jurij trifonov. la casa sul lungofiume

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Jurij Trifonov. La casa sul lungofiume. Titolo originale: Dom na nabere¬znoj Traduzione di Vilma Costantini Prefazione di Lucetta Negarville Biblioteca di narrativa Copyright M. Dru¬zba Narodov Copyright Editori Riuniti di Sisifo srl Roma III edizione: giugno 1997 Editori Riuniti ********** La casa sul lungofiume è un grande palazzo di Mosca, "tozzo, informe", che splende "di mille finestre". Vi abitano i privilegiati, gli esponenti di quella società della quale il protagonista Glebov - intellettuale "senza qualità" che aspira al successo e alla carriera - è finalmente riuscito a entrare a far parte. Adolescente di molte speranze, è ora un uomo "pelato, grosso", che ha raggiunto i suoi traguardi a prezzo di alcune viltà e di un comportamento costantemente amorfo e opportunista. Fra passato e presente, fra la macerazione del disincanto, la fatica di esistere e lo sgretolarsi della storia, Trifonov dà vita e forza narrativa a un'analisi del conformismo così perfetta e dura - e al tempo stesso sfumata, sottile, malinconicamente disposta a comprendere - da laurearlo romanziere di gran razza, tra i pochi di questi ultimi decenni. Jurij Valentinovi¬c Trifonov (1925-1981) iniziò lavorando come meccanico e come redattore in un giornale di fabbrica. Figlio di un bolscevico vittima dei lager staliniani, porterà per tutta la vita il dolore cocente di questa perdita. Tra le sue opere pubblicate dagli Editori Riuniti ricordiamo Un'altra vita (1978), Il vecchio (1979), Il tempo e il luogo (1983), La sparizione (1988). ********** Prefazione La società russa post-sovietica degli anni novanta ha messo in cantina gli scrittori degli anni sessanta, i ¬sestidesjatniki che durante il primo disgelo chru¬s¬cëviano avevano raccontato il paese a se stesso, dando testimonianza della massa di orrori che si erano

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La casa sul lungofiume.

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Jurij Trifonov. La casa sul lungofiume.

Titolo originale:

Dom na nabere¬znoj

Traduzione di Vilma Costantini

Prefazione di Lucetta Negarville

Biblioteca di narrativa

CopyrightM. Dru¬zba NarodovCopyrightEditori Riuniti di Sisifo srlRomaIII edizione: giugno 1997Editori Riuniti

**********

La casa sul lungofiume è un grande palazzo di Mosca, "tozzo,informe", che splende "di mille finestre". Vi abitano i privilegiati,gli esponenti di quella società della quale il protagonista Glebov -intellettuale "senza qualità" che aspira al successo e alla carriera- è finalmente riuscito a entrare a far parte. Adolescente di moltesperanze, è ora un uomo "pelato, grosso", che ha raggiunto i suoitraguardi a prezzo di alcune viltà e di un comportamentocostantemente amorfo e opportunista. Fra passato e presente, fra lamacerazione del disincanto, la fatica di esistere e lo sgretolarsidella storia, Trifonov dà vita e forza narrativa a un'analisi delconformismo così perfetta e dura - e al tempo stesso sfumata,sottile, malinconicamente disposta a comprendere - da laurearloromanziere di gran razza, tra i pochi di questi ultimi decenni.Jurij Valentinovi¬c Trifonov (1925-1981) iniziò lavorando comemeccanico e come redattore in un giornale di fabbrica. Figlio di unbolscevico vittima dei lager staliniani, porterà per tutta la vita ildolore cocente di questa perdita. Tra le sue opere pubblicate dagliEditori Riuniti ricordiamo Un'altra vita (1978), Il vecchio (1979),Il tempo e il luogo (1983), La sparizione (1988).

