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SONO FELICE DI ESSERE TUO PADRE grandangolo UNO SGUARDO SULL’UOMO DI OGGI notiziario d’approfondimento a cura dell’ufficio diocesano per le comunicazioni sociali N.3 MARZO 2015 - Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola Numero in attesa di registrazione San Giuseppe festa del papà

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SONO FELICE DI ESSERE TUO PADRE

grandangoloUNO SGUARDO SULL’UOMO DI OGGI

notiziario d’approfondimento a cura dell’ufficio diocesano per le comunicazioni sociali

N.3 marzo 2015 - Diocesi di Fano Fossombrone Cagli PergolaNumero in attesa di registrazione

San Giuseppe festa del papà

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LA LENTE

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[…] Ogni famiglia ha bisogno del padre. Oggi (4 febbraio 2015, ndr) ci soffermia-mo sul valore del suo ruolo, e vorrei partire da alcune espressioni che si trovano nel Li-bro dei Proverbi, parole che un padre rivol-ge al proprio figlio, e dice così: «Figlio mio, se il tuo cuore sarà saggio, anche il mio sarà colmo di gioia. Esulterò dentro di me, quando le tue labbra diranno parole rette» (Pr 23,15-16). Non si potrebbe esprimere meglio l’orgoglio e la commozione di un padre che riconosce di avere trasmesso al figlio quel che conta davvero nella vita, os-sia un cuore saggio. Questo padre non dice: “Sono fiero di te perché sei proprio uguale a me, perché ripeti le cose che dico e che faccio io”. No, non gli dice semplicemente qualcosa. Gli dice qualcosa di ben più im-portante, che potremmo interpretare così: “Sarò felice ogni volta che ti vedrò agire con saggezza, e sarò commosso ogni volta che ti sentirò parlare con retti-tudine. Questo è ciò che ho voluto lasciarti, perché diven-tasse una cosa tua: l’attitudine a sentire e agire, a parlare e giudicare con saggezza e rettitudine. E perché tu potessi essere così, ti ho insegnato cose che non sapevi, ho corret-to errori che non vedevi. Ti ho fatto sentire un affetto pro-fondo e insieme discreto, che forse non hai riconosciuto pienamente quando eri giovane e incerto. Ti ho dato una testimonianza di rigore e di fermezza che forse non capi-vi, quando avresti voluto soltanto complicità e protezione. Ho dovuto io stesso, per primo, mettermi alla prova della saggezza del cuore, e vigilare sugli eccessi del sentimento e del risentimento, per portare il peso delle inevitabili in-comprensioni e trovare le parole giuste per farmi capire. Adesso – continua il padre -, quando vedo che tu cerchi di essere così con i tuoi figli, e con tutti, mi commuovo. Sono felice di essere tuo padre”. È così ciò che dice un padre saggio, un padre maturo. […]La prima necessità, dunque, è proprio questa: che il padre sia presente nella famiglia. Che sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E che sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quan-do si esprimono e quando sono taciturni, quando osano

e quando hanno paura, quando fanno un passo sbaglia-to e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo stesso che dire controllore! Perché i padri troppo controllori annullano i figli, non li lasciano crescere.Il Vangelo ci parla dell’esemplarità del Padre che sta nei cieli – il solo, dice Gesù, che può essere chiamato vera-mente “Padre buono” (cfr Mc 10,18). Un buon padre sa attendere e sa perdonare, dal profondo del cuore. Certo, sa anche correggere con fermezza: non è un padre debole, arrendevole, sentimentale. Il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi. Una volta ho sentito in una riunione di matrimonio un papà dire: “Io alcune volte devo picchiare un po’ i figli … ma mai in faccia per non avvilirli”. Che bello! Ha sen-so della dignità. Deve punire, lo fa in modo giusto, e va avanti.Se dunque c’è qualcuno che può spiegare fino in fondo la preghiera del “Padre nostro”, insegnata da Gesù, questi è proprio chi vive in prima persona la paternità. Senza la grazia che viene dal Padre che sta nei cieli, i padri perdono coraggio, e abbandonano il campo. Ma i figli hanno biso-gno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno; e il non tro-varlo apre in loro ferite difficili da rimarginare […]

SONO FELICE DI ESSERE TUO PADREDall’udienza generale di Papa Francesco mercoledì 4 febbraio 2015

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SOMMARIO05 “BISOGNA PORTARE

LA FAMIGLIA AL CENTRO DELLA SOCIETÀ”Intervista a Michele Gliaschera, padre di famiglia

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10 PADRE SEMPREI padri separati tra i nuovi poveri

42“IL CANTIERE E LE STELLE”Intervista al responsabile nazionale don Michele Falabretti

grandangoloUNO SGUARDO SULL’UOMO DI OGGI

NUMERO 03

MARZO 2015

Diretto da

ENRICA PAPETTI

Realizzazione grafica

LUCA MISURIELLO

RecapitiTELEFONO 0721/802742EMAIL [email protected]

ATTUALITA’

12 LA CALATA DEGLI HOOLIGANS OLANDESI DEVASTA ROMAIntervista a don Mario Lusek Direttore Pastorale Sport CEI

16 VIDEO ISIS? NO, GRAZIEL’intervento di Vincenzo Varagona, giornalista Rai

18 MEDICI OLANDESI PRONTI PER IL SUICIDIO ASSISTITOIl punto con il dottor Carlo Brunori e la dottoressa Monia Andreani

DAL MONDO

30 LA CRISI ECONOMICAIntervista a d. Francesco Soddu, dir.Caritas Italiana

35 L’ISIS DISTRUGGE LA PROPRIA STORIALa riflessione del presidente Archeoclub Italia Claudio Zucchelli

03 LA LENTE

DALL’ITALIA38 VECCHIE E NUOVE DIPENDENZE

Il punto con la psicologa Alessia Guidi

DALLA DIOCESI

47 SERVIZIO CIVILE IN CARITASIl punto con Laura Paolini

46 FESTA DI SAN GIUSEPPE LAVORATORELa S.Messa in fabbrica celebrata dal Vescovo. Uno sguardo all’occupa-zione nel nostro territorio

49 GIORNATE DEI MUSEI ECCLESIASTICIIntervista al delegato Marche Giu-seppe Cucco e presentazione del Crocifisso ligneo restaurato

FOCUS DONNA54 LO SGUARDO DELLA DONNA

Assemblea diocesana per operatori pastorali

56 STARTUP INNOVATIVE: UNA SU OTTO È DONNA La fotografia scattata a fine gennaio 2015 da Unioncamere

58 UNA “QUOTIDIANITÀ VIOLENTA”Il Centro Antiviolenza provinciale si racconta

OBIETTIVO MEDIA64 LA TELEVISIONE ITALIANA

FRA LUCI E OMBREIntervista a Lorenzo Lattanzi presidente Aiart Marche

70 YOUTUBE COMPIE 10 ANNILa piattaforma web e le sue contraddizioni

24GLI ITALIANI NEL MONDONel 2013 si sono trasferiti all’estero 94.126 abitanti del Belpaese

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“BISOGNA PORTARE LA FAMIGLIA AL CENTRO DELLA SOCIETÀ”Intervista a Michele Gliaschera, padre di famiglia

In occasione della festa del papà, abbiamo voluto intervistare Michele, padre di fa-miglia, che ogni giorno, insieme a sua mo-glie Ilaria, vivono appieno la sfida di essere genitori oggi. A lui abbiamo chiesto che

cosa significa essere padre nella nostra società e quali sono le difficoltà che i genitori di oggi sono chiamati ad affrontare.

Nell’udienza generale del 4 febbraio scorso Papa Francesco si è soffermato, come in quella precedente, sulla figura del padre. “Non si po-trebbe esprimere meglio – ha affermato Papa

Francesco - l’orgoglio e la commozione di un padre che riconosce di avere trasmesso al figlio quel che conta davvero nella vita, ossia un cuo-re saggio. Questo padre non dice: “Sono fiero di te perché sei proprio uguale a me, perché ri-peti le cose che dico e che faccio io”. No, non gli dice semplicemente qualcosa. Gli dice qualco-sa di ben più importante, che potremmo inter-pretare così: “Sarò felice ogni volta che ti vedrò agire con saggezza, e sarò commosso ogni volta che ti sentirò parlare con rettitudine”. A volte, i padri vorrebbero che i figli fossero “a loro im-magine e somiglianza” e che magari raggiun-

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gessero, nel lavoro e nella vita, gli obiettivi che loro stessi non hanno potuto raggiungere. Che padre ti senti di essere per tuo figlio?Parto dal penultimo capoverso della domanda perchè ritengo che tale affermazione sia la più grande sconfitta, in termini educativi, che un pa-dre possa conseguire.Purtroppo è diventa-ta quasi la normalità. L’insicurezza, le scon-fitte, la rabbia che i genitori covano den-tro si riversano come uno tsunami sui figli. Stravolgono le perso-nalità e le inclinazioni dei loro figli. Ho sempre pensato che il genitore debba far germogliare e svi-luppare le inclinazioni e le passione dei pro-pri figli. Deve guidar-li alla loro scoperta e aiutarli nella loro rea-lizzazione.A questo punto molti diranno, facile a dir-si difficile a farsi, penso proprio di no. Ritengo che l’obiettivo sia di difficile conseguimento solo perchè, in realtà, cerchiamo di raggiungerlo con la ragione e non con il cuore. La vera anima del bambino non si rivela dicendo sempre si o asse-condandolo in ogni cosa, ma camminando al suo fianco, non come un amico ma come colui che lo sprona a tentare, a provare e a buttarsi nella vita, pronto a rialzarlo ed aiutarlo nel momento in cui prenderà i primi scivoli.

Se essere genitori è considerato “il mestiere più difficile del mondo”, oggi come oggi lo è ancora di più. Come è cambiato, secondo te, il rappor-

to con le nuove generazioni? I genitori riesco-no ad essere al passo con i tempi?Lo è nella misura in cui vogliamo cambiare l’in-dole dei nostri figli e aggiungo siamo iperprotet-tivi rispetto ai pericoli del mondo in cui viviamo.Mi soffermo sul secondo aspetto. Molte delle difficoltà che si incontrano sono legate all’iper-

protettività nei loro confronti. Abbiamo paura di tutto, ogni cosa ci terrorizza. Ogni cosa è vista come il demonio che in qualche modo mette in pericolo la loro vita e il loro futuro.Per me non è così. Con questo non voglio dire che i pericoli non esistono, anzi al contrario sono pienamente consapevole che i pericoli ci sono e probabilmente sono molti di più di quelli dell’i-nizio del secolo scorso. Il problema vero per me è che questi spaventano noi genitori e non sappia-mo come affrontarli ed anche il fatto che ormai qualsiasi cosa è vissuta come un problema ed una minaccia. Ormai è tutto un problema, anche le cose più ba-

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nali. Ore e ore di conferenze sulla questione se sia giusto o meno utilizzare il telefono ad 11 anni o 12 quando basterebbe fare usare il telefono ai bambini con moderazione e controllando come e dove viene utilizzato (ma questo ha bisogno di tempo da spendere per loro). Nessuno è disposto a fermarsi e capire se effettivamente è un pericolo e se tale lo si ritiene nessuno si sofferma a pensare come affrontarlo per eliminarne le cause o per renderlo il più innocuo possibile. A volte le scelte dei figli non sono sempre con-divise da parte dei genitori. Ci si scontra, si di-scute e si cerca di correggere ciò che secondo il genitore è sbagliato. Ma spesso anche le corre-zioni sembrano essere fraintese e la voglia di ribellione prevale. Come si possono conciliare entrambe le cose, ovvero la “correzione” e la li-bertà da parte dei figli di fare le loro scelte?In realtà, penso sia la parte più bella dell’essere genitore. E’ la parte che risveglia quella giovinez-za/freschezza che ognuno di noi si porta dentro. Non capisco perché, ma ad un certo punto della vita tutti dimentichiamo di essere stati piccoli e adolescenti. La voglia di ribellione, lo scontro con il genitore, la voglia di emergere sul padre e sulla madre, fanno parte del normale iter evolutivo di

un bambino/ragazzo. Il punto delicato della que-stione è quanto noi genitori vogliamo metterci in gioco, quanto tempo siamo disposti a perdere per loro. Dire NO è facile, dire SI sapendo che devi stargli dietro perché sai che può cadere e devi es-sere pronto ad attutire il colpo è difficile. Quanti genitori dicono NO perché così facendo elimina-no una preoccupazione? Quante volte la frase “è per il loro bene”, in realtà nasconde il peso di se-guire il figlio e di camminare al suo fianco pronti ad attenuare la caduta? Attenzione però, i NO sono necessari e guai a non dirli. Un NO detto al momento giusto fa crescere e fortifica.

Molto spesso, soprattutto ultimamente, le fa-miglie salgono alla ribalta della cronaca nera per fatti di una crudeltà inaudita. Mi riferisco a madri che uccidono i figli, padri che stermi-nano la famiglia e poi si suicidano. Eppure, guardandole dal di fuori, sembrano famiglie “normali”. Ed è proprio questo che ti chiedo: esistono, oggi, famiglie cosiddette normali?Tutte sono famiglie normali fino a quando non si scatena quel qualcosa che le fa diventare anor-mali.Forse su questo punto un esame di coscienza do-vremmo farcelo tutti. Perché tutti siamo chiama-

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ti a rispondere di quella tragedia. Personalmente ritengo che una riflessione attenta a livello so-cio-politico vada fatta. Le famiglie in difficoltà sono in forte aumento; molte non arrivano a fine mese, famiglie monoreddito magari con mutui o affitto da pagare, molte sono famiglie numerose e diverse sono famiglie formate da coppie giova-ni con figli piccoli, magari con un lavoro preca-rio. Ognuna di queste situazioni ha bisogno di essere trattata in un capitolo dedicato in quanto presentano problematiche e soluzioni diverse da affrontare.Quello che mi rattrista e mi fa riflettere è la soli-tudine e l’indifferenza nelle quali accadono que-ste tragedie. Come è possibile che nessuno si sia accorto della disperazione di queste famiglie? Al di là dei fenomeni di pazzia improvvisa, arriva-re a togliersi la vita o uccidere un figlio implica un travaglio interno enorme; bisogna superare l’istinto di autoconservazione della specie insito in ogni essere vivente. Bisogna, come spesso sot-tolineato dal Santo Padre, mettere al centro del nostro vivere la famiglie, creare delle reti di pro-tezione ad hoc.

Quali sono le difficoltà e le sfide che i padri di oggi sono chiamati ad affrontare?

Né più e né meno di quelli di sempre. Le difficol-tà e i problemi sono cambiati, hanno altri nomi ma vanno affrontati come sempre l’uomo ha fat-to. La frase che mi è rimasta impressa è quella che in un modo o in un altro ho sempre sentito dire: non è più come una volta. Ma questa la sen-to ripetere ad ogni vecchia generazione e si tra-manda di padre in figlio. Ogni tempo, come già detto, ha le sue problematiche, basta solo volerle affrontare con la giusta dose di sacrificio.Forse la vera sfida moderna è quella come sopra detto del rimettere al centro della nostra società la famiglia. Famiglia intesa come patrimonio di valori e di amore.

Il Papa ha sottolineato più volte, nella sua ri-flessione, l’importanza di padri presenti all’in-terno della famiglia, presenti. “Dire presente non è lo stesso che dire controllore! Perché i padri troppo controllori annullano i figli, non li lasciano crescere”. Ti senti di condividere questo pensiero?Tutte le risposte fin qui date impongono la pre-senza del padre. Tutto quello che sino ad ora ho detto non avrebbe senso e sarebbe inattuabile senza la presenza del padre. Di conseguenza non posso che fare mio il pensiero di Papa Francesco

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e sperare di mantenere fede al mandato di geni-tore che, con la nascita di mio figlio, ho ricevuto.

A volte, la figura del padre viene messa in se-condo piano. Come può, secondo te, la figura paterna tornare ad avere un ruolo importante e ben preciso nella società?Negli ultimi 40 anni la figura paterna ha subi-

to una pesante trasformazione negativa. Oggi in molti casi è venuta a mancare la figura norma-tiva del padre sostituita interamente dalla figura affettiva che storicamente è stata ricoperta dalla madre.Come si può porre rimedio a questa situazione? Solo la donna in quanto madre può ristabilire l’e-quilibrio. Solo attraverso la madre la figura del padre può essere rivalutata e rimessa al centro dell’educazione familiare. La chiave di volta della struttura educativa della famiglia è la stima tra i genitori. Più i due genitori si stimano e più le due figure, padre e madre, vicendevolmente, acquiste-ranno volare agli occhi del bambino.Concludo con un frammento di un bellissimo

pensiero di Don Oreste Benzi il quale diceva: “….i figli conosceranno il padre attraverso gli oc-chi della madre……” è tutto qui il segreto perché la figura paterna possa tornare ad avere un ruolo importante e ben preciso nella società.

Le problematiche e le questioni poste da Michele sono comuni a molti padri di famiglia della no-

stra diocesi (e non solo) che, in occasione della fe-sta del papà, si sono in-contrati al Santuario di San Giuseppe in Spicello per dialogare insieme e capire cosa significa es-sere padri nella società di oggi. La parola chiave di questo confronto, ricco di spunti interessanti sui quali riflettere, è stata equilibrio. Un concetto, se vogliamo, molto de-licato quanto profondo. Equilibrio nel dare f i-ducia ai propri f igli, del

dare loro regole, nel saper dire a volte dei sani no che possono farli crescere e diventare adulti più responsabili nelle scelte che dovranno affrontare nella vita. Pochi no – come ha ribadito il diacono Carlo Berloni direttore, insieme alla moglie Ni-coletta, dell ’uff icio diocesano di pastorale fami-liare – ma costruttivi, ben fermi, detti con amore e per il bene dei f igli. E ancora, l ’importanza di far respirare, ad iniziare dalla casa, alle nuove generazioni il profumo di Dio che si diffonde grazie all ’esempio e alla testimonianza quotidia-na della nostra fede.

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PADRE SEMPREI padri separati tra i nuovi poveri. Ne parliamo con Luana Mastrogiacomi

I padri separati sono i nuovi poveri. Lo sot-tolinea anche il Rapporto 2014 della Ca-ritas Italiana sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia “False Partenze”. “La se-parazione e il divorzio - si legge nel Rap-

porto - portano con sé (anche) una ridefinizione dei rapporti con i figli che non si pone nello stesso modo per i padri e per le madri; questo non solo perché durante il matrimonio gli uni e le altre avevano per lo più differenti responsabilità e mo-dalità di rapporto e presenza con i figli; ma an-che perché dopo la separazione mentre le madri si trovano spesso a fronteggiare la quotidianità della presenza dei figli e della responsabilità nei loro confronti, i padri, viceversa, sono obbligati a ridefinire i rapporti in assenza della quotidianità (anche dopo l’introduzione della legge sull’affido condiviso).

Con la stessa intensità con cui la letteratura si sofferma sugli svantaggi economici delle donne a seguito della separazione, approfondisce il tema tutto al maschile delle ricadute sul rapporto con i figli, tanto da parlare in alcuni casi anche di crisi

del rapporto padre-figli. Anche nella rilevazione condotta sui servizi Caritas/CFC si evince che la separazione influisce negativamente sul rapporto tra padri e figli; il 68% degli ex mariti intervistati riconosce un cambiamento importante a seguito della separazione (a fronte di un cambiamento percepito solo dal 46,3% delle donne). E tra loro il 58,1% denuncia un peggioramento nella qua-lità dei rapporti (le madri al contrario riconosco per lo più un miglioramento)”. Per far fronte, in parte, a questa problematica, due anni fa, preci-samente il 17 marzo, è stata inaugurata a Fano la nuova struttura d’accoglienza per padri separati “Padre Sempre”, struttura adiacente alla parroc-chia San Cristoforo.

Abbiamo chiesto a Luana Mastrogiacomi, re-ferente del progetto della Caritas diocesana, di spiegarci l’importanza di questa struttura e di fare un bilancio di questi due anni.

I padri separati sono considerati fra i nuovi po-veri. Quali sono le loro principali problemati-che dopo la separazione?

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IN COPERTINA

La condizione dei padri separati che abbiamo co-nosciuto al Centro di Ascolto (Cda) della Caritas Diocesana in questi anni è diventata sempre più complessa tanto che si può definirla “nuova po-vertà” vista l’impossibilità di provvedere in auto-nomia alla gestione di una vita tradizionale, ma non essendo riconosciuta come una condizione di svantaggio sociale viene sottovalutata. Il carico di problemi che si trovano ad affrontare sono di varia natura: la necessità di trovare un altro allog-gio e magari continuare a pagare un mutuo che grava sulla “casa di famiglia”, affrontare le spese legali della separazione, provvedere al manteni-mento dei figli, incontrare i figli solo durante i giorni di visita per mantenere un rapporto di vi-cinanza e garantire una presenza nella vita e nella loro crescita. Tutto questo per alcuni è ancora più complesso quando non c’è la fortuna di una rete famigliare di supporto.

Avverti, nonostante i due anni di attività di “Padre Sempre”, ancora un certo pudore nel chiedere aiuto da parte dei padri separati?In questi 2 anni che ricorrrono dall’inaugura-zione della casa d’accoglienza “Padre Sempre”

abbiamo ascoltato 17 per-sone, con un’età media di 59 anni,sprovvisti di una rete parentale a supportarli per-chè emigrati dalla loro città di nascita. I dati del Centro di ascolto diocesano conferma-no che i separati che si sono presentati a chiedere aiuto al Cda sono passati dal 10.1% del 2012 al 13 del 2014 quin-di il problema dell’impoveri-mento tra i separati è in cre-scita. Il fatto più difficile da sopportare in questa situazio-ne è data dalla mancanza di riconoscimento, da parte del-le istituzioni pubbliche, che

il problema separazione ha ormai assunto una rilevanza sociale. Questo rende perciò impossibi-le poter contare su un sostegno economico, uno sgravio fiscale che potrebbe alleviare le spese che mensilmente si devono affrontare e soprattutto per avere una speranza di uscire da una situazione difficile.

Quali requisiti bisogna avere per accedere a questo servizio della Caritas diocesana?I requisiti delle persone che possono far doman-da per la casa Padre Sempre sono: uomini sepa-rati/divorziati che stiano ottemperando al man-tenimento dei figli minori o ex coniuge; capacità reddituale o possibilità di trovare un impiego; di-sponibilità alla definizione di un progetto in cui l’ospite s’impegni per primo a recuperare la sua autonomia; residenza preferibilmente nel territo-rio diocesano. È cura del Centro d’ascolto dio-cesano, dei volontari della Caritas parrocchiale di San Cristoforo affiancarsi alle persone accolte per un’integrazione con la comunità parrocchiale e con le risorse del territorio.

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ATTUALITA’

“Il Perfetto Nord ha dato il peggio”. Questo il titolo dell’articolo ap-parso sul SIR nei giorni scorsi in merito alla calata degli ultras olan-desi del Feyenoord che, nella serata

di mercoledì 18 febbraio, hanno messo a ferro e fuoco Roma in vista della partita che si sarebbe giocata all’Olimpico. Una guerriglia costata 10 agenti e tre tifosi olandesi feriti, numerosi arre-sti e la barcaccia di Piazza di Spagna danneg-giata. Uno scempio totale nel cuore della città. “L’immagine della scalinata di Trinità dei Monti – riporta l’articolo del SIR - presidiata dalla for-ze dell’ordine e dei vandali olandesi che bevono fiumi di birra, orinano nella fontana, barcollano con sguardo allucinato tra i turisti spensierati e i cittadini preoccupati, non sarà dimenticata tanto facilmente dai romani che l’hanno vista e vissuta, con il malessere di un guaio imminente annun-ciato”. E i social network iniziano a riempirsi di “proces-si mediatici”. Subito il riferimento alle minacce dell’Isis o meglio se non riusciamo a far fronte agli ultras, come potremmo farlo ai “tagliagole”?

Ritornando, a distanza di un mese, sui fatti di Roma, abbiamo intervistato Mons. Mario Lusek, direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport CEI.

Don Mario, che cosa hanno a che fare i fatti di Roma con lo sport o meglio perché il tifo per la propria squadra deve necessariamente sfociare in episodi di violenza?Viviamo in una “modernità liquida”, un tempo di grande instabilità. Un tempo dove non c’è più niente di solido, anche perché il tempo corre così veloce che nulla ha la necessità di solidificarsi.Il disorientamento dei giovani e degli adulti è diffuso e porta anche a conseguenze pesanti e pe-ricolose: violenza, disaffezione, nichilismo, ecces-so, sballo. C’è chi viene convinto, da certi modelli educativi e culturali che s’infiltrano anche nelle tifoserie, a sentirsi schiavo del niente, e si trova annoiato di tutte le cose che ha in mano e, ogni tanto, come colto da una rabbia strana, diventa capace di violenza senza darsene una ragione. Alle radici della contaminazione violenta dello sport c’è questo ma anche altre ampi e molteplici

LA CALATA DEGLI HOOLIGANS OLANDESI DEVASTA ROMAIntervista a don Mario Lusek direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport CEI

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ATTUALITA’

LA CALATA DEGLI HOOLIGANS OLANDESI DEVASTA ROMAIntervista a don Mario Lusek direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport CEI

cause. Sappiamo tutti che ogni gesto violento è l’evolversi di un percorso: c’è una incubazione di aggressività che inizia molto prima dell’evento sportivo ma che trova in esso uno spazio “idea-le” per manifestarsi soprattutto quando l’evento sportivo è l’unico parametro di vita del tifoso che vive, parla, agisce, si interessa solo e soltanto dell’evento. Non ha altri parametri di vita, altri luoghi di socialità e di educazione, altri interessi. Per cui l’identità del tifoso ultras è predisposta già allo scontro dal suo bagaglio esistenziale, dal suo lessico, dalle norme, ragioni, valori e atteg-giamenti consolidati in lui. E chi dire dell’osses-

siva ricerca di forti sensazioni e trasgressioni che si provano negli atti vandalici come successo a Roma, gli scontri, gli insulti, le provocazioni? C’è anche nello sport una concausa: l’esasperazione dell’agonismo per cui vincere, battere l’avversa-rio, e farlo ad ogni costo, è la ragione assoluto del tifare.

Questi fatti in che modo possono e devono in-terrogare il mondo cattolico e in particolare la pastorale dello sport?Ci confermano ancor di più nell’idea che lo sport non è un idolo o una ragione di vita ma che ha una funzione enorme nel promuovere la vita. La Chiesa esperta in umanità, riconosce da sempre allo sport un’autentica possibilità di valore e ac-credita al mondo dello sport un vero e proprio compito educativo, una valenza spirituale e cul-turale, una feconda opportunità per supportare lo sforzo pedagogico delle varie agenzie educative. Per questo la visione cristiana dello sport va in-terpretata e proposta in tutte le sue valenze; ri-chiede educatori e animatori dotati appunto di “vocazione educativa”; rimanda a valori perenni

che mettano al centro la persona, principio im-prescindibile per uno sport per l’uomo. Questo esige che il “luogo” dello sport sia inserito in un “ambiente di vita” ricco di risorse umane e per quel ci riguarda di virtù cristiane.

Nel discorso alle delegazioni nazionali delle squadre di Calcio il 13 agosto 2013 Papa Fran-cesco afferma: “Uno sportivo, pur essendo pro-fessionista, quando coltiva questa dimensione di “dilettante”, fa bene alla società, costruisce il bene comune a partire dai valori della gratuità, del cameratismo, della bellezza”. Alla luce di ciò, come si possono educare le nuove genera-zioni ad un “uso corretto dello sport” per far sì che episodi come quelli di Roma non accadano più?È vero anche lo sport si è fatto sporco e non solo a causa della violenza ma anche di azzardopo-li, scommessopoli, calciopoli. Sono tutti segnali che la visione mercantile della vita ha raggiunto l’anima ed ha inquinato un po’ tutto il tessuto so-ciale e che anche settori che richiamano i valori della festa, della gioia, dell’entusiasmo della pas-sione tipici di un tifo “sano” non riescono più a soddisfare o dare risposte al desiderio di vita e di felicità di tanti. Siamo interpellati e chiamati non a produrre risultati, spettacolo, ma ad edu-care, educare, educare ancora. Soprattutto a dare retta al papa e riproporre quella dimensione del-lo sport che non “tira più”, il dilettantismo, che lui ha chiamato lo “spirito dell’amateur”. Non possiamo omologare la proposta sportiva degli oratori, delle associazioni sportive d’ispirazione cristiana, delle parrocchie ai vari sistemi domi-nanti e risultare de-qualificata o Dio non voglia squalificata: spazi, luoghi, progetti, iniziative del-

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ATTUALITA’

la comunità cristiana siano veramente alternativi, inclusivi, aperti a tutti avendo chiaro il modello di persona alla quale ci rivolgiamo e quale società vogliamo contribuire a costruire.

Perché lo sport, e mi riferisco in particolare al mondo del calcio, sta diventando sempre di più un luogo di divisione piuttosto che di aggrega-zione? Quanto contano in tutto questo l’indi-vidualismo, l’arrivismo, la voglia di vincere a tutti i costi?Lo sport è uno specchio della società:“guardate come gioca una generazione e vi troverete la chiave interpretativa della società” (McLuhan). Nel calcio la questione si va più evidente perché la sua cul-tura è dominata dal virtuale, dall’apparenza, dalla spettacolarizzazione, dal sensazionale, dalla com-petizione, dal denaro facile, da un agonismo sen-za misura e dall’affermazione di sé. La spettaco-larizzazione dello sport nella società dei consumi ha assimilato il calcio all’industria dello spetta-colo, riducendolo a puro oggetto di consumo per le masse. Di conseguenza il ruolo degli spettatori dello spettacolo sportivo, fatto di rituali comples-si (vedi le tifoserie) in cui si celebrano le metafore dominanti la vita sociale, fanno del calcio uno sport in cui convergono le tendenze conflittuali della società che in esso possono essere anticipate o radicalizzate o rese teatrali.

Quali sono le sfide che attendono la pastorale dello sport?Lo sport è di casa nella Chiesa. Lo ha detto an-che Papa Francesco prima di Natale ai massimi dirigenti dello sport italiano. Perché il suo valo-re educativo è insito nella visione cristiana dello sport. È una visione che può essere condivisa da tutti e dovrebbe coinvolgere tutti: dai tecnici ai medici, ai dirigenti, ai procuratori; dagli allenato-ri agli accompagnatori; dai giornalisti agli opera-tori televisivi. Lo sport di oggi ha bisogno • di idee solide,

• di principi cristallini, • di linguaggi vigilati, • di esemplarità che si concretizzano a partire dalle piccole socie-tà, dai vivai, dai settori giovanili fino ai grandi club. Ma anche nei nostri spazi ecclesiali. È at-traverso l’educazione e la cultura che si cambiano comportamenti, linguaggi, attese e programmi. Ma anche agli atleti è chiesto molto: • non devono vivere nell’inganno, • credere nei falsi valori, come se fosse invi-

schiati in un doping esistenziale e inelutta-bile.

Cambiare mentalità significa anche scegliere modelli credibili, formarsi un’idea corretta circa lo sport che è sempre e comunque confronto lea-le, trasparente e faticoso.Non è forse lo sport che educa• alla disciplina (difesa contro le abitudini ne-

gative e l’inattività)• alla capacità di saper soffrire (la costruzione

del carattere, il valore della fatica in vista di uno scopo)

• all’amicizia (il gioco di squadra)• al perfezionamento (acquisire nuove capacità,

sentirsi più efficienti, stare meglio con gli al-tri, accrescere il proprio livello di maturità e di umanità, perfezionamento...)

• al rispetto delle regole, cioè al “come giocare” nella vita costruendosi un sistema di valori

• al saper vincere e al saper perdere (l’errore, il fallimento, l’insuccesso ci rende più consape-voli di noi stessi e il desiderio di migliorare)?

La Chiesa sa di poter dare allo sport moderno un’anima: una percezione alta dei valori di riferi-mento che sorreggono la pratica sportiva, accre-scano passione e favoriscano il pieno compimen-to della persona.Per non cadere nella tentazione del doping, della violenza, del denaro occorre la forza ideale che viene da una solida formazione ai valori umani e ai valori dello spirito.

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ATTUALITA’

Secondo i dati del Rapporto 2014 dell’Osservatorio Nazionale sulle Ma-nifestazioni Sportive, le adiacenze dello stadio si confermano il punto più deli-cato per la gestione dei servizi di Ordine

Pubblico. Il 69% degli scontri, infatti, avvengono proprio nelle immediate vicinanze dell’impian-to sportivo mentre il 16% all’interno degli sta-di (perlopiù di serie minori). In ambito urbano (nelle piazze delle città, nelle strade che portano allo stadio o nei locali pubblici) si è registrato il 12% degli scontri mentre solo nel 3% dei casi si sono registrati episodi in ambito ferroviario (sta-zioni ferroviarie). Il 91% degli scontri avvengono prima (57%) e dopo (34%) la gara mentre solo il 9% durante la stessa. L’astio tra tifoserie è il mo-tivo principale degli scontri (81%), seguito dalla conflittualità con le Forze dell’Ordine (14%) e dagli episodi di vandalismo (5%). Per quanto ri-guarda le tifoserie più astiose, quelle della Roma (coinvolta in 5 episodi di violenza), Fiorentina, Napoli e Verona Hellas (rispettivamente in 4),

Atalanta (3), Nocerina e Spezia (2). Queste 7 tifoserie (sulle 41 responsabili di scontri – pari al 17%), sono responsabili del 41% degli scontri registrati (24 su 58).

Se ci soffermiamo sui D.A.SPO. sul territorio nazionale, ovvero il Divieto di Accedere alle ma-nifestazioni SPOrtive, al 19 giugno 2014, sull’in-tero territorio nazionale risultano attivi 5043 provvedimenti D.A.SPO., di cui 4763 emessi in occasione di partite di calcio, 123 nel basket, 64 nel motociclismo, 25 nell’hockey, 21 nell’auto-mobilismo,19 nel calcetto, 7 nel tennis, 5 nell’ip-pica, nel pugilato e nel rugby, 2 nella pallavolo e nella pallamano e 1 nel ciclismo e nella pal-lanuoto. La più alta percentuale di tifosi sotto-posti a D.A.SPO. – si legge ancora nel rapporto - si concentra nella fascia di età che va dai 18 ai 30 anni (55,6 % dei provvedimenti emessi nella stagione), e comunque le persone sotto i 40 anni sono, in assoluto, quelle più colpite (la percentua-le è pari a 82,6)

I DATI DELL’OSSERVATORIO NAZIONALE SULLE MANIFESTAZIONI SPORTIVEL’astio tra tifoserie è il motivo principale degli scontri

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ATTUALITA’

VIDEO ISIS? NO, GRAZIEL’intervento di Vincenzo Varagona, giornalista RAI

Con un editoriale, lo scorso febbraio il direttore di RaiNews24, Monica Maggioni, ha spiegato la scelta di non pubblicare più video di propaganda dell’Isis. “Una regia sapiente, quella dei jihadisti – si legge sul sito di RaiNews24 - alla quale abbia-mo deciso di non fare più da cassa di risonanza mediatica. Le notizie saranno comunque trattate - con foto e/o fermo immagine - e raccontate nei loro contenuti, ma senza dare più spazio ai fil-mati prodotti e diffusi dall’Isis. Concordi con la scelta della giornalista Maggioni, anche Ordine dei giornalisti e Consiglio nazionale degli utenti che dicono basta alla “ripetuta messa in onda” dei video propagandistici dell’Isis “da parte di alcu-ne emittenti televisive e testate giornalistiche on line”.

La riflessione di Vincenzo Varagona, giornalista RAI

Chi ha una certa età, quando ha visto l’editoriale con cui Monica Maggioni ha annunciato la scel-ta editoriale della sua testata, Rainews, di non pubblicare i filmati forniti dall’Isis, é tornato con la memoria alla primavera 1978, alle drammati-che settimane che passarono tra il 16 marzo e il 9 maggio, tra il rapimento di Aldo Moro in via Fani e il ritrovamento del suo corpo in via Caeta-ni, nella famosa e marchigiana Renault rossa. In quelle settimane, che pure segnarono il tormento di Paolo VI, amico personale di Aldo Moro, con la sua famosa lettera alle Brigate Rosse, si creò una situazione per molti versi analoga a quella di oggi. Le Brigate Rosse uscivano periodicamente con comunicati che erano notizie di straordinaria

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ATTUALITA’

rilevanza giornalistica, pur suscitando la naturale indignazione dell’opinione pubblica. Il quotidia-no La Repubblica, fondato da Eugenio Scalfari appena due anni prima, prese la sofferta ma con-vinta decisione di non assecondare la propaganda brigatista. Una decisione che si ripropose con lo svilupparsi della strategia della tensione. Ricor-diamo l’assassinio di Massimo D’Antona e l’arti-colo su Repubblica di Mario Tedeschini Lalli, in cui cita il direttore Ezio Mauro: “Noi - ha spie-gato il giorno dopo l’attentato - abbiamo deciso di dare il senso del documento, un senso molto breve soltanto per informare l’opinione pubblica. Ma abbiamo scelto di non riportare le tesi e il linguaggio, che, fra l’altro, ci sembrava di scarso interesse, perché molto aggrovigliato. Pubblicar-ne ampi stralci o, peggio, darne conto quasi inte-gralmente sarebbe una pura operazione di pro-paganda”. Esattamente quanto, giorni fa ha detto la Maggioni. Cambiano le stagioni, la tecnologia offre scenari diversi: i comunicati BR diventano i video comunicati ISIS; l’editoriale di Repubblica diventa il video editoriale della Maggioni. Ma la sostanza non cambia. Non cambia la sofferenza con cui la categoria mette in discussioni uno dei suoi assiomi di fondo: la notizia, quando esiste, va data, anche se scomoda, anche se contraddice o nega la linea editoriale della testata. Tutto questo mi fa venire in mente una discussione nata in una delle prime edizioni del seminario ‘Redattore Sociale’ a Capodarco: io sostenevo la tesi secondo la quale il giornalista non può limitarsi a dare le notizie che gli arrivano. Un collega dell’Ansa di Potenza mi apostrofò con asprezza: “già il nostro lavoro è complicato, se dobbiamo anche analiz-zare il carico di responsabilità che comportano, le nostre edizioni chiuderebbero”.

Eppure, senza scomodare le Brigate Rosse o l’I-sis, la cronaca quotidiana e piena di esempi che meriterebbero adeguata riflessione. Ricordo un tempo in cui esisteva nelle Marche un tacito ac-

cordo etico sul fatto che questo genere di notizie non si pubblicava. Poi alla metà degli anni ‘80 ar-rivò nel mercato un giornale nuovo, che per farsi spazio ruppe questo equilibrio. Quel giornale è sparito, come una meteora, pochi anni dopo, ma l’equilibrio non si è più ricomposto. C’è stata una degenerazione qualitativa e anche etica che non è riuscita a recuperare quei margini di delicatezza che secondo me sono fondamentali nel modo di porsi di un giornale al proprio pubblico. Vedo nel gesto della Maggioni certo non una novità, ma un atto più di coraggio che di debolezza. Credo, in conclusione, nella capacità di crescere, nell’auto-nomia della, professione, nel suo coraggio anche se appare come una debolezza, nella sua capacità di lavorare affinché nasca una nuova stagione, di consapevolezza, responsabilità, verità.

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ATTUALITA’

MEDICI OLANDESI PRONTI PER IL SUICIDIO ASSISTITOIl punto con il dottor Carlo Brunori, direttore dell’hospice di Fossombrone

“Non somministrerò ad al-cuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna don-

na io darò un medicinale abortivo”. Queste poche righe sono estrapolate dal Giuramento di Ippo-crate che viene prestato dai medici-chirurghi e odontoiatri prima di iniziare la professione. Ma, oggi come riporta l’articolo di Emanuela Vinai pubblicato sul SIR, secondo un sondaggio pub-blicato sul “Journal of Medical Ethics”, circa un medico olandese su tre prenderebbe in conside-razione una richiesta di suicidio assistito da per-

sone con demenza a uno stadio iniziale, con ma-lattie mentali o “stanche di vivere” per una grave patologia. Ecco il frutto della costante propagan-da del suicidio assistito “altruistico”. “Con buona pace del Giuramento di Ippocrate, infatti – scrive la Vinai - invece di aiutare a guarire chi si rivolge a loro, la maggior parte dei medici (86%) pren-derebbe in considerazione l’opzione di accompa-gnamento definitivo, per la maggior parte dei casi in situazioni legate a una malattia oncologica, ma con uno preoccupante 34% che si dichiara pron-to a far morire anche pazienti con una malattia mentale. Non solo, c’è anche un 27% (oltre 1 su 4) che si dice disponibile ad assecondare richieste

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ATTUALITA’

che provengono da persone stanche di vivere in presenza di una condizione medica grave. “Ogni camice bianco” - ha commentato l’autore prin-cipale della survey, Eva Bolt dell’Emgo Institu-te for Health and Care Research di Amsterdam (Vu University Medical Center) - “ha bisogno di modellare il proprio punto di vista sull’eutanasia, sulla base di confini legali e valori personali. Con-siglieremmo alle persone con questo desiderio di discuterne in tempo con il proprio dottore, men-tre ai medici suggeriamo di essere chiari sul loro punto di vista al riguar-do”. Siamo bombardati da spot e da campagne promozionali che esal-tano l’autodetermina-zione assoluta a poter scegliere di porre fine alla propria vita quan-do e come si vuole. E le cronache ci dicono che basta solo passare il confine svizzero per morire “on demand”.

Abbiamo riflettuto sulla questione insie-me al dottor Carlo Brunori, Responsabile clini-co U.O. Hospice Fossombrone, ASUR Marche, ZT3 Fano, che ogni giorno si trova a contatto con malati “inguaribili ma non incurabili”. Nella struttura operano tre medici palliativisti, sei in-fermieri, sei OSS (Operatrici Socio-Sanitarie), una caposala e uno psicologo. Nel 2014 l’hospice di Fossombrone ha ospitato 187 malati oncolo-gici terminali adulti con una degenza media di tredici giorni. “Che cosa c’è dietro la richiesta di eutanasia? Sicuramente – risponde il dottor Bru-nori – la non presa in carico del bisogno del pa-ziente. La malattia oncologica, così come quella mentale, può far paura, il malato, oltre al timore di soffrire, non vuole essere più un peso per la

propria famiglia. Da qui la decisione di farla fi-nita. Come medici palliativisti ci siamo battuti e ci stiamo battendo ancora oggi affinché l’accesso alle cure palliative sia garantito a tutti per miglio-rare la qualità della vita dei malati “inguaribili ma non incurabili”. Ci tengo a precisare, infatti, che inguaribilità non è sinonimo di incurabilità e che se a un malato, pur nel suo stato terminale, viene alleviato il dolore, migliorerà di conseguenza an-che la qualità della vita e non si arriverà a dover pensare a eutanasia o suicidio assistito. Le cure

palliative non sono più ri-volte alla malattia di base, ma contro i sintomi che la malattia di base provo-ca per far sì che il paziente possa vivere meglio”. Fa-cendo riferimento alla sua esperienza personale, il dottor Brunori si è soffer-mato su un aspetto fonda-mentale ovvero il rapporto con i familiari. “Quando un caro ha una malattia inguaribile viene inevita-bilmente coinvolta tutta la famiglia che soffre, ogni

giorno, con il malato. La nostra struttura, grazie al supporto dello psicologo, è sempre vicina alla famiglia e, inoltre, se vi è un’elaborazione difficile di un lutto le porte dell’hospice sono aperte per quanti lo desiderano”.

Parlare di certe malattie, come ad esempio quel-le oncologiche, è ancora un tabù? “Oggi come oggi – afferma il dottor Brunori – lo è sempre di meno. La consapevolezza della diagnosi sta aumentando, sempre più pazienti pretendono di essere informati sullo stato della propria malattia. Ciò su cui bisogna ancora lavorare è la consape-volezza nel malato della gravità della prognosi di cui, invece, è sempre informata la famiglia”.

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ATTUALITA’

“UN APPROCCIO GLOBALE ALLA PERSONA”Intervista alla dottoressa Monia Andreani

La dottoressa Monia Andreani è as-segnista di ricerca in etica applicata e bioetica presso il Dipartimento di Scienze di Base e Fondamenti dell’Università Carlo Bo di Urbino.

Si occupa di etica pubblica e diritti umani. In-segna Diritti Umani all’Università per Stranieri di Perugia. A lei abbiamo chiesto, facendo par-ticolare riferimento alla sua ricerca, l’importanza della figura dei caregivers.

Dottoressa Andreani, Chiara Lubich affer-mava “Amare, dunque, amare, amare, amare. Perché la vita, ogni vita, ogni stadio della vita, chiede amore. Alla cultura della morte dob-biamo opporre una cultura della vita”. Oggi

come oggi, questa affermazione può risultare anacronistica o ha ancora, nonostante tutto, un suo valore?Questa affermazione ha un valore centrale nella cultura umana, è uno dei punti forti della nostra capacità di vivere pienamente come esseri umani, è un valore che tiene insieme culture diverse e appartenenze ideologiche diverse. Oggi amare la vita è essere fedeli alla vita e ad ogni suo aspetto che è fatto di cambiamento continuo, di condi-zioni che mutano e di esperienze di vita diverse e tutte significative. Occorre cercare un dialogo tra le diverse esperienze di vita, dandosi valore reciproco, e non costruire steccati che separano, giudicano e valutano le differenti esperienze e le differenti modalità di vivere tale amore. Amare la

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ATTUALITA’

vita, oggi, significa anche promuovere una cultu-ra del prendersi cura reciproco tra esseri umani, del dialogo e del rispetto.

Quando si parla di “fine vita” entrano in gioco diverse componenti, prima fra tutte quella eti-ca. Come pensa si possa evolvere la situazione nel nostro Paese o meglio arriveremo anche noi, in futuro, a scelte simili a quelle dei medici olandesi?Nel nostro paese non ci si è interrogati in modo pacifico e aperto – ovvero dialogante - su questa questione, dal punto di vista del dibattito pub-blico abbiamo reagito ai casi Welby e Englaro in maniera scomposta e spesso censurante. Ad oggi ci sono 11 disegni di legge in Parlamento fermi in commissione, sette alla Camera e quattro al Senato. Solo in questa Legislatura ne sono sta-ti avanzati cinque dal Partito Democratico, uno dal Movimento a Cinque Stelle, uno dal Partito

Socialista, e uno dal Partito radicale e dall’As-sociazione Luca Coscioni. Il disegno di Legge chiamato DDL Calabrò, dal nome del suo rela-tore, che impone molti divieti al testamento di vita, è invece fermo al Senato dopo l’approva-zione alla Camera nel 2012. Ma il dibattito sul significato di queste proposte, sulle loro ricadute, sui principi etici che le ispirano, non è presente nella stampa e nella televisione. Siamo un paese che ama legiferare che si affida alla legge, e spes-so ha leggi molto buone ma anche spesso non ha la cultura pubblica condivisa – la maturazione culturale ed etica – per apprezzarle e applicarle, questo è ancora più vero in merito a tematiche etiche rilevanti per il presente e per il futuro. La cultura italiana è molto diversa da quella olande-se, trovo difficile qualsiasi tipo di confronto, noi non abbiamo una storia culturale e politica simile a quella olandese, ancora noi dobbiamo lavorare molto sui significati del pluralismo dei valori per-

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ATTUALITA’

ché siamo di fronte a un corpo sociale che muta, che matura diversamente, che è fatto di tante dif-ferenze, spesso silenziose o ridotte al silenzio, ad esempio sul piano interculturale ma non solo. Sul tema del fine vita sarebbe opportuno interrogare chi lavora nei reparti ospedalieri, nelle RSA, ne-gli Hospice, chi lavora nell’Assistenza Domici-liare Integrata, e chi vive l’esperienza di malattie gravissime, croniche, degenerative, o di altro tipo che provocano molto dolore e sofferenza, che sono prive di cura. Sarebbe opportuno fare un la-boratorio di riflessione pubblica su questi temi, facendosi aiutare dalla mediazione della filosofia che ha il compito di lavorare sui concetti e sui loro significati nei diversi contesti, per produrre spazi di condivisione che sono fondamentali per pensare a una futura legge o a una cultura del prendersi cura nei momenti finali della vita.

Facendo riferimento alla sua ricerca, che cosa si intende per bioetica con il caregiver e quanto è importante l’alleanza terapeutica?La ricerca che è stata portata avanti dal Dipartimento di Scienze di Base e Fondamenti dell’Università di Urbi-no Carlo Bo, finanziata nel suo primo anno dalla Fondazione Caripesaro, si è svolta in collaborazione con i Di-stretti Sanitari di Fano-Pergola e Fos-sombrone nell’anno 2013 (vorrei rin-graziare sentitamente tutte le persone che ci hanno aiutato a portarla avanti e che hanno partecipato a partire dal Dott. Guidi – Direttore del Distretto di Fano, Pergola, Fossombrone, che ha accolto per primo il progetto). Questa ricerca è volta a comprendere le mo-dalità di scelta quotidiane dei caregiver e malati che vivono l’esperienza di una malattia neurode-generativa, cronica e altamente invalidante a do-micilio. Nel suo secondo anno questo progetto ha come punto di forza un Percorso Formativo

con i Medici di Medicina Generale, promosso in collaborazione con la UO Formazione dell’A-SUR Area Vasta 1 (ex zona territoriale 3), per discuterne con i medici i risultati della ricerca e le grandi potenzialità dell’alleanza terapeutica ri-conosciute dai malati e dai caregiver. Il Progetto nel biennio 2014-2015 si è sviluppato anche per quanto riguarda l’esperienza pediatrica – in colla-borazione con i Pediatri della FIMP provinciale e con l’Associazione Maruzza di Fano. A propo-sito dei risultati della ricerca (di cui è in stampa il libro: Monia Andreani, Luisa De Paula, La bio-etica con i caregiver. Alleanza terapeutica e qua-lità della vita, Unicopli, Milano, 2015) emerge la figura del caregiver (di colui o colei che si prende in prima persona cura del proprio caro malato anche collaborando a stretto contatto con l’even-tuale assistente domiciliare – altrimenti detta/o badante) che si interfaccia in prima persona e funge da elemento ponte con le figure sanitarie (medici e infermieri). La bioetica con i caregiver indaga le scelte che si compiono a partire da un

dato di fatto, l’autonomia non è mai del tutto in-dividuale ma sempre relazionale, vissuta insieme ai propri cari, alle persone significative della pro-pria vita, con le quali si costruiscono le decisioni di gestione della cronicità.

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ATTUALITA’

Quando, all’interno della famiglia, una perso-na si ammala, la malattia non è più del singolo, ma ha conseguenze in tutti i familiari. In che modo si può trovare il giusto equilibrio affin-ché famiglia, paziente e personale sanitario possano collaborare insieme in modo efficace, migliorando di conseguenza la qualità della vita del malato?Dialogare, confrontarsi, collaborare nelle scelte, è il sale di ogni relazione umana affettiva e so-ciale, pertanto ciò diventa assolutamente centrale quando un progetto di vita comune o una rela-zione familiare e amicale viene ad essere alterata dalla malattia di una persona. Quando una fami-glia incontra la malattia grave e senza possibilità attuale di guarigione, molto spesso questo viene vissuto come l’entrata in un tunnel, si vivono mo-menti di grande difficoltà, di vera e propria sof-ferenza, spesso per pudore consumata in silenzio gli uni con gli altri. L’alleanza terapeutica pas-sa anche attraverso la presa in carico di tutte le difficoltà comunicative che riguardano le paure e le difficoltà psicologiche ma soprattutto – e in un modo che ancora non è studiato e sostenuto - anche il non comprendersi reciproco con i ter-mini e le parole e i loro significati, che è fonda-mentale per prendere le scelte in accordo. Spesso si fa ricorso al termine della medicina difensiva,

spesso anzi troppo spesso, il documento chiama-to Consenso Informato diventa significativo solo in ambito giudiziario quando le cose sono andate male e la rabbia e il dolore portano alla richiesta di risarcimento dei danni subiti. Ma il Consenso Informato non è un documento scritto e basta, deve diventare il momento finale di un processo di incontro e di costruzione di percorsi compresi e accolti reciprocamente senza riserve tra per-sona malata, medici, e caregiver che comunque sempre intervengono e spesso sono chiamati alle scelte tragiche nel momento della mancanza di coscienza del proprio caro. Per questo si parla di bioetica intesa come etica applicata – che riguar-da il lavoro della filosofia di facilitare la com-prensione di concetti e delle ricadute pratiche di tali concetti tra soggetti diversi, che concerne il saper costruire scelte condivise – in una parola il deliberare. Per questo la bioetica con i caregi-ver, la bioetica che si occupa di lavorare sulle fasi della cronicità (in un contesto in cui si vive più a lungo ma spesso insieme ad una o più malattie) – in alleanza con la medicina palliativa e con un approccio globale alla persona e ai contesti in cui è inserita (psicologico, sociologico) può risultare una carta vincente per pensare al presente e al futuro del nostro vivere comune.

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DAL MONDO

GLI ITALIANI NEL MONDONel 2013 si sono trasferiti all’estero 94.126 abitanti del Belpaese

Era la fine dell’Ottocento. Una vali-gia di cartone piena di speranze e di aspettative per il futuro. Lasciavano gli affetti più cari in cerca di fortuna. Erano gli italiani che, da ogni regio-

ne, partivano per lavorare e guadagnarsi da vivere. Oggi la valigia di cartone è stata sostituita dai trolley, i mezzi di trasporto sono più veloci e con-fortevoli, ma la speranza in un futuro migliore è rimasta la stessa. Gli italiani, soprattutto giovani, emigrano in cerca, soprattutto, di un lavoro. La disoccupazione e la recessione economica, infatti,

come riporta la sintesi del Rapporto Italiani nel Mondo 2014 presentato lo scorso ottobre dalla Fondazione Migrantes, sono fra le cause effettive che spingono a partire. “Nel corso del 2013 – si legge nel Rapporto – si sono trasferiti all’estero 94.126 italiani – nel 2012 sono stati 78.941 – con un saldo positivo di oltre 15 mila partenze, una variazione in un anno del +16.1%. Per la maggior parte uomini sia nel 2013 (56.3%) che nel 2012 (56.2%) non sposati nel 60% dei casi e coniuga-ti nel 34.3%, la classe di età più rappresentata è quella dei 18-34 anni (36.2%). A seguire quella

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DAL MONDO

dei 35-49 anni (26.8%) a riprova di quanto evi-dentemente la recessione economica e la disoc-cupazione siano le effettive cause che spingono a partire. Il Regno Unito, con 12.933 nuovi iscritti all’inizio del 2014, è il primo Paese verso cui sono diretti i recenti migranti italiani con una crescita del 71.5% rispetto all’anno precedente. Seguo-no la Germania (11.731, +11.5% di crescita), la Svizzera (10.300, +15.7%) e la Francia (8.402, +19.0%)”. Parlando più in generale, sono 4.482.115 i citta-dini italiani residenti all’estero iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) al 1° gennaio 2014 (2.239.309 uomini, 2.152.806 donne, 691.222 minori, 878.209 anziani over 65 anni, 142.787 anziani over 85 anni, 94.126 partiti nell’ultimo anno). Focalizzandoci sulle Marche, sono stati 2.049 le partenze nell’ultimo anno. E proprio dalla nostra regione sono partiti anche Lucia Giannini, Francesco Pucillo e Luca S.

Quali sono le motivazioni che vi hanno spinto a lasciare l’Italia?Lucia: Mi sono trasferita a Bruxelles all’inizio del 2006. Ho lasciato l’Italia principalmente perché una città internazionale e dinamica come Bruxel-les rappresenta il naturale sbocco lavorativo per chi, come me, ha studiato scienze internazionali e diplomatiche con una specializzazione in studi europei. Inoltre, rispetto all’Italia, Bruxelles offre a noi giovani condizioni di lavoro più stabili e stipendi più adeguati.

Francesco: Ci sono 2 distinti momenti del mio percorso professionale per rispondere a questa domanda. Il primo quando circa 6 anni fa in ac-cordo con mia moglie abbiamo deciso di vivere stabilmente in espatriazione per la società italia-na per cui ho lavorato fino allo scorso anno. In questo caso le motivazioni principali sono state sicuramente la possibilità di una più rapida cre-

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DAL MONDO

scita professionale ed anche di fare esperienze personali sicuramente diverse e più stimolanti di una normale vita quotidiana vissuta nella provin-cia italiana. Il secondo invece quando ho deciso con la fine dello scorso anno di tagliare definiti-vamente il legame che comunque mi legava all’I-talia pur lavorando stabilmente all’estero per la mia precedente società.In questo caso mi sono rivolto al mercato tedesco principalmente per misurarmi con un sistema di

lavoro diverso da quello italiano.

Luca: Ho scelto di lasciare l’Italia per dare segui-to ad un’avventura iniziata quando ho frequenta-to l’università in Germania, grazie al programma Erasmus. Inizialmente si trattava di una scelta temporanea, rivelatasi poi quantomeno duratura.

Di che cosa ti occupi nello specifico?Lucia: Lavoro per l’Agenzia della Commissione europea per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultu-ra (EACEA) che gestisce, per conto della Com-missione, i programmi europei nei campi dell’i-struzione, della cultura e del settore audiovisivo. Più nello specifico, faccio parte del dipartimento “Europa Creativa-Media” il quale supporta, at-traverso sostegni finanziari, l’industria europea del cinema e dell’audiovisivo nei settori dello svi-

luppo, distribuzione e promozione di film euro-pei.In precedenza mi sono occupata, sempre all’inter-no dell’EACEA, del programma Erasmus Mun-dus, indirizzato a studenti universitari europei e a studenti provenienti da altri continenti. Infine, in passato ho lavorato sempre a Bruxelles per l’As-sociazione delle Università europee (EUA) e per il settore Ricerca e Innovazione della Commis-

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DAL MONDO

sione europea. Nell’ambito di queste esperienze lavorative sono stata responsabile delle attività di informazione e comunicazione, oppure della ge-stione di progetti

Francesco: Negli anni mi sono specializzato, at-traverso diverse esperienze internazionali, nella gestioni di materiali acquistati da società di ser-vizio operanti nell’ambito “Oil&Gas”.

Luca: All’estero ho completato il mio dottorato di ricerca, mi sono occupato per quattro anni di consulenza industriale e adesso lavoro per una multinazionale nel settore delle telecomunica-zioni.

Nel Rapporto Italiani nel Mondo presentato dalla Fondazione Migrantes, fra le principali cause della “fuga di cervelli” si annovera la crisi economica. Condividi questo pensiero?Lucia: A mio parere la crisi economica è la pri-ma responsabile della “fuga di cervelli” dal nostro paese. A conferma di ciò, ho riscontrato in que-sti ultimi anni di crisi che sempre più italiani si trasferiscono a Bruxelles. Oppure, anche nel caso di chi decide di non lasciare l’Italia, noto comun-que un crescente interesse dei miei connazionali nei confronti delle opportunità lavorative offerte qui in Belgio, sia nelle Istituzioni europee sia nel settore privato (società di consulenza, aziende, associazioni).

Francesco: Condivido sicuramente. Nel mondo ci sono oggi paesi emergenti o già affermati che possono offrire ad un giovane opportunità ormai quasi inesistenti in Italia.

Luca: Premetto che non sono un sostenitore del-la definizione di “fuga di cervelli”, le persone che hanno lasciato l’Italia sono un buono spaccato della realtà nazionale e non un gruppo “d’elite”. A mio modo di vedere, troppo spesso nei giornali

si da spazio a storie di coloro che lasciata l’Italia hanno raggiunto dei traguardi, varrebbe la pena di raccontare le storie di quelli che ce l’hanno fatta in Italia. Per rispondere alla domanda: de-cisamente sì. C’é una parte degli italiani che si é trasferita all’estero per motivi sentimentali, la

maggioranza per ottenere condizioni di lavoro che non gli venivano offerte in Italia.

Che cosa offre l’estero a un giovane rispetto all’Italia? Stipendi più dignitosi, qualità della vita migliore?Lucia: In confronto all’Italia direi che, in primo luogo, l’estero offre stipendi più dignitosi e mag-giori possibilità di trovare contratti di lavoro a lungo termine. Inoltre, ritengo che all’estero siano presenti una maggiore meritocrazia e più oppor-tunità di crescita professionale per noi giovani.

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DAL MONDO

Francesco: Probabilmente stipendi più dignitosi e qualità della vita migliore ma solo se si verifica la prima condizione. Sicuramente la possibilità di confrontarsi con altre culture e modi di pensare che spesso si trasformano anche in opportunità lavorative e professionali.

Luca: A parte i motivi elencati, vivere all’estero offre la possibilità di mettere in discussione sè stessi e le proprie convinzioni. Confrontarsi con culture differenti da quella in cui si é cresciuti, permette di rafforzare alcuni tratti e migliorarne degli altri.

Se dovessi tornare indietro, sceglieresti ancora una volta un lavoro all’estero?Lucia: Molto probabilmente sì in quanto, grazie alla possibilità che ho avuto di frequentare due anni universitari all’estero (il primo in Inghilterra con il programma Erasmus e il secondo per una specializzazione in Olanda) mi sono appassio-nata tantissimo allo stile di vita internazionale, nel quale si è in continuo contatto con amici e colleghi di tanti paesi diversi. Questa dimensione internazionale mi è mancata molto negli anni in cui ho vissuto in Italia. Non nascondo però che,

dopo più di nove anni all’estero, mi ritengo molto soddisfatta e se avessi una buona offerta di lavoro potrei in futuro ipotizzare seriamente un ritorno nel bel paese…

Francesco: Sicuramente si, principalmente per l’arricchimento personale fatto da esperienze quotidiane stimolanti.

Luca: Sicuramente

Che cosa ti manca di più del tuo Paese e quali sono, se ci sono state, le difficoltà che hai in-contrato nel “vivere da emigrata/o”?Lucia: In primo luogo mi manca naturalmente la mia famiglia: i miei genitori vivono nelle Mar-che, a Sarnano, e mio fratello risiede da diversi anni a Bologna. Inoltre, dell’Italia mi mancano moltissimo il bel clima, il mare, lo stile di vita, la bellezza del nostro paese e delle nostre magnifi-che città. Per fortuna ci sono tantissimi italiani a Bruxelles – e in Belgio in generale – quindi le opportunità di parlare la mia lingua sono nume-rosissime! All’inizio il dover lavorare con colle-ghi provenienti da tutta Europa - con naziona-lità, culture e modi di lavorare diversi - e l’usare

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DAL MONDO

giornalmente l’inglese e il francese non è stato semplicissimo. Tuttavia, con il passare del tempo, queste differenze culturali e l’utilizzo di varie lin-gue sono diventati degli aspetti per me del tutto naturali. Devo anche ammettere che sono molto fortunata a vivere in un ambiente cosmopolita come quello di Bruxelles dove ci sono tantissimi stranieri e dove integrarsi in città è abbastanza semplice. La comunità degli espatriati qua è mol-to numerosa ed estremamente attiva.

Francesco: Del mio paese direi poco o nulla, che, invece, le difficoltà sono sempre state poco rile-vanti ma questo dipende sempre da quello che è l’approccio mentale di ciascuna persona a situa-zioni di questo tipo.

Luca: La maggiore difficoltà é stata - ed é tutto-ra - imparare una nuova lingua, passo comunque necessario per raggiungere l’integrazione ed ave-re possibilità di carriera all’estero. Adattarsi alla cultura e al modo di vivere del luogo non è un problema se affrontato con il giusto mind-set. La lista di ciò che dell’Italia mi manca sarebbe lun-

ga e difficile da descrivere con le parole. Se devo scegliere una cosa: la famiglia.

Un consiglio che ti senti di dare ai giovani che decidono di cercare lavoro all’estero.Lucia: Se si è convinti di voler partire per l’estero il mio consiglio principale è quello di insistere, non arrendersi nel cercare di raggiungere i propri obiettivi in ambito lavorativo, e non scoraggiar-si a causa della forte competizione presente nel mondo odierno, soprattutto in ambito interna-zionale.

Francesco: Dipende da quanto giovane sei....ma se c’è già una volontà di questo tipo significa che c’è la voglia di mettersi alla prova e quindi l’unico consiglio che posso dare è quello di provarci.

Luca: Se scegliete di trasferirvi, non andate a cer-care uno spicchio d’Italia all’estero ma integrate-vi nella nazione che vi ospita. Che non significa rinunciare alla vostra identità ed ai vostri valori, quanto crescere e diventare ancora più orgogliosi di quello che siamo

Se molti giovani vanno all’estero in cerca di un lavoro sicuro e ben pagato, altrettanti sono quelli che decidono fare un’esperienza di studio fuori dalla loro terra di origine. Parliamo dei 270 mila studenti che, secondo le ultime statistiche relative a Erasmus pubblicate il 10 luglio 2014 dalla Commissione europea, hanno beneficiato di borse unionali per studiare o ricevere una formazione all’estero nel 2012-2013. Le tre destinazioni più gettonate sono state la Spagna, la

Germania e la Francia. Ma chi sono gli studenti Erasmus? Dai dati si evince che il 61% sono donne, l’età media è di 22 anni, il tempo trascorso all’estero 6 mesi e l’importo medio mensile della borsa di studio 272 euro al mese. Scorrendo ancora alcuni dati, fra le 100 istituzioni di istruzione superiore che ricevono il maggior numeri di studenti Erasmus (anno 2012-2013), al 5° posto troviamo l’Università di Bologna con 1.620 studenti, al 17° l’Università di Firenze con 896 studenti, al 34° il Politecnico di Milano con 733, al 40° l’Università di Padova con 693, all’80° posto l’Università di Torino con 485 mentre all’81° l’Università Roma Tre con 480.

STUDIARE ALL’ESTERO270 mila studenti hanno studiato all’estero nell’anno 2012-2013

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L’IMPATTO DELLA CRISI ECONOMICA IN EUROPADon Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, illustra il III Rapporto

Sull’impatto della crisi nei Paesi debo-li dell’Unione Europea si è focalizza-ta l’attenzione del Terzo Rapporto di monitoraggio dell’impatto della cri-si economica in sette “paesi deboli”

dell’Unione Europea (Italia, Portogallo, Spa-gna, Grecia, Irlanda, Romania, Cipro), curato da Caritas Europa. “Dal 2012 al 2013 – si legge nel Rapporto - il tasso di disoccupazione è passato dal 10,4 al 10,8% della popolazione europea in età attiva. Nell’Unione a 28 stati (aprile 2014),

erano più di 25 milioni i cittadini privi di lavoro (8,4 milioni in più rispetto al dato pre-crisi del 2008). Le persone più colpite sono quelle con bassi livelli di istruzione e i giovani (sono oltre 5 milioni di disoccupati sotto i 25 anni, pari al 22,5%). Aumenta dal 2012 al 2013 il fenome-no della disoccupazione di “lungo periodo”: nel 2013, il 49,4% dei disoccupati europei era tale da più di un anno (44% nel 2011)”. Abbiamo chie-sto a don Francesco Soddu, direttore della Cari-tas Italiana, di illustrarci, nel dettaglio, la realtà

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L’IMPATTO DELLA CRISI ECONOMICA IN EUROPADon Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, illustra il III Rapporto

che esiste dietro questi numeri.

Dai dati del Rapporto, emerge che in Italia la disoccupazione giovanile appare più grave del-la media europea (40% dei 15-24enni). E’ una problematica che conosciamo bene. Le doman-do: che cosa c’è da fare di più e di meglio per ar-ginare questo fenomeno? Soprattutto, che cosa può e deve fare il mondo cattolico?Dai dati del Rapporto emerge la necessità di una serie di misure, su due livelli. Da un lato, garantire

la formazione compiuta e permanente delle nuo-ve generazioni, riducendo il numero di giovani Neet che non lavorano, non studiano e non sono inseriti in percorsi di formazione professionale. L’Italia è al primo posto per tasso di giovani Neet in tutta l’Unione (22,2%). L’offerta di alta forma-zione va comunque associata all’offerta di forma-zione di base per coloro che si fermano a bassi livelli di istruzione. A tale riguardo si evidenzia la necessità di migliorare il rendimento del pro-gramma UE Garanzia Giovani, che non è riu-

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scito a coprire tutte le domande finora pervenute nell’apposito portale di iscrizione. Dall’altro lato, il problema della disoccupazione giovanile non va sganciato dalle politiche della disoccupazione generale e a tale riguardo una stagione di grandi investimenti pubblici e in conto capitale potrebbe essere molto utile per il rilancio del mercato del lavoro, con particolare riguardo a settori emer-genti, come quello dei servizi alla persona e delle nuove tecnologie ambientali. Vanno inoltre pese in considerazione le proposte di valorizzare eco-nomicamente le attività informali di assistenza, offerte a titolo gratuito dai membri della fami-glia. Il mondo Cattolico sicuramente può e deve interessarsi del problema e dei fenomeni ad esso connessi. Questo significa che, non rimanendo alla finestra o ai bordi della strada, sentendo il peso e il dramma della situazione, deve essere ca-pace di proporre formazione, accompagnamento e sostegno al fine di trovare soprattutto percorsi di uscita che siano anche alternativi ad una visio-ne del lavoro che probabilmente oggi è superata. Ovviamente non può fornire risposte definitive in termini di inserimento professionale ma valo-rizzare la rete territoriale e svolgere utili funzioni

informative e di intermediazione. Fondamentale a tale riguardo l’appoggio e il sostegno pubblico (soprattutto fiscale) a favore del terzo settore e del non profit.

Fra le raccomandazioni e proposte che la Ca-ritas fa alle istituzioni europee e alla commis-sione europea leggo: assumere una forte regia nello sviluppo di politiche e nel monitoraggio della povertà infantile. Proprio a questo propo-sito le chiedo: quali sono i numeri della povertà infantile, in particolare in Italia?In base ai dati Istat, nel 2013, è povero il 20,2% delle famiglie con almeno un figlio minorenne. E’ povero il 34,3% delle famiglie numerose, con tre o più figli minorenni. Il fenomeno, ancora una volta, è particolarmente evidente nel Mezzogior-no, dove una famiglia con tre o più figli minori su due è povera. In valori assoluti, 1 milione 434 mila minori sono poveri in termini assoluti (erano 1 milione 58 mila nel 2012). L’Italia compare al 22° posto (su 29 Stati) nella graduatoria complessiva del benessere dell’infan-zia nei Paesi ricchi. Prima dell’Italia si collocano

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Spagna, Ungheria e Polonia. Subito dopo di noi troviamo Estonia, Slovacchia e Grecia. Scompo-nendo i dati relativi alle cinque dimensioni del benessere misurate dal rapporto, vediamo che l’I-talia si posiziona quasi sempre nella metà inferio-re della graduatoria relativa:• Benessere materiale: 23° posto su 29• Salute e sicurezza: 17° posto • Istruzione: 25° posto• Comportamenti e rischi: 10° posto• Condizioni abitative e ambientali: 21° posto

La Caritas è sempre impegnata in prima linea quando ci sono le emergenze. In questi anni quali sono state le più difficili da fronteggiare?La Caritas è chiamata a saper camminare tra quotidianità ed emergenza. Io credo che, sen-za dimenticare o sottovalutare quelle legate agli eventi naturali quali terremoti ed alluvioni, le più difficili rimangono quelle che, prolungate nel procedere quotidiano, finiscono per occu-parne il posto. Attualmente, il prolungarsi della crisi, l’aver intuito che questa travalica l’aspet-to congiunturale, improntata piuttosto verso un declino, impegna ulteriormente il nostro essere nella storia come elemento di speranza: capace comunque, attraverso segni concreti di presenza, di saper scorgere e donare sempre motivi di vita.

Per poter far questo la Caritas non ha una ricetta ma ha molto di più: la grande ricchezza della co-munità ecclesiale, di cui è espressione e in nome della quale opera affinché essa sia sempre il sog-getto di ogni azione.

Ritornando al Rapporto, due altri temi tratta-ti sono stati la rinuncia, per motivi economici, alle cure mediche assistenziali e la dispersione scolastica. Ma la sanità e l’istruzione sono due servizi dai quali non si può prescindere. In che modo la Caritas viene incontro a chi, a causa della grave crisi economica, non può permet-tersi di curarsi ed avere un’istruzione di base?È quasi impossibile raccontare la molteplicità di piccoli, medi e grandi interventi non solo delle Caritas ma dell’intera Chiesa, in tutte le diocesi e tutte le parrocchie. Una molteplicità di interventi che stanno dentro l’ordinarietà e che si realizza-no in termini di servizi strutturati-continuativi e servizi-risposte meno organizzate, ma comunque molto importanti, a presa in carico dei bisogni ordinari o delle molteplici emergenze che richie-dono risposte immediate ai bisogni del singo-li, delle famiglie e dei vari gruppi di persone in situazione di povertà. Risposte queste che sono arricchite molto dalla conoscenza, dall’incontro, dalla relazione, dall’ascolto e dai tentativi di far

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star dentro il tessuto sociale ed ecclesiale le per-sone che sperimentano povertà ed emarginazio-ne. Accennando al disagio sanitario ad es. dai dati provenienti dai Centri di ascolto Caritas relativi al primo semestre 2014, emerge che nei colloqui con le persone e le famiglie in difficoltà, una per-centuale di oltre l’8% di richieste riguarda l’am-bito della salute. Queste richieste evidentemente vengono orientate verso altre strutture o prese in carico con interventi anche a carattere econo-mico. Tutto questo conferma la consapevolezza di una contingente non piena presa in carico da parte delle istituzioni dei bisogni di salute e di

istruzione della popolazione. Questo è il dato da cui partire con responsabilità e realismo. Si tratta di operare scelte – anche transitorie – che con-sentano di rafforzare tutte le modalità di presa in carico di questi bisogni – diritti, non abbassando i livelli di garanzia dell’utenza e certamente l’ap-propriatezza degli interventi, ma operando nel-la direzione di non ostacolare le realtà che sono nelle condizioni di raggiungere alcuni target di popolazione a maggiore rischio di esclusione con presidi territoriali in grado di sostenere alcune ti-

pologie di soggetti in appropriati percorsi di cura e di istruzione.

Papa Francesco, nell’Angelus di domenica 15 febbraio 2015, ha esortato a non aver paura di guardare un povero negli occhi. I volontari e gli operatori Caritas di questi occhi ne incontrano tantissimi tutti i giorni. Quali sono le richieste dei poveri di oggi?Le richieste sono le più variegate e veicolano i bisogni più diversi: quelli di cui si parla sempre. Quando il Papa dice di non aver paura di guarda-re un povero negli occhi io credo che voglia esor-tare ad entrare nella dimensione che mai nessuna

richiesta potrebbe es-sere in grado di espri-mere. Guardare negli occhi una persona, in-fatti, significa entrare innanzitutto in rela-zione. Guardare negli occhi un povero signi-fica perciò recepirne pienamente lo stato esistenziale, di cui la richiesta immediata è un semplice aspet-to. Saper cogliere tale stato di cose permette all’operatore Caritas di non essere un fun-

zionario della Carità quanto piuttosto la stessa Carità che si fa presenza. In questa prospettiva alla Caritas e più in generale alla Chiesa è chiesto un servizio ricco di costante ascolto, di ampia e puntuale osservazione e di appassionato accom-pagnamento delle realtà del territorio perché si esprimano sempre più in un’azione di solidarietà e giustizia a dimensione personale e comunitaria.

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L’ISIS DISTRUGGE LA PROPRIA STORIALa riflessione di Claudio Zucchelli, presidente Archeoclub d’Italia Onlus

Il rapporto tra la guerra e i beni culturali è sempre stato all’attenzione dei popoli che nel corso dei millenni si sono dati batta-glia.In epoca moderna, com’è noto, è stata fir-

mata una convenzione internazionale all’Aja nel 1954 per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto, che sostanzialmente proibisce agli stati aderenti di operare distruzioni, non militar-mente indispensabili, sui beni culturali e di de-predarli quali bottino di guerra.Il diritto internazionale prima di detta conven-zione, viceversa, ammetteva il bottino di guerra, anche per tali beni, proprio nell’ambito del di-ritto bellico consuetudinario secondo cui il po-polo debellato poteva essere spogliato delle sue ricchezze.Proprio dai caratteri consuetudinari del diritto internazionale possiamo cogliere alcuni tratti ti-

pici della cultura occidentale.Anche se ovviamente oggi ci ripugna l’idea del bottino culturale, dobbiamo però ammettere che esso era nel suo male la manifestazione di una particolare alta considerazione del bene culturale, sia economica sia spirituale.Gli antichi popoli, in primis i Romani, ma poi via via tutti i conquistatori, si pensi a Napoleo-ne o a Goebbels, non pensavano nemmeno lon-tanamente di distruggere le vestigia del popolo conquistato, ma anzi di appropriarsene. Ciò, pur nell’inaccettabilità odierna del fatto, era segno di una considerazione del bene culturale stranie-ro innanzi tutto come valore materiale e inoltre come valore spirituale e quindi la razzia era segno del soggiogamento del popolo sottomesso. In al-tri termini, portare al Louvre le opere italiane si-gnificava aumentare il patrimonio dello Stato ma anche segnare il rapporto di sottomissione con

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gli sconfitti appropriandosi della loro cultura, considerata quindi come valore anche spirituale.Pur nella ripetuta inaccettabilità, un tale com-portamento è stato per secoli uno dei segni di-stintivi della civiltà occidentale e del suo modo di intendere i beni culturali: manifestazione di civil-tà, come tale degna di massima considerazione, sia pure ai propri fini.A mio avviso ciò dipende anche dai fondamentali Valori positivi che contraddistinguono la cultura europea, derivazione diretta della cultura greca e latina e cristiana poi, e fondati direttamente sul logos che significa il valore della parola, della ragione, dell’a-more.La cultura europea, quindi, è orientata principalmente a Va-lori di vita e di amore, valori positivi che col-gono, perfino nell’av-versario, ciò che di positivo è in lui e lo rispettano, anche se in modo paradossa-le depredandolo. Ma anche la depredazione è, in sostanza, una mani-festazione di apprezzamento e d’interesse: non si ruba ciò che non piace o non serve.Viceversa, come Benedetto XVI ci ha ricordato nel discorso di Ratisbona, l’Islam ha abbandona-to logos ed eros, e ha sostanzialmente abbracciato una fede e una cultura di morte, thanatos.Discorso difficile, che può esser frainteso e stru-mentalizzato come lo fu il discorso di Ratisbona, ma che non cessa di essere filosoficamente vero.Sarebbe sciocco, infatti, concludere che tutti i fedeli islamici siano portatori di morte, anzi sa-rebbe un modo incolto di intendere le categorie filosofiche. Il significato vero è che i tratti fonda-mentali delle due culture, ragione e amore con-

tro obbedienza e morte, sono intrinsecamente contrapposti: eros contro thanatos come sempre. Sono del tutto inconciliabili filosoficamente, an-che se ciò non esclude il dialogo e la convivenza pacifica.L’inconciliabilità è dimostrata proprio, tra le altre mille, dalla volontà distruttiva dello spirito di un popolo e di una civiltà quando essa non sia omo-logata al fanatismo religioso.Purtroppo l’esasperazione dei Valori fondamen-tali di tutte le religioni conduce spesso alla morte della ragione, alle pagine scure della storia. An-

che della Chiesa, delle quali Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno fatto più volte ammenda, ancora una volta dando dimostra-zione che nella nostre Fede e cultura, logos e eros alla fine prevalgo-no.L’esasperazione isla-mica conduce a eccessi con caratteristiche di-verse, tra cui, oltre agli assassini, anche quella

appunto di non rispettare le radici dei propri av-versari, ma anzi di distruggerle. Thanatos prevale non solo nel fisico ma anche nel corpo vivo del-la cultura degli sconfitti. Uccidere il corpo non è ancora nulla, occorre uccidere lo spirito.

Le associazioni culturali, come quella che mi onoro di presiedere, provano dinanzi a questi fatti un dolore immenso, come se la distruzione avesse riguardato un nostro bene culturale, perché para-frasando John Donne, quando muore lo spirito di un qualsiasi popolo “non possiamo chiederci per chi suona la campana, essa suona anche per noi”.

<<La cultura europea, quindi, è orientata principalmente a Valori di vita e di amore, valori positivi che colgono, perfino nell’avversario, ciò che di positivo è in lui e lo rispettano, anche se in modo paradossale depredandolo.>>

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DAL MONDO

Prima le statue e i manufatti del museo di Mosul, adesso il prezioso sito archeologico di Nimrud, a poche decine di chilometri dall’attuale rocca-forte in Iraq del Califfato islamico di Abubakr al Baghdadi. Continua a scatenarsi la cieca fu-

ria distruttrice dell’Isis, talmente insensata da diventare in questi casi “autodistruttrice”. Perché accanirsi contro le proprie radici e la propria storia significa in qualche modo negare se stessi. Qui non siamo, infatti, di fronte ad una guerra iconoclasta nel nome di una pretesa “purezza reli-giosa”, cosa già deprecabile in se stessa, ma davanti ad un sommario tentativo di “azzeramento” dell’esistente con la delirante aspirazione a costruire un “mondo nuovo” (mo-dellato sul “loro” Corano) sulle ceneri dell’attuale.Niente di più sbagliato, l’Isis perpetra un’altra grave scelle-ratezza che lascia trasparire una radicata ottusità culturale. È la storia dell’umanità infatti a insegnare che non c’è al-cuna possibilità di futuro senza accettazione e preserva-zione della memoria. Persino quando questa comportasse il peso di “cicatrici” incancellabili e imbarazzanti, come mostra la recente storia europea. Non ci può essere futuro senza custodire ed interpretare le orme dei padri, lasciate durante secoli di civiltà, tradizioni ed arte, ispirati anche dalla fede religiosa. Le statue, le mura e gli altri reperti ar-cheologici non offendono in alcun modo Dio (comunque lo si chiami), né lo potrebbero, poiché sono solo manufatti inermi. Ma la loro forza d’impatto, oltre al valore estetico, sta nell’esprimere la storia degli uomini che le hanno pro-dotte.Con chi se la prende, dunque, l’Isis? Contro la storia, o peggio, contro la “propria” storia? Nessun mondo nuovo potrà nascere da chi continua a disprezzare e distruggere gli esseri umani e le loro “impronte”, con la tragica e de-menziale scusa dell’infedeltà religiosa. “Distruggere” cie-camente non è mai “costruire”, neppure come premessa. Distruggere le proprie radici, poi, è autocondannarsi all’i-naridimento e al dissolvimento. Nel caso del fenomeno “Isis”, cosa auspicabile, nel più breve tempo possibile.

LA FURIA AUTODISTRUTTRICE DELL’ISISDA SIR

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GIOCO D’AZZARDO E DIPENDENZA DA INTERNETViaggio fra vecchie e nuove dipendenze con la psicologa Alessia Guidi

Ha un suono tanto rassicurante quanto diabolico. È la campanel-la delle slot machine che suona ad ogni combinazione vincente. Si chiama “liberty bell” e il primo

a farla suonare fu Charles Fey che, nel lontano 1895, costruì la prima “macchinetta mangia so-gni”. Ed è proprio quel suono che produce una sorta di ipnosi nel giocatore che diventa sempre più passivo e sempre meno attivo. Secondo la ricerca «Il gioco d’azzardo e le sue conseguen-ze sulla società italiana. La presenza della crimi-

nalità nel mercato dell’alea» curata dal sociologo Maurizio Fiasco e presentata a Roma lo scorso giugno dalla Consulta Nazionale Antiusura, oltre a una dispersione di (moltissimo) denaro, il gioco d’azzardo dissipa anche un prezioso e conside-revole tempo di vita: sono state destinate a esso 70 milioni di giornate lavorative in un anno. “La disoccupazione - si legge nella ricerca - alimenta la propensione verso l’azzardo, che, a sua volta, è diventato un indotto per il prestito a usura e la criminalità organizzata; con ciò incidendo in maniera funesta sulla più grave crisi economica

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DALL’ITALIA

dal secondo dopoguerra”. Per conoscere più da vicino questo fenomeno abbiamo intervistato la dottoressa Alessia Guidi, psicologa e psicotera-peuta della società cooperativa IRS L’Aurora di San Cesareo, struttura che, da anni, si occupa di dipendenze patologiche. Da qualche anno è atti-vo sul territorio fanese anche il Punto Aurora di Fenile per la cura delle nuove dipendenze.

Facciamo un identikit del giocatore d’azzardoPossiamo distinguere i giocatori d’azzardo in tre gruppi o identikit che hanno come base comune problemi cognitivi legati al “pensiero magico” os-sia quel meccanismo che porta il giocatore a col-legare avvenimenti causali che non hanno nessun legame dimenticando che in realtà l’unico che ha davvero la sorte dalla sua parte è colui che orga-nizza e gestisce il gioco d’azzardo.Nel primo gruppo vengono inseriti i giocatori “patologici - non patologici” (da Blaszczynski) che non hanno diagnosi di personalità ma hanno incontrato il gioco per caso, ad esempio attraver-so i membri della famiglia o il gruppo dei pari. Giocano basandosi su credenze di vincita erro-nee o sulla base di distorsioni di tipo cognitivo per cui trascorrono gran parte della loro vita gio-cando e pensando a come rincorrere le perdite.

Hanno stati d’ansia successivi al gioco. Questi giocatori possono trovare nel gioco una fuga dal mondo reale,una risposta per alleviare delle sof-ferenze dovute ad esempio a eventi traumatici (lutti, pensionamento, allontanamento dei figli, fasi critiche della vita). Possiamo aggiungere a questa categoria anche quelle persone che gio-cano perché ammaliati dalla magia dei numeri, delle ricorrenze, delle similitudini superstizioni

e che risultano molto legati ad un pensiero magico del tipo “prima o poi vincerò” .Del secondo gruppo fanno parte i giocatori che oltre ad avere le problematiche precedentemente descritte hanno un disturbo emotivo (ansia/ depressione ecc..), dove si incontrano storie di povertà nel far fronte alle difficoltà della vita. Spesso questi giocatori hanno si-tuazioni familiari negative per cui il gioco serve per so-

stituire/integrare/amplificare il consumo/abuso di sostanze oppure è utile per provare emozioni diverse (es.adrenalina del rischio) Al terzo gruppo appartengono i “giocatori con correlati biologici”che hanno tratti fortemente impulsivi (ADHD, comportamenti antisociali, uso di sostanze) dove queste caratteristiche pre-cedono il gioco.

Sappiamo che ormai il gioco d’azzardo è en-trato prepotentemente anche tra le fasce più giovani della popolazione. Mi riferisco, ad esempio, alle app d’azzardo per bambini che, subdolamente sottoforma di giochi innocenti, avvicinano anche i più piccoli a questa dipen-denza. Ti chiedo allora: c’è la possibilità di pre-venire tutto questo o meglio di aiutare il geni-tore ad avere strumenti utili per aiutare i propri

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figli a non cadere in queste “nuove trappole”?Credo sia possibile aiutando il genitore a non cadere lui per primo nella “trappola”. come? at-traverso informazione, conoscenza a partire da una chiara lettura del cambiamento culturale che l’industria del gioco d’azzardo, che muove 73 miliardi in un anno quindi molto potente e con una grande possibilità di influenza, vuole indurre ai cittadini abituando fin dalla prima infanzia i bambini a giochi che non si basano su abili-tà ma esclusivamente sulla fortuna “vinci se spingi il bottone e insisti più giochi più vinci” così da fina-lizzare uno stile di vita futuro dove la fatica non è contemplata. Per cui è importante che il genitore, cono-scendo il sistema culturale mediati-co attuale, tuteli i propri figli attra-verso un continuo “filtraggio” sul tipo di giochi che fanno e sul tempo che passano di fronte agli schermi.

Quando il gioco diventa vera e propria dipen-denza? Il gioco diventa una vera e propria patologia quan-do la persona inizia ad intrattenersi spesso(oltre le tre volte a settimana) fuori casa o in casa da-vanti al pc per giocare on line, quando con gli altri non si trova più a suo agio e tende ad evitare relazioni adducendo varie scuse. La sua vita so-ciale è o diventa povera poiché la priorità è quella di ricercare emozioni forti e per lo più rischio-se vanificando le piccole emozioni della routine quotidiana. Diventa una dipendenza quando l’il-lusione di poter controllare il gioco, o per sua vo-lontà o per abilità personale nonostante le perdite ripetute, è una certezza; quindi continua a giocare nonostante consistenti perdite. La dipendenza si esprime nel non riuscire a controllare gli impulsi reagendo in modo spropositato rispetto alla pro-

vocazione subita o all’evento stressante, a ciò si aggiunge una condotta mendace e pervasiva che investe non solo le spese del gioco o le perdite ma anche le più comuni situazioni di vita, mente

su tutto! Il giocatore dipendente continua il suo comportamento malato nonostante tutti gli di-cano di fermarsi agisce cocciutamente, irrespon-sabilmente anche in assenza di denaro accumu-lando debiti che raramente potrà onorare. Chi è coinvolto in una dipendenza da gioco d’azzardo non riesce a smettere da solo come erroneamente pensa e spesso non chiede aiuto.

Se un ragazzo a uno o entrambi i genitori che giocano d’azzardo, diventerà, in futuro, anche lui un giocatore? Come accade per altre condizioni, si pensi ad esempio al tabagismo, il contesto familiare e sociale può essere molto influente. Nel caso del gioco d’azzardo si è riscontrata un elevata cor-relazione tra contesto e propensione al gioco: si gioca di più e con più soldi nelle famiglie in cui i genitori giocano, si trova l’80% dei giovani gio-catori, con una spesa mensile doppia rispetto ai nuclei familiari in cui non si gioca.

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DALL’ITALIA

Quanti sono attualmente i giocatori d’azzardo seguiti dalla cooperativa IRS Aurora?Sono stati presi in carico dall’IRS Aurora solo nel 2014, 51 giocatori patologici.

È possibile uscire totalmente da questa dipen-denza o le recidive sono sempre dietro l’angolo?Come per le altre dipendenze uscire è comples-so ed una percentuale molto bassa riesce senza più ricadere. La possibilità di recidive è da tene-re in considerazione, la loro frequenza dipende molto dalla tipologia di giocatore che abbiamo di fronte, ma non dobbiamo dimenticare che la ricaduta fa parte del processo di cambiamento. Dopo un percorso terapeutico speciali-stico è necessario co-munque tenere alta l’attenzione nei mo-menti di passaggio ( es,dall’adolescenza all’età adulta o da quest’ultima all’età matura) o di fronte ad eventi inaspettati negativi come separazioni, licenziamenti, pensio-namenti, scarsi riconoscimenti lavorativi in cui si possono innescare severi stati ansiosi e depressivi che potrebbero portare a ricadute.

Come può un familiare accorgersi di avere qualcuno accanto a sé con questo tipo di dipen-denza? Un familiare può accorgersi dall’emergere di am-manchi sul proprio conto corrente, atteggiamenti mendaci o poco chiari, continui ritardi, uscite ri-petute ed improvvise, continue richieste di dena-ro giustificate da eventi bizzarri, per esempio a volte le mogli possono avere il sospetto di essere tradite.... Dalla nostra esperienza i familiari han-no un ruolo fondamentale poiché sono i primi a potersi accorgere che c’è un problema, ed è im-

portante a quel punto chiedere aiuto a centri spe-cializzati dove la famiglia e il giocatore vengono ascoltati accolti ed aiutati. Se ieri la droga, l’alcol, il gioco erano le dipen-denze più comuni, oggi, con le nuove tecnologie, ne sono entrate a far parte della lista tante altre. Mi riferisco ad esempio alla dipendenza da in-ternet e non ultima quella dello shopping on line compulsivo. Quali sono i motivi che spingono i giovani, ma anche i meno giovani, verso queste dipendenze?C’è una spinta sicuramente culturale infatti gio-care o fare shopping non appartiene nell’imma-ginario collettivo ad una dimensione illegale,

illecita o disapprovata sono consentite anzi promosse dalle pub-blicità, quindi, dalla posizione del giovane non vi è la percezione di compiere qualcosa di disapprovato o di ri-schio non si ingerisce o inietta nulla. Quello che accade

nella realtà è che l’emozione che viene esperes-sa dalla persona attraverso certi comportamenti (es. alternarsi tra momenti di vittoria/sconfit-ta...) può aprire un processo di rincorsa a voler riprovare sempre di più e più spesso quello stato d’animo. Questo può innescare nel tempo una struttura dipendente soprattutto se una persona si trova di fronte a ferite traumi, momenti di vita particolarmente difficili o per quelle persone con difficoltà relazionali è chiaro come queste nuove dipendenze siano attraenti possibilità di fuga, di sfogo, di risposta, di parentesi, di uscita o di ri-valsa rispetto ad una vita affettiva, lavorativa, non così soddisfacente.

<<Dalla nostra esperienza i familiari hanno un ruolo fondamentale poiché sono i primi a potersi accorgere che c’è un problema>>

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DALL’ITALIA

A tutti i 537 partecipanti, che hanno reso bellissimo lo stare insieme di questi giorni.Alle 140 diocesi presenti e alle re-gioni ecclesiastiche, tutte rappre-

sentate.Ai tanti che hanno offerto lavoro, tempo e com-petenze.A chi ha spalancato le braccia per accogliere, a chi è venuto anche solo per una visita breve. Al Signore che ci vuole bene, perché ci aiuti a portare a casa pensieri e ricordi, ma anche a sa-perli trasformare in gesti quotidiani.A presto! E a tutti un grande abbraccio.

Sono state queste le parole di don Michele, don Gero, Andrea e Rossella al termine del XIV Con-vegno Nazionale di Pastorale Giovanile tenutosi da lunedì 9 a giovedì 12 febbraio a Brindisi. L’ap-puntamento, il cui titolo “Il cantiere e le stelle” si riferisce a un passo delle “Città Invisibili” di Italo Calvino, è stato un modo per ricordare e veri-ficare i vent’anni di vita del Servizio Nazionale di pastorale giovanile e per non lasciar passare il decennio che la Chiesa italiana ha voluto dedica-re all’educazione senza riscoprirne i fondamenti. Proprio per l’occasione, abbiamo chiesto a don Michele Falabretti, responsabile del servizio na-zionale per la Pastorale Giovanile della CEI, di

“IL CANTIERE E LE STELLE”. XIV CONVEGNO NAZIONALE DI PASTORALE GIOVANILEIntervista al responsabile nazionale don Michele Falabretti

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“IL CANTIERE E LE STELLE”. XIV CONVEGNO NAZIONALE DI PASTORALE GIOVANILEIntervista al responsabile nazionale don Michele Falabretti

fare un bilancio del con-vegno, sottolineando il va-lore dell’educazione per le nuove generazioni.

Don Michele, riferen-domi al XIV Convegno Nazionale di Pastorale Giovanile “Il cantiere e le stelle”, nella sua relazione finale leggo “Progettare i processi educativi è una questione fondamenta-le. Altrimenti il rischio è quello di procedere per tentativi e ritrovarsi dove non si vorrebbe o non si sarebbe mai pensato”. Che cosa significa pro-gettare processi educativi nel contesto della Pasto-rale Giovanile?

Progettare i processi educativi è un’arte da im-parare: non è solo questione di genialità o di ca-risma. Quando mi metto di fronte alla vita degli adolescenti o dei giovani devo rendermi conto della delicatezza di un passaggio del genere: ho a che fare con la vita delle persone. Questo, se mi assumo la responsabilità dell’accompagnamento delle loro esistenze, mi chiede di essere prudente, di sapere con chi ho a che fare, quali sono i bi-sogni a cui sono chiamato a rispondere. E poi è importante porsi degli obiettivi e organizzarli in percorsi efficaci, percorribili da tutti: se non vo-gliamo che “chiesa in uscita” diventi uno slogan, è necessario dare un minimo di credibilità e di coerenza alle nostre azioni, soprattutto a quelle

che vanno incontro alla vita delle giovani gene-razioni.

In più di un intervento, i relatori hanno posto l’accento sull’educazione. Quanto è importan-te saper educare chi vive quotidianamente a contatto con i giovani?L’educazione è un compito che da sempre ha a che fare con l’annuncio del vangelo. Saper edu-care significa assolvere al mandato che Gesù ha dato ai suoi quando ha chiesto di portare il van-gelo nel mondo e nella vita dell’uomo. Io credo anche che educare è un compito di restituzione: se non avessi avuto qualcuno che mi ha accompa-gnato nella crescita, io non sarei quello che sono. Aiutare i giovani oggi nella loro fatica di diventa-re grandi, significa non lasciarli soli in un tempo delicato e di povertà, perché nessuno – da solo – sa come si cresce.

Riferendomi sempre al convegno, Franco Mia-no ha dichiarato “diventa imprescindibile la co-noscenza diretta delle situazioni delle famiglie di ragazzi e giovani e la relazione cordiale con le famiglie stesse nella consapevolezza del “de-siderio di famiglia” che appartiene ad ogni per-sona e ad ogni giovane, della fragilità e spesso della contraddittorietà della vita dell’adulto di oggi e del rischio di un “patto” al ribasso nel-la vita delle famiglie”. In che modo la famiglia può continuare ad essere un’agenzia educativa per le nuove generazioni? O meglio, la famiglia ha ancora il ruolo fondamentale nell’educazio-ne dei giovani?La famiglia ha sempre avuto e sempre avrà un ruolo fondamentale: è la culla di ogni persona che vive in questo mondo, è il luogo dove si vie-

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ne a contatto con gli altri e si sente prima che in qualsiasi altro contesto il profumo di vita e di relazioni. La famiglia è (anche) l’altro polo sacra-mentale che insieme al ministero ordinato ha un esplicito riferimento educativo: questo è più che sufficiente per dire che ci deve essere un’alleanza forte con le famiglie dei giovani, perché esse non sono solo in fatica; abbiamo bisogno di conside-rarle maggiormente come risorsa.

Come è cambiata, nel corso del tempo e con l’avvento delle nuove tecnologie, la Pastorale Giovanile?A me piace ricordare che le nuove tecnologie cambiano il mondo, la cultura, le relazioni fra le

persone. Di conseguenza deve cambiare anche la pastorale. Ma non con un cambiamento di fac-ciata: troppo spesso si sente dire che dobbiamo spostarci tutti sui social. A me questa sembra un’operazione ingenua ed è lo stesso tentativo che il cristianesimo ha fatto quando, dopo l’editto di Costantino, ha tentato di “battezzare” il mondo. Tutto andava ricondotto al cristianesimo o rein-terpretato secondo le sue logiche. Io credo che le nuove tecnologie hanno le loro logiche che sono più forti di qualunque tentativo che le voglia

imbrigliare. Occuparsi di giovani in un contesto come quello attuale significa sì utilizzare le nuove tecnologia, ma significa (soprattutto) conoscere i meccanismi nei quali i ragazzi “nuotano” (più che “navigano”), perché soltanto conoscendo a fondo la struttura umana che questi strumenti stanno formando, si potranno scoprire e sostene-re le azioni più adeguate in favore delle giovani generazioni.

Vorrei soffermarmi per un attimo sui giovani di oggi. Quali sono le aspettative che hanno per il loro futuro e soprattutto è vero, come spesso ci mostrano i mezzi di comunicazione, che vivo-no in un dilagante nichilismo?

Non sono riuscito a condividere fino in fondo l’analisi di Galim-berti sul nichilismo dei giovani. Certo nel suo testo scrisse cose vere, ma a me (da subito) diede l’impressione di una lettura uni-laterale, persino troppo pessimi-sta. Non si deve negare che il ni-chilismo è presente nella vita dei giovani, ma si dovrebbe anche ri-conoscere il molto di positivo che sanno esprimere. Quello che mi sorprende (spesso) è che non ci vuole molto ad accendere in loro la vita: magari avranno problemi di “tenuta”, magari non sapranno

sempre andare a fondo nelle questioni, però sono capaci di slanci e di aperture che la mia genera-zione, alla loro età, non aveva già più. Passati gli slanci della contestazione sessantottina, infatti, ci si appiattì in fretta negli anni ottanta su quello che allora veniva definito “edonismo”: non certo un bell’esempio di grande idealità… Forse sono gli adulti che hanno bisogno di riconoscere la capacità di queste aperture del cuore e dell’ani-ma (cose che, peraltro, appartengono da sempre alla struttura umana nella sua pienezza); la do-

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manda vera è: cosa sappiamo, cosa vogliamo dire noi adulti, quando si spalancano le porte del loro cuore?

Sempre dalla sua relazione leggo: “Il rapporto animazione/educazione è il metodo che – in pastorale giovanile – viene chiesto agli educa-tori. Ha le sue regole: accoglienza, conoscenza, relazione, esperienza, verifica/riconoscenza”. Può spie-garci meglio il significato di queste parole alla luce anche di quanto è emerso dal convegno?L’animazione viene da lontano: fu una scoperta degli anni ’70, utilizzata pri-ma come tecnica teatrale e poi come metodo di discussione nelle universi-tà e nelle fabbriche durante il tempo della contestazione. Fu mutuata (anzi-tutto dalla scuola salesiana) e divenne metodo educativo. L’animazione, però, è diventata anche una roba da villag-gio turistico, da serata di intrattenimento: niente di male, ma se l’animazione perde la sua valenza educativa, non serve più alla pastorale. Le rego-le e i passaggi di metodo (che qui non si pos-sono spiegare adeguatamente) hanno bisogno di essere ripresi e imparati: come tutte le tecniche, è necessario averne padronanza; la superficialità non diventa mai un’arte, nemmeno nelle cose più semplici. Ed educare è un’arte.

All’interno del convegno, i giovani hanno avu-to modo di raccontarsi e di raccontare le loro esperienze. Ed è emerso che i social restano importanti ma sorprendentemente i preadole-scenti risultano estremamente consapevoli dei rischi che corrono usandoli. Se lo aspettava? I ragazzi di oggi, quindi, sanno come difendersi dalle insidie della rete. Sinceramente alcune risposte dei preadolescenti mi hanno sorpreso. Ma sono contento: una volta

di più – infatti – i ragazzi si sono dimostrati mi-gliori di quanto spesso noi li rappresentiamo.

Un’ultima domanda: quali sono le sfide a cui è chiamata la Pastorale Giovanile visti anche i rapidi cambiamenti della società in cui vivia-mo?

La prima sfida è sicuramente quella di saper ri-cuperare la passione educativa. Ci sono ancora troppi preti che pensano allo stare con i giova-ni come a una perdita di tempo; ci sono troppi educatori che arrivano con idee preconfezionate e non vogliono costruire relazioni. Passione edu-cativa è anzitutto accettare di mettersi in gioco e di mettere in gioco se stessi: questo può portare l’educatore alla vertigine di sentirsi esposto e fi-nanche indifeso, ma è la condizione per accom-pagnare il cammino dei giovani.E poi c’è la sfida di saper uscire (come chiede Papa Francesco), ma con intelligenza: la fede non è affidata al singolo, ma alla comunità. Questo prevede che mentre si cerca di raggiungere le esi-stenze di tutti, si curi la vita della comunità che è chiamata ad accogliere e ad accompagnare i pro-cessi di crescita. Questa doppia attenzione (alle persone e ai cammini) è una fatica in più a cui non siamo abituati, una bella sfida.

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FESTA DI SAN GIUSEPPE LAVORATORELa Santa Messa celebrata dal Vescovo in fabbrica

Custodire le persone, accompagnan-dole a superare le difficoltà. Lo ha ribadito più volte il Vescovo Ar-mando giovedì 19 marzo nell’ome-lia della Santa Messa che ha cele-

brato, in occasione di San Giuseppe, nella ditta A.C.M. di Bellocchi di Fano, organizzata dalla CNA provinciale di Pesaro. <<Il Vescovo Armando – come ha sottolineato Gabriele Darpetti direttore dell’ufficio diocesano per i Problemi Sociali e il Lavoro - ha toccato il tema del lavoro, ricordando che il lavoro è sosten-tamento per sé e per i propri cari, è una forma di servizio alle persone che utilizzeranno i beni o i servizi prodotti con il lavoro, e per questo ogni la-voro va fatto bene, con dedizione e responsabilità, e infine il lavoro serve per dare una “completezza” spirituale al proprio essere: infatti il modo in cui lavoriamo “rivela la nostra anima”>>.

In occasione di questa ricorrenza, abbiamo vo-luto dare uno sguardo ai dati relativi all’occupa-zione nel nostro territorio. Dalla fotografia, fatta dall’Ires Cgil sulla base dei dati Istat, della situa-zione della forza lavoro nella provincia di Pesaro e Urbino nel 2014 si evince che sono 144mila gli occupati nella provincia di Pesaro e Urbino nel 2014, il 2,3% in meno rispetto al 2013. Ol-tre 4mila sono gli addetti in agricoltura, 53mila nell’industria (in senso stretto e nelle costruzio-ni) e 87mila nei servizi. Sono 84mila uomini e 60mila donne. Il calo nel livello di occupazione rispetto al 2013 è pari all’ 1,3% per gli uomini ed al 3,7% per le donne. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti tra 2013 e 2014 si osserva-no dinamiche opposte per il lavoro dipendente e per quello autonomo. I lavoratori dipendenti nel 2014 sono 105mila, il 3,4% in meno rispetto

all’anno precedente. I lavoratori autonomi sono circa 39mila, quasi 300 unità in più rispetto al 2013 (+ 0,7%).I lavoratori dipendenti del settore industriale in senso stretto (35mila) si mantengono agli stessi livelli del 2013 mentre aumenta considerevol-mente il numero di occupati dipendenti in agri-coltura (+ 31,9%).Il tasso di occupazione maschile si attesta al 71,3% e pur superando la media regionale rap-presenta, assieme all’identico valore 2013, il mi-nimo dal 2014.Per quanto riguarda le persone in cerca di occu-pazione sono 15mila, equamente divisi tra uomi-ni e donne. Rispetto al 2013 diminuisce il nume-ro dei disoccupati sia complessivamente (- 7,2%), sia per uomini (- 9,5%) e donne (- 5,2%).Particolare allarme desta il livello del tasso di di-soccupazione giovanile (39,5% contro il 36,4% medio regionale) che per le femmine raggiunge il livello record del 57,4% (40,9% media regio-nale tasso di inattività aumenta rispetto al 2013 (31,9% contro 30,6%). La stessa dinamica si os-serva per uomini e donne: il tasso di inattività dei primi passa dal 22,1% al 22,7%, mentre per le donne si va dal 39,2% del 2013 al 41% del 2014.

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SERVIZIO CIVILE IN CARITASNe parliamo con la referente Laura Paolini

“L’esperienza del Servizio civile di cui ci sentiamo partecipi non è da leggersi in chia-

ve funzionale o strumentale: non va semplicemente pro-porzionata ai bisogni pro-fessionali delle nuove gene-razioni né si qualifica quale offerta di sostegno a servizi pubblici in difficoltà. Essa, piuttosto, è vera scuola di umanizzazione e di cittadi-nanza. È “luogo” che anima e abita il territorio, e sviluppa reti che favoriscono l’incon-tro. È condizione nella quale si impara e si testimonia che un altro mondo è davvero possibile”. Queste le parole di Mons. Nunzio Galantino al seminario nazionale per i referenti del Tavo-lo ecclesiale sul servizio civile. “Per continuare a realizzare tutto ciò ci è chiesto un notevole in-vestimento in formazione. Infatti, non si tratta semplicemente di assicurare il momento inizia-le con la trasmissione di saperi teorici, quanto di coinvolgersi – fin dalla fase di presentazione dei progetti – con l’obiettivo di sviluppare legami co-munitari e reti sociali. Puntiamo sul fare proposte di senso; sul dichiarare apertamente che credia-mo nell’impegno per lo sviluppo umano e per la giustizia sociale: e quello che andiamo a offrire sia veramente opportunità per i giovani di far-ne esperienza”. E proprio il 16 marzo scorso si è aperto il bando per la selezione di 29.972 volon-

tari da impiegare in progetti di Servizio Civile Nazionale in Italia e all’estero. La Caritas della

Diocesi di Fano, Fossombrone, Cagli, Pergola mette a disposizione 20 posti per coloro che de-cideranno di operare in questa realtà del nostro territorio.I progetti nei quali verranno impiegato sono quattro: I care mi sta a cuore-Fano, Il mondo in una stanza, Passaggi e presenza, Step by step (scadenza 23 aprile alle ore 14) I care mi sta a cuore-FanoIl progetto si sviluppa all’interno di tre parroc-chie della Diocesi di Fano-FossombroneCagli-Pergola, che hanno sentito l’esigenza di inserire figure giovani all’interno dei propri oratori (l’o-ratorio è un luogo, prevalentemente all’interno

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di una parrocchia dove si incontrano bambini e ragazzi per stare insieme, per fare attività ludi-che, per fare i compiti, per vivere ancora meglio la propria comunità parrocchiale, per esprimere i propri talenti, per interagire con figure adulte, come i volontari o il proprio parroco).

Il mondo in una stanzaIl progetto che si rea-lizzerà nella Sala della Pace, intende accresce-re nelle giovani gene-razioni e nella comu-nità civile ed ecclesiale la consapevolezza circa i cambiamenti sociali e culturali in atto nel territorio della Dio-cesi di Fano, Fossom-brone, Cagli, Pergola. Da questo aiutarli ad ampliare lo sguardo al resto del mondo, affin-ché possano maturare attitudini, competenze e modalità di relazio-ne volte a promuove-re un futuro sviluppo sociale basato sull’ac-coglienza, il dialogo e l’accettazione del di-verso quale elemento di ricchezza e non di conflitto.

Passaggi e presenzaIl progetto si realizza all’interno del Centro di Ascolto della Caritas e ha come obiettivo quello di riuscire a dare una prima risposta a situazioni di estremo disagio, attraverso l’ascolto dei biso-gni, la distribuzione di beni di prima necessità, e soprattutto attraverso la progettazione di percorsi

di accompagnamento per il recupero e reinseri-mento delle persone.

Step by stepIl progetto si sviluppa all’interno del Centro Diurno per adolescenti dell’ Associazione Vo-lontari nella Solidarietà in accordo di partena-riato con la Caritas Diocesana di Fano, in via

Montevecchio nr.56 a Fano (PU). I volontari in servizio civile inizieranno con una prima fase di conoscenza degli adolescenti. Affiancheranno gli educatori e i volontari del centro nelle attività quotidiane con i ragazzi, in tutte le attività previ-ste durante la giornata.

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Dopo il successo dello scorso anno, che ha vi-sto la presenza di oltre 15mila visitatori, sabato 7 e domenica 8 marzo tornano le Giornate dei Musei Ecclesiastici organizzate da AMEI (As-sociazione Musei Ecclesiastici Italiani). Un’occa-sione importante per conoscere il patrimonio che i musei ecclesiali custodiscono. Per conoscere più da vicino questo prezioso patrimonio artistico-culturale abbiamo intervistato Giuseppe Cucco, incaricato Regionale per i Beni Culturali Eccle-siastici Regione Ecclesiastica Marche.

Quanti sono i musei diocesani presenti nella nostra regione e qual è il loro valore per il no-stro territorio?Se parliamo di musei diocesani in senso stret-to, questi sono tanti quante sono le diocesi, ma in realtà ciascuna di queste – spesso frutto della fusione di diocesi più antiche - ha più strutture museali al proprio interno, come sedi distaccate. Inoltre vi sono realtà come quella della Diocesi

di San Benedetto del Tronto che con i suoi Mu-sei Sistini del Piceno raccoglie ben dieci realtà museali coinvolgendo altrettanti comuni. Se in-vece parliamo di raccolte museali ecclesiastiche in senso lato, comprendendo le raccolte di Con-fraternite, di Ordini religiosi, parrocchie, ecc., il numero raggiunge e supera le cento unità. Na-turalmente molte di queste raccolte non sono certificate come musei perché non hanno tutti i requisiti richiesti e non sono sempre aperte al pubblico, ma resta il fatto che esiste un numero elevatissimo di realtà che raccolgono testimo-nianze storiche e artistiche del territorio.La funzione che queste svolgono è rilevantissima perché custodiscono la memoria storica del pas-sato, delle esperienze non solo religiose, ma anche artistiche o artigianali del nostro territorio. I beni ecclesiastici appresentano la parte preponderante del patrimonio artistico della regione e questo lo sanno tutti, ma troppo spesso si dimentica che hanno una specificità propria; non documenta-

GIORNATE DEI MUSEI ECCLESIASTICIIntervista al delegato Marche Giuseppe Cucco

San Benedetto del Tronto - Foto da museisistini.it

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no solo l’evolversi del gusto artistico, la storia e l’arte, ma anche e, direi soprattutto, l’esperienza religiosa.

In che modo si possono valorizzare maggior-mente i musei ecclesiastici italiani?All’interno di una struttura museale la valorizza-zione rappresenta sempre il nodo cruciale, quello più difficoltoso per gli operatori, perché spesso la si collega direttamente alla sua promozione e quindi alle disponibilità finanziare che essendo molto scarse rendono così quasi impossibile ogni attività. In realtà la valorizzazione può essere fatta anche con scarsi mezzi e su questo tema si sta lavorando molto da parte degli uffici dioce-sani per i beni culturali. Nel nostro caso, infatti, si tratta di ricomprendere qual è la funzione dei beni culturali ecclesiastici.Il patrimonio storico-artistico ecclesiale non è stato costituito in funzione dei musei, ma per esprimere il culto, la catechesi, la cultura, la carità. La Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa ha emanato, il 15 agosto 2001, una Lettera Circolare dal titolo: La funzione pasto-rale dei musei ecclesiastici. Già nella presenta-zione si afferma che: «… un museo ecclesiastico,

con tutte le manifestazioni che vi si connettono, è intimamente legato al vissuto ecclesiale, poiché documenta visibilmente il percorso fatto lungo i secoli dalla Chiesa nel culto, nella catechesi, nella cultura e nella carità. Un museo ecclesiastico è dunque il luogo che documenta l’evolversi del-la vita culturale e religiosa, oltreché il genio dell’uomo, al fine di garantire il presente. […] Deve quindi neces-sariamente inserirsi nell’ambito del-le attività pastorali, con il compito di riflettere la vita ecclesiale tramite un approccio complessivo al patrimo-

nio storico-artistico».Un museo ecclesiastico «non si riduce alla semplice “raccolta di antichità e cu-

riosità” […], ma conserva, per valorizzarle, opere d’arte e oggetti di carattere religioso. […] anche se tanti manufatti non svolgono più una specifica funzione ecclesiale, essi continuano a trasmettere un messaggio che le comunità cristiane viventi in epoche lontane hanno voluto consegnare alle successive generazioni».In sintesi, i beni culturali conservati nelle chiese o nei musei ecclesiastici si riferiscono alla storia e alla vita della Chiesa e della Comunità e ne sono strettamente correlati. Valorizzare i musei per noi è aver sempre presente questo compito.

Moltissimi musei fanno già parte di una rete, quella ecclesiale, ma non ne sono ancora del tutto consapevoli. Quali sono i benefici o i van-taggi di cui possono godere?A livello locale alcuni musei hanno creato una propria rete diocesana o si sono aggregati ad altre realtà civili. Nel primo caso il rischio è di restare comunque poco incisivi, di non avere peso con-trattuale specie in un momento in cui le pubbli-che amministrazioni, che dispongono di qualche fondo, tendono ad assegnare contributi a quelle

Museo Sistino Vescovile di Montalto - Foto da museisistini.it

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realtà che vedono uniti in consorzio più enti. Nel secondo caso, invece, il rischio è quello di mette-re in subordine la propria identità ecclesiale che, come ho detto prima, ha una peculiarità tutta propria anche nella finalità.Alla luce di questo, diventa sempre più evidente che le realtà museali ecclesiastiche devono intra-prendere un cammino verso azioni programma-tiche, gestionali e promozionali comuni – cioè mettersi in rete a livello interdiocesano se non addirittura regionale. Questa esigenza è sempre più forte anche a livello nazionale e la Consulta Regionale per i beni culturali ecclesiastici sta la-vorando da tempo in tale direzione.

Quali sono le attività principali dell’AMEI?

L’AMEI (Associazione Musei Ecclesiastici Ita-liani) opera per favorire il confronto, la collabo-razione e la visibilità dei musei ecclesiastici. Ha un proprio sito (http://www.amei.biz/) elegante e ben strutturato. Ogni due anni organizza un convegno nazionale su specifiche problematiche museali. L’ultimo convegno, del 2013, tenutosi in Assisi, è stato dedicato proprio alle reti museali ecclesiastiche. Quello precedente, a Trento, era dedicato alla didattica. Recentemente ha iniziato a promuovere, all’inizio del mese di marzo, due “Giornate dei musei ecclesiastici” con una serie di iniziative culturali e ingressi gratuiti. Nel 2013, ricorrendo il centenario, ha sollecitato i musei a promuovere esposizioni che avessero come tema l’editto di Costantino, il riconoscimento ufficiale del cristianesimo e quindi il tema della croce.

In che modo si può far conoscere il valore di questo patrimonio anche alle nuove genera-zioni per far sì che siano sempre più sensibili all’arte?Visitandoli davvero i musei! Può sembrare una risposta ovvia o banale, ma solo entrandoci in contatto si potrà abbandonare l’idea, diffusa tra i giovani, del museo come luogo di raccolta di “cose polverose e noiose”. Tutto sta a come sono loro presentate le cose, a come si racconta loro l’esperienza artistica e soprattutto l’esperienza religiosa, di fede, che ha generato quei dipinti e quegli oggetti. Qui ad essere carenti non sono i giovani, ma gli addetti ai lavori che non riescono a far emergere la bellezza di questa storia. Ad essere carenti sono quei catechisti che per la loro catechesi non san-no utilizzare l’enorme patrimonio iconografico che le nostre chiese e musei offrono; sono quegli insegnanti di religione che parlano di tutto e di tutte le religioni, ma hanno timore di presentare quello che è nato dalla fede cattolica e di cui i no-stri ragazzi non sanno più nulla, nemmeno l’abc.E poi non dimentichiamo che il museo è per tut-ti; possono essere organizzati percorsi per fami-glie, per pensionati, per bambini, ecc.Recentemente, nel museo diocesano di Trento, sono state fatte delle esperienze interessantissi-me di percorsi per persone disabili, anche a livello psichico, che ne hanno tratto gran profitto. Infine, non dovremmo dimenticare gli immi-grati, cioè tutte quelle persone che venendo da mondi lontani dal nostro non sanno nulla della nostra cultura e una visita al museo sarebbe per loro occasione di integrazione e di riscatto cultu-rale e umano; anche in questo modo si va verso le periferie cui ci invita ad andare papa Francesco.

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IL CROCIFISSO LIGNEO RESTAURATOIntervista a Donatella Renzaglia restauratrice

In occasione delle Giornate AMEI (As-sociazione Musei Ecclesiastici Italiani) sabato 7 marzo, al Centro Pastorale Dio-cesano, è stato presentato al pubblico, alla presenza del Vescovo Armando, il Croci-

fisso ligneo restaurato. L’opera è la più antica fra quelle presenti nella raccolta museale. Intaglia-to in legno e dipinto, privo delle mani – come si legge nell’estratto di Memoria Rerum 2013 – la scultura è lavoro di ignoto intagliatore umbro-marchigiano ed è riconducibile allo scorcio del XIII secolo o agli inizi del successivo. Intensa la forza espressiva del volto e alta la suggestione

che si sprigiona dalla sua sacrale semplicità. Ma accanto all’arcaicità ancora espressionistica del-le sue membra, convivono forme, nella fattispe-cie panneggi, che, per abbondanza e fantasia di avvolgimenti e volute e, per motivi ornamentali dipinti possono già dirsi intrisi di gotiche verità. Il restauro dell’opera è stato eseguito, nel 2012-2013, dalla restauratrice Donatella Renzaglia sotto la direzione di Daniele Diotallevi della competente Soprintendenza regionale.

Per saperne di più sulla tecnica del restauro ab-biamo intervistato proprio Donatella Renzaglia.

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Come si diventa restauratori?Occorre frequentare una scuola di restauro. In Italia abbiamo istituti con diverse specializzazio-ni ad esempio l’Istituto superiore per la conser-vazione e il restauro di Roma , l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze , la scuola per il restauro del mosaico di Ravenna ecc. e corsi in molte uni-versità.

Quali sono, se ci sono, le opere più difficili da restaurare?Non possiamo parlare di opere più difficili da re-staurare ma di problematiche diverse e particolari che investono le opere di ogni epoca.La sperimentazione di tecniche “nuove” o empi-riche in epoca antica , l’esempio più noto è forse il Cenacolo di Leonardo, o l’utilizzo di prodot-ti industriali, non sufficientemente testati ,nelle opere moderne creano spesso grossi problemi di conservazione.

Parliamo del Crocifisso ligneo presente nel no-stro museo diocesano da lei restaurato. Come avviene, tecnicamente, il restauro di un’opera di questo tipo?Prima di iniziare un restauro occorre eseguire un’indagine filologica dell’opera in cui si deve intervenire. Partendo dall’osservazione diretta si stabiliscono le cause di degrado e si individuano le stesure sovrammesse al fine di una valutazione estetica e storica dei vari interventi e la loro inci-denza nello stato di conservazione.Sulla base di queste valutazioni e avvalendosi di indagini scientifiche si sceglie il metodo di in-tervento più idoneo con l’obbiettivo di restituire leggibilità all’opera.In questo caso sono state eliminate le quattro ri-dipinture con le relative ammanniture , che alte-ravano il modellato con uno spessore di mm. 3,5, scoprendo le stesure originali.Contemporaneamente è stato eseguito il conso-lidamento degli strati preparatori e la riadesione

dell’impannatura.Quindi si è passati alla stuccatura delle lacune e al restauro pittorico, concludendo il lavoro con la verniciatura finale.

Qualche consiglio per i giovani che si vogliono avvicinare a questa professione.Sicuramente lo studio ma occorre anche passio-ne, curiosità , pazienza e una dose di umiltà .

Quando si restaura un’opera, c’è il timore di po-ter denaturare l’opera stessa?È la prima preoccupazione del restauratore e ri-chiede la massima attenzione nell’individuare sostanze e interventi che non causino deteriora-mento dello stato di conservazione fisico , chi-mico o estetico.

La professione del restauratore riesce a unire l’amore per l’arte con l’amore per le nostre radi-ci, per il nostro passato. Quali sono le emozioni che prova ogni volta il restauratore quando si accinge a iniziare il suo lavoro?Personalmente lo potrei paragonare ad un viaggio in cui si parte con una certa emozione e curiosità per la meta ; scoprire qualcosa lungo il percorso è sempre quello che ci si augura e aggiunge un tassello sia all’ esperienza professionale e perso-nale che al nostro passato.

Che cosa può “dire” la professione del restaura-tore alle nuove generazioni?Può dire che si deve prendere coscienza di vivere in un contesto patrimoniale artistico , storico e territoriale inestimabile che va difeso con la do-vuta considerazione politica e sociale .Prendersene cura adeguatamente può dare gros-se opportunità di lavoro non solo ai restauratori ma anche a molti altri settori , salvaguardando la nostra cultura e creando sicuramente un futuro migliore.

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“LO SGUARDO DELLA DONNA SULLA FEDE, SULLA FAMIGLIA, SULLA CHIESA”L’assemblea diocesana si tinge di rosa

Parlare della donna, proprio l’8 marzo festa a lei dedicata, potrebbe risul-tare, per certi versi, banale. Potrebbe esserci il rischio di ricadere nei soliti luoghi comuni che si esauriscono nei

soliti auguri scontati. Non è stato così per la Dio-cesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola che, domenica 8 marzo, ha voluto riflettere sulla don-na, ma soprattutto sul suo sguardo sulla fede, sul-la famiglia, sulla Chiesa. Un’assemblea diocesana che – come ha sottolineato il Vicario per la Pa-storale don Marco Presciutti – è stata l’occasione “per ascoltare le donne, per arricchirci con il loro genio e il loro cuore, per guardare alle realtà della

fede, alle cose della famiglia, alla missione della chiesa con i loro stessi occhi, le loro aspettative e sensibilità, in una complementarietà non più semplicemente auspicata ma sempre più costru-ita e realizzata. É di fatto imprescindibile se non vogliamo tradire il mandato di Gesù che ci ha chiesto di stare dentro il mondo per la sua uma-nizzazione, per essere germe della Signoria di Dio che fonda e riscatta l’uguale dignità di ogni essere umano”. Tre interessanti testimonianze quelle che si sono susseguite durante l’assemblea, introdotte da una breve riflessione del Vescovo Armando che ha messo in evidenza, riferendosi al Vangelo di Marco (15,40-47), come solo chi

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FOCUS DONNA

conosce la vita, la vive, la sente, pensate a una ma-dre, solo chi sa quanto sia doloroso partorire, far nascere la vita, solo chi conosce l’amore, chi sa provare qualcosa nel cuore e percepire l’altro, solo costui potrà “vedere” il Risorto, che la vita non ha fine e che l’amore è più forte di tutto. L’amo-re – ha proseguito il Vescovo – non si arrende, non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell’amore, conosce l’eternità. Anche quando tut-to sembra dire al contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce l’eternità. L’amore vuole “per sempre”.

E poi la parola a quattro donne che, seppure in maniera diversa, con scelte differenti, vivono il loro ministero in pienezza. Suor Patrizia Noci-tra, clarissa del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto, ha esortato ognuno di noi ad alzare lo sguardo per vedere il Risorto come hanno fatto Maria di Magdala, Maria di Jose e Salome. Maria di Magdala. Tre donne della Dio-cesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola hanno voluto portare la loro testimonianza di vita. Te-stimonianze forti, intense, a tratti commoventi come quella di Elisabetta Lattanzio, insegnante di Frontone, che dopo aver sperimentato la gioia della missione in Burundi, esperienza condivisa

con tutta la sua fa-miglia, si è trovata ad affrontare il dramma della malattia di suo figlio Federico, il calvario delle cure, la speranza delusa di un miglioramento, la ricerca “dell’alba dentro l’imbrunire”, gli interrogativi sen-za mai una risposta e, infine, la scoperta di quest’alba, di una luce nel buoi della sofferenza, i piccoli miglioramenti quo-

tidiani di suo figlio, il ritornare a parlare con Dio con dolcezza, accettando di vivere questa vita, nonostante tutto, pienamente o come la testimo-nianza di Laura Meletti, presidente diocesana di Azione Cattolica, figlia, sorella, moglie, ma con il desiderio non esaudito di diventare mamma. La sua sofferenza, la tentazione di vedere tutto come una condanna. E poi la presa di coscienza che una difficoltà diventa opportunità, che la sterilità diventa fecondità. “Sogno una Chiesa – ha affer-mato Laura - che sa essere feconda anche quando sembra che tutto sia arido e privo di senso. É lì che bisogna saper mettere in campo le forze mi-gliori”.

Una famiglia, quella di Pia Miccoli, con cinque figli e un’esperienza di affido. Una mamma che si occupa dei figli, ma che non rinuncia ad essere donna lavoratrice. Un’animatrice di gruppi fami-glia che, con gioia ed entusiasmo, cammina in-sieme a tante coppie nel loro percorso di fede in uno spirito di grande divisione poiché, come ha sottolineato Pia, “tanto abbiamo dato ma tanto di più abbiamo ricevuto”.

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FOCUS DONNA

STARTUP INNOVATIVE: UNA SU OTTO È DONNA La fotografia scattata a fine gennaio 2015 da Unioncamere

Pesano ancora poco sul tessuto impren-ditoriale ma sono in crescita e davan-ti hanno un enorme potenziale da sfruttare: sono le startup innovative guidate da donne. Un piccolo esercito

composto da quasi 400 imprese metà delle quali si sta facendo strada soprattutto nella produzione di software, nella ricerca e sviluppo e nei servi-zi di ICT. Solo lo scorso anno questa “business community” è aumentata del 50,6%, ma resta di gran lunga meno popolata di quella dei colleghi

uomini. É “rosa”, infatti, solo il 12,4% delle oltre 3.200 startup innovative, contro il 21,5% delle aziende complessive italiane. Quasi 3 startupper donna su 4 scelgono di operare sotto forma di società a responsabilità limitata e, per dare avvio alla propria impresa, il 77% delle neo imprendi-trici ha investito nel capitale un valore non supe-riore ai 10mila euro. Il Nord ovest, con Milano in testa, è al top per numerosità delle nuove imprese innovative condotte da donne (30,2%), seguito dal Mezzogiorno (24,4) e dal Centro (23,6%).

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FOCUS DONNA

Mentre il Nord est è il fanalino di coda dell’in-novazione al femminile (21,9%).É quanto emerge dalla fotografia scattata a fine gennaio 2015 da Unioncamere su dati Infocame-re. “Il dinamismo delle startupper donna ci confer-ma che le iniziative messe a punto dal Governo per stimolare la nascita di nuove imprese inno-vative stanno andando nella giusta direzione”. É questo il commento del presidente di Unionca-mere Ferruccio Dardanello, che aggiunge “ora però occorre diffondere il più possibile la cono-scenza di queste opportunità tra le aspiranti im-prenditrici affinché sempre più idee “smart” de-clinate al femminile possano dare vita a nuove realtà imprenditoriali. In questo senso le Camere di commercio, anche attraverso la rete dei Co-mitati per l’imprenditoria femminile, possono essere uno strumento prezioso sul territorio per mettere a fattor comune gli strumenti a disposi-zione per far nascere e crescere la propria impresa accompagnandone il cammino”.

Piccolo è “smart” : una start up innovativa fem-minile su quattro ha meno di 5 addetti Le neoimprese innovative guidate da donne han-no piccole dimensioni: il 95% dispone di un ca-pitale sociale non superiore ai 50 mila euro, 1 su 4 ha meno di 5 addetti e quasi una su tre un giro d’affari che non supera i 100mila euro. Le nuove imprese femminili “smart” vestono princi-palmente la forma giuridica di società a respon-sabilità limitata (73,1%) e, pur se in misura mi-nore, quella in versione semplificata (15,1%). Ma il tasso di femminilizzazione raggiunge la punta più elevata tra le cooperative dove una start up innovativa su tre è “rosa” contro una media del 12,4%. In generale nella metà dei casi la presenza femminile nella compagine societaria o nei con-sigli di amministrazione è forte, ovvero maggiore o uguale al 60%, mentre in più di un caso su 4 è esclusiva, pari cioè al 100%.

Le startupper dell’innovazione “rosa” trionfano nell’ICT e in R&SL’universo complessivo delle startup innovative “rosa” si compone di 398 imprese, di queste ben tre su quattro lavorano nei servizi (74,6%), men-tre il 20,4% si occupa di industria e artigianato e il 4,8% di commercio. Più in dettaglio tra le atti-vità maggiormente diffuse 83 startup innovative femminili (20,9%) si interessano di produzione di software e consulenza informatica, 79 (19,8%) di ricerca e sviluppo e 42 (10,6%) dei servizi di ICT. Ma la presenza delle donne imprenditrici all’interno delle startup innovative complessive raggiunge il top nella fabbricazione di prodotti chimici e nelle industrie alimentari (40%) contro una media del 12,4%.

Nord Ovest culla delle nuove idee innovative femminili che si fanno impresa. Milano al top É nel Nord ovest che si registrano in maggior numero di startup innovative guidate da donne (120 su 398 totali) , segue il Mezzogiorno (97 imprese) tallonato dal Centro (94). Mentre il Nord est è il fanalino di coda. A livello regionale è la Lombardia in “pole position” (con 83 imprese ovvero il 20,9% del totale), seguita da Emilia Ro-magna (50 imprese il 12,6% del totale) e dal La-zio (40 imprese il 10,1% del totale). Ma per tasso di femminilizzazione sono la Basilicata (30%), l’Umbria (22,2%) e Valle d’Aosta (20%) a salire sul podio della nazionale femminile “smart”. Su scala provinciale è Milano a guidare la classifica delle startup innovative femminili (52 imprese, il 13,1% di quelle complessive), mentre conqui-sta il secondo posto Roma (36 imprese, 9%) e il terzo Torino (19 imprese, 4,8%). Tuttavia per in-cidenza delle donne in questo “speciale” tessuto imprenditoriale è Firenze ad aggiudicarsi la me-daglia d’oro (21,3%), a Modena, invece, va quella d’argento (18,8%) e a Napoli quella di bronzo (15,6%).

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FOCUS DONNA

UNA “QUOTIDIANITÀ VIOLENTA” Il Centro Antiviolenza provinciale si racconta

Diciotto aprile 2011. Nel bosco di Ripe di Civitella la giovane mamma Melania Rea viene bru-talmente uccisa. Condannato suo marito Salvatore Parolisi.

10 luglio 2013. Rosy Bonanno viene uccisa a col-tellate dal suo ex a casa dei suoi genitori..9 agosto 2013. A Pinzolo la trentunenne Lucia Bellucci viene uccisa dal suo ex fidanzato.12 marzo 2015. A Trento Marco Quarta uccide sua moglie Carmela davanti ai figli.Queste sono solo alcune, ma la lista purtroppo sembra destinata ad allungarsi. Sono donne vit-

time di “amori malati” che hanno trovato la mor-te, per così dire, “in casa”. Uomini che odiano le donne? Forse c’è molto di più. Per capire più da vicino il fenomeno del femminicidio abbiamo in-tervistato le operatrici del Centro Antiviolenza della Provincia di Pesaro-Urbino “Parla con noi”.

Quanti sono i casi di violenza che avvengono tra le mura domestiche e quante le donne che hanno il coraggio di parlare e denunciare?La possibilità di confrontarsi con dati ufficiali, precisi e completi nell’ambito della violenza di genere, incontra numerosi limiti.

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FOCUS DONNA

In primo luogo, il fenomeno in questione è am-piamente sommerso: una consistente parte delle violenze subite rimane nel silenzio, all’interno delle mura domestiche.Inoltre, in Italia, manca un metodo ufficiale di rilevazione dati sulla violenza di genere, manca un organo istituzio-nale che sia preposto ufficialmente all’osservazione di questo fenome-no.Difficoltà ulteriori si riscontrano nella quantificazione della violenza psicologica: essa non è semplice da definire e da riconoscere, né dalle donne che la subiscono né, a volte, dai soggetti preposti alla loro tutela. Spesso si tratta di atteggiamenti che si insinuano gradualmente nelle relazioni, atteggiamenti spesso ac-cettati, sopportati dalle donne stes-se, comportamenti che finiscono col privare la vittima della percezione del proprio valore, anche con gra-vi conseguenze sul piano psichico ed emotivo. Misurare questa realtà in maniera assoluta è impossibile. Quindi i dati disponibili sulle don-ne vittime di violenza – sia a livel-lo nazionale che locale- sono dati parziali, relativi soltanto al numero di donne che hanno denunciato il fatto alle autorità o che hanno fatto accesso a qualche servizio specifico.Si tratta di numeri che , se pur utili a testimo-niare la portata e la gravità del fenomeno, non sono in grado di rilevare la effettiva consistenza e diffusione della violenza di genere.Dopo queste premesse, proviamo tuttavia a for-nirvi qualche dato.A livello nazionale, i dati che possiamo trovare sulla violenza di genere sono essenzialmente ri-conducibili a due realtà:Una indagine ISTAT del 2006, che risale quindi

a nove anni fa. La stessa rilevava che in Italia una donna su tre è stata, almeno una volta nella vita, vittima dell’aggressività di un uomo, nella mag-gioranza dei casi appartenente alla sfera familia-re; di queste, il 30% dichiarava di non averne mai

parlato con nessuno e oltre il 93% delle violenze non erano state denunciate.Il numero dei femminicidi. Il dato è in crescita, passato da 80 donne uccise in Italia nel 2005, a 134 donne nel 2013, a 179 donne uccise nel 2014. Sette su dieci di questi reati sono stati consumati nel contesto familiare o affettivo, e di questi, oltre il 66%, è avvenuto ad opera del proprio coniuge/partner o ex partner (dati raccolti mediante no-tizie pubblicate a mezzo stampa dalla Casa delle Donne di Bologna).Di seguito presentiamo i dati relativi all’utenza del Centro Antiviolenza della Provincia di Pesa-

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FOCUS DONNA

ro-Urbino, raccolti mediante l’utilizzo di “sche-de di ingresso” che registrano, in forma anonima, ogni donna vittima di violenza che si rivolge al Cav (Centro antiviolenza) stesso.Nell’anno 2014, le donne che hanno contattato il Centro Antiviolenza sono state 116, conferman-do il trend di crescita che già dall’anno scorso si era evidenziato: dalle 72 donne del 2012 e alle 110 donne del 2013. É utile precisare che tale dato rivela non l’aumento della violenza quanto piuttosto l’incremento delle donne che richiedo-no aiuto al CAV, e questo potrebbe essere attri-buito alla maggior visibilità di questi servizi sul territorio.

Sempre considerando l’anno 2014, le donne vit-time di violenza che si sono rivolte al CAV, pre-sentano in maniera prevalente le seguenti carat-teristiche: età compresa tra i 30 e i 50 anni (55%), coniugata (42%), italiana (71%), con figli (oltre il 60%) e in particolare figli minorenni (43%).Autore della violenza è nella maggioranza dei casi il partner (marito, convivente o fidanzato), attuale (50%) o ex (24%); il 10% è rappresenta-to da un familiare, parente o affine. Fuori dal gruppo familiare i soggetti perseguitanti si indi-viduano tra colleghi, amici, conoscenti, oppure estranei, con una incidenza del 13%.Per quel che concerne la tipologia della violenza subita, emerge una maggiore incidenza di quella psicologica (83 donne su 116) e fisica (75 don-ne su 116), considerando che una donna spes-so è vittima di più forme di violenza e soprusi contemporaneamente; si contano poi 19 violen-ze sessuali, 17 economiche, 16 casi di stalking, 6 violenze e abusi nell’infanzia, 1 sfruttamento della prostituzione.

Quante donne hanno il coraggio di parlare e denunciare? Come poterlo quantificare?A livello nazionale, l’indagine ISTAT di cui sopra (anno 2006) rivelava che c’è un ampio sommerso.

Le donne che si rivolgono al Centro Antiviolen-za sono donne che in qualche modo, se pur con livelli di consapevolezza diversi, hanno deciso di parlare e di raccontare a qualcuno il proprio do-lore e hanno deciso di chiedere un qualche aiu-to… e sono 116 appunto nel 2014.Dai racconti delle stesse, emerge che il CAV spesso non rappresenta l’unico soggetto a cui è stata rivolta una richiesta di aiuto e che la donna ha già condiviso o sta condividendo il problema con altri soggetti: questi soggetti sono rappresen-tati da Forze dell’Ordine, servizi sanitari, servizi sociali, professionisti privati (avvocati, psicologi)e la propria rete informale di conoscenze.Risulta inoltre che, al momento in cui contatta-vano il Servizio, 37 donne (32% dei casi) dichia-ravano di aver presentato denuncia presso le For-ze dell’Ordine contro il loro aggressore.

Di che cosa si occupa, nello specifico, il centro antiviolenza e quali sono i servizi che offre?Il Centro Antiviolenza Provinciale “Parla con noi” nasce nell’aprile del 2009 in seguito alla L.R. n.32/2008 con la finalità di accogliere e sostenere la donna vittima di violenza di genere ed accom-pagnarla lungo il percorso di uscita dal problema.Il Centro persegue l’obiettivo di rappresentare per le donne che vi accedono un luogo sicuro, non giudicante, dove poter portare la propria storia e le proprie emozioni… dove poter esercitare libe-ramente le proprie scelte ed essere sostenute nella definizione e realizzazione del proprio progetto di uscita dalla violenza … un luogo di presa di cura di sé.I servizi che il Cav offre sono i seguenti:

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FOCUS DONNA

colloqui di accoglienza: ascolto, sostegno, infor-mazioni; colloqui informativi di carattere legale;colloqui di sostegno psicologico; orientamento e/o accompagnamento nella frui-zione dei servizi presenti sul territorio; attivazione della rete di protezione mediante la-voro di raccordo con altri soggetti coinvolti (for-ze dell’ordine, servizi sanitari, servizi sociali…);promozione di attività rivolte a sensibilizzare l’o-pinione pubblica sulle diverse forme di violenza. L’attivazione dei servizi del Centro avviene solo su richiesta diretta della donna. L’attività è svolta da personale femminile e viene

garantito l’anonimato e la riservatezza dell’uten-za. Le prestazioni e i servizi erogati sono com-pletamente gratuiti e vengono agiti nel totale rispetto della volontà e della libera scelta della donna.Il Servizio ha i seguenti orari:lunedì dalle 9.00 alle 12.00 (solo accoglienza te-lefonica);mercoledì dalle 8.30 alle 12.30;giovedì dalle 14.00 alle 18.00.

Il primo contatto con il CAV avviene preferibil-mente per telefono; fanno seguito appuntamenti in sede. Il numero telefonico del Centro “Parla con Noi” è 0721/639014; in orario di

apertura del Servizio, vi si può accedere gratuita-mente, anche componendo il numero nazionale 1522. É sempre attiva una segreteria telefonica dove poter lasciare un messaggio con indicazione del proprio recapito telefonico, per poter essere ri-contattate quanto prima.

Mi vorrei soffermare un attimo sull’omicidio di Melania Rea che è ritornato improvvisamen-te alla ribalta delle cronache perché proprio il mese scorso La Cassazione ha annullato l’ag-gravante della crudeltà nei confronti dell’uomo condannato in appello per l’omicidio della mo-glie Melania Rea il 18 aprile 2011 con 35 col-tellate. Che idea vi siete fatte di tutto questo?Riteniamo che il fatto che si sia giunti all’indivi-duazione del colpevole - in quanto la Cassazione ha confermato che è stato il marito ad uccidere la moglie - e non sia rimasto un caso irrisolto, come a volte accade, possa considerarsi un suc-cesso. Quanto all’esclusione dell’aggravante non entriamo nel merito non conoscendo gli atti né le motivazioni che hanno condotto la Suprema Corte a questa decisione.

Quali sono gli stati d’animo delle donne che si rivolgono al vostro centro? Nei loro occhi c’è solo paura o anche voglia di riscatto o, a volte, anche di vendetta?La persona che si rivolge al nostro servizio porta storie diverse e anche laddove ritroviamo il ripe-tersi di alcune storie che sono simili tra loro, ciò che è differente è la protagonista di questa storia e quindi anche i sentimenti vissuti.Paura, disistima, tristezza, dolore, disorienta-mento, stanchezza, ma anche forza, tenacia, de-terminazione, coraggio sono alcuni stati d’animo ricorrenti.A volte non c’è neppure la paura perché la donna, nel raccontarci la sua quotidianità violenta, non sempre si rende conto di essere in pericolo ed

<<Paura, disistima, tristezza, dolore, disorientamento, stanchezza, ma anche forza, tenacia, determinazione, coraggio sono alcuni stati d’animo ricorrenti>>.

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FOCUS DONNA

ecco perché le nostre operatrici fanno un lavoro insieme a lei di presa di coscienza e valutazione del rischio.A volte invece c’è una sorta di “congelamento” da parte della donna sia nelle sue emozioni che nelle sue azioni, in quanto è talmente terrorizzata che non riesce a muoversi in nessuna direzione, av-vertendo un profondo senso di impotenza.Spesso la donna che vive la violenza all’inter-no di una relazione affettiva si sente confusa e mostra ambivalenza nei propri sentimenti; in lei sono presenti contemporaneamente da un lato la speranza di un cambiamento da parte dell’uomo e dall’altro l’idea di dover porre fine alla propria relazione per l’escalation inarrestabile degli epi-sodi di violenza.Vi sono donne che provano il senso di colpa, sen-tendosi responsabili di aver provocato l’aggressi-vità del proprio partner.

