione di fede, che è anzitutto un
movimento personale, la fides qua, la fede in, la risposta di chi si affida a Dio; in
seguito a questa adesione si crede a quel che si dice nei contenuti della fede, la
fides quae. Questo affidarsi a Dio non è unicamente un sentimento ma un
impegno concreto; infatti la vita cristiana non è solo un atteggiamento
gnoseologico ma una vita di fede che consiste nel mettersi alla sequela di Cristo
e che porta alla santità, alla pienezza dell’essere uomo.
Il punto di partenza di ogni discorso teologico (e quindi dell’antropologia
teologica) è la vicenda singolare di Gesù Cristo, della sua umanità. Tale evento,
accessibile nella fede per la mediazione testimoniale della comunità credente,
viene conosciuto e accolto come la vicenda escatologica-salvifica per eccellenza
(cfr. le testimonianze evangeliche); in essa, infatti, Gesù si rivela come il Figlio
del Padre, generato nello Spirito, nato dalla Vergine Maria, venuto per compiere
definitivamente il progetto creatore di Dio, attraverso un’azione liberatrice che
riconduce l’intera creazione al disegno originario (mysterion).
10
Gesù usa poche parole per parlare di Dio, tanto che inizia la sua breve missione
con la frase “Il Regno di Dio è in mezzo a noi” (Mc 1, 15), espressione con la
quale intende che Dio vuole rifare l’alleanza con l’uomo, realizzando quanto
scritto in Geremia: “Vi darò un cuore nuovo”.
Le narrazioni evangeliche testimoniano il modo concreto e singolare di
relazionarsi di Gesù agli uomini. Questa relazione particolarissima esprime la
“pretesa” di Gesù di essere il Figlio del Padre, a lui obbediente e dedito fino alla
morte. Egli è l’immagine di Dio in modo assoluto e singolare e, in quanto uomo,
esprime compiutamente nella sua vicenda l’immagine di Dio nell’uomo, secondo
il progetto creatore di Dio; in tal senso, egli è anche pienezza dell’umano,
l’uomo perfetto.
Interessante al riguardo è l’espressione di Paolo in Cor 4, 4: “In Gesù risplende
la gloria di Dio (la doxa)”, a giustificare l’espressione evangelica in cui Gesù
dice: “Chi vede me vede il Padre”. Nella sua persona, pertanto, è possibile
realizzare la compiutezza antropologica, a condizione che ogni uomo decida di
seguirlo liberamente nella fede (conformazione a Cristo nello Spirito)
riconoscendolo come verità ultima di Dio e di sé.
In Gesù, quindi, vi è una nuova comprensione dell’umano che si rivela come la
forma più autentica di conoscenza e di attuazione di esso accessibile a tutti
(universalità), in virtù dell’azione dello Spirito. Così “la storia di Gesù è
l’autocomunicazione di Dio e la storia dell’uomo è quella vicenda che si lascia
determinare dalla figura normativa apparsa nella storia di Gesù” (F. G.
Brambilla).
11
La rivelazione è un evento di grazia (“piacque a Dio…..”) ed essenzialmente
dice che Dio ha predestinato gratuitamente ed efficacemente tutti gli uomini, con
il proprio mondo, a diventare suoi figli nel Figlio Gesù, mediante lo Spirito. Tale
predestinazione avviene quando gli uomini si lasciano conformare (con e nella
libertà) dallo Spirito alla vicenda di Gesù Cristo morto e risorto. E’ un progetto
voluto da Dio da sempre e antecedente alla creazione, realizzato nella pienezza
dei tempi dal suo Figlio Gesù, preparato lungo l’Antico Testamento e orientato
verso una pienezza parusiaca.
Una testimonianza biblica, sintesi del mysterion cristiano, è in Ef 1, 3-14:
“Benedetto sia Dio Padre e Signore nostro che ci ha benedetti con ogni
benedizione spirituale nei cieli e in Cristo [da cui il riferimento trinitario]. In lui
[ossia in Gesù Cristo, da cui il senso della predestinazione] ci ha scelti prima
della creazione del mondo [il che ci parla dell’amore previo di Dio] per essere
santi e immacolati [qui la santità va intesa in senso di perfezione, di
compiutezza] al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli
adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della sua volontà e
questo a lode e gloria della sua grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto, nel
quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue e la remissione dei peccati
secondo la ricchezza della sua grazia [questo percorso di santità passa anche
attraverso la remissione dei peccati] egli l’ha abbondantemente riversata su di
noi con ogni sapienza e intelligenza poiché egli ci ha fatto conoscere questo
mistero della sua volontà secondo quanto nella sua benevolenza venne in lui
prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi. Il disegno, cioè, di
ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. In lui
12
siamo stati fatti anche eredi essendo stati predestinati secondo il piano di colui
che tutto opera efficacemente e conforme alla sua volontà perché noi fossimo a
lode della sua gloria, noi che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche
voi dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della nostra salvezza, e
aver adesso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che vi era
stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità in attesa della completa
redenzione che Dio si è acquistato a lode della sua gloria”.
Questo testo conferma che il percorso dell’antropologia teologica illumina il
progetto di Dio che dall’alfa giunge all’omega, dalla protologia si dirige verso
l’escatologia, e che trova il suo riferimento concreto nell’esperienza di Gesù.
Nello Spirito tutti abbiamo accesso a questo mistero, in una conformazione
concreta che ci fa diventare figli adottivi dell’unico Padre.
13
4. La predestinazione in Cristo.
L’idea di predestinazione dice che Dio vuole far partecipare gratuitamente, con
infallibile efficacia ed universalmente, tutti gli uomini alla figliolanza di Gesù
Cristo, per l’azione dello Spirito. Tale progetto salvifico antecede la creazione,
da sempre e indipendentemente dall’esistenza degli uomini.
4.1. La predestinazione nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Nell’Antico Testamento si rintraccia l’idea di elezione, associata a quella di
alleanza, che contiene in modo pregnante il contenuto della predestinazione, pur
se questa parola non viene mai usata. L’idea descrive sostanzialmente il rapporto
esistente tra Dio e il popolo di Israele; un rapporto voluto da Dio e costituente il
motivo di vita del popolo eletto, scelto da Dio perché sia un popolo santo, di sua
proprietà.
Dio ha liberato il suo popolo dall’Egitto ma la libertà non è fine a sé stessa
bensì tesa alla conquista della terra promessa, perciò con una prospettiva futura.
In tal modo il concetto di elezione viene associato a quello di alleanza.
Le caratteristiche dell’idea di elezione sono, perciò, l’iniziativa di Dio (che
l’uomo non può esigere), l’assoluta gratuità (Dio non è costretto a rivelarsi),
l’amore come contenuto, la fedeltà di Dio nella realizzazione (l’uomo può anche
sbagliare ma nonostante l’errore Dio rimane fedele e non si smentisce mai).
Risuonano in tal senso le parole in Isaia (“anche se una madre dovesse
dimenticarsi del suo bambino io non mi dimenticherò mai di te, Israele”) e in
Osea (“siete diventati delle prostitute ma io vi ho sempre amati”).
14
L’elezione non è solo una categoria teologica ma esprime anche un rapporto
concreto sul piano antropologico, per cui il popolo scelto vive una particolare
relazione con Dio, la quale costituisce il motivo stesso del suo essere popolo.
L’elezione si struttura anzitutto in colui che la realizza, che compie l’azione,
ossia Dio; tale azione è rivolta verso un destinatario, che è il popolo, la cui
appartenenza a Dio è la finalità dell’elezione (Es: “ti ho scelto perché tu sia il
mio popolo”).
Tutto ciò è realizzato da Dio nell’Antico Testamento nei confronti del popolo
d’Israele, in una visione particolaristica, piuttosto ristretta, dove comunque
Israele si è sentito forte dell’esperienza che ha fatto, maturando di essere il
fruitore di una rivelazione; si pensi ad esempio al cambiamento delle feste che da
agricole diventano religiose.
Col tempo il concetto di Dio in Israele si è via via evoluto; infatti il
monoteismo non c’è stato da sempre e si è arrivati all’idea di Jahwè come unico
Dio grazie alla predicazione profetica dell’esilio e soprattutto del post-esilio con
Ezechiele e il Deuteroisaia, che spinge Israele alla comprensione della
rivelazione, completata con i sapienti. In tal modo Israele avverte di avere la
missione di condurre tutti i popoli al riconoscimento di Jahwè come l’unico Dio,
che sceglie, che ama, che fa l’alleanza.
In definitiva, sono cinque gli elementi strutturali dell’elezione: il soggetto, il
destinatario, la finalità, il motivo, il tempo.
Nel Nuovo Testamento l’idea di elezione è riferita a Gesù Cristo,
personificazione storica di Dio. Il Figlio di Dio è l’eletto di Dio e l’elezione di
Israele si raccoglie in lui. In Gesù, Dio rifà l’alleanza, recuperando l’infedeltà di
15
Israele. L’elezione diventa comprensibile nella missione di Gesù, che non è solo
colui che elegge ma, in quanto uomo-Dio, è l’eletto, il rivelatore ed il rivelato.
Di rilievo è la riflessione di Paolo, che tratta spesso il tema dell’elezione; in
particolare, nella lettera agli Efesini afferma che l’elezione è il progetto salvifico
per tutta l’umanità. La predestinazione, perciò, è valida per tutti e non a caso la
chiamata degli Apostoli in numero di dodici significa la raccolta delle dodici
tribù di Israele e in definitiva l’universalità di tutte le genti.
4.2. La predestinazione nella tradizione ecclesiale post-biblica.
I Padri sono i primi interpreti ufficiali del cristianesimo, il primo anello della
tradizione normata. Nei primi secoli, soprattutto presso i Padri greci, l’idea di
predestinazione o di elezione ha sempre conservato il significato biblico, non
essendoci motivi per formalizzare il concetto in categorie diverse.
Dopo tre secoli di stretta fedeltà al dettame biblico, una svolta riguardo il tema
della predestinazione avviene con la riflessione di Agostino d’Ippona.
Per comprendere appieno il pensiero del grande santo non si può prescindere
dalla sua esperienza globale di vita. Egli stesso qualificò come tenebra la sua
esperienza prima del battesimo e l’idea di peccato precedente la conversione ha
influenzato in modo notevole la riflessione sui temi cristiani da lui trattati.
Il suo punto di partenza, infatti, è di tipo amartiocentrico (amartios = peccato),
dove si considera che tutta l’umanità è una massa peccatrice, tesa alla
dannazione, alla perdizione. Il punto di partenza di Agostino, perciò, non è la
scelta di Dio ma è l’uomo nella sua realtà peccaminosa, tratto da Dio fuori dalla
massa dannata.
16
Comunque Agostino si accorge che alcune persone, nonostante abbiano fatto
esperienza di Gesù, rimangono ugualmente nella condizione di peccato. Per
risolvere questo problema introduce il concetto di doppia predestinazione degli
uomini. Secondo Agostino, Dio, antecedentemente e infallibilmente, ha deciso
nella sua sovranità la salvezza per alcuni e la dannazione per altri, in accordo con
il brano evangelico secondo cui molti sono i chiamati ma pochi gli eletti. Tale
progetto di Dio ha la logica di evidenziare la sua giustizia oltre alla sua
misericordia.
Il concetto della doppia predestinazione è comprensibile soprattutto alla luce
del contesto culturale occidentale in cui viveva Agostino, molto sensibile alle
categorie forensi (anche Tertulliano e Cipriano erano avvocati), secondo cui alla
mancanza deve essere abbinata la punizione.
Occorre segnalare che il Magistero ecclesiastico sin dai tempi dello stesso
Agostino non accettò l’idea della doppia predestinazione. La polemica di
Agostino con i pelagiani portò alla convocazione di un Sinodo provinciale a
Cartagine nel 418 che si schierò contro il pelagianesimo e subito dopo la fine del
Sinodo fu pubblicato un breve compendio attribuito a papa Celestino I ma in
realtà scritto da Prospero d’Aquitania. Tale compendio, chiamato Indiculus
celestini e ritenuto un testo magisteriale, presenta il rifiuto esplicito della doppia
predestinazione, seppur in modo indiretto. Infatti l’affermazione “la bontà di Dio
verso tutti gli uomini…..” sembra escludere la doppia predestinazione, altrimenti
si sarebbe scritto “la bontà di Dio verso alcuni uomini…..” L’Indiculus, peraltro,
conclude con l’affermazione “noi non consideriamo affatto cattolico ciò che
risulta contrario alle sentenze che abbiamo illustrato”.
17
Nel 529 Prospero d’Aquitania dopo il Sinodo di Orange fa riferimento ad una
professione di fede fatta in quell’ambito da Cesario di Arles: “Secondo la fede
cattolica crediamo anche che dopo aver ricevuto la grazia mediante il battesimo,
tutti i battezzati possono e devono compiere con l’aiuto e la cooperazione di
Cristo quello che è necessario per la salvezza se vogliono impegnarsi
fedelmente. Non solo non crediamo che alcuni siano predestinati al male nella
potenza divina ma se ci fossero persone disposte a credere a tale enormità
lanciamo su di loro l’anatema con ogni riprovazione”.
La discussione sulla predestinazione continua in tutto il medioevo scolastico e
nell’età moderna. L’idea della doppia predestinazione ritornò in auge con la
riforma luterana, particolarmente nel calvinismo. Solo in età contemporanea,
grazie alla riflessione di alcuni autori (come Billot e Barth), il tema della
predestinazione viene ricondotto alle sue originarie matrici bibliche.
4.3. La predestinazione: lineamenti teologico-sistematici.
Nell’inno di Paolo agli Efesini si coglie la sostanza del significato di
predestinazione, ossia che Gesù Cristo è donato all’uomo dal Padre nello Spirito,
con un dono trinitario alla creazione intera e in particolar modo all’uomo che è il
vertice della creazione. Questa offerta ha la finalità di una creazione continua,
affinché l’uomo compia la sua umanità e possa portare a pienezza tutto quanto
egli rappresenta ed è.
Il prologo del vangelo di Giovanni (“in principio era il Verbo…..”) significa il
dono del Verbo da parte del Padre, un dono previo perché in principio non c’è la
creazione ma il Verbo e tutto è stato fatto per mezzo di lui.
18
La predestinazione di Dio in Cristo non può essere perciò richiesta da nessuno,
ossia è un fatto gratuito. Questa predestinazione è voluta in Cristo, si attua in
Cristo e non può venire meno, il che ne garantisce l’infallibile efficacia; il
progetto di Dio non può venire meno perché Dio è sempre fedele alla sua parola.
Inoltre è un evento universale, offerto a tutti come volontà antecedente di
salvezza perché a tutti è data la possibilità di conformarsi alla vicenda di Gesù:
tutti sono eletti e chiamati in Gesù, voluti da lui da sempre.
Pur se siamo stati tutti universalmente e antecedentemente predestinati in
Cristo in modo gratuito, efficace ed universale, non significa comunque che tutti
si salvano. Se ci fosse un determinismo della salvezza si entrerebbe in una logica
di apocatastasi, quindi di redenzione del tutto, quasi un atto dovuto da parte di
Dio. Ma l’universalità della predestinazione non significa questo, perché in
quanto dotati da Dio di libertà esiste anche la possibilità (ma non la necessità)
della perdizione, rifiutando la chiamata in Cristo, pur se la salvezza è molto più
grande della perdizione.
Solo satana si è irrimediabilmente perso, ma per il resto, parlando di uomini,
non si può dire nulla sia perché non si può sapere sia perché non si può
giudicare; anche coloro che platealmente hanno negato Gesù Cristo possono
salvarsi, perché le possibilità e le offerte della grazia di Dio superano i nostri
confini e possono essere date in qualsiasi momento.
Tutto parte dalla predestinazione e non dal peccato che è contenuto nella
predestinazione, altrimenti si cadrebbe in una visione amartiocentrica; Giovanni
non scrive “in principio era il peccato”, ma “in principio era il Verbo”, perciò al
19
primo posto non c’è il peccato, ma l’amore gratuito, universale, efficace di Dio
che offre il suo Figlio.
Sul piano dell’antropologia l’uomo è sempre in cammino, in ricerca, in ansia,
pellegrino verso la compiutezza della proprio umanità: è il movimento tipico
della speranza, possibile per la predestinazione in Cristo.
Questo cammino non è deterministico ma coinvolge e responsabilizza la
libertà. Tale impegno nel camminare verso la pienezza della vita significa che la
libertà autentica si orienta verso la pienezza del cammino, ossia verso Cristo.
Questa libertà è gratuita, donata perché rispondente alla gratuità della
predestinazione, al dono della speranza.
Diventare pienamente uomini significa conformarsi a Cristo, accedere alla
salvezza, divenire figli adottivi nel Figlio. Il rapporto tra l’umanità e il Figlio
configura il cammino della libertà umana che intende raggiungere la pienezza,
realizzandola accedendo al mistero di Dio attraverso Gesù. Il modulo di tale
cammino è la fede, l’atteggiamento di consegna responsabile al dono di Dio, che
tramite lo Spirito fa entrare nel mistero del Padre realizzato nel Figlio e oggi reso
presente a tutti.
In questo cammino l’uomo sa di essere liberato da eventuali contraddizioni, dal
peccato, dal male, perché nella predestinazione è inclusa anche la redenzione,
intesa come remissione dei peccati, come riconciliazione, come possibilità di
ricominciare il cammino. Si accede a questo cammino nella fede, lo si desidera
compiere nella speranza, lo si realizza nelle sue tappe concrete attraverso la
carità.
20
.
.
5. La storia umana come creazione.
La dottrina della creazione è un tema essenziale della fede cristiana, tanto da
essere ben presto accolta nei simboli, che ripropongono il nucleo della fede di
Israele e della primitiva comunità cristiana. Dio è il creatore di ogni cosa (cielo e
terra, visibile e invisibile) e tutto è stato fatto per mezzo di Cristo nella forza
dello Spirito, il che rimanda all’idea di predestinazione.
Il nucleo della fede cristiana nella creazione da parte di Dio è fondato nel
prologo giovanneo (Gv 1, 1-3: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso
Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio; tutto è stato fatto per
mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”), un testo
che può essere considerato come il manifesto creazionista. Della creazione
ovviamente si tratta anche nei primi capitoli della Genesi, ma ne parla anche e
soprattutto Cristo stesso con la sua rivelazione; infatti un cristiano non annuncia
tanto l’Antico Testamento quanto Gesù Cristo, che nel suo evento svela
pienamente il progetto salvifico di Dio, ossia la predestinazione.
5.1. Le narrazioni delle origini.
Dio Padre ha svelato il suo mistero nella pienezza dei tempi in Gesù Cristo ma
l’ha fatto anche prima in diversi modi, come ben spiega Paolo nella lettera agli
Ebrei e come emerge nei primi capitoli della Scrittura.
Secondo molti esegeti i racconti della creazione sono due: uno di fonte
sacerdotale (Gen 1-2, 4a) ed uno di fonte jahwista (Gen 2, 4b e ss). Nel primo
l’uomo è senza dubbio in posizione rilevante nella creazione ma il vertice della
21
narrazione è il sabato, mentre nel secondo l’uomo è al centro e tutto ruota intorno
a lui. In realtà il secondo più che un racconto creazionista è una sorta di
introduzione al terzo capitolo della Genesi, dove in termini sapienziali viene
spiegata l’origine del male.
Per poter comprendere correttamente i testi genesiaci riguardanti le origini è
utile affrontare alcune questioni metodologiche preliminari che guadagnano una
corretta esegesi dell’assunto biblico:
a. il rapporto tra il testo biblico e le antiche tradizioni culturali circostanti.
Già prima dei testi biblici esistevano narrazioni sulle origini, come espresso nei
racconti sumerici, mesopotamici, babilonesi, egiziani, per cui il fatto che gli
uomini abbiano avuto l’esigenza di raccontare le origini attraverso il mito non è
una novità di Israele. In realtà i racconti di queste culture più che creazioni sono
cosmovisioni, dove la diversità rispetto al testo biblico sta in un’operazione
demiurgica di un’artefice che da una materia preesistente dà forma a quanto già
esiste, mentre secondo Israele tutto quello che c’è non esisteva prima ed è stato
posso in essere da Dio.
La comunanza di idee tra Israele e le culture circostanti è visibile dalla
somiglianza tra i vari racconti, il che potrebbe far pensare che i testi biblici,
scritti secoli dopo, dipendano da quelle narrazioni; in realtà la dipendenza è
senz’altro letteraria ma non riguarda l’idea di ciò che è scritto. Nei racconti delle
origini emerge piuttosto una riflessione comune all’umanità, secondo cui quanto
esiste non è da sempre ma si è determinato a partire da un certo momento. La
specificazione non è data tanto dalle parole o dalla struttura del racconto, ma da
22
un’esperienza particolare che dà forma e contenuto religioso a una convinzione
che apparteneva a tutti.
b. il genere letterario delle narrazioni. Nei vari racconti della creazione
ricorrono termini uguali, in un linguaggio simbolico attraverso cui i popoli
narrano la verità in cui credono, una verità dipendente dall’esperienza. Ma tra il
testo biblico e gli altri si riscontrano due differenze sostanziali.
La prima è che negli altri racconti si nota come all’inizio di tutto ci sia una
sorta di battaglia tra diverse divinità e sembra che quanto esiste sia il risultato di
questo scontro. Il racconto biblico, invece, pur usando un analogo simbolismo,
riconduce il tutto a unico Dio. A tale proposito occorre ricordare che i primi
undici capitoli della Genesi sono stati raccolti dopo l’esperienza dell’esilio,
quando Israele aveva già fatto purificato l’enoteismo di partenza (in cui pensava
che esistevano varie divinità pur se scelse Jahwè che si era mostrato loro), fino a
capire, grazie ai profeti e ai sapienti, che esiste un solo Dio, ossia Jahwè. Questa
convinzione si proiettò all’indietro e portò alla costruzione letteraria dei primi
undici capitoli della Genesi.
La seconda differenza è che nei racconti orientali si parla della messa in opera
di tutto ma non c’è un’attenzione alla storia, mancando un riferimento al
procedere di quello che è uscito dalle mani delle divinità o di Dio. La Scrittura,
invece, presta maggiore attenzione alla storia, ad esempio con l’inserimento dei
racconti della creazione nella catena delle toledot, delle genealogie; queste
aprono la storia a partire da Abramo e fanno capire che si è al primo momento di
un processo che sta andando in avanti, per cui gli eventi della creazione nel testo
biblico sono costruiti in modo tale che siano all’inizio di una sequenza storica,
23
intesa non solo in senso cronologico ma anche in senso sapienziale. Per tale
motivo i racconti biblici rappresentano un’eziologia storica, cercando di capire
alla luce dell’esperienza da dove proviene il tutto, ovviamente raccontando col
materiale letterario a loro disposizione.
c. la relazione tra creazione e salvezza. Il teologo Von Rad sosteneva che
Israele ha avuto l’idea di un Dio creatore perché ha fatto anzitutto l’esperienza di
un Dio che lo ha salvato dall’Egitto, stabilendo l’alleanza col popolo. Se Dio è il
salvatore è allora anche il creatore del mondo, come è stato in seguito spiegato
dai profeti e dai sapienti.
5.1.2. La creazione nelle narrazioni genesiache.
La significativa narrazione di Gen 1, 1-2, 4 (codice sacerdotale) vede la
creazione nella sua originalità di opera di Dio e nel suo carattere storico-
salvifico. La creazione come totalità è comprensibile nell’intreccio narrativo di
dimensione temporale (il settenario creazionale) e di dimensione spaziale
(comando e opere della creazione), fondazione della storia dell’umanità e della
storia della salvezza.
5.1.3. La creazione nei profeti e negli scritti sapienziali.
I profeti presentano il tema della creazione in modo strettamente connesso a
quello della salvezza, soprattutto coloro che svolgono il proprio ministero in
epoca esilica: Geremia (32, 17; 33, 25-26) e in particolare il Deuteroisaia (libro
della consolazione: 1s 40ss). Da tali testimonianze si nota come Israele possieda
24
l’idea che in Dio c’è l’origine di ogni realtà, ma l’esplicazione teologica è
determinata dall’esperienza della salvezza.
La letteratura sapienziale pone il rapporto tra creazione e salvezza in
collegamento con gli interrogativi dell’esistenza umana (origine, sofferenza,
morte…..); in particolare, in tratti personificati, emerge il ruolo della Sapienza,
presente nell’agire creatore di Dio.
5.4. Considerazioni conclusive.
1. Dai racconti delle origini si evince che il Dio che ha salvato Israele è lo
stesso Dio Jahwè creatore dell’Universo; questo si configura come un intreccio
di relazioni tra Dio, l’uomo e il cosmo, tanto che la creazione non è a comparti
come sembra apparire nel racconto settenario della Genesi. La sussistenza
dell’Universo dipende molto da tale intreccio. Tutto quanto è stato creato è
destinato alla salvezza, alla compiutezza, al punto che la protologia si orienta
verso l’escatologia.
2. La parola “intreccio” sopra riportata potrebbe far pensare a una sorta di
panteismo, con Dio presente ovunque. Ma il Dio che ha creato è colui che
trascende la creazione, ne è al di sopra, non si confonde con le cose create, il che
elimina ogni forma di panteismo, semmai presente in alcune culture
nordamericane, giapponesi, africane dove si avverte in cose mondane un
carattere sacrale (il bue sacro, il fiume sacro).
3. Tutto quanto è stato creato da Dio, nonostante si distingue da lui, “è buono”,
come ci ricorda il racconto biblico. Questo significa che la Scrittura professa un
ottimismo storico, dove non c’è una valenza negativa della materia.
25
4. Nel testo della Genesi è scritto che la Terra era informe e deserta, in un caos
primordiale. Con ciò la Scrittura non vuole intendere una materia preesistente, in
quanto il termine “caos” è un modo per esprimere quello che non c’era; di
conseguenza il racconto sembra esprimere la creazione dal nulla (ex nihilo).
Ma la creazione dal nulla è un concetto filosofico del quale l’autore biblico era
sprovvisto, per cui nei testi della Genesi la creazione ex nihilo si può dedurre,
sembra affermata implicitamente ma non esplicitamente, pur se qualche accenno
in tal senso si trova nei libri dei Maccabei e della Sapienza.
5. Il racconto biblico si caratterizza per il movimento storico ed introduce
l’idea su qualcosa che inizia, mostrando un concetto lineare di temporalità, con
una sequenza passato – presente – futuro, senza salti, dove il presente contiene il
passato e contemporaneamente si apre verso il futuro.
La Scrittura, però, riporta anche che gli eventi realizzati da Jahwè nei confronti
del suo popolo si riattualizzano nelle feste nella loro dimensione di contenuto
teologico (memoriale). Ma se il tempo si ripresenta allora può non essere lineare
e ritornare in qualche modo, per cui la Bibbia, pur fornendo un’idea lineare di
tempo, prevede che un evento si ripresenti sebbene con elementi di novità; ad
esempio, la Pasqua di un certo anno non è mai la stessa dell’anno precedente, pur
avendo gli stessi contenuti teologici.
La concezione lineare del tempo si differenzia da quella del tempo, tipica della
cultura greca, dove non c’è possibilità di una storia perché esiste l’eterno ritorno.
In realtà secondo i greci gli eventi devono svolgersi secondo una loro necessità e
per compiere il loro destino, per cui più che una ciclicità è preferibile parlare di
un determinismo di eventi.
26
6. Gesù Cristo mediatore e compimento della creazione.
Il Nuovo Testamento collega la centralità (intesa non nel senso storico-
temporale ma come interpretazione storica) dell’evento pasquale all’originario
agire creatore di Dio. Cristo è il riferimento, il mediatore di quanto è creato e in
lui tutta la realtà trova il suo compimento. In altri termini, nella luce della Pasqua
la ricomprensione del mistero della salvezza fa comprendere il mistero di Dio
nella sua originalità, nel suo svolgersi e nel suo compimento.
Per quanto riguarda il messaggio di Cristo, se molto significative in tal senso
sono le testimonianze di Paolo e Giovanni, nei sinottici si nota che Gesù nella
sua predicazione dà per scontata l’idea di creazione, essendoci nelle sue parole
solo allusioni di circostanza ma non conferme particolari.