**********

Prefazione La società russa post-sovietica degli anni novanta ha messo in cantina gli scrittori degli anni sessanta, i ¬sestidesjatniki che durante il primo disgelo chru¬s¬cëviano avevano raccontato il paese a se stesso, dando testimonianza della massa di orrori che si erano abbattuti sulla Russia durante il periodo dello stalinismo, e una speranza per un futuro finalmente più giusto. Ora il paese più letteraturicentrico del mondo, forse giustamente, ha voluto normalizzarsi anche in questo. La letteratura non ha più quella funzione di "coscienza critica" della società che aveva avuto a partire dall'inizio del XIX secolo, ma è diventata uno dei tanti mezzi di espressione, non certo il più importante, sintomo della preferenza per i generi più "leggeri" del poliziesco, del rosa, dell'erotico, o per una greve pseudo-religiosità misticheggiante o anche, finalmente, per una raffinata sperimentazione.

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Jurij Trifonov, considerato dieci anni fa il maggiore scrittore sovietico, il cronista dell'intellighentsija urbana (quasi un annalista, un letopisets medievale) secondo una calzante definizione di Jurij Lotman, è ormai obsoleto per una Russia che vuole rimuovere un passato durissimo, pagato a troppo caro prezzo ma in realtà impossibile da cancellare dalla memoria collettiva. E proprio la memoria, uno dei temi più cari a Trifonov, la memoria del passato che tiene insieme i fili della storia di un popolo e quella di un individuo, sta al centro di questo romanzo, il più noto e più emblematico dello scrittore. La casa sul lungofiume, il palazzo sulla Bersenjevskaja nabere¬znaja abitato da funzionari medio-alti del partito e del governo, ritorna spesso nei libri di Trifonov come punto di riferimento, simbolo del terrore, o meglio della sorda, intima paura e angoscia che più del terrore sono per lo scrittore il tratto caratteristico della vita russa sotto Stalin; fantasma di un passato drammatico, ma anche tana e rifugio dell'infanzia, dell'epoca felice in cui tutta la famiglia viveva unita e le stanze impersonali del palazzone erano riscaldate dagli oggetti più cari e profumate dai biscotti alla cannella della nonna. E' proprio l'immagine della casa sul lungofiume ad aprire il romanzo La sparizione, l'ultimo capitolo di quel lungo continuum autobiografico che sono tutte le opere di Trifonov. A sparire lì è lei, la casa con i suoi abitanti, è lei a ritrovarsi ridotta a una "nave senza alberi e senza timone", possente bastione di qualcosa di indifendibile, destinato alla rovina. Di lì a qualche anno sarebbe sparita anche la struttura sociale di cui quella casa era simbolo e delle cause di questa scomparsa, di questo destino di morte, Trifonov è stato uno dei più acuti e preveggenti analisti.

In questo romanzo, tutto costruito con la tecnica del flashback, la casa viene descritta nel pieno del suo fulgore, negli anni trenta, salda roccaforte, oggetto di invidia e desiderio da parte di coloro che non vi abitano e che vi vengono ammessi qualche volta solo dopo aver passato il filtro severo di un portiere-poliziotto. All'interno della casa un microcosmo della Russia staliniana, dai comunisti della vecchia guardia onesti, cristallini, un po' maniacali, fieri del loro passato duro e glorioso, ai funzionari degli anni trenta, freddi e vendicativi, pronti a difendere con le unghie e coi denti i loro privilegi, inflessibili come il padre di Levka ¬sulepnikov che fa deportare dal quartiere una famiglia di piccoli malavitosi che gli aveva infastidito il figlio. Il libro è scritto in terza persona, ma ogni tanto Trifonov interviene in prima persona a riconoscersi tra gli abitanti di quella casa-destino da cui è stato cacciato nel 1937, dopo l'arresto del padre che morirà in campo di concentramento. La scena della partenza della famiglia Trifonov dalla casa, con il portiere che non li saluta neanche e la nonna che finge uno straziante ottimismo, basta da sola a suggellare il clima dell'epoca. Nel secondo atto, poiché il romanzo può anche essere visto come una pièce con antefatto e tre atti, l'azione si sposta nel dopoguerra, nel 1947, quando i vecchi compagni di scuola, Vadim Glebov, il protagonista, Lev ¬sulