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ECCLESIA MATER ANTROPOLOGIA TEOLOGICA Prof. Giovanni Ancona 1. Definizione e contenuti dell’antropologia teologica. L’antropologia teologica è la disciplina che cerca di rendere ragionevoli e credibili, secondo un percorso argomentato, le verità della fede cristiana circa l’uomo, la sua storia e il suo mondo, perché l’uomo non può essere considerato senza l’insieme di relazioni che costituiscono la sua storia. Nel manifestare il suo assunto l’antropologia teologica deve essere adeguata alla propria condizione, alle proprie possibilità, portando 1

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ECCLESIA MATER

ANTROPOLOGIA TEOLOGICA

Prof. Giovanni Ancona

1. Definizione e contenuti dell’antropologia teologica.

L’antropologia teologica è la disciplina che cerca di rendere ragionevoli e

credibili, secondo un percorso argomentato, le verità della fede cristiana circa

l’uomo, la sua storia e il suo mondo, perché l’uomo non può essere considerato

senza l’insieme di relazioni che costituiscono la sua storia.

Nel manifestare il suo assunto l’antropologia teologica deve essere adeguata

alla propria condizione, alle proprie possibilità, portando elementi di verità, la

quale, per dirla con gli scolastici, è “adeguatio rei et intellectus”.

Quindi la ragionevolezza è il logos veritativo di una disciplina, che diventa

credibile se ragionevole e comprensibile, ossia se usa un linguaggio attinente agli

interlocutori. Un grande problema odierno, infatti, è che molte cose spesso

vengono dette con linguaggi talmente complessi che i contenuti annessi

difficilmente risultano credibili.

L’antropologia teologica agisce mediante un confronto con le acquisizioni

sull’uomo tipiche dell’antropologia culturale, filosofica e religiosa, in quanto le

verità di fede sono sempre state mediate dal linguaggio proprio del tempo. Tale

confronto aiuta a formalizzare il principio ermeneutico, ossia il principio di

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traduzione delle verità di fede all’uomo di oggi, altrimenti si perde

ragionevolezza e credibilità perché mancherebbe un supporto critico.

A prima vista si potrebbe confondere l’antropologia teologica con

l’antropologia religiosa, ma questa non è una scienza cristiana perché studia

come l’uomo si relaziona con un trascendente generico, non col Dio uno e trino.

Un esempio di antropologia religiosa si ha nell’uomo primitivo che si esprime

traducendo con simboli il suo rapporto col trascendente; i graffiti ritrovati in

alcune caverne esprimono la sua cultura o il suo rapporto con la divinità,

significando che l’uomo ha un rapporto con un’entità che lo supera e tale

rapporto non è più culturale ma religioso, perché cerca il senso ultimo della sua

esistenza in qualcosa che lo rimanda oltre. Quindi l’antropologia religiosa attinge

i suoi principi dal basso e non dall’alto, nel senso che esamina il fenomeno

religioso nel suo manifestarsi; studia anche il cristianesimo ma solo nelle sue

modalità liturgiche, nel suo modo di essere vissuto.

1.1. Le verità della fede cristiana circa l’uomo, la sua storia e il suo mondo.

Nel progetto salvifico di Dio (mysterion), l’uomo e tutto quanto esiste con

sono stati predestinati in Cristo Gesù (cfr. Ef 1, 4-5). In questo progetto voluto da

Dio per mezzo e in vista del suo Figlio Gesù nella potenza dello Spirito (da qui

l’origine trinitaria del progetto), ci è detto che l’uomo e tutto ciò esiste sono stati

predestinati in Gesù Cristo.

La predestinazione non va intesa in chiave deterministica, nel senso che una

certa cosa debba necessariamente andare così, ma esprime qualcosa di gratuito,

un accesso reso possibile non perché dovuto all’uomo ma perché voluto da Dio.

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Questa predestinazione ebbe già manifestazione pubbliche quali la creazione

stessa, i profeti, i giudici, i re, ma si trova compiutamente rivelata nella singolare

vicenda storica di Gesù Cristo, con cui viene manifestata all’intera creazione il

progetto di Dio.

L’intera creazione viene totalmente svelata nel suo mistero salvifico (origine,

storia, compimento) e incontra la possibilità di essere redenta, liberata da ogni

forma di minaccia e di giungere al suo fine ultimo, alla sua compiutezza

escatologica (cfr. Col 1, 16-17, Gv 1, 4).

La Parola di Dio afferma che la singolare vicenda di Gesù Cristo è un dato

evenemenziale (di grazia), che nello Spirito e grazie alla sua potenza istituisce

universalmente l’accesso dell’uomo, della sua storia e del suo mondo a Dio e

media “tutte le forme dell’umano e del religioso che si lasciano plasmare da una

divina rivelazione” (F. G. Brambilla).

Le verità di fede vengono attinte dalla rivelazione; quelle riguardo l’uomo, la

sua storia e il suo mondo vengono attinte dal deposito di fede, che è la Parola di

Dio scritta e non scritta, contenuta nella tradizione non normata, ossia la Bibbia,

e nella tradizione normata, ossia la preghiera, la liturgia, la riflessione dei

teologi, il Magistero.

In Gaudium et spes 22 si afferma: ”In realtà solamente nel Verbo incarnato

trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di

quello venturo (Rom 5, 14), ossia di Gesù Cristo Signore. Cristo, il nuovo

Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche

pienamente l’uomo a sé stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione”.

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La storia è coinvolta in un progetto, con un’alfa (una protologia) e un omega

(un compimento), non una fine ma un fine che è il discorso sulle cose ultime,

ossia l’escatologia. Tra alfa e omega è racchiuso tutto il progetto di salvezza che

la Scrittura chiama il mysterium della volontà di Dio. In Gesù Cristo l’uomo,

espressione del mistero salvifico, capisce la sua origine, da dove viene, da chi è

voluto, che senso ha la sua storia e a chi è destinato.

In definitiva, i pronunciamenti fondamentali della fede cristiana sull’uomo e

sull’intera creazione sono riassumibili in tre punti.

1. Uomo e mondo sono stati liberamente creati da Dio, per mezzo di Cristo e

nella forza dello Spirito, secondo un progetto di salvezza (creazione non come

azione salvifica puntuale ma come economia che si dispiega in continuo).

2. Gesù Cristo incarnato rivela e compie il progetto di Dio, libera l’uomo dalla

minaccia e dal peccato (eredità di Adamo), lo risolleva dalla sua condizione

(giustificazione) e gli offre le possibilità concrete (vita nuova) per compiere il

suo essere immagine di Dio.

In Gesù Cristo si coglie non solo che Dio libera, ma anche la possibilità di

raggiungere un fine, che per l’uomo è la salvezza, il compimento di quanto si è,

la realizzazione, la felicità, la beatitudine, il voler vivere per sempre, la

distruzione di ciò che è intralcio radicale come la morte.

A volte per l’uomo è difficile capire tutto ciò, in quanto sembra che ci sia

sempre qualcosa che lo minacci al punto da far scelte spesso contrarie al progetto

salvifico. In negativo la salvezza per l’uomo è la liberazione dalle minacce, da

ciò che lo ostacola, che non gli fa raggiungere il fine, ma in positivo la salvezza è

anzitutto una liberazione da qualcosa; nel suo incontro con Cristo l’uomo trova

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la possibilità di essere liberato dal peccato, che non fa essere uomini fino in

fondo e disturba il cammino del progetto salvifico.

Ma la salvezza non è solo questo; va pensata non solo come liberazione da ma

anche come liberazione per. Questo aspetto si trova anche nell’Antico

Testamento, quando Dio liberò Israele dall’Egitto per farne il suo popolo santo,

offrendogli nell’esperienza dell’esodo le possibilità per giungere ad un fine.

In Gesù Cristo, Dio si fa uomo perché l’uomo possa essere divinizzato. Al di

fuori di Cristo (la grazia di Dio in persona) non è possibile la realizzazione, il

compimento dell’umano, che l’uomo desidera e trova inscritto dentro di sé per

l’appello e l’autocomunicazione di Dio (condizione antropologica originaria). E

ciò vale per ogni uomo di ogni tempo e luogo, grazie all’azione potente dello

Spirito della vita.

3. Nel globale mistero (mysterion, il progetto salvifico di Dio) di Gesù Cristo

(evento escatologico), l’uomo, la sua storia e il suo mondo trovano il

compimento definitivo e futuro, la grazia della salvezza assolutamente compiuta,

che supera la morte e si definisce in termini di resurrezione (escatologia).

In Gesù Cristo Dio ci dà tutto questo, per essere veramente come lui ci ha

voluti, ossia creature felici, beate, compiute. L’ultima vocazione dell’uomo è ciò

a cui lui è chiamato, cioè la santità, la pienezza dell’umano, la compiutezza

escatologica, la realizzazione di tutto. E’ un percorso che ciascuno è chiamato a

fare nei sentieri particolari delle storie individuali, nella molteplicità delle strade

che lo Spirito suscita nelle comunità.

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2. L’antropologia teologica e il suo statuto epistemologico.

L’antropologia teologica, a differenza delle altre scienze antropologiche che

affrontano il problema uomo dal basso, assume il criterio di lettura dell’umano a

partire dall’alto, nell’orizzonte della rivelazione cristiana, da quanto Dio ha detto

sull’uomo. Occorre sempre tener presente che la teologia è una scienza

subalterna, perché non ha in sé i principi ma li trae da una scuola superiore, che è

la scienza stessa di Dio, attinta dalla rivelazione da cui assumiamo ciò che

diventa oggetto della nostra indagine.

In altre parole, il discorso dell’antropologia teologica si realizza in concreto nel

porre l’umanità singolare di Gesù, criterio primo ed ultimo di ogni discorso di

fede sull’uomo, in relazione con l’autocomprensione storica della persona di

ogni tempo.

Il contenuto specifico dell’antropologia teologica è dato dalle verità della fede

cristiana circa l’uomo, la sua storia e il suo mondo. Il percorso metodologico

viene realizzato, conseguentemente, nell’orizzonte storico-salvifico che rischiara

il mistero dell’uomo e che trova il suo compimento nell’evento storico e

singolare di Gesù Cristo, il quale, come uomo-Dio, è l’immagine compiuta di

Dio e dell’uomo (GS, 22).

Il metodo utilizzato dall’antropologia teologica per cui si ricevono dall’alto le

informazioni sull’uomo, è detto genetico o progressivo. Il materiale per

l’indagine si attinge dalla fonte, dove è contenuto tutto quanto Dio ha detto o

fatto, ossia dalla tradizione biblica, non normata, non soggetta ad altro perché

riconosciuta ispirata come Parola di Dio (Dei Verbum). Guardando all’Antico e

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al Nuovo Testamento ci si rende conto che quanto Dio vuol dire sull’uomo si

attua nella persona del Figlio, l’evento storico-escatologico in cui Gesù si

presenta come l’uomo perfetto, come l’archetipo di ogni uomo, che realizza nella

sua esperienza come Dio vuole l’uomo nella sua creazione.

Ma la Scrittura, scritta peraltro in contesti ben determinati e in tempi molto

circoscritti, è stata declinata lungo la storia dell’esperienza cristiana in diversi

modi, ossia con i grandi scritti ecclesiastici dei primi secoli, la liturgia, la

preghiera, i Concili, l’esperienza dei mistici, insomma la tradizione normata che

con la Scrittura forma il depositum fidei che attualizza il percorso

dell’antropologia teologica.

Si potrebbe ingenuamente dire che l’evento singolare di Cristo accadde

duemila anni fa, con protagonista un ebreo contestualizzato nella sua storia e nel

suo tempo, per cui può risultare difficile pensare come un fatto storico possa aver

realizzato l’umano nella sua interezza. Ma l’evento Cristo, oltre ad essere

singolare, è anche universale, perciò valido per gli uomini di ogni tempo nella

realizzazione dello Spirito, che universalizza la portata rivelatrice e salvifica di

tale evento, rendendo possibile ad ogni uomo l’accesso alla comprensione del

suo mistero, tanto che nella celebrazione eucaristica se non ci fosse lo Spirito a

riattualizzare l’evento, non faremmo altro che un rito.

“Così, nella cristologia sta il principio nuovo e il termine nuovo

dell’antropologia” (M. Bordoni). In Gesù Cristo, l’alfa e l’omega, c’è la

comprensione totale dell’origine della vita e del mistero dell’uomo, una

ricomprensione resa possibile dall’azione dello Spirito.

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“Nel suo assumere la rivelazione quale principio e criterio del proprio sapere,

l’AT non diventa l’offerta di verità eterne ed universali nella forma di una

cultura rivelata; diventa invece l’offerta di un luogo ermeneutico nel quale, in

obbedienza alla rivelazione cristiana, ripensare la propria determinata

congiuntura storica” (G. Colzani).

Le fonti proprie dell’antropologia teologica, in quanto disciplina teologica che

assume la rivelazione quale principio e criterio del proprio sapere, sono le

testimonianze della fede cristiana nel loro complesso intreccio della tradizione

biblica e storico-teologica. Nei documenti di fede non si rintracciano mai

definizioni dell’uomo o del cosmo, perché definire significa eliminare parte del

discorso, mentre nelle testimonianze di fede non si chiude mai il discorso, ma si

trovano sempre descrizioni dell’uomo in rapporto a Dio, agli altri simili, alle sue

vicende e al suo mondo. In altri termini, il discorso sull’uomo (antropologia) è

unicamente collocato all’interno della storia della salvezza (interesse

soteriologico).

Da qui si può comprendere come nell’evento Gesù Cristo (l’evento

soteriologico per eccellenza) l’uomo trova pienamente lo svelamento totale del

suo mistero: la sua origine (creato in Cristo), la sua storia (come storia della sua

libertà minacciata dal peccato) e la possibilità di essere liberato da ogni forma di

male per essere pienamente uomo, secondo il progetto di Dio (redento in e per

Cristo), il suo futuro (destinato in Cristo come compimento dell’azione salvifica

di Dio a suo favore e conseguente realizzazione di tutte le sue speranze di

compimento, ossia vita risorta/eterna come antropologia compiuta).

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Nelle fonti le descrizioni salvifiche universali riguardanti l’uomo vengono

confezionate con l’utilizzo degli strumenti culturali esistenti nell’universo di

comprensione di determinati bacini culturali (semitico, ellenistico,….) Le

testimonianze di fede, infatti, assumono e reinterpretano tutte le possibilità di

linguaggio che aiutano a comprendere la verità annunciata, secondo il processo

di inculturazione o, ancor meglio, di contestualizzazione della fede.

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3. La relazione tra cristologia e antropologia.

L’antropologia teologica riferisce che il mistero dell’uomo è rivelato

nell’umanità di Gesù crocifisso e risorto, il criterio primo e ultimo dell’umano;

l’accoglienza nella fede di tale rivelazione (conformazione a Cristo) offre ad

ogni uomo la possibilità di compiere la propria umanità (che da solo non può

darsi), un compimento strutturalmente invocato da tutti (la salvezza), perché

inscritto nel desiderio di ogni esperienza umana, che sono le domande

fondamentali e universali dell’uomo, ossia la ricerca della verità.

Si accede al mistero di Cristo con un’adesione di fede, che è anzitutto un

movimento personale, la fides qua, la fede in, la risposta di chi si affida a Dio; in

seguito a questa adesione si crede a quel che si dice nei contenuti della fede, la

fides quae. Questo affidarsi a Dio non è unicamente un sentimento ma un

impegno concreto; infatti la vita cristiana non è solo un atteggiamento

gnoseologico ma una vita di fede che consiste nel mettersi alla sequela di Cristo

e che porta alla santità, alla pienezza dell’essere uomo.

Il punto di partenza di ogni discorso teologico (e quindi dell’antropologia

teologica) è la vicenda singolare di Gesù Cristo, della sua umanità. Tale evento,

accessibile nella fede per la mediazione testimoniale della comunità credente,

viene conosciuto e accolto come la vicenda escatologica-salvifica per eccellenza

(cfr. le testimonianze evangeliche); in essa, infatti, Gesù si rivela come il Figlio

del Padre, generato nello Spirito, nato dalla Vergine Maria, venuto per compiere

definitivamente il progetto creatore di Dio, attraverso un’azione liberatrice che

riconduce l’intera creazione al disegno originario (mysterion).

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Gesù usa poche parole per parlare di Dio, tanto che inizia la sua breve missione

con la frase “Il Regno di Dio è in mezzo a noi” (Mc 1, 15), espressione con la

quale intende che Dio vuole rifare l’alleanza con l’uomo, realizzando quanto

scritto in Geremia: “Vi darò un cuore nuovo”.

Le narrazioni evangeliche testimoniano il modo concreto e singolare di

relazionarsi di Gesù agli uomini. Questa relazione particolarissima esprime la

“pretesa” di Gesù di essere il Figlio del Padre, a lui obbediente e dedito fino alla

morte. Egli è l’immagine di Dio in modo assoluto e singolare e, in quanto uomo,

esprime compiutamente nella sua vicenda l’immagine di Dio nell’uomo, secondo

il progetto creatore di Dio; in tal senso, egli è anche pienezza dell’umano,

l’uomo perfetto.

Interessante al riguardo è l’espressione di Paolo in Cor 4, 4: “In Gesù risplende

la gloria di Dio (la doxa)”, a giustificare l’espressione evangelica in cui Gesù

dice: “Chi vede me vede il Padre”. Nella sua persona, pertanto, è possibile

realizzare la compiutezza antropologica, a condizione che ogni uomo decida di

seguirlo liberamente nella fede (conformazione a Cristo nello Spirito)

riconoscendolo come verità ultima di Dio e di sé.

In Gesù, quindi, vi è una nuova comprensione dell’umano che si rivela come la

forma più autentica di conoscenza e di attuazione di esso accessibile a tutti

(universalità), in virtù dell’azione dello Spirito. Così “la storia di Gesù è

l’autocomunicazione di Dio e la storia dell’uomo è quella vicenda che si lascia

determinare dalla figura normativa apparsa nella storia di Gesù” (F. G.

Brambilla).

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La rivelazione è un evento di grazia (“piacque a Dio…..”) ed essenzialmente

dice che Dio ha predestinato gratuitamente ed efficacemente tutti gli uomini, con

il proprio mondo, a diventare suoi figli nel Figlio Gesù, mediante lo Spirito. Tale

predestinazione avviene quando gli uomini si lasciano conformare (con e nella

libertà) dallo Spirito alla vicenda di Gesù Cristo morto e risorto. E’ un progetto

voluto da Dio da sempre e antecedente alla creazione, realizzato nella pienezza

dei tempi dal suo Figlio Gesù, preparato lungo l’Antico Testamento e orientato

verso una pienezza parusiaca.

Una testimonianza biblica, sintesi del mysterion cristiano, è in Ef 1, 3-14:

“Benedetto sia Dio Padre e Signore nostro che ci ha benedetti con ogni

benedizione spirituale nei cieli e in Cristo [da cui il riferimento trinitario]. In lui

[ossia in Gesù Cristo, da cui il senso della predestinazione] ci ha scelti prima

della creazione del mondo [il che ci parla dell’amore previo di Dio] per essere

santi e immacolati [qui la santità va intesa in senso di perfezione, di

compiutezza] al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli

adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della sua volontà e

questo a lode e gloria della sua grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto, nel

quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue e la remissione dei peccati

secondo la ricchezza della sua grazia [questo percorso di santità passa anche

attraverso la remissione dei peccati] egli l’ha abbondantemente riversata su di

noi con ogni sapienza e intelligenza poiché egli ci ha fatto conoscere questo

mistero della sua volontà secondo quanto nella sua benevolenza venne in lui

prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi. Il disegno, cioè, di

ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. In lui

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siamo stati fatti anche eredi essendo stati predestinati secondo il piano di colui

che tutto opera efficacemente e conforme alla sua volontà perché noi fossimo a

lode della sua gloria, noi che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche

voi dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della nostra salvezza, e

aver adesso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che vi era

stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità in attesa della completa

redenzione che Dio si è acquistato a lode della sua gloria”.

Questo testo conferma che il percorso dell’antropologia teologica illumina il

progetto di Dio che dall’alfa giunge all’omega, dalla protologia si dirige verso

l’escatologia, e che trova il suo riferimento concreto nell’esperienza di Gesù.

Nello Spirito tutti abbiamo accesso a questo mistero, in una conformazione

concreta che ci fa diventare figli adottivi dell’unico Padre.

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4. La predestinazione in Cristo.

L’idea di predestinazione dice che Dio vuole far partecipare gratuitamente, con

infallibile efficacia ed universalmente, tutti gli uomini alla figliolanza di Gesù

Cristo, per l’azione dello Spirito. Tale progetto salvifico antecede la creazione,

da sempre e indipendentemente dall’esistenza degli uomini.

4.1. La predestinazione nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Nell’Antico Testamento si rintraccia l’idea di elezione, associata a quella di

alleanza, che contiene in modo pregnante il contenuto della predestinazione, pur

se questa parola non viene mai usata. L’idea descrive sostanzialmente il rapporto

esistente tra Dio e il popolo di Israele; un rapporto voluto da Dio e costituente il

motivo di vita del popolo eletto, scelto da Dio perché sia un popolo santo, di sua

proprietà.

Dio ha liberato il suo popolo dall’Egitto ma la libertà non è fine a sé stessa

bensì tesa alla conquista della terra promessa, perciò con una prospettiva futura.

In tal modo il concetto di elezione viene associato a quello di alleanza.

Le caratteristiche dell’idea di elezione sono, perciò, l’iniziativa di Dio (che

l’uomo non può esigere), l’assoluta gratuità (Dio non è costretto a rivelarsi),

l’amore come contenuto, la fedeltà di Dio nella realizzazione (l’uomo può anche

sbagliare ma nonostante l’errore Dio rimane fedele e non si smentisce mai).

Risuonano in tal senso le parole in Isaia (“anche se una madre dovesse

dimenticarsi del suo bambino io non mi dimenticherò mai di te, Israele”) e in

Osea (“siete diventati delle prostitute ma io vi ho sempre amati”).

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L’elezione non è solo una categoria teologica ma esprime anche un rapporto

concreto sul piano antropologico, per cui il popolo scelto vive una particolare

relazione con Dio, la quale costituisce il motivo stesso del suo essere popolo.

L’elezione si struttura anzitutto in colui che la realizza, che compie l’azione,

ossia Dio; tale azione è rivolta verso un destinatario, che è il popolo, la cui

appartenenza a Dio è la finalità dell’elezione (Es: “ti ho scelto perché tu sia il

mio popolo”).

Tutto ciò è realizzato da Dio nell’Antico Testamento nei confronti del popolo

d’Israele, in una visione particolaristica, piuttosto ristretta, dove comunque

Israele si è sentito forte dell’esperienza che ha fatto, maturando di essere il

fruitore di una rivelazione; si pensi ad esempio al cambiamento delle feste che da

agricole diventano religiose.

Col tempo il concetto di Dio in Israele si è via via evoluto; infatti il

monoteismo non c’è stato da sempre e si è arrivati all’idea di Jahwè come unico

Dio grazie alla predicazione profetica dell’esilio e soprattutto del post-esilio con

Ezechiele e il Deuteroisaia, che spinge Israele alla comprensione della

rivelazione, completata con i sapienti. In tal modo Israele avverte di avere la

missione di condurre tutti i popoli al riconoscimento di Jahwè come l’unico Dio,

che sceglie, che ama, che fa l’alleanza.

In definitiva, sono cinque gli elementi strutturali dell’elezione: il soggetto, il

destinatario, la finalità, il motivo, il tempo.

Nel Nuovo Testamento l’idea di elezione è riferita a Gesù Cristo,

personificazione storica di Dio. Il Figlio di Dio è l’eletto di Dio e l’elezione di

Israele si raccoglie in lui. In Gesù, Dio rifà l’alleanza, recuperando l’infedeltà di

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Israele. L’elezione diventa comprensibile nella missione di Gesù, che non è solo

colui che elegge ma, in quanto uomo-Dio, è l’eletto, il rivelatore ed il rivelato.

Di rilievo è la riflessione di Paolo, che tratta spesso il tema dell’elezione; in

particolare, nella lettera agli Efesini afferma che l’elezione è il progetto salvifico

per tutta l’umanità. La predestinazione, perciò, è valida per tutti e non a caso la

chiamata degli Apostoli in numero di dodici significa la raccolta delle dodici

tribù di Israele e in definitiva l’universalità di tutte le genti.

4.2. La predestinazione nella tradizione ecclesiale post-biblica.

I Padri sono i primi interpreti ufficiali del cristianesimo, il primo anello della

tradizione normata. Nei primi secoli, soprattutto presso i Padri greci, l’idea di

predestinazione o di elezione ha sempre conservato il significato biblico, non

essendoci motivi per formalizzare il concetto in categorie diverse.

Dopo tre secoli di stretta fedeltà al dettame biblico, una svolta riguardo il tema

della predestinazione avviene con la riflessione di Agostino d’Ippona.

Per comprendere appieno il pensiero del grande santo non si può prescindere

dalla sua esperienza globale di vita. Egli stesso qualificò come tenebra la sua

esperienza prima del battesimo e l’idea di peccato precedente la conversione ha

influenzato in modo notevole la riflessione sui temi cristiani da lui trattati.

Il suo punto di partenza, infatti, è di tipo amartiocentrico (amartios = peccato),

dove si considera che tutta l’umanità è una massa peccatrice, tesa alla

dannazione, alla perdizione. Il punto di partenza di Agostino, perciò, non è la

scelta di Dio ma è l’uomo nella sua realtà peccaminosa, tratto da Dio fuori dalla

massa dannata.

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Comunque Agostino si accorge che alcune persone, nonostante abbiano fatto

esperienza di Gesù, rimangono ugualmente nella condizione di peccato. Per

risolvere questo problema introduce il concetto di doppia predestinazione degli

uomini. Secondo Agostino, Dio, antecedentemente e infallibilmente, ha deciso

nella sua sovranità la salvezza per alcuni e la dannazione per altri, in accordo con

il brano evangelico secondo cui molti sono i chiamati ma pochi gli eletti. Tale

progetto di Dio ha la logica di evidenziare la sua giustizia oltre alla sua

misericordia.

Il concetto della doppia predestinazione è comprensibile soprattutto alla luce

del contesto culturale occidentale in cui viveva Agostino, molto sensibile alle

categorie forensi (anche Tertulliano e Cipriano erano avvocati), secondo cui alla

mancanza deve essere abbinata la punizione.

Occorre segnalare che il Magistero ecclesiastico sin dai tempi dello stesso

Agostino non accettò l’idea della doppia predestinazione. La polemica di

Agostino con i pelagiani portò alla convocazione di un Sinodo provinciale a

Cartagine nel 418 che si schierò contro il pelagianesimo e subito dopo la fine del

Sinodo fu pubblicato un breve compendio attribuito a papa Celestino I ma in

realtà scritto da Prospero d’Aquitania. Tale compendio, chiamato Indiculus

celestini e ritenuto un testo magisteriale, presenta il rifiuto esplicito della doppia

predestinazione, seppur in modo indiretto. Infatti l’affermazione “la bontà di Dio

verso tutti gli uomini…..” sembra escludere la doppia predestinazione, altrimenti

si sarebbe scritto “la bontà di Dio verso alcuni uomini…..” L’Indiculus, peraltro,

conclude con l’affermazione “noi non consideriamo affatto cattolico ciò che

risulta contrario alle sentenze che abbiamo illustrato”.

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Nel 529 Prospero d’Aquitania dopo il Sinodo di Orange fa riferimento ad una

professione di fede fatta in quell’ambito da Cesario di Arles: “Secondo la fede

cattolica crediamo anche che dopo aver ricevuto la grazia mediante il battesimo,

tutti i battezzati possono e devono compiere con l’aiuto e la cooperazione di

Cristo quello che è necessario per la salvezza se vogliono impegnarsi

fedelmente. Non solo non crediamo che alcuni siano predestinati al male nella

potenza divina ma se ci fossero persone disposte a credere a tale enormità

lanciamo su di loro l’anatema con ogni riprovazione”.

La discussione sulla predestinazione continua in tutto il medioevo scolastico e

nell’età moderna. L’idea della doppia predestinazione ritornò in auge con la

riforma luterana, particolarmente nel calvinismo. Solo in età contemporanea,

grazie alla riflessione di alcuni autori (come Billot e Barth), il tema della

predestinazione viene ricondotto alle sue originarie matrici bibliche.

4.3. La predestinazione: lineamenti teologico-sistematici.

Nell’inno di Paolo agli Efesini si coglie la sostanza del significato di

predestinazione, ossia che Gesù Cristo è donato all’uomo dal Padre nello Spirito,

con un dono trinitario alla creazione intera e in particolar modo all’uomo che è il

vertice della creazione. Questa offerta ha la finalità di una creazione continua,

affinché l’uomo compia la sua umanità e possa portare a pienezza tutto quanto

egli rappresenta ed è.

Il prologo del vangelo di Giovanni (“in principio era il Verbo…..”) significa il

dono del Verbo da parte del Padre, un dono previo perché in principio non c’è la

creazione ma il Verbo e tutto è stato fatto per mezzo di lui.

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La predestinazione di Dio in Cristo non può essere perciò richiesta da nessuno,

ossia è un fatto gratuito. Questa predestinazione è voluta in Cristo, si attua in

Cristo e non può venire meno, il che ne garantisce l’infallibile efficacia; il

progetto di Dio non può venire meno perché Dio è sempre fedele alla sua parola.

Inoltre è un evento universale, offerto a tutti come volontà antecedente di

salvezza perché a tutti è data la possibilità di conformarsi alla vicenda di Gesù:

tutti sono eletti e chiamati in Gesù, voluti da lui da sempre.

Pur se siamo stati tutti universalmente e antecedentemente predestinati in

Cristo in modo gratuito, efficace ed universale, non significa comunque che tutti

si salvano. Se ci fosse un determinismo della salvezza si entrerebbe in una logica

di apocatastasi, quindi di redenzione del tutto, quasi un atto dovuto da parte di

Dio. Ma l’universalità della predestinazione non significa questo, perché in

quanto dotati da Dio di libertà esiste anche la possibilità (ma non la necessità)

della perdizione, rifiutando la chiamata in Cristo, pur se la salvezza è molto più

grande della perdizione.