6.1. Il tema della creazione nella teologia paolina.
La dottrina di Paolo riguardo la creazione è sicuramente in continuità con le
idee veterotestamentarie, dato il suo retroterra culturale, ma lo sviluppo impresso
dall’Apostolo va chiaramente in direzione cristologica, con un’evidente
corrispondenza tra creazione e salvezza.
I testi chiave della dottrina paolina sono:
a. 1Cor 8, 5-6. Questo testo, propriamente di Paolo, spiega che il Cristo è
mediatore della creazione: “E in realtà, anche se vi sono cosiddetti déi e molti
signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo
per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e
noi esistiamo in lui”.
27
In questo testo la creazione viene accreditata sia al Padre che al Figlio.
Tuttavia, occorre dire che la causa per cui entrambi sono riferiti all’atto creatore
è diversa perché la frase “il Padre dal quale tutto proviene” vuole intendere che
il Padre è principio e motivo fondante della creazione. Invece la frase “Gesù
Cristo in virtù del quale esistono tutte le cose” significa che il Figlio non è il
principio della creazione ma il mediatore, lo strumento per cui esiste tutta la vita
che il Padre vuole dare.
b. Col 1, 15-20. Se in 1Cor si potrebbe evincere che Paolo parla di Gesù solo
come mediatore, nella lettera ai Colossesi emerge come il Cristo sia il principio,
il centro e il fine della creazione: “Egli è immagine del Dio invisibile, generato
prima di ogni creatura, poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni,
Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di
lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è
anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque
a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte
le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le
cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.”
Paolo afferma che Gesù è uguale a Dio e in quanto Dio la creazione trova in lui
il motivo della sussistenza. L’uomo è stato creato per mezzo di lui e può anche
ritenere Cristo come il principio della creazione perché sussiste in lui. Nel dire
che si è creati da Gesù Cristo non si fa un errore, anche perché quando una delle
tre persone trinitarie agisce non lo fa mai isolatamente.
28
c. Ef 1, 3-14: In questo testo Paolo parla del destino cosmologico della
creazione, illuminata da Cristo. ”In lui ci ha scelti prima della creazione del
mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi, per opera di Gesù Cristo, secondo il
beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci
ha dato nel suo Figlio diletto, nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo
sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli
l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza poiché
egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua
benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il
disegno, cioè, di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle
della terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo
il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché
noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.
In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della
vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito
Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa
della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua
gloria”.
6.2. Il tema della creazione nella teologia giovannea.
Il prologo giovanneo costituisce la testimonianza più esplicita della fede
cristiana. In esso, infatti, l’autore intende annunciare un nuovo evento creatore
alla luce dell’evento di Gesù Cristo.
29
In tal senso vanno segnalati anche Ap 1,17 e 22, 13 in cui Cristo è visto come
causalità finale della creazione: il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega, il principio
e la fine di tutto quanto è stato creato.
6.3. Considerazioni conclusive.
Complessivamente il messaggio scritturistico sulla creazione si può riassumere
in quattro punti.
1. La fede nella creazione non comporta alcuna considerazione fisica del
mondo, perché la cornice biblica del discorso è di ordine soteriologico; infatti la
Scrittura non dice com’è fatta la Terra, non è un trattato di astronomia o di altre
scienze, come potrebbe far pensare una lettura fondamentalista. La Scrittura dice
da dove proviene tutto, perché proviene tutto, a cosa è destinato il tutto, fornendo
il significato dell’esistenza; la Bibbia non dice com’è fatto il cosmo o l’uomo, in
quanto è un libro di fede, scritto per la fede e narra una storia di fede, per cui non
è legittimo alcun discorso di tipo cosmologico e ontologico. Questa prospettiva
appare molto evidente, in particolare, nel Nuovo Testamento, dove emerge una
concentrazione cristologica delle idee riguardante la creazione (cfr. Gv 1).
2. Il messaggio biblico sulla creazione è pervaso da grande ottimismo ed è
lontano dalle tragiche e fantastiche cosmovisioni dell’antichità. Nei testi di altre
culture esiste sempre la realizzazione di un doppio principio: uno di bene e uno
di male. Dal principio buono deriva la spiritualità, la dimensione immateriale
dell’uomo, mentre dal principio malvagio deriva la corporeità. In ogni caso le
cose vanno avanti per una sorta di necessità, di determinismo, dove non c’è
spazio per la libertà e non ci possono essere novità nella creazione.
30
Invece, proprio all’inizio della Scrittura l’agiografo scrive che “ogni cosa
creata è buona”; inoltre, nel creare l’uomo Dio dice che “è cosa molto buona”,
evidenziando un notevole ottimismo antropologico, in quanto essendo tutta la
realtà creata da Dio, quel che esiste al mondo, e quindi anche l’uomo, ha una
valenza etica positiva. Semplificando, si può dire che tutto di noi è buono, non
essendoci nulla di cattivo creato da Dio; tutto è voluto da Dio nei minimi termini
come realtà esistente, cui segue un percorso evolutivo permesso e voluto da Dio
stesso. Inoltre non c’è un fatalismo, un determinismo storico perché Dio ha dato
alla sua creazione e all’uomo la libertà capace di orientare anche il senso della
storia e l’uomo la orienta bene nella misura in cui risponde al disegno creaturale.
Tuttavia la dottrina cristiana deve tenere in conto la presenza del male,
comprensibile e interpretabile in una prospettiva soteriologico-escatologica che
solo il Dio di Gesù Cristo apre con la promessa di una salvezza già realizzata,
anche se non ancora compiuta (la speranza della consumazione). Per scelta
dell’uomo (la caduta riportata in Gen 3) il male, ossia ciò che è contrario alla
predestinazione di Dio, è entrato nel mondo e come dice la Sapienza ne fanno
esperienza coloro che ne appartengono. La presenza del male è ciò che Gesù
chiama la zizzania, che ostacola l’avvento compiuto del regno; ma nonostante il
male continui a imperversare, Gesù lo ha sconfitto, per cui c’è la garanzia che il
male non ha futuro. Nella consumazione escatologica c’è spazio solamente per il
bene, per Dio, per la sua gloria, tanto che nel vangelo di Luca Gesù dice “vedevo
satana cadere dal cielo”, per sottolineare la sconfitta del male.
31
3. La dottrina biblica della creazione non ammette la possibilità di dualismi
ontologici ed etici, tanto che non si può dire che lo spirito è buono e la carne è
cattiva. Quando nella Scrittura si parla di carne e spirito si vogliono intendere
due orientamenti, ma non si vuole qualificare nessuna ontologia dell’umano.
Eticamente è tutto buono, è solo l’orientamento dato dall’uomo che può far
diventare malvagia una realtà.
4. La corrispondenza biblica di creazione-salvezza è determinante sotto il
profilo dell’etica. “La rilevanza cosmica di Cristo, la sua funzione creatrice, di
sostegno e finalizzazione di tutto il creato, costituiscono il più solido fondamento
di una teologia della storia e del progresso umano, mentre orientano in maniera
decisiva il significato della prassi storica, sociale e politica dei cristiani” (Ruiz
de la Peňa). La corrispondenza tra creazione e salvezza fa sì che la creazione sia
il primo momento storico-salvifico e l’uomo è chiamato ad essere concreatore di
Dio attraverso il suo impegno personale.
32
7. Lo sviluppo storico-teologico della dottrina della creazione.
Lo sviluppo storico della dottrina della creazione è determinato dal periodico
affacciarsi di due problematiche tendenze di pensiero: il monismo e il dualismo.
Secondo il monismo tutto deriva da un unico principio, talmente pervaso in
quello che produce al punto da confondervisi, in una sorta di panteismo. Il
dualismo, invece, individua un doppio principio, uno del male accanto a quello
del bene.
L’iniziale espansione del cristianesimo nell’ambiente culturale greco-romano
pone evidenti problemi di natura dottrinale, dovuti all’incontro/scontro con il
pensiero ivi dominante. La dottrina cristiana della creazione, infatti, si trova ben
presto a fare i conti con la visione cosmologica (demiurgica) della filosofia
greca, in particolare del platonismo e dello stoicismo.
Per quanto riguarda l’età patristica vanno distinti due momenti: dapprima l’età
subapostolica fino al quarto secolo e un secondo periodo fino al sesto secolo.
Nella fase che va dal primo al quarto secolo la dottrina della creazione
mantiene una sostanziale fedeltà alla Bibbia, conservando lo stretto legame tra
creazione e alleanza o, in altri termini, tra creazione e salvezza. Sulla base delle
lettere paoline viene mantenuto anche il ruolo cosmico di Cristo come principio,
centro e fine della creazione, pur se tutto viene inculturato all’interno della
mentalità greca.
In definitiva si può dire che la prospettiva di fondo è cristocentrica; non si
abbandona il rapporto tra creazione e salvezza, vedendo nella creazione il primo
momento della storia della salvezza, fedelmente a quel che dice la Bibbia.
33
Il secondo periodo si caratterizza per una limitazione della prospettiva
cristocentrica, in quanto la creazione comincia a ricevere una considerazione in
sé e per sé; per esigenza di natura culturale ci si interroga sull’ontologia delle
cose create, distaccandosi parzialmente dalla prospettiva biblica. Ciò avviene
perché nella cultura occidentale tra il quinto e il sesto secolo compaiono
posizioni anticreazioniste, che motivano sul piano naturale la ragione
dell’esistenza e della costituzione degli esseri. Poiché nel mondo greco la
filosofia è il linguaggio utilizzato per comprendere la realtà, per inculturare il
messaggio cristiano ci si mette sullo stesso piano, parlando lo stesso linguaggio,
cercando di mediare i contenuti, lasciando la propria prospettiva per assumere
una ratio filosofica.
L’incontro/scontro viene gestito nei primi secoli dell’era cristiana dai Padri
apologisti, i quali assumono un atteggiamento di conciliazione (Giustino,
Atenagora) o di polemica (Teofilo di Antiochia, Taziano).
Ben presto anche all’interno della comunità cristiana cominciano a diffondersi
errori che minano la genuina dottrina cristiana, come lo gnosticismo e il
manicheismo, di tendenza chiaramente dualista. Ad essi si oppongono grandi
pensatori come Ireneo e Tertulliano (gnosticismo) e Agostino (manicheismo). Fa
eccezione Origene, il quale tende a conciliare cristianesimo e gnosticismo,
cercando di rileggere in versione ortodossa alcuni principi gnostici.
Nel medioevo si ripropongono le riflessioni patristiche ma nell’undicesimo
secolo accade un fatto rilevante riguardo la dottrina della creazione. Nei paesi
balcanici, infatti, nasce un’eresia che presto si trasferisce nell’occidente europeo,
trovando una grande diffusione nel sud della Francia (particolarmente ad Albi),
34
nel nord della Germania (in Renania), e nell’Italia settentrionale. Gli adepti di
questa setta si definiscono “puri” e la relativa eresia verrà chiamata catara o
albigese.
La tesi centrale di questo movimento ritiene che quanto si riferisce alla materia
ha una valenza etica malvagia e deriva da un principio cattivo; opposto alla
materia c’è il mondo dello spirito, che proviene da un principio buono. All’inizio
di tutto, perciò, secondo questa eresia c’è una duplicità di principi che origina le
cose materiali e spirituali, contro la dottrina cristiana che riconosce un unico
principio creatore.
Per rispondere all’eresia albigese viene redatto un intervento magisteriale che
si trova nella costituzione De fidae catholica del Concilio Lateranense IV,
svoltosi nel 1215, dove nella parte sulla creazione ci si oppone alla tendenza
dualistica catara. Nel primo articolo si esprime che Dio è l’unico principio
creatore di tutto ciò che esiste e che la creazione è opera comune del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo, cioè dell’unica sostanza divina.
Ecco il testo del documento: “Crediamo fermamente e confessiamo
semplicemente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente e
ineffabile. Padre, Figlio e Spirito Santo…..unico principio di tutto, creatore di
tutte le cose, visibili e invisibili, spirituali e materiali; con la sua onnipotente
virtù, insieme, all’inizio del tempo, ha creato dal nulla l’una e l’altra creatura,
quella spirituale e quella materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi l’uomo, in
certo modo partecipe di entrambe, composto di anima e corpo. Il diavolo, infatti,
e gli altri demoni sono stati creati da Dio buoni per natura, ma sono diventati
malvagi da sé stessi. E l’uomo ha peccato per suggestione del diavolo”.
35
L’analisi del testo presenta cinque elementi fondamentali.
1. L’unità del principio creatore, per cui, nonostante le persone divine siano
diverse, a creare è l’unica sostanza divina.
2. Per la prima volta in un documento magisteriale si trova la formulazione
della creatio ex nihilo (creazione dal nulla), pur se vari scrittori ecclesiastici la
ammettevano implicitamente nei loro scritti. L’affermazione della creazione dal
nulla va contro l’idea che Dio ha creato le cose da una materia preesistente, in
quanto non esisteva nessuna materia dalla quale potesse venire plasmata l’intera
creazione.
3. La creazione ha la caratteristica della semplicità, secondo l’espressione
“simul ab initio temporis” (l’atto della creazione pone in essere il tempo). Dire
che Dio ha creato nel tempo non significa che Dio ha creato mentre il tempo già
esisteva, ma che nell’azione c’è la creazione di tutto e quindi anche l’inizio della
temporalità.
4. L’atto creatore si estende ugualmente agli esseri spirituali e agli esseri
materiali, ossia Dio è creatore di tutto quanto esiste.
5. L’origine del male non è di natura ontologica, perché Dio ha creato tutto
buono (ottimismo antropologico), ma è di natura etica; sono i demoni che, creati
buoni, hanno preso la strada del male, pervertendo la loro azione.
Queste definizioni fondamentali vennero redatte in forma molto essenziale,
senza ulteriori commenti magisteriali, e risulteranno di tale importanza che i
concili seguenti nel trattare l’argomento della creazione non sentiranno il
bisogno di usare altre formulazioni, tanto che il Concilio Vaticano I nel 1870
quando parla della creazione rimanda esattamente al Concilio Lateranense IV.
36
Le affermazioni fondamentali sono formulate da un punto di vista filosofico,
però il Concilio Lateranense IV in modo intelligente ha preso questi elementi e li
ha centralizzati all’interno di una professione di fede, tanto che all’inizio del
documento è scritto “crediamo fermamente e confessiamo semplicemente”.
Quindi nella formulazione conciliare c’è un incontro di fides e ratio, una forte
simbiosi tra la contestualizzazione storico-salvifica e quella filosofica, donde
l’esempio di come alcune affermazioni che facevano ormai parte del linguaggio
comune potevano essere poste all’interno di un contesto proprio.
A partire dall’undicesimo secolo la teologia entrò nelle università ed assunse il
linguaggio aristotelico, in quanto, attraverso gli arabi, Aristotele viene
conosciuto in Europa. A causa di ciò il discorso sulla creazione si sposta su un
piano ontologico, come emerge nella riflessione di Tommaso che produce un
cambiamento di prospettiva nell’approccio al tema della creazione: “dal suo
nativo inquadramento teologico verso un orizzonte filosofico, che farà di essa un
discorso sempre più razionale e meno di fede” (Ruiz de la Peňa). Occorre
comunque sottolineare che la terminologia “meno di fede” vuole solo significare
una minore ambientazione nella prospettiva storico-salvifica.
La seguente età moderna è caratterizzata da grandi mutamenti culturali, che
divengono determinanti in ordine allo sviluppo di alcuni temi teologici. Il motivo
di tali cambiamenti va ricercato nelle scoperte geografiche ed astronomiche,
nell’affermarsi del pensiero antropocentrico, nell’abbandono della metafisica,
nella nascita del pensiero secolare, nella comparsa del protestantesimo, nello
sviluppo della cultura illuminista. L’approccio razionale si estremizza perché si
vive in un contesto culturale in cui la ragione viene deificata; di conseguenza la
37
dialettica si attua nel linguaggio della razionalità. La creazione non si studia più
come dono, come primo momento storico-salvifico, ma si esamina in sé e per sé,
nell’ambito della cosiddetta teologia naturale.
L’uomo è il punto di riferimento e le cose prendono valore sempre più in
riferimento a lui piuttosto che a Dio. La cultura antropocentrica mette in
evidenza il valore dell’individuo, col passaggio da una mentalità incentrata
sull’oggettivo ad una maggiormente soggettiva.
In una cultura individualista, la prospettiva sostanzialista, essenzialista, tipica
della metafisica, entra in crisi, fino ad essere rifiutata. Nasce il pensiero secolare,
compare la crisi protestante che porta nell’ambito religioso il soggettivismo di
fondo, da cui deriva un’interpretazione individualistica della Scrittura.
Successivamente, ad ulteriore scapito della metafisica, c’è il pensiero
illuminista, col primato delle scienze, dell’empirico, dove si considera tutto ciò
che esiste sotto il profilo cosmologico, nel senso stretto del termine; si comincia
a sviluppare il pensiero evoluzionistico con Lamarck, cui alcuni decenni dopo
farà seguito la teoria di Darwin.
In questo rinnovato contesto la teologia della creazione si inquadra in una
cornice che estremizza la prospettiva razionale assunta nei secoli precedenti con
la teologia naturale. Nasce il trattato De Deo creatore, che argomenta più in
senso metafisico che biblico, cercando di rispondere alla dialettica illuministica
con la ripresa di temi metafisici forti, pur assumendo gli stessi criteri del contesto
culturale dell’epoca.
Il diciannovesimo secolo vede il ritorno dell’impostazione apologetica, in
quanto ci si accorge che occorre recuperare il discorso biblico messo in dubbio
38
dal positivismo e dall’illuminismo. Nel mettere insieme le due prospettive c’è il
rischio di cadere nel concordismo, che tenta di far combaciare i dati biblici con
quelli scientifici. Ma la Bibbia dice perché esiste il mondo e non com’è fatto, la
qual cosa è oggetto specifico della scienza.
Prendiamo il caso dell’evoluzione secondo cui le cose che sono, progrediscono,
migliorano e dal meno evoluto si va verso il più evoluto. Papa Giovanni Paolo II
in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze sottolineò che
l’evoluzione è più che un’ipotesi, anzi è un dato ormai davanti agli occhi di tutti.
Ci sono però alcuni evoluzionisti, i cosiddetti darwinisti e neodarwinisti,
secondo cui tutto è evoluzione, nel senso che tutto si è prodotto per caso e non
esiste un principio creatore, perché ci si può fondare solo sui dati della scienza.
Di contro altri, detti creazionisti, credono che tutto è stato fatto da Dio (e fin qui
nessun problema) ma ritengono anche che tutto è stato creato così da sempre,
interpretando la Scrittura in chiave fondamentalista. Per dimostrare le loro
ragioni cercano di fare un’operazione di concordismo, dimostrando che, ad
esempio, i sei giorni della creazione corrispondono alle ere di sviluppo della
Terra, mentre col big bang si intende spiegare il caos informe e primordiale di
cui parla la Genesi. Negli U.S.A. lo scontro tra creazionisti ed evoluzionisti ha
avuto addirittura strascichi sul piano legale.
La teologia, sorretta ormai da prevalenti ragioni speculative, si impegna a
dimostrare che la creazione è una verità che si può comprendere con la forza
della ragione. Da qui nasce il semirazionalismo di G. Hermes e A. Gunther, che
tentarono un’opera di concordismo mettendo insieme i dati biologici con le idee
39
proprie dell’idealismo del tempo. Questa corrente venne condannata dal Sinodo
Provinciale di Colonia del 1860.
In questo contesto si situano le definizioni dogmatiche del Concilio Vaticano I,
che nella costituzione apostolica Dei Filius (Figlio di Dio) dedica un capitolo
all’esposizione della dottrina del Dio creatore, condannando il panteismo che
elimina la distinzione tra il creatore e la creatura, ed il materialismo, secondo cui
tutto esiste indipendentemente da Dio. La costituzione riprende la dottrina della
creazione definita dal Concilio Lateranense IV, precisando gli aspetti che erano
stati messi in questione dal semirazionalismo, ossia il carattere libero dell’atto
creatore contro la dialettica dell’idealismo, la provvidenza e la gloria di Dio
intesa come compimento di tutta la creazione. Molte questioni, tuttavia,
rimangono irrisolte.
Il ventesimo secolo vede la celebrazione del Concilio Vaticano II, che nella
Gaudium et Spes offre un apporto decisivo al tema. Qui non c’è una definizione
sulla creazione ma il discorso sulla realtà creata viene affrontato in un respiro
storico-salvifico di grande portata.
Nel nostro tempo, inoltre, l’attenzione alla questione ecologica e la ripresa del
dialogo con le scienze della natura hanno permesso di maturare teologicamente il
tema della creazione.
40
8. La dottrina della creazione: riflessione sistematica.
Una sistematica della dottrina della creazione deve avere come riferimento
sostanziale la teologia cristologico-trinitaria. Alla luce della realtà impersonale di
Dio, infatti, si possono comprendere la possibilità e il senso di tutta la realtà
creata.
Tutto questo è esigito per tre ragioni. La prima è di ordine scritturistico. Infatti
la Bibbia suggerisce la centralità dell’evento Cristo, intesa ovviamente in senso
logico e non cronologico. Per comprendere il significato della creazione non ci si
può fermare solamente al testo della Genesi, ma occorre guardare anche al ruolo
decisivo che Cristo ha assunto nell’atto creatore, come riportato nel prologo
giovanneo e in alcune lettere paoline (Ef, Col, Cor).
Un secondo motivo è di ordine teologico. La creazione è un mistero della fede
e non una realtà pienamente comprensibile da un punto di vista razionale. Quindi
occorre evitare gli errori del passato quando, specialmente nel contesto
illuminista dominato dalla razionalità, si volle fare teologia naturale, ricorrendo
alle affermazioni filosofiche o della scienza per dimostrare la creazione. Il senso
di questo mistero va sempre cercato nella Parola di Dio e non in una particolare
visione scientifica.
L’ultima ragione è di ordine storico. Nell’età moderna il punto di partenza per
illustrare la creazione era partire dalle cose create e vedere il perché
dell’esistenza, andando a ritroso di causa in causa fino a dire che tutto ha un
principio in Dio. Si partiva, perciò, dal fondamento e si cercava di spiegare tutto
in base alla fede.
41
In una prospettiva storico-salvifica, però, il punto di partenza è altro e non le
cose create; essendo il mistero della creazione un dato di rivelazione occorre
considerare inizialmente la Parola di Dio, per cui non si parte dalla realtà per
arrivare alla fede ma dal dato di fede per raggiungere l’illuminazione della realtà.
Fissati i contenuti di ordine metodologico, è possibile trattare quelli teologici.
L’origine di tutto quanto esiste è Dio uno e trino. La realtà che agisce ad extra,
ossia al di fuori della Trinità, è l’unico principio di quanto esiste, che rappresenta
l’azione ad extra della realtà stessa di Dio, nella sua unità sostanziale e nella sua
comunione pericoretica. Dio non si scinde nella sua azione ad extra ma è sempre
lui che agisce, anche se vanno riconosciute delle attribuzioni particolari alle tre
persone. Ad esempio, nel dire che Gesù ci salva si sottintende che all’opera sono
anche il Padre e lo Spirito (grundaxiom di Rahner, secondo cui la Trinità
immanente è quella economica).
A questo punto ci si può chiedere se nella creazione si può riconoscere una
particolarità per ciascuna delle tre persone. Per rispondere correttamente a questa
domanda occorre richiamare la realtà trinitaria all’interno della sua unica natura,
con le tre persone distinte in una sola sostanza. L’unica natura divina conviene a
tutte e tre le persone secondo un certo ordine. Il Padre possiede la divinità e non
la riceve da nessuno, perciò è la sorgente della divinità. Anche il Figlio possiede
la natura divina ma in quanto la riceve dal Padre; non a caso si dice che è
generato dal Padre (secondo la Scrittura “Egli è l’immagine perfetta del Padre”).
Pure lo Spirito ha la natura divina ma la riceve sia dal Padre che dal Figlio, in
quanto procede da essi; è il vincolo d’amore, il legame personalizzato tra il Padre
e il Figlio.
42
Anche la potenza creatrice conviene sempre alle tre persone, perché ogni atto
che Dio compie ad extra è sempre opera delle tre persone divine. Ma nella
creazione c’è, comunque, un ordine, pur se la virtus creandi appartiene a tutti. Il
Padre non riceve da nessuno la potenza creatrice, il Figlio riceve la virtù creatrice
dal Padre, lo Spirito da entrambi. Perciò, nonostante l’ordine diverso con cui Dio
si manifesta ad extra, la creazione è un prolungamento dell’agire trinitario di
Dio. In altre parole, è come se si ripresentasse nello spazio e nel tempo quanto
avviene nella realtà trinitaria, per cui ciò che è al di fuori è un riflesso di ciò che
è all’interno della vita stessa di Dio.
Questa continuità, comunque, non significa omogeneità perché se tra quello
che c’è fuori e quello che c’è dentro c’è uguaglianza di natura, allora ci sarebbe il
monismo. Se, invece, si ammette che non c’è alcun vincolo, per cui Dio e la
creazione sono totalmente diversi, allora si avrebbe il dualismo. Nel dire
“continuità”, perciò, si evitano tutti i problemi che si sono avuti nello sviluppo
storico-teologico della creazione.
Ma perché Dio agisce ad extra dando vita al mondo? Una prima risposta
consiste nell’ammettere l’impossibilità di un qualsiasi ragionamento ma in tal
modo si rischia di entrare in una logica apofatica. In una visione più articolata si
cerca una comprensione basata sulla Scrittura, secondo la quale tutto quanto è
uscito dalle mani di Dio è frutto di una sua azione assolutamente libera e
gratuita. Questo significa che non c’è necessità da parte di Dio di creare, quindi
ciò che esiste è voluto liberamente e gratuitamente da Dio, che ha creato esseri
diversi da lui dando loro una consistenza ontologica ed una relativa autonomia.
43
Quest’azione non arricchisce Dio né lo impoverisce perché Dio basta a sé
stesso, in quanto le relazioni intratrinitarie sono a lui più che sufficienti. Occorre
considerare, però, che le tre persone nella creazione allargano la loro comunione,
ampliando il dialogo al punto da ammettere in esso anche ciò che non è
necessario alla vita trinitaria. Dio non rimane come atto puro aristotelico, ma
mettendo fuori qualcosa di sé coinvolge la creazione in una comunione che
comprende anche ciò che non è necessario e dovuto, facendola in qualche modo
partecipe della vita infinita delle tre persone. Non a caso gli antichi scoprivano
nella creazione tracce di Dio (vestigia dei), come conferma Paolo, che nella
lettera ai Romani sostiene che anche i pagani possono avere un riflesso di Dio
proprio a partire dalle cose create.
A questo punto conviene caratterizzare meglio le tre persone nell’ordine della
creazione, partendo da alcune frasi del Simbolo niceno-costantinopolitano.
a. “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di
tutte le cose visibili e invisibili […..]”.
La perfezione dell’essere e dell’amore del Padre sono all’origine non soltanto
dell’eterna, immanente e assoluta comunicazione della vita divina nell’unigenito
Figlio, ma anche della libera donazione dell’esistenza alle creature finite. E’ il
concetto filosofico e teologico della creatio ex nihilo, con cui si intende che
l’origine di tutto quanto esiste è Dio.
Ma se Dio ha creato dal nulla, ciò significa che tra lui e l’uomo esiste una
differenza perché Dio è il creatore e l’uomo è stato creato. L’uomo si relaziona a
Dio in termini di dipendenza, proprio perché la creatura dipende dal creatore e
per tale motivo l’autonomia dell’uomo è sempre relativa e mai assoluta. Questa
44
dipendenza è di tipo salvifico, in quanto l’uomo riceve da Dio vita e
sostentamento.
b. “Credo in un solo Signore, Gesù Cristo[…..] per mezzo di lui tutte le cose
sono state create […..]”.
Ogni comunicazione dell’esistenza ad extra di Dio (creazione) ha per modello
e fondamento l’eterna comunicazione della vita divina dal Padre al Figlio. In
quanto Dio, Cristo è, con il Padre e con lo Spirito, autore della creazione.
Il Figlio proviene in eterno dal Padre (“generato non creato”), dove “eterno”
non va inteso in un ordine temporale che non si addice a Dio. Con la generazione
da parte del Padre si intende un movimento intrinseco di uscita nella generazione
del Figlio, in un’esplosione di bene assoluto; questo eterno provenire del Figlio
dal Padre è la causa per cui Dio dona ogni vita.
Nel dire che Dio Padre ci crea per mezzo del Figlio si vuol intendere che è
proprio il Figlio a sacramentalizzare, a mediare l’azione ad extra di Dio. Il Padre
non fa mai qualcosa fuori di sé senza passare attraverso il Figlio, che è lo
strumento del Padre. Lo stesso termine con cui noi siamo definiti, “figli nel
Figlio”, esprime la mediazione di Gesù Cristo.
Se la creazione è posta in essere dal Padre per mezzo del Figlio, la realtà creata
ha un carattere di ricettività, di accoglienza. Allora la creazione deve avere una
qualità per forza buona perché quello che è fatto per mezzo di Gesù Cristo non
può essere cattivo.
c. “Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita”.
Lo Spirito, nel quale Dio Padre, per mezzo del Figlio, dona l’esistenza alle
creature e nel quale tutto viene ricondotto all’unità, può essere considerato come
45
il garante dell’alterità, della libertà, dell’autonomia della creatura. Se la
creazione è opera del Padre per mezzo del Figlio nello Spirito, allora è possibile
solo come frutto dell’amore di Dio ed è il riflesso del legame di amore trinitario.
Nell’interno della Trinità lo Spirito garantisce la comunione tra Padre e Figlio
al punto tale che lui stesso è inserito nella comunione. Ponendo il discorso
all’esterno, lo Spirito è colui che garantisce il rapporto tra Dio e la sua creazione;
questa relazione è la creazione continua, il sostegno dell’essere, il legame di
dipendenza tra creatore e creatura.
Ma allora Dio, come creatore continuo di tutta la realtà, è anche provvidente,
perché sostiene nell’essere e non fa mancare mai nulla alla creazione, guidandola
verso il suo fine, che è la gloria di Dio, ossia la compiutezza escatologica.
46
9. L’uomo come creatura di Dio, centro dell’antropologia cristiana.
Dal discorso sulla creazione in genere passiamo alla creazione specifica
dell’uomo.
L’affermazione di fede circa la creaturalità dell’uomo chiede di venire
esplicitata nel senso di una comprensione più puntuale di ciò che è l’uomo
riguardo le sue strutture fondamentali. L’uomo, in quanto creatura di Dio, ha
delle caratteristiche proprie che lo rendono capace di dialogo in libertà non solo
con il suo Creatore, ma anche con i suoi simili e con le altre creature.
Tale condizione ontologica è pienamente rivelata nell’evento dell’incarnazione
di Gesù Cristo, l’immagine di Dio per eccellenza, l’uomo completo del quale
Adamo era un semplice abbozzo. In Cristo si comprende la vera vocazione
dell’uomo e ciò rappresenta l’elemento che distingue l’umanesimo cristiano da
altri progetti umanistici di marca laica e che difende lo stesso uomo da ogni
forma di antiumanesimo esistente oggi nella cultura postmoderna.
9.1. L’uomo creato a “immagine di Dio” nelle Scritture.
A. L’uomo è creatura di Dio. L’affermazione fondamentale è contenuta nelle
due narrazioni sulla creazione dell’uomo (Gen 2-J; Gen 1-P). A parte alcune
differenze redazionali, i documenti convergono teologicamente su alcuni dati.
a. In quanto creato da Dio a sua immagine, l’uomo ha una dipendenza assoluta
dal suo Creatore, in una relazione fondativa per ogni uomo inscritta nello stesso
47
atto della creazione, tanto che non ci sarebbe la creatura se non ci fosse il
Creatore. La creatura viene sostenuta nell’essere dal Creatore, per cui quando la
Scrittura dice che l’uomo è creato a “immagine di Dio” vuole immediatamente
rimandare alla relazione di dipendenza creatura-Creatore.
Secondo la Scrittura, il rapporto uomo-Dio è il primo significato contenuto
nell’idea di immagine, fondativo al punto che se l’uomo dovesse venir meno a
questo rapporto allora verrebbe meno a sé stesso, perderebbe la sussistenza, il
significato di sé sul piano ontologico e non comunque sul piano biologico.
L’immagine intende che l’uomo è voluto da Dio come partner, come un “tu” in
relazione a “Lui”.
b. La relazione di dipendenza dell’uomo da Dio fonda la superiorità umana sul
resto del creato. Nel libro della Genesi si trovano due frasi molto esplicative al
riguardo :”dominerai sui pesci del mare, gli uccelli del cielo” e “soggiogherai la
terra”, per cui nell’ambito dei viventi c’è questa creatura eccelsa (Salmo 8: “lo
hai fatto poco meno degli angeli”
I verbi usati (“dominerai”, “soggiogherai”) non significano che la superiorità
dell’uomo debba essere esercitata sul creato in termini dispotici per disporre a
proprio piacimento di quanto esiste, ma vogliono intendere un servizio verso la
creazione. La radice ebraica dei verbi usati, infatti, rimanda all’azione del pastore
nei confronti del suo gregge.
Questo significa che l’uomo oltre ad essere in relazione verticale con Dio è
anche in relazione orizzontale verso il creato. L’uomo è un mediatore tra Dio e la
creazione e attraverso la sua risposta porta a Dio la risposta della creazione.
48
Nel distruggere la creazione con danni ambientali si svolge un’azione
eticamente malvagia anche sotto l’aspetto della giustizia e della pace, che vanno
insieme alla salvaguardia del creato. La natura non è un semplice habitat come
per l’animale ma è costitutiva dell’essere umano, tanto che nel deturparla l’uomo
rovina una parte costitutiva di sé.
La superiorità non indica un potere assoluto e dispotico dell’uomo nei
confronti della creazione, ma una qualità “ontologica” che lo rende responsabile
di tutto quanto esiste. L’uomo, in altre parole, è il gestore responsabile della
creazione per Dio, in una visione antropocentrica della realtà creata.
c. L’uomo non è solo in relazione a Dio e al mondo, ma anche al suo simile.
Egli è posto in relazione di uguaglianza con il suo simile (tu) che rende possibile
la rispettiva singolarità (sé stesso nella relazione all’altro). L’uomo da solo non
riesce a capire sé stesso e per riconoscersi lo può fare solo in relazione con la
donna.
Come disprezzando il creato si disprezza Dio, nel disprezzare l’altro si
disprezza il rapporto con Dio, tanto che dopo il peccato accade subito che Abele
viene ucciso da Caino. La relazione interumana è una mediazione della relazione
trascendente uomo-Dio, che viene sacramentalizzata dalla relazione con l’altro.
In Matteo 25 (“avevo fame…..è come se l’avrete fatto a me”) è ben spiegato
come nessuno può dire di amare Dio che non vede se non ama i fratelli che vede.
La relazione col proprio simile non è indifferente perché è una relazione
sessuata; ci si relaziona all’altro sempre come maschio o come femmina, con la
propria identità sessuale. Questo concetto di relazione secoli dopo sarà
recuperato col forte concetto di persona, che in sostanza è un essere in relazione.
49
d. L’idea di uomo che così emerge è lontana da ogni forma di dualismo
antropologico. L’essere umano è una realtà unitaria a struttura dialogica. Non c’è
una parte dell’uomo che non si mette in relazione; non c’è una parte buona e una
cattiva, dal che nella Bibbia emerge un ottimismo antropologico. L’odio, il male
rappresentano l’anticreazione.
e. I due racconti della Genesi non intendono fornire informazioni scientifiche
sull’uomo e tantomeno eventuali descrizioni sul come e il quando della creazione
dell’uomo.
f. I due racconti non intendono dare una definizione dell’uomo ma una sua
descrizione funzionale. Alcuni elementi di tipo ontologico si possono solo
dedurre per accostamento: l’uomo come unità, come essere contingente, come
essere in relazione.
g. La cornice della creazione in genere e quindi anche dell’uomo è
evidentemente storico-salvifica. L’uomo è stato creato perché sia in relazione
con Dio in un rapporto di alleanza, che impegna la libertà, fondamentale nella
relazione, altrimenti non sarebbe una predeterminazione ma un predeterminismo.
B. Nel Nuovo Testamento interviene l’evento decisivo di Gesù Cristo, l’uomo
completo del quale Adamo era un abbozzo. In questo evento si può comprendere
come l’uomo è creato a immagine di Dio in Cristo, la vera immagine di Dio. Dio
ha creato tutto avendo come riferimento Cristo, che nella sua umanità quando
storicamente viene nella carne si presenta come uomo perfetto.
50
Con il Nuovo Testamento si ha una svolta cristocentrica dell’antropologia (cfr.
la teologia paolina). Cristo è immagine archetipa, in modo completo,
primogenito di tutta la creazione, in quanto la riassume e le conferisce
consistenza.
“Da questo momento il destino dell’uomo non è più essere immagine di Dio,
ma immagine di Cristo. O, meglio ancora, l’unico modo in cui l’uomo può
arrivare bad essere immagine di Dio è riproducendo in sé stesso l’immagine di
Cristo […]. Il carattere processuale della partecipazione all’immagine-gloria
del Signore […] si orienta verso il termine escatologico della configurazione
con Cristo per mezzo della risurrezione” (J. L. Ruiz de la Pena).
L’immagine di Dio è un qualcosa di dato ma non un qualcosa di compiuto,
altrimenti non ci sarebbe neanche il tempo della storia; l’uomo è stato orientato
verso il compimento, è stato posso in essere come un “homo viator”. La pienezza
dell’immagine di Dio è la meta e viene raggiunta nell’evento Gesù Cristo, che è
l’immagine di Dio perfetta; infatti Gesù Cristo rivela non solo Dio ma anche chi
è l’uomo.
In Gesù l’uomo vede pienamente svelato il progetto di Dio sull’uomo. Allora,
siccome Gesù Cristo è la mediazione di Dio ed è l’uomo perfetto, se l’uomo
vuole diventare immagine di Dio, deve diventare anzitutto immagine di Cristo.
L’immagine protologica di Dio tramite l’immagine di Cristo ci fa raggiungere
l’immagine escatologica di Dio.
51
Questo discorso ha un carattere processuale in un processo di conformazione a
Cristo, di diventare figlio sia pure adottivo: è il cammino della figliolanza, che
trova in Gesù Cristo il modello per raggiungere la pienezza dell’umanità. Per
diventare pienamente uomo in tutte la sua potenzialità non occorre far altro che
conformarsi a Cristo, andando alla sua sequela, vivendo il battesimo, facendo
questo cammino nella condizione in cui Dio ha voluto ciascuno di noi, nella sua
specifica vocazione.
Questo processo di conformazione a Cristo va compiuto nella Chiesa ed ha
perciò un carattere ecclesiologico. A spingere l’uomo in questo cammino di
perfezione è lo Spirito Santo.
9.2. Le strutture basilari dell’uomo creato.
La concreta idea biblica dell’essere umano creato da Dio a sua immagine è
riflessa nella sua descrizione come unità psicosomatica e come essere in
relazione.
Nella Scrittura non si trova mai una definizione astratta-filosofica, perché il
discorso biblico è di tipo storico-salvifico. Pur se non c’è una teologia o
un’antropologia nel senso stretto del termine, dalla tradizione si sa che l’uomo è
sempre definito come un essere dotato di corpo e anima.
9.2.1. L’uomo come essere unitario e in relazione.
Anzitutto occorre ricordare che la mentalità ebraica e del vicino e medio
oriente antico ha un modo di approcciare la realtà unitario, concreto, olistico, per
cui l’agiografo non usa il termine “uomo” ma delle accezioni che corrispondono
52
ai suoi organi vitali. Perciò, pur volendo indicar un individuo nella sua
completezza, nella Scrittura si trovano termini quali soffio vitale, carne, cuore,
fegato, reni, a voler cogliere l’uomo in particolari situazioni esistenziali ma
comunque sempre intendendolo nella sua unitarietà.
Il primo termine da considerare è nefes, una parola che, pur indicando tutto
l’uomo, ha comunque un significato piuttosto complesso. Normalmente viene
tradotto in greco con psychè e in italiano con anima.
Originariamente nefes significava gola, da cui per metonimia il senso traslato
di respiro, soffio, alito. E se si parla di respiro ovviamente ci si riferisce
all’essere vivente, per cui nefes indica il dinamismo della vita. Nel testo di Gen
2, 7 quando è scritto che Dio alitò sull’uomo per dargli vita si usa proprio il
termine nefes, a significare che l’uomo è diventato un essere vivente.
Nel qualificare l’uomo come nefes, gli ebrei volevano intendere la profondità
dell’essere vivente e non il respiro come solo atto fisico. L’alito di vita è
traducibile anche come la consapevolezza di essere un vivente, per cui nefes
speso indica anche la coscienza, ma non nel senso etico del termine bensì come
consapevolezza dell’uomo di essere un vivente, di avere una particolare
fisionomia nel mondo creato rispetto agli animali che respirano ma non hanno
consapevolezza di respirare e quindi di vivere.
Indicando l’uomo in questo modo, la Scrittura non dice che l’uomo ha una
nefes ma che l’uomo è nefes, è consapevolezza, è vita e non che ha
consapevolezza o che ha vita. Quindi c’è un’attribuzione personale al punto tale
che l’uomo è identificato col termine, tanto che con la morte non ha più nefes.
53
In definitiva, questa accezione si riferisce a un uomo che vive sulla base di un
principio vitale, un uomo colto nella sua situazione di essere vivente. Occorre
comunque tener presente che nefes è un termine biologico e non dice nulla di
etico e di teologico.
Un secondo termine usato è basar. La traduzione greca è sarx, mentre quella
italiana è carne e qualche volta corpo. Come nefes, anche basar indica qualcosa
in comune con gli animali perché anche loro hanno la carne.
Quando la Scrittura indicare l’uomo non dice che ha un basar, ma che è basar,
è carne, è corpo. Con ciò si vuole senz’altro dire tutto l’uomo, pur se colto nella
sua dimensione di fragilità materiale. Infatti, in quanto carne, l’uomo è destinato
alla fine.
Accanto alla fragilità materiale c‘è anche una fragilità etica. L’uomo è basar
quando si chiude alla relazione con Dio e con gli altri, tanto che il termine può
indicare l’uomo nella sua dimensione di manchevolezza, di peccato.
Il terzo termine da considerare è ruah, normalmente tradotto con soffio o
spirito. In ebraico questo termine è femminile; in greco, tradotto con pneuma, è
diventato maschile, mentre in latino è neutro.
La ruah è il termine forse più significativo, caratteristico e primordiale
dell’antropologia ebraica. E’ il soffio donato dall’alto perché l’uomo possa
essere un vivente, è l’azione del Dio che dona la vita; è il soffio vitale non nel
suo esplicitarsi ma alla sua fonte.
54
Sulla base di questo aspetto l’uomo è naturalmente aperto a Dio, è capace di
relazioni trascendenti. Se l’uomo si rivolge al Creatore è proprio perché Dio gli
ha dato questa possibilità con la ruah.
Ad aprirsi a Dio è tutto l’uomo, non solo la sua mente, ma l’interezza del suo
essere; in tal modo si comprende, ad esempio, quale importanza ha la funzione
del corpo nella preghiera, un aspetto oggi piuttosto trascurato.
Dopo aver esaminato in dettaglio i tre termini, è bene sempre ricordare che
questi, pur volendo distinguere le concrete situazioni che l’uomo vive, intendono
cogliere l’uomo tutto intero, nella sua unità psicosomatica, multidimensionale e
dinamica, pur se ci sono situazioni in cui manifesta solo alcuni aspetti del proprio
essere. Questo perché l’antropologia biblica è sintetica, olistica e nella Scrittura
non esiste un concetto dualistico, dicotomico dell’essere umano, inteso come
corpo e anima che si sovrappongono, come se il corpo venisse da una parte e
l’anima dall’altra.
Sulla base di quanto detto si potrebbe accentuare il monismo di un essere
umano. In realtà questo non può avvenire perché l’uomo in ogni situazione
antropologica è un essere in relazione. La sua è un’esistenza dialogica che si
esprime nella triplice relazione di dipendenza da Dio, di superiorità sul mondo
(intesa non come dominio ma in senso pastorale), di uguaglianza al “tu” umano.
Delle tre relazioni, la più importante è quella teologale, da cui dipendono le altre.
Nel Nuovo Testamento le cose si svolgono in modo analogo, pur con qualche
differenza nella traduzione dei termini. Poiché il Nuovo Testamento è scritto in
greco, nefes viene usualmente tradotto con psyché, che a sua volta è tradotto con
55
anima, pur se questo termine non corrisponde in pieno a quel che si intende
comunemente. Ad esempio, quando Gesù dice “non abbiate paura di quelli ch
uccidono il corpo ma di quelli che uccidono l’anima”, non bisogna pensare alla
coppia corpo-anima in senso dualistico; nfatti Gesù non si riferisce all’anima
dell’uomo, ma al concetto di nefes proprio dell’Antico Testamento, intendendo
di aver timore di coloro che possono uccidere non solo una parte ma il tutto.
Anche quando dice “chi avrà trovato la sua vita la perderà e chi perderà la sua
vita per causa mia la troverà”, viene usato il termine psyché con cui si ci si
riferisce alla vita umana in generale.
Nel Nuovo Testamento il termine basar viene tradotto con sarx, che compare
147 volte, 91 delle quali viene usato da Paolo. Anche qui sarx non significa
carne in senso stretto ma può variare in base al contesto in cui viene collocato,
riferendosi alla carne in senso biologico o alla sua dimensione di fragilità. Ad
esempio quando Luca dice “ogni carne vedrà la salvezza” si riferisce a tutto il
genere umano, mentre quando Paolo dice ”non camminate secondo la carne
perché la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito”, volendo intendere
che non bisogna camminare nel peccato.
Spesso Paolo con sarx indica il contrasto dell’uomo nel suo rapporto con Dio
(Rm 8, 4-8: “non camminiamo secondo la carne ma secondo lo spirito”; Rm 12,
13: “poiché se vivete secondo la carne morirete”, dove il termine “morirete” non
indica la morte biologica ma il perdersi nel peccato; Gal 5, 16-26 “vi dico
dunque: camminate secondo lo spirito così non sarete portati a soddisfare i
desideri della carne; la carne, infatti, ha desideri contrari alo spirito e lo spirito
desideri contrari alla carne”).
56
Nella letteratura paolina c’è un passo della lettera ai Tessalonicesi, spesso letto
nella Compieta (“tutto quello che è vostro, spirito, anima, corpo…..”). di
particolare interesse perché sembra parlare di una tricotomia antropologica di
spirito, anima e corpo. Le sue interpretazioni si possono suddividere in due
blocchi sostanziali: secondo alcuni esegeti Paolo qui è stato molto influenzato
dall’ambiente greco, in cui non esisteva solo la sarx ma anche il concetto di nous
aristotelico (mente, spirito), mentre secondo altri Paolo è fedele al mondo
biblico, cui appartiene.
Per coloro che sostengono una derivazione ellenistica, corpo, anima e mente
dovrebbero tradursi con soma, psyché e pneuma; ma per quest’ultimo termine
Paolo utilizza il concetto di nous lasciandosi influenzare dal concetto platonico-
aristotelico.
Per gli ebrei, invece, l’apostolo si sarebbe riferito all’antropologia biblica,
indicando l’anima con due termini diversi, psyché e pneuma, che comunque a
detta di alcuni esegeti coincidono, pur possedendo caratteri diversi.
A tale proposito l’insigne studioso paolino Stanislao Lyonnet dice: “Paolo non
sembra interessato in questi testi agli aspetti filosofici della questione; egli
utilizza i termini greci correnti [perché scrive alla comunità di Tessalonica] ma
senza dar loro necessariamente il significato preciso che davano i filosofi greci.
In conclusione, a parte un rivestimento linguistico, non compare alcuna
concezione greca dell’antropologia. Esso conserva la visione biblica dell’uomo
colto nella sua interezza e completezza”.
57
Nella traduzione italiana, comunque, non è scritto mente, anima e corpo, ma
giustamente spirito, anima e copro, termini che vengono sempre e comunque
indicati da nefes, basar e ruah.
9.2.1. L’uomo come essere unitario e in relazione.
Alla luce di Cristo, l’uomo comprende sé stesso in modo completo nel suo
essere in relazione. L’esperienza storica di Gesù, così come emerge in particolare
dai vangeli, rivela il suo essere uomo che vive automaticamente le relazioni con
il Padre, con gli altri uomini e con l’intero creato. Gesù compie Adamo, per cui
l’uomo, se vuole essere autenticamente tale, deve imitare Gesù, la vera immagine
di Dio.
Il Nuovo Testamento suggerisce un’antropologia della sequela. La salvezza è
intesa come pienezza dell’umanità: l’immagine di Dio viene raggiunta dall’uomo
attraverso il suo cammino di conformazione a Cristo, nella forza dello Spirito,
che ci porta a Cristo e che ci guida fino al compimento dei tempi.
58
10. Sviluppo storico-teologico della dottrina sull’uomo come creatura di Dio.
Già a partire dall’epoca patristica, le idee cristiane sull’uomo devono
confrontarsi con la cultura antropologica dualistica dominante in Occidente. La
fedeltà alla Scrittura è la regola fondamentale, ma non sempre tale operazione
riesce, anche se il pensiero antropologico dualistica cozza inevitabilmente contro
le tesi centrali del cristianesimo: incarnazione, redenzione, resurrezione della
carne. Nell’ambito delle dispute trinitario-cristologiche si affaccia il concetto di
persona, che trova il suo vero sviluppo a partire dall’età medievale, mentre la
situazione si complicherà molto nell’età moderna.
10.1. L’antropologia patristica.
Per discutere approfonditamente questo aspetto conviene prendere inizialmente
in considerazione due brani della Genesi.
Gen 1, 26: “E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza e domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su
tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’”.
Gen 2, 7: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò
nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”.
Il contesto biblico di fondo entro cui si colloca il pensiero patristico sull’uomo
è dato da questi due testi, dal che emergeranno due diversi punti di vista riguardo
la concezione dell’uomo.
59
Anzitutto occorre considerare che i Padri devono tenere conto che il vangelo va
annunciato in un ambito culturale diverso da quello originario. Quasi tutti i Padri
della Chiesa delle origini sono molto sensibili al dato della cultura greco-romana,
tanto che alcuni (si pensi a Giustino), sono pagani convertiti.
In questo processo di inculturazione del messaggio biblico molti Padri
recepiscono lo schema dicotomico del pensiero sull’uomo inteso come composto
di corpo e anima, tipico della cultura greco-romana. Pur aderendo a quel
linguaggio, comunque, i Padri non ne recepiscono i contenuti, per cui non
arriveranno mai ad una frattura tra corpo e anima, rispettando l’unità nella
dualità.
In realtà questo schema dualista non è esclusivo della cultura greco-romana ma
anche di quella concezione cristiana che vedeva la presenza di due principi
all’origine del bene e del male, quale la gnosi cristiana che professa
un’antropologia dualista, dove a causa di un peccato originale dell’uomo l’anima
è imprigionata nel corpo.
Pur conservando fondamentalmente una visione unitaria dell’uomo, alcuni
Padri, essendo più vicini al mondo biblico, semitico, accentuano la visione
materiale dell’uomo (tradizione antiochena), a differenza di coloro che, più vicini
al bacino culturale ellenistico, accentuano la visione spirituale (tradizione
alessandrina).
La tradizione antiochena ha come punto di partenza la cristologia, vista come
principio ermeneutico di una nuova antropologia dove l’elaborazione del
pensiero è molto fedele al dato biblico. L’esponente più emblematico di questa
60
scuola è Ireneo di Lione, che parla spesso del Verbo incarnato, riconducendosi a
Gen 1, 26 dove l’uomo è inteso nel suo concetto di immagine.
Riguardo la tradizione alessandrina, invece, il criterio di riferimento è il Verbo
preesistente (Gen 2, 7), che è comunque la stessa realtà del Verbo incarnato, per
cui le tradizioni, pur accentuando aspetti diversi, non stanno in realtà
scomponendo l’uomo, che è sempre visto come unità duale.
Questo doppio orientamento culturale di sensibilità perdura per i primi tre
secoli, fin quando compare Agostino, che nel bene e nel male condizionerà la
tradizione futura: basti pensare a Tommaso, Bonaventura, Lutero, Calvino).
Agostino fu il primo ad operare una svolta antropologica in Occidente; in lui
ogni discorso viene sempre filtrato attraverso l’uomo (Conf: “io ti cercavo fuori
di me ma quando ti ho trovato mi sono accorto che eri più intimo a me di me
stesso”; “il camminare secondo l’umanità è raggiungere Dio”).
Per comprenderne l’idea di uomo, occorre ricordare che Agostino prima di
convertirsi al cristianesimo era manicheo e da un punto di vista culturale era
fortemente influenzato da un dualismo di stampo neoplatonico. Quindi la sua
sensibilità è molto sbilanciata sotto l’aspetto spirituale che si riferisce
all’interiorità, tanto che la sua antropologia è detta dell’interiorità agostiniana.
Pur se in vari aspetti sembri così sbilanciato verso l’elemento spirituale da
trascurare l’unitarietà dell’uomo, in realtà Agostino non definisce mai l’uomo ma
lo descrive sempre in relazione al suo fine, che è Dio, per cui l’antropologia di
Agostino punta maggiormente su ciò che l’uomo deve essere in relazione a Dio,
piuttosto che su quello che effettivamente è.
61
In questo riferimento a Dio, Agostino pensa l’uomo come memoria,
intelligenza e volontà (mens, notizia, amor). La memoria dice relazione al Padre;
l’intelligenza dice riferimento a Cristo che è la notizia del Padre; la volontà dice
l’uomo in riferimento allo Spirito. In tal modo l’uomo è descritto in chiave
trinitaria, in un riferimento storico-salvifico che raccorda il discorso sulle origini
con la salvezza che si compirà nel futuro.
10.2. L’antropologia in età medievale: la nozione di persona.
Nel medioevo la riflessione sull’uomo si colloca non più sullo sfondo della
cristologia, ma su quello dell’escatologia, soprattutto negli ambienti monastici,
che si rifanno alla regola agostiniana. Si continua a riflettere sull’uomo
soprattutto in base a quel che sarà rispetto a quel che è, anche se i pensatori
medievali cercano di risolvere le questioni dell’umano nel loro esito
soteriologico-escatologico. Molti problemi sulla finitudine dell’uomo vengono
risolti pensando all’aldilà, in una sensibilità sbilanciata sull’aspetto spirituale.
Nel procedere della riflessione, i medievali oscillano fra platonismo e
aristotelismo. Al riguardo assai originale si presenta la sintesi elaborata d
Tommaso d’Aquino, che descrive l’uomo come unità di corpo e anima,
utilizzando l’ilemorfismo aristotelico (anima forma corpis).
Grazie all’aristotelismo nel medioevo si afferma il concetto di scienza, tanto
che nascono università (Salerno, Bologna, Parigi) dove si studiano le scienze, la
filosofia e la stessa teologia si istituisce come scienza.
62
10.3. L’antropologia in età moderna e contemporanea.
L’epoca moderna si apre con la svolta antropocentrica dell’umanesimo, che ha
anche radici bibliche e cristiane. Ad essa reagisce Lutero (solus deus), con un
modo di concepire le cose indubbiamente antiscolastico, rivolto non tanto nei
confronti di Tommaso quanto verso i tomisti seguaci dell’aquinate.
Nell’epoca del razionalismo illuminista l’uomo è in primo piano, ma viene
inteso come soggetto che si comprende fuori dalla relazione. La sensibilità del
razionalismo è basata sull’intelletto, sulla razionalità. Non a caso Cartesio
distingue la res extensa (la materialità), dalla res cogitans (l’intelligenza); tra le
due res non c’è alcun rapporto ed il valore è sbilanciato verso la res cogitans,
ritrovandosi nuovamente di fronte a un dualismo del pensiero.