A volte le madri pensano erroneamente di dover sopportare tutto per non privare i figli della figu-ra paterna, senza dare valore alla violenza assistita (ovvero quella perpetrata di fronte ai figli minori) e alle conseguenze che la stessa comporta; altre volte invece il senso di colpa riguarda l’idea di non averli saputi tutelare adeguatamente poiché mantenuti troppo a lungo in una situazione fa-miliare violenta e spesso temono le ripercussioni sulla loro vita futura.Generalmente ciò che riscontriamo è poca voglia di vendetta ma solo un forte desiderio di ripren-dere in mano la propria vita.

Come mai sono aumentati gli episodi di vio-lenza all’interno delle mura domestiche che dovrebbero essere il luogo per eccellenza dove trovare rifugio e protezione?É più corretto parlare di un aumento di segna-

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FOCUS DONNA

lazioni piuttosto che di aumento degli episodi di violenza domestica, riteniamo infatti che, grazie al movimento culturale in atto attorno al tema della violenza di genere, i casi di violenza ven-gano segnalati di più dalle vittime e vi sia anche maggiore attenzione sia a livello mediatico che legislativo.

Molti dei femminicidi hanno un movente pas-sionale. Si può ridurre tutto solo a questo o c’è dell’altro?I media, da qualche anno a questa parte, danno grande risalto alle notizie di violenza sulle donne a volte utilizzando termini fuorvianti quali “de-litto passionale” “un amore malato” “uccisa per troppo amore”, mentre la passione e l’amore con la violenza nulla hanno a che fare, piuttosto si può parlare di ossessione, controllo ma sicura-mente non di passione e non di amore.Altrettanto fuorviante è parlare di “raptus” o di “follia”, in quanto comporta una deresponsabiliz-zazione dell’autore del reato ed una declassazione di simili vicende a fatti eccezionali, estemporanei, che in realtà non sono perché sono strettamente collegati ad una matrice culturale.La violenza contro le donne, di cui il femmi-nicidio è l’espressione più estrema, trae le sue origini dallo squilibrio nei rapporti di genere e, nella relazione af-fettiva, viene utilizzata dall’uomo per ristabili-re il suo potere e con-trollo sulla donna.

Come può una donna, dopo aver subito violen-za, ritornare a condurre una vita, per quanto possibile, normale?Come già detto in precedenza, ogni storia di vio-lenza è una storia a sé, unica e particolare, e la

possibilità di uscirne e di “uscirne bene” è deter-minata da molteplici fattori, tra cui il grado di consapevolezza di sé e della situazione subita, la durata della relazione di violenza, l’intensità dei fatti, il grado di isolamento della vittima rispetto

alla propria rete parentale ed amicale, l’incontro con professionisti in grado di accompagnare e so-stenere la donna.Tuttavia, a questa domanda possiamo rispondere affermando che è possibile uscire dalla violenza. Si tratta di un percorso che può implicare azioni e cambiamenti molteplici, sia sul piano pratico-concreto (rete di protezione, tutela legale, strate-

gie comportamentali di evitamento, ricerca di casa e/o lavoro per il raggiungimento di una propria autono-mia, ecc…) che sul piano psicologico ed emotivo.Si tratta in genere di un percorso graduale, faticoso, più o meno articolato a seconda

del grado di complessità della storia, spesso non privo di incertezze e limiti, un percorso che ne-cessita di aiuti e risorse esterne ma che non può prescindere dalla volontà e dalla libera scelta del-la donna.

<<ogni storia di violenza è una storia a sé, unica e particolare, e la possibilità di uscirne e di “uscirne bene” è determinata da molteplici fattori, tra cui il grado di consapevolezza di sé e della situazione subita>>.

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LA TELEVISIONE ITALIANA FRA LUCI E OMBRE Intervista a Lorenzo Lattanzi presidente Aiart Marche

La televisione, si sa, sta cambiando. Con l’avvento del digitale terrestre si è ampliata, certamente, l’offerta, ma anche la domanda. Per conoscere più da vicino il mondo della televisione, così attraente e complesso, e cercare di comprenderne i meccanismi abbiamo intervistato Lorenzo Lattanzi, presidente Aiart Marche.

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OBIETTIVO MEDIA

LA TELEVISIONE ITALIANA FRA LUCI E OMBRE Intervista a Lorenzo Lattanzi presidente Aiart Marche

Con l’avvento del digitale, la tele-visione ha subito profondi cam-biamenti. Qual è stato quello più evidente?Il digitale terrestre è entrato nelle

nostre famiglie, presentato come una grande in-novazione, però si è sorvolato sulle possibili im-plicazioni problematiche per cui sarebbero sta-

te opportune attività di formazione ma, si sa, al marketing non si comanda. Insieme all’aumento esponenziale dei canali “in chiaro”, alle imma-gini più nitide (quando c’è segnale), alle prime trasmissioni in HD… sono arrivati i canali te-matici dedicati alla fiction, allo sport, ai reality ecc... questi ultimi, ad esempio, specialmente nel-le famiglie con più apparecchi televisivi, possono rappresentare un’insidia: la deriva verso una fru-izione individuale e monotematica dei contenu-ti, in cui ognuno si limita a seguire il canale o il genere che più lo appassiona, per cui l’immagine della famiglia riunita davanti alla tv diventa un ricordo lontano! Come se non bastasse, in ma-niera sempre più frequente, adulti, giovani e, pur-troppo, anche bambini davanti alla tv contempo-raneamente consumano altri contenuti digitali (soprattutto su tablet e smartphone) abituandosi ad una sorta di perenne distrazione improduttiva e correndo il rischio di vivere sempre connessi, ma soli. La sociologa americana Sherry Turkle ha dedicato all’argomento un interessante libro, “Insieme, ma soli” (questo video ne illustra i con-tenuti www.ted.com/talks/sherry_turkle_alo-ne_together?language=it). Inoltre, con l’avvento dei canali tematici riservati ai bambini, Rai gulp, Rai yoyo, Boing, K2, Cartoonito ecc… i genito-ri tendono a lasciare tranquillamente i piccoli da soli davanti alla TV, in qualsiasi momento della giornata.

Però non tutti i programmi su queste emittenti sono di buona qualità, la programmazione 24 ore su 24 impedisce al bambino e al ragazzo di per-cepire il tempo totale passato davanti allo scher-mo, e spesso gli adulti ne approfittano, quasi si

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OBIETTIVO MEDIA

trattasse di una baby sitter tecnologica. All’incre-mento quantitativo dell’offerta televisiva rivolta ai minori sarebbe dovuto conseguire una propor-zionale crescita di attenzione educativa da parte dei genitori, che invece di piazzare i figli di fronte allo schermo o al display in maniera acritica, ac-contentandosi di assecondare ogni gusto media-le, dovrebbero educarli a seguire generi diversi, a interessarsi a contenuti più educativi, anche se a prima vista non piacevoli e, soprattutto, a spegnere …dopo un po’…

Rimanendo sempre in tema di fruizione del mezzo televisivo, oggi i programmi tv possono essere visti e rivisti an-che su altri supporti, mi riferisco a smartphone e tablet scegliendo cosa vedere in completa au-tonomia. Questo passo in avanti può essere uno stimolo a migliorare la qualità di ciò che la tv manda in onda?Purtroppo la televisione continua ad impostare il proprio palinsesto sulla base dei risultati auditel che misurano esclusiva-mente i televisori accesi su un determinato pro-gramma in un determinato momento, non ci si preoccupa del reale gradimento da parte del pub-blico perché è l’audience del programma ad assi-curare il gettito pubblicitario alle varie emittenti. L’aiart da qualche anno promuove e collabora al servizio S.o.Tel ovvero il servizio opinioni tele-spettatori (www.sotel.tv) che sta registrando un numero crescente di adesioni con l’auspicio che,

prima o poi, il parere degli utenti possa influire in maniera significativa sulla qualità dell’offerta delle emittenti. La diffusione di computer, tablet e smartphone promuove la fruizione di contenuti “on demand”, apparentemente meno condiziona-bile, ma senza un’adeguata azione di media edu-cation rischiamo tutti di dare più importanza alla forma che al contenuto. Alcuni sociologi parlano

di “digital snacking”, spizzichiamo in continua-zione ciò che cattura emotivamente o istintiva-mente la nostra attenzione. Tuttavia sarebbe un gravissimo errore metodologico attribuire colpe agli strumenti che, se usati bene, offrono infinite opportunità di arricchimento culturale e relazio-nale. E’ la persona a fare la differenza! Per que-sto l’aiart è impegnata da sempre in una capillare opera di formazione e di moral suasion. Si parla

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OBIETTIVO MEDIA

da tempo di emergenza educativa: se le nuove generazioni ne evidenziano i sintomi, la causa della malattia è nel mondo adulto, che troppo spesso rinuncia al proprio ruolo educativo in un atteggiamento che spesso rasenta il fatalismo e la rassegnazione. Invece, ricordando il maestro Manzi, non è mai troppo tardi per educarsi ed educare.

Parliamo di tv e minori. In televi-sione, mai come adesso, passa di tutto. Come tutelare i ragazzi di fronte a questo “panta rei” televisi-vo o meglio come far nascere nelle nuove generazioni una coscienza critica?Il fallimento dei vari codici di auto-regolamentazione è sotto gli occhi di tutti! Ma anziché piangerci addosso per un’offerta mediale scadente e non sempre adeguata alla platea e all’orario di messa in onda, dovrem-mo attivare corsi di formazione nelle scuole, nelle parrocchie e nei diversi contesti isti-tuzionali per un utilizzo critico e consapevole dei media. Organizzare “lab-oratori mediali” in cui i ragazzi si abituano a fruire dei media in com-pagnia, esplorando il web, giocando, guardando i vari programmi e realizzando insieme attività utili a smascherare certe dinamiche insidiose per riconoscere realtà e finzione, tecniche di mani-polazione audio-video nei messaggi pubblicitari espliciti ed impliciti. Come dicevamo all’inizio, se il passaggio al digitale fosse stato accompagna-to da opportune azione di formazione e sensi-bilizzazione, avremmo tutti saputo, ad esempio, che la piattaforma digitale consente di attivare il parental control e di scegliere i canali da ren-dere visibili, ma pochissimi utenti conoscono e sanno utilizzare queste opzioni. Il parental con-trol (controllo genitori) fa sì che, impostata l’e-tà dei minori, le trasmissioni non adatte a loro

vengano automaticamente oscurate… si tratta di un’opportunità tecnologica utile a chi per impe-dimenti oggettivi non può sempre accompagnare la visione della TV. Pochi sanno che non solo la televisione ma anche tutti i nuovi dispositivi

computer, tablet, smartphone e videogame con semplici applicazioni o programmi software of-frono la stessa opportunità di controllo. E’ chiaro che ciò non interessa al marketing tecnologico, siamo tutti stregati dalle novità e qualsiasi limita-zione spesso viene vista come una sorta di ritor-no alla censura, un tempo utile alla salvaguardia dell’infanzia, oggi superficialmente considerata una pericolosa limitazione alla libertà. Il nostro consiglio comunque è almeno di cercare di segui-re i vari bollini (sebbene spesso apposti in manie-ra alquanto discutibile), il codice pegi nei video-game o i consigli nell’EPG delle trasmissioni.

Fra gli obiettivi dell’associazione leggo: con-tribuire a creare il rispetto da parte dei media della persona umana, della sua dignità e dei valori civili, umani e religiosi, tramite la tute-la della correttezza, completezza e veridicità

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OBIETTIVO MEDIA

dell’informazione. Crede che la tv di oggi stia assolvendo questo compito o manca ancora qualcosa? Purtroppo le pagine di cronaca ci hanno abituato alla responsabilità oggettiva dei media: è sempre colpa del telefonino, della Tv, di Internet, di Fa-cebook, di Whatsapp. La verità invece è che la colpa spesso è di noi adulti, del nostro assentei-smo educativo più predisposto alla preoccupa-zione che all’occupazione educativa, all’impegno. Noi non ci scoraggiamo e stiamo investendo ogni energia nella formazione come attività di volon-tariato culturale ed educativo per genitori, inse-gnanti, educatori, catechisti, giovani, sacerdoti e quanti hanno a cuore l’educazione delle giovani generazioni.

Come presidente Aiart Marche, quali sono i programmi tv che si sente di consigliare alle fa-miglie di oggi?Tutti e nessuno! Parafrasando il libro della Turkle, la soluzione potrebbe essere rappresentata dallo slogan “connessi, ma insieme”. Qualsiasi film,

trasmissione, videogame o sito web può diven-tare educativo se fruito insieme all’adulto. Spesso nei nostri incontri chiediamo ai genitori di af-

fiancare i ragazzi mentre vedono i loro contenuti preferiti, senza emettere “sentenze”, ma ponendo domande del tipo “Perché ti piace questo pro-gramma? Che cosa ti attira particolarmente? C’è qualcosa che ti infastidisce? Secondo te ciò che vedi influisce sul comportamento o sul modo di pensare tuo o dei tuoi amici? Ecc...” Ecco il pun-to, siamo nell’epoca dalle risposte facili a portata di mouse, ma forse siamo incapaci di porre e por-ci domande di senso e abbiamo trasmesso questa carenza cronica ai nostri figli, che sanno benis-simo chiedere o, addirittura, pretendere, ma non conoscono più il piacere di porsi quelle domande di senso le cui risposte non potranno mai essere trovate su internet.

Quali iniziative avete in cantiere?A Novembre ad Ancona, insieme all’arcidiocesi, al coordinamento oratori e ad altre realtà loca-li, abbiamo realizzato un convegno che ha unito aspetto teorico e laboratoriale dal tema “Si Sel-fie chi può? Educare ed educarsi al tempo della rete”, hanno partecipato circa 150 persone più

una cinquantina di ragazzi. A Fabriano, il prossimo 28 mar-zo, organizzeremo un incontro, in collaborazione con le asso-ciazioni Maestri Cattolici e Genitori in crescita, dal tema “AMORE 2.0. L’amore hai tempi di whatsapp”. Il 23 Apri-le saremo nuovamente ad An-cona (per la precisione a Falco-nara) all’interno di un’iniziativa dell’Age dal tema “Giovani e adulti: nuove opportunità e in-sidie della comunicazione di-gitale”, il 26 aprile a Macerata “Tutto il bello che c’è… nella

vita, a conclusione del nono ciclo d’incontri su tematiche educative, in rete con altre associazio-ni, con la giornalista Rai Maria Grazia Capulli,

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mentre a livello nazionale il 27 aprile a Roma si terrà un corso nazionale di formazione sulla lu-dopatia e la lotta agli spot del gioco d’azzardo in cui è prevista anche la testimonianza di Enzo Ghinazzi (alias Pupo).

In che modo si inserisce l’Aiart nel panorama dei nuovi media?Oltre alle nostre pubblicazioni cartacee, la rivista “Il Telespettatore” e il periodico di approfondi-mento con studi e ricerche “La Parabola” abbia-mo un sito nazionale www.aiart.org sempre ag-giornato e molto visitato (circa 50.000 contatti/mese) da cui è anche possibile scaricare gratu-itamente il pdf delle riviste suddette. Anche la nostra sede regionale è dotata di un sito www.aiartmarche.org e di una pagina facebook www.facebook.com/aiart.Marche che ci consentono

di far conoscere a iscritti e simpatizzanti ogni attività e attraverso i quali scuole, parrocchie e istituzioni possono contattarci per un interven-to formativo (la nostra mail è [email protected]). Alcuni eventi sono caricati su youtube e/o tra-smessi in diretta streaming sul nostro sito.

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YOUTUBE COMPIE 10 ANNI La piattaforma web e le sue contraddizioni

Fondato nel 2005, è il terzo sito web più visi-tato al mondo dopo Google e

Facebook. Stiamo parlando di YouTube, la piattaforma che consente di visualizzare e condividere video in rete. E pro-prio, nel 2015, compie 10 anni di vita. Secondo le statistiche, ogni minuto vengono caricate su YouTube 300 ore di video e il numero di ore di visualizzazione ogni mese su YouTube aumenta del 50% anno su anno. “Sono passati dieci anni dall’invenzione di YouTube – scrive Rino Farda sul SIR - la piattaforma web di condivisione di video fatti in casa che “ha cambiato la storia della televisione”. Molto usata da utenti di tutte le età, YouTube però è una delle invenzioni più con-traddittorie della storia di Internet. Ci sono in-fatti almeno tre cose che non sono state dette, da

analisti ed esperti del settore, in occasione del decennale. YouTube è stato costituita il 14 febbraio 2005 da tre ex dipendenti di PayPal: Chad Hurley, Steve Chen e Jawed Karim. Il marchio e la proprietà vennero acquistate da Google dopo ne-anche due anni per una cifra che a molti sembrò un’esagerazione: 1,65 miliardi di dollari. Il primo video fu caricato il 23 aprile 2005, si intitolava “Me at the Zoo” ed era un filmato girato davanti alla gabbia degli elefanti dello Zoo di San Die-go da uno dei fondatori, Karim. YouTube oggi è molto diffusa nel mondo: ha un miliardo di utenti unici (quanti ne ha Facebook), è disponibile in 61 lingue e 75 paesi e, ogni minuto vengono carica-te 300 nuove ore di video. Il filmato più visto in questi dieci anni è “Gangnam Style” di Psy, una canzone demenziale con un balletto improbabile

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e uno slang finto coreano: ha to-talizzato (finora) la cifra record di 2.157.653.352 visualizzazio-ni. Il secondo video più visto è del cantante pop Justin Bieber. Si tratta della versione “offi-cial” della canzone “Baby” che ha fatto registrare la metà delle visualizzazioni del coreano Psy: 1.117.930.006. Il terzo video più visto di tutti i tempi si intitola “Charlie bit my finger again” (Charlie ha morso di nuovo il mio dito) e mostra due anonimi bambini bianchi su una poltrona (805.647.371 visualizzazioni). In questa classifica – prosegue Farda - così eteroge-nea emergono le tre gravi contraddizioni di You-Tube (e la sua debolezza strutturale). I tre video apicali della classifica dicono infatti molte cose sulla confusione della “linea editoriale” della piat-taforma. Ci sono i video amatoriali come quello di Charlie che morde il dito al fratellino e che, una volta, erano alla base del successo di YouTube e del suo slogan “Broadcast yourself ” (“fatti la tua televisione personale”). Il fatto che questo tipo di

produzioni siano relegate solo alla terza posizio-ne della classifica dimostra che il progetto origi-nale sta fallendo. Youtube è diventata il teatro di scontri epocali fra le C, tanto da confinare in un

“angolo” le produzioni amatoriali degli utenti. In altri termini, nono-stante gli slogan, non sono loro i veri padroni dello spazio editoriale della piattaforma: sono “solo” terzi. La seconda posizione, infatti, è oc-cupata da uno dei pupilli miliarda-ri della musica pop internazionale, Justin Bieber (della scuderia Uni-versal). Non solo, quindi, i video dilettanteschi degli utenti hanno dovuto lasciare (molto) spazio ai professionisti dell’intrattenimento

ma Google ha anche aperto un canale video a pagamento, alla faccia della social tv, verrebbe da dire. Una grave doppia débacle per la prima piat-taforma di “Users Generated Content”.

Il primo posto della classifica è occupato, a sor-presa e con uno scarto impressionante di numeri, da uno “sconosciuto”. Il video di Psy infatti non è amatoriale ma è stato costruito professional-mente fuori dal controllo delle major. Si tratta di una zona fuori controllo, dove nascono nuo-vi linguaggi e fenomeni che possono potenzial-mente assumere la forza mediatica di una bomba atomica. Il successo del tormentone “Gangnam Style” non era prevedibile e, infatti, non era stato previsto da nessuno. Chiunque abbia un’idea edi-toriale forte e una qualche competenza di nuovi linguaggi, può quindi “scalare” senza controlli la classifica dei video più visti nel mondo. La mole di contenuti caricata ogni giorno non consente una censura dei contenuti. “Sarebbe come filtrare una telefonata prima che sia fatta”, ha detto Ve-rity Harding, public policy manager di Google. Diventa così necessario, dopo dieci anni, comin-ciare a riflettere sulla zona oscura di YouTube. Anche l’Isis, infatti, in queste settimane ha sco-perto questo territorio franco della comunica-zione globale e ha cominciato a caricare i propri video. Il risultato è sotto gli occhi di tutti”.

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ARRIVEDERCI AD APRILE

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