Solo satana si è irrimediabilmente perso, ma per il resto, parlando di uomini,

non si può dire nulla sia perché non si può sapere sia perché non si può

giudicare; anche coloro che platealmente hanno negato Gesù Cristo possono

salvarsi, perché le possibilità e le offerte della grazia di Dio superano i nostri

confini e possono essere date in qualsiasi momento.

Tutto parte dalla predestinazione e non dal peccato che è contenuto nella

predestinazione, altrimenti si cadrebbe in una visione amartiocentrica; Giovanni

non scrive “in principio era il peccato”, ma “in principio era il Verbo”, perciò al

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primo posto non c’è il peccato, ma l’amore gratuito, universale, efficace di Dio

che offre il suo Figlio.

Sul piano dell’antropologia l’uomo è sempre in cammino, in ricerca, in ansia,

pellegrino verso la compiutezza della proprio umanità: è il movimento tipico

della speranza, possibile per la predestinazione in Cristo.

Questo cammino non è deterministico ma coinvolge e responsabilizza la

libertà. Tale impegno nel camminare verso la pienezza della vita significa che la

libertà autentica si orienta verso la pienezza del cammino, ossia verso Cristo.

Questa libertà è gratuita, donata perché rispondente alla gratuità della

predestinazione, al dono della speranza.

Diventare pienamente uomini significa conformarsi a Cristo, accedere alla

salvezza, divenire figli adottivi nel Figlio. Il rapporto tra l’umanità e il Figlio

configura il cammino della libertà umana che intende raggiungere la pienezza,

realizzandola accedendo al mistero di Dio attraverso Gesù. Il modulo di tale

cammino è la fede, l’atteggiamento di consegna responsabile al dono di Dio, che

tramite lo Spirito fa entrare nel mistero del Padre realizzato nel Figlio e oggi reso

presente a tutti.

In questo cammino l’uomo sa di essere liberato da eventuali contraddizioni, dal

peccato, dal male, perché nella predestinazione è inclusa anche la redenzione,

intesa come remissione dei peccati, come riconciliazione, come possibilità di

ricominciare il cammino. Si accede a questo cammino nella fede, lo si desidera

compiere nella speranza, lo si realizza nelle sue tappe concrete attraverso la

carità.

20

.

.

5. La storia umana come creazione.

La dottrina della creazione è un tema essenziale della fede cristiana, tanto da

essere ben presto accolta nei simboli, che ripropongono il nucleo della fede di

Israele e della primitiva comunità cristiana. Dio è il creatore di ogni cosa (cielo e

terra, visibile e invisibile) e tutto è stato fatto per mezzo di Cristo nella forza

dello Spirito, il che rimanda all’idea di predestinazione.

Il nucleo della fede cristiana nella creazione da parte di Dio è fondato nel

prologo giovanneo (Gv 1, 1-3: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso

Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio; tutto è stato fatto per

mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”), un testo

che può essere considerato come il manifesto creazionista. Della creazione

ovviamente si tratta anche nei primi capitoli della Genesi, ma ne parla anche e

soprattutto Cristo stesso con la sua rivelazione; infatti un cristiano non annuncia

tanto l’Antico Testamento quanto Gesù Cristo, che nel suo evento svela

pienamente il progetto salvifico di Dio, ossia la predestinazione.

5.1. Le narrazioni delle origini.

Dio Padre ha svelato il suo mistero nella pienezza dei tempi in Gesù Cristo ma

l’ha fatto anche prima in diversi modi, come ben spiega Paolo nella lettera agli

Ebrei e come emerge nei primi capitoli della Scrittura.

Secondo molti esegeti i racconti della creazione sono due: uno di fonte

sacerdotale (Gen 1-2, 4a) ed uno di fonte jahwista (Gen 2, 4b e ss). Nel primo

l’uomo è senza dubbio in posizione rilevante nella creazione ma il vertice della

21

narrazione è il sabato, mentre nel secondo l’uomo è al centro e tutto ruota intorno

a lui. In realtà il secondo più che un racconto creazionista è una sorta di

introduzione al terzo capitolo della Genesi, dove in termini sapienziali viene

spiegata l’origine del male.

Per poter comprendere correttamente i testi genesiaci riguardanti le origini è

utile affrontare alcune questioni metodologiche preliminari che guadagnano una

corretta esegesi dell’assunto biblico:

a. il rapporto tra il testo biblico e le antiche tradizioni culturali circostanti.

Già prima dei testi biblici esistevano narrazioni sulle origini, come espresso nei

racconti sumerici, mesopotamici, babilonesi, egiziani, per cui il fatto che gli

uomini abbiano avuto l’esigenza di raccontare le origini attraverso il mito non è

una novità di Israele. In realtà i racconti di queste culture più che creazioni sono

cosmovisioni, dove la diversità rispetto al testo biblico sta in un’operazione

demiurgica di un’artefice che da una materia preesistente dà forma a quanto già

esiste, mentre secondo Israele tutto quello che c’è non esisteva prima ed è stato

posso in essere da Dio.

La comunanza di idee tra Israele e le culture circostanti è visibile dalla

somiglianza tra i vari racconti, il che potrebbe far pensare che i testi biblici,

scritti secoli dopo, dipendano da quelle narrazioni; in realtà la dipendenza è

senz’altro letteraria ma non riguarda l’idea di ciò che è scritto. Nei racconti delle

origini emerge piuttosto una riflessione comune all’umanità, secondo cui quanto

esiste non è da sempre ma si è determinato a partire da un certo momento. La

specificazione non è data tanto dalle parole o dalla struttura del racconto, ma da

22

un’esperienza particolare che dà forma e contenuto religioso a una convinzione

che apparteneva a tutti.

b. il genere letterario delle narrazioni. Nei vari racconti della creazione

ricorrono termini uguali, in un linguaggio simbolico attraverso cui i popoli

narrano la verità in cui credono, una verità dipendente dall’esperienza. Ma tra il

testo biblico e gli altri si riscontrano due differenze sostanziali.

La prima è che negli altri racconti si nota come all’inizio di tutto ci sia una

sorta di battaglia tra diverse divinità e sembra che quanto esiste sia il risultato di

questo scontro. Il racconto biblico, invece, pur usando un analogo simbolismo,

riconduce il tutto a unico Dio. A tale proposito occorre ricordare che i primi

undici capitoli della Genesi sono stati raccolti dopo l’esperienza dell’esilio,

quando Israele aveva già fatto purificato l’enoteismo di partenza (in cui pensava

che esistevano varie divinità pur se scelse Jahwè che si era mostrato loro), fino a

capire, grazie ai profeti e ai sapienti, che esiste un solo Dio, ossia Jahwè. Questa

convinzione si proiettò all’indietro e portò alla costruzione letteraria dei primi

undici capitoli della Genesi.

La seconda differenza è che nei racconti orientali si parla della messa in opera

di tutto ma non c’è un’attenzione alla storia, mancando un riferimento al

procedere di quello che è uscito dalle mani delle divinità o di Dio. La Scrittura,

invece, presta maggiore attenzione alla storia, ad esempio con l’inserimento dei

racconti della creazione nella catena delle toledot, delle genealogie; queste

aprono la storia a partire da Abramo e fanno capire che si è al primo momento di

un processo che sta andando in avanti, per cui gli eventi della creazione nel testo

biblico sono costruiti in modo tale che siano all’inizio di una sequenza storica,

23

intesa non solo in senso cronologico ma anche in senso sapienziale. Per tale

motivo i racconti biblici rappresentano un’eziologia storica, cercando di capire

alla luce dell’esperienza da dove proviene il tutto, ovviamente raccontando col

materiale letterario a loro disposizione.

c. la relazione tra creazione e salvezza. Il teologo Von Rad sosteneva che

Israele ha avuto l’idea di un Dio creatore perché ha fatto anzitutto l’esperienza di

un Dio che lo ha salvato dall’Egitto, stabilendo l’alleanza col popolo. Se Dio è il

salvatore è allora anche il creatore del mondo, come è stato in seguito spiegato

dai profeti e dai sapienti.

5.1.2. La creazione nelle narrazioni genesiache.

La significativa narrazione di Gen 1, 1-2, 4 (codice sacerdotale) vede la

creazione nella sua originalità di opera di Dio e nel suo carattere storico-

salvifico. La creazione come totalità è comprensibile nell’intreccio narrativo di

dimensione temporale (il settenario creazionale) e di dimensione spaziale

(comando e opere della creazione), fondazione della storia dell’umanità e della

storia della salvezza.

5.1.3. La creazione nei profeti e negli scritti sapienziali.

I profeti presentano il tema della creazione in modo strettamente connesso a

quello della salvezza, soprattutto coloro che svolgono il proprio ministero in

epoca esilica: Geremia (32, 17; 33, 25-26) e in particolare il Deuteroisaia (libro

della consolazione: 1s 40ss). Da tali testimonianze si nota come Israele possieda

24

l’idea che in Dio c’è l’origine di ogni realtà, ma l’esplicazione teologica è

determinata dall’esperienza della salvezza.

La letteratura sapienziale pone il rapporto tra creazione e salvezza in

collegamento con gli interrogativi dell’esistenza umana (origine, sofferenza,

morte…..); in particolare, in tratti personificati, emerge il ruolo della Sapienza,

presente nell’agire creatore di Dio.

5.4. Considerazioni conclusive.

1. Dai racconti delle origini si evince che il Dio che ha salvato Israele è lo

stesso Dio Jahwè creatore dell’Universo; questo si configura come un intreccio

di relazioni tra Dio, l’uomo e il cosmo, tanto che la creazione non è a comparti

come sembra apparire nel racconto settenario della Genesi. La sussistenza

dell’Universo dipende molto da tale intreccio. Tutto quanto è stato creato è

destinato alla salvezza, alla compiutezza, al punto che la protologia si orienta

verso l’escatologia.

2. La parola “intreccio” sopra riportata potrebbe far pensare a una sorta di

panteismo, con Dio presente ovunque. Ma il Dio che ha creato è colui che

trascende la creazione, ne è al di sopra, non si confonde con le cose create, il che

elimina ogni forma di panteismo, semmai presente in alcune culture

nordamericane, giapponesi, africane dove si avverte in cose mondane un

carattere sacrale (il bue sacro, il fiume sacro).

3. Tutto quanto è stato creato da Dio, nonostante si distingue da lui, “è buono”,

come ci ricorda il racconto biblico. Questo significa che la Scrittura professa un

ottimismo storico, dove non c’è una valenza negativa della materia.

25

4. Nel testo della Genesi è scritto che la Terra era informe e deserta, in un caos

primordiale. Con ciò la Scrittura non vuole intendere una materia preesistente, in

quanto il termine “caos” è un modo per esprimere quello che non c’era; di

conseguenza il racconto sembra esprimere la creazione dal nulla (ex nihilo).

Ma la creazione dal nulla è un concetto filosofico del quale l’autore biblico era

sprovvisto, per cui nei testi della Genesi la creazione ex nihilo si può dedurre,

sembra affermata implicitamente ma non esplicitamente, pur se qualche accenno

in tal senso si trova nei libri dei Maccabei e della Sapienza.

5. Il racconto biblico si caratterizza per il movimento storico ed introduce

l’idea su qualcosa che inizia, mostrando un concetto lineare di temporalità, con

una sequenza passato – presente – futuro, senza salti, dove il presente contiene il

passato e contemporaneamente si apre verso il futuro.

La Scrittura, però, riporta anche che gli eventi realizzati da Jahwè nei confronti

del suo popolo si riattualizzano nelle feste nella loro dimensione di contenuto

teologico (memoriale). Ma se il tempo si ripresenta allora può non essere lineare

e ritornare in qualche modo, per cui la Bibbia, pur fornendo un’idea lineare di

tempo, prevede che un evento si ripresenti sebbene con elementi di novità; ad

esempio, la Pasqua di un certo anno non è mai la stessa dell’anno precedente, pur

avendo gli stessi contenuti teologici.

La concezione lineare del tempo si differenzia da quella del tempo, tipica della

cultura greca, dove non c’è possibilità di una storia perché esiste l’eterno ritorno.

In realtà secondo i greci gli eventi devono svolgersi secondo una loro necessità e

per compiere il loro destino, per cui più che una ciclicità è preferibile parlare di

un determinismo di eventi.

26

6. Gesù Cristo mediatore e compimento della creazione.

Il Nuovo Testamento collega la centralità (intesa non nel senso storico-

temporale ma come interpretazione storica) dell’evento pasquale all’originario

agire creatore di Dio. Cristo è il riferimento, il mediatore di quanto è creato e in

lui tutta la realtà trova il suo compimento. In altri termini, nella luce della Pasqua

la ricomprensione del mistero della salvezza fa comprendere il mistero di Dio

nella sua originalità, nel suo svolgersi e nel suo compimento.

Per quanto riguarda il messaggio di Cristo, se molto significative in tal senso

sono le testimonianze di Paolo e Giovanni, nei sinottici si nota che Gesù nella

sua predicazione dà per scontata l’idea di creazione, essendoci nelle sue parole

solo allusioni di circostanza ma non conferme particolari.

6.1. Il tema della creazione nella teologia paolina.

La dottrina di Paolo riguardo la creazione è sicuramente in continuità con le

idee veterotestamentarie, dato il suo retroterra culturale, ma lo sviluppo impresso

dall’Apostolo va chiaramente in direzione cristologica, con un’evidente

corrispondenza tra creazione e salvezza.

I testi chiave della dottrina paolina sono:

a. 1Cor 8, 5-6. Questo testo, propriamente di Paolo, spiega che il Cristo è

mediatore della creazione: “E in realtà, anche se vi sono cosiddetti déi e molti

signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo

per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e

noi esistiamo in lui”.

27

In questo testo la creazione viene accreditata sia al Padre che al Figlio.

Tuttavia, occorre dire che la causa per cui entrambi sono riferiti all’atto creatore

è diversa perché la frase “il Padre dal quale tutto proviene” vuole intendere che

il Padre è principio e motivo fondante della creazione. Invece la frase “Gesù

Cristo in virtù del quale esistono tutte le cose” significa che il Figlio non è il

principio della creazione ma il mediatore, lo strumento per cui esiste tutta la vita

che il Padre vuole dare.

b. Col 1, 15-20. Se in 1Cor si potrebbe evincere che Paolo parla di Gesù solo

come mediatore, nella lettera ai Colossesi emerge come il Cristo sia il principio,

il centro e il fine della creazione: “Egli è immagine del Dio invisibile, generato

prima di ogni creatura, poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose,

quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni,

Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di

lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è

anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro

che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque

a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte

le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le

cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.”

Paolo afferma che Gesù è uguale a Dio e in quanto Dio la creazione trova in lui

il motivo della sussistenza. L’uomo è stato creato per mezzo di lui e può anche

ritenere Cristo come il principio della creazione perché sussiste in lui. Nel dire

che si è creati da Gesù Cristo non si fa un errore, anche perché quando una delle

tre persone trinitarie agisce non lo fa mai isolatamente.

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c. Ef 1, 3-14: In questo testo Paolo parla del destino cosmologico della

creazione, illuminata da Cristo. ”In lui ci ha scelti prima della creazione del

mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,

predestinandoci a essere suoi figli adottivi, per opera di Gesù Cristo, secondo il

beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci

ha dato nel suo Figlio diletto, nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo

sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli

l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza poiché

egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua

benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il

disegno, cioè, di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle

della terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo

il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché

noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.

In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della

vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito

Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa

della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua

gloria”.

6.2. Il tema della creazione nella teologia giovannea.

Il prologo giovanneo costituisce la testimonianza più esplicita della fede

cristiana. In esso, infatti, l’autore intende annunciare un nuovo evento creatore

alla luce dell’evento di Gesù Cristo.

29

In tal senso vanno segnalati anche Ap 1,17 e 22, 13 in cui Cristo è visto come

causalità finale della creazione: il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega, il principio

e la fine di tutto quanto è stato creato.

6.3. Considerazioni conclusive.

Complessivamente il messaggio scritturistico sulla creazione si può riassumere

in quattro punti.

1. La fede nella creazione non comporta alcuna considerazione fisica del

mondo, perché la cornice biblica del discorso è di ordine soteriologico; infatti la

Scrittura non dice com’è fatta la Terra, non è un trattato di astronomia o di altre

scienze, come potrebbe far pensare una lettura fondamentalista. La Scrittura dice

da dove proviene tutto, perché proviene tutto, a cosa è destinato il tutto, fornendo

il significato dell’esistenza; la Bibbia non dice com’è fatto il cosmo o l’uomo, in

quanto è un libro di fede, scritto per la fede e narra una storia di fede, per cui non

è legittimo alcun discorso di tipo cosmologico e ontologico. Questa prospettiva

appare molto evidente, in particolare, nel Nuovo Testamento, dove emerge una

concentrazione cristologica delle idee riguardante la creazione (cfr. Gv 1).

2. Il messaggio biblico sulla creazione è pervaso da grande ottimismo ed è

lontano dalle tragiche e fantastiche cosmovisioni dell’antichità. Nei testi di altre

culture esiste sempre la realizzazione di un doppio principio: uno di bene e uno

di male. Dal principio buono deriva la spiritualità, la dimensione immateriale

dell’uomo, mentre dal principio malvagio deriva la corporeità. In ogni caso le

cose vanno avanti per una sorta di necessità, di determinismo, dove non c’è

spazio per la libertà e non ci possono essere novità nella creazione.

30

Invece, proprio all’inizio della Scrittura l’agiografo scrive che “ogni cosa

creata è buona”; inoltre, nel creare l’uomo Dio dice che “è cosa molto buona”,

evidenziando un notevole ottimismo antropologico, in quanto essendo tutta la

realtà creata da Dio, quel che esiste al mondo, e quindi anche l’uomo, ha una

valenza etica positiva. Semplificando, si può dire che tutto di noi è buono, non

essendoci nulla di cattivo creato da Dio; tutto è voluto da Dio nei minimi termini

come realtà esistente, cui segue un percorso evolutivo permesso e voluto da Dio

stesso. Inoltre non c’è un fatalismo, un determinismo storico perché Dio ha dato

alla sua creazione e all’uomo la libertà capace di orientare anche il senso della

storia e l’uomo la orienta bene nella misura in cui risponde al disegno creaturale.

Tuttavia la dottrina cristiana deve tenere in conto la presenza del male,

comprensibile e interpretabile in una prospettiva soteriologico-escatologica che

solo il Dio di Gesù Cristo apre con la promessa di una salvezza già realizzata,

anche se non ancora compiuta (la speranza della consumazione). Per scelta

dell’uomo (la caduta riportata in Gen 3) il male, ossia ciò che è contrario alla

predestinazione di Dio, è entrato nel mondo e come dice la Sapienza ne fanno

esperienza coloro che ne appartengono. La presenza del male è ciò che Gesù

chiama la zizzania, che ostacola l’avvento compiuto del regno; ma nonostante il

male continui a imperversare, Gesù lo ha sconfitto, per cui c’è la garanzia che il

male non ha futuro. Nella consumazione escatologica c’è spazio solamente per il

bene, per Dio, per la sua gloria, tanto che nel vangelo di Luca Gesù dice “vedevo

satana cadere dal cielo”, per sottolineare la sconfitta del male.

31

3. La dottrina biblica della creazione non ammette la possibilità di dualismi

ontologici ed etici, tanto che non si può dire che lo spirito è buono e la carne è

cattiva. Quando nella Scrittura si parla di carne e spirito si vogliono intendere

due orientamenti, ma non si vuole qualificare nessuna ontologia dell’umano.

Eticamente è tutto buono, è solo l’orientamento dato dall’uomo che può far

diventare malvagia una realtà.

4. La corrispondenza biblica di creazione-salvezza è determinante sotto il

profilo dell’etica. “La rilevanza cosmica di Cristo, la sua funzione creatrice, di

sostegno e finalizzazione di tutto il creato, costituiscono il più solido fondamento

di una teologia della storia e del progresso umano, mentre orientano in maniera

decisiva il significato della prassi storica, sociale e politica dei cristiani” (Ruiz

de la Peňa). La corrispondenza tra creazione e salvezza fa sì che la creazione sia

il primo momento storico-salvifico e l’uomo è chiamato ad essere concreatore di

Dio attraverso il suo impegno personale.

32

7. Lo sviluppo storico-teologico della dottrina della creazione.

Lo sviluppo storico della dottrina della creazione è determinato dal periodico

affacciarsi di due problematiche tendenze di pensiero: il monismo e il dualismo.

Secondo il monismo tutto deriva da un unico principio, talmente pervaso in

quello che produce al punto da confondervisi, in una sorta di panteismo. Il

dualismo, invece, individua un doppio principio, uno del male accanto a quello

del bene.

L’iniziale espansione del cristianesimo nell’ambiente culturale greco-romano

pone evidenti problemi di natura dottrinale, dovuti all’incontro/scontro con il

pensiero ivi dominante. La dottrina cristiana della creazione, infatti, si trova ben

presto a fare i conti con la visione cosmologica (demiurgica) della filosofia

greca, in particolare del platonismo e dello stoicismo.

Per quanto riguarda l’età patristica vanno distinti due momenti: dapprima l’età

subapostolica fino al quarto secolo e un secondo periodo fino al sesto secolo.

Nella fase che va dal primo al quarto secolo la dottrina della creazione

mantiene una sostanziale fedeltà alla Bibbia, conservando lo stretto legame tra

creazione e alleanza o, in altri termini, tra creazione e salvezza. Sulla base delle

lettere paoline viene mantenuto anche il ruolo cosmico di Cristo come principio,

centro e fine della creazione, pur se tutto viene inculturato all’interno della

mentalità greca.

In definitiva si può dire che la prospettiva di fondo è cristocentrica; non si

abbandona il rapporto tra creazione e salvezza, vedendo nella creazione il primo

momento della storia della salvezza, fedelmente a quel che dice la Bibbia.

33

Il secondo periodo si caratterizza per una limitazione della prospettiva

cristocentrica, in quanto la creazione comincia a ricevere una considerazione in

sé e per sé; per esigenza di natura culturale ci si interroga sull’ontologia delle

cose create, distaccandosi parzialmente dalla prospettiva biblica. Ciò avviene

perché nella cultura occidentale tra il quinto e il sesto secolo compaiono

posizioni anticreazioniste, che motivano sul piano naturale la ragione

dell’esistenza e della costituzione degli esseri. Poiché nel mondo greco la

filosofia è il linguaggio utilizzato per comprendere la realtà, per inculturare il

messaggio cristiano ci si mette sullo stesso piano, parlando lo stesso linguaggio,

cercando di mediare i contenuti, lasciando la propria prospettiva per assumere

una ratio filosofica.

L’incontro/scontro viene gestito nei primi secoli dell’era cristiana dai Padri

apologisti, i quali assumono un atteggiamento di conciliazione (Giustino,

Atenagora) o di polemica (Teofilo di Antiochia, Taziano).

Ben presto anche all’interno della comunità cristiana cominciano a diffondersi

errori che minano la genuina dottrina cristiana, come lo gnosticismo e il

manicheismo, di tendenza chiaramente dualista. Ad essi si oppongono grandi

pensatori come Ireneo e Tertulliano (gnosticismo) e Agostino (manicheismo). Fa

eccezione Origene, il quale tende a conciliare cristianesimo e gnosticismo,

cercando di rileggere in versione ortodossa alcuni principi gnostici.

Nel medioevo si ripropongono le riflessioni patristiche ma nell’undicesimo

secolo accade un fatto rilevante riguardo la dottrina della creazione. Nei paesi

balcanici, infatti, nasce un’eresia che presto si trasferisce nell’occidente europeo,

trovando una grande diffusione nel sud della Francia (particolarmente ad Albi),

34

nel nord della Germania (in Renania), e nell’Italia settentrionale. Gli adepti di

questa setta si definiscono “puri” e la relativa eresia verrà chiamata catara o

albigese.

La tesi centrale di questo movimento ritiene che quanto si riferisce alla materia

ha una valenza etica malvagia e deriva da un principio cattivo; opposto alla

materia c’è il mondo dello spirito, che proviene da un principio buono. All’inizio

di tutto, perciò, secondo questa eresia c’è una duplicità di principi che origina le

cose materiali e spirituali, contro la dottrina cristiana che riconosce un unico

principio creatore.

Per rispondere all’eresia albigese viene redatto un intervento magisteriale che

si trova nella costituzione De fidae catholica del Concilio Lateranense IV,

svoltosi nel 1215, dove nella parte sulla creazione ci si oppone alla tendenza

dualistica catara. Nel primo articolo si esprime che Dio è l’unico principio

creatore di tutto ciò che esiste e che la creazione è opera comune del Padre, del

Figlio e dello Spirito Santo, cioè dell’unica sostanza divina.

Ecco il testo del documento: “Crediamo fermamente e confessiamo

semplicemente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente e

ineffabile. Padre, Figlio e Spirito Santo…..unico principio di tutto, creatore di

tutte le cose, visibili e invisibili, spirituali e materiali; con la sua onnipotente

virtù, insieme, all’inizio del tempo, ha creato dal nulla l’una e l’altra creatura,

quella spirituale e quella materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi l’uomo, in

certo modo partecipe di entrambe, composto di anima e corpo. Il diavolo, infatti,

e gli altri demoni sono stati creati da Dio buoni per natura, ma sono diventati

malvagi da sé stessi. E l’uomo ha peccato per suggestione del diavolo”.

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L’analisi del testo presenta cinque elementi fondamentali.

1. L’unità del principio creatore, per cui, nonostante le persone divine siano

diverse, a creare è l’unica sostanza divina.

2. Per la prima volta in un documento magisteriale si trova la formulazione

della creatio ex nihilo (creazione dal nulla), pur se vari scrittori ecclesiastici la

ammettevano implicitamente nei loro scritti. L’affermazione della creazione dal

nulla va contro l’idea che Dio ha creato le cose da una materia preesistente, in

quanto non esisteva nessuna materia dalla quale potesse venire plasmata l’intera

creazione.

3. La creazione ha la caratteristica della semplicità, secondo l’espressione

“simul ab initio temporis” (l’atto della creazione pone in essere il tempo). Dire

che Dio ha creato nel tempo non significa che Dio ha creato mentre il tempo già

esisteva, ma che nell’azione c’è la creazione di tutto e quindi anche l’inizio della

temporalità.

4. L’atto creatore si estende ugualmente agli esseri spirituali e agli esseri

materiali, ossia Dio è creatore di tutto quanto esiste.

5. L’origine del male non è di natura ontologica, perché Dio ha creato tutto

buono (ottimismo antropologico), ma è di natura etica; sono i demoni che, creati

buoni, hanno preso la strada del male, pervertendo la loro azione.

Queste definizioni fondamentali vennero redatte in forma molto essenziale,

senza ulteriori commenti magisteriali, e risulteranno di tale importanza che i

concili seguenti nel trattare l’argomento della creazione non sentiranno il

bisogno di usare altre formulazioni, tanto che il Concilio Vaticano I nel 1870

quando parla della creazione rimanda esattamente al Concilio Lateranense IV.

36

Le affermazioni fondamentali sono formulate da un punto di vista filosofico,

però il Concilio Lateranense IV in modo intelligente ha preso questi elementi e li

ha centralizzati all’interno di una professione di fede, tanto che all’inizio del

documento è scritto “crediamo fermamente e confessiamo semplicemente”.

Quindi nella formulazione conciliare c’è un incontro di fides e ratio, una forte

simbiosi tra la contestualizzazione storico-salvifica e quella filosofica, donde

l’esempio di come alcune affermazioni che facevano ormai parte del linguaggio

comune potevano essere poste all’interno di un contesto proprio.

A partire dall’undicesimo secolo la teologia entrò nelle università ed assunse il

linguaggio aristotelico, in quanto, attraverso gli arabi, Aristotele viene

conosciuto in Europa. A causa di ciò il discorso sulla creazione si sposta su un

piano ontologico, come emerge nella riflessione di Tommaso che produce un

cambiamento di prospettiva nell’approccio al tema della creazione: “dal suo

nativo inquadramento teologico verso un orizzonte filosofico, che farà di essa un

discorso sempre più razionale e meno di fede” (Ruiz de la Peňa). Occorre

comunque sottolineare che la terminologia “meno di fede” vuole solo significare

una minore ambientazione nella prospettiva storico-salvifica.

La seguente età moderna è caratterizzata da grandi mutamenti culturali, che

divengono determinanti in ordine allo sviluppo di alcuni temi teologici. Il motivo

di tali cambiamenti va ricercato nelle scoperte geografiche ed astronomiche,

nell’affermarsi del pensiero antropocentrico, nell’abbandono della metafisica,

nella nascita del pensiero secolare, nella comparsa del protestantesimo, nello

sviluppo della cultura illuminista. L’approccio razionale si estremizza perché si

vive in un contesto culturale in cui la ragione viene deificata; di conseguenza la

37

dialettica si attua nel linguaggio della razionalità. La creazione non si studia più

come dono, come primo momento storico-salvifico, ma si esamina in sé e per sé,

nell’ambito della cosiddetta teologia naturale.

L’uomo è il punto di riferimento e le cose prendono valore sempre più in

riferimento a lui piuttosto che a Dio. La cultura antropocentrica mette in

evidenza il valore dell’individuo, col passaggio da una mentalità incentrata

sull’oggettivo ad una maggiormente soggettiva.

In una cultura individualista, la prospettiva sostanzialista, essenzialista, tipica

della metafisica, entra in crisi, fino ad essere rifiutata. Nasce il pensiero secolare,

compare la crisi protestante che porta nell’ambito religioso il soggettivismo di

fondo, da cui deriva un’interpretazione individualistica della Scrittura.

Successivamente, ad ulteriore scapito della metafisica, c’è il pensiero

illuminista, col primato delle scienze, dell’empirico, dove si considera tutto ciò

che esiste sotto il profilo cosmologico, nel senso stretto del termine; si comincia

a sviluppare il pensiero evoluzionistico con Lamarck, cui alcuni decenni dopo

farà seguito la teoria di Darwin.

In questo rinnovato contesto la teologia della creazione si inquadra in una

cornice che estremizza la prospettiva razionale assunta nei secoli precedenti con

la teologia naturale. Nasce il trattato De Deo creatore, che argomenta più in

senso metafisico che biblico, cercando di rispondere alla dialettica illuministica

con la ripresa di temi metafisici forti, pur assumendo gli stessi criteri del contesto

culturale dell’epoca.

Il diciannovesimo secolo vede il ritorno dell’impostazione apologetica, in

quanto ci si accorge che occorre recuperare il discorso biblico messo in dubbio

38

dal positivismo e dall’illuminismo. Nel mettere insieme le due prospettive c’è il

rischio di cadere nel concordismo, che tenta di far combaciare i dati biblici con

quelli scientifici. Ma la Bibbia dice perché esiste il mondo e non com’è fatto, la

qual cosa è oggetto specifico della scienza.

Prendiamo il caso dell’evoluzione secondo cui le cose che sono, progrediscono,

migliorano e dal meno evoluto si va verso il più evoluto. Papa Giovanni Paolo II

in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze sottolineò che

l’evoluzione è più che un’ipotesi, anzi è un dato ormai davanti agli occhi di tutti.

Ci sono però alcuni evoluzionisti, i cosiddetti darwinisti e neodarwinisti,

secondo cui tutto è evoluzione, nel senso che tutto si è prodotto per caso e non

esiste un principio creatore, perché ci si può fondare solo sui dati della scienza.

Di contro altri, detti creazionisti, credono che tutto è stato fatto da Dio (e fin qui

nessun problema) ma ritengono anche che tutto è stato creato così da sempre,

interpretando la Scrittura in chiave fondamentalista. Per dimostrare le loro

ragioni cercano di fare un’operazione di concordismo, dimostrando che, ad

esempio, i sei giorni della creazione corrispondono alle ere di sviluppo della

Terra, mentre col big bang si intende spiegare il caos informe e primordiale di

cui parla la Genesi. Negli U.S.A. lo scontro tra creazionisti ed evoluzionisti ha

avuto addirittura strascichi sul piano legale.

La teologia, sorretta ormai da prevalenti ragioni speculative, si impegna a

dimostrare che la creazione è una verità che si può comprendere con la forza

della ragione. Da qui nasce il semirazionalismo di G. Hermes e A. Gunther, che

tentarono un’opera di concordismo mettendo insieme i dati biologici con le idee

39

proprie dell’idealismo del tempo. Questa corrente venne condannata dal Sinodo

Provinciale di Colonia del 1860.

In questo contesto si situano le definizioni dogmatiche del Concilio Vaticano I,

che nella costituzione apostolica Dei Filius (Figlio di Dio) dedica un capitolo

all’esposizione della dottrina del Dio creatore, condannando il panteismo che

elimina la distinzione tra il creatore e la creatura, ed il materialismo, secondo cui

tutto esiste indipendentemente da Dio. La costituzione riprende la dottrina della

creazione definita dal Concilio Lateranense IV, precisando gli aspetti che erano

stati messi in questione dal semirazionalismo, ossia il carattere libero dell’atto

creatore contro la dialettica dell’idealismo, la provvidenza e la gloria di Dio

intesa come compimento di tutta la creazione. Molte questioni, tuttavia,

rimangono irrisolte.

Il ventesimo secolo vede la celebrazione del Concilio Vaticano II, che nella

Gaudium et Spes offre un apporto decisivo al tema. Qui non c’è una definizione

sulla creazione ma il discorso sulla realtà creata viene affrontato in un respiro

storico-salvifico di grande portata.

Nel nostro tempo, inoltre, l’attenzione alla questione ecologica e la ripresa del

dialogo con le scienze della natura hanno permesso di maturare teologicamente il

tema della creazione.

40

8. La dottrina della creazione: riflessione sistematica.

Una sistematica della dottrina della creazione deve avere come riferimento

sostanziale la teologia cristologico-trinitaria. Alla luce della realtà impersonale di

Dio, infatti, si possono comprendere la possibilità e il senso di tutta la realtà

creata.

Tutto questo è esigito per tre ragioni. La prima è di ordine scritturistico. Infatti

la Bibbia suggerisce la centralità dell’evento Cristo, intesa ovviamente in senso

logico e non cronologico. Per comprendere il significato della creazione non ci si

può fermare solamente al testo della Genesi, ma occorre guardare anche al ruolo

decisivo che Cristo ha assunto nell’atto creatore, come riportato nel prologo

giovanneo e in alcune lettere paoline (Ef, Col, Cor).

Un secondo motivo è di ordine teologico. La creazione è un mistero della fede

e non una realtà pienamente comprensibile da un punto di vista razionale. Quindi

occorre evitare gli errori del passato quando, specialmente nel contesto

illuminista dominato dalla razionalità, si volle fare teologia naturale, ricorrendo

alle affermazioni filosofiche o della scienza per dimostrare la creazione. Il senso

di questo mistero va sempre cercato nella Parola di Dio e non in una particolare

visione scientifica.

L’ultima ragione è di ordine storico. Nell’età moderna il punto di partenza per

illustrare la creazione era partire dalle cose create e vedere il perché

dell’esistenza, andando a ritroso di causa in causa fino a dire che tutto ha un

principio in Dio. Si partiva, perciò, dal fondamento e si cercava di spiegare tutto

in base alla fede.

41

In una prospettiva storico-salvifica, però, il punto di partenza è altro e non le

cose create; essendo il mistero della creazione un dato di rivelazione occorre

considerare inizialmente la Parola di Dio, per cui non si parte dalla realtà per

arrivare alla fede ma dal dato di fede per raggiungere l’illuminazione della realtà.

Fissati i contenuti di ordine metodologico, è possibile trattare quelli teologici.

L’origine di tutto quanto esiste è Dio uno e trino. La realtà che agisce ad extra,

ossia al di fuori della Trinità, è l’unico principio di quanto esiste, che rappresenta

l’azione ad extra della realtà stessa di Dio, nella sua unità sostanziale e nella sua

comunione pericoretica. Dio non si scinde nella sua azione ad extra ma è sempre

lui che agisce, anche se vanno riconosciute delle attribuzioni particolari alle tre

persone. Ad esempio, nel dire che Gesù ci salva si sottintende che all’opera sono

anche il Padre e lo Spirito (grundaxiom di Rahner, secondo cui la Trinità

immanente è quella economica).

A questo punto ci si può chiedere se nella creazione si può riconoscere una

particolarità per ciascuna delle tre persone. Per rispondere correttamente a questa

domanda occorre richiamare la realtà trinitaria all’interno della sua unica natura,

con le tre persone distinte in una sola sostanza. L’unica natura divina conviene a

tutte e tre le persone secondo un certo ordine. Il Padre possiede la divinità e non

la riceve da nessuno, perciò è la sorgente della divinità. Anche il Figlio possiede

la natura divina ma in quanto la riceve dal Padre; non a caso si dice che è

generato dal Padre (secondo la Scrittura “Egli è l’immagine perfetta del Padre”).

Pure lo Spirito ha la natura divina ma la riceve sia dal Padre che dal Figlio, in

quanto procede da essi; è il vincolo d’amore, il legame personalizzato tra il Padre

e il Figlio.

42

Anche la potenza creatrice conviene sempre alle tre persone, perché ogni atto

che Dio compie ad extra è sempre opera delle tre persone divine. Ma nella

creazione c’è, comunque, un ordine, pur se la virtus creandi appartiene a tutti. Il

Padre non riceve da nessuno la potenza creatrice, il Figlio riceve la virtù creatrice

dal Padre, lo Spirito da entrambi. Perciò, nonostante l’ordine diverso con cui Dio

si manifesta ad extra, la creazione è un prolungamento dell’agire trinitario di

Dio. In altre parole, è come se si ripresentasse nello spazio e nel tempo quanto

avviene nella realtà trinitaria, per cui ciò che è al di fuori è un riflesso di ciò che

è all’interno della vita stessa di Dio.

Questa continuità, comunque, non significa omogeneità perché se tra quello

che c’è fuori e quello che c’è dentro c’è uguaglianza di natura, allora ci sarebbe il

monismo. Se, invece, si ammette che non c’è alcun vincolo, per cui Dio e la

creazione sono totalmente diversi, allora si avrebbe il dualismo. Nel dire

“continuità”, perciò, si evitano tutti i problemi che si sono avuti nello sviluppo

storico-teologico della creazione.

Ma perché Dio agisce ad extra dando vita al mondo? Una prima risposta

consiste nell’ammettere l’impossibilità di un qualsiasi ragionamento ma in tal

modo si rischia di entrare in una logica apofatica. In una visione più articolata si

cerca una comprensione basata sulla Scrittura, secondo la quale tutto quanto è

uscito dalle mani di Dio è frutto di una sua azione assolutamente libera e

gratuita. Questo significa che non c’è necessità da parte di Dio di creare, quindi

ciò che esiste è voluto liberamente e gratuitamente da Dio, che ha creato esseri

diversi da lui dando loro una consistenza ontologica ed una relativa autonomia.

43

Quest’azione non arricchisce Dio né lo impoverisce perché Dio basta a sé

stesso, in quanto le relazioni intratrinitarie sono a lui più che sufficienti. Occorre

considerare, però, che le tre persone nella creazione allargano la loro comunione,

ampliando il dialogo al punto da ammettere in esso anche ciò che non è

necessario alla vita trinitaria. Dio non rimane come atto puro aristotelico, ma

mettendo fuori qualcosa di sé coinvolge la creazione in una comunione che

comprende anche ciò che non è necessario e dovuto, facendola in qualche modo

partecipe della vita infinita delle tre persone. Non a caso gli antichi scoprivano

nella creazione tracce di Dio (vestigia dei), come conferma Paolo, che nella

lettera ai Romani sostiene che anche i pagani possono avere un riflesso di Dio

proprio a partire dalle cose create.

A questo punto conviene caratterizzare meglio le tre persone nell’ordine della

creazione, partendo da alcune frasi del Simbolo niceno-costantinopolitano.

a. “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di

tutte le cose visibili e invisibili […..]”.

La perfezione dell’essere e dell’amore del Padre sono all’origine non soltanto

dell’eterna, immanente e assoluta comunicazione della vita divina nell’unigenito

Figlio, ma anche della libera donazione dell’esistenza alle creature finite. E’ il

concetto filosofico e teologico della creatio ex nihilo, con cui si intende che

l’origine di tutto quanto esiste è Dio.

Ma se Dio ha creato dal nulla, ciò significa che tra lui e l’uomo esiste una

differenza perché Dio è il creatore e l’uomo è stato creato. L’uomo si relaziona a

Dio in termini di dipendenza, proprio perché la creatura dipende dal creatore e

per tale motivo l’autonomia dell’uomo è sempre relativa e mai assoluta. Questa

44

dipendenza è di tipo salvifico, in quanto l’uomo riceve da Dio vita e

sostentamento.

b. “Credo in un solo Signore, Gesù Cristo[…..] per mezzo di lui tutte le cose

sono state create […..]”.

Ogni comunicazione dell’esistenza ad extra di Dio (creazione) ha per modello

e fondamento l’eterna comunicazione della vita divina dal Padre al Figlio. In

quanto Dio, Cristo è, con il Padre e con lo Spirito, autore della creazione.

Il Figlio proviene in eterno dal Padre (“generato non creato”), dove “eterno”

non va inteso in un ordine temporale che non si addice a Dio. Con la generazione

da parte del Padre si intende un movimento intrinseco di uscita nella generazione

del Figlio, in un’esplosione di bene assoluto; questo eterno provenire del Figlio

dal Padre è la causa per cui Dio dona ogni vita.

Nel dire che Dio Padre ci crea per mezzo del Figlio si vuol intendere che è

proprio il Figlio a sacramentalizzare, a mediare l’azione ad extra di Dio. Il Padre

non fa mai qualcosa fuori di sé senza passare attraverso il Figlio, che è lo

strumento del Padre. Lo stesso termine con cui noi siamo definiti, “figli nel

Figlio”, esprime la mediazione di Gesù Cristo.

Se la creazione è posta in essere dal Padre per mezzo del Figlio, la realtà creata

ha un carattere di ricettività, di accoglienza. Allora la creazione deve avere una

qualità per forza buona perché quello che è fatto per mezzo di Gesù Cristo non

può essere cattivo.

c. “Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita”.

Lo Spirito, nel quale Dio Padre, per mezzo del Figlio, dona l’esistenza alle

creature e nel quale tutto viene ricondotto all’unità, può essere considerato come

45

il garante dell’alterità, della libertà, dell’autonomia della creatura. Se la

creazione è opera del Padre per mezzo del Figlio nello Spirito, allora è possibile

solo come frutto dell’amore di Dio ed è il riflesso del legame di amore trinitario.

Nell’interno della Trinità lo Spirito garantisce la comunione tra Padre e Figlio

al punto tale che lui stesso è inserito nella comunione. Ponendo il discorso

all’esterno, lo Spirito è colui che garantisce il rapporto tra Dio e la sua creazione;

questa relazione è la creazione continua, il sostegno dell’essere, il legame di

dipendenza tra creatore e creatura.

Ma allora Dio, come creatore continuo di tutta la realtà, è anche provvidente,

perché sostiene nell’essere e non fa mancare mai nulla alla creazione, guidandola

verso il suo fine, che è la gloria di Dio, ossia la compiutezza escatologica.

46

9. L’uomo come creatura di Dio, centro dell’antropologia cristiana.

Dal discorso sulla creazione in genere passiamo alla creazione specifica

dell’uomo.

L’affermazione di fede circa la creaturalità dell’uomo chiede di venire

esplicitata nel senso di una comprensione più puntuale di ciò che è l’uomo

riguardo le sue strutture fondamentali. L’uomo, in quanto creatura di Dio, ha

delle caratteristiche proprie che lo rendono capace di dialogo in libertà non solo

con il suo Creatore, ma anche con i suoi simili e con le altre creature.

Tale condizione ontologica è pienamente rivelata nell’evento dell’incarnazione

di Gesù Cristo, l’immagine di Dio per eccellenza, l’uomo completo del quale

Adamo era un semplice abbozzo. In Cristo si comprende la vera vocazione

dell’uomo e ciò rappresenta l’elemento che distingue l’umanesimo cristiano da

altri progetti umanistici di marca laica e che difende lo stesso uomo da ogni

forma di antiumanesimo esistente oggi nella cultura postmoderna.

9.1. L’uomo creato a “immagine di Dio” nelle Scritture.

A. L’uomo è creatura di Dio. L’affermazione fondamentale è contenuta nelle

due narrazioni sulla creazione dell’uomo (Gen 2-J; Gen 1-P). A parte alcune

differenze redazionali, i documenti convergono teologicamente su alcuni dati.

a. In quanto creato da Dio a sua immagine, l’uomo ha una dipendenza assoluta

dal suo Creatore, in una relazione fondativa per ogni uomo inscritta nello stesso

47

atto della creazione, tanto che non ci sarebbe la creatura se non ci fosse il

Creatore. La creatura viene sostenuta nell’essere dal Creatore, per cui quando la

Scrittura dice che l’uomo è creato a “immagine di Dio” vuole immediatamente

rimandare alla relazione di dipendenza creatura-Creatore.

Secondo la Scrittura, il rapporto uomo-Dio è il primo significato contenuto

nell’idea di immagine, fondativo al punto che se l’uomo dovesse venir meno a

questo rapporto allora verrebbe meno a sé stesso, perderebbe la sussistenza, il

significato di sé sul piano ontologico e non comunque sul piano biologico.

L’immagine intende che l’uomo è voluto da Dio come partner, come un “tu” in

relazione a “Lui”.

b. La relazione di dipendenza dell’uomo da Dio fonda la superiorità umana sul

resto del creato. Nel libro della Genesi si trovano due frasi molto esplicative al

riguardo :”dominerai sui pesci del mare, gli uccelli del cielo” e “soggiogherai la

terra”, per cui nell’ambito dei viventi c’è questa creatura eccelsa (Salmo 8: “lo

hai fatto poco meno degli angeli”

I verbi usati (“dominerai”, “soggiogherai”) non significano che la superiorità

dell’uomo debba essere esercitata sul creato in termini dispotici per disporre a

proprio piacimento di quanto esiste, ma vogliono intendere un servizio verso la

creazione. La radice ebraica dei verbi usati, infatti, rimanda all’azione del pastore

nei confronti del suo gregge.

Questo significa che l’uomo oltre ad essere in relazione verticale con Dio è

anche in relazione orizzontale verso il creato. L’uomo è un mediatore tra Dio e la

creazione e attraverso la sua risposta porta a Dio la risposta della creazione.

48

Nel distruggere la creazione con danni ambientali si svolge un’azione

eticamente malvagia anche sotto l’aspetto della giustizia e della pace, che vanno

insieme alla salvaguardia del creato. La natura non è un semplice habitat come

per l’animale ma è costitutiva dell’essere umano, tanto che nel deturparla l’uomo

rovina una parte costitutiva di sé.

La superiorità non indica un potere assoluto e dispotico dell’uomo nei

confronti della creazione, ma una qualità “ontologica” che lo rende responsabile

di tutto quanto esiste. L’uomo, in altre parole, è il gestore responsabile della

creazione per Dio, in una visione antropocentrica della realtà creata.

c. L’uomo non è solo in relazione a Dio e al mondo, ma anche al suo simile.

Egli è posto in relazione di uguaglianza con il suo simile (tu) che rende possibile

la rispettiva singolarità (sé stesso nella relazione all’altro). L’uomo da solo non

riesce a capire sé stesso e per riconoscersi lo può fare solo in relazione con la

donna.

Come disprezzando il creato si disprezza Dio, nel disprezzare l’altro si

disprezza il rapporto con Dio, tanto che dopo il peccato accade subito che Abele

viene ucciso da Caino. La relazione interumana è una mediazione della relazione

trascendente uomo-Dio, che viene sacramentalizzata dalla relazione con l’altro.

In Matteo 25 (“avevo fame…..è come se l’avrete fatto a me”) è ben spiegato

come nessuno può dire di amare Dio che non vede se non ama i fratelli che vede.

La relazione col proprio simile non è indifferente perché è una relazione

sessuata; ci si relaziona all’altro sempre come maschio o come femmina, con la

propria identità sessuale. Questo concetto di relazione secoli dopo sarà

recuperato col forte concetto di persona, che in sostanza è un essere in relazione.

49

d. L’idea di uomo che così emerge è lontana da ogni forma di dualismo

antropologico. L’essere umano è una realtà unitaria a struttura dialogica. Non c’è

una parte dell’uomo che non si mette in relazione; non c’è una parte buona e una

cattiva, dal che nella Bibbia emerge un ottimismo antropologico. L’odio, il male

rappresentano l’anticreazione.

e. I due racconti della Genesi non intendono fornire informazioni scientifiche

sull’uomo e tantomeno eventuali descrizioni sul come e il quando della creazione

dell’uomo.

f. I due racconti non intendono dare una definizione dell’uomo ma una sua

descrizione funzionale. Alcuni elementi di tipo ontologico si possono solo

dedurre per accostamento: l’uomo come unità, come essere contingente, come

essere in relazione.

g. La cornice della creazione in genere e quindi anche dell’uomo è

evidentemente storico-salvifica. L’uomo è stato creato perché sia in relazione

con Dio in un rapporto di alleanza, che impegna la libertà, fondamentale nella

relazione, altrimenti non sarebbe una predeterminazione ma un predeterminismo.

B. Nel Nuovo Testamento interviene l’evento decisivo di Gesù Cristo, l’uomo

completo del quale Adamo era un abbozzo. In questo evento si può comprendere

come l’uomo è creato a immagine di Dio in Cristo, la vera immagine di Dio. Dio

ha creato tutto avendo come riferimento Cristo, che nella sua umanità quando

storicamente viene nella carne si presenta come uomo perfetto.

50

Con il Nuovo Testamento si ha una svolta cristocentrica dell’antropologia (cfr.

la teologia paolina). Cristo è immagine archetipa, in modo completo,

primogenito di tutta la creazione, in quanto la riassume e le conferisce

consistenza.

“Da questo momento il destino dell’uomo non è più essere immagine di Dio,

ma immagine di Cristo. O, meglio ancora, l’unico modo in cui l’uomo può

arrivare bad essere immagine di Dio è riproducendo in sé stesso l’immagine di

Cristo […]. Il carattere processuale della partecipazione all’immagine-gloria

del Signore […] si orienta verso il termine escatologico della configurazione

con Cristo per mezzo della risurrezione” (J. L. Ruiz de la Pena).

L’immagine di Dio è un qualcosa di dato ma non un qualcosa di compiuto,

altrimenti non ci sarebbe neanche il tempo della storia; l’uomo è stato orientato

verso il compimento, è stato posso in essere come un “homo viator”. La pienezza

dell’immagine di Dio è la meta e viene raggiunta nell’evento Gesù Cristo, che è

l’immagine di Dio perfetta; infatti Gesù Cristo rivela non solo Dio ma anche chi

è l’uomo.

In Gesù l’uomo vede pienamente svelato il progetto di Dio sull’uomo. Allora,

siccome Gesù Cristo è la mediazione di Dio ed è l’uomo perfetto, se l’uomo

vuole diventare immagine di Dio, deve diventare anzitutto immagine di Cristo.

L’immagine protologica di Dio tramite l’immagine di Cristo ci fa raggiungere

l’immagine escatologica di Dio.

51

Questo discorso ha un carattere processuale in un processo di conformazione a

Cristo, di diventare figlio sia pure adottivo: è il cammino della figliolanza, che

trova in Gesù Cristo il modello per raggiungere la pienezza dell’umanità. Per

diventare pienamente uomo in tutte la sua potenzialità non occorre far altro che

conformarsi a Cristo, andando alla sua sequela, vivendo il battesimo, facendo

questo cammino nella condizione in cui Dio ha voluto ciascuno di noi, nella sua

specifica vocazione.

Questo processo di conformazione a Cristo va compiuto nella Chiesa ed ha

perciò un carattere ecclesiologico. A spingere l’uomo in questo cammino di

perfezione è lo Spirito Santo.

9.2. Le strutture basilari dell’uomo creato.

La concreta idea biblica dell’essere umano creato da Dio a sua immagine è

riflessa nella sua descrizione come unità psicosomatica e come essere in

relazione.

Nella Scrittura non si trova mai una definizione astratta-filosofica, perché il

discorso biblico è di tipo storico-salvifico. Pur se non c’è una teologia o

un’antropologia nel senso stretto del termine, dalla tradizione si sa che l’uomo è

sempre definito come un essere dotato di corpo e anima.

9.2.1. L’uomo come essere unitario e in relazione.

Anzitutto occorre ricordare che la mentalità ebraica e del vicino e medio

oriente antico ha un modo di approcciare la realtà unitario, concreto, olistico, per

cui l’agiografo non usa il termine “uomo” ma delle accezioni che corrispondono

52

ai suoi organi vitali. Perciò, pur volendo indicar un individuo nella sua

completezza, nella Scrittura si trovano termini quali soffio vitale, carne, cuore,

fegato, reni, a voler cogliere l’uomo in particolari situazioni esistenziali ma

comunque sempre intendendolo nella sua unitarietà.

Il primo termine da considerare è nefes, una parola che, pur indicando tutto

l’uomo, ha comunque un significato piuttosto complesso. Normalmente viene

tradotto in greco con psychè e in italiano con anima.

Originariamente nefes significava gola, da cui per metonimia il senso traslato

di respiro, soffio, alito. E se si parla di respiro ovviamente ci si riferisce

all’essere vivente, per cui nefes indica il dinamismo della vita. Nel testo di Gen

2, 7 quando è scritto che Dio alitò sull’uomo per dargli vita si usa proprio il

termine nefes, a significare che l’uomo è diventato un essere vivente.

Nel qualificare l’uomo come nefes, gli ebrei volevano intendere la profondità

dell’essere vivente e non il respiro come solo atto fisico. L’alito di vita è

traducibile anche come la consapevolezza di essere un vivente, per cui nefes

speso indica anche la coscienza, ma non nel senso etico del termine bensì come

consapevolezza dell’uomo di essere un vivente, di avere una particolare

fisionomia nel mondo creato rispetto agli animali che respirano ma non hanno

consapevolezza di respirare e quindi di vivere.

Indicando l’uomo in questo modo, la Scrittura non dice che l’uomo ha una

nefes ma che l’uomo è nefes, è consapevolezza, è vita e non che ha

consapevolezza o che ha vita. Quindi c’è un’attribuzione personale al punto tale

che l’uomo è identificato col termine, tanto che con la morte non ha più nefes.

53

In definitiva, questa accezione si riferisce a un uomo che vive sulla base di un

principio vitale, un uomo colto nella sua situazione di essere vivente. Occorre

comunque tener presente che nefes è un termine biologico e non dice nulla di

etico e di teologico.

Un secondo termine usato è basar. La traduzione greca è sarx, mentre quella

italiana è carne e qualche volta corpo. Come nefes, anche basar indica qualcosa

in comune con gli animali perché anche loro hanno la carne.

Quando la Scrittura indicare l’uomo non dice che ha un basar, ma che è basar,

è carne, è corpo. Con ciò si vuole senz’altro dire tutto l’uomo, pur se colto nella

sua dimensione di fragilità materiale. Infatti, in quanto carne, l’uomo è destinato

alla fine.

Accanto alla fragilità materiale c‘è anche una fragilità etica. L’uomo è basar

quando si chiude alla relazione con Dio e con gli altri, tanto che il termine può

indicare l’uomo nella sua dimensione di manchevolezza, di peccato.

Il terzo termine da considerare è ruah, normalmente tradotto con soffio o

spirito. In ebraico questo termine è femminile; in greco, tradotto con pneuma, è

diventato maschile, mentre in latino è neutro.

La ruah è il termine forse più significativo, caratteristico e primordiale

dell’antropologia ebraica. E’ il soffio donato dall’alto perché l’uomo possa

essere un vivente, è l’azione del Dio che dona la vita; è il soffio vitale non nel

suo esplicitarsi ma alla sua fonte.

54

Sulla base di questo aspetto l’uomo è naturalmente aperto a Dio, è capace di

relazioni trascendenti. Se l’uomo si rivolge al Creatore è proprio perché Dio gli

ha dato questa possibilità con la ruah.

Ad aprirsi a Dio è tutto l’uomo, non solo la sua mente, ma l’interezza del suo

essere; in tal modo si comprende, ad esempio, quale importanza ha la funzione

del corpo nella preghiera, un aspetto oggi piuttosto trascurato.

Dopo aver esaminato in dettaglio i tre termini, è bene sempre ricordare che

questi, pur volendo distinguere le concrete situazioni che l’uomo vive, intendono

cogliere l’uomo tutto intero, nella sua unità psicosomatica, multidimensionale e

dinamica, pur se ci sono situazioni in cui manifesta solo alcuni aspetti del proprio

essere. Questo perché l’antropologia biblica è sintetica, olistica e nella Scrittura

non esiste un concetto dualistico, dicotomico dell’essere umano, inteso come

corpo e anima che si sovrappongono, come se il corpo venisse da una parte e

l’anima dall’altra.

Sulla base di quanto detto si potrebbe accentuare il monismo di un essere

umano. In realtà questo non può avvenire perché l’uomo in ogni situazione

antropologica è un essere in relazione. La sua è un’esistenza dialogica che si

esprime nella triplice relazione di dipendenza da Dio, di superiorità sul mondo

(intesa non come dominio ma in senso pastorale), di uguaglianza al “tu” umano.

Delle tre relazioni, la più importante è quella teologale, da cui dipendono le altre.

Nel Nuovo Testamento le cose si svolgono in modo analogo, pur con qualche

differenza nella traduzione dei termini. Poiché il Nuovo Testamento è scritto in

greco, nefes viene usualmente tradotto con psyché, che a sua volta è tradotto con

55

anima, pur se questo termine non corrisponde in pieno a quel che si intende

comunemente. Ad esempio, quando Gesù dice “non abbiate paura di quelli ch

uccidono il corpo ma di quelli che uccidono l’anima”, non bisogna pensare alla

coppia corpo-anima in senso dualistico; nfatti Gesù non si riferisce all’anima

dell’uomo, ma al concetto di nefes proprio dell’Antico Testamento, intendendo

di aver timore di coloro che possono uccidere non solo una parte ma il tutto.

Anche quando dice “chi avrà trovato la sua vita la perderà e chi perderà la sua

vita per causa mia la troverà”, viene usato il termine psyché con cui si ci si

riferisce alla vita umana in generale.

Nel Nuovo Testamento il termine basar viene tradotto con sarx, che compare

147 volte, 91 delle quali viene usato da Paolo. Anche qui sarx non significa

carne in senso stretto ma può variare in base al contesto in cui viene collocato,

riferendosi alla carne in senso biologico o alla sua dimensione di fragilità. Ad

esempio quando Luca dice “ogni carne vedrà la salvezza” si riferisce a tutto il

genere umano, mentre quando Paolo dice ”non camminate secondo la carne

perché la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito”, volendo intendere

che non bisogna camminare nel peccato.

Spesso Paolo con sarx indica il contrasto dell’uomo nel suo rapporto con Dio

(Rm 8, 4-8: “non camminiamo secondo la carne ma secondo lo spirito”; Rm 12,

13: “poiché se vivete secondo la carne morirete”, dove il termine “morirete” non

indica la morte biologica ma il perdersi nel peccato; Gal 5, 16-26 “vi dico

dunque: camminate secondo lo spirito così non sarete portati a soddisfare i

desideri della carne; la carne, infatti, ha desideri contrari alo spirito e lo spirito

desideri contrari alla carne”).

56

Nella letteratura paolina c’è un passo della lettera ai Tessalonicesi, spesso letto

nella Compieta (“tutto quello che è vostro, spirito, anima, corpo…..”). di

particolare interesse perché sembra parlare di una tricotomia antropologica di

spirito, anima e corpo. Le sue interpretazioni si possono suddividere in due

blocchi sostanziali: secondo alcuni esegeti Paolo qui è stato molto influenzato

dall’ambiente greco, in cui non esisteva solo la sarx ma anche il concetto di nous

aristotelico (mente, spirito), mentre secondo altri Paolo è fedele al mondo

biblico, cui appartiene.

Per coloro che sostengono una derivazione ellenistica, corpo, anima e mente

dovrebbero tradursi con soma, psyché e pneuma; ma per quest’ultimo termine

Paolo utilizza il concetto di nous lasciandosi influenzare dal concetto platonico-

aristotelico.

Per gli ebrei, invece, l’apostolo si sarebbe riferito all’antropologia biblica,

indicando l’anima con due termini diversi, psyché e pneuma, che comunque a

detta di alcuni esegeti coincidono, pur possedendo caratteri diversi.

A tale proposito l’insigne studioso paolino Stanislao Lyonnet dice: “Paolo non

sembra interessato in questi testi agli aspetti filosofici della questione; egli

utilizza i termini greci correnti [perché scrive alla comunità di Tessalonica] ma

senza dar loro necessariamente il significato preciso che davano i filosofi greci.

In conclusione, a parte un rivestimento linguistico, non compare alcuna

concezione greca dell’antropologia. Esso conserva la visione biblica dell’uomo

colto nella sua interezza e completezza”.

57

Nella traduzione italiana, comunque, non è scritto mente, anima e corpo, ma

giustamente spirito, anima e copro, termini che vengono sempre e comunque

indicati da nefes, basar e ruah.

9.2.1. L’uomo come essere unitario e in relazione.

Alla luce di Cristo, l’uomo comprende sé stesso in modo completo nel suo

essere in relazione. L’esperienza storica di Gesù, così come emerge in particolare

dai vangeli, rivela il suo essere uomo che vive automaticamente le relazioni con

il Padre, con gli altri uomini e con l’intero creato. Gesù compie Adamo, per cui

l’uomo, se vuole essere autenticamente tale, deve imitare Gesù, la vera immagine

di Dio.

Il Nuovo Testamento suggerisce un’antropologia della sequela. La salvezza è

intesa come pienezza dell’umanità: l’immagine di Dio viene raggiunta dall’uomo

attraverso il suo cammino di conformazione a Cristo, nella forza dello Spirito,

che ci porta a Cristo e che ci guida fino al compimento dei tempi.

58

10. Sviluppo storico-teologico della dottrina sull’uomo come creatura di Dio.

Già a partire dall’epoca patristica, le idee cristiane sull’uomo devono

confrontarsi con la cultura antropologica dualistica dominante in Occidente. La

fedeltà alla Scrittura è la regola fondamentale, ma non sempre tale operazione

riesce, anche se il pensiero antropologico dualistica cozza inevitabilmente contro

le tesi centrali del cristianesimo: incarnazione, redenzione, resurrezione della

carne. Nell’ambito delle dispute trinitario-cristologiche si affaccia il concetto di

persona, che trova il suo vero sviluppo a partire dall’età medievale, mentre la

situazione si complicherà molto nell’età moderna.

10.1. L’antropologia patristica.

Per discutere approfonditamente questo aspetto conviene prendere inizialmente

in considerazione due brani della Genesi.

Gen 1, 26: “E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra

somiglianza e domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su

tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’”.

Gen 2, 7: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò

nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”.

Il contesto biblico di fondo entro cui si colloca il pensiero patristico sull’uomo

è dato da questi due testi, dal che emergeranno due diversi punti di vista riguardo

la concezione dell’uomo.

59

Anzitutto occorre considerare che i Padri devono tenere conto che il vangelo va

annunciato in un ambito culturale diverso da quello originario. Quasi tutti i Padri

della Chiesa delle origini sono molto sensibili al dato della cultura greco-romana,

tanto che alcuni (si pensi a Giustino), sono pagani convertiti.

In questo processo di inculturazione del messaggio biblico molti Padri

recepiscono lo schema dicotomico del pensiero sull’uomo inteso come composto

di corpo e anima, tipico della cultura greco-romana. Pur aderendo a quel

linguaggio, comunque, i Padri non ne recepiscono i contenuti, per cui non

arriveranno mai ad una frattura tra corpo e anima, rispettando l’unità nella

dualità.

In realtà questo schema dualista non è esclusivo della cultura greco-romana ma

anche di quella concezione cristiana che vedeva la presenza di due principi

all’origine del bene e del male, quale la gnosi cristiana che professa

un’antropologia dualista, dove a causa di un peccato originale dell’uomo l’anima

è imprigionata nel corpo.

Pur conservando fondamentalmente una visione unitaria dell’uomo, alcuni

Padri, essendo più vicini al mondo biblico, semitico, accentuano la visione

materiale dell’uomo (tradizione antiochena), a differenza di coloro che, più vicini

al bacino culturale ellenistico, accentuano la visione spirituale (tradizione

alessandrina).

La tradizione antiochena ha come punto di partenza la cristologia, vista come

principio ermeneutico di una nuova antropologia dove l’elaborazione del

pensiero è molto fedele al dato biblico. L’esponente più emblematico di questa

60

scuola è Ireneo di Lione, che parla spesso del Verbo incarnato, riconducendosi a

Gen 1, 26 dove l’uomo è inteso nel suo concetto di immagine.

Riguardo la tradizione alessandrina, invece, il criterio di riferimento è il Verbo

preesistente (Gen 2, 7), che è comunque la stessa realtà del Verbo incarnato, per

cui le tradizioni, pur accentuando aspetti diversi, non stanno in realtà

scomponendo l’uomo, che è sempre visto come unità duale.

Questo doppio orientamento culturale di sensibilità perdura per i primi tre

secoli, fin quando compare Agostino, che nel bene e nel male condizionerà la

tradizione futura: basti pensare a Tommaso, Bonaventura, Lutero, Calvino).

Agostino fu il primo ad operare una svolta antropologica in Occidente; in lui

ogni discorso viene sempre filtrato attraverso l’uomo (Conf: “io ti cercavo fuori

di me ma quando ti ho trovato mi sono accorto che eri più intimo a me di me

stesso”; “il camminare secondo l’umanità è raggiungere Dio”).

Per comprenderne l’idea di uomo, occorre ricordare che Agostino prima di

convertirsi al cristianesimo era manicheo e da un punto di vista culturale era

fortemente influenzato da un dualismo di stampo neoplatonico. Quindi la sua

sensibilità è molto sbilanciata sotto l’aspetto spirituale che si riferisce

all’interiorità, tanto che la sua antropologia è detta dell’interiorità agostiniana.

Pur se in vari aspetti sembri così sbilanciato verso l’elemento spirituale da

trascurare l’unitarietà dell’uomo, in realtà Agostino non definisce mai l’uomo ma

lo descrive sempre in relazione al suo fine, che è Dio, per cui l’antropologia di

Agostino punta maggiormente su ciò che l’uomo deve essere in relazione a Dio,

piuttosto che su quello che effettivamente è.

61

In questo riferimento a Dio, Agostino pensa l’uomo come memoria,

intelligenza e volontà (mens, notizia, amor). La memoria dice relazione al Padre;

l’intelligenza dice riferimento a Cristo che è la notizia del Padre; la volontà dice

l’uomo in riferimento allo Spirito. In tal modo l’uomo è descritto in chiave

trinitaria, in un riferimento storico-salvifico che raccorda il discorso sulle origini

con la salvezza che si compirà nel futuro.

10.2. L’antropologia in età medievale: la nozione di persona.

Nel medioevo la riflessione sull’uomo si colloca non più sullo sfondo della

cristologia, ma su quello dell’escatologia, soprattutto negli ambienti monastici,

che si rifanno alla regola agostiniana. Si continua a riflettere sull’uomo

soprattutto in base a quel che sarà rispetto a quel che è, anche se i pensatori

medievali cercano di risolvere le questioni dell’umano nel loro esito

soteriologico-escatologico. Molti problemi sulla finitudine dell’uomo vengono

risolti pensando all’aldilà, in una sensibilità sbilanciata sull’aspetto spirituale.

Nel procedere della riflessione, i medievali oscillano fra platonismo e

aristotelismo. Al riguardo assai originale si presenta la sintesi elaborata d

Tommaso d’Aquino, che descrive l’uomo come unità di corpo e anima,

utilizzando l’ilemorfismo aristotelico (anima forma corpis).

Grazie all’aristotelismo nel medioevo si afferma il concetto di scienza, tanto

che nascono università (Salerno, Bologna, Parigi) dove si studiano le scienze, la

filosofia e la stessa teologia si istituisce come scienza.

62

10.3. L’antropologia in età moderna e contemporanea.

L’epoca moderna si apre con la svolta antropocentrica dell’umanesimo, che ha

anche radici bibliche e cristiane. Ad essa reagisce Lutero (solus deus), con un

modo di concepire le cose indubbiamente antiscolastico, rivolto non tanto nei

confronti di Tommaso quanto verso i tomisti seguaci dell’aquinate.

Nell’epoca del razionalismo illuminista l’uomo è in primo piano, ma viene

inteso come soggetto che si comprende fuori dalla relazione. La sensibilità del

razionalismo è basata sull’intelletto, sulla razionalità. Non a caso Cartesio

distingue la res extensa (la materialità), dalla res cogitans (l’intelligenza); tra le

due res non c’è alcun rapporto ed il valore è sbilanciato verso la res cogitans,

ritrovandosi nuovamente di fronte a un dualismo del pensiero.

L’impostazione di pensiero che da Cartesio in avanti sarà più sensibile alla res

cogitans, accentuando la ragione, l’intelligenza, porterà all’idealismo (Hegel). Se

invece si è più sensibili alla res extensa si arriva all’empirismo (Locke, Hume),

la cui esasperazione condurrà al materialismo (Marx, Feuerbach).

Comunque sia, in un modo o nell’altro, l’epoca moderna si contraddistingue

come un’epoca di esaltazione del soggetto. Per dirla con Nietzsche, l’uomo con

la sua volontà di potenza può tutto e diventa un superuomo, artefice di tutto con

l’esclusione di Dio.

Con l’età moderna la parabola dell’esaltazione dell’umano ha raggiunto il suo

vertice, mentre oggi nell’epoca contemporanea si sta andando verso una

decostruzione del soggetto. Siamo infatti nell’epoca del frammento, nella

liquidità di tutto, al punto tale che si vuole eliminare anche l’uomo.

63

In ogni settore della vita emerge un riduzionismo antropologico e l’uomo viene

pensato solo in termini biologici, come un oggetto che può essere manipolato,

clonato, progettato, robotizzato. Come reazione a ciò in alcuni ambienti cerca di

prender piede la questione antropologica che vuole recuperare l’identità

dell’uomo, ma purtroppo questa opportunità fa fatica ad imporsi in una mentalità

che esalta solo la tecnica, interpretando l’uomo in un orizzonte nichilista, senza

orizzonte e futuro.

64

11. L’uomo creatura di Dio: riflessione sistematica.

Il cristianesimo professa minimi antropologici attraverso i quali propone i tratti

più significativi della persona umana e ribadisce una visione unitaria dell’umano.

In questo schema di pensiero, biblicamente fondato, è insito il rifiuto di ogni

forma di dualismo e di monismo antropologico.

11.1. L’uomo come essere unitario.

Nonostante nella storia del pensiero siano state frequenti molte tentazioni

soprattutto riguardo concezioni dualiste, l’antropologia cristiana afferma un netto

rifiuto di ogni professione di dualismo, ribadendo anche al n.14 della Gaudium et

spes che l’uomo è sempre uno in corpo e anima.

Da un punto di vista teorico non è facile esprimere in che senso l’uomo è uno,

ma si può sfruttare l’esperienza che ciascuno ha di sé stesso per significare al

meglio l’unità dell’uomo nei suoi aspetti fisici e spirituali; un’esperienza

fondamentale in questo dinamismo psicofisico è l’amore, in cui si è coinvolti con

lo spirito e col corpo, perciò con la totalità della persona.

L’uomo è unità di corpo e anima e non è scisso; non ci sono attività del corpo e

attività dell’anima, tantomeno si può ridurre l’uomo a solo corpo o a sola anima

secondo una concezione monista, perché in entrambi i casi si considera l’uomo

un puro oggetto organico, biologico, come intende la contemporanea cultura

riduzionista.

65

Con corpo e anima si intendono due coprincipi, distinguibili a livello

metafisico di principi teorici, ma mai a livello concreto, storico, perché ogni

uomo agisce sempre come unità di corpo e anima. Comunque anima e corpo non

sono identici e per questo occorre capire cosa sono.

Per comprendere cos’è il corpo conviene partire dalla fenomenologia. L’uomo è

corpo in quanto è un essere nel mondo e ciò che lo circonda è costitutivo del suo

essere uomo. L’uomo prende coscienza di sé perché è presente in un contesto

vitale e non può vivere senza il mondo, tanto che non salvaguardare il mondo

significa anche andare contro sé stesso. L’uomo è nei sei giorni della creazione,

costituito come signore e portatore del mondo, al punto che un uomo senza

mondo non è uomo.

Se l’uomo è corpo allora è un essere nel tempo, nel senso che percepisce di

vivere nel suo fluire; l’uomo si costruisce nel tempo ma questo aspetto mostra

anche il limite dell’uomo, che è soggetto ai cambiamenti e non può mai

possedersi in modo compiuto in un certo momento temporale. Ma se l’uomo è

nel tempo e la sua condizione è di homo viator allora è anche un essere mortale.

L’uomo comunica col suo corpo, sia nell’introspezione di sé sia con gli altri e

attraverso questa comunicativa fa la propria storia.

La specificità e la grandezza dell’uomo consiste non solo nell’avere un corpo

soggettivo e la cognizione di possederlo ma anche nel fatto che può trascendere

il corpo perché intuisce di avere un’anima, un qualcosa che va oltre sé stesso e

che è destinato anche ad altro, caratterizzando la profondità umana rispetto alle

altre creature.

66

Col termine anima si intende quella particolare singolarità dell’uomo, per cui,

leggendo con gli occhi della fede, diventa l’unica creatura capace di avere una

relazione con Dio, di entrare in una comunicazione fattiva con Lui. L’anima dà

al corpo una consistenza ontologica e non solo biologica, tanto che per gli

Scolastici l’anima è forma del corpo, in quanto lo fa essere, lo fa riconoscere.

Così come l’uomo è corpo in quanto è nel mondo, così è anima perché

trascende il mondo. A differenza dell’animale, l’uomo è capace di modificare

l’ambiente circostante e di renderlo a sua immagine e somiglianza in base ai

propri bisogni, dando un senso al mondo che gli appartiene.

L’uomo è un essere temporale ma è anche capace di trascendere il tempo. Al

tempo fisico (kronos) comprendente il passato, il presente e il futuro, l’uomo dà

un significato al punto che può vivere il tempo, dandogli il senso della noia, della

gioia, dell’ozio, della ricreazione, tanto che per Agostino il tempo è distensio

animae. L’uomo non è un essere temporale solo perché cresce, vive, muore, ma

perché riempie il fluire del tempo cosmologico, dandogli un significato

qualitativo, costruendo una storia.

L’uomo è un essere mortale ma può trascendere la morte, non per sua volontà

ma perché è destinato da Dio al superamento della morte, in una vita che

comunque non è la stessa del tempo storico. Per l’azione di Dio permane un

elemento esprimente la propria individualità soggettiva, destinata al compimento

della vita, che sulla base dell’esperienza di Gesù si riconosce come vita risorta.

Anche i greci pensavano che l’anima fosse immortale ma per una sua virtù

intrinseca mentre per un cristiano l’anima è immortale in quanto Dio la conserva

67

per la pienezza di vita di ciascuno, altrimenti non avrebbe senso la

predestinazione e si finirebbe in un orizzonte nichilista.

Al riguardo molto importante è il Documento della Congregazione per la

Dottrina della Fede (17 marzo 1979) che tratta importanti escatologiche, secondo

cui il termine “anima” è senz’altro piuttosto ambiguo perché appartiene alla

tradizione ellenistica e viene usato anche in altre religioni e filosofie, però

sostanzialmente significa l’”io” dell’uomo, non un “io” psicologico ma

individuale, il nucleo profondo che distingue un uomo dall’altro, il principio che

per grazia di Dio e non per una qualità immanente permane aldilà di tutto. E’ un

termine che la tradizione ha consacrato valido fin quando si riuscisse a trovarne

uno capace di sostituirlo, la qual cosa finora non è avvenuta. Va sottolineato che

in quel Documento si invitano i vescovi a spiegare questo aspetto alle persone

comuni perché normalmente col termine “anima” si intende qualcosa di contrario

al corpo, col rischio di cadere in un discorso dualistico.

11.2. L’uomo come essere in relazione ed essere personale.

L’uomo non è solo qualcosa, ma qualcuno: non ha solamente una natura, un

corpo biologico, ma è persona, ossia un soggetto che dispone della sua natura, di

sé stesso.

L’idea di persona è contenuta nella descrizione biblica dell’uomo come essere

in relazione con Dio, con il mondo, con un “tu” umano. Secondo il pensiero

biblico fra queste tre relazioni costitutive la prima e la fondante è la relazione a

Dio.

68

Il dialogo con il “tu” divino si realizza necessariamente nel dialogo con il “tu”

umano e nella responsabilità nei confronti dell’intero creato. Dio fa l’uomo

libero e l’uomo deve corrispondere a questa libertà altrimenti cade nel peccato,

nel rifiuto di scegliere il meglio anche per sé stesso.

Se la persona è il soggetto responsabile, datore di risposte, e se la

responsabilità presuppone la libertà, dunque i concetti di persona e di libertà si

implicano a vicenda. Nel momento in cui si definisce l’uomo come un soggetto

capace di relazioni, ossia come persona, allora l’uomo possiede qualcosa che lo

contraddistingue da tutto e che gli permette di istituire il suo essere persona: è la

libertà, per la quale è capace di accogliere e di donare..

Alcuni autori dell’antichità, fra cui Agostino, distinguevano nella dinamica

della libertà una libertas minor da una libertas major, ad evidenziare che il

concetto di libertà è piuttosto complesso.

In prima istanza si potrebbe affermare che la libertà è una facoltà elettiva, per

cui si ha la possibilità di fare ciò che si vuole. In realtà questa è la libertas minor,

chiamata con termine tecnico libero arbitrio, ma la libertà non si può esprimere

solo in questa capacità di scelta. Pur potendo volere o non volere l’uomo può

trovarsi in una condizione per cui non può fare opzioni fondamentali per la sua

vita. Ad esempio in un paese dove vige un regime non religioso un uomo non

può esercitare la sua libertà perché, pur potendo pregare o non pregare, non può

mai fare delle scelte fondamentali per la sua vita, per la sua realizzazione di

persona. In questo caso non si può dire di essere una persona libera, pur avendo

la capacità di volere o di non volere qualcosa.

69

La libertà è un concetto molto più ampio che, pur includendo la possibilità di

scelta, fa scegliere per il meglio, per la propria realizzazione. Si è liberi quando

si possono compiere delle scelte in coerenza con l’opzione fondamentale fatta e

quando questa scelta comporta la realizzazione della propria vita, altrimenti si

resta solo al libero arbitrio.

La libertà umana presenta alcune caratteristiche fondamentali che si possono

ricondurre a quattro aspetti.

Se ogni atto di libertà fosse definitivo, assoluto, l’uomo sarebbe una persona

compiuta, ma questo aspetto è atteso solo per la pienezza dei tempi. Questo

significa che la libertà si estrinseca sempre in un modo relativo, mentre affinché

un atto di libertà sia assoluto dovrà essere scevro da ogni forma di

condizionamento, dato dall’ambiente, dal tempo, dallo spazio, dalle qualità

personali. Per questo motivo la libertà dell’uomo è anzitutto una libertà situata,

ossia sempre espressa nel contesto in cui si vive. E’ una libertà determinata da

comportamenti dipendenti anche dai contesti storici, geografici, culturali. Si può

essere certi che la libertà di un occidentale è diversa da quella di un orientale o di

un africano; anche nell’Europa la libertà di chi vive nella parte occidentale è ben

diversa da chi vive nella parte orientale. Non esiste nella storia una libertà

incondizionata; tra l’altro se non ci fossero questi contesti diversi la libertà non

sarebbe neanche interpellata.

Nel caso dell’antropologia teologica la libertà si istituisce sempre come una

posizione che l’uomo prende di fronte a Dio ed è perciò una realtà teologale. Se

nell’opzione di fondo l’uomo sceglie di essere cristiano e conferma il battesimo

70

decidendo di porsi alla sequela di Cristo ogni atto di libertà sarà tale nella misura

in cui è coerente con la scelta fatta; per tale motivo l’autentica libertà si esprime

quando si continua nella vita a scegliere in ordine all’opzione fondamentale

altrimenti si cade in quell’errore che sostanzialmente si chiama peccato.

Ogni atto libero, proprio perché è una presa di posizione davanti a Dio, tende

sempre ad una definitività. Più si è liberi più si è uomini nel senso di esprimersi,

di determinare le proprie possibilità, di fare un passo in avanti verso la

compiutezza escatologica, mentre l’errore fa regredire.

La libertà è un concetto inglobante, in quanto non esiste una libertà che non

includa le altre libertà. Può capitare di compiere atti liberi nonostante situazioni

che di fatto non sono di libertà (ad esempio chi decide di aprirsi a Dio in un

contesto dove non c’è libertà religiosa) ma in questi casi la libertà non si esprime

totalmente per motivi culturali o sociali. La libertà in questo caso è sofferente e

incompleta ed invoca le libertà minori.

71

12. L’attuarsi della predestinazione in Cristo (la grazia dell’incorporazione).

Predestinato in Cristo, l’uomo, con il suo mondo, è chiamato alla comunione

con Dio. Tale relazione di grazia, che non è dovuta e che si realizza nel processo

di incorporazione, o conformazione, a Cristo, non è altro che l’attuazione della

predestinazione, la quale mette in gioco l’azione assolutamente libera di Dio e la

libertà creata dell’uomo. Il processo dell’incorporazione è realizzato per il dono

increato dello Spirito e la mèta di questo processo è la divinizzazione dell’uomo,

che implica anche la remissione di ogni peccato che l’uomo può compiere.

Nel processo di salvezza non c’è solo la pars costruens ma anche il fatto che

Dio redime l’uomo da ogni forma di libertà istituita male, purché egli decida di

lasciarsi perdonare.

12.1. L’esperienza della grazia nell’Antico Testamento.

L’Antico Testamento non possiede una nozione di grazia come la si può

intendere alla luce di Gesù Cristo, anche se, come afferma Paolo, ogni

avvenimento dell’Antico Testamento in qualche modo richiama Cristo.

Pur non essendoci un discorso compiuto a proposito dell’attuazione

dell’incorporazione, nell’Antico Testamento ci sono delle esperienze che

esprimono esattamente l’elezione da parte di Dio, ossia l’istituzione della

predestinazione e il modo attraverso cui Dio e l’uomo vivono questo rapporto

istituito dall’elezione. Questa attuazione sarà pienamente compiuta e trasparente

72

con Gesù Cristo, che rappresenta il modo concreto con cui si vive il rapporto tra

Dio e l’uomo.

Nell’Antico Testamento, perciò, si ravvisano delle esperienze attraverso cui

comincia a realizzarsi il progetto divino. In particolare alcuni termini, soprattutto

verbi, esprimono delle azioni che hanno come soggetto Dio e l’uomo e che

dicono in che modo Dio agisce nei confronti dell’uomo per attuare il suo

progetto di salvezza. Questi termini di origine ebraica, usati sia in ambito

profano che religioso, sono hānan, hesed, sedek, rahamin, ‘emet.

Il verbo hānan esprime un’azione e il suo sostantivo hēn è il risultato di tale

azione. In ambito profano il verbo è utilizzato per descrivere un rapporto

benevolo nei confronti di un uomo, mentre in ambito religioso, come si coglie

soprattutto nei Salmi, esprime il modo misericordioso di comportarsi di Dio nei

confronti dell’uomo manchevole di qualcosa. Questo modo di rapportarsi non è

dovuto, in quanto la pietà si istituisce spontaneamente in un atto che ha a che fare

con la gratuità e l’uomo non la può pretendere. Il sostantivo esprime lo stesso

concetto ed è traslato nella traduzione dei Settanta con charis (grazia).

Un termine molto frequente nell’Antico Testamento è hesed, tradotto in greco

con eleos. Nell’ambito profano hesed esprime un rapporto esistente tra due

persone che si sono impegnate a vicenda, in una sorta di patto giuridico, mentre

nell’ambito religioso descrive sia il rapporto di alleanza tra Dio e l’uomo che il

modo di vivere questo rapporto, dove Dio è fedele anche quando l’uomo non

agisce adeguatamente. La caratteristica del patto con l’uomo e con la creazione è

l’eternità, in quanto Dio ha da sempre voluto questa alleanza.

73

Un termine affine è sedek, generalmente tradotto con giustizia. Agire secondo

la giustizia di Dio è un concetto salvifico, di benevolenza, anche quando l’uomo

è insensibile al patto.

Il termine rahamin viene tradotto con misericordia. In ambito profano indica il

rapporto affettivo all’interno di un nucleo familiare, mentre sotto l’aspetto

religioso si trova applicato a quelle azioni dove Dio si prende cura delle persone,

anche di quelle indegne. E’ un termine che comporta il coefficiente dell’amore e

della misericordia che perdona, come si vede nella parabola del debitore e del

padre misericordioso.

Il termine ‘emet è tradotto in greco con pistis ed esprime la fedeltà di Dio nei

confronti dell’uomo.

In conclusione, queste espressioni dell’Antico Testamento esprimono che Dio

si comporta coerentemente col suo progetto, facendo in modo che questo si

realizzi.

Un primo aspetto che si nota è che quanto è grazia, che non è dovuto e che è

spontaneo, nell’Antico Testamento è da attribuire esclusivamente a Dio, per cui

la grazia indica sempre un modo di agire di Dio nei confronti del suo

interlocutore privilegiato che è l’uomo e, attraverso di lui, nei confronti

dell’intera creazione.

Una seconda osservazione è che queste azioni di Dio vengono indirizzate

all’uomo che vive nel contesto sociale di Israele. C’è, perciò, una natura

comunitaria dell’agire di Dio e il singolo ne beneficia perché appartiene a questo

popolo.

74

Un terzo aspetto evidenzia che nell’agire di Dio sono coinvolti particolari doni

di grazia che concretizzano questa benevolenza, quali la liberazione della

schiavitù, dai nemici, dalla sofferenza, dalla morte.

Una quarta conclusione è che tutti questi termini esprimono che la grazia

significa ciò che caratterizza il rapporto esistente tra Dio e l’uomo, un rapporto

che all’uomo non è dovuto ma che Dio instaura gratuitamente nei suoi confronti.

Un’ultima osservazione è che questo agire di Dio è sempre usato anche nei

confronti dell’uomo che ha sbagliato, a ribadire un carattere gratuito di grazia.

12.2. L’esperienza della grazia nel Nuovo Testamento.

Il modo di agire di Dio secondo una logica di amore, di perdono, di gratuità, di

fedeltà nei confronti dell’uomo viene realizzato da Dio attraverso Gesù Cristo.

Guardando al modo di comportarsi di Cristo nella sua vita pubblica si trovano

tutte queste caratteristiche. Gesù ha la pretesa di agire al posto di Dio; non solo

porta la Parola ma è la Parola.

Cristo non è venuto per necessità ma per dono; Dio nella sua fedeltà si fa

carne, si fa conoscere, e in tal modo dà all’uomo l’immagine di quello che deve

essere. In Gesù e nel suo modo di agire l’uomo capisce la sua predestinazione,

perché Gesù dice anche come essere pienamente uomini.

Il Nuovo Testamento, perciò, dice che la vita cristiana è una vita di grazia

donata da Dio; l’itinerario di un cristiano è di incorporazione, di assimilazione a

Cristo, di entrare nel suo mistero dove è possibile incontrare Dio e quindi anche

la figura perfetta dell’uomo.

75

Il cristianesimo è anzitutto un’esperienza di vita e poi un’etica. Questo

itinerario conduce alla cosiddetta figliolanza adottiva perché l’uomo non sarà

mai figlio di Dio se non perché il Padre lo riconosce attraverso il Figlio.

Tale aspetto compare in tutto il Nuovo Testamento, seppur in modo diverso tra

i sinottici, Giovanni e Paolo. Particolarmente quest’ultimo definisce l’evento

Cristo con la parola charis, per cui Gesù è la grazia in persona. A volte Paolo,

soprattutto nella Lettera ai Romani, usa il termine giustificazione come sinonimo

di charis, un aspetto che diventerà centrale nella riforma luterana.

Paolo esprime l’evento Cristo anche con altri termini. In Rom 4,4 parla del

“favore di Dio” accordato all’uomo, dove con “favore” intende proprio l’evento

Cristo. In Rom 5 parla della “vita nuova” che Cristo inaugura per l’uomo

battezzato: questa non è altro che la scomposizione dell’evento di grazia che è

Gesù Cristo. In Rom e 1Cor e 2Cor Paolo parla anche della “forza che Dio

accorda all’uomo nella debolezza”, in un’ulteriore scomposizione dell’evento

Cristo, dove in quella forza si manifesta la presenza stessa di Dio.

12.3. Considerazioni conclusive.

Nella Scrittura la grazia comporta la nuova epoca storico-salvifica. In tal senso:

a. essa è legata unicamente alla persona di Gesù Cristo, al punto che ha proprio

il suo nome;

b. possiede una dimensione universale, per cui tutte le scomposizioni di Paolo

non sono riferite solo a un popolo o a una singola persona ma il progetto storico-

salvifico è per tutti gli uomini e per tutta la creazione;

76

c. essa è una realtà riferita unicamente e interamente a Dio, per cui non c’è un

concorso dell’uomo nel senso che l’uomo non la può pretendere;

d. in negativo la grazia salva l’uomo dalla perdizione e in positivo lo conduce

verso la sua pienezza antropologica;

e. essa ha un carattere ecclesiale ed è colta nella fede mediante un atto

individuale.

77

13. Il tema della grazia nel suo sviluppo storico-teologico.

La dottrina biblica della grazia viene interpretata e testimoniata in diversi

contesti teologici e culturali, in quanto col tempo il cristianesimo si diffonde

anche nel mondo extrabiblico. Determinante, almeno per l’Occidente, è la

dottrina di Agostino, non a caso chiamato il doctor gratiae.

13.1. La grazia nella tradizione dei Padri orientali.

I primi Padri greci (Clemente alessandrino, Origene, Ireneo, Atenagora) si

muovono nella prospettiva della Scrittura per cui la loro interpretazione è

fondamentalmente biblica e la grazia è Gesù Cristo, pur se il tema viene

scomposto nella loro cultura e sensibilità pastorale.

I Padri greci tematizzano la grazia sotto l’aspetto etico. Essi mirano a delineare

le caratteristiche proprie del credente che ha ricevuto in dono la vita nuova.

Parlano della grazia quando vogliono esprimere il vissuto che deve caratterizzare

i credenti in Cristo, ossia la vita teologale della sequela.

Un secondo aspetto del loro percorso etico è che l’espressività completa di

anima e corpo è sempre un dono di grazia. Nel trattare il battesimo, la remissione

dei peccati, la vita ecclesiale, il compimento beato della fine dei tempi, i Padri

greci parlavano di grazia, perciò, pur scomponendo il tema, si riferivano sempre

alla globalità dell’evento Cristo. I Padri accentuano questo aspetto soprattutto

contro la gnosi, un movimento dualista secondo cui il cristiano deve vivere

secondo l’anima e non secondo la carne.

78

In questo modo di ragionare ci sono comunque delle semplificazioni. Un

esempio al riguardo si ha in Clemente alessandrino, fondatore con Origene della

scuola di Alessandria. Clemente vuole far comprendere il processo di salvezza

attraverso cui Dio con la sua azione favorevole si fa sempre incontro all’uomo,

dalla creazione fino al compimento della vita beata. Secondo Clemente il primo

momento del processo salvifico che corrisponde al mistero della predestinazione

è proprio la creazione. Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma poi

l’uomo decide di fare da sé mettendosi al posto di Dio, interrompendo la

relazione fondativa. Siccome nel concetto di grazia c’è la fedeltà di Dio

nonostante l’infedeltà dell’uomo, l’intero processo salvifico non è altro che un

far sì che l’uomo recuperi la somiglianza con Dio.

I vari interventi nella storia della salvezza, culminati con l’evento Cristo,

vogliono portare l’uomo al progetto originario divino. Secondo Clemente, con

tali interventi Dio educa l’uomo per portarlo alla somiglianza con lui (theosis) o

per divinizzarlo per partecipazione (metexis). All’uopo Clemente scrisse l’opera

“Il Pedagogo”, riferendosi proprio a Cristo e alla sua opera salvifica.

Per i Padri greci il dinamismo della grazia entra pienamente nella storia della

salvezza; Gesù Cristo è la grazia perché è l’educatore, colui che porta verso la

divinizzazione, che è la pienezza dell’umanità, mentre nei Padri latini ci saranno

i contenuti ma non più il processo dinamico storico-salvifico per spiegare

l’evento della grazia in Cristo.

79

Col passare del tempo mutano i contesti e la dottrina della grazia trova un suo

motivo di sviluppo in relazione alla grande polemica tra Agostino e il

pelagianesimo, da cui prende l’avvio l’intera dottrina della grazia in Occidente.

All’inizio del quinto secolo il monaco di origine britannica Pelagio si fece

promotore a Roma di un movimento ascetico. Nel 410 da Roma passò in Africa

insieme al discepolo Celestio e qui le loro posizioni sulla grazia accesero forti

dispute all’interna della Chiesa africana, che aveva in Agostino il suo

riferimento.

Tali posizioni vennero sostenute e radicalizzate dal vescovo italiano Giuliano

di Eclano, contro cui polemizzò Agostino nel Contra Iulianum. Occorre tener

presente che il pelagianesimo è stato ricostruito solo dai libri di Agostino, mentre

alcuni anni fa vennero scoperti degli scritti di Pelagio che hanno consentito una

parziale rivisitazione del suo pensiero.

Pelagio parte dalla considerazione che l’uomo è investito di una grazia

fondamentale, per cui è creato come immagine e somiglianza di Dio. In un certo

momento storico è avvenuto il cosiddetto peccato di Adamo, che secondo

Pelagio è stato solo un cattivo esempio per il resto dell’umanità, tanto che la

natura umana non ne viene disturbata sul piano ontologico; infatti seguendo il

cattivo esempio si cade nel peccato ma non seguendolo non accade nulla. In virtù

di ciò, facoltà come intelligenza, volontà, libertà non sono corrotte dal peccato,

per cui se l’uomo non segue il peccato di Adamo può compiere il bene perché lo

può conoscere e volere indipendentemente da qualunque aiuto esteriore.

80

Ma se così fosse non avrebbero senso i comandamenti, la legge e in generale

tutti gli aiuti che Dio offre all’uomo per andar incontro alla salvezza. Per

rispondere a questa obiezione Pelagio afferma che come il peccato di Adamo è

esteriore, sono esteriori anche gli aiuti. Al contrario di Adamo, Gesù Cristo è il

buon esempio per cui se l’uomo lo segue è facilitato nel compiere il bene.

Pelagio puntava su una visione antropologica molto ottimista basata sulla

grazia fondamentale della creazione. Secondo Pelagio, Gesù Cristo non è

necessario e se non fosse venuto l’uomo potrebbe comunque fare il bene; Dio ha

dato i suoi aiuti per fornire dei buoni esempi, al fine di aiutare l’uomo a

conservare la relazione con la grazia fondamentale.

In Pelagio la grazia non rimette il peccato ed è solo un esempio positivo. La

grazia per eccellenza donata da Dio all’uomo è la libertà, in forza della quale egli

può fare il bene. Per Pelagio il volere il bene e la sua realizzazione dipendono

dall’uomo senza che nulla possa alterare la libertà ricevuta dal creatore, perciò

neanche il peccato di Adamo ha distrutto questa libertà. La dimostrazione che

l’uomo non è inficiato dal peccato di Adamo è data dal fatto che può anche

osservare i comandamenti di Dio e seguire gli esempi che propone la Scrittura.

In questa polemica rientra anche il battesimo dei bambini che secondo Pelagio

non è necessario, mentre Agostino lo ritiene tale.

Come Pelagio, anche Agostino pensa che l’uomo è stato creato buono, ma il

peccato storico di Adamo, il cosiddetto peccato originale, ha prodotto una

lacerazione radicale della bontà naturale dell’uomo. Nel peccato di Adamo tutti

hanno peccato, come scritto in Rom 5,12: “Quindi come a causa di un solo uomo

81

il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha

raggiunto tutti gli uomini perché tutti hanno peccato”.

Questa è la traduzione greca ma Agostino utilizzava la Vulgata latina, nella

quale anziché “perché” compare “nel quale” (“in quo”), per cui la fine del

versetto andrebbe tradotta in “nel quale tutti abbiamo peccato”. Secondo la

Vulgata, perciò, tutti hanno sbagliato in Adamo e l’uomo eredita una colpa già

commessa indipendentemente dal fatto che è nato, per cui appena viene al

mondo si trova già con un peccato commesso in Adamo.

Sulla scorta di Girolamo, Agostino pensa, anche sulla base della sua precedente

esperienza peccaminosa, che il peccato di Adamo ha prodotto un’irrimediabile

corruzione della natura umana. Dopo questo peccato, perciò, non si potrà mai più

parlare di una bontà creaturale ma di un’umanità intesa come “massa dannata”,

dove non c’è possibilità che l’uomo naturalmente possa compiere il bene. Tra

l’altro il peccato ha prodotto nell’uomo la concupiscenza, che spinge

inevitabilmente al peccato, per cui l’uomo non può in alcun modo cogliere il

bene e non può salvarsi perché il peccato di Adamo lo ha irrimediabilmente

corrotto; di qui la necessità della grazia di Cristo per salvarsi.

La posizione di Agostino è assolutamente contraria a quella di Pelagio, in

quanto Cristo salva necessariamente e irrimediabilmente nel momento in cui gli

si aderisce col battesimo. A tale proposito Agostino sottolinea l’importanza del

battesimo dei bambini proprio perché questi nascono già con l’eredità di Adamo,

per cui essi hanno la necessità di entrare nella grazia di Cristo, che diventa

invincibile nel momento in cui accosta l’uomo.

82

Ma se la grazia è invincibile e i bambini vengono immessi in essa risulta

difficile comprendere perché alcuni si dannano. A tale scopo Agostino introdusse

il concetto della doppia predestinazione, una dottrina rifiutata dal Magistero sin

dai tempi del Sinodo di Cartagine (418), che ebbe un riconoscimento ufficiale

del papa tale da assumere una valenza universale, dogmatica.

All’epoca si sviluppò il semipelagianesimo, un movimento nato sulla scorta del

pensiero di alcuni monaci che risiedevano nella zona di Marsiglia. In tale

dottrina si professava una “certa” necessità della grazia; l’uomo può fare il bene,

come affermava Pelagio, ma occorre comunque seguire necessariamente e non

facoltativamente Gesù. Che i semipelagiani siano realmente esistiti è un aspetto

tuttora dibattuto, ma è comunque certa l’esistenza di questa corrente di pensiero,

condannata dal Sinodo di Orange (529), anche questo promulgato come

provinciale ma divenuto poi universale per il riconoscimento papale.

Al secondo canone del Sinodo di Cartagine i vescovi si pronunciarono in tal

modo: “Chiunque affermi che i bambini appena usciti dal grembo della madre

non debbano essere battezzati [come affermava Pelagio] oppure che sono

battezzati in remissione dei peccati ma non contraggono da Adamo nulla del

peccato originale che debba essere espiato con il lavacro battesimale e quindi di

conseguenza la forma del battesimo in remissione dei peccati per loro è da

ritenere falsa e non vera sia anatema”. E’ un’aperta condanna della dottrina di

Pelagio, secondo cui il peccato originale non ha per nulla scalfito la natura creata

buona per la grazia fondamentale e quindi il peccato di Adamo è considerato

solo un fatto esteriore, un esempio cattivo per l’uomo.

83

Il canone continua: ”Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo

e con il peccato la morte e così è passato in tutti gli uomini; in lui tutti hanno

peccato [e qui si cita la versione latina di Girolamo]. Quanto afferma l’Apostolo

la Chiesa cattolica ovunque diffusa l’ha sempre compreso. E per questa regola

della fede anche i bambini che da sé stessi non hanno potuto commettere nulla

che sia peccato sono battezzati veramente per la remissione dei peccati perché in

essi sia purificato mediante la rigenerazione ciò che hanno contratto mediante la

generazione”. In definitiva, per il solo fatto che si nasce si è coinvolti

personalmente nel peccato di Adamo.

A Cartagine non venne specificata la tipologia del peccato originale, la qual

cosa avvenne nel Sinodo di Orange, pur se già l’Indiculus Coelestini si

pronunciò in tal senso, sebbene con un’autorevolezza inferiore al Sinodo di

Orange che al canone 1 recita: “Se qualcuno dice che il peccato di

prevaricazione di Adamo [dove con “prevaricare” s’intende sostituirsi a un altro,

come fece Adamo che ebbe la pretesa di sostituirsi a Dio decidendo cos’è il bene

e cos’è il male] non l’uomo tutto intero, cioè secondo il corpo e l’anima, è stato

mutato in peggio ma ingannato da Pelagio crede che solo il corpo è divenuto

soggetto alla corruzione mentre rimane intatta la libertà dell’anima questi va

contro la Scrittura”. Si condanna in tal modo l’affermazione di Pelagio, secondo

cui il peccato di Adamo non ha minimamente corrotto l’uomo nella sua umanità.

Al canone 2 si afferma: “Se qualcuno asserisce che la prevaricazione di

Adamo si addebita solo a lui ma non alla sua discendenza [come affermava

Pelagio] oppure dichiara che per mezzo di un solo uomo è stata trasmessa la

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morte del corpo che è la pena del peccato, non invece il peccato il quale è morte

dell’anima, attribuisce un’ingiustizia a Dio e contraddice l’Apostolo che dice

‘per mezzo di un uomo il peccato è entrato nel mondo’”. Qui si condannano i

semipelagiani che distinguevano tra corpo e anima, per cui se il peccato di

Adamo ha toccato solo il corpo e non l’anima allora è necessaria una “certa”

grazia di Cristo, perché in qualche modo il peccato ha disturbato l’uomo, seppur

nella parte meno nobile che è il corpo.

La dottrina della grazia presenta in seguito varie proposte con Bonaventura,

Duns Scoto e particolarmente con Tommaso, il quale, pur ereditando il pensiero

della Tradizione e richiamandosi ad Agostino, ragiona con le categorie

aristoteliche. Secondo l’aquinate nell’incontro tra grazia di Dio e uomo questi

viene rigenerato, perché da questo momento diventa figlio di Dio e nuova

creatura, ponendosi in uno stato di grazia che, nel linguaggio aristotelico,

Tommaso chiama “habitus”, ossia l’istituzione dell’uomo nella vita di Dio.

L’habitus non è qualcosa che l’uomo può avere in suo possesso ma gli è

donato; è la qualità dell’essere nuova creatura grazie a questo dono appartenente

a Dio e partecipato all’uomo. In tal modo la qualità del suo essere non è più

disturbata dal peccato ma è configurata dalla grazia di Gesù Cristo.

L’habitus è una grazia creata, è il risultato dell’azione di Dio che salva l’uomo

e gli dà una qualità ontologica. Purtroppo questo termine nel tempo venne

equivocato (in particolare da Lutero), perché spesso i seguaci di Tommaso non

furono chiari al riguardo, facendo pensare a una sorta di possesso, a un’abitudine

che, come tale, si può manipolare a proprio uso e consumo.

85

14. L’attuazione della predestinazione in Cristo: la riflessione sistematica.

I contenuti racchiusi nel termine grazia esprimono un atteggiamento

fondamentale di Dio: per sua natura il Dio uno e trino è “rivolto verso gli uomini

e tende a legarsi a un popolo di uomini, a estendere su di loro la sua sovranità,

anzi a divenire lui stesso uomo” (A. Ganoczy). Tale relazione di grazia non è

altro che l’attuazione della predestinazione come incorporazione a Cristo.

Il contesto odierno difficilmente recepisce il discorso su una gratuità rivolta

all’uomo; sembra che l’uomo di oggi non abbia bisogno di grazia in quanto

convinto di poter fare a meno dell’ipotesi Dio.

Nonostante ciò si può sperimentare la grazia in quelle situazioni dove l’uomo

non riesce a uscirne da solo e quando comprende che può entrare in nuove

relazioni che permettano di cambiare il cuore.

14.1. La relazione di grazia per cui Dio si rivolge all’uomo.

Raccogliendo i dati fondativi della Scrittura e della Tradizione la grazia di Dio

non è un “qualcosa” ma un modo di agire che Dio manifesta concretamente

all’uomo. I gesti di Dio rivelano un atteggiamento di benevolenza realizzata nei

confronti di tutta la creazione e dell’uomo in particolare, con la volontà di

introdurre la creazione a partecipare alla vita divina con la predestinazione. Il

manifestarsi di Dio è così importante e significativo al punto che entra nella

storia con l’incarnazione di Gesù Cristo che rappresenta il modo di rivolgersi e di

agire di Dio verso gli uomini.

86

La grazia è la storia di Dio in Gesù Cristo. Già la creazione è un primo

momento di grazia, di un agire benevolo di Dio fuori di sé. Dio crea perché ama

e nella Scrittura è detto chiaramente che Dio è amore.

Sulla base di un duplice aspetto si può dire qualcosa sull’amore di Dio, che per

l’uomo è chiaramente incomprensibile. Si può utilizzare un movimento

analogico che va dal basso verso l’alto; ad esempio da come le persone si amano

si può capire come Dio sia amore; ma il Concilio Lateranense IV afferma che

nell’analogia sono più le cose che non si dicono rispetto a quello che si dicono.

Si può utilizzare anche un movimento catalogico per cui dall’alto si va verso il

basso e questo è possibile perché Dio, rivelandosi, ci fa dire alcune cose su di lui.

Per capire che Dio è amore possiamo anzitutto partire da cosa Dio non è. Dio

non è un essere cordiale, bonario, che si innalza su tutti senza esigenze, in una

tolleranza totale; anche l’uomo sa dalla sua esperienza che qualora agisse in tal

modo non sarebbe una persona che ama; basti pensare al genitore che, pur

amando, sa anche castigare.

Dio non è un essere filantropico, ma è un amore forte, esigente, che fa appello

a una responsabilità e che chiede una risposta. L’amore di Dio significa

l’atteggiamento di grazia gratuito, non dovuto, che elegge, sceglie, vuole l’uomo,

che altrimenti non ci sarebbe.

Questo amore è anche comunicativo; Dio nel suo parlare dice sé stesso, la sua

vita, il mistero della sua volontà. In tal senso la grazia può dirsi

l’autocomunicazione del Dio uno e trino.

87

In una sola parola tutto il benevolo atteggiamento di Dio si può chiamare

salvezza; infatti Dio comunica all’uomo dove deve andare, ossia alla pienezza di

vita. Questo modo di agire di Dio è storicamente realizzato in Gesù Cristo che è

la grazia di Dio in persona; tutta l’esperienza storica di Gesù è un’epifania della

gratuita azione divina; basti pensare agli atteggiamenti, ai sentimenti di Gesù,

che piange, si diverte, cena con gli amici, tocca le persone, frequenta uomini e

donne, manifesta sempre benevolenza nella sua storia.

Il modo di agire di Dio trova il suo vertice nella Croce (“Dio ha tanto amato

gli uomini da dare la vita del suo Figlio”), perciò il volgersi di Dio all’uomo ha

sempre i segni di Gesù o, meglio, del Gesù pasquale, del Crocifisso risorto.

L’esistenza storica di Gesù risale a duemila anni fa e l’uomo ne fa esperienza

attraverso lo Spirito Santo che universalizza l’evento Cristo. Tale esperienza si

vive in luoghi concreti, quali la Chiesa, la Parola, i sacramenti, la carità.

14.2. La relazione di grazia per cui l’uomo si rivolge a Dio.

Il volgersi dell’uomo a Dio è da considerarsi anzitutto una relazione di grazia

inscritta nella stessa struttura dell’umano, che è aperto a Dio, agli altri e al

mondo. Tale relazione ha già una sua ragione nell’atto stesso della creazione, che

è il primo momento di grazia, di predestinazione; l’uomo non può darsela da sé

ma per il fatto che Dio l’ha creato capace di volgersi a lui per la sua struttura

interna, che in termine tecnico si chiama il trascendentale.

Questa possibilità strutturale, però, non significa che l’uomo necessariamente

si volge a Dio; se così fosse l’uomo dovrebbe essere sempre aperto al divino,

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mentre, attraverso la libertà, storicamente realizza o rifiuta la possibilità

strutturale di riferirsi a Dio, che con il suo grande dono ci ha creati aperti a lui,

ma liberi di accettarlo o meno. Nel momento in cui l’uomo accoglie liberamente

di camminare nella logica dell’essere immagine e somiglianza di Dio in Gesù

Cristo, allora assume degli atteggiamenti fondamentali, riassumibili in fede,

speranza, carità, le tre virtù teologali che si includono e si richiamano a vicenda.

Questa triade racchiude, in concreto, il modo di volgersi dell’uomo a Dio.

La fede va contemplata nell’elemento soggettivo, il credente, e in quello

oggettivo, le cose da credere, nella classica distinzione tra fides qua e fides quae,

che comunque non si possono separare.

Riguardo l’elemento soggettivo la fede è un atteggiamento di abbandono, di

confidenza, di sostegno, di dipendenza al Dio di Gesù Cristo e in tal modo ha un

potere trasformante che fa cambiare la vita dell’uomo. Ma questo affidarsi a lui

proviene dal suo dono di grazia che rende l’uomo capace di avere fede, di

volgersi a lui nella grazia fondamentale della creazione.

L’essenza della fede non è una credenza o una conoscenza ma un incontro che

porta in sé una situazione relazionale, che porta a vivere sempre con una

presenza che accompagna nell’amore, nella sofferenza, nella vita di ogni

situazione. Essere fedeli a questo modo di vivere non è facile perché l’uomo

tende a prevaricare, a mettersi al posto di Dio ma con la sua fede un cristiano

accoglie la vita così com’è, anche nella sua durezza più radicale, anche nella

morte, verso cui si ha la certezza della vittoria perché c’è chi l’ha superata.

89

Tutti gli uomini della Bibbia (Abramo, Mosè) sono vissuti nella dimensione di

interpretare ogni cosa alla luce di Dio. Nell’affidarsi a Dio si fa posto a lui

uscendo da sé, ma senza perdersi, perché in questa espansione si fa spazio

all’altro. Infatti nella relazione si conquista qualcosa con la comunione, tanto che

la fraternità è proprio il luogo dove si costituisce l’identità.

Proprio per la dimensione di fiducia che la contraddistingue, la fede si

accompagna alla speranza. Dio promette felicità, completezza di vita, e l’uomo

spera in questo. La speranza ritiene che la vita rimandi sempre oltre, verso

l’assoluto, il definitivo, il compimento. La speranza fa andare avanti perché in tal

modo l’uomo sa di trovare ciò che lo può compiere, che lo fa essere pienamente

uomo. Inoltre fa confidare in un aldilà che è oltre le possibilità umane; infatti

quanto si fa da sé non sarà mai l’ultima parola, perché c’è sempre una riserva

escatologica a dare compiutezza al tutto. Questo, però, è oltre le possibilità

dell’uomo che spera che ciò avvenga quando Dio in Cristo ricapitolerà tutte le

cose, quelle del cielo e quelle della terra.

La fede si aggancia alla speranza ed entrambe alla carità, perché si fondano

proprio sull’atto di amore di Dio che realizza la comunione e le promesse fatte da

sempre. La carità non è solo comunione con Dio ma si sacramentalizza nella

comunione con gli altri (Mt 25: “avevo fame e mi avete dato da mangiare…”).

Non esiste un amore per Dio se non passa attraverso l’amore per il fratello, in cui

non solo si dà la propria vita per l’altro, ma si perdona di continuo.

90

Il globale volgersi dell’uomo a Dio individuato come vita teologale è la

sequela, ossia la vita in Cristo, una vita di grazia che comincia col battesimo,

attraverso cui l’uomo si incorpora a Cristo.

14.3. Considerazioni conclusive.

“Il ‘divenire sé stessi’ per grazia non può essere identificato con

l’’autorealizzazione’. Nel primo caso si tratta dell’opera del Creatore redentore,

nel secondo l’io è l’unico soggetto del processo. Pur con tutto il rispetto per

l’umanesimo completamente secolarizzato e per quello ateo, che affidano senza

riserve il destino della natura, della persona, della società e della cultura alle

mani dell’uomo e si attendono la salvezza da ogni male solo attraverso

l’autoliberazione, l’idea cristiana della grazia di Dio insiste sulla assoluta

necessità di questa per l’autentico divenire sé stesso dell’uomo come persona e

come essere sociale” (A. Ganoczy).

91

15. La dottrina del peccato originale.

La dottrina del peccato originale va interpretata unicamente in riferimento a

Cristo. Essa non serve a spiegare l’incarnazione di Gesù Cristo ma ad illustrare il

significato della situazione dell’uomo che ha liberamente rifiutato Gesù Cristo.

Probabilmente Dio si sarebbe incarnato anche se l’uomo non avesse peccato ma

questo non si può dire con certezza. L’uomo può solo prendere atto che Dio ha

deciso di incarnarsi e che la storia del peccato è un rifiuto a Cristo.

Come la grazia è il modo positivo dell’uomo di relazionarsi a Dio, così il

peccato indica una relazione negativa dell’uomo verso Dio. Coloro che vivono in

Cristo rispondono favorevolmente al dono istituito con la creazione, ma alcuni

non si volgono a Dio, perché con la loro libertà decidono diversamente

dall’orientamento che l’uomo ha avuto dall’inizio della sua storia e tale rifiuto

ricade su tutta l’umanità.

Gli interrogativi posti trovano risposta nella dottrina del peccato di origine, pur

se occorre osservare che anche questa storia di perdizione va letta in riferimento

a Cristo, nel senso che si può prendere coscienza di un peccato solo in un’ottica

di fede, altrimenti non ha senso parlare di una libertà che non ha risposto al dono

originario di Dio, in quanto è la fede a dire che l’uomo ha peccato.

15.1. La rivelazione del peccato nell’Antico Testamento.

Nella Scrittura non è trattata la dottrina del peccato ma ci sono comunque

elementi che in base al metodo genetico servono per formalizzare tale dottrina.

92

A tale proposito viene spesso citato il racconto di Genesi (cap. 2 e 3), la

cosiddetta “caduta”, come il fondamento biblico del peccato originale, perché si

pensa a questo come a un peccato storico, collocato nel tempo, individuale.

In realtà i primi undici capitoli della Genesi, peraltro tra gli ultimi della Bibbia

ad essere scritti, non raccontano gli inizi ma sono un’eziologia storica; non

vogliono dire cos’è successo all’inizio della storia ma intendono capire la

situazione storica presente rimandandola alle origini, per cui non possono essere

il fondamento biblico di un peccato storicamente commesso. Da questi scritti si

capisce che certamente non è Dio a provocare il male ma sono stati gli uomini,

che nella Bibbia sono diventati Adamo ed Eva ma che in realtà non sono due

persone singole. E’ l’umanità che sbaglia, che ha dato origine al male, in una

caduta che fa perdere la relazione originaria con Dio; in tal modo l’uomo si

costruisce una storia senza Dio, dove entrano il lavoro, il parto, la morte, perché

si è fuori di Dio.

Oltre al testo della Genesi, nell’Antico Testamento due brani sembrano

suggerire il peccato di origine come un peccato storico, pur se anche questi non

vanno intesi come fondamenti biblici: sono Sir 25,24 e Sap 2,23-24, due testi

tardivi che contengono allusioni a un peccato storico di origine.

Nell’Antico Testamento esistono termini che esprimono azioni concrete

dell’uomo e che contengono elementi che la dottrina futura utilizzerà per

formalizzare l’idea di peccato. Questi termini, come spesso avviene nei testi

veterotestamentari, vengono usati con un doppio senso, profano e religioso: sono

hata’ (pr. atà), paśa’ (pr. pascià) e ‘awah (pr. avà).

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Il termine hata’ è un verbo che in un contesto giuridico-sociale, quindi

profano, significa trasgredire un obbligo che deriva da un legame comunitario,

mentre nel contesto religioso ebraico vuole intendere la trasgressione di una

norma in vigore nella comunità religiosa, come, ad esempio, la serie di norme

che si era dato il popolo nel deserto. Chi manca nei confronti della comunità lo fa

anche nei confronti di Jahwè, perché quello è il suo popolo e, viceversa, se si

istituisce male il rapporto con Jahwè diventa sbagliato anche il rapporto con la

comunità.

Il termine pasa’ indica l’azione di un uomo che rompe un rapporto con la

collettività o con un altro uomo. Nel contesto religioso indica l’azione di colui

che non vuole più avere niente a che fare con Jahwé e quindi, automaticamente,

con la comunità.

Con il termine ‘awah si intende qualcosa che non è dritto, un comportamento

deviato, il senso del piegarsi. Nel significato religioso vuol dire un atteggiamento

diverso da quello che desidera Jahwè.

Quando si utilizzano questi tre termini non viene sottolineata la responsabilità

del soggetto che compie l’azione, ritenuto in buona fede, ma l’azione in sé. La

valutazione ricade sul male oggettivo e non sul soggetto che lo compie.

Contrariamente a questo aspetto, quando in seguito sarà elaborata la dottrina

teologica sul peccato si porrà maggiormente l’accento sul soggetto.

Dall’analisi di questi tre termini ci si rende conto che l’azione sbagliata, il

peccato, presenta sempre un rapporto con la comunità. Inoltre non è possibile

94

dissociare la comunione tra gli uomini e Dio, perché sbagliare nei confronti della

comunità è sbagliare nei confronti di Dio e viceversa.

La conoscenza del male oggettivo si attua solo in quella della Parola di Dio, nei

comandamenti di Jahwè, in quanto il peccato è comprensibile solo nell’ottica di

una rivelazione, di una fede.

15.2. La rivelazione del peccato nel Nuovo Testamento.

Un fondamento esplicito del peccato nel Nuovo Testamento è presente in Rom

5,12: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e

con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché

tutti hanno peccato. Fino alla legge, infatti, c’era il peccato nel mondo e, anche

se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da

Adamo fino a Mosè anche su chi non aveva peccato con una trasgressione simile

quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo

morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un

solo uomo, Gesù Cristo, si sono riservati in abbondanza su tutti gli uomini. E

non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio

partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute

per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a

causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della

grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù

Cristo”.

95

In questo brano, Paolo, più che sul peccato, insiste sulla salvezza con lo scopo

di far capire l’abbondanza della grazia che in Gesù Cristo instaura la vita nuova.

Per spiegare Gesù Cristo, che come uomo-Dio è la salvezza per tutti, Paolo lo

pone in rapporto con Adamo, in un parallelismo antitetico dove c’è grande

sproporzione tra l’uno e l’altro, tra la grazia della salvezza e il peccato

dell’uomo. Da giudeo, Paolo sa bene che Adamo è un nome collettivo e non una

persona singola ma in tale contesto lo utilizza abilmente come tipo singolo per

istituire il parallelismo.

Paolo afferma che la situazione di peccato nel mondo si è determinata a causa

dell’uomo e la conseguenza del peccato è la morte, che qui viene intesa non in

senso fisico ma spirituale, perché anche se non avesse peccato l’uomo sarebbe

comunque morto.

Il peccato separa l’uomo da Dio; tale separazione è la morte spirituale ed

eterna, il cui segno è la morte fisica. Tutti muoiono perché tutti hanno peccato,

non in riferimento al peccato di Adamo ma ai peccati che si fanno normalmente,

perché nel mondo esiste una situazione di peccato causata dall’uomo. In

definitiva, per Paolo i peccati commessi sono la ratifica di qualcosa che già esiste

e che è attribuibile all’origine di tutto.

In seguito Paolo afferma che Gesù Cristo ha vinto il peccato e in tal modo dà

all’uomo la possibilità di entrare nella condizione di giustificato per la grazia

sovrabbondante. Alla luce di questa interpretazione rientra il battesimo dei

bambini che incorpora la nuova vita a Cristo, ratificando l’accoglienza della

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predestinazione, mentre la scelta personale può avvenire in seguito. L’ingresso in

Cristo significa anche togliere il nato dalla situazione nefasta che lo può

coinvolgere.

Nonostante si entri nella sfera di Cristo, purtroppo si continua a peccare perché

l’uomo è sempre coinvolto in una situazione negativa a causa della

concupiscenza, che non è un peccato ma è ciò che spinge al peccato. Di per sé la

concupiscenza non è totalmente negativa perché tiene desti e vigili; infatti il

cristiano fortificato ha tutta la possibilità di vincerla ma qualora la accolga ricade

nel peccato.

15.3. Considerazioni conclusive.

a. L’idea di universalità del peccato, già presente nell’Antico Testamento,

diventa assolutamente esplicita nel Nuovo Testamento.

b. Il rimando alle origini per spiegare tale situazione non è fine a sé stesso, ma

serve a comprendere meglio il presente e a progettare costruttivamente il futuro.

c. Il peccato di origine, quindi, va considerato soprattutto in quanto rivissuto

nei peccati personali e mediante essi. In origine c’è stato sicuramente qualcuno

che in un determinato, ma sconosciuto, momento storico ha pervertito tutti,

originando il male che, perciò, non è partito da Dio. Il segno del coinvolgimento

è che l’uomo pecca più o meno spesso, spinto dalla concupiscenza nata dalla

creazione di questa zona negativa. La concupiscenza si può vincere mettendosi

nella sequela di Cristo, conformandosi a lui; ma anche se l’uomo sbaglia Dio dà

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la possibilità di rientrare con la riconciliazione, che può essere considerata un

secondo battesimo.

d. La grazia di Cristo supera di gran lunga il peccato. Gesù Cristo ha vinto il

peccato e in lui l’uomo ha la possibilità di liberarsi e di compiersi nel suo essere.

Il male e il peccato, perciò, non hanno futuro, pur se c’è la possibilità che

qualcuno nella sua libertà si danni.

98

16. Sviluppo storico-teologico della dottrina del peccato originale.

Sino all’epoca moderna la dottrina del peccato originale non ha prodotto

particolari reazioni, a parte le contestazioni derivanti dalla cultura laica.

Nell’epoca contemporanea, invece, la dottrina è stata significativamente dibattuta

in ambito teologico e non mancano interpretazioni plurali, che meritano adeguata

attenzione.

Dal punto di vista dell’elaborazione storico-teologica della dottrina del peccato

originale il riferimento più importante e qualificato è dato dal pensiero di

Agostino, pur se nell’epoca precedente il vescovo di Ippona esistono dei

contributi in merito, che sono da inquadrare, in particolare, nella riflessione circa

il problema dell’origine del male e la prassi del battesimo dei bambini. Tuttavia

il pensiero di Agostino determina una svolta decisiva quanto allo sviluppo del

dogma del peccato originale, tanto che alcune vennero recepite dal Magistero

(Cartagine nel 419; Efeso nel 431; De gratia Dei Indiculus tra il 435 e il 442;

Orange II nel 529).

Per interpretare correttamente il pensiero agostiniano al riguardo occorre

ricordare che, mentre le lettere di Paolo vennero scritte in greco, Girolamo nella

sua Vulgata le tradusse in latino. Di conseguenza il famoso versetto della lettera

ai Romani in cui è scritto “perché tutti hanno peccato” venne tradotto da

Girolamo con “in quo omnes peccaverunt”, ossia “nel quale tutti hanno

peccato”. Questo “nel quale” va riferito ad Adamo, per cui se lui ha sbagliato

allora tutti hanno sbagliato con lui.

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Tale versione venne utilizzata e diffusa da Agostino, che per giustificare la

salvezza in Cristo enfatizza la situazione peccaminosa, per cui noi abbiamo

necessità di Gesù Cristo per poterci salvare. Per Agostino, perciò, il peccato

originale ha coinvolto l’uomo ontologicamente.

Un riferimento significativo per la dottrina del peccato originale è

rintracciabile nel Concilio di Trento (Quinta Sessione, 24 maggio-17 giugno

1546), quale risposta cattolica alla dottrina protestante.

Nell’epoca contemporanea si impongono le diverse interpretazioni della

dottrina cha danno vita ad un significativo dibattito teologico. Pur se si conserva

il nucleo fondamentale del dogma, questo dibattito suggerisce alcune lezioni che

non vanno disattese:

a. l’esigenza di comprendere criticamente il mistero del peccato originale nel

suo complesso, tanto che gli studiosi cercano di capire cosa significa quando la

fede cattolica si è pronunciata sul peccato originale;

b . l’inculturazione del dogma del peccato originale nel linguaggio odierno è un

compito necessario;

c. l’antropologia teologica è il contesto più opportuno per decifrare il mistero

del peccato originale, in quanto se ne può parlare solo all’interno dell’uomo alla

luce di Cristo.

100

17. Riflessione sistematica sulla dottrina del peccato originale.

Il peccato originale è la contrapposizione alla chiamata a diventare figli di Dio

in Gesù Cristo; esso non è altro che la storia della libertà umana che rifiuta di

conformarsi a Cristo, in una pretesa di autosalvezza.

Se nel mistero della predestinazione tutti sono stati chiamati ad essere conformi

al Figlio, nella libertà l’uomo può ribellarsi, originando il peccato di

prevaricazione, la pretesa di mettersi al posto di Dio.

17.1. Il peccato originale come situazione al di fuori di Dio.

Fin qui abbiamo più volte ribadito che al centro dell’antropologia cristiana c’è

il mistero della predestinazione in Cristo, ossia la chiamata verso tutti gli uomini

a conformarsi e salvarsi in Cristo.

Se tutti sono chiamati in Cristo, allora tra gli uomini esiste una solidarietà,

perché non sono creati indipendentemente gli uni dagli altri, ma in un mistero di

unità di creazione, al punto che nessuno può comprendere sé stesso senza l’altro.

Esiste, perciò, una solidarietà naturale nel mistero della creazione in Adamo, in

una dipendenza storica tra le generazioni degli uomini, manifestata peraltro in

tutti i tipi di antropologia.

Questa solidarietà non è solo orizzontale tra gli uomini, ma è anche verticale

perché creati in Cristo. Pertanto non può esistere un compimento antropologico,

una salvezza al di fuori di Cristo, di una solidarietà verticale che dia senso a

quella orizzontale.

101

Nella sua libertà l’uomo può decidere di rifiutare la chiamata in Cristo tentando

la via dell’autosalvezza, in un personale tentativo di colmare la mancanza che

avverte. Questo progetto è una tentazione ricorrente nella storia; basti pensare al

mito greco al punto di Prometeo, che ruba il fuoco degli déi per essere salvatore

di sé stesso e degli altri.

Il tentativo di autosalvezza ha delle conseguenze sul piano orizzontale. Infatti

se un uomo fa qualcosa di negativo in un contesto di relazioni, quell’errore non

va solo a svantaggio suo ma di tutti, creando una sorta di alone negativo, proprio

perché gli uomini non sono indipendenti tra loro.

Questa realtà è sicuramente dovuta all’uomo, ma dipende anche da altri fattori

di carattere sociale e culturale. Infatti chi nasce in una situazione degradata ne

viene inevitabilmente coinvolto, ma in’ultima analisi l’ambiente negativo è

sempre provocato dall’uomo.

La solidarietà in Adamo, perciò, non va intesa solo nella globale appartenenza

al genere umano, ma comprende anche la complicità nel peccato, realizzata nella

storia e di cui l’uomo si accorge perché compie continuamente peccati personali

che non sono altro che il riflesso del peccato di origine.

Se la solidarietà in Adamo non è redenta conduce alla perdizione e non certo

alla salvezza, uscendo dalla predestinazione in Gesù Cristo, realizzando una

divisione totale, un isolamento, una distanza dagli altri, tutti fattori che si creano

nella situazione di peccato. A causa del peccato originale, perciò, l’uomo nasce

coinvolto in una solidarietà negativa per il solo fatto di appartenere al genere

umano.

102

Dalla Scrittura si potrebbe pensare che ci siano due storie parallele, una di

solidarietà in Adamo ed una di solidarietà in Cristo. In realtà non è così: infatti

Paolo nella lettera ai Romani imposta questo parallelismo per evidenziare la

disparità esistente tra Adamo e Cristo, tra la storia di perdizione e la storia di

salvezza; ma non si può pensare a due storie simmetriche, di pari valore, perché

Dio e la sua grazia sono molto più sovrabbondanti (“dove ha regnato il peccato

ha sovrabbondato la grazia”).

L’economia è unica, positiva, e la sola storia che esiste è quella di salvezza,

che emerge proprio sulla base della perdizione. La storia di Gesù Cristo rivela la

possibilità del superamento della storia di perdizione quando l’uomo nella

conversione si affida a lui e non a sé stesso, a colui che rifà sempre l’alleanza

con l’uomo, a colui che nella conversione lo giustifica.

17.2. La storia della libertà che rifiuta Cristo.

L’atto di auto salvezza, ossia il peccato, deve essere compreso come un

atteggiamento della libertà che si chiude al disegno salvifico in Cristo. Tale

chiusura non si presenta come un atto puntuale ma come una vicenda complessa,

in cui entrano in gioco diversi elementi che influiscono sull’evento peccaminoso.

Si comprende in tal modo l’affermazione del Magistero che rifiuta di vedere il

peccato originale come un atto di peccato puntuale (peccato personale), ma lo

intende come ciò che instaura le condizioni di ogni peccato, determinando tutta

la logica di peccato che si sussegue. In quanto originaria, questa condizione di

103

peccato non si può imitare, ma diventa la radice di tutti gli atti di peccato che

seguiranno nella storia.

Tale aspetto è ben evidenziato nella Scrittura che riconduce la colpa non a delle

persone ma a un atto puntuale, rimandando sempre a una situazione originaria, a

quella zona nefasta che ha provocato il peccato. Infatti nella Scrittura

l’attenzione non cade sul soggetto ma piuttosto sugli effetti della colpa,

affermando che l’uomo sbaglia perché all’origine c’è qualcosa che lo coinvolge

negativamente e condannando soprattutto il male che è dentro le singole azioni.

Lo sbaglio di Adamo, che va inteso come l’uomo in generale e non come un

uomo specifico, non si riferisce all’atto puntuale di una persona ma alla

situazione originaria che gli uomini hanno creato volendo mettersi al posto di

Dio. In tal modo l’ontologia dell’uomo risulta inficiata dal peccato di origine e se

si vuole ritornare nella predestinazione occorre rientrare nell’esperienza di Gesù.

Nel vedere i suoi sbagli l’uomo si chiede il perché dei suoi errori, rimandando

indietro a qualcosa che lo coinvolge da sempre. Infatti, pur se l’uomo oggi è

nella salvezza di Gesù Cristo, è rimasta in lui la spinta al peccato, ossia la

concupiscenza, che lo fa spesso tornare nella condizione originaria. Tale malizia

non va addebitata a Dio ma ai progenitori, che hanno creato questa condizione in

virtù della solidarietà tra gli uomini.

In ogni caso, il danno commesso rimane e si storicizza nell’ambito relazionale

degli uomini e quindi ognuno soffre per questo sbaglio che rende tutti complici.

Per tale motivo l’uomo si accosta ai sacramenti, dove chiede a Dio di farlo

rimanere in una situazione di libertà istituita sempre per la predestinazione in

104

Cristo e di non lasciarsi coinvolgere dal danno provocato dalla condizione

originale che si autoalimenta per il continuo peccato degli uomini.

In base a quanto detto si capisce come sia sbagliato quando nella

riconciliazione si confessano gli atti commessi, perché il vero errore è

nell’adesione libera a quanto esiste di negativo. Per tale motivo nella confessione

l’uomo deve chiedere a Dio di farlo ricominciare daccapo, sanandolo alla radice,

portando la riconciliazione ad essere un secondo battesimo.

In definitiva, la dottrina del peccato originale serve a comprendere l’agire

proprio della libertà e il suo effetto negativo; essa parla di una libertà incrinata,

centrata su sé stessa, impossibilitata a compiersi, perché rifiuta radicalmente

Cristo, che è l’unica via di salvezza.

17.3. La funzione della dottrina del peccato originale.

Il peccato originale non ha la funzione di giustificare la necessità e

l’universalità della redenzione, in una prospettiva amartiocentrica, in quanto

Gesù non è venuto solo per questo. La teologia del peccato originale è, invece,

un atto ermeneutico, un’interpretazione del significato della libera vicenda

umana quando si esclude dalla chiamata in Cristo. Essa ci dice cosa accade

all’uomo e nell’uomo, quando egli pretende di realizzare sé stesso

indipendentemente da Gesù Cristo.

La dottrina del peccato originale ha un carattere secondo, perché in primo

piano non si annuncia il peccato ma la salvezza, la buona notizia della creazione

in Cristo, e solo dopo viene annunciato il peccato che in tal modo ha sempre un

105

carattere penultimo e mai ultimo, tanto tutto il vangelo esprime la chiamata in

Cristo, la riconciliazione, per cui l’uomo, pur facendo esperienza del peccato,

deve sempre sperare nella salvezza offertagli da Cristo.

106

18. La giustificazione dell’uomo secondo la Scrittura.

Le testimonianze bibliche, in particolare quelle paoline, riportano il tema della

giustificazione nel contesto dell’agire salvifico di Dio nei confronti dell’uomo.

Per Paolo la giustificazione è l’evento salvifico di Dio compiuto nella Pasqua di

Gesù Cristo e che, per mezzo dello Spirito, si realizza nella persona che accoglie

nella fede la giustizia di Dio.

18.1. L’Antico Testamento.

Il verbo “giustificare” si può trovare anzitutto in un contesto relazionale,

amicale, coniugale, dove gli uomini possono giustificarsi tra loro (Gen 28,26),

ma nella Scrittura, ossia in un contesto teologico, il termine esprime soprattutto

le relazioni tra Dio e l’uomo, dove ovviamente non è l’uomo a giustificare Dio

ma viceversa, come risulta in diversi passi dove Dio giustifica continuamente il

suo popolo, nel rapporto di alleanza che esprime la relazione tra Dio e l’uomo.

Poiché giustificazione è l’atto della giustizia e Dio la esercita nel contesto

dell’alleanza, perché così si è impegnato nei confronti del suo popolo, è in

relazione a tale rapporto che salva e punisce, perché la giustizia non è altro che

un atto che esprime un’assoluzione o una punizione.

La giustizia esiste per regolare i rapporti, perciò qualora si sbagli nei confronti

della collettività commettendo un reato, occorre pagare per ristabilire il rapporto

con la comunità. La pena scontata, perciò, diviene l’itinerario che fa ristabilire la

giustizia violata dal reato.

107

In via analogica si può dire che l’azione giustificante da parte di Dio è volta al

ristabilimento del patto di alleanza esistente tra lui e il popolo. In virtù di questo

discorso di giustizia, Dio a volte punisce, ma mai in maniera esagerata. L’aspetto

punitivo non è tanto un’azione di Dio che manda l’uomo alla sciagura, ma fa

capire che se accade qualcosa certamente non dipende da lui, bensì dal fatto che

l’uomo non è stato fedele. Dio dà all’uomo la possibilità di seguirlo ma se questi

contravviene rischia di finire nella sciagura. Da ciò si evince che non è tanto Dio

a punire, quanto l’uomo ad autopunirsi, per cui il rapporto con Dio non deve

essere mai fonte di timore, perché se accade qualcosa di negativo è per lo sbaglio

dell’uomo che si è estromesso da solo dal piano di Dio.

L’atteggiamento di Dio si esprime sempre attraverso una giustizia di perdono,

di accoglienza, di misericordia, in quanto Dio tende sempre a capire, a ritenere la

buona fede. Anche quando nella Scrittura si parla dell’ira di Dio, questa non è

rivolta tanto nei confronti di chi ha commesso l’azione sbagliata ma verso il

peccato, la cosa in sé. Un esempio emblematico si ha quando Gesù incontra il

lebbroso; Marco scrive che Gesù si impietosì, ma la versione corretta è che Gesù

si innervosì molto, non nei confronti del lebbroso, ma della situazione di

emarginazione in cui viveva.

In definitiva, nell’Antico Testamento la giustizia divina va interpretata nel

senso che Dio è colui che giustifica, che riacquista gli uomini e che li reintegra

nella relazione gratuita ed eccedente di alleanza con lui.

108

18.2. Il Nuovo Testamento (Paolo).

Il tema della giustificazione compare trentanove volte nel Nuovo Testamento,

ventisette delle quali nelle lettere paoline, particolarmente in quelle ai Galati e ai

Romani. Nell’impostare il suo discorso sulla giustificazione, Paolo segue molto

l’Antico Testamento, pur rileggendo tutto in chiave cristologica

Già in Rom 1,16 Paolo scrive che la giustificazione in Dio è il culmine di tutto

il processo elettivo verso gli uomini (“io non mi vergogno del vangelo poiché è

potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del

greco”, dove per “salvezza” qui si intende giustificazione); è il dono gratuito

della salvezza nel ristabilimento dell’alleanza realizzata da Cristo per mezzo

dello Spirito, come ben risulta in Rm 8.

Secondo Paolo, Dio esercita in modo estremo la sua giustizia quando perdona

il peccatore, ponendolo in una nuova relazione con lui; la riconciliazione, infatti,

è l’effetto dell’azione giustificante di Dio, secondo l’applicazione di una

giustizia salvatrice e non di tipo forense.

Paolo afferma che questa azione è fatta da Dio sempre attraverso Gesù Cristo

nello Spirito, in un’azione trinitaria. Per tale evento di salvezza Dio ha

predisposto Gesù come colui che espia i peccati al posto dei peccatori (Rm 3), al

fine di riacquistare gli uomini. Nella lettera ai Galati, Paolo scrive addirittura che

“Cristo è reso peccato per tutti noi”, ossia ha pagato tutte le conseguenze del

peccato.

109

Questo pensiero può essere interpretato in termini punitivi, ma in realtà

l’espiazione di Gesù va vista sotto l’aspetto di una mediazione offerente, che

vuole salvare gli uomini fino a dare la sua vita per loro. Infatti Gesù muore non

perché deve essere punito al posto degli uomini, ma perché li ama e li vuole

riacquistare al Padre nello Spirito, attraverso l’offerta totale della sua vita.

Ragionando secondo termini forensi prevarrebbe l’aspetto punitivo, come se

Gesù dovesse morire per scontare quel che deve pagare l’uomo, in un processo

chiamato sostituzione di cavia; questa visione è tipica di alcune teologie

medievali e sarà centrale anche in Lutero, il cui pensiero, infatti, è molto

influenzato dal diritto germanico.

Affinché l’uomo possa essere riconciliato è fondamentale la sua fede, come

atteggiamento che lo fa riconoscere peccatore e lo affida a Dio. La fede, perciò, è

decisiva per la giustificazione, e quando l’uomo accoglie nella fede l’azione

giustificante di Dio, Paolo definisce il credente come “giustizia di Dio per mezzo

di Cristo”.

110

19. Sviluppo storico-teologico della giustificazione dell’uomo.

Lo sviluppo storico-teologico del tema della giustificazione è concentrato

intorno alla dottrina luterana, alla risposta cattolica data nel Concilio di Trento,

alla sua ripresa nella teologia contemporanea e alla sua centralità nel dibattito

ecumenico.

19.1. La dottrina di Lutero.

Per comprendere il pensiero di Lutero è fondamentale capire la sua

formazione, la sua personalità, quel che pensa, vive, scrive.

Lutero era una figura complessa, che secondo la tradizione si fece monaco non

tanto perché voleva abbracciare la vita religiosa quanto per un voto fatto durante

un forte temporale. Essendo monaco agostiniano la sua formazione seguiva il

pensiero del grande vescovo, per cui la sua concezione dell’uomo era

decisamente pessimista e con una forte ossessione per il peccato.

Va comunque ricordato che Lutero era una persona di grande cultura, un

eccellente biblista, tanto che sono famosi alcuni suoi commenti, specialmente ai

Salmi e alla lettera ai Romani; non amava la filosofia, soprattutto la Scolastica,

perché gli sembrava uno strumento per manipolare Dio. Lutero era anche un

mistico, che viveva un intenso e personale rapporto con Dio, molto influenzato

dalla devotio moderna in voga all’epoca.

111

Nei confronti della situazione del suo tempo, Lutero ebbe veramente a cuore il

messaggio cristiano, tanto da non condividere molte situazioni negative della

Chiesa di allora (nepotismo, simonia, vendita delle indulgenze), che gli

sembravano tradire il vangelo.

Il punto di partenza del pensiero luterano è il tema del peccato originale, che

ha irrimediabilmente corrotto la natura umana, tanto che gli uomini sono definiti

“massa dannata”. Il pensiero è simile ad Agostino, ma Lutero radicalizza questa

dottrina, tanto che la concupiscenza, che in Agostino era solo ciò che spinge al

peccato, in Lutero viene vista essa stessa come peccato.

Inoltre, se Agostino affermava che il peccato originale pur corrompendo la

natura umana gli ha comunque lasciato il libero arbitrio, Lutero asseriva che

l’uomo è talmente corrotto da non avere neanche più il libero arbitrio; non a caso

scrive il libretto “De servo arbitrio”, in cui afferma che l’arbitrio dell’uomo è

totalmente asservito al peccato.

In conclusione, per Lutero l’uomo non ha alcuna possibilità di salvarsi. Anche

per un cattolico l’uomo non può salvarsi da solo, ma almeno ha una minima

parte nell’accondiscendere al piano di Dio. Questo barlume di libertà non è

presente in Lutero, secondo cui “l’uomo in quanto peccatore è un incurvato in

sé”, ossia l’uomo è talmente ripiegato su di sé da non vedere altro che sé stesso,

per cui è incapace di rialzarsi e di accettare una proposta.

Se l’uomo è incapace di partecipare al processo salvifico, allora la salvezza gli

può giungere esclusivamente in un modo indipendente dai suoi meriti. Ecco,

allora, che Lutero da una parte esalta il pessimismo antropologico ma dall’altra

112

evidenzia l’azione di Dio che solo con la sua grazia può salvare l’uomo. Per un

cattolico l’uomo può in qualche modo partecipare con la sua libertà, ma per

Lutero l’uomo non ha alcun merito per la sua incapacità, conseguenza del suo

essere peccatore. La salvezza, perciò, giunge all’uomo indipendentemente dai

suoi meriti e l’uomo non può fare nulla al riguardo.

Per capire come Lutero pensa la giustificazione conviene immaginare di essere

in un tribunale dove Dio è il giudice e il peccatore è l’imputato. Il peccatore ha

disturbato la giustizia di Dio, che perciò lo riconosce colpevole di una punizione

incalcolabile, perché non esiste una pena tale da placare la giustizia di Dio. Il

peccatore non può far nulla; al limite può solo pagare con la morte.

Ma Dio oltre ad essere giusto è anche misericordioso e il suo progetto consiste

nel salvare l’uomo, per cui, pur riconoscendo l’uomo come peccatore, non gli

imputa la pena corrispondente. Ma la giustizia va in qualche modo placata ed

allora la pena viene fatta pagare a un altro, ossia Gesù Cristo; in tal modo il

Figlio espierà la pena dovuta al peccato dell’uomo, il quale rimane sempre

peccatore perché Dio gli ha riconosciuto la colpa ma diviene anche giusto perché

Dio lo ha dichiarato tale facendo pagare un altro per lui. Di qui un primo

caposaldo della dottrina luterana esprimibile nella frase “simul iustus et

peccator”, per cui l’uomo è “nello stesso tempo giusto e peccatore”.

La giustificazione non va a toccare l’ontologia dell’uomo, non è una

dichiarazione di assoluzione che lo sana totalmente perché in realtà egli rimane

peccatore. In tal modo l’azione salvifica è una giustizia aliena, estranea, al di

fuori dell’uomo, che non viene toccato al di dentro. Secondo Lutero, l’azione di

113

Dio in Gesù Cristo non rigenera l’uomo ma va solo a compensare una giustizia

disturbata.

In realtà, in una reinterpretazione alla luce dell’odierno dialogo ecumenico, con

la frase “simul iustus et peccator”, Lutero, più che indicare la coesistenza

nell’uomo delle due realtà del peccato e della giustizia, voleva intendere che

l’uomo sarà sempre peccatore fin quando Dio non lo salverà compiutamente,

ossia fino a quando l’uomo sarà sulla terra.

In definitiva, Lutero intende la giustificazione come una realtà che giunge

all’uomo dall’esterno e rimane esteriore all’uomo; non è un’azione che lo salva

rinnovandolo ontologicamente perché lo lascia sempre nella condizione di

peccatore ma lo rende solo giusto, in una mera dichiarazione esteriore di

assoluzione, pur se comunque l’uomo è riconosciuto colpevole. Di qui l’altro

caposaldo della dottrina luterana è l’affermazione “solus Christus”, per cui solo

Cristo è colui che realizza la giustificazione.

Il messaggio che parla di un’assoluzione di Dio solo in Gesù Cristo giunge

dalla Parola di Dio, da cui l’emblematica frase “sola Scriptura”, secondo cui la

Parola di Dio comunica all’uomo che egli viene giustificato per gli unici meriti

di Cristo.

All’uomo che non può fare nulla per la sua salvezza rimane solo fidarsi in

quella che Lutero chiama “fede fiduciale”; questa non è una fede che impegna

l’uomo dal punto di vista della libertà ma è una fede puramente interiore,

soggettiva, più un sentimento di fiducia che un moto della libertà che si affida a

Dio.

114

19.2. La risposta cattolica nel Concilio di Trento.

Alcuni aspetti della dottrina di Lutero vanno decisamente messi in discussione.

Anzitutto la corruzione totale della natura umana al punto tale che non c’è alcuna

parvenza di libertà; poi che la giustificazione è solo una dichiarazione che non

tocca l’uomo nel suo essere; in ultimo, l’aspetto della fede fiduciale, cui non

corrisponde alcun impegno da parte dell’uomo.

La risposta cattolica sugli effetti della grazia di Cristo viene elaborata dal

Concilio di Trento, particolarmente nel “Decreto sulla giustificazione”, steso

nella sesta sessione e pubblicato il 13 gennaio 1547.

Nel primo capitolo di tale decreto è scritto: “Per comprendere adeguatamente

la dottrina sulla giustificazione ognuno deve riconoscere e confessare che tutti

gli uomini, avendo perduto l’innocenza per la prevaricazione di Adamo (questa

frase ricorda il Sinodo di Orange del 529, dove per la prima volta viene usato il

termine “prevaricazione” riguardo al peccato originale), sono diventati quindi

schiavi del peccato e sono sotto il potere della morte a tal punto che sia i gentili

che i giudei non possono liberarsi e rialzarsi (il che significa che a causa del

peccato di Adamo l’uomo non ha alcuna possibilità di salvarsi da solo, come

peraltro pensava anche Lutero, a differenza dei pelagiani). Gli uomini, quindi,

non possono rialzarsi benché in essi il libero arbitrio non è affatto estinto ma

solo attenuato e indebolito”.

In questo capitolo si ribadisce che l’uomo a causa del peccato di origine non è

in grado di salvarsi, in omaggio alla fede tradizionale, con l’unica avvertenza di

sottolineare che il libero arbitrio è solo indebolito e non estinto.

115

Nel secondo capitolo è scritto: “Il Padre celeste, Padre della misericordia, di

ogni consolazione, quando venne la beata pienezza dei tempi mandò agli uomini

Cristo Gesù, suo Figlio, annunciato e promesso a molti santi Padri e prima della

legge e nel tempo della legge, sia per i giudei che erano sotto la legge sia perché

le genti che non seguivano la giustizia conseguissero la giustizia e tutti

ricevessero l’adozione di figli. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di

espiazione per i nostri peccati per mezzo della fede nel suo sangue e non solo

per i nostri peccati ma anche per quelli di tutto il mondo”.

In definitiva, poiché l’uomo è incapace di raggiungere la salvezza, il Padre ha

disposto che il suo Figlio si facesse uomo per la salvezza di tutti, perché la

predestinazione è per tutti.

Nel terzo capitolo è scritto: “Benché egli sia morto per tutti, non tutti però

ricevono il beneficio della sua morte ma solo coloro ai quali è comunicato il

merito della sua passione. Come, infatti, senza dubbio gli uomini se non

nascessero dalla discendenza del seme di Adamo non nascerebbero giusti, così

se non rinascessero in Cristo non potrebbero essere giustificati. Per questo

beneficio l’Apostolo ci esorta a rendere sempre grazie al Padre che ci ha resi

degni di aver parte alla sorte dei Santi nella luce”.

Qui si vuol dire che, pur se la salvezza è a disposizione di tutti, non tutti vi

partecipano. Infatti la predestinazione non è un predeterminismo, per cui può

accadere che alcuni non ne godano per una libertà che interferisce col dono della

grazia oggettiva di Dio.

116

Nel quarto capitolo è scritto: “Coloro che godono dei meriti della passione di

Gesù Cristo vengono giustificati (qui si parla dei peccatori che necessitano del

ristabilimento della condizione di alleanza originaria esistente tra Dio e l’uomo).

La giustificazione è il passaggio (il termine latino è translatio) dallo stato in cui

l’uomo nasce figlio del primo Adamo (ossia dallo stato di peccato) allo stato di

grazia e di adozione a figlio di Dio per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo”.

La giustificazione è il passaggio dalla condizione di peccatore a quella di

grazia, per cui l’uomo diventa figlio di Dio. Tale passaggio implica un

rinnovamento interiore dell’uomo, contrariamente al pensiero di Lutero per cui

l’uomo non viene cambiato ma solo dichiarato giusto. Il cambiamento ontologico

avviene nel battesimo, dove si entra nel corpo di Gesù e si diventa figli di Dio.

Prima di tutto, perciò, c’è l’azione di Dio che riguarda l’essere e solo in un

secondo momento subentra l’agire.

Nel quinto capitolo è scritto: “Negli adulti l’inizio della stessa giustificazione è

data dalla grazia proveniente da Dio per mezzo di Cristo (ossia la

predestinazione, la chiamata alla salvezza), cosicché quelli che con i loro peccati

si erano allontanati da Dio sono disposti dalla sua grazia che li stimola e li aiuta

a orientarsi verso la loro giustificazione”.

Qui si vede come il Concilio intenda mantenere i due poli di grazia e libertà.

Dio tocca il cuore dell’uomo con l’illuminazione dello Spirito Santo ma l’uomo

non rimane inattivo ricevendo quell’ispirazione, che può ben raggiungere. Il

processo della salvezza che riporta dallo stato di peccatore a quello di creatura

117

nuova inizia per lo stimolo di Dio ma è fondamentale la libertà dell’uomo che

può accogliere o meno l’illuminazione dello Spirito.

Nel sesto capitolo è scritto: “Gli uomini si dispongono a questo processo

quando, stimolati dalla grazia divina, si muovono liberamente verso Dio,

credendo vero quanto è stato divinamente rivelato e promesso. L’empio è

giustificato da Dio mediante la sua grazia in virtù della redenzione da Gesù

Cristo. Comprendendo che sono nella storia di Adamo, si aprono alla speranza

rivolgendosi a considerare la misericordia di Dio nella fiducia che Dio sarà loro

propizio a causa di Cristo. Allora cominciano ad amarlo come sorgente di

giustizia e sono animati da odio e detestazione contro il peccato, cioè con quella

penitenza che è necessario compiere prima del battesimo Infine, quando si

propongono di ricevere il battesimo di iniziare cioè una vita nuova e di

osservare i comandamenti divini”.

Nel capitolo settimo è scritto: “Nella giustificazione, quindi, l’uomo riceve per

mezzo di Gesù Cristo, nel quale è inserito, insieme alla remissione dei peccati

anche tutti questi doni che servono a raggiungere la vita eterna”.

Qui si specifica che dopo la penitenza avviene la giustificazione, la

santificazione, il rinnovamento interiore dell’uomo, per cui l’uomo da ingiusto

diviene giusto, da nemico diviene amico, così da avere quei doni, ossia le virtù

teologali, che permettono di essere cristiano.

Nel capitolo ottavo si ribadisce l’importanza della fede nel processo della

giustificazione, in una posizione fondamentalmente vicina a quella di Lutero.

118

Il merito fondamentale di Trento consiste nell’aver recuperato un corretto

rapporto tra fede e libertà nel processo della salvezza. Inoltre la giustificazione,

contrariamente al pensiero di Lutero, produce una modificazione accidentale

dell’essenza dell’uomo (giustizia inerente); in tal senso tra Cristo e il credente

viene stabilita un’unità di tipo ontico in forza della quale l’uomo viene perdonato

e salvato.

Da una parte il Concilio ha voluto richiamare il dato tradizionale, per cui non

esiste altra salvezza se non nella giustizia di Cristo; dall’altra ha inteso

contrastare l’insegnamento luterano, attraverso l’affermazione dell’inseparabilità

tra giustizia di Cristo e giustizia inerente: per il peccatore il valore salvifico della

prima è percepibile solo attraverso la seconda, ossia, in altri termini, la salvezza

oggettiva è percepibile attraverso la fede.

119

19.3. Il dibattito ecumenico.

Nel corso del ventesimo secolo sono iniziati vari momenti di dialogo tra

cattolici, anglicani, luterani, durante i quali è emerso che sull’essenzialità del

messaggio della giustificazione le posizioni erano sufficientemente vicine da

poter trovare un’intesa di massima.

In particolare, risultava pensiero comune che la giustificazione giunge

unicamente attraverso Cristo attraverso il battesimo e che sono fondamentali

l’annuncio della Parola, la fede, la conversione.

L’unico punto di dissenso riguarda il fatto che i cattolici intendono la

giustificazione come un processo che cambia ontologicamente l’uomo mentre i

luterani la pensano in modo contrario. Comunque sia, questi due modi di vedere

una giustificazione intrinseca ed estrinseca possono benissimo non costituire

motivo di contrasto.

Il traguardo più significativo è stato raggiunto con la “Dichiarazione congiunta

sulla dottrina della giustificazione tra Chiesa cattolica e federazione luterana

mondiale”, redatta insieme nel 1997 e sottoscritta il 31 ottobre 1999.

Due sono le affermazioni centrali della Dichiarazione:

“Insieme confessiamo che non in base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo

della grazia, e nell’opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e

riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a

compiere le buone opere” (n. 15).

“Sulla base di tale consenso l’insegnamento delle Chiese luterane presentato

in questa Dichiarazione non è colpito dalle condanne del Concilio di Trento. Le

120

condanne delle Confessioni luterane non colpiscono l’insegnamento della

Chiesa cattolica romana così come esso è presentato in questa Dichiarazione”

(Dichiarazione comune).

121

20. Riflessione sistematica sulla giustificazione dell’uomo.

Il superamento della controversia tra l’interpretazione cattolica e quella

protestante permette di collocare la giustificazione nell’orizzonte teologico

dell’incorporazione dell’uomo in Gesù Cristo. Tale impostazione permette alcuni

guadagni molto significativi per l’antropologia cristiana.

20.1. La giustificazione come salvezza.

La giustificazione è la proclamazione del dato di fondo della fede, cioè del

fatto che la nostra salvezza si fonda unicamente in Gesù Cristo, in cui l’uomo

ripone ogni fiducia. Essa, quindi, è lo svelarsi del valore salvifico della morte e

resurrezione di Cristo in favore di tutti gli uomini. Quando, attraverso il

battesimo, l’uomo accede a questa salvezza oggettiva, vive in una situazione di

rinnovamento ontologico, diventando una creatura nuova.

Con la vittoria di Cristo tutto è profondamente cambiato, in quanto ciò che

esiste vive nel rimando decisivo a Cristo e si colloca nell’orizzonte della grazia,

nella vita teologale, nella vita secondo Dio.

Nell’azione giustificante di Dio in Cristo non si può dimenticare il ruolo dello

Spirito, che pone l’uomo nella condizione di riconoscere Dio come Padre, di

invocare il suo perdono, di suscitare la fede. .

La giustificazione, quindi, è un’opera trinitaria che comprende anche i

sacramenti e il luogo dove essi vengono vissuti, ossia la Chiesa, il cui compito è

122

far risplendere la luce della grazia di Cristo, di annunciare la giustificazione, di

realizzarla in quanto strumento di salvezza, attraverso la proclamazione del

vangelo e l’amministrazione dei sacramenti, particolarmente il battesimo.

20.2. La preparazione alla giustificazione.

Nel Concilio di Trento si è visto che l’uomo si può preparare alla

giustificazione, a differenza di quanto pensato dalla tradizione luterana.

Questo aspetto tocca il rapporto tra fede e libertà. Infatti se Dio suscita la fede

(initium fidei) l’uomo può sempre accogliere o rifiutare la chiamata, altrimenti la

predeterminazione si trasformerebbe in predeterminismo.

La giustificazione non è una sorta di miracolo che Dio opera in favore

dell’uomo al di fuori di ogni rapporto dialogico, perché Dio ha voluto l’uomo

come essere relazionale, come un “tu”, come un partner dell’alleanza.

Il problema, perciò, sta nel comprendere quali sono le possibilità che ha la

libertà umana di partecipare a questo dialogo divino, al dinamismo salvifico della

grazia.

Anzitutto occorre dire che l’uomo non può fare a meno della grazia di Dio, di

cui ha bisogno indipendentemente dal peccato. Senza la grazia non si può in

alcun modo diventare figli, non ci si conforma a Gesù e non ci si inscrive nella

logica della predestinazione secondo cui Dio vuole che tutti gli uomini siano

salvati.

Riguardo la libertà, oggi la si pensa come la possibilità di fare ciò che si vuole,

anche di rifiutare quel che dice Dio. Secondo tale visione, però, si finisce per

123

mettere in competizione grazia e libertà, la quale, nell’ottica della

predestinazione, è voluta da Dio nel suo progetto di grazia per l’uomo.

La libertà non si può opporre a Dio perché è una cosa buona in quanto voluta

da lui e per tal motivo non può essere in competizione con la grazia che è cosa

ancor più buona.

Allora nel rifiutare la grazia si esprime un atto di non libertà piuttosto che di

libertà perché essa è per il dialogo salvifico, per cui l’uomo è veramente libero

quando risponde positivamente alla chiamata di Dio.

Quando l’uomo si prepara alla giustificazione attraverso azioni come la

detestazione del peccato, l’inizio della conversione, le opere di carità, compie atti

dovuti che istituiscono bene la libertà ma che comunque non sono meritori di

qualcosa, perché vengono fatti secondo l’ordine di vita dell’uomo.

20.3. Il merito.

La dottrina del merito intende mostrare che la giustificazione trasforma l’uomo

rendendolo giusto, non solo nell’essere ma anche nell’agire. Infatti le opere

dell’uomo giustificato sono corrispondenti al suo essere, perciò se l’uomo è

salvato allora le opere sono necessariamente salvifiche.

Il merito, comunque, non comporta automaticamente la retribuzione. La

ricompensa che Dio dà all’uomo è l’esito escatologico della sua promessa e non

si basa su quel che l’uomo può guadagnare. Infatti Dio ha promesso che l’uomo

arriverà alla pienezza del suo essere se sarà sempre nella sua grazia.

124

L’unico merito possibile è la grazia di Cristo perché è lui che ha guadagnato

all’uomo l’esito escatologico, ma se l’uomo si separa dal merito di Cristo il suo

agire virtuoso non ha valore.

Occorre sempre ricordare che tutto l’agire virtuoso avviene secondo lo Spirito,

che è il motore esterno ed interno della vita cristiana.

125

21. L’escatologia biblica nelle tradizioni canoniche e extracanoniche.

L’escatologia è il futuro definitivo dell’uomo, della sua storia e del suo mondo.

Questa definizione assoluta trova la sua ragione in Gesù Cristo, perché in lui

l’uomo è stato creato, in lui vive e in lui sarà giustificato.

21.1. L’escatologia veterotestamentaria.

Pur se nella Bibbia il centro del dialogo salvifico è l’evento Cristo, c’è

comunque un’economia veterotestamentaria che, iniziando con la creazione,

rimanda continuamente alla parusia.

Nell’Antico Testamento il pensiero di Israele matura man mano che il popolo

fa l’esperienza salvifica nell’incontro con Dio. Basti ricordare che all’inizio c’era

l’enoteismo, per cui Israele credeva nell’esistenza di altre divinità pur se scelse

Jahwè, e il monoteismo matura solo in un secondo momento grazie ai profeti e

alle continue esperienze che il popolo ha di Dio.

Questo lenta maturazione si ravvisa anche per l’escatologia, pur se tale tema

nell’Antico Testamento si presenta in maniera complessa per la difficoltà

intrinseca delle varie tradizioni presenti (jahwista, sacerdotale, deuteronomista),

che rappresentano modi diversi di aver vissuto e tramandato l’esperienza in

seguito codificata nel canone.

Anzitutto occorre considerare che la storia di Israele è essenzialmente orientata

al futuro, per cui è bisognosa di raggiungere un fine. In tal senso si distingue

126

dall’ambiente classico della grecità, secondo cui le cose ritornano, non ci sono

novità e tutto procede in base a un destino e non certo a una predestinazione.

Israele ha questa interpretazione del futuro perché si accorge di come Dio operi

in suo favore. In particolare, tale azione si rende riconoscibile dal fatto che

quando Dio interviene nelle vicende del popolo, o di una persona che comunque

rimanda al popolo, assume la fisionomia di una promessa per il futuro.

Tale promessa di Dio nel suo agire rende relativo il tempo presente, per cui

quello che sta avvenendo è già proiettato al futuro e nello stesso tempo è già

passato. Nessun avvenimento storico della complessa vicenda di Israele è

comprensibile se non viene collegato a ciò che l’ha preceduto e soprattutto se

non viene colto nel suo orientamento al futuro, che esso contiene per la forza

della promessa che l’accompagna.

In questa luce la promessa fa comprendere la realtà come storia e rappresenta

la chiave che offre la possibilità agli eventi di aprirsi alla novità. Essa pone

Israele in una continua attesa di qualcosa che sta per venire in dono e per tale

motivo è generatrice di speranza.

Ad ogni realizzazione della promessa segue la novità di ulteriori e più grandi

promesse, tanto che queste si vanno realizzando negli avvenimenti ma non si

esauriscono in nessuno di essi ed anzi si orientano verso il futuro. Perciò la realtà

che viene ed è attesa, che va ed è lasciata indietro, è vissuta come storia e non

come una costante cosmica che si ripete sempre; è una storia orientata al futuro,

escatologicamente caratterizzata dalla continua novità implicita nella promessa

di Jahwè.

127

Questo sbocco futuro della storia assume un peso notevole soprattutto nella

predicazione dei profeti, che leggono il presente, lo criticano, dicono ciò che è

conforme all’alleanza e, mettendolo in crisi, orientano automaticamente la storia

al futuro. Fondamentale in tal senso è il testo di Geremia: “Verranno giorni, dice

il Signore, nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò

un’alleanza nuova; non come l’alleanza che ho concluso con i loro Padri

quando li ho presi per mano per farli uscire dall’Egitto, un’alleanza che essi

hanno violato benché io fossi loro Signore; questa sarà l’alleanza che io

concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni; porrò la mia legge nel loro

animo, la scriverò nel loro cuore. Io sarò il loro Dio e voi sarete il mio popolo”.

Per il futuro, perciò, Israele attende sempre un evento ultimo che colmi la sua

speranza. Nei profeti ricorre l’indicazione che il futuro definitivo di Dio si

realizzerà in un giorno particolare, chiamato “giorno di Jahwè”, espressione che

compare per la prima volta in Amos e che ricorre in altri profeti minori. Amos lo

predica in termini di condanna o di salvezza, per cui l’Israele rimasto fedele

all’alleanza di Dio in quel giorno sarà compiutamente salvato, mentre l’Israele

che si è mostrato infedele non avendo seguito i comandamenti di Dio avrà un

futuro di condanna.

Questo giorno viene descritto in modo apocalittico, con un linguaggio usato

per esprimere una realtà di cui non si riesce a descrivere l’entità, per dire che in

quel particolare giorno tutte le cose saranno sconvolte (Gioele: “Farò prodigi in

cielo e sulla terra, il sole si cambierà in tenebre, la luna in sangue…..guai a

coloro che attendono il giorno del Signore, che sarà tenebra e non luce”).

128

Un concetto simile al giorno di Jahwè compare anche nella letteratura

sapienziale, dove si usa l’espressione “giorno della visita di Dio”.

Israele, perciò, rispetto ad altri popoli vicini ha un’idea del suo tempo e del suo

spazio in termini di storia, facendo esperienza di un Dio che promette qualcosa,

che dice sempre una novità per il futuro. In tal modo si istituisce un orientamento

al futuro per la storia, secondo cui ogni volta che Dio realizza una promessa ne fa

un’altra, fin quando, nel giorno di Jahwè, porterà a compimento quanto ha già

realizzato in Israele.

Ma all’interno di questo percorso che vede la salvezza alla fine della storia si

pone il problema della morte legato alla retribuzione finale. L’ebreo pensa che

dopo la morte l’uomo finisce nello sheol, il mondo degli inferi, delle tenebre, in

una sorta di esistenza ombratile, per cui non ha più nulla a che fare con gli altri

viventi e con Dio, tanto che anche i Salmi dicono che Dio si dimentica dei morti.

Occorre tener presente che il culto dei morti era tabù in Israele, tanto che chi

seppellisce i morti si contamina e deve purificarsi per poter ricelebrare il culto.

Col tempo, però, l’ebreo inizia a chiedersi se Dio darà un premio ai giusti,

arrivando a pensare che chi è fedele riceverà da Dio una retribuzione terrena

(generazione feconda, ricchezza), mentre l’empio non avrà nulla di tutto ciò.

Tale pensiero, però, si trova a fare i conti con una realtà contraria presente in

Israele. Addirittura nel Salmo 37, in Giobbe e in Qoelet, si indirizzano invettive

verso Dio, rivolgendosi contro le tesi classiche della distribuzione, pur se le

soluzioni proposte non sembrano convincenti. Nel libro di Giobbe, ad esempio,

129

la sofferenza del giusto accade per i peccati commessi da qualcuno delle sue

passate generazioni.

Una seconda fase viene prospettata dai mistici, secondo cui non è possibile che

Dio abbandoni il giusto neanche nella morte, tanto che alcuni salmi sapienziali

(16, 49, 73) iniziano a pensare a un futuro di comunione con Jahwè che vada

oltre la morte del giusto.

Un’esperienza significativa per Israele sarà l’esilio, che pur nella tragedia dà la

possibilità di ripensare a molte cose, grazie soprattutto alla predicazione dei

profeti. Essi configurano l’esilio in termini di morte; infatti che non ci sono più

le istituzioni, non c’è più il tempio, e per rinfocolare la speranza nel popolo

esiliato predicano un futuro intervento liberatorio. Il ritorno dall’esilio sarà un

riportare Israele alla vita, tanto che per indicare il ritorno alla Terra Promessa,

ossia alla vita, l’ebreo inizia ad usare il termine resurrezione, preso dalla cultura

persiana.

Il ritorno dall’esilio viene trattato da alcuni profeti, quali Osea, Isaia e

soprattutto Ezechiele, che in un passo fondamentale descrive come lo Spirito di

Dio riporta alla vita un ammasso di ossa morte.

In seguito questa metafora riferita all’esilio si trasforma in un’idea escatologica

che esprime quanto avverrà ai giusti dopo la morte. Questo decisivo passaggio

avviene al tempo di Antioco IV Epifane, il quale intende convertire Israele al

paganesimo, provocando la resistenza dei Maccabei e il martirio di alcuni di essi.

In particolar modo nei testi Dan 12 e 2Mac 7 viene predicata la resurrezione non

130

come metafora ma come un destino escatologico, sia pure atteso per la fine della

storia.

Nello stesso periodo, ad Alessandria d’Egitto viene scritto il libro della

Sapienza, rivolto ad ebrei di cultura greca, dove per la prima volta si parla di

immortalità, un concetto comunque corrispondente alla resurrezione, pur se

espresso in un contesto culturale diverso rispetto al precedente.

21.2. L’escatologia nelle apocalissi giudaiche.

Nello sviluppo dell’escatologia è fondamentale l’influsso della letteratura

apocalittica, chiamata anche enochica perché configurata intorno ai cinque libri

di Enoc l’etiope.

Secondo alcuni studiosi l’apocalittica è solo una corrente letteraria; per altri è

anche una corrente di pensiero; per altri ancora è una corrente religiosa esistente

in Israele tra il secondo secolo a. C. e il secondo secolo d. C., avente una forte

impronta escatologica, pur se taluni pensano che tale aspetto sia secondario al

problema dell’esistenza del male; ultimi studi la collocano più probabilmente tra

il quarto secolo a. C. e il quarto secolo d. C.

Nonostante le varie interpretazioni, è possibile affermare che la letteratura

apocalittica è una corrente di pensiero che nasce dalla spiegazione del male,

cercando la soluzione che questo male trova alla fine della storia. Pur se il tempo

presente è negativo, la fine della storia capovolgerà la situazione dal male e si

instaurerà il tempo di Dio, dove il giusto riceverà la ricompensa della

resurrezione o dell’immortalità, mentre l’empio perirà in modo definitivo.

131

Gli apocalittici, perciò, affermano che il tempo ultimo vedrà la vittoria del bene

al fine di nutrire la speranza di coloro che vivono nell’attesa di questo tempo

positivo.

Per esprimere questo concetto lo scrittore apocalittico usa uno stratagemma

letterario, in cui descrive il tempo ultimo con un linguaggio di rivelazione

(apocalyps significa svelamento), fatto soprattutto di eventi catastrofici. Questi

eventi ultimi non sono comprensibili neanche allo scrittore apocalittico, tanto che

solo i veggenti possono svelare la visione.

21.3. L’escatologia neotestamentaria.

Le idee apocalittiche circolavano tra il popolo anche al tempo di Gesù ed

influenzarono il Nuovo Testamento, in cui, nonostante la diversità degli schemi

di pensiero, tutti gli scritti convergono sulla decisività dell’evento cristologico,

che diventa la lente attraverso cui guardare anche l’escatologia, al punto tale che

questa non si può considerare indipendentemente dall’evento Cristo.

Gli autori del Nuovo Testamento affermano che Gesù è l’escatologia, il futuro

dell’uomo, della sua storia e del suo mondo. Infatti quando Gesù dice che “il

regno di Dio è vicino” (Mc 1, 15) vuole intendere che nella sua persona c’è la

presenza del regno di Dio nella storia dell’uomo. Questo significa che tutto ciò

che è non ancora, in Cristo diventa già, con un’anticipazione dei tempi ultimi.

Perciò quello che l’apocalittica aspettava per la fine dei tempi è stato anticipato

in Gesù, pur se in modo non ancora compiuto, per cui questo tempo non è più un

kronos ma un kairos, ossia un tempo decisivo.

132

Gesù è l’ingresso di Dio nella condizione umana per risollevarla dal male e

l’uomo deve aderire a questa possibilità ponendosi alla sequela di Cristo. Quindi

la sovranità di Dio si fa presente con Gesù nella storia degli uomini, per cui il

futuro escatologico, atteso per la fine dei tempi, è già iniziato nell’esperienza di

Cristo.

Nella sinagoga di Nazareth Gesù legge Isaia (“i ciechi vedranno, i sordi

udiranno…..oggi si è adempiuta questa Scrittura”). Gli ebrei attendevano quelle

manifestazioni per la fine dei tempi, quando si sarebbero ribaltate le situazioni,

ma Gesù, dopo aver letto quel passo biblico, specifica che sarebbero avvenute sin

da allora, tanto che quando i discepoli di Giovanni gli chiedono se è lui colui che

stavano attendendo, Gesù manda a dire a Giovanni che i ciechi vedono, i sordi

odono, i morti risorgono, a significare la venuta del regno di Dio.

Gesù testimonia la presenza del regno in tutte le manifestazioni della sua vita

terrena, sia con le parole (si ricordino le parabole della dracma perduta, della

pecorella smarrita e del seme) che con le opere, con i segni del regno, con la

presenza di Dio che sana mediante i miracoli, con la prassi di frequentazione

delle persone che hanno bisogno di essere redente.

Ma la massima espressione, il vertice di quanto Gesù ha detto e fatto, si trova

nell’evento della croce e della resurrezione. Gesù risorto è il primogenito dei

morti ritornati nella vita di Dio, per cui l’esperienza della resurrezione, altrimenti

attesa per la fine dei tempi, in lui è già avvenuta nella storia. Di qui il valore

prolettico, anticipatore, dell’esperienza di Gesù. La resurrezione ha introdotto la

133

vita eterna nella storia: è la manifestazione di un regno che non è solo da

attendere, perché con Gesù tale evento è già avvenuto.

Lo stesso Paolo ha fatto esperienza del Gesù risorto e non del Gesù storico; per

tale motivo il centro del suo messaggio è dato dall’evento della resurrezione,

tanto da dire che se Cristo non è risorto tutta la nostra fede non ha senso. Paolo

afferma che l’essere in Cristo nella vita presente si trasformerà nell’essere con

Cristo nella morte, quando l’uomo abiterà una tenda non fatta da mani d’uomo

ma da Dio stesso, ossia il corpo del risorto.

In virtù di questa esperienza anticipatrice anche la morte dell’uomo non è un

finire nel nulla, ma introduce già alla partecipazione alla vita di Cristo, come si

vede in Lc 23, 43 nell’episodio del buon ladrone (“oggi sarai con me in

paradiso”). Quindi il presente ha una valenza escatologica, nel senso che la

definitività è già cominciata; la morte partecipa di questo regime già iniziato e il

compimento del tutto è atteso alla fine dei tempi con l’evento della parusia,

quando la vita si compierà integralmente con la resurrezione del corpo.

Alla dimensione dell’attesa, propria della speranza giudaica, segue la

dimensione realizzata, propria della speranza cristiana. I credenti, pertanto,

vivono il loro presente come un tempo qualitativamente nuovo, già escatologico

per il loro essere in Cristo. Infatti se Cristo ha anticipato nell’oggi il futuro della

storia, chi è in Cristo partecipa del mistero della realizzazione dell’evento.

L’esperienza di una speranza realizzata è motivo per confidare in una futura

definitività escatologica. Ciò vuol dire il superamento assoluto di ogni limite, del

peccato, della morte, e il raggiungimento di una pienezza che coinvolge tutto

134

l’uomo, la sua storia e la creazione intera, ossia quanto Dio ha predestinato nei

secoli da sempre (si ricordi la lettera agli Efesini). Quindi l’escatologia realizzata

al presente e l’escatologia realizzata al futuro si ritrovano in un’equilibrata

tensione, nella speranza vissuta dalla comunità credente e dal singolo individuo.

In conclusione, la motivazione cristologica, posta alla base dell’escatologia

neotestamentaria, condiziona il linguaggio che esprime i contenuti e le

prospettive della speranza. Formalmente nel Nuovo Testamento si ha una varietà

di linguaggi escatologici, attinti dalle diverse tradizioni (profetica, sapienziale,

apocalittica) presenti nel libro biblico, comunque tutti convergenti nel mistero di

Cristo. Infatti tutto è riferito a Cristo, il vero contenuto della speranza, tanto che

nel Nuovo Testamento manca ogni tipo di speculazione e di descrizione su

quanto accadrà nel futuro escatologico.

21.4. L’escatologia delle apocalissi cristiane extracanoniche.

Dai primi secoli e fino all’undicesimo si sviluppa una letteratura non canonica

tesa a descrivere il mondo futuro con elementi presi dell’apocalisse giudaica,

quali il linguaggio incomprensibile, la figura del mediatore, il catastrofismo per

descrivere la fine del mondo e la descrizione dei luoghi.

Le più importanti sono le apocalissi dell’apostolo Pietro e dell’apostolo Paolo.

Particolarmente nella seconda, forse composta in Egitto nella prima metà del

terzo secolo, risalta la dettagliata descrizione dell’inferno e l’impressionante

serie di pene e di castighi inferte ai dannati. Lo stesso Dante si servì di questo

testo per il suo capolavoro.

135

Nel tempo, purtroppo, questo aspetto speculativo è degenerato, per cui tali

scritti, pur se redatti nel lodevole tentativo di indurre il popolo alla conversione,

si sono allontanati dal mistero di Cristo.

Anche se questi libri non sono canonici, hanno comunque la loro importanza

teologica in quanto testimoniano le idee che circolavano nella comunità cristiana.

136

22. L’escatologia cristiana nel suo sviluppo storico-teologico postbiblico.

22.1. L’escatologia cristiana antica.

In breve tempo il cristianesimo dai piccoli centri giudaico-palestinesi si sposta,

soprattutto per merito di Paolo, verso i pagani, particolarmente nel mondo greco-

romano. Terminata l’epoca apostolica e dei loro successori nelle comunità

cristiane, i Padri Apostolici, vengono elaborate le prime testimonianze scritte dai

Padri della Chiesa. Questi testi non sono molto organizzati, perché i Padri,

avendo di fronte le comunità con i loro problemi, intendevano fornire delle

catechesi con degli scritti occasionali.

All’inizio, perciò, la dottrina cristiana si è evoluta sia per confrontarsi con

culture diverse, sia per problemi interni come la comparsa della gnosi cristiana,

la cui tendenza fortemente dualista portava alla svalutazione del corpo.

In questi contesti di inculturazione e di apologetica anche l’escatologia ha

trovato elementi di sviluppo, come l’approfondimento del tema della

resurrezione dei corpi, trattato da Ireneo, Origene, Clemente alessandrino,

Tertulliano,. Giustino, proprio contro gli gnostici che credevano solo

all’immortalità dell’anima.

Un altro tema sviluppato dalla patristica è il cosiddetto millenarismo (o

chiliasmo), una dottrina basata sul testo di Ap 20 e ritenuta condivisibile nella

fede. La lettura che l’Apocalisse suggerisce sul cosiddetto regno millenario

prevede una prima resurrezione dei morti in cui tutti i giusti parteciperanno della

resurrezione di Cristo e regneranno con lui per mille anni, al termine dei quali ci

137

sarà la seconda, definitiva resurrezione, dove gli empi saranno castigati con la

seconda morte e i giusti trionferanno con Cristo.

Scrittori come Ireneo e inizialmente anche Agostino (che in De Civitate Dei 20

e 22 spiega quel che accade dalla morte fino alla parusia finale del giudizio)

sposarono questa idea, ma il Magistero non ha mai avallato tale dottrina.

22.2. L’escatologia cristiana medievale.

Uno dei primi trattati sull’escatologia è il Prognostico di Giuliano di Toledo

(fine ottavo secolo), di stampo fortemente agostiniano. In seguito un autore

originale come Gioacchino da Fiore produce una svolta escatologica istituendo

un discorso storico-salvifico con la sua dottrina delle tre età (l’età del Padre, l’età

del Figlio e l’età futura dello Spirito).