L’impostazione di pensiero che da Cartesio in avanti sarà più sensibile alla res
cogitans, accentuando la ragione, l’intelligenza, porterà all’idealismo (Hegel). Se
invece si è più sensibili alla res extensa si arriva all’empirismo (Locke, Hume),
la cui esasperazione condurrà al materialismo (Marx, Feuerbach).
Comunque sia, in un modo o nell’altro, l’epoca moderna si contraddistingue
come un’epoca di esaltazione del soggetto. Per dirla con Nietzsche, l’uomo con
la sua volontà di potenza può tutto e diventa un superuomo, artefice di tutto con
l’esclusione di Dio.
Con l’età moderna la parabola dell’esaltazione dell’umano ha raggiunto il suo
vertice, mentre oggi nell’epoca contemporanea si sta andando verso una
decostruzione del soggetto. Siamo infatti nell’epoca del frammento, nella
liquidità di tutto, al punto tale che si vuole eliminare anche l’uomo.
63
In ogni settore della vita emerge un riduzionismo antropologico e l’uomo viene
pensato solo in termini biologici, come un oggetto che può essere manipolato,
clonato, progettato, robotizzato. Come reazione a ciò in alcuni ambienti cerca di
prender piede la questione antropologica che vuole recuperare l’identità
dell’uomo, ma purtroppo questa opportunità fa fatica ad imporsi in una mentalità
che esalta solo la tecnica, interpretando l’uomo in un orizzonte nichilista, senza
orizzonte e futuro.
64
11. L’uomo creatura di Dio: riflessione sistematica.
Il cristianesimo professa minimi antropologici attraverso i quali propone i tratti
più significativi della persona umana e ribadisce una visione unitaria dell’umano.
In questo schema di pensiero, biblicamente fondato, è insito il rifiuto di ogni
forma di dualismo e di monismo antropologico.
11.1. L’uomo come essere unitario.
Nonostante nella storia del pensiero siano state frequenti molte tentazioni
soprattutto riguardo concezioni dualiste, l’antropologia cristiana afferma un netto
rifiuto di ogni professione di dualismo, ribadendo anche al n.14 della Gaudium et
spes che l’uomo è sempre uno in corpo e anima.
Da un punto di vista teorico non è facile esprimere in che senso l’uomo è uno,
ma si può sfruttare l’esperienza che ciascuno ha di sé stesso per significare al
meglio l’unità dell’uomo nei suoi aspetti fisici e spirituali; un’esperienza
fondamentale in questo dinamismo psicofisico è l’amore, in cui si è coinvolti con
lo spirito e col corpo, perciò con la totalità della persona.
L’uomo è unità di corpo e anima e non è scisso; non ci sono attività del corpo e
attività dell’anima, tantomeno si può ridurre l’uomo a solo corpo o a sola anima
secondo una concezione monista, perché in entrambi i casi si considera l’uomo
un puro oggetto organico, biologico, come intende la contemporanea cultura
riduzionista.
65
Con corpo e anima si intendono due coprincipi, distinguibili a livello
metafisico di principi teorici, ma mai a livello concreto, storico, perché ogni
uomo agisce sempre come unità di corpo e anima. Comunque anima e corpo non
sono identici e per questo occorre capire cosa sono.
Per comprendere cos’è il corpo conviene partire dalla fenomenologia. L’uomo è
corpo in quanto è un essere nel mondo e ciò che lo circonda è costitutivo del suo
essere uomo. L’uomo prende coscienza di sé perché è presente in un contesto
vitale e non può vivere senza il mondo, tanto che non salvaguardare il mondo
significa anche andare contro sé stesso. L’uomo è nei sei giorni della creazione,
costituito come signore e portatore del mondo, al punto che un uomo senza
mondo non è uomo.
Se l’uomo è corpo allora è un essere nel tempo, nel senso che percepisce di
vivere nel suo fluire; l’uomo si costruisce nel tempo ma questo aspetto mostra
anche il limite dell’uomo, che è soggetto ai cambiamenti e non può mai
possedersi in modo compiuto in un certo momento temporale. Ma se l’uomo è
nel tempo e la sua condizione è di homo viator allora è anche un essere mortale.
L’uomo comunica col suo corpo, sia nell’introspezione di sé sia con gli altri e
attraverso questa comunicativa fa la propria storia.
La specificità e la grandezza dell’uomo consiste non solo nell’avere un corpo
soggettivo e la cognizione di possederlo ma anche nel fatto che può trascendere
il corpo perché intuisce di avere un’anima, un qualcosa che va oltre sé stesso e
che è destinato anche ad altro, caratterizzando la profondità umana rispetto alle
altre creature.
66
Col termine anima si intende quella particolare singolarità dell’uomo, per cui,
leggendo con gli occhi della fede, diventa l’unica creatura capace di avere una
relazione con Dio, di entrare in una comunicazione fattiva con Lui. L’anima dà
al corpo una consistenza ontologica e non solo biologica, tanto che per gli
Scolastici l’anima è forma del corpo, in quanto lo fa essere, lo fa riconoscere.
Così come l’uomo è corpo in quanto è nel mondo, così è anima perché
trascende il mondo. A differenza dell’animale, l’uomo è capace di modificare
l’ambiente circostante e di renderlo a sua immagine e somiglianza in base ai
propri bisogni, dando un senso al mondo che gli appartiene.
L’uomo è un essere temporale ma è anche capace di trascendere il tempo. Al
tempo fisico (kronos) comprendente il passato, il presente e il futuro, l’uomo dà
un significato al punto che può vivere il tempo, dandogli il senso della noia, della
gioia, dell’ozio, della ricreazione, tanto che per Agostino il tempo è distensio
animae. L’uomo non è un essere temporale solo perché cresce, vive, muore, ma
perché riempie il fluire del tempo cosmologico, dandogli un significato
qualitativo, costruendo una storia.
L’uomo è un essere mortale ma può trascendere la morte, non per sua volontà
ma perché è destinato da Dio al superamento della morte, in una vita che
comunque non è la stessa del tempo storico. Per l’azione di Dio permane un
elemento esprimente la propria individualità soggettiva, destinata al compimento
della vita, che sulla base dell’esperienza di Gesù si riconosce come vita risorta.
Anche i greci pensavano che l’anima fosse immortale ma per una sua virtù
intrinseca mentre per un cristiano l’anima è immortale in quanto Dio la conserva
67
per la pienezza di vita di ciascuno, altrimenti non avrebbe senso la
predestinazione e si finirebbe in un orizzonte nichilista.
Al riguardo molto importante è il Documento della Congregazione per la
Dottrina della Fede (17 marzo 1979) che tratta importanti escatologiche, secondo
cui il termine “anima” è senz’altro piuttosto ambiguo perché appartiene alla
tradizione ellenistica e viene usato anche in altre religioni e filosofie, però
sostanzialmente significa l’”io” dell’uomo, non un “io” psicologico ma
individuale, il nucleo profondo che distingue un uomo dall’altro, il principio che
per grazia di Dio e non per una qualità immanente permane aldilà di tutto. E’ un
termine che la tradizione ha consacrato valido fin quando si riuscisse a trovarne
uno capace di sostituirlo, la qual cosa finora non è avvenuta. Va sottolineato che
in quel Documento si invitano i vescovi a spiegare questo aspetto alle persone
comuni perché normalmente col termine “anima” si intende qualcosa di contrario
al corpo, col rischio di cadere in un discorso dualistico.
11.2. L’uomo come essere in relazione ed essere personale.
L’uomo non è solo qualcosa, ma qualcuno: non ha solamente una natura, un
corpo biologico, ma è persona, ossia un soggetto che dispone della sua natura, di
sé stesso.
L’idea di persona è contenuta nella descrizione biblica dell’uomo come essere
in relazione con Dio, con il mondo, con un “tu” umano. Secondo il pensiero
biblico fra queste tre relazioni costitutive la prima e la fondante è la relazione a
Dio.
68
Il dialogo con il “tu” divino si realizza necessariamente nel dialogo con il “tu”
umano e nella responsabilità nei confronti dell’intero creato. Dio fa l’uomo
libero e l’uomo deve corrispondere a questa libertà altrimenti cade nel peccato,
nel rifiuto di scegliere il meglio anche per sé stesso.
Se la persona è il soggetto responsabile, datore di risposte, e se la
responsabilità presuppone la libertà, dunque i concetti di persona e di libertà si
implicano a vicenda. Nel momento in cui si definisce l’uomo come un soggetto
capace di relazioni, ossia come persona, allora l’uomo possiede qualcosa che lo
contraddistingue da tutto e che gli permette di istituire il suo essere persona: è la
libertà, per la quale è capace di accogliere e di donare..
Alcuni autori dell’antichità, fra cui Agostino, distinguevano nella dinamica
della libertà una libertas minor da una libertas major, ad evidenziare che il
concetto di libertà è piuttosto complesso.
In prima istanza si potrebbe affermare che la libertà è una facoltà elettiva, per
cui si ha la possibilità di fare ciò che si vuole. In realtà questa è la libertas minor,
chiamata con termine tecnico libero arbitrio, ma la libertà non si può esprimere
solo in questa capacità di scelta. Pur potendo volere o non volere l’uomo può
trovarsi in una condizione per cui non può fare opzioni fondamentali per la sua
vita. Ad esempio in un paese dove vige un regime non religioso un uomo non
può esercitare la sua libertà perché, pur potendo pregare o non pregare, non può
mai fare delle scelte fondamentali per la sua vita, per la sua realizzazione di
persona. In questo caso non si può dire di essere una persona libera, pur avendo
la capacità di volere o di non volere qualcosa.
69
La libertà è un concetto molto più ampio che, pur includendo la possibilità di
scelta, fa scegliere per il meglio, per la propria realizzazione. Si è liberi quando
si possono compiere delle scelte in coerenza con l’opzione fondamentale fatta e
quando questa scelta comporta la realizzazione della propria vita, altrimenti si
resta solo al libero arbitrio.
La libertà umana presenta alcune caratteristiche fondamentali che si possono
ricondurre a quattro aspetti.
Se ogni atto di libertà fosse definitivo, assoluto, l’uomo sarebbe una persona
compiuta, ma questo aspetto è atteso solo per la pienezza dei tempi. Questo
significa che la libertà si estrinseca sempre in un modo relativo, mentre affinché
un atto di libertà sia assoluto dovrà essere scevro da ogni forma di
condizionamento, dato dall’ambiente, dal tempo, dallo spazio, dalle qualità
personali. Per questo motivo la libertà dell’uomo è anzitutto una libertà situata,
ossia sempre espressa nel contesto in cui si vive. E’ una libertà determinata da
comportamenti dipendenti anche dai contesti storici, geografici, culturali. Si può
essere certi che la libertà di un occidentale è diversa da quella di un orientale o di
un africano; anche nell’Europa la libertà di chi vive nella parte occidentale è ben
diversa da chi vive nella parte orientale. Non esiste nella storia una libertà
incondizionata; tra l’altro se non ci fossero questi contesti diversi la libertà non
sarebbe neanche interpellata.
Nel caso dell’antropologia teologica la libertà si istituisce sempre come una
posizione che l’uomo prende di fronte a Dio ed è perciò una realtà teologale. Se
nell’opzione di fondo l’uomo sceglie di essere cristiano e conferma il battesimo
70
decidendo di porsi alla sequela di Cristo ogni atto di libertà sarà tale nella misura
in cui è coerente con la scelta fatta; per tale motivo l’autentica libertà si esprime
quando si continua nella vita a scegliere in ordine all’opzione fondamentale
altrimenti si cade in quell’errore che sostanzialmente si chiama peccato.
Ogni atto libero, proprio perché è una presa di posizione davanti a Dio, tende
sempre ad una definitività. Più si è liberi più si è uomini nel senso di esprimersi,
di determinare le proprie possibilità, di fare un passo in avanti verso la
compiutezza escatologica, mentre l’errore fa regredire.
La libertà è un concetto inglobante, in quanto non esiste una libertà che non
includa le altre libertà. Può capitare di compiere atti liberi nonostante situazioni
che di fatto non sono di libertà (ad esempio chi decide di aprirsi a Dio in un
contesto dove non c’è libertà religiosa) ma in questi casi la libertà non si esprime
totalmente per motivi culturali o sociali. La libertà in questo caso è sofferente e
incompleta ed invoca le libertà minori.
71
12. L’attuarsi della predestinazione in Cristo (la grazia dell’incorporazione).
Predestinato in Cristo, l’uomo, con il suo mondo, è chiamato alla comunione
con Dio. Tale relazione di grazia, che non è dovuta e che si realizza nel processo
di incorporazione, o conformazione, a Cristo, non è altro che l’attuazione della
predestinazione, la quale mette in gioco l’azione assolutamente libera di Dio e la
libertà creata dell’uomo. Il processo dell’incorporazione è realizzato per il dono
increato dello Spirito e la mèta di questo processo è la divinizzazione dell’uomo,
che implica anche la remissione di ogni peccato che l’uomo può compiere.
Nel processo di salvezza non c’è solo la pars costruens ma anche il fatto che
Dio redime l’uomo da ogni forma di libertà istituita male, purché egli decida di
lasciarsi perdonare.
12.1. L’esperienza della grazia nell’Antico Testamento.
L’Antico Testamento non possiede una nozione di grazia come la si può
intendere alla luce di Gesù Cristo, anche se, come afferma Paolo, ogni
avvenimento dell’Antico Testamento in qualche modo richiama Cristo.
Pur non essendoci un discorso compiuto a proposito dell’attuazione
dell’incorporazione, nell’Antico Testamento ci sono delle esperienze che
esprimono esattamente l’elezione da parte di Dio, ossia l’istituzione della
predestinazione e il modo attraverso cui Dio e l’uomo vivono questo rapporto
istituito dall’elezione. Questa attuazione sarà pienamente compiuta e trasparente
72
con Gesù Cristo, che rappresenta il modo concreto con cui si vive il rapporto tra
Dio e l’uomo.
Nell’Antico Testamento, perciò, si ravvisano delle esperienze attraverso cui
comincia a realizzarsi il progetto divino. In particolare alcuni termini, soprattutto
verbi, esprimono delle azioni che hanno come soggetto Dio e l’uomo e che
dicono in che modo Dio agisce nei confronti dell’uomo per attuare il suo
progetto di salvezza. Questi termini di origine ebraica, usati sia in ambito
profano che religioso, sono hānan, hesed, sedek, rahamin, ‘emet.
Il verbo hānan esprime un’azione e il suo sostantivo hēn è il risultato di tale
azione. In ambito profano il verbo è utilizzato per descrivere un rapporto
benevolo nei confronti di un uomo, mentre in ambito religioso, come si coglie
soprattutto nei Salmi, esprime il modo misericordioso di comportarsi di Dio nei
confronti dell’uomo manchevole di qualcosa. Questo modo di rapportarsi non è
dovuto, in quanto la pietà si istituisce spontaneamente in un atto che ha a che fare
con la gratuità e l’uomo non la può pretendere. Il sostantivo esprime lo stesso
concetto ed è traslato nella traduzione dei Settanta con charis (grazia).
Un termine molto frequente nell’Antico Testamento è hesed, tradotto in greco
con eleos. Nell’ambito profano hesed esprime un rapporto esistente tra due
persone che si sono impegnate a vicenda, in una sorta di patto giuridico, mentre
nell’ambito religioso descrive sia il rapporto di alleanza tra Dio e l’uomo che il
modo di vivere questo rapporto, dove Dio è fedele anche quando l’uomo non
agisce adeguatamente. La caratteristica del patto con l’uomo e con la creazione è
l’eternità, in quanto Dio ha da sempre voluto questa alleanza.
73
Un termine affine è sedek, generalmente tradotto con giustizia. Agire secondo
la giustizia di Dio è un concetto salvifico, di benevolenza, anche quando l’uomo
è insensibile al patto.
Il termine rahamin viene tradotto con misericordia. In ambito profano indica il
rapporto affettivo all’interno di un nucleo familiare, mentre sotto l’aspetto
religioso si trova applicato a quelle azioni dove Dio si prende cura delle persone,
anche di quelle indegne. E’ un termine che comporta il coefficiente dell’amore e
della misericordia che perdona, come si vede nella parabola del debitore e del
padre misericordioso.
Il termine ‘emet è tradotto in greco con pistis ed esprime la fedeltà di Dio nei
confronti dell’uomo.
In conclusione, queste espressioni dell’Antico Testamento esprimono che Dio
si comporta coerentemente col suo progetto, facendo in modo che questo si
realizzi.
Un primo aspetto che si nota è che quanto è grazia, che non è dovuto e che è
spontaneo, nell’Antico Testamento è da attribuire esclusivamente a Dio, per cui
la grazia indica sempre un modo di agire di Dio nei confronti del suo
interlocutore privilegiato che è l’uomo e, attraverso di lui, nei confronti
dell’intera creazione.
Una seconda osservazione è che queste azioni di Dio vengono indirizzate
all’uomo che vive nel contesto sociale di Israele. C’è, perciò, una natura
comunitaria dell’agire di Dio e il singolo ne beneficia perché appartiene a questo
popolo.
74
Un terzo aspetto evidenzia che nell’agire di Dio sono coinvolti particolari doni
di grazia che concretizzano questa benevolenza, quali la liberazione della
schiavitù, dai nemici, dalla sofferenza, dalla morte.
Una quarta conclusione è che tutti questi termini esprimono che la grazia
significa ciò che caratterizza il rapporto esistente tra Dio e l’uomo, un rapporto
che all’uomo non è dovuto ma che Dio instaura gratuitamente nei suoi confronti.
Un’ultima osservazione è che questo agire di Dio è sempre usato anche nei
confronti dell’uomo che ha sbagliato, a ribadire un carattere gratuito di grazia.
12.2. L’esperienza della grazia nel Nuovo Testamento.
Il modo di agire di Dio secondo una logica di amore, di perdono, di gratuità, di
fedeltà nei confronti dell’uomo viene realizzato da Dio attraverso Gesù Cristo.
Guardando al modo di comportarsi di Cristo nella sua vita pubblica si trovano
tutte queste caratteristiche. Gesù ha la pretesa di agire al posto di Dio; non solo
porta la Parola ma è la Parola.
Cristo non è venuto per necessità ma per dono; Dio nella sua fedeltà si fa
carne, si fa conoscere, e in tal modo dà all’uomo l’immagine di quello che deve
essere. In Gesù e nel suo modo di agire l’uomo capisce la sua predestinazione,
perché Gesù dice anche come essere pienamente uomini.
Il Nuovo Testamento, perciò, dice che la vita cristiana è una vita di grazia
donata da Dio; l’itinerario di un cristiano è di incorporazione, di assimilazione a
Cristo, di entrare nel suo mistero dove è possibile incontrare Dio e quindi anche
la figura perfetta dell’uomo.
75
Il cristianesimo è anzitutto un’esperienza di vita e poi un’etica. Questo
itinerario conduce alla cosiddetta figliolanza adottiva perché l’uomo non sarà
mai figlio di Dio se non perché il Padre lo riconosce attraverso il Figlio.
Tale aspetto compare in tutto il Nuovo Testamento, seppur in modo diverso tra
i sinottici, Giovanni e Paolo. Particolarmente quest’ultimo definisce l’evento
Cristo con la parola charis, per cui Gesù è la grazia in persona. A volte Paolo,
soprattutto nella Lettera ai Romani, usa il termine giustificazione come sinonimo
di charis, un aspetto che diventerà centrale nella riforma luterana.
Paolo esprime l’evento Cristo anche con altri termini. In Rom 4,4 parla del
“favore di Dio” accordato all’uomo, dove con “favore” intende proprio l’evento
Cristo. In Rom 5 parla della “vita nuova” che Cristo inaugura per l’uomo
battezzato: questa non è altro che la scomposizione dell’evento di grazia che è
Gesù Cristo. In Rom e 1Cor e 2Cor Paolo parla anche della “forza che Dio
accorda all’uomo nella debolezza”, in un’ulteriore scomposizione dell’evento
Cristo, dove in quella forza si manifesta la presenza stessa di Dio.
12.3. Considerazioni conclusive.
Nella Scrittura la grazia comporta la nuova epoca storico-salvifica. In tal senso:
a. essa è legata unicamente alla persona di Gesù Cristo, al punto che ha proprio
il suo nome;
b. possiede una dimensione universale, per cui tutte le scomposizioni di Paolo
non sono riferite solo a un popolo o a una singola persona ma il progetto storico-
salvifico è per tutti gli uomini e per tutta la creazione;
76
c. essa è una realtà riferita unicamente e interamente a Dio, per cui non c’è un
concorso dell’uomo nel senso che l’uomo non la può pretendere;
d. in negativo la grazia salva l’uomo dalla perdizione e in positivo lo conduce
verso la sua pienezza antropologica;
e. essa ha un carattere ecclesiale ed è colta nella fede mediante un atto
individuale.
77
13. Il tema della grazia nel suo sviluppo storico-teologico.
La dottrina biblica della grazia viene interpretata e testimoniata in diversi
contesti teologici e culturali, in quanto col tempo il cristianesimo si diffonde
anche nel mondo extrabiblico. Determinante, almeno per l’Occidente, è la
dottrina di Agostino, non a caso chiamato il doctor gratiae.
13.1. La grazia nella tradizione dei Padri orientali.
I primi Padri greci (Clemente alessandrino, Origene, Ireneo, Atenagora) si
muovono nella prospettiva della Scrittura per cui la loro interpretazione è
fondamentalmente biblica e la grazia è Gesù Cristo, pur se il tema viene
scomposto nella loro cultura e sensibilità pastorale.
I Padri greci tematizzano la grazia sotto l’aspetto etico. Essi mirano a delineare
le caratteristiche proprie del credente che ha ricevuto in dono la vita nuova.
Parlano della grazia quando vogliono esprimere il vissuto che deve caratterizzare
i credenti in Cristo, ossia la vita teologale della sequela.
Un secondo aspetto del loro percorso etico è che l’espressività completa di
anima e corpo è sempre un dono di grazia. Nel trattare il battesimo, la remissione
dei peccati, la vita ecclesiale, il compimento beato della fine dei tempi, i Padri
greci parlavano di grazia, perciò, pur scomponendo il tema, si riferivano sempre
alla globalità dell’evento Cristo. I Padri accentuano questo aspetto soprattutto
contro la gnosi, un movimento dualista secondo cui il cristiano deve vivere
secondo l’anima e non secondo la carne.
78
In questo modo di ragionare ci sono comunque delle semplificazioni. Un
esempio al riguardo si ha in Clemente alessandrino, fondatore con Origene della
scuola di Alessandria. Clemente vuole far comprendere il processo di salvezza
attraverso cui Dio con la sua azione favorevole si fa sempre incontro all’uomo,
dalla creazione fino al compimento della vita beata. Secondo Clemente il primo
momento del processo salvifico che corrisponde al mistero della predestinazione
è proprio la creazione. Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma poi
l’uomo decide di fare da sé mettendosi al posto di Dio, interrompendo la
relazione fondativa. Siccome nel concetto di grazia c’è la fedeltà di Dio
nonostante l’infedeltà dell’uomo, l’intero processo salvifico non è altro che un
far sì che l’uomo recuperi la somiglianza con Dio.
I vari interventi nella storia della salvezza, culminati con l’evento Cristo,
vogliono portare l’uomo al progetto originario divino. Secondo Clemente, con
tali interventi Dio educa l’uomo per portarlo alla somiglianza con lui (theosis) o
per divinizzarlo per partecipazione (metexis). All’uopo Clemente scrisse l’opera
“Il Pedagogo”, riferendosi proprio a Cristo e alla sua opera salvifica.
Per i Padri greci il dinamismo della grazia entra pienamente nella storia della
salvezza; Gesù Cristo è la grazia perché è l’educatore, colui che porta verso la
divinizzazione, che è la pienezza dell’umanità, mentre nei Padri latini ci saranno
i contenuti ma non più il processo dinamico storico-salvifico per spiegare
l’evento della grazia in Cristo.
79
Col passare del tempo mutano i contesti e la dottrina della grazia trova un suo
motivo di sviluppo in relazione alla grande polemica tra Agostino e il
pelagianesimo, da cui prende l’avvio l’intera dottrina della grazia in Occidente.
All’inizio del quinto secolo il monaco di origine britannica Pelagio si fece
promotore a Roma di un movimento ascetico. Nel 410 da Roma passò in Africa
insieme al discepolo Celestio e qui le loro posizioni sulla grazia accesero forti
dispute all’interna della Chiesa africana, che aveva in Agostino il suo
riferimento.
Tali posizioni vennero sostenute e radicalizzate dal vescovo italiano Giuliano
di Eclano, contro cui polemizzò Agostino nel Contra Iulianum. Occorre tener
presente che il pelagianesimo è stato ricostruito solo dai libri di Agostino, mentre
alcuni anni fa vennero scoperti degli scritti di Pelagio che hanno consentito una
parziale rivisitazione del suo pensiero.
Pelagio parte dalla considerazione che l’uomo è investito di una grazia
fondamentale, per cui è creato come immagine e somiglianza di Dio. In un certo
momento storico è avvenuto il cosiddetto peccato di Adamo, che secondo
Pelagio è stato solo un cattivo esempio per il resto dell’umanità, tanto che la
natura umana non ne viene disturbata sul piano ontologico; infatti seguendo il
cattivo esempio si cade nel peccato ma non seguendolo non accade nulla. In virtù
di ciò, facoltà come intelligenza, volontà, libertà non sono corrotte dal peccato,
per cui se l’uomo non segue il peccato di Adamo può compiere il bene perché lo
può conoscere e volere indipendentemente da qualunque aiuto esteriore.
80
Ma se così fosse non avrebbero senso i comandamenti, la legge e in generale
tutti gli aiuti che Dio offre all’uomo per andar incontro alla salvezza. Per
rispondere a questa obiezione Pelagio afferma che come il peccato di Adamo è
esteriore, sono esteriori anche gli aiuti. Al contrario di Adamo, Gesù Cristo è il
buon esempio per cui se l’uomo lo segue è facilitato nel compiere il bene.
Pelagio puntava su una visione antropologica molto ottimista basata sulla
grazia fondamentale della creazione. Secondo Pelagio, Gesù Cristo non è
necessario e se non fosse venuto l’uomo potrebbe comunque fare il bene; Dio ha
dato i suoi aiuti per fornire dei buoni esempi, al fine di aiutare l’uomo a
conservare la relazione con la grazia fondamentale.
In Pelagio la grazia non rimette il peccato ed è solo un esempio positivo. La
grazia per eccellenza donata da Dio all’uomo è la libertà, in forza della quale egli
può fare il bene. Per Pelagio il volere il bene e la sua realizzazione dipendono
dall’uomo senza che nulla possa alterare la libertà ricevuta dal creatore, perciò
neanche il peccato di Adamo ha distrutto questa libertà. La dimostrazione che
l’uomo non è inficiato dal peccato di Adamo è data dal fatto che può anche
osservare i comandamenti di Dio e seguire gli esempi che propone la Scrittura.
In questa polemica rientra anche il battesimo dei bambini che secondo Pelagio
non è necessario, mentre Agostino lo ritiene tale.
Come Pelagio, anche Agostino pensa che l’uomo è stato creato buono, ma il
peccato storico di Adamo, il cosiddetto peccato originale, ha prodotto una
lacerazione radicale della bontà naturale dell’uomo. Nel peccato di Adamo tutti
hanno peccato, come scritto in Rom 5,12: “Quindi come a causa di un solo uomo
81
il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha
raggiunto tutti gli uomini perché tutti hanno peccato”.
Questa è la traduzione greca ma Agostino utilizzava la Vulgata latina, nella
quale anziché “perché” compare “nel quale” (“in quo”), per cui la fine del
versetto andrebbe tradotta in “nel quale tutti abbiamo peccato”. Secondo la
Vulgata, perciò, tutti hanno sbagliato in Adamo e l’uomo eredita una colpa già
commessa indipendentemente dal fatto che è nato, per cui appena viene al
mondo si trova già con un peccato commesso in Adamo.
Sulla scorta di Girolamo, Agostino pensa, anche sulla base della sua precedente
esperienza peccaminosa, che il peccato di Adamo ha prodotto un’irrimediabile
corruzione della natura umana. Dopo questo peccato, perciò, non si potrà mai più
parlare di una bontà creaturale ma di un’umanità intesa come “massa dannata”,
dove non c’è possibilità che l’uomo naturalmente possa compiere il bene. Tra
l’altro il peccato ha prodotto nell’uomo la concupiscenza, che spinge
inevitabilmente al peccato, per cui l’uomo non può in alcun modo cogliere il
bene e non può salvarsi perché il peccato di Adamo lo ha irrimediabilmente
corrotto; di qui la necessità della grazia di Cristo per salvarsi.
La posizione di Agostino è assolutamente contraria a quella di Pelagio, in
quanto Cristo salva necessariamente e irrimediabilmente nel momento in cui gli
si aderisce col battesimo. A tale proposito Agostino sottolinea l’importanza del
battesimo dei bambini proprio perché questi nascono già con l’eredità di Adamo,
per cui essi hanno la necessità di entrare nella grazia di Cristo, che diventa
invincibile nel momento in cui accosta l’uomo.
82
Ma se la grazia è invincibile e i bambini vengono immessi in essa risulta
difficile comprendere perché alcuni si dannano. A tale scopo Agostino introdusse
il concetto della doppia predestinazione, una dottrina rifiutata dal Magistero sin
dai tempi del Sinodo di Cartagine (418), che ebbe un riconoscimento ufficiale
del papa tale da assumere una valenza universale, dogmatica.
All’epoca si sviluppò il semipelagianesimo, un movimento nato sulla scorta del
pensiero di alcuni monaci che risiedevano nella zona di Marsiglia. In tale
dottrina si professava una “certa” necessità della grazia; l’uomo può fare il bene,
come affermava Pelagio, ma occorre comunque seguire necessariamente e non
facoltativamente Gesù. Che i semipelagiani siano realmente esistiti è un aspetto
tuttora dibattuto, ma è comunque certa l’esistenza di questa corrente di pensiero,
condannata dal Sinodo di Orange (529), anche questo promulgato come
provinciale ma divenuto poi universale per il riconoscimento papale.
Al secondo canone del Sinodo di Cartagine i vescovi si pronunciarono in tal
modo: “Chiunque affermi che i bambini appena usciti dal grembo della madre
non debbano essere battezzati [come affermava Pelagio] oppure che sono
battezzati in remissione dei peccati ma non contraggono da Adamo nulla del
peccato originale che debba essere espiato con il lavacro battesimale e quindi di
conseguenza la forma del battesimo in remissione dei peccati per loro è da
ritenere falsa e non vera sia anatema”. E’ un’aperta condanna della dottrina di
Pelagio, secondo cui il peccato originale non ha per nulla scalfito la natura creata
buona per la grazia fondamentale e quindi il peccato di Adamo è considerato
solo un fatto esteriore, un esempio cattivo per l’uomo.
83
Il canone continua: ”Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo
e con il peccato la morte e così è passato in tutti gli uomini; in lui tutti hanno
peccato [e qui si cita la versione latina di Girolamo]. Quanto afferma l’Apostolo
la Chiesa cattolica ovunque diffusa l’ha sempre compreso. E per questa regola
della fede anche i bambini che da sé stessi non hanno potuto commettere nulla
che sia peccato sono battezzati veramente per la remissione dei peccati perché in
essi sia purificato mediante la rigenerazione ciò che hanno contratto mediante la
generazione”. In definitiva, per il solo fatto che si nasce si è coinvolti
personalmente nel peccato di Adamo.
A Cartagine non venne specificata la tipologia del peccato originale, la qual
cosa avvenne nel Sinodo di Orange, pur se già l’Indiculus Coelestini si
pronunciò in tal senso, sebbene con un’autorevolezza inferiore al Sinodo di
Orange che al canone 1 recita: “Se qualcuno dice che il peccato di
prevaricazione di Adamo [dove con “prevaricare” s’intende sostituirsi a un altro,
come fece Adamo che ebbe la pretesa di sostituirsi a Dio decidendo cos’è il bene
e cos’è il male] non l’uomo tutto intero, cioè secondo il corpo e l’anima, è stato
mutato in peggio ma ingannato da Pelagio crede che solo il corpo è divenuto
soggetto alla corruzione mentre rimane intatta la libertà dell’anima questi va
contro la Scrittura”. Si condanna in tal modo l’affermazione di Pelagio, secondo
cui il peccato di Adamo non ha minimamente corrotto l’uomo nella sua umanità.
Al canone 2 si afferma: “Se qualcuno asserisce che la prevaricazione di
Adamo si addebita solo a lui ma non alla sua discendenza [come affermava
Pelagio] oppure dichiara che per mezzo di un solo uomo è stata trasmessa la
84
morte del corpo che è la pena del peccato, non invece il peccato il quale è morte
dell’anima, attribuisce un’ingiustizia a Dio e contraddice l’Apostolo che dice
‘per mezzo di un uomo il peccato è entrato nel mondo’”. Qui si condannano i
semipelagiani che distinguevano tra corpo e anima, per cui se il peccato di
Adamo ha toccato solo il corpo e non l’anima allora è necessaria una “certa”
grazia di Cristo, perché in qualche modo il peccato ha disturbato l’uomo, seppur
nella parte meno nobile che è il corpo.
La dottrina della grazia presenta in seguito varie proposte con Bonaventura,
Duns Scoto e particolarmente con Tommaso, il quale, pur ereditando il pensiero
della Tradizione e richiamandosi ad Agostino, ragiona con le categorie
aristoteliche. Secondo l’aquinate nell’incontro tra grazia di Dio e uomo questi
viene rigenerato, perché da questo momento diventa figlio di Dio e nuova
creatura, ponendosi in uno stato di grazia che, nel linguaggio aristotelico,
Tommaso chiama “habitus”, ossia l’istituzione dell’uomo nella vita di Dio.
L’habitus non è qualcosa che l’uomo può avere in suo possesso ma gli è
donato; è la qualità dell’essere nuova creatura grazie a questo dono appartenente
a Dio e partecipato all’uomo. In tal modo la qualità del suo essere non è più
disturbata dal peccato ma è configurata dalla grazia di Gesù Cristo.
L’habitus è una grazia creata, è il risultato dell’azione di Dio che salva l’uomo
e gli dà una qualità ontologica. Purtroppo questo termine nel tempo venne
equivocato (in particolare da Lutero), perché spesso i seguaci di Tommaso non
furono chiari al riguardo, facendo pensare a una sorta di possesso, a un’abitudine
che, come tale, si può manipolare a proprio uso e consumo.
85
14. L’attuazione della predestinazione in Cristo: la riflessione sistematica.
I contenuti racchiusi nel termine grazia esprimono un atteggiamento
fondamentale di Dio: per sua natura il Dio uno e trino è “rivolto verso gli uomini
e tende a legarsi a un popolo di uomini, a estendere su di loro la sua sovranità,
anzi a divenire lui stesso uomo” (A. Ganoczy). Tale relazione di grazia non è
altro che l’attuazione della predestinazione come incorporazione a Cristo.
Il contesto odierno difficilmente recepisce il discorso su una gratuità rivolta
all’uomo; sembra che l’uomo di oggi non abbia bisogno di grazia in quanto
convinto di poter fare a meno dell’ipotesi Dio.
Nonostante ciò si può sperimentare la grazia in quelle situazioni dove l’uomo
non riesce a uscirne da solo e quando comprende che può entrare in nuove
relazioni che permettano di cambiare il cuore.
14.1. La relazione di grazia per cui Dio si rivolge all’uomo.
Raccogliendo i dati fondativi della Scrittura e della Tradizione la grazia di Dio
non è un “qualcosa” ma un modo di agire che Dio manifesta concretamente
all’uomo. I gesti di Dio rivelano un atteggiamento di benevolenza realizzata nei
confronti di tutta la creazione e dell’uomo in particolare, con la volontà di
introdurre la creazione a partecipare alla vita divina con la predestinazione. Il
manifestarsi di Dio è così importante e significativo al punto che entra nella
storia con l’incarnazione di Gesù Cristo che rappresenta il modo di rivolgersi e di
agire di Dio verso gli uomini.
86
La grazia è la storia di Dio in Gesù Cristo. Già la creazione è un primo
momento di grazia, di un agire benevolo di Dio fuori di sé. Dio crea perché ama
e nella Scrittura è detto chiaramente che Dio è amore.
Sulla base di un duplice aspetto si può dire qualcosa sull’amore di Dio, che per
l’uomo è chiaramente incomprensibile. Si può utilizzare un movimento
analogico che va dal basso verso l’alto; ad esempio da come le persone si amano
si può capire come Dio sia amore; ma il Concilio Lateranense IV afferma che
nell’analogia sono più le cose che non si dicono rispetto a quello che si dicono.
Si può utilizzare anche un movimento catalogico per cui dall’alto si va verso il
basso e questo è possibile perché Dio, rivelandosi, ci fa dire alcune cose su di lui.
Per capire che Dio è amore possiamo anzitutto partire da cosa Dio non è. Dio
non è un essere cordiale, bonario, che si innalza su tutti senza esigenze, in una
tolleranza totale; anche l’uomo sa dalla sua esperienza che qualora agisse in tal
modo non sarebbe una persona che ama; basti pensare al genitore che, pur
amando, sa anche castigare.
Dio non è un essere filantropico, ma è un amore forte, esigente, che fa appello
a una responsabilità e che chiede una risposta. L’amore di Dio significa
l’atteggiamento di grazia gratuito, non dovuto, che elegge, sceglie, vuole l’uomo,
che altrimenti non ci sarebbe.
Questo amore è anche comunicativo; Dio nel suo parlare dice sé stesso, la sua
vita, il mistero della sua volontà. In tal senso la grazia può dirsi
l’autocomunicazione del Dio uno e trino.
87
In una sola parola tutto il benevolo atteggiamento di Dio si può chiamare
salvezza; infatti Dio comunica all’uomo dove deve andare, ossia alla pienezza di
vita. Questo modo di agire di Dio è storicamente realizzato in Gesù Cristo che è
la grazia di Dio in persona; tutta l’esperienza storica di Gesù è un’epifania della
gratuita azione divina; basti pensare agli atteggiamenti, ai sentimenti di Gesù,
che piange, si diverte, cena con gli amici, tocca le persone, frequenta uomini e
donne, manifesta sempre benevolenza nella sua storia.
Il modo di agire di Dio trova il suo vertice nella Croce (“Dio ha tanto amato
gli uomini da dare la vita del suo Figlio”), perciò il volgersi di Dio all’uomo ha
sempre i segni di Gesù o, meglio, del Gesù pasquale, del Crocifisso risorto.
L’esistenza storica di Gesù risale a duemila anni fa e l’uomo ne fa esperienza
attraverso lo Spirito Santo che universalizza l’evento Cristo. Tale esperienza si
vive in luoghi concreti, quali la Chiesa, la Parola, i sacramenti, la carità.
14.2. La relazione di grazia per cui l’uomo si rivolge a Dio.
Il volgersi dell’uomo a Dio è da considerarsi anzitutto una relazione di grazia
inscritta nella stessa struttura dell’umano, che è aperto a Dio, agli altri e al
mondo. Tale relazione ha già una sua ragione nell’atto stesso della creazione, che
è il primo momento di grazia, di predestinazione; l’uomo non può darsela da sé
ma per il fatto che Dio l’ha creato capace di volgersi a lui per la sua struttura
interna, che in termine tecnico si chiama il trascendentale.
Questa possibilità strutturale, però, non significa che l’uomo necessariamente
si volge a Dio; se così fosse l’uomo dovrebbe essere sempre aperto al divino,
88
mentre, attraverso la libertà, storicamente realizza o rifiuta la possibilità
strutturale di riferirsi a Dio, che con il suo grande dono ci ha creati aperti a lui,
ma liberi di accettarlo o meno. Nel momento in cui l’uomo accoglie liberamente
di camminare nella logica dell’essere immagine e somiglianza di Dio in Gesù
Cristo, allora assume degli atteggiamenti fondamentali, riassumibili in fede,
speranza, carità, le tre virtù teologali che si includono e si richiamano a vicenda.
Questa triade racchiude, in concreto, il modo di volgersi dell’uomo a Dio.
La fede va contemplata nell’elemento soggettivo, il credente, e in quello
oggettivo, le cose da credere, nella classica distinzione tra fides qua e fides quae,
che comunque non si possono separare.
Riguardo l’elemento soggettivo la fede è un atteggiamento di abbandono, di
confidenza, di sostegno, di dipendenza al Dio di Gesù Cristo e in tal modo ha un
potere trasformante che fa cambiare la vita dell’uomo. Ma questo affidarsi a lui
proviene dal suo dono di grazia che rende l’uomo capace di avere fede, di
volgersi a lui nella grazia fondamentale della creazione.
L’essenza della fede non è una credenza o una conoscenza ma un incontro che
porta in sé una situazione relazionale, che porta a vivere sempre con una
presenza che accompagna nell’amore, nella sofferenza, nella vita di ogni
situazione. Essere fedeli a questo modo di vivere non è facile perché l’uomo
tende a prevaricare, a mettersi al posto di Dio ma con la sua fede un cristiano
accoglie la vita così com’è, anche nella sua durezza più radicale, anche nella
morte, verso cui si ha la certezza della vittoria perché c’è chi l’ha superata.
89
Tutti gli uomini della Bibbia (Abramo, Mosè) sono vissuti nella dimensione di
interpretare ogni cosa alla luce di Dio. Nell’affidarsi a Dio si fa posto a lui
uscendo da sé, ma senza perdersi, perché in questa espansione si fa spazio
all’altro. Infatti nella relazione si conquista qualcosa con la comunione, tanto che
la fraternità è proprio il luogo dove si costituisce l’identità.
Proprio per la dimensione di fiducia che la contraddistingue, la fede si
accompagna alla speranza. Dio promette felicità, completezza di vita, e l’uomo
spera in questo. La speranza ritiene che la vita rimandi sempre oltre, verso
l’assoluto, il definitivo, il compimento. La speranza fa andare avanti perché in tal
modo l’uomo sa di trovare ciò che lo può compiere, che lo fa essere pienamente
uomo. Inoltre fa confidare in un aldilà che è oltre le possibilità umane; infatti
quanto si fa da sé non sarà mai l’ultima parola, perché c’è sempre una riserva
escatologica a dare compiutezza al tutto. Questo, però, è oltre le possibilità
dell’uomo che spera che ciò avvenga quando Dio in Cristo ricapitolerà tutte le
cose, quelle del cielo e quelle della terra.
La fede si aggancia alla speranza ed entrambe alla carità, perché si fondano
proprio sull’atto di amore di Dio che realizza la comunione e le promesse fatte da
sempre. La carità non è solo comunione con Dio ma si sacramentalizza nella
comunione con gli altri (Mt 25: “avevo fame e mi avete dato da mangiare…”).
Non esiste un amore per Dio se non passa attraverso l’amore per il fratello, in cui
non solo si dà la propria vita per l’altro, ma si perdona di continuo.
90
Il globale volgersi dell’uomo a Dio individuato come vita teologale è la
sequela, ossia la vita in Cristo, una vita di grazia che comincia col battesimo,
attraverso cui l’uomo si incorpora a Cristo.
14.3. Considerazioni conclusive.
“Il ‘divenire sé stessi’ per grazia non può essere identificato con
l’’autorealizzazione’. Nel primo caso si tratta dell’opera del Creatore redentore,
nel secondo l’io è l’unico soggetto del processo. Pur con tutto il rispetto per
l’umanesimo completamente secolarizzato e per quello ateo, che affidano senza
riserve il destino della natura, della persona, della società e della cultura alle
mani dell’uomo e si attendono la salvezza da ogni male solo attraverso
l’autoliberazione, l’idea cristiana della grazia di Dio insiste sulla assoluta
necessità di questa per l’autentico divenire sé stesso dell’uomo come persona e
come essere sociale” (A. Ganoczy).
91
15. La dottrina del peccato originale.
La dottrina del peccato originale va interpretata unicamente in riferimento a
Cristo. Essa non serve a spiegare l’incarnazione di Gesù Cristo ma ad illustrare il
significato della situazione dell’uomo che ha liberamente rifiutato Gesù Cristo.
Probabilmente Dio si sarebbe incarnato anche se l’uomo non avesse peccato ma
questo non si può dire con certezza. L’uomo può solo prendere atto che Dio ha
deciso di incarnarsi e che la storia del peccato è un rifiuto a Cristo.
Come la grazia è il modo positivo dell’uomo di relazionarsi a Dio, così il
peccato indica una relazione negativa dell’uomo verso Dio. Coloro che vivono in
Cristo rispondono favorevolmente al dono istituito con la creazione, ma alcuni
non si volgono a Dio, perché con la loro libertà decidono diversamente
dall’orientamento che l’uomo ha avuto dall’inizio della sua storia e tale rifiuto
ricade su tutta l’umanità.
Gli interrogativi posti trovano risposta nella dottrina del peccato di origine, pur
se occorre osservare che anche questa storia di perdizione va letta in riferimento
a Cristo, nel senso che si può prendere coscienza di un peccato solo in un’ottica
di fede, altrimenti non ha senso parlare di una libertà che non ha risposto al dono
originario di Dio, in quanto è la fede a dire che l’uomo ha peccato.
15.1. La rivelazione del peccato nell’Antico Testamento.
Nella Scrittura non è trattata la dottrina del peccato ma ci sono comunque
elementi che in base al metodo genetico servono per formalizzare tale dottrina.
92
A tale proposito viene spesso citato il racconto di Genesi (cap. 2 e 3), la
cosiddetta “caduta”, come il fondamento biblico del peccato originale, perché si
pensa a questo come a un peccato storico, collocato nel tempo, individuale.
In realtà i primi undici capitoli della Genesi, peraltro tra gli ultimi della Bibbia
ad essere scritti, non raccontano gli inizi ma sono un’eziologia storica; non
vogliono dire cos’è successo all’inizio della storia ma intendono capire la
situazione storica presente rimandandola alle origini, per cui non possono essere
il fondamento biblico di un peccato storicamente commesso. Da questi scritti si
capisce che certamente non è Dio a provocare il male ma sono stati gli uomini,
che nella Bibbia sono diventati Adamo ed Eva ma che in realtà non sono due
persone singole. E’ l’umanità che sbaglia, che ha dato origine al male, in una
caduta che fa perdere la relazione originaria con Dio; in tal modo l’uomo si
costruisce una storia senza Dio, dove entrano il lavoro, il parto, la morte, perché
si è fuori di Dio.
Oltre al testo della Genesi, nell’Antico Testamento due brani sembrano
suggerire il peccato di origine come un peccato storico, pur se anche questi non
vanno intesi come fondamenti biblici: sono Sir 25,24 e Sap 2,23-24, due testi
tardivi che contengono allusioni a un peccato storico di origine.
Nell’Antico Testamento esistono termini che esprimono azioni concrete
dell’uomo e che contengono elementi che la dottrina futura utilizzerà per
formalizzare l’idea di peccato. Questi termini, come spesso avviene nei testi
veterotestamentari, vengono usati con un doppio senso, profano e religioso: sono
hata’ (pr. atà), paśa’ (pr. pascià) e ‘awah (pr. avà).
93
Il termine hata’ è un verbo che in un contesto giuridico-sociale, quindi
profano, significa trasgredire un obbligo che deriva da un legame comunitario,
mentre nel contesto religioso ebraico vuole intendere la trasgressione di una
norma in vigore nella comunità religiosa, come, ad esempio, la serie di norme
che si era dato il popolo nel deserto. Chi manca nei confronti della comunità lo fa
anche nei confronti di Jahwè, perché quello è il suo popolo e, viceversa, se si
istituisce male il rapporto con Jahwè diventa sbagliato anche il rapporto con la
comunità.
Il termine pasa’ indica l’azione di un uomo che rompe un rapporto con la
collettività o con un altro uomo. Nel contesto religioso indica l’azione di colui
che non vuole più avere niente a che fare con Jahwé e quindi, automaticamente,
con la comunità.
Con il termine ‘awah si intende qualcosa che non è dritto, un comportamento
deviato, il senso del piegarsi. Nel significato religioso vuol dire un atteggiamento
diverso da quello che desidera Jahwè.
Quando si utilizzano questi tre termini non viene sottolineata la responsabilità
del soggetto che compie l’azione, ritenuto in buona fede, ma l’azione in sé. La
valutazione ricade sul male oggettivo e non sul soggetto che lo compie.
Contrariamente a questo aspetto, quando in seguito sarà elaborata la dottrina
teologica sul peccato si porrà maggiormente l’accento sul soggetto.
Dall’analisi di questi tre termini ci si rende conto che l’azione sbagliata, il
peccato, presenta sempre un rapporto con la comunità. Inoltre non è possibile
94
dissociare la comunione tra gli uomini e Dio, perché sbagliare nei confronti della
comunità è sbagliare nei confronti di Dio e viceversa.
La conoscenza del male oggettivo si attua solo in quella della Parola di Dio, nei
comandamenti di Jahwè, in quanto il peccato è comprensibile solo nell’ottica di
una rivelazione, di una fede.
15.2. La rivelazione del peccato nel Nuovo Testamento.
Un fondamento esplicito del peccato nel Nuovo Testamento è presente in Rom
5,12: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e
con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché
tutti hanno peccato. Fino alla legge, infatti, c’era il peccato nel mondo e, anche
se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da
Adamo fino a Mosè anche su chi non aveva peccato con una trasgressione simile
quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo
morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un
solo uomo, Gesù Cristo, si sono riservati in abbondanza su tutti gli uomini. E
non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio
partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute
per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a
causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della
grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù
Cristo”.
95
In questo brano, Paolo, più che sul peccato, insiste sulla salvezza con lo scopo
di far capire l’abbondanza della grazia che in Gesù Cristo instaura la vita nuova.
Per spiegare Gesù Cristo, che come uomo-Dio è la salvezza per tutti, Paolo lo
pone in rapporto con Adamo, in un parallelismo antitetico dove c’è grande
sproporzione tra l’uno e l’altro, tra la grazia della salvezza e il peccato
dell’uomo. Da giudeo, Paolo sa bene che Adamo è un nome collettivo e non una
persona singola ma in tale contesto lo utilizza abilmente come tipo singolo per
istituire il parallelismo.
Paolo afferma che la situazione di peccato nel mondo si è determinata a causa
dell’uomo e la conseguenza del peccato è la morte, che qui viene intesa non in
senso fisico ma spirituale, perché anche se non avesse peccato l’uomo sarebbe
comunque morto.
Il peccato separa l’uomo da Dio; tale separazione è la morte spirituale ed
eterna, il cui segno è la morte fisica. Tutti muoiono perché tutti hanno peccato,
non in riferimento al peccato di Adamo ma ai peccati che si fanno normalmente,
perché nel mondo esiste una situazione di peccato causata dall’uomo. In
definitiva, per Paolo i peccati commessi sono la ratifica di qualcosa che già esiste
e che è attribuibile all’origine di tutto.
In seguito Paolo afferma che Gesù Cristo ha vinto il peccato e in tal modo dà
all’uomo la possibilità di entrare nella condizione di giustificato per la grazia
sovrabbondante. Alla luce di questa interpretazione rientra il battesimo dei
bambini che incorpora la nuova vita a Cristo, ratificando l’accoglienza della
96
predestinazione, mentre la scelta personale può avvenire in seguito. L’ingresso in
Cristo significa anche togliere il nato dalla situazione nefasta che lo può
coinvolgere.
Nonostante si entri nella sfera di Cristo, purtroppo si continua a peccare perché
l’uomo è sempre coinvolto in una situazione negativa a causa della
concupiscenza, che non è un peccato ma è ciò che spinge al peccato. Di per sé la
concupiscenza non è totalmente negativa perché tiene desti e vigili; infatti il
cristiano fortificato ha tutta la possibilità di vincerla ma qualora la accolga ricade
nel peccato.
15.3. Considerazioni conclusive.
a. L’idea di universalità del peccato, già presente nell’Antico Testamento,
diventa assolutamente esplicita nel Nuovo Testamento.
b. Il rimando alle origini per spiegare tale situazione non è fine a sé stesso, ma
serve a comprendere meglio il presente e a progettare costruttivamente il futuro.
c. Il peccato di origine, quindi, va considerato soprattutto in quanto rivissuto
nei peccati personali e mediante essi. In origine c’è stato sicuramente qualcuno
che in un determinato, ma sconosciuto, momento storico ha pervertito tutti,
originando il male che, perciò, non è partito da Dio. Il segno del coinvolgimento
è che l’uomo pecca più o meno spesso, spinto dalla concupiscenza nata dalla
creazione di questa zona negativa. La concupiscenza si può vincere mettendosi
nella sequela di Cristo, conformandosi a lui; ma anche se l’uomo sbaglia Dio dà
97
la possibilità di rientrare con la riconciliazione, che può essere considerata un
secondo battesimo.
d. La grazia di Cristo supera di gran lunga il peccato. Gesù Cristo ha vinto il
peccato e in lui l’uomo ha la possibilità di liberarsi e di compiersi nel suo essere.
Il male e il peccato, perciò, non hanno futuro, pur se c’è la possibilità che
qualcuno nella sua libertà si danni.
98
16. Sviluppo storico-teologico della dottrina del peccato originale.
Sino all’epoca moderna la dottrina del peccato originale non ha prodotto
particolari reazioni, a parte le contestazioni derivanti dalla cultura laica.
Nell’epoca contemporanea, invece, la dottrina è stata significativamente dibattuta
in ambito teologico e non mancano interpretazioni plurali, che meritano adeguata
attenzione.
Dal punto di vista dell’elaborazione storico-teologica della dottrina del peccato
originale il riferimento più importante e qualificato è dato dal pensiero di
Agostino, pur se nell’epoca precedente il vescovo di Ippona esistono dei
contributi in merito, che sono da inquadrare, in particolare, nella riflessione circa
il problema dell’origine del male e la prassi del battesimo dei bambini. Tuttavia
il pensiero di Agostino determina una svolta decisiva quanto allo sviluppo del
dogma del peccato originale, tanto che alcune vennero recepite dal Magistero
(Cartagine nel 419; Efeso nel 431; De gratia Dei Indiculus tra il 435 e il 442;
Orange II nel 529).
Per interpretare correttamente il pensiero agostiniano al riguardo occorre
ricordare che, mentre le lettere di Paolo vennero scritte in greco, Girolamo nella
sua Vulgata le tradusse in latino. Di conseguenza il famoso versetto della lettera
ai Romani in cui è scritto “perché tutti hanno peccato” venne tradotto da
Girolamo con “in quo omnes peccaverunt”, ossia “nel quale tutti hanno
peccato”. Questo “nel quale” va riferito ad Adamo, per cui se lui ha sbagliato
allora tutti hanno sbagliato con lui.
99
Tale versione venne utilizzata e diffusa da Agostino, che per giustificare la
salvezza in Cristo enfatizza la situazione peccaminosa, per cui noi abbiamo
necessità di Gesù Cristo per poterci salvare. Per Agostino, perciò, il peccato
originale ha coinvolto l’uomo ontologicamente.
Un riferimento significativo per la dottrina del peccato originale è
rintracciabile nel Concilio di Trento (Quinta Sessione, 24 maggio-17 giugno
1546), quale risposta cattolica alla dottrina protestante.
Nell’epoca contemporanea si impongono le diverse interpretazioni della
dottrina cha danno vita ad un significativo dibattito teologico. Pur se si conserva
il nucleo fondamentale del dogma, questo dibattito suggerisce alcune lezioni che
non vanno disattese:
a. l’esigenza di comprendere criticamente il mistero del peccato originale nel
suo complesso, tanto che gli studiosi cercano di capire cosa significa quando la
fede cattolica si è pronunciata sul peccato originale;
b . l’inculturazione del dogma del peccato originale nel linguaggio odierno è un
compito necessario;
c. l’antropologia teologica è il contesto più opportuno per decifrare il mistero
del peccato originale, in quanto se ne può parlare solo all’interno dell’uomo alla
luce di Cristo.
100
17. Riflessione sistematica sulla dottrina del peccato originale.
Il peccato originale è la contrapposizione alla chiamata a diventare figli di Dio
in Gesù Cristo; esso non è altro che la storia della libertà umana che rifiuta di
conformarsi a Cristo, in una pretesa di autosalvezza.
Se nel mistero della predestinazione tutti sono stati chiamati ad essere conformi
al Figlio, nella libertà l’uomo può ribellarsi, originando il peccato di
prevaricazione, la pretesa di mettersi al posto di Dio.
17.1. Il peccato originale come situazione al di fuori di Dio.
Fin qui abbiamo più volte ribadito che al centro dell’antropologia cristiana c’è
il mistero della predestinazione in Cristo, ossia la chiamata verso tutti gli uomini
a conformarsi e salvarsi in Cristo.
Se tutti sono chiamati in Cristo, allora tra gli uomini esiste una solidarietà,
perché non sono creati indipendentemente gli uni dagli altri, ma in un mistero di
unità di creazione, al punto che nessuno può comprendere sé stesso senza l’altro.
Esiste, perciò, una solidarietà naturale nel mistero della creazione in Adamo, in
una dipendenza storica tra le generazioni degli uomini, manifestata peraltro in
tutti i tipi di antropologia.
Questa solidarietà non è solo orizzontale tra gli uomini, ma è anche verticale
perché creati in Cristo. Pertanto non può esistere un compimento antropologico,
una salvezza al di fuori di Cristo, di una solidarietà verticale che dia senso a
quella orizzontale.
101
Nella sua libertà l’uomo può decidere di rifiutare la chiamata in Cristo tentando
la via dell’autosalvezza, in un personale tentativo di colmare la mancanza che
avverte. Questo progetto è una tentazione ricorrente nella storia; basti pensare al
mito greco al punto di Prometeo, che ruba il fuoco degli déi per essere salvatore
di sé stesso e degli altri.
Il tentativo di autosalvezza ha delle conseguenze sul piano orizzontale. Infatti
se un uomo fa qualcosa di negativo in un contesto di relazioni, quell’errore non
va solo a svantaggio suo ma di tutti, creando una sorta di alone negativo, proprio
perché gli uomini non sono indipendenti tra loro.
Questa realtà è sicuramente dovuta all’uomo, ma dipende anche da altri fattori
di carattere sociale e culturale. Infatti chi nasce in una situazione degradata ne
viene inevitabilmente coinvolto, ma in’ultima analisi l’ambiente negativo è
sempre provocato dall’uomo.
La solidarietà in Adamo, perciò, non va intesa solo nella globale appartenenza
al genere umano, ma comprende anche la complicità nel peccato, realizzata nella
storia e di cui l’uomo si accorge perché compie continuamente peccati personali
che non sono altro che il riflesso del peccato di origine.
Se la solidarietà in Adamo non è redenta conduce alla perdizione e non certo
alla salvezza, uscendo dalla predestinazione in Gesù Cristo, realizzando una
divisione totale, un isolamento, una distanza dagli altri, tutti fattori che si creano
nella situazione di peccato. A causa del peccato originale, perciò, l’uomo nasce
coinvolto in una solidarietà negativa per il solo fatto di appartenere al genere
umano.
102
Dalla Scrittura si potrebbe pensare che ci siano due storie parallele, una di
solidarietà in Adamo ed una di solidarietà in Cristo. In realtà non è così: infatti
Paolo nella lettera ai Romani imposta questo parallelismo per evidenziare la
disparità esistente tra Adamo e Cristo, tra la storia di perdizione e la storia di
salvezza; ma non si può pensare a due storie simmetriche, di pari valore, perché
Dio e la sua grazia sono molto più sovrabbondanti (“dove ha regnato il peccato
ha sovrabbondato la grazia”).
L’economia è unica, positiva, e la sola storia che esiste è quella di salvezza,
che emerge proprio sulla base della perdizione. La storia di Gesù Cristo rivela la
possibilità del superamento della storia di perdizione quando l’uomo nella
conversione si affida a lui e non a sé stesso, a colui che rifà sempre l’alleanza
con l’uomo, a colui che nella conversione lo giustifica.
17.2. La storia della libertà che rifiuta Cristo.
L’atto di auto salvezza, ossia il peccato, deve essere compreso come un
atteggiamento della libertà che si chiude al disegno salvifico in Cristo. Tale
chiusura non si presenta come un atto puntuale ma come una vicenda complessa,
in cui entrano in gioco diversi elementi che influiscono sull’evento peccaminoso.
Si comprende in tal modo l’affermazione del Magistero che rifiuta di vedere il
peccato originale come un atto di peccato puntuale (peccato personale), ma lo
intende come ciò che instaura le condizioni di ogni peccato, determinando tutta
la logica di peccato che si sussegue. In quanto originaria, questa condizione di
103
peccato non si può imitare, ma diventa la radice di tutti gli atti di peccato che
seguiranno nella storia.
Tale aspetto è ben evidenziato nella Scrittura che riconduce la colpa non a delle
persone ma a un atto puntuale, rimandando sempre a una situazione originaria, a
quella zona nefasta che ha provocato il peccato. Infatti nella Scrittura
l’attenzione non cade sul soggetto ma piuttosto sugli effetti della colpa,
affermando che l’uomo sbaglia perché all’origine c’è qualcosa che lo coinvolge
negativamente e condannando soprattutto il male che è dentro le singole azioni.
Lo sbaglio di Adamo, che va inteso come l’uomo in generale e non come un
uomo specifico, non si riferisce all’atto puntuale di una persona ma alla
situazione originaria che gli uomini hanno creato volendo mettersi al posto di
Dio. In tal modo l’ontologia dell’uomo risulta inficiata dal peccato di origine e se
si vuole ritornare nella predestinazione occorre rientrare nell’esperienza di Gesù.
Nel vedere i suoi sbagli l’uomo si chiede il perché dei suoi errori, rimandando
indietro a qualcosa che lo coinvolge da sempre. Infatti, pur se l’uomo oggi è
nella salvezza di Gesù Cristo, è rimasta in lui la spinta al peccato, ossia la
concupiscenza, che lo fa spesso tornare nella condizione originaria. Tale malizia
non va addebitata a Dio ma ai progenitori, che hanno creato questa condizione in
virtù della solidarietà tra gli uomini.
In ogni caso, il danno commesso rimane e si storicizza nell’ambito relazionale
degli uomini e quindi ognuno soffre per questo sbaglio che rende tutti complici.
Per tale motivo l’uomo si accosta ai sacramenti, dove chiede a Dio di farlo
rimanere in una situazione di libertà istituita sempre per la predestinazione in
104
Cristo e di non lasciarsi coinvolgere dal danno provocato dalla condizione
originale che si autoalimenta per il continuo peccato degli uomini.
In base a quanto detto si capisce come sia sbagliato quando nella
riconciliazione si confessano gli atti commessi, perché il vero errore è
nell’adesione libera a quanto esiste di negativo. Per tale motivo nella confessione
l’uomo deve chiedere a Dio di farlo ricominciare daccapo, sanandolo alla radice,
portando la riconciliazione ad essere un secondo battesimo.
In definitiva, la dottrina del peccato originale serve a comprendere l’agire
proprio della libertà e il suo effetto negativo; essa parla di una libertà incrinata,
centrata su sé stessa, impossibilitata a compiersi, perché rifiuta radicalmente
Cristo, che è l’unica via di salvezza.
17.3. La funzione della dottrina del peccato originale.
Il peccato originale non ha la funzione di giustificare la necessità e
l’universalità della redenzione, in una prospettiva amartiocentrica, in quanto
Gesù non è venuto solo per questo. La teologia del peccato originale è, invece,
un atto ermeneutico, un’interpretazione del significato della libera vicenda
umana quando si esclude dalla chiamata in Cristo. Essa ci dice cosa accade
all’uomo e nell’uomo, quando egli pretende di realizzare sé stesso
indipendentemente da Gesù Cristo.
La dottrina del peccato originale ha un carattere secondo, perché in primo
piano non si annuncia il peccato ma la salvezza, la buona notizia della creazione
in Cristo, e solo dopo viene annunciato il peccato che in tal modo ha sempre un
105
carattere penultimo e mai ultimo, tanto tutto il vangelo esprime la chiamata in
Cristo, la riconciliazione, per cui l’uomo, pur facendo esperienza del peccato,
deve sempre sperare nella salvezza offertagli da Cristo.
106
18. La giustificazione dell’uomo secondo la Scrittura.
Le testimonianze bibliche, in particolare quelle paoline, riportano il tema della
giustificazione nel contesto dell’agire salvifico di Dio nei confronti dell’uomo.
Per Paolo la giustificazione è l’evento salvifico di Dio compiuto nella Pasqua di
Gesù Cristo e che, per mezzo dello Spirito, si realizza nella persona che accoglie
nella fede la giustizia di Dio.
18.1. L’Antico Testamento.
Il verbo “giustificare” si può trovare anzitutto in un contesto relazionale,
amicale, coniugale, dove gli uomini possono giustificarsi tra loro (Gen 28,26),
ma nella Scrittura, ossia in un contesto teologico, il termine esprime soprattutto
le relazioni tra Dio e l’uomo, dove ovviamente non è l’uomo a giustificare Dio
ma viceversa, come risulta in diversi passi dove Dio giustifica continuamente il
suo popolo, nel rapporto di alleanza che esprime la relazione tra Dio e l’uomo.
Poiché giustificazione è l’atto della giustizia e Dio la esercita nel contesto
dell’alleanza, perché così si è impegnato nei confronti del suo popolo, è in
relazione a tale rapporto che salva e punisce, perché la giustizia non è altro che
un atto che esprime un’assoluzione o una punizione.
La giustizia esiste per regolare i rapporti, perciò qualora si sbagli nei confronti
della collettività commettendo un reato, occorre pagare per ristabilire il rapporto
con la comunità. La pena scontata, perciò, diviene l’itinerario che fa ristabilire la
giustizia violata dal reato.
107
In via analogica si può dire che l’azione giustificante da parte di Dio è volta al
ristabilimento del patto di alleanza esistente tra lui e il popolo. In virtù di questo
discorso di giustizia, Dio a volte punisce, ma mai in maniera esagerata. L’aspetto
punitivo non è tanto un’azione di Dio che manda l’uomo alla sciagura, ma fa
capire che se accade qualcosa certamente non dipende da lui, bensì dal fatto che
l’uomo non è stato fedele. Dio dà all’uomo la possibilità di seguirlo ma se questi
contravviene rischia di finire nella sciagura. Da ciò si evince che non è tanto Dio
a punire, quanto l’uomo ad autopunirsi, per cui il rapporto con Dio non deve
essere mai fonte di timore, perché se accade qualcosa di negativo è per lo sbaglio
dell’uomo che si è estromesso da solo dal piano di Dio.
L’atteggiamento di Dio si esprime sempre attraverso una giustizia di perdono,
di accoglienza, di misericordia, in quanto Dio tende sempre a capire, a ritenere la
buona fede. Anche quando nella Scrittura si parla dell’ira di Dio, questa non è
rivolta tanto nei confronti di chi ha commesso l’azione sbagliata ma verso il
peccato, la cosa in sé. Un esempio emblematico si ha quando Gesù incontra il
lebbroso; Marco scrive che Gesù si impietosì, ma la versione corretta è che Gesù
si innervosì molto, non nei confronti del lebbroso, ma della situazione di
emarginazione in cui viveva.
In definitiva, nell’Antico Testamento la giustizia divina va interpretata nel
senso che Dio è colui che giustifica, che riacquista gli uomini e che li reintegra
nella relazione gratuita ed eccedente di alleanza con lui.
108
18.2. Il Nuovo Testamento (Paolo).
Il tema della giustificazione compare trentanove volte nel Nuovo Testamento,
ventisette delle quali nelle lettere paoline, particolarmente in quelle ai Galati e ai
Romani. Nell’impostare il suo discorso sulla giustificazione, Paolo segue molto
l’Antico Testamento, pur rileggendo tutto in chiave cristologica
Già in Rom 1,16 Paolo scrive che la giustificazione in Dio è il culmine di tutto
il processo elettivo verso gli uomini (“io non mi vergogno del vangelo poiché è
potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del
greco”, dove per “salvezza” qui si intende giustificazione); è il dono gratuito
della salvezza nel ristabilimento dell’alleanza realizzata da Cristo per mezzo
dello Spirito, come ben risulta in Rm 8.
Secondo Paolo, Dio esercita in modo estremo la sua giustizia quando perdona
il peccatore, ponendolo in una nuova relazione con lui; la riconciliazione, infatti,
è l’effetto dell’azione giustificante di Dio, secondo l’applicazione di una
giustizia salvatrice e non di tipo forense.
Paolo afferma che questa azione è fatta da Dio sempre attraverso Gesù Cristo
nello Spirito, in un’azione trinitaria. Per tale evento di salvezza Dio ha
predisposto Gesù come colui che espia i peccati al posto dei peccatori (Rm 3), al
fine di riacquistare gli uomini. Nella lettera ai Galati, Paolo scrive addirittura che
“Cristo è reso peccato per tutti noi”, ossia ha pagato tutte le conseguenze del
peccato.
109
Questo pensiero può essere interpretato in termini punitivi, ma in realtà
l’espiazione di Gesù va vista sotto l’aspetto di una mediazione offerente, che
vuole salvare gli uomini fino a dare la sua vita per loro. Infatti Gesù muore non
perché deve essere punito al posto degli uomini, ma perché li ama e li vuole
riacquistare al Padre nello Spirito, attraverso l’offerta totale della sua vita.
Ragionando secondo termini forensi prevarrebbe l’aspetto punitivo, come se
Gesù dovesse morire per scontare quel che deve pagare l’uomo, in un processo
chiamato sostituzione di cavia; questa visione è tipica di alcune teologie
medievali e sarà centrale anche in Lutero, il cui pensiero, infatti, è molto
influenzato dal diritto germanico.
Affinché l’uomo possa essere riconciliato è fondamentale la sua fede, come
atteggiamento che lo fa riconoscere peccatore e lo affida a Dio. La fede, perciò, è
decisiva per la giustificazione, e quando l’uomo accoglie nella fede l’azione
giustificante di Dio, Paolo definisce il credente come “giustizia di Dio per mezzo
di Cristo”.
110
19. Sviluppo storico-teologico della giustificazione dell’uomo.
Lo sviluppo storico-teologico del tema della giustificazione è concentrato
intorno alla dottrina luterana, alla risposta cattolica data nel Concilio di Trento,
alla sua ripresa nella teologia contemporanea e alla sua centralità nel dibattito
ecumenico.
19.1. La dottrina di Lutero.
Per comprendere il pensiero di Lutero è fondamentale capire la sua
formazione, la sua personalità, quel che pensa, vive, scrive.
Lutero era una figura complessa, che secondo la tradizione si fece monaco non
tanto perché voleva abbracciare la vita religiosa quanto per un voto fatto durante
un forte temporale. Essendo monaco agostiniano la sua formazione seguiva il
pensiero del grande vescovo, per cui la sua concezione dell’uomo era
decisamente pessimista e con una forte ossessione per il peccato.
Va comunque ricordato che Lutero era una persona di grande cultura, un
eccellente biblista, tanto che sono famosi alcuni suoi commenti, specialmente ai
Salmi e alla lettera ai Romani; non amava la filosofia, soprattutto la Scolastica,
perché gli sembrava uno strumento per manipolare Dio. Lutero era anche un
mistico, che viveva un intenso e personale rapporto con Dio, molto influenzato
dalla devotio moderna in voga all’epoca.
111
Nei confronti della situazione del suo tempo, Lutero ebbe veramente a cuore il
messaggio cristiano, tanto da non condividere molte situazioni negative della
Chiesa di allora (nepotismo, simonia, vendita delle indulgenze), che gli
sembravano tradire il vangelo.
Il punto di partenza del pensiero luterano è il tema del peccato originale, che
ha irrimediabilmente corrotto la natura umana, tanto che gli uomini sono definiti
“massa dannata”. Il pensiero è simile ad Agostino, ma Lutero radicalizza questa
dottrina, tanto che la concupiscenza, che in Agostino era solo ciò che spinge al
peccato, in Lutero viene vista essa stessa come peccato.
Inoltre, se Agostino affermava che il peccato originale pur corrompendo la
natura umana gli ha comunque lasciato il libero arbitrio, Lutero asseriva che
l’uomo è talmente corrotto da non avere neanche più il libero arbitrio; non a caso
scrive il libretto “De servo arbitrio”, in cui afferma che l’arbitrio dell’uomo è
totalmente asservito al peccato.
In conclusione, per Lutero l’uomo non ha alcuna possibilità di salvarsi. Anche
per un cattolico l’uomo non può salvarsi da solo, ma almeno ha una minima
parte nell’accondiscendere al piano di Dio. Questo barlume di libertà non è
presente in Lutero, secondo cui “l’uomo in quanto peccatore è un incurvato in
sé”, ossia l’uomo è talmente ripiegato su di sé da non vedere altro che sé stesso,
per cui è incapace di rialzarsi e di accettare una proposta.
Se l’uomo è incapace di partecipare al processo salvifico, allora la salvezza gli
può giungere esclusivamente in un modo indipendente dai suoi meriti. Ecco,
allora, che Lutero da una parte esalta il pessimismo antropologico ma dall’altra
112
evidenzia l’azione di Dio che solo con la sua grazia può salvare l’uomo. Per un
cattolico l’uomo può in qualche modo partecipare con la sua libertà, ma per
Lutero l’uomo non ha alcun merito per la sua incapacità, conseguenza del suo
essere peccatore. La salvezza, perciò, giunge all’uomo indipendentemente dai
suoi meriti e l’uomo non può fare nulla al riguardo.
Per capire come Lutero pensa la giustificazione conviene immaginare di essere
in un tribunale dove Dio è il giudice e il peccatore è l’imputato. Il peccatore ha
disturbato la giustizia di Dio, che perciò lo riconosce colpevole di una punizione
incalcolabile, perché non esiste una pena tale da placare la giustizia di Dio. Il
peccatore non può far nulla; al limite può solo pagare con la morte.
Ma Dio oltre ad essere giusto è anche misericordioso e il suo progetto consiste
nel salvare l’uomo, per cui, pur riconoscendo l’uomo come peccatore, non gli
imputa la pena corrispondente. Ma la giustizia va in qualche modo placata ed
allora la pena viene fatta pagare a un altro, ossia Gesù Cristo; in tal modo il
Figlio espierà la pena dovuta al peccato dell’uomo, il quale rimane sempre
peccatore perché Dio gli ha riconosciuto la colpa ma diviene anche giusto perché
Dio lo ha dichiarato tale facendo pagare un altro per lui. Di qui un primo
caposaldo della dottrina luterana esprimibile nella frase “simul iustus et
peccator”, per cui l’uomo è “nello stesso tempo giusto e peccatore”.
La giustificazione non va a toccare l’ontologia dell’uomo, non è una
dichiarazione di assoluzione che lo sana totalmente perché in realtà egli rimane
peccatore. In tal modo l’azione salvifica è una giustizia aliena, estranea, al di
fuori dell’uomo, che non viene toccato al di dentro. Secondo Lutero, l’azione di
113
Dio in Gesù Cristo non rigenera l’uomo ma va solo a compensare una giustizia
disturbata.
In realtà, in una reinterpretazione alla luce dell’odierno dialogo ecumenico, con
la frase “simul iustus et peccator”, Lutero, più che indicare la coesistenza
nell’uomo delle due realtà del peccato e della giustizia, voleva intendere che
l’uomo sarà sempre peccatore fin quando Dio non lo salverà compiutamente,
ossia fino a quando l’uomo sarà sulla terra.
In definitiva, Lutero intende la giustificazione come una realtà che giunge
all’uomo dall’esterno e rimane esteriore all’uomo; non è un’azione che lo salva
rinnovandolo ontologicamente perché lo lascia sempre nella condizione di
peccatore ma lo rende solo giusto, in una mera dichiarazione esteriore di
assoluzione, pur se comunque l’uomo è riconosciuto colpevole. Di qui l’altro
caposaldo della dottrina luterana è l’affermazione “solus Christus”, per cui solo
Cristo è colui che realizza la giustificazione.
Il messaggio che parla di un’assoluzione di Dio solo in Gesù Cristo giunge
dalla Parola di Dio, da cui l’emblematica frase “sola Scriptura”, secondo cui la
Parola di Dio comunica all’uomo che egli viene giustificato per gli unici meriti
di Cristo.
All’uomo che non può fare nulla per la sua salvezza rimane solo fidarsi in
quella che Lutero chiama “fede fiduciale”; questa non è una fede che impegna
l’uomo dal punto di vista della libertà ma è una fede puramente interiore,
soggettiva, più un sentimento di fiducia che un moto della libertà che si affida a
Dio.
114
19.2. La risposta cattolica nel Concilio di Trento.
Alcuni aspetti della dottrina di Lutero vanno decisamente messi in discussione.
Anzitutto la corruzione totale della natura umana al punto tale che non c’è alcuna
parvenza di libertà; poi che la giustificazione è solo una dichiarazione che non
tocca l’uomo nel suo essere; in ultimo, l’aspetto della fede fiduciale, cui non
corrisponde alcun impegno da parte dell’uomo.
La risposta cattolica sugli effetti della grazia di Cristo viene elaborata dal
Concilio di Trento, particolarmente nel “Decreto sulla giustificazione”, steso
nella sesta sessione e pubblicato il 13 gennaio 1547.
Nel primo capitolo di tale decreto è scritto: “Per comprendere adeguatamente
la dottrina sulla giustificazione ognuno deve riconoscere e confessare che tutti
gli uomini, avendo perduto l’innocenza per la prevaricazione di Adamo (questa
frase ricorda il Sinodo di Orange del 529, dove per la prima volta viene usato il
termine “prevaricazione” riguardo al peccato originale), sono diventati quindi
schiavi del peccato e sono sotto il potere della morte a tal punto che sia i gentili
che i giudei non possono liberarsi e rialzarsi (il che significa che a causa del
peccato di Adamo l’uomo non ha alcuna possibilità di salvarsi da solo, come
peraltro pensava anche Lutero, a differenza dei pelagiani). Gli uomini, quindi,
non possono rialzarsi benché in essi il libero arbitrio non è affatto estinto ma
solo attenuato e indebolito”.
In questo capitolo si ribadisce che l’uomo a causa del peccato di origine non è
in grado di salvarsi, in omaggio alla fede tradizionale, con l’unica avvertenza di
sottolineare che il libero arbitrio è solo indebolito e non estinto.
115
Nel secondo capitolo è scritto: “Il Padre celeste, Padre della misericordia, di
ogni consolazione, quando venne la beata pienezza dei tempi mandò agli uomini
Cristo Gesù, suo Figlio, annunciato e promesso a molti santi Padri e prima della
legge e nel tempo della legge, sia per i giudei che erano sotto la legge sia perché
le genti che non seguivano la giustizia conseguissero la giustizia e tutti
ricevessero l’adozione di figli. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di
espiazione per i nostri peccati per mezzo della fede nel suo sangue e non solo
per i nostri peccati ma anche per quelli di tutto il mondo”.
In definitiva, poiché l’uomo è incapace di raggiungere la salvezza, il Padre ha
disposto che il suo Figlio si facesse uomo per la salvezza di tutti, perché la
predestinazione è per tutti.
Nel terzo capitolo è scritto: “Benché egli sia morto per tutti, non tutti però
ricevono il beneficio della sua morte ma solo coloro ai quali è comunicato il
merito della sua passione. Come, infatti, senza dubbio gli uomini se non
nascessero dalla discendenza del seme di Adamo non nascerebbero giusti, così
se non rinascessero in Cristo non potrebbero essere giustificati. Per questo
beneficio l’Apostolo ci esorta a rendere sempre grazie al Padre che ci ha resi
degni di aver parte alla sorte dei Santi nella luce”.
Qui si vuol dire che, pur se la salvezza è a disposizione di tutti, non tutti vi
partecipano. Infatti la predestinazione non è un predeterminismo, per cui può
accadere che alcuni non ne godano per una libertà che interferisce col dono della
grazia oggettiva di Dio.
116
Nel quarto capitolo è scritto: “Coloro che godono dei meriti della passione di
Gesù Cristo vengono giustificati (qui si parla dei peccatori che necessitano del
ristabilimento della condizione di alleanza originaria esistente tra Dio e l’uomo).
La giustificazione è il passaggio (il termine latino è translatio) dallo stato in cui
l’uomo nasce figlio del primo Adamo (ossia dallo stato di peccato) allo stato di
grazia e di adozione a figlio di Dio per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo”.
La giustificazione è il passaggio dalla condizione di peccatore a quella di
grazia, per cui l’uomo diventa figlio di Dio. Tale passaggio implica un
rinnovamento interiore dell’uomo, contrariamente al pensiero di Lutero per cui
l’uomo non viene cambiato ma solo dichiarato giusto. Il cambiamento ontologico
avviene nel battesimo, dove si entra nel corpo di Gesù e si diventa figli di Dio.
Prima di tutto, perciò, c’è l’azione di Dio che riguarda l’essere e solo in un
secondo momento subentra l’agire.
Nel quinto capitolo è scritto: “Negli adulti l’inizio della stessa giustificazione è
data dalla grazia proveniente da Dio per mezzo di Cristo (ossia la
predestinazione, la chiamata alla salvezza), cosicché quelli che con i loro peccati
si erano allontanati da Dio sono disposti dalla sua grazia che li stimola e li aiuta
a orientarsi verso la loro giustificazione”.
Qui si vede come il Concilio intenda mantenere i due poli di grazia e libertà.
Dio tocca il cuore dell’uomo con l’illuminazione dello Spirito Santo ma l’uomo
non rimane inattivo ricevendo quell’ispirazione, che può ben raggiungere. Il
processo della salvezza che riporta dallo stato di peccatore a quello di creatura
117
nuova inizia per lo stimolo di Dio ma è fondamentale la libertà dell’uomo che
può accogliere o meno l’illuminazione dello Spirito.
Nel sesto capitolo è scritto: “Gli uomini si dispongono a questo processo
quando, stimolati dalla grazia divina, si muovono liberamente verso Dio,
credendo vero quanto è stato divinamente rivelato e promesso. L’empio è
giustificato da Dio mediante la sua grazia in virtù della redenzione da Gesù
Cristo. Comprendendo che sono nella storia di Adamo, si aprono alla speranza
rivolgendosi a considerare la misericordia di Dio nella fiducia che Dio sarà loro
propizio a causa di Cristo. Allora cominciano ad amarlo come sorgente di
giustizia e sono animati da odio e detestazione contro il peccato, cioè con quella
penitenza che è necessario compiere prima del battesimo Infine, quando si
propongono di ricevere il battesimo di iniziare cioè una vita nuova e di
osservare i comandamenti divini”.
Nel capitolo settimo è scritto: “Nella giustificazione, quindi, l’uomo riceve per
mezzo di Gesù Cristo, nel quale è inserito, insieme alla remissione dei peccati
anche tutti questi doni che servono a raggiungere la vita eterna”.
Qui si specifica che dopo la penitenza avviene la giustificazione, la
santificazione, il rinnovamento interiore dell’uomo, per cui l’uomo da ingiusto
diviene giusto, da nemico diviene amico, così da avere quei doni, ossia le virtù
teologali, che permettono di essere cristiano.
Nel capitolo ottavo si ribadisce l’importanza della fede nel processo della
giustificazione, in una posizione fondamentalmente vicina a quella di Lutero.
118
Il merito fondamentale di Trento consiste nell’aver recuperato un corretto
rapporto tra fede e libertà nel processo della salvezza. Inoltre la giustificazione,
contrariamente al pensiero di Lutero, produce una modificazione accidentale
dell’essenza dell’uomo (giustizia inerente); in tal senso tra Cristo e il credente
viene stabilita un’unità di tipo ontico in forza della quale l’uomo viene perdonato
e salvato.
Da una parte il Concilio ha voluto richiamare il dato tradizionale, per cui non
esiste altra salvezza se non nella giustizia di Cristo; dall’altra ha inteso
contrastare l’insegnamento luterano, attraverso l’affermazione dell’inseparabilità
tra giustizia di Cristo e giustizia inerente: per il peccatore il valore salvifico della
prima è percepibile solo attraverso la seconda, ossia, in altri termini, la salvezza
oggettiva è percepibile attraverso la fede.
119
19.3. Il dibattito ecumenico.
Nel corso del ventesimo secolo sono iniziati vari momenti di dialogo tra
cattolici, anglicani, luterani, durante i quali è emerso che sull’essenzialità del
messaggio della giustificazione le posizioni erano sufficientemente vicine da
poter trovare un’intesa di massima.
In particolare, risultava pensiero comune che la giustificazione giunge
unicamente attraverso Cristo attraverso il battesimo e che sono fondamentali
l’annuncio della Parola, la fede, la conversione.
L’unico punto di dissenso riguarda il fatto che i cattolici intendono la
giustificazione come un processo che cambia ontologicamente l’uomo mentre i
luterani la pensano in modo contrario. Comunque sia, questi due modi di vedere
una giustificazione intrinseca ed estrinseca possono benissimo non costituire
motivo di contrasto.
Il traguardo più significativo è stato raggiunto con la “Dichiarazione congiunta
sulla dottrina della giustificazione tra Chiesa cattolica e federazione luterana
mondiale”, redatta insieme nel 1997 e sottoscritta il 31 ottobre 1999.
Due sono le affermazioni centrali della Dichiarazione:
“Insieme confessiamo che non in base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo
della grazia, e nell’opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e
riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a
compiere le buone opere” (n. 15).
“Sulla base di tale consenso l’insegnamento delle Chiese luterane presentato
in questa Dichiarazione non è colpito dalle condanne del Concilio di Trento. Le
120
condanne delle Confessioni luterane non colpiscono l’insegnamento della
Chiesa cattolica romana così come esso è presentato in questa Dichiarazione”
(Dichiarazione comune).
121
20. Riflessione sistematica sulla giustificazione dell’uomo.
Il superamento della controversia tra l’interpretazione cattolica e quella
protestante permette di collocare la giustificazione nell’orizzonte teologico
dell’incorporazione dell’uomo in Gesù Cristo. Tale impostazione permette alcuni
guadagni molto significativi per l’antropologia cristiana.
20.1. La giustificazione come salvezza.
La giustificazione è la proclamazione del dato di fondo della fede, cioè del
fatto che la nostra salvezza si fonda unicamente in Gesù Cristo, in cui l’uomo
ripone ogni fiducia. Essa, quindi, è lo svelarsi del valore salvifico della morte e
resurrezione di Cristo in favore di tutti gli uomini. Quando, attraverso il
battesimo, l’uomo accede a questa salvezza oggettiva, vive in una situazione di
rinnovamento ontologico, diventando una creatura nuova.
Con la vittoria di Cristo tutto è profondamente cambiato, in quanto ciò che
esiste vive nel rimando decisivo a Cristo e si colloca nell’orizzonte della grazia,
nella vita teologale, nella vita secondo Dio.
Nell’azione giustificante di Dio in Cristo non si può dimenticare il ruolo dello
Spirito, che pone l’uomo nella condizione di riconoscere Dio come Padre, di
invocare il suo perdono, di suscitare la fede. .
La giustificazione, quindi, è un’opera trinitaria che comprende anche i
sacramenti e il luogo dove essi vengono vissuti, ossia la Chiesa, il cui compito è
122
far risplendere la luce della grazia di Cristo, di annunciare la giustificazione, di
realizzarla in quanto strumento di salvezza, attraverso la proclamazione del
vangelo e l’amministrazione dei sacramenti, particolarmente il battesimo.
20.2. La preparazione alla giustificazione.
Nel Concilio di Trento si è visto che l’uomo si può preparare alla
giustificazione, a differenza di quanto pensato dalla tradizione luterana.
Questo aspetto tocca il rapporto tra fede e libertà. Infatti se Dio suscita la fede
(initium fidei) l’uomo può sempre accogliere o rifiutare la chiamata, altrimenti la
predeterminazione si trasformerebbe in predeterminismo.
La giustificazione non è una sorta di miracolo che Dio opera in favore
dell’uomo al di fuori di ogni rapporto dialogico, perché Dio ha voluto l’uomo
come essere relazionale, come un “tu”, come un partner dell’alleanza.
Il problema, perciò, sta nel comprendere quali sono le possibilità che ha la
libertà umana di partecipare a questo dialogo divino, al dinamismo salvifico della
grazia.
Anzitutto occorre dire che l’uomo non può fare a meno della grazia di Dio, di
cui ha bisogno indipendentemente dal peccato. Senza la grazia non si può in
alcun modo diventare figli, non ci si conforma a Gesù e non ci si inscrive nella
logica della predestinazione secondo cui Dio vuole che tutti gli uomini siano
salvati.
Riguardo la libertà, oggi la si pensa come la possibilità di fare ciò che si vuole,
anche di rifiutare quel che dice Dio. Secondo tale visione, però, si finisce per
123
mettere in competizione grazia e libertà, la quale, nell’ottica della
predestinazione, è voluta da Dio nel suo progetto di grazia per l’uomo.
La libertà non si può opporre a Dio perché è una cosa buona in quanto voluta
da lui e per tal motivo non può essere in competizione con la grazia che è cosa
ancor più buona.
Allora nel rifiutare la grazia si esprime un atto di non libertà piuttosto che di
libertà perché essa è per il dialogo salvifico, per cui l’uomo è veramente libero
quando risponde positivamente alla chiamata di Dio.
Quando l’uomo si prepara alla giustificazione attraverso azioni come la
detestazione del peccato, l’inizio della conversione, le opere di carità, compie atti
dovuti che istituiscono bene la libertà ma che comunque non sono meritori di
qualcosa, perché vengono fatti secondo l’ordine di vita dell’uomo.
20.3. Il merito.
La dottrina del merito intende mostrare che la giustificazione trasforma l’uomo
rendendolo giusto, non solo nell’essere ma anche nell’agire. Infatti le opere
dell’uomo giustificato sono corrispondenti al suo essere, perciò se l’uomo è
salvato allora le opere sono necessariamente salvifiche.
Il merito, comunque, non comporta automaticamente la retribuzione. La
ricompensa che Dio dà all’uomo è l’esito escatologico della sua promessa e non
si basa su quel che l’uomo può guadagnare. Infatti Dio ha promesso che l’uomo
arriverà alla pienezza del suo essere se sarà sempre nella sua grazia.
124
L’unico merito possibile è la grazia di Cristo perché è lui che ha guadagnato
all’uomo l’esito escatologico, ma se l’uomo si separa dal merito di Cristo il suo
agire virtuoso non ha valore.
Occorre sempre ricordare che tutto l’agire virtuoso avviene secondo lo Spirito,
che è il motore esterno ed interno della vita cristiana.
125
21. L’escatologia biblica nelle tradizioni canoniche e extracanoniche.
L’escatologia è il futuro definitivo dell’uomo, della sua storia e del suo mondo.
Questa definizione assoluta trova la sua ragione in Gesù Cristo, perché in lui
l’uomo è stato creato, in lui vive e in lui sarà giustificato.
21.1. L’escatologia veterotestamentaria.
Pur se nella Bibbia il centro del dialogo salvifico è l’evento Cristo, c’è
comunque un’economia veterotestamentaria che, iniziando con la creazione,
rimanda continuamente alla parusia.
Nell’Antico Testamento il pensiero di Israele matura man mano che il popolo
fa l’esperienza salvifica nell’incontro con Dio. Basti ricordare che all’inizio c’era
l’enoteismo, per cui Israele credeva nell’esistenza di altre divinità pur se scelse
Jahwè, e il monoteismo matura solo in un secondo momento grazie ai profeti e
alle continue esperienze che il popolo ha di Dio.
Questo lenta maturazione si ravvisa anche per l’escatologia, pur se tale tema
nell’Antico Testamento si presenta in maniera complessa per la difficoltà
intrinseca delle varie tradizioni presenti (jahwista, sacerdotale, deuteronomista),
che rappresentano modi diversi di aver vissuto e tramandato l’esperienza in
seguito codificata nel canone.
Anzitutto occorre considerare che la storia di Israele è essenzialmente orientata
al futuro, per cui è bisognosa di raggiungere un fine. In tal senso si distingue
126
dall’ambiente classico della grecità, secondo cui le cose ritornano, non ci sono
novità e tutto procede in base a un destino e non certo a una predestinazione.
Israele ha questa interpretazione del futuro perché si accorge di come Dio operi
in suo favore. In particolare, tale azione si rende riconoscibile dal fatto che
quando Dio interviene nelle vicende del popolo, o di una persona che comunque
rimanda al popolo, assume la fisionomia di una promessa per il futuro.
Tale promessa di Dio nel suo agire rende relativo il tempo presente, per cui
quello che sta avvenendo è già proiettato al futuro e nello stesso tempo è già
passato. Nessun avvenimento storico della complessa vicenda di Israele è
comprensibile se non viene collegato a ciò che l’ha preceduto e soprattutto se
non viene colto nel suo orientamento al futuro, che esso contiene per la forza
della promessa che l’accompagna.
In questa luce la promessa fa comprendere la realtà come storia e rappresenta
la chiave che offre la possibilità agli eventi di aprirsi alla novità. Essa pone
Israele in una continua attesa di qualcosa che sta per venire in dono e per tale
motivo è generatrice di speranza.
Ad ogni realizzazione della promessa segue la novità di ulteriori e più grandi
promesse, tanto che queste si vanno realizzando negli avvenimenti ma non si
esauriscono in nessuno di essi ed anzi si orientano verso il futuro. Perciò la realtà
che viene ed è attesa, che va ed è lasciata indietro, è vissuta come storia e non
come una costante cosmica che si ripete sempre; è una storia orientata al futuro,
escatologicamente caratterizzata dalla continua novità implicita nella promessa
di Jahwè.
127
Questo sbocco futuro della storia assume un peso notevole soprattutto nella
predicazione dei profeti, che leggono il presente, lo criticano, dicono ciò che è
conforme all’alleanza e, mettendolo in crisi, orientano automaticamente la storia
al futuro. Fondamentale in tal senso è il testo di Geremia: “Verranno giorni, dice
il Signore, nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò
un’alleanza nuova; non come l’alleanza che ho concluso con i loro Padri
quando li ho presi per mano per farli uscire dall’Egitto, un’alleanza che essi
hanno violato benché io fossi loro Signore; questa sarà l’alleanza che io
concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni; porrò la mia legge nel loro
animo, la scriverò nel loro cuore. Io sarò il loro Dio e voi sarete il mio popolo”.
Per il futuro, perciò, Israele attende sempre un evento ultimo che colmi la sua
speranza. Nei profeti ricorre l’indicazione che il futuro definitivo di Dio si
realizzerà in un giorno particolare, chiamato “giorno di Jahwè”, espressione che
compare per la prima volta in Amos e che ricorre in altri profeti minori. Amos lo
predica in termini di condanna o di salvezza, per cui l’Israele rimasto fedele
all’alleanza di Dio in quel giorno sarà compiutamente salvato, mentre l’Israele
che si è mostrato infedele non avendo seguito i comandamenti di Dio avrà un
futuro di condanna.
Questo giorno viene descritto in modo apocalittico, con un linguaggio usato
per esprimere una realtà di cui non si riesce a descrivere l’entità, per dire che in
quel particolare giorno tutte le cose saranno sconvolte (Gioele: “Farò prodigi in
cielo e sulla terra, il sole si cambierà in tenebre, la luna in sangue…..guai a
coloro che attendono il giorno del Signore, che sarà tenebra e non luce”).
128
Un concetto simile al giorno di Jahwè compare anche nella letteratura
sapienziale, dove si usa l’espressione “giorno della visita di Dio”.
Israele, perciò, rispetto ad altri popoli vicini ha un’idea del suo tempo e del suo
spazio in termini di storia, facendo esperienza di un Dio che promette qualcosa,
che dice sempre una novità per il futuro. In tal modo si istituisce un orientamento
al futuro per la storia, secondo cui ogni volta che Dio realizza una promessa ne fa
un’altra, fin quando, nel giorno di Jahwè, porterà a compimento quanto ha già
realizzato in Israele.
Ma all’interno di questo percorso che vede la salvezza alla fine della storia si
pone il problema della morte legato alla retribuzione finale. L’ebreo pensa che
dopo la morte l’uomo finisce nello sheol, il mondo degli inferi, delle tenebre, in
una sorta di esistenza ombratile, per cui non ha più nulla a che fare con gli altri
viventi e con Dio, tanto che anche i Salmi dicono che Dio si dimentica dei morti.
Occorre tener presente che il culto dei morti era tabù in Israele, tanto che chi
seppellisce i morti si contamina e deve purificarsi per poter ricelebrare il culto.
Col tempo, però, l’ebreo inizia a chiedersi se Dio darà un premio ai giusti,
arrivando a pensare che chi è fedele riceverà da Dio una retribuzione terrena
(generazione feconda, ricchezza), mentre l’empio non avrà nulla di tutto ciò.
Tale pensiero, però, si trova a fare i conti con una realtà contraria presente in
Israele. Addirittura nel Salmo 37, in Giobbe e in Qoelet, si indirizzano invettive
verso Dio, rivolgendosi contro le tesi classiche della distribuzione, pur se le
soluzioni proposte non sembrano convincenti. Nel libro di Giobbe, ad esempio,
129
la sofferenza del giusto accade per i peccati commessi da qualcuno delle sue
passate generazioni.
Una seconda fase viene prospettata dai mistici, secondo cui non è possibile che
Dio abbandoni il giusto neanche nella morte, tanto che alcuni salmi sapienziali
(16, 49, 73) iniziano a pensare a un futuro di comunione con Jahwè che vada
oltre la morte del giusto.
Un’esperienza significativa per Israele sarà l’esilio, che pur nella tragedia dà la
possibilità di ripensare a molte cose, grazie soprattutto alla predicazione dei
profeti. Essi configurano l’esilio in termini di morte; infatti che non ci sono più
le istituzioni, non c’è più il tempio, e per rinfocolare la speranza nel popolo
esiliato predicano un futuro intervento liberatorio. Il ritorno dall’esilio sarà un
riportare Israele alla vita, tanto che per indicare il ritorno alla Terra Promessa,
ossia alla vita, l’ebreo inizia ad usare il termine resurrezione, preso dalla cultura
persiana.
Il ritorno dall’esilio viene trattato da alcuni profeti, quali Osea, Isaia e
soprattutto Ezechiele, che in un passo fondamentale descrive come lo Spirito di
Dio riporta alla vita un ammasso di ossa morte.
In seguito questa metafora riferita all’esilio si trasforma in un’idea escatologica
che esprime quanto avverrà ai giusti dopo la morte. Questo decisivo passaggio
avviene al tempo di Antioco IV Epifane, il quale intende convertire Israele al
paganesimo, provocando la resistenza dei Maccabei e il martirio di alcuni di essi.
In particolar modo nei testi Dan 12 e 2Mac 7 viene predicata la resurrezione non
130
come metafora ma come un destino escatologico, sia pure atteso per la fine della
storia.
Nello stesso periodo, ad Alessandria d’Egitto viene scritto il libro della
Sapienza, rivolto ad ebrei di cultura greca, dove per la prima volta si parla di
immortalità, un concetto comunque corrispondente alla resurrezione, pur se
espresso in un contesto culturale diverso rispetto al precedente.
21.2. L’escatologia nelle apocalissi giudaiche.
Nello sviluppo dell’escatologia è fondamentale l’influsso della letteratura
apocalittica, chiamata anche enochica perché configurata intorno ai cinque libri
di Enoc l’etiope.
Secondo alcuni studiosi l’apocalittica è solo una corrente letteraria; per altri è
anche una corrente di pensiero; per altri ancora è una corrente religiosa esistente
in Israele tra il secondo secolo a. C. e il secondo secolo d. C., avente una forte
impronta escatologica, pur se taluni pensano che tale aspetto sia secondario al
problema dell’esistenza del male; ultimi studi la collocano più probabilmente tra
il quarto secolo a. C. e il quarto secolo d. C.
Nonostante le varie interpretazioni, è possibile affermare che la letteratura
apocalittica è una corrente di pensiero che nasce dalla spiegazione del male,
cercando la soluzione che questo male trova alla fine della storia. Pur se il tempo
presente è negativo, la fine della storia capovolgerà la situazione dal male e si
instaurerà il tempo di Dio, dove il giusto riceverà la ricompensa della
resurrezione o dell’immortalità, mentre l’empio perirà in modo definitivo.
131
Gli apocalittici, perciò, affermano che il tempo ultimo vedrà la vittoria del bene
al fine di nutrire la speranza di coloro che vivono nell’attesa di questo tempo
positivo.
Per esprimere questo concetto lo scrittore apocalittico usa uno stratagemma
letterario, in cui descrive il tempo ultimo con un linguaggio di rivelazione
(apocalyps significa svelamento), fatto soprattutto di eventi catastrofici. Questi
eventi ultimi non sono comprensibili neanche allo scrittore apocalittico, tanto che
solo i veggenti possono svelare la visione.
21.3. L’escatologia neotestamentaria.
Le idee apocalittiche circolavano tra il popolo anche al tempo di Gesù ed
influenzarono il Nuovo Testamento, in cui, nonostante la diversità degli schemi
di pensiero, tutti gli scritti convergono sulla decisività dell’evento cristologico,
che diventa la lente attraverso cui guardare anche l’escatologia, al punto tale che
questa non si può considerare indipendentemente dall’evento Cristo.
Gli autori del Nuovo Testamento affermano che Gesù è l’escatologia, il futuro
dell’uomo, della sua storia e del suo mondo. Infatti quando Gesù dice che “il
regno di Dio è vicino” (Mc 1, 15) vuole intendere che nella sua persona c’è la
presenza del regno di Dio nella storia dell’uomo. Questo significa che tutto ciò
che è non ancora, in Cristo diventa già, con un’anticipazione dei tempi ultimi.
Perciò quello che l’apocalittica aspettava per la fine dei tempi è stato anticipato
in Gesù, pur se in modo non ancora compiuto, per cui questo tempo non è più un
kronos ma un kairos, ossia un tempo decisivo.
132
Gesù è l’ingresso di Dio nella condizione umana per risollevarla dal male e
l’uomo deve aderire a questa possibilità ponendosi alla sequela di Cristo. Quindi
la sovranità di Dio si fa presente con Gesù nella storia degli uomini, per cui il
futuro escatologico, atteso per la fine dei tempi, è già iniziato nell’esperienza di
Cristo.
Nella sinagoga di Nazareth Gesù legge Isaia (“i ciechi vedranno, i sordi
udiranno…..oggi si è adempiuta questa Scrittura”). Gli ebrei attendevano quelle
manifestazioni per la fine dei tempi, quando si sarebbero ribaltate le situazioni,
ma Gesù, dopo aver letto quel passo biblico, specifica che sarebbero avvenute sin
da allora, tanto che quando i discepoli di Giovanni gli chiedono se è lui colui che
stavano attendendo, Gesù manda a dire a Giovanni che i ciechi vedono, i sordi
odono, i morti risorgono, a significare la venuta del regno di Dio.
Gesù testimonia la presenza del regno in tutte le manifestazioni della sua vita
terrena, sia con le parole (si ricordino le parabole della dracma perduta, della
pecorella smarrita e del seme) che con le opere, con i segni del regno, con la
presenza di Dio che sana mediante i miracoli, con la prassi di frequentazione
delle persone che hanno bisogno di essere redente.
Ma la massima espressione, il vertice di quanto Gesù ha detto e fatto, si trova
nell’evento della croce e della resurrezione. Gesù risorto è il primogenito dei
morti ritornati nella vita di Dio, per cui l’esperienza della resurrezione, altrimenti
attesa per la fine dei tempi, in lui è già avvenuta nella storia. Di qui il valore
prolettico, anticipatore, dell’esperienza di Gesù. La resurrezione ha introdotto la
133
vita eterna nella storia: è la manifestazione di un regno che non è solo da
attendere, perché con Gesù tale evento è già avvenuto.
Lo stesso Paolo ha fatto esperienza del Gesù risorto e non del Gesù storico; per
tale motivo il centro del suo messaggio è dato dall’evento della resurrezione,
tanto da dire che se Cristo non è risorto tutta la nostra fede non ha senso. Paolo
afferma che l’essere in Cristo nella vita presente si trasformerà nell’essere con
Cristo nella morte, quando l’uomo abiterà una tenda non fatta da mani d’uomo
ma da Dio stesso, ossia il corpo del risorto.
In virtù di questa esperienza anticipatrice anche la morte dell’uomo non è un
finire nel nulla, ma introduce già alla partecipazione alla vita di Cristo, come si
vede in Lc 23, 43 nell’episodio del buon ladrone (“oggi sarai con me in
paradiso”). Quindi il presente ha una valenza escatologica, nel senso che la
definitività è già cominciata; la morte partecipa di questo regime già iniziato e il
compimento del tutto è atteso alla fine dei tempi con l’evento della parusia,
quando la vita si compierà integralmente con la resurrezione del corpo.
Alla dimensione dell’attesa, propria della speranza giudaica, segue la
dimensione realizzata, propria della speranza cristiana. I credenti, pertanto,
vivono il loro presente come un tempo qualitativamente nuovo, già escatologico
per il loro essere in Cristo. Infatti se Cristo ha anticipato nell’oggi il futuro della
storia, chi è in Cristo partecipa del mistero della realizzazione dell’evento.
L’esperienza di una speranza realizzata è motivo per confidare in una futura
definitività escatologica. Ciò vuol dire il superamento assoluto di ogni limite, del
peccato, della morte, e il raggiungimento di una pienezza che coinvolge tutto
134
l’uomo, la sua storia e la creazione intera, ossia quanto Dio ha predestinato nei
secoli da sempre (si ricordi la lettera agli Efesini). Quindi l’escatologia realizzata
al presente e l’escatologia realizzata al futuro si ritrovano in un’equilibrata
tensione, nella speranza vissuta dalla comunità credente e dal singolo individuo.
In conclusione, la motivazione cristologica, posta alla base dell’escatologia
neotestamentaria, condiziona il linguaggio che esprime i contenuti e le
prospettive della speranza. Formalmente nel Nuovo Testamento si ha una varietà
di linguaggi escatologici, attinti dalle diverse tradizioni (profetica, sapienziale,
apocalittica) presenti nel libro biblico, comunque tutti convergenti nel mistero di
Cristo. Infatti tutto è riferito a Cristo, il vero contenuto della speranza, tanto che
nel Nuovo Testamento manca ogni tipo di speculazione e di descrizione su
quanto accadrà nel futuro escatologico.
21.4. L’escatologia delle apocalissi cristiane extracanoniche.
Dai primi secoli e fino all’undicesimo si sviluppa una letteratura non canonica
tesa a descrivere il mondo futuro con elementi presi dell’apocalisse giudaica,
quali il linguaggio incomprensibile, la figura del mediatore, il catastrofismo per
descrivere la fine del mondo e la descrizione dei luoghi.
Le più importanti sono le apocalissi dell’apostolo Pietro e dell’apostolo Paolo.
Particolarmente nella seconda, forse composta in Egitto nella prima metà del
terzo secolo, risalta la dettagliata descrizione dell’inferno e l’impressionante
serie di pene e di castighi inferte ai dannati. Lo stesso Dante si servì di questo
testo per il suo capolavoro.
135
Nel tempo, purtroppo, questo aspetto speculativo è degenerato, per cui tali
scritti, pur se redatti nel lodevole tentativo di indurre il popolo alla conversione,
si sono allontanati dal mistero di Cristo.
Anche se questi libri non sono canonici, hanno comunque la loro importanza
teologica in quanto testimoniano le idee che circolavano nella comunità cristiana.
136
22. L’escatologia cristiana nel suo sviluppo storico-teologico postbiblico.
22.1. L’escatologia cristiana antica.
In breve tempo il cristianesimo dai piccoli centri giudaico-palestinesi si sposta,
soprattutto per merito di Paolo, verso i pagani, particolarmente nel mondo greco-
romano. Terminata l’epoca apostolica e dei loro successori nelle comunità
cristiane, i Padri Apostolici, vengono elaborate le prime testimonianze scritte dai
Padri della Chiesa. Questi testi non sono molto organizzati, perché i Padri,
avendo di fronte le comunità con i loro problemi, intendevano fornire delle
catechesi con degli scritti occasionali.
All’inizio, perciò, la dottrina cristiana si è evoluta sia per confrontarsi con
culture diverse, sia per problemi interni come la comparsa della gnosi cristiana,
la cui tendenza fortemente dualista portava alla svalutazione del corpo.
In questi contesti di inculturazione e di apologetica anche l’escatologia ha
trovato elementi di sviluppo, come l’approfondimento del tema della
resurrezione dei corpi, trattato da Ireneo, Origene, Clemente alessandrino,
Tertulliano,. Giustino, proprio contro gli gnostici che credevano solo
all’immortalità dell’anima.
Un altro tema sviluppato dalla patristica è il cosiddetto millenarismo (o
chiliasmo), una dottrina basata sul testo di Ap 20 e ritenuta condivisibile nella
fede. La lettura che l’Apocalisse suggerisce sul cosiddetto regno millenario
prevede una prima resurrezione dei morti in cui tutti i giusti parteciperanno della
resurrezione di Cristo e regneranno con lui per mille anni, al termine dei quali ci
137
sarà la seconda, definitiva resurrezione, dove gli empi saranno castigati con la
seconda morte e i giusti trionferanno con Cristo.
Scrittori come Ireneo e inizialmente anche Agostino (che in De Civitate Dei 20
e 22 spiega quel che accade dalla morte fino alla parusia finale del giudizio)
sposarono questa idea, ma il Magistero non ha mai avallato tale dottrina.
22.2. L’escatologia cristiana medievale.
Uno dei primi trattati sull’escatologia è il Prognostico di Giuliano di Toledo
(fine ottavo secolo), di stampo fortemente agostiniano. In seguito un autore
originale come Gioacchino da Fiore produce una svolta escatologica istituendo
un discorso storico-salvifico con la sua dottrina delle tre età (l’età del Padre, l’età
del Figlio e l’età futura dello Spirito).
Un momento importante nel medioevo si ha con la costituzione dogmatica
sull’escatologia “Benedictus deus”, di papa Benedetto XII (29 gennaio 1336), la
cui origine merita un approfondimento. Il papa precedente, Giovanni XXII,
espresse una personale opinione in un discorso pronunciato nel giorno di
Ognissanti, affermando che i morti non ricevono immediatamente la retribuzione
ma riposano nel seno di Abramo in attesa del premio o della condanna che
avverrà alla fine dei tempi, secondo un’idea veterotestamentaria che annullava
l’evenemenzialità di Gesù Cristo. Il cardinal Fournier lo invitò a ritrattare ma
Giovanni XXII non fece in tempo perché morì. In seguito lo stesso Fournier,
divenuto papa, ritornò sull’argomento, specificando che la retribuzione avviene
subito dopo la morte, o con la condanna o con la vita eterna, salvo purificazione.
138
22.3. L’escatologia cristiana moderna.
Nell’epoca moderna l’accentuazione dell’individualismo e conseguentemente
dell’escatologia individuale si comprende proprio partendo dall’esaltazione del
soggetto.
Il germe di questo processo parte da alcuni teologi controversisti, i quali
intendono rispondere agli attacchi dei protestanti, che comunque non mettono in
questione nulla sull’escatologia. I controversisti più famosi sono Bellarmino e
Suarez, che si rifanno a Tommaso, il quale, a sua volta, si riconduceva al
pensiero agostiniano.
Questa tendenza alla cosificazione, ossia a isolare l’escatologia dal contesto
storico-salvifico e a formularsi come qualcosa a sé stante, diventa compiuta nel
diciottesimo e diciannovesimo secolo con la neoscolastica, che predica il ritorno
a Tommaso. Il trattato sull’escatologia viene a chiamarsi “De Novissimis” e
comprende la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso, tutti aspetti che
comunque riguardano il singolo individuo.