Un momento importante nel medioevo si ha con la costituzione dogmatica

sull’escatologia “Benedictus deus”, di papa Benedetto XII (29 gennaio 1336), la

cui origine merita un approfondimento. Il papa precedente, Giovanni XXII,

espresse una personale opinione in un discorso pronunciato nel giorno di

Ognissanti, affermando che i morti non ricevono immediatamente la retribuzione

ma riposano nel seno di Abramo in attesa del premio o della condanna che

avverrà alla fine dei tempi, secondo un’idea veterotestamentaria che annullava

l’evenemenzialità di Gesù Cristo. Il cardinal Fournier lo invitò a ritrattare ma

Giovanni XXII non fece in tempo perché morì. In seguito lo stesso Fournier,

divenuto papa, ritornò sull’argomento, specificando che la retribuzione avviene

subito dopo la morte, o con la condanna o con la vita eterna, salvo purificazione.

138

22.3. L’escatologia cristiana moderna.

Nell’epoca moderna l’accentuazione dell’individualismo e conseguentemente

dell’escatologia individuale si comprende proprio partendo dall’esaltazione del

soggetto.

Il germe di questo processo parte da alcuni teologi controversisti, i quali

intendono rispondere agli attacchi dei protestanti, che comunque non mettono in

questione nulla sull’escatologia. I controversisti più famosi sono Bellarmino e

Suarez, che si rifanno a Tommaso, il quale, a sua volta, si riconduceva al

pensiero agostiniano.

Questa tendenza alla cosificazione, ossia a isolare l’escatologia dal contesto

storico-salvifico e a formularsi come qualcosa a sé stante, diventa compiuta nel

diciottesimo e diciannovesimo secolo con la neoscolastica, che predica il ritorno

a Tommaso. Il trattato sull’escatologia viene a chiamarsi “De Novissimis” e

comprende la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso, tutti aspetti che

comunque riguardano il singolo individuo.

22.4. L’escatologia cristiana contemporanea.

L’impostazione neoscolastica, inizialmente favorita dal Magistero, col tempo

ha subìto varie critiche.

Una prima riflessione al riguardo viene proposta da M. Scheeben, che nella sua

opera principale, “I misteri del cristianesimo”, inizia il ripensamento della

teologia nell’ambito della storia della salvezza.

139

Verso la fine del diciannovesimo secolo qualche timido tentativo venne

proposto da Schmaus e da Guardini, ma solo verso la metà del ventesimo secolo

si assiste a un rinnovamento dell’escatologia, peraltro inserito in un ambito più

globale di rinnovamento teologico che culmina col Concilio Vaticano II.

Questo nuovo contributo è merito di alcuni teologi protestanti che hanno

ripensato l’escatologia partendo da studi di carattere esegetico. Fissando

l’attenzione sul Gesù storico, Weiss, Schweizer e Dodd hanno evidenziato la

dimensione escatologica della predicazione di Gesù sul regno di Dio. Questo

aspetto venne approfondito da Cullmann, che ha coniato la famosa espressione

del “già e non ancora”, e poi da Bultmann, Barth e Pannenberg.

Tale rinnovamento prodotto in ambito protestante ha influenzato anche il

mondo cattolico, fino allora piuttosto fermo perché troppo vincolato all’autorità

magisteriale. Intorno agli anni cinquanta Gondar e Danielou (cui seguirono studi

di Rahner e Von Balthasar) hanno aperto la strada per un rinnovamento

dell’escatologia anche in ambito cattolico, il primo con un articolo sul purgatorio

ed il secondo con un testo sul dogma di Calcedonia. Secondo questi autori il “De

Novissimis” è un trattato che intende parlare delle cose ultime intese non come

evento ma come geografia dell’aldilà, mentre bisogna richiamare l’istanza di

fondare l’escatologia sulla cristologia.

Il culmine di questo rinnovamento si ha nel Concilio Vaticano II, la cui sintesi

escatologica è contenuta in LG 7 e 8 e in GS 18 e 39.

In seguito il sorgere di alcuni problemi ha portato alla stesura della “Lettera

della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede” (17 maggio 1979), in cui

140

vengono precisati vari aspetti, quali, ad esempio, che al momento della morte

non si può avere la resurrezione perché questa è attesa per la fine dei tempi.

Nel 1992 un documento della Commissione Teologica Internazionale intende

chiarire la differenza tra reincarnazione e resurrezione, dopodiché non c’è stato

alcun approfondimento sulle questioni escatologiche, a parte il recente

documento sul limbo richiesto dai vescovi sudamericani, su un aspetto che

comunque non ha particolare rilevanza.

141

23. L’escatologia cristiana: proposta sistematica.

23.1. L’evento Gesù Cristo come evento storico-escatologico.

L’escatologia trova il suo fondamento originario nell’evento Cristo. Prima di

allora la speranza giudaica si fondava sull’attesa del giorno di Jahwè, in cui ci

sarebbero stati gli eventi escatologici, formulati secondo i concetti della

resurrezione e dell’immortalità. Gesù, invece, predica che il regno di Dio è ormai

presente con lui, per cui l’eternità è anticipata nella storia. Tale anticipazione

risulta significativa nella sua resurrezione, un evento decisivo per tutti,

rappresentando la garanzia che quanto è atteso per la fine è talmente vero che si è

già realizzato in un uomo.

Pur se Gesù ha già realizzato il regno, ha anche detto che il compimento è

atteso per la fine dei tempi, dove ritornerà per instaurarlo definitivamente quando

nella parusia si manifesterà in modo glorioso.

Tutti coloro che sono in Cristo, con il battesimo vivono già nel loro presente

un’esperienza escatologica, anticipatrice di quel che in modo compiuto avverrà

alla fine. Infatti nel battesimo l’uomo è morto e sepolto con Cristo ma è anche

resuscitato con Cristo. Quindi Gesù ha qualificato escatologicamente il presente

nel suo mistero pasquale, per cui l’escatologia non riguarda solo la fine ma prima

di tutto il presente, in quanto tramite l’azione dello Spirito ciascuno partecipa di

tutti i temi messianici di Cristo.

In passato, come trattato nel “De Novissimis”, ci si occupava solo di ciò che

succedeva dopo la morte, ma con l’evento Cristo si valorizza anche il momento

142

presente; l’escatologia, perciò, comprende tutta la vita cristiana e coincide col

tempo della Chiesa, dalla Pasqua di Gesù fino al suo ritorno glorioso.

23.2. Il carattere escatologico dell’esistenza cristiana presente.

In LG 2 è scritto che “La Chiesa istituita negli ultimi tempi è stata manifestata

dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli”.

Quindi con l’istituzione della Chiesa si è già entrati in un tempo escatologico,

provocato dall’evento pasquale che ha trasformato il tempo da kronos a kairos,

ossia un tempo definitivo.

La Chiesa è una comunità escatologica nata dal costato trafitto di Cristo e

partecipa a tutti il mistero dell’incarnazione e dell’evento pasquale, che tramite il

dono dello Spirito fa della Chiesa, intesa come la comunità dei credenti in Cristo,

il luogo storico in cui si realizza l’incontro salvifico tra Dio e l’uomo.

La condizione della Chiesa, in quanto mediatrice e sacramento universale della

salvezza di Cristo, è di tipo escatologico, perché è la comunità dove è possibile,

grazie allo Spirito, incontrare la salvezza di Gesù, il regno di Dio già cominciato.

La Chiesa non coincide col regno ma è inizio del regno (LG).

Se la Chiesa è una comunità escatologica deve anche agire come tale. Questa

caratterizzazione si rende visibile nel fatto che è una comunità santa, nonostante

le imperfezioni di tutti i giorni. La pienezza della santità è un traguardo che la

Chiesa raggiungerà alla fine dei tempi, ma non c’è dubbio che proprio per

l’azione dello Spirito è già santa.

143

Gli elementi storici che manifestano tale santità sono anzitutto l’annuncio del

vangelo, che viene reso una parola viva per mezzo dello Spirito, e

l’amministrazione dei sacramenti, di cui il battesimo è il primo per eccellenza.

L’annuncio della Parola e la celebrazione liturgica dei sacramenti devono

estrinsecarsi attraverso la diaconia escatologica, che è un servizio della carità.

Solo quando il cristiano coglie la presenza di Dio in mezzo agli uomini (“ero

nudo e mi avete vestito…..”) la speranza si dilata e diventa operativa.

La vita del cristiano, in quanto esistenza in Cristo, traduce la qualità

escatologica manifestando la vita pasquale. L’evento Cristo, infatti, passa

primariamente per la sofferenza della croce, presente nella vita di ogni credente,

il quale sperimenta già nell’oggi la potenza della croce di Gesù che trasforma il

suo essere attraverso la sconfitta del peccato e del male. Ciò significa che la

morte come realtà non è un’esperienza che si fa solo nell’hora mortis, ma che già

oggi interessa l’esistenza del credente.

Nel presente l’uomo fa anche l’esperienza della purificazione, in quanto

nell’incontro con Gesù, proprio perché mette a nudo i suoi fallimenti, si rende

conto che questi ostacolano l’essere in Cristo del battezzato. In tal modo si

provoca un ritardo nell’incontro con lui che comporta sempre una sofferenza che

si espleta, appunto, nell’esperienza della purificazione.

Purtroppo l’uomo fa anche l’esperienza della dannazione quando commette un

peccato mortale, tale da rompere la comunione con Dio, da distruggere l’incontro

con lui, sperimentando in tal modo la solitudine che rappresenta già un inizio di

dannazione.

144

Ovviamente si fa anche l’esperienza della vita eterna, ossia del paradiso, della

resurrezione, che l’uomo avverte già nel presente quando sente la gioia di essere

in Cristo che si esplicita nelle relazioni e che caratterizza il dinamismo della sua

vita, spingendosi fino all’hora mortis e di qui fino alla parusia.

Allora una caratteristica della Chiesa in quanto comunità escatologica è quella

di essere pellegrina verso il compimento, sospinta in avanti dallo Spirito. Come

per ogni pellegrinaggio c’è bisogno di soste per il nutrimento, che la Chiesa

porge nella celebrazione dei sacramenti, in particolare dell’eucarestia, non a caso

chiamata viatico. Nell’eucarestia si sperimenta il Signore che è venuto e che sta

attirando l’uomo alla meta.

La certezza di giungere felicemente alla meta non c’è solo per la resurrezione

di Cristo ma anche per l’esistenza stessa di Maria. La madre di Cristo, infatti,

oltre ad indicare il cammino, evidenzia che solo facendolo in unione al suo Figlio

l’uomo può arrivare alla meta; questo perché lei, in quanto associata strettamente

a Cristo, è la prima dei credenti ad aver già raggiunto la meta e quindi si presenta

come icona, modello escatologico di tutta la Chiesa perché è già assunta in cielo

in corpo e anima.

23.3. Il carattere escatologico dell’esistenza cristiana nella morte.

Prima o poi il cammino storico dell’uomo finisce e si giunge all’hora mortis.

In passato la morte era vissuta con grande dignità perché faceva parte integrante

della realtà, mentre nella cultura contemporanea, dove il soggetto è stato

decostruito, una serena riflessione sul tema diventa molto problematica.

145

Da tempo nei confronti della morte si tesse un processo di rimozione, sia dalla

coscienza privata che da quella pubblica. Addirittura qualche studioso parla di

tabuizzazione, in quanto la morte è oggi un tabù come lo era un tempo il sesso.

Questo perché la morte fa pensare, mentre la cultura odierna tende a non far

pensare l’uomo.

Un cristiano, però, deve riappropriarsi di questa realtà, imparando a morire e ad

accompagnare i morenti. La morte è il momento più forte della vita, l’istante

ultimo in cui l’uomo compie il suo processo di personalizzazione, almeno per

quanto riguarda il suo aspetto storico.

Come la morte è decisiva da un punto di vista antropologico, lo è anche da un

punto di vista teologico, perché così come l’uomo vive in Cristo, con la morte si

incontra con Cristo, per cui, come dice Paolo, dall’essere in Cristo si approda

all’essere con Cristo e grazie al suo mistero pasquale la morte rappresenta un

passaggio in una diversa dimensione del vivere.

Se nella vita presente l’uomo col battesimo è inserito nel mistero di Cristo, con

la morte il processo di conformazione a Cristo diventa definitivo perché in

questo momento l’uomo incontra Cristo personalmente e non più nella parola,

nei sacramenti o nella carità.

E’ in questo momento che l’uomo incontra l’offerta di grazia definitiva di Dio

nei suoi confronti, perché Gesù è la grazia e con la morte l’offerta della grazia

diventa somma. Il morire dell’uomo in Cristo diventa il luogo della decisione

totale e definitiva di un cammino già avvenuto lungo la storia. Tale decisione

ultima non è slegata dalle scelte fatte in vita che preordinano l’incontro finale, al

146

punto che se Cristo è stato incontrato sempre positivamente in vita, con la morte

lo si incontra definitivamente.

In questa logica di continui incontri nella vita, ogni volta che si aderisce a

Cristo lo si fa anche con una certa sofferenza perché l’uomo tende sempre a

conservare qualcosa di sé, come peraltro avviene nei vari campi della vita, ad

esempio nelle relazioni amicali. Questa sofferenza, dovuta al ritardo della

relazione che deve ancora compiersi, è l’esperienza della purificazione.

Tale dinamismo si verifica anche nell’incontro ultimo, dove emerge

pienamente il ritardo che l’uomo ha accumulato durante la sua vita terrena, per

cui con la morte si provoca una sofferenza dovuta al fatto che l’uomo nella sua

vita non ha mai aderito perfettamente a Cristo. Di qui l’esperienza della

purificazione, possibile solo per coloro che aderiscono a Gesù e che saranno poi

salvati, mentre i dannati non devono purificarsi perché in vita hanno rinunciato

definitivamente a Dio.

Il passaggio nella sofferenza dell’uomo in Cristo va rettamente compreso onde

superare l’annosa controversia tra greci e latini riguardo il purgatorio.

La tradizione teologica ortodossa intende la purificazione ultraterrena come il

dinamismo dell’intero processo di divinizzazione del credente, che nella grazia è

il cammino dell’uomo verso la conformazione a Cristo. Lo sviluppo della piena

ed escatologica conformazione dell’uomo all’immagine di Dio in Cristo

comprende un processo di maturazione, consistente in un positivo processo

mistico che sembra escludere l’aspetto penale e doloroso.

147

La tradizione teologica latina, invece, pone l’accento sulla dimensione

espiativa e sofferente; pertanto la purificazione viene concepita in termini di

compiuta rimozione di tutti i residui dei peccati commessi dall’uomo durante la

sua esistenza, onde consentire la perfetta comunione con Cristo e i fratelli.

Dal punto di vista teologico, grazie anche alle sobrie elaborazioni dottrinali del

Vaticano II decisamente più vicine agli orientali, la purificazione ultraterrena è

comprensibile in termini di evento salvifico che accompagna il credente

nell’incontro decisivo con Cristo. Essa porta a consumazione tutto il dinamismo

che si manifesta nell’incontro terreno tra la grazia di Dio e la responsabilità

accogliente dell’uomo, che rivela come la risposta dell’uomo al dono di Dio non

sia mai assolutamente adeguata a causa del disordine nella vita di fede dovuta al

peccato.

In questo senso la purificazione consuma l’accoglienza totale del mistero

salvifico di Cristo da parte del credente. Incontrare definitivamente il Signore

come giudice che svela il senso ultimo della sua vita è cogliere, insieme

all’adesione a Cristo, anche il vuoto del proprio passato, la vacuità del proprio

comportamento. Nasce allora una lacerazione profonda, un amore doloroso, una

sofferenza amante che, come fuoco, purifica la persona dai suoi peccati.

Per le difficoltà che trova lungo il cammino della vita cristiana l’uomo chiede

un sostegno alla Chiesa, comunità solidale in cui si evidenzia la relazionalità

strutturale tra gli uomini. Se questo bisogno emerge nella vita terrestre, avrà

ragione di essere anche dopo la morte. L’aiuto offerto a tutti coloro che muoiono

148

in Cristo si ha elevando a Dio, soprattutto nella celebrazione eucaristica, la

preghiera di suffragio, l’indulgenza, il tesoro della Chiesa.

Tale preghiera assume un particolare valore per la logica della carità e della

fraternità ecclesiale che non viene meno tra i vivi e i morti, nel doloroso

dinamismo di purificazione che accompagna la piena conformazione a Cristo di

quanti hanno varcato la soglia della morte.

Pregare per i fratelli significa offrire loro il sostegno nella purificazione. Il

suffragio non riduce temporalmente questo processo; esso manifesta il profondo

legame dei vivi e dei morti in Cristo, la reciprocità solidale nello Spirito che

coinvolge i credenti nel loro itinerario storico-salvifico ecclesialmente

configurato.

In Gesù Cristo, Dio ha già reso i fratelli defunti partecipi della sua

incondizionata volontà salvifica in misura piena e totale; in tale contesto egli

eleva continuamente le nostre preghiere e le inserisce nella sua azione concreta

nei confronti di questo o di quell’uomo, senza che noi possiamo sapere come ciò

avvenga, lasciando con fiducia a Dio la concreta applicazione della nostra

preghiera per la salvezza di un essere umano.

I defunti continuano insieme ai vivi a camminare verso la pienezza di tutto

perché sono nel corpo di Cristo secondo un elemento strutturale dell’essere

umano, ossia l’anima. Questa non va intesa in senso platonico ma come l’io

sussistente, cosciente, come l’identità di ciascuno che ha ancora bisogno del

compimento con la resurrezione del corpo. Nell’essere in Cristo, al passaggio

della morte l’uomo conserva la sua identità non per sua natura ma per il dono di

149

Dio dell’elemento strutturale che la tradizione chiama anima, pur se il termine è

equivoco e potrebbe far pensare al dualismo.

Le due situazioni di Chiesa, quella dei vivi e quella dei morti, vanno perciò

verso il compimento della loro storia, dove la predestinazione sarà compiuta in

una dimensione collettiva finale. La LG afferma che fra la Chiesa celeste e la

Chiesa terrestre c’è un cammino vitale che avviene attraverso la preghiera,

l’unico linguaggio comprensibile. Il morire è dunque un passaggio da Chiesa a

Chiesa, dalla terrena comunione ecclesiale alla celeste comunione dei santi.

I vivi e i morti camminano insieme, sia pure secondo modalità diverse, verso il

loro compimento definitivo in Dio. Il Concilio Vaticano II afferma chiaramente

la vitale comunione tra la Chiesa terrena e quella celeste in LG 49: “Tutti quelli

che sono di Cristo avendo il suo Spirito formano una sola Chiesa e sono tra loro

uniti in lui. L’unione quindi di coloro che sono in cammino coi fratelli morti

nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede

della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali”.

Se noi viventi esprimiamo la relazione con i morti dal basso mediante la

preghiera di suffragio, essi esprimono la loro relazione con noi dall’alto,

mediante la preghiera di intercessione.

“In una maniera diversa e ancor più intensa di prima essi sono presso di noi

nelle nostre lotte, ci accompagnano e ci aiutano lungo il nostro cammino. Qui

sta il senso profondo di una relazione vissuta anche con santi e patroni

protettori e, inoltre, con tutti gli altri nostri defunti che durante la vita si sono

prodigati nell’aiutare gli altri e che adesso, giunti a compimento, non sono meno

150

solidali con noi. Quando ci ricordiamo dei nostri morti e guardiamo le loro

fotografie, possiamo essere certi che adesso si preoccupano ancor più

intensamente di una volta di noi “ (H. Kessler).

In tal modo la preghiera è il mezzo di contatto più opportuno e il luogo più

adatto per comunicare, nello Spirito, con i nostri morti. Tale mistero di

comunione è particolarmente espresso nella preghiera liturgica, come specificato

in LG 50: “La nostra unione con la Chiesa celeste si attua in maniera

nobilissima quando, specialmente nella nostra liturgia nella quale la virtù dello

Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in comune

esultanza cantiamo le lodi della divina maestà, e tutti, di ogni tribù e lingua, di

ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo e raduni in un’unica

Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio uno e trino”.

Per tale motivo i credenti escludono ogni possibilità di contatto con i defunti

che preveda l’utilizzo di tecniche, di pratiche magiche o di quant’altro sia

incompatibile con la fede, la quale rappresenta l’unico mezzo che permette di

accedere alla realtà misteriosa dei nostri morti in Cristo.

23.4. L’evento escatologico parusiaco.

Nell’evento parusiaco si compie il mistero della predestinazione, il progetto di

Dio sull’uomo, sulla storia, sul mondo, sulla creazione intera. Questo

compimento avviene con la mediazione di Cristo risorto, perché tutto è stato

fatto per mezzo di lui e in vista di lui.

151

La centralità di tale evento si trova nell’evento pasquale di Gesù, che è già un

evento parusiaco, e sarà ulteriormente riconoscibile nella manifestazione gloriosa

di Cristo. Del resto il termine parusia, usato nell’ambiente ellenistico, voleva

significare proprio l’ingresso del re nella città conquistata. Non a caso Cristo è

Re e Signore della storia e dell’universo, l’alfa e l’omega.

Nella parusia ci sarà la fine del mondo perché in questo momento termina

l’esperienza storica, non con la distruzione ma per ritrovarsi nel compimento di

ciò per cui è stato pensato in vista di Cristo. Tale ricapitolazione permette di

ritrovarsi compiutamente nell’eternità partecipando alla vita stessa di Dio. I Padri

orientali indicavano efficacemente questo compimento antropologico col termine

theiosis, ossia divinizzazione, secondo cui noi saremo adottati da Dio.

Non si può descrivere il modo con cui avverrà la parusia, anche perché se così

fosse l’uomo entrerebbe nella dimensione stessa di Dio. Si può comunque

pensare che quanto è accaduto nella Pasqua storica di Cristo assumerà un volto

radicale. Infatti Gesù, in quanto primogenito dei risorti, ha subìto la

trasformazione totale della sua esistenza umana, per cui non è possibile trovare il

suo cadavere perché in lui è già accaduto quello che noi sperimenteremo alla fine

dei tempi.

Nell’aldilà ci riconosceremo tutti non per le nostre fattezze fisiche ma in base

all’identità personale di ciascuno, perché allora l’aspetto biologico non esisterà

più. Ma noi conserviamo un’identità che va oltre il biologico; basti pensare allo

stesso svolgersi della vita, per cui ogni istante si è già morti a quello che si era

prima e solo nell’identità ci si conferma. In tal senso Paolo porta l’esempio del

152

chicco e della spiga: sono due cose diverse ma con un’identità che continua, per

cui quello che oggi è chicco, domani diventa grano.

Al riguardo è emblematico quanto accaduto ai discepoli di Emmaus: Gesù si

affianca, parla con loro ma questi lo riconoscono solo quando manifesta la sua

identità nello spezzare il pane, rivelando la sua identità di risorto che esce dagli

schemi spazio-temporali della storia. Del resto i vangeli dicono che fu sempre

Gesù a mostrarsi dopo la resurrezione, tanto che i discepoli non lo riconoscono

mai se Gesù non si dà a vedere.

Nel momento della fine assoluta tutto viene allo scoperto e di fronte a Cristo si

distingue ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. E’ l’esperienza del giudizio

particolare di ciascuno, mentre il giudizio universale riguarda l’intera storia che

viene svelata integralmente alla fine dei tempi. In questo evento ci sarà l’assoluta

sconfitta del male e della morte, con la manifestazione gloriosa della salvezza;

infatti il male non ha futuro e la sua sconfitta definitiva sarà la sconfitta di satana

e di coloro che hanno aderito al suo progetto.

Tutto ciò potrebbe far pensare al giudizio come a una parola che giunge

all’uomo dall’esterno, pronunciata in una sorta di tribunale appositamente

allestito sulla scena finale. In realtà il giudizio è uno svelarsi della persona e di

tutta la storia di fronte a Cristo. Addirittura secondo Von Balthasar il giudizio

non è altro che un autogiudizio; nella luce divina che scruta i cuori in profondità,

l’uomo accusa sé stesso dei propri peccati, svela la propria coscienza e conferma

i suoi personali meriti, che comunque risulteranno sempre inadeguati nel

confronto della sua vita con quella di Cristo.

153

In definitiva, il giudizio rientra nella logica della salvezza che appartiene solo a

Dio; in quanto fondato sull’amore che risplende sul volto glorioso di Cristo,

illumina il valore della libertà e l’esito della speranza dell’uomo, che si

accompagnano alla totalità della propria storia intessuta di relazioni con i fratelli.

Ma oltre a ciò, la parusia è anche compimento del mistero della Chiesa, che

nell’adempiuta comunione dei santi giunge alla sua beatitudine partecipando alla

stessa vita di Dio, in quello che comunemente viene chiamato paradiso.

Nella partecipazione all’eterna vita trinitaria di Dio, la comunione in cielo tra i

santi si esprime in una condizione dove non c’è spazio per l’egoismo e per

l’isolamento e in cui ogni uomo è del tutto aperto all’amore verso Dio e gli altri.

In cielo ognuno conserva la sua peculiare personalità costruita nella relazione,

in una carità talmente perfetta che nell’abbraccio misericordioso ognuno ama

l’altro, dove la grazia e la pace si trasmetteranno a tutti e l’amore di ciascuno si

realizza compiutamente.

La beatitudine della Chiesa è, perciò, il superamento del suo tempo storico di

fidanzamento, per cui nella parusia essa è conquistata da Cristo e nello Spirito ne

diventa la sposa, totalmente libera da ogni macchia. Nella vita di Dio la Chiesa è,

per dirla con l’Apocalisse, la città santa, la nuova Gerusalemme, abitata da Dio e

rinnovata nell’incontro definitivo con il suo sposo.

In tal modo la parusia della Chiesa è la realizzazione di un’escatologica

riconciliazione di Dio con gli uomini, la nuova alleanza con tutti i popoli della

terra, il compimento della creazione salvifica che Dio, per mezzo del Figlio e

nello Spirito, ha da sempre voluto intrattenere con le sue creature.

154

23.5. La resurrezione del corpo.

Per comprendere questo aspetto occorre anzitutto considerare che l’uomo non

ha un corpo ma è un corpo, o meglio è unità di corpo e anima.

L’aspetto biologico è il modo spazio-temporale di manifestarsi, ma l’uomo

trascende la propria fisicità, non potendo ridursi al solo modo di apparire nello

spazio e nel tempo, realtà destinate alla fine. Nella resurrezione, perciò, non è il

corpo biologico a trasformarsi ma la realtà dell’uomo nel suo essere corpo.

Ogni resurrezione avrà come suo modello quella di Cristo. Al riguardo è

emblematico quanto riportato in 1Cor 15, dove gli abitanti di Corinto chiedono a

Paolo come risorgono i morti e l’Apostolo risponde che risorgeremo come Cristo

è risorto, per cui la resurrezione va pensata in termini di trasformazione di tutto,

al punto che il biologico non sussisterà più perché questo finisce con la storia.

Quando si parla di resurrezione nella nostra totalità, si intende che noi

conserviamo la nostra identità costruita in vita. In questo senso la resurrezione

del corpo non significa la riassunzione del corpo biologico che ha dato forma alla

vita terrena, in quanto il cadavere prima o poi finisce. Siffatta interpretazione

materialistica non renderebbe ragione della novità trasformante inclusa

nell’evento della resurrezione ed escluderebbe di fatto la compiutezza

antropologica. Lo stesso dicasi per un’interpretazione spiritualistica che,

prevedendo una radicale trasformazione del corpo, renderebbe vano il senso

stesso della corporeità, che dice il riferimento essenziale dell’io personale alla

sua storia e al suo mondo.

155

La resurrezione, allora, è l’evento che compie l’uomo nella sua unità

sostanziale di corpo e anima che lo identifica personalmente; perciò quando si

afferma la ricongiunzione dell’anima al corpo nella resurrezione non si vuole

intendere l’atto di ricomposizione di due entità, ma il compimento dell’identità

umana nella totalità delle sue espressioni spirituali e corporee.

Ciò che permane nel trapasso è l’identità personale, l’io, l’anima, nella

complessa relazione che l’uomo intrattiene con Dio. Dal momento, però, che

l’identità personale esiste nella vita storica di una persona, essa è

necessariamente anche identità somatica. A risorgere nell’ultimo giorno (Gv

6,54) sarà l’uomo intero, così come esso è diventato nella figura storica della sua

vita e come Dio lo vede.

La resurrezione comporta per l’uomo la ricapitolazione di quanto ha segnato la

sua vicenda umana di persona intrattenutasi consapevolmente nella relazione con

Dio, con i propri simili e con il suo ambiente mondano. La sua identità, infatti,

viene creata nel fascio di relazioni, negli affetti, in ciò che lo ha fatto veramente

uomo. La resurrezione corporea dell’io spirituale di ognuno è la compiuta

maturazione dell’intera storia personale di ciascuno nel corpo di Cristo risorto; è

il definitivo superamento delle limitazioni antropologiche terrene come

integrazione totale di esse e non come abbandono spersonalizzato di quanto, in

realtà, costituisce la misteriosità della vicenda umana.

Tutti i momenti storici di un uomo che hanno segnato il suo procedere verso la

pienezza, con la resurrezione vengono ritrovati trasfigurati e unificati in Dio, il

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quale è fedele alla sua creazione. Tutto ciò che fa l’identità di uomo, modellato

dalla sua storia terrestre, sarà conservato, pur se trasfigurato. L’essere personale

che si è forgiato, la ricchezza delle sue esperienze, il patrimonio culturale

acquisito nella sua esistenza, tutto questo, che è frutto della grazia di Dio e della

libertà dell’uomo, si conserverà con le capacità di apertura, di relazione e di

comunione così suscitata.

Il paradiso, perciò, sarà il luogo dove si ritroveranno le relazioni umane stabilite

in questo mondo. Dio allora potrà prendere in mano questo essere incompiuto

per dargli nuove dimensioni, in un modo che l’uomo non può immaginare,

perché fondamentalmente incapace di rappresentarsi adeguatamente la corporeità

risorta.

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