22.4. L’escatologia cristiana contemporanea.
L’impostazione neoscolastica, inizialmente favorita dal Magistero, col tempo
ha subìto varie critiche.
Una prima riflessione al riguardo viene proposta da M. Scheeben, che nella sua
opera principale, “I misteri del cristianesimo”, inizia il ripensamento della
teologia nell’ambito della storia della salvezza.
139
Verso la fine del diciannovesimo secolo qualche timido tentativo venne
proposto da Schmaus e da Guardini, ma solo verso la metà del ventesimo secolo
si assiste a un rinnovamento dell’escatologia, peraltro inserito in un ambito più
globale di rinnovamento teologico che culmina col Concilio Vaticano II.
Questo nuovo contributo è merito di alcuni teologi protestanti che hanno
ripensato l’escatologia partendo da studi di carattere esegetico. Fissando
l’attenzione sul Gesù storico, Weiss, Schweizer e Dodd hanno evidenziato la
dimensione escatologica della predicazione di Gesù sul regno di Dio. Questo
aspetto venne approfondito da Cullmann, che ha coniato la famosa espressione
del “già e non ancora”, e poi da Bultmann, Barth e Pannenberg.
Tale rinnovamento prodotto in ambito protestante ha influenzato anche il
mondo cattolico, fino allora piuttosto fermo perché troppo vincolato all’autorità
magisteriale. Intorno agli anni cinquanta Gondar e Danielou (cui seguirono studi
di Rahner e Von Balthasar) hanno aperto la strada per un rinnovamento
dell’escatologia anche in ambito cattolico, il primo con un articolo sul purgatorio
ed il secondo con un testo sul dogma di Calcedonia. Secondo questi autori il “De
Novissimis” è un trattato che intende parlare delle cose ultime intese non come
evento ma come geografia dell’aldilà, mentre bisogna richiamare l’istanza di
fondare l’escatologia sulla cristologia.
Il culmine di questo rinnovamento si ha nel Concilio Vaticano II, la cui sintesi
escatologica è contenuta in LG 7 e 8 e in GS 18 e 39.
In seguito il sorgere di alcuni problemi ha portato alla stesura della “Lettera
della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede” (17 maggio 1979), in cui
140
vengono precisati vari aspetti, quali, ad esempio, che al momento della morte
non si può avere la resurrezione perché questa è attesa per la fine dei tempi.
Nel 1992 un documento della Commissione Teologica Internazionale intende
chiarire la differenza tra reincarnazione e resurrezione, dopodiché non c’è stato
alcun approfondimento sulle questioni escatologiche, a parte il recente
documento sul limbo richiesto dai vescovi sudamericani, su un aspetto che
comunque non ha particolare rilevanza.
141
23. L’escatologia cristiana: proposta sistematica.
23.1. L’evento Gesù Cristo come evento storico-escatologico.
L’escatologia trova il suo fondamento originario nell’evento Cristo. Prima di
allora la speranza giudaica si fondava sull’attesa del giorno di Jahwè, in cui ci
sarebbero stati gli eventi escatologici, formulati secondo i concetti della
resurrezione e dell’immortalità. Gesù, invece, predica che il regno di Dio è ormai
presente con lui, per cui l’eternità è anticipata nella storia. Tale anticipazione
risulta significativa nella sua resurrezione, un evento decisivo per tutti,
rappresentando la garanzia che quanto è atteso per la fine è talmente vero che si è
già realizzato in un uomo.
Pur se Gesù ha già realizzato il regno, ha anche detto che il compimento è
atteso per la fine dei tempi, dove ritornerà per instaurarlo definitivamente quando
nella parusia si manifesterà in modo glorioso.
Tutti coloro che sono in Cristo, con il battesimo vivono già nel loro presente
un’esperienza escatologica, anticipatrice di quel che in modo compiuto avverrà
alla fine. Infatti nel battesimo l’uomo è morto e sepolto con Cristo ma è anche
resuscitato con Cristo. Quindi Gesù ha qualificato escatologicamente il presente
nel suo mistero pasquale, per cui l’escatologia non riguarda solo la fine ma prima
di tutto il presente, in quanto tramite l’azione dello Spirito ciascuno partecipa di
tutti i temi messianici di Cristo.
In passato, come trattato nel “De Novissimis”, ci si occupava solo di ciò che
succedeva dopo la morte, ma con l’evento Cristo si valorizza anche il momento
142
presente; l’escatologia, perciò, comprende tutta la vita cristiana e coincide col
tempo della Chiesa, dalla Pasqua di Gesù fino al suo ritorno glorioso.
23.2. Il carattere escatologico dell’esistenza cristiana presente.
In LG 2 è scritto che “La Chiesa istituita negli ultimi tempi è stata manifestata
dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli”.
Quindi con l’istituzione della Chiesa si è già entrati in un tempo escatologico,
provocato dall’evento pasquale che ha trasformato il tempo da kronos a kairos,
ossia un tempo definitivo.
La Chiesa è una comunità escatologica nata dal costato trafitto di Cristo e
partecipa a tutti il mistero dell’incarnazione e dell’evento pasquale, che tramite il
dono dello Spirito fa della Chiesa, intesa come la comunità dei credenti in Cristo,
il luogo storico in cui si realizza l’incontro salvifico tra Dio e l’uomo.
La condizione della Chiesa, in quanto mediatrice e sacramento universale della
salvezza di Cristo, è di tipo escatologico, perché è la comunità dove è possibile,
grazie allo Spirito, incontrare la salvezza di Gesù, il regno di Dio già cominciato.
La Chiesa non coincide col regno ma è inizio del regno (LG).
Se la Chiesa è una comunità escatologica deve anche agire come tale. Questa
caratterizzazione si rende visibile nel fatto che è una comunità santa, nonostante
le imperfezioni di tutti i giorni. La pienezza della santità è un traguardo che la
Chiesa raggiungerà alla fine dei tempi, ma non c’è dubbio che proprio per
l’azione dello Spirito è già santa.
143
Gli elementi storici che manifestano tale santità sono anzitutto l’annuncio del
vangelo, che viene reso una parola viva per mezzo dello Spirito, e
l’amministrazione dei sacramenti, di cui il battesimo è il primo per eccellenza.
L’annuncio della Parola e la celebrazione liturgica dei sacramenti devono
estrinsecarsi attraverso la diaconia escatologica, che è un servizio della carità.
Solo quando il cristiano coglie la presenza di Dio in mezzo agli uomini (“ero
nudo e mi avete vestito…..”) la speranza si dilata e diventa operativa.
La vita del cristiano, in quanto esistenza in Cristo, traduce la qualità
escatologica manifestando la vita pasquale. L’evento Cristo, infatti, passa
primariamente per la sofferenza della croce, presente nella vita di ogni credente,
il quale sperimenta già nell’oggi la potenza della croce di Gesù che trasforma il
suo essere attraverso la sconfitta del peccato e del male. Ciò significa che la
morte come realtà non è un’esperienza che si fa solo nell’hora mortis, ma che già
oggi interessa l’esistenza del credente.
Nel presente l’uomo fa anche l’esperienza della purificazione, in quanto
nell’incontro con Gesù, proprio perché mette a nudo i suoi fallimenti, si rende
conto che questi ostacolano l’essere in Cristo del battezzato. In tal modo si
provoca un ritardo nell’incontro con lui che comporta sempre una sofferenza che
si espleta, appunto, nell’esperienza della purificazione.
Purtroppo l’uomo fa anche l’esperienza della dannazione quando commette un
peccato mortale, tale da rompere la comunione con Dio, da distruggere l’incontro
con lui, sperimentando in tal modo la solitudine che rappresenta già un inizio di
dannazione.
144
Ovviamente si fa anche l’esperienza della vita eterna, ossia del paradiso, della
resurrezione, che l’uomo avverte già nel presente quando sente la gioia di essere
in Cristo che si esplicita nelle relazioni e che caratterizza il dinamismo della sua
vita, spingendosi fino all’hora mortis e di qui fino alla parusia.
Allora una caratteristica della Chiesa in quanto comunità escatologica è quella
di essere pellegrina verso il compimento, sospinta in avanti dallo Spirito. Come
per ogni pellegrinaggio c’è bisogno di soste per il nutrimento, che la Chiesa
porge nella celebrazione dei sacramenti, in particolare dell’eucarestia, non a caso
chiamata viatico. Nell’eucarestia si sperimenta il Signore che è venuto e che sta
attirando l’uomo alla meta.
La certezza di giungere felicemente alla meta non c’è solo per la resurrezione
di Cristo ma anche per l’esistenza stessa di Maria. La madre di Cristo, infatti,
oltre ad indicare il cammino, evidenzia che solo facendolo in unione al suo Figlio
l’uomo può arrivare alla meta; questo perché lei, in quanto associata strettamente
a Cristo, è la prima dei credenti ad aver già raggiunto la meta e quindi si presenta
come icona, modello escatologico di tutta la Chiesa perché è già assunta in cielo
in corpo e anima.
23.3. Il carattere escatologico dell’esistenza cristiana nella morte.
Prima o poi il cammino storico dell’uomo finisce e si giunge all’hora mortis.
In passato la morte era vissuta con grande dignità perché faceva parte integrante
della realtà, mentre nella cultura contemporanea, dove il soggetto è stato
decostruito, una serena riflessione sul tema diventa molto problematica.
145
Da tempo nei confronti della morte si tesse un processo di rimozione, sia dalla
coscienza privata che da quella pubblica. Addirittura qualche studioso parla di
tabuizzazione, in quanto la morte è oggi un tabù come lo era un tempo il sesso.
Questo perché la morte fa pensare, mentre la cultura odierna tende a non far
pensare l’uomo.
Un cristiano, però, deve riappropriarsi di questa realtà, imparando a morire e ad
accompagnare i morenti. La morte è il momento più forte della vita, l’istante
ultimo in cui l’uomo compie il suo processo di personalizzazione, almeno per
quanto riguarda il suo aspetto storico.
Come la morte è decisiva da un punto di vista antropologico, lo è anche da un
punto di vista teologico, perché così come l’uomo vive in Cristo, con la morte si
incontra con Cristo, per cui, come dice Paolo, dall’essere in Cristo si approda
all’essere con Cristo e grazie al suo mistero pasquale la morte rappresenta un
passaggio in una diversa dimensione del vivere.
Se nella vita presente l’uomo col battesimo è inserito nel mistero di Cristo, con
la morte il processo di conformazione a Cristo diventa definitivo perché in
questo momento l’uomo incontra Cristo personalmente e non più nella parola,
nei sacramenti o nella carità.
E’ in questo momento che l’uomo incontra l’offerta di grazia definitiva di Dio
nei suoi confronti, perché Gesù è la grazia e con la morte l’offerta della grazia
diventa somma. Il morire dell’uomo in Cristo diventa il luogo della decisione
totale e definitiva di un cammino già avvenuto lungo la storia. Tale decisione
ultima non è slegata dalle scelte fatte in vita che preordinano l’incontro finale, al
146
punto che se Cristo è stato incontrato sempre positivamente in vita, con la morte
lo si incontra definitivamente.
In questa logica di continui incontri nella vita, ogni volta che si aderisce a
Cristo lo si fa anche con una certa sofferenza perché l’uomo tende sempre a
conservare qualcosa di sé, come peraltro avviene nei vari campi della vita, ad
esempio nelle relazioni amicali. Questa sofferenza, dovuta al ritardo della
relazione che deve ancora compiersi, è l’esperienza della purificazione.
Tale dinamismo si verifica anche nell’incontro ultimo, dove emerge
pienamente il ritardo che l’uomo ha accumulato durante la sua vita terrena, per
cui con la morte si provoca una sofferenza dovuta al fatto che l’uomo nella sua
vita non ha mai aderito perfettamente a Cristo. Di qui l’esperienza della
purificazione, possibile solo per coloro che aderiscono a Gesù e che saranno poi
salvati, mentre i dannati non devono purificarsi perché in vita hanno rinunciato
definitivamente a Dio.
Il passaggio nella sofferenza dell’uomo in Cristo va rettamente compreso onde
superare l’annosa controversia tra greci e latini riguardo il purgatorio.
La tradizione teologica ortodossa intende la purificazione ultraterrena come il
dinamismo dell’intero processo di divinizzazione del credente, che nella grazia è
il cammino dell’uomo verso la conformazione a Cristo. Lo sviluppo della piena
ed escatologica conformazione dell’uomo all’immagine di Dio in Cristo
comprende un processo di maturazione, consistente in un positivo processo
mistico che sembra escludere l’aspetto penale e doloroso.
147
La tradizione teologica latina, invece, pone l’accento sulla dimensione
espiativa e sofferente; pertanto la purificazione viene concepita in termini di
compiuta rimozione di tutti i residui dei peccati commessi dall’uomo durante la
sua esistenza, onde consentire la perfetta comunione con Cristo e i fratelli.
Dal punto di vista teologico, grazie anche alle sobrie elaborazioni dottrinali del
Vaticano II decisamente più vicine agli orientali, la purificazione ultraterrena è
comprensibile in termini di evento salvifico che accompagna il credente
nell’incontro decisivo con Cristo. Essa porta a consumazione tutto il dinamismo
che si manifesta nell’incontro terreno tra la grazia di Dio e la responsabilità
accogliente dell’uomo, che rivela come la risposta dell’uomo al dono di Dio non
sia mai assolutamente adeguata a causa del disordine nella vita di fede dovuta al
peccato.
In questo senso la purificazione consuma l’accoglienza totale del mistero
salvifico di Cristo da parte del credente. Incontrare definitivamente il Signore
come giudice che svela il senso ultimo della sua vita è cogliere, insieme
all’adesione a Cristo, anche il vuoto del proprio passato, la vacuità del proprio
comportamento. Nasce allora una lacerazione profonda, un amore doloroso, una
sofferenza amante che, come fuoco, purifica la persona dai suoi peccati.
Per le difficoltà che trova lungo il cammino della vita cristiana l’uomo chiede
un sostegno alla Chiesa, comunità solidale in cui si evidenzia la relazionalità
strutturale tra gli uomini. Se questo bisogno emerge nella vita terrestre, avrà
ragione di essere anche dopo la morte. L’aiuto offerto a tutti coloro che muoiono
148
in Cristo si ha elevando a Dio, soprattutto nella celebrazione eucaristica, la
preghiera di suffragio, l’indulgenza, il tesoro della Chiesa.
Tale preghiera assume un particolare valore per la logica della carità e della
fraternità ecclesiale che non viene meno tra i vivi e i morti, nel doloroso
dinamismo di purificazione che accompagna la piena conformazione a Cristo di
quanti hanno varcato la soglia della morte.
Pregare per i fratelli significa offrire loro il sostegno nella purificazione. Il
suffragio non riduce temporalmente questo processo; esso manifesta il profondo
legame dei vivi e dei morti in Cristo, la reciprocità solidale nello Spirito che
coinvolge i credenti nel loro itinerario storico-salvifico ecclesialmente
configurato.
In Gesù Cristo, Dio ha già reso i fratelli defunti partecipi della sua
incondizionata volontà salvifica in misura piena e totale; in tale contesto egli
eleva continuamente le nostre preghiere e le inserisce nella sua azione concreta
nei confronti di questo o di quell’uomo, senza che noi possiamo sapere come ciò
avvenga, lasciando con fiducia a Dio la concreta applicazione della nostra
preghiera per la salvezza di un essere umano.
I defunti continuano insieme ai vivi a camminare verso la pienezza di tutto
perché sono nel corpo di Cristo secondo un elemento strutturale dell’essere
umano, ossia l’anima. Questa non va intesa in senso platonico ma come l’io
sussistente, cosciente, come l’identità di ciascuno che ha ancora bisogno del
compimento con la resurrezione del corpo. Nell’essere in Cristo, al passaggio
della morte l’uomo conserva la sua identità non per sua natura ma per il dono di
149
Dio dell’elemento strutturale che la tradizione chiama anima, pur se il termine è
equivoco e potrebbe far pensare al dualismo.
Le due situazioni di Chiesa, quella dei vivi e quella dei morti, vanno perciò
verso il compimento della loro storia, dove la predestinazione sarà compiuta in
una dimensione collettiva finale. La LG afferma che fra la Chiesa celeste e la
Chiesa terrestre c’è un cammino vitale che avviene attraverso la preghiera,
l’unico linguaggio comprensibile. Il morire è dunque un passaggio da Chiesa a
Chiesa, dalla terrena comunione ecclesiale alla celeste comunione dei santi.
I vivi e i morti camminano insieme, sia pure secondo modalità diverse, verso il
loro compimento definitivo in Dio. Il Concilio Vaticano II afferma chiaramente
la vitale comunione tra la Chiesa terrena e quella celeste in LG 49: “Tutti quelli
che sono di Cristo avendo il suo Spirito formano una sola Chiesa e sono tra loro
uniti in lui. L’unione quindi di coloro che sono in cammino coi fratelli morti
nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede
della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali”.
Se noi viventi esprimiamo la relazione con i morti dal basso mediante la
preghiera di suffragio, essi esprimono la loro relazione con noi dall’alto,
mediante la preghiera di intercessione.
“In una maniera diversa e ancor più intensa di prima essi sono presso di noi
nelle nostre lotte, ci accompagnano e ci aiutano lungo il nostro cammino. Qui
sta il senso profondo di una relazione vissuta anche con santi e patroni
protettori e, inoltre, con tutti gli altri nostri defunti che durante la vita si sono
prodigati nell’aiutare gli altri e che adesso, giunti a compimento, non sono meno
150
solidali con noi. Quando ci ricordiamo dei nostri morti e guardiamo le loro
fotografie, possiamo essere certi che adesso si preoccupano ancor più
intensamente di una volta di noi “ (H. Kessler).
In tal modo la preghiera è il mezzo di contatto più opportuno e il luogo più
adatto per comunicare, nello Spirito, con i nostri morti. Tale mistero di
comunione è particolarmente espresso nella preghiera liturgica, come specificato
in LG 50: “La nostra unione con la Chiesa celeste si attua in maniera
nobilissima quando, specialmente nella nostra liturgia nella quale la virtù dello
Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in comune
esultanza cantiamo le lodi della divina maestà, e tutti, di ogni tribù e lingua, di
ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo e raduni in un’unica
Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio uno e trino”.
Per tale motivo i credenti escludono ogni possibilità di contatto con i defunti
che preveda l’utilizzo di tecniche, di pratiche magiche o di quant’altro sia
incompatibile con la fede, la quale rappresenta l’unico mezzo che permette di
accedere alla realtà misteriosa dei nostri morti in Cristo.
23.4. L’evento escatologico parusiaco.
Nell’evento parusiaco si compie il mistero della predestinazione, il progetto di
Dio sull’uomo, sulla storia, sul mondo, sulla creazione intera. Questo
compimento avviene con la mediazione di Cristo risorto, perché tutto è stato
fatto per mezzo di lui e in vista di lui.
151
La centralità di tale evento si trova nell’evento pasquale di Gesù, che è già un
evento parusiaco, e sarà ulteriormente riconoscibile nella manifestazione gloriosa
di Cristo. Del resto il termine parusia, usato nell’ambiente ellenistico, voleva
significare proprio l’ingresso del re nella città conquistata. Non a caso Cristo è
Re e Signore della storia e dell’universo, l’alfa e l’omega.
Nella parusia ci sarà la fine del mondo perché in questo momento termina
l’esperienza storica, non con la distruzione ma per ritrovarsi nel compimento di
ciò per cui è stato pensato in vista di Cristo. Tale ricapitolazione permette di
ritrovarsi compiutamente nell’eternità partecipando alla vita stessa di Dio. I Padri
orientali indicavano efficacemente questo compimento antropologico col termine
theiosis, ossia divinizzazione, secondo cui noi saremo adottati da Dio.
Non si può descrivere il modo con cui avverrà la parusia, anche perché se così
fosse l’uomo entrerebbe nella dimensione stessa di Dio. Si può comunque
pensare che quanto è accaduto nella Pasqua storica di Cristo assumerà un volto
radicale. Infatti Gesù, in quanto primogenito dei risorti, ha subìto la
trasformazione totale della sua esistenza umana, per cui non è possibile trovare il
suo cadavere perché in lui è già accaduto quello che noi sperimenteremo alla fine
dei tempi.
Nell’aldilà ci riconosceremo tutti non per le nostre fattezze fisiche ma in base
all’identità personale di ciascuno, perché allora l’aspetto biologico non esisterà
più. Ma noi conserviamo un’identità che va oltre il biologico; basti pensare allo
stesso svolgersi della vita, per cui ogni istante si è già morti a quello che si era
prima e solo nell’identità ci si conferma. In tal senso Paolo porta l’esempio del
152
chicco e della spiga: sono due cose diverse ma con un’identità che continua, per
cui quello che oggi è chicco, domani diventa grano.
Al riguardo è emblematico quanto accaduto ai discepoli di Emmaus: Gesù si
affianca, parla con loro ma questi lo riconoscono solo quando manifesta la sua
identità nello spezzare il pane, rivelando la sua identità di risorto che esce dagli
schemi spazio-temporali della storia. Del resto i vangeli dicono che fu sempre
Gesù a mostrarsi dopo la resurrezione, tanto che i discepoli non lo riconoscono
mai se Gesù non si dà a vedere.
Nel momento della fine assoluta tutto viene allo scoperto e di fronte a Cristo si
distingue ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. E’ l’esperienza del giudizio
particolare di ciascuno, mentre il giudizio universale riguarda l’intera storia che
viene svelata integralmente alla fine dei tempi. In questo evento ci sarà l’assoluta
sconfitta del male e della morte, con la manifestazione gloriosa della salvezza;
infatti il male non ha futuro e la sua sconfitta definitiva sarà la sconfitta di satana
e di coloro che hanno aderito al suo progetto.
Tutto ciò potrebbe far pensare al giudizio come a una parola che giunge
all’uomo dall’esterno, pronunciata in una sorta di tribunale appositamente
allestito sulla scena finale. In realtà il giudizio è uno svelarsi della persona e di
tutta la storia di fronte a Cristo. Addirittura secondo Von Balthasar il giudizio
non è altro che un autogiudizio; nella luce divina che scruta i cuori in profondità,
l’uomo accusa sé stesso dei propri peccati, svela la propria coscienza e conferma
i suoi personali meriti, che comunque risulteranno sempre inadeguati nel
confronto della sua vita con quella di Cristo.
153
In definitiva, il giudizio rientra nella logica della salvezza che appartiene solo a
Dio; in quanto fondato sull’amore che risplende sul volto glorioso di Cristo,
illumina il valore della libertà e l’esito della speranza dell’uomo, che si
accompagnano alla totalità della propria storia intessuta di relazioni con i fratelli.
Ma oltre a ciò, la parusia è anche compimento del mistero della Chiesa, che
nell’adempiuta comunione dei santi giunge alla sua beatitudine partecipando alla
stessa vita di Dio, in quello che comunemente viene chiamato paradiso.
Nella partecipazione all’eterna vita trinitaria di Dio, la comunione in cielo tra i
santi si esprime in una condizione dove non c’è spazio per l’egoismo e per
l’isolamento e in cui ogni uomo è del tutto aperto all’amore verso Dio e gli altri.
In cielo ognuno conserva la sua peculiare personalità costruita nella relazione,
in una carità talmente perfetta che nell’abbraccio misericordioso ognuno ama
l’altro, dove la grazia e la pace si trasmetteranno a tutti e l’amore di ciascuno si
realizza compiutamente.
La beatitudine della Chiesa è, perciò, il superamento del suo tempo storico di
fidanzamento, per cui nella parusia essa è conquistata da Cristo e nello Spirito ne
diventa la sposa, totalmente libera da ogni macchia. Nella vita di Dio la Chiesa è,
per dirla con l’Apocalisse, la città santa, la nuova Gerusalemme, abitata da Dio e
rinnovata nell’incontro definitivo con il suo sposo.
In tal modo la parusia della Chiesa è la realizzazione di un’escatologica
riconciliazione di Dio con gli uomini, la nuova alleanza con tutti i popoli della
terra, il compimento della creazione salvifica che Dio, per mezzo del Figlio e
nello Spirito, ha da sempre voluto intrattenere con le sue creature.
154
23.5. La resurrezione del corpo.
Per comprendere questo aspetto occorre anzitutto considerare che l’uomo non
ha un corpo ma è un corpo, o meglio è unità di corpo e anima.
L’aspetto biologico è il modo spazio-temporale di manifestarsi, ma l’uomo
trascende la propria fisicità, non potendo ridursi al solo modo di apparire nello
spazio e nel tempo, realtà destinate alla fine. Nella resurrezione, perciò, non è il
corpo biologico a trasformarsi ma la realtà dell’uomo nel suo essere corpo.
Ogni resurrezione avrà come suo modello quella di Cristo. Al riguardo è
emblematico quanto riportato in 1Cor 15, dove gli abitanti di Corinto chiedono a
Paolo come risorgono i morti e l’Apostolo risponde che risorgeremo come Cristo
è risorto, per cui la resurrezione va pensata in termini di trasformazione di tutto,
al punto che il biologico non sussisterà più perché questo finisce con la storia.
Quando si parla di resurrezione nella nostra totalità, si intende che noi
conserviamo la nostra identità costruita in vita. In questo senso la resurrezione
del corpo non significa la riassunzione del corpo biologico che ha dato forma alla
vita terrena, in quanto il cadavere prima o poi finisce. Siffatta interpretazione
materialistica non renderebbe ragione della novità trasformante inclusa
nell’evento della resurrezione ed escluderebbe di fatto la compiutezza
antropologica. Lo stesso dicasi per un’interpretazione spiritualistica che,
prevedendo una radicale trasformazione del corpo, renderebbe vano il senso
stesso della corporeità, che dice il riferimento essenziale dell’io personale alla
sua storia e al suo mondo.
155
La resurrezione, allora, è l’evento che compie l’uomo nella sua unità
sostanziale di corpo e anima che lo identifica personalmente; perciò quando si
afferma la ricongiunzione dell’anima al corpo nella resurrezione non si vuole
intendere l’atto di ricomposizione di due entità, ma il compimento dell’identità
umana nella totalità delle sue espressioni spirituali e corporee.
Ciò che permane nel trapasso è l’identità personale, l’io, l’anima, nella
complessa relazione che l’uomo intrattiene con Dio. Dal momento, però, che
l’identità personale esiste nella vita storica di una persona, essa è
necessariamente anche identità somatica. A risorgere nell’ultimo giorno (Gv
6,54) sarà l’uomo intero, così come esso è diventato nella figura storica della sua
vita e come Dio lo vede.
La resurrezione comporta per l’uomo la ricapitolazione di quanto ha segnato la
sua vicenda umana di persona intrattenutasi consapevolmente nella relazione con
Dio, con i propri simili e con il suo ambiente mondano. La sua identità, infatti,
viene creata nel fascio di relazioni, negli affetti, in ciò che lo ha fatto veramente
uomo. La resurrezione corporea dell’io spirituale di ognuno è la compiuta
maturazione dell’intera storia personale di ciascuno nel corpo di Cristo risorto; è
il definitivo superamento delle limitazioni antropologiche terrene come
integrazione totale di esse e non come abbandono spersonalizzato di quanto, in
realtà, costituisce la misteriosità della vicenda umana.
Tutti i momenti storici di un uomo che hanno segnato il suo procedere verso la
pienezza, con la resurrezione vengono ritrovati trasfigurati e unificati in Dio, il
156
quale è fedele alla sua creazione. Tutto ciò che fa l’identità di uomo, modellato
dalla sua storia terrestre, sarà conservato, pur se trasfigurato. L’essere personale
che si è forgiato, la ricchezza delle sue esperienze, il patrimonio culturale
acquisito nella sua esistenza, tutto questo, che è frutto della grazia di Dio e della
libertà dell’uomo, si conserverà con le capacità di apertura, di relazione e di
comunione così suscitata.
Il paradiso, perciò, sarà il luogo dove si ritroveranno le relazioni umane stabilite
in questo mondo. Dio allora potrà prendere in mano questo essere incompiuto
per dargli nuove dimensioni, in un modo che l’uomo non può immaginare,
perché fondamentalmente incapace di rappresentarsi adeguatamente la corporeità
risorta.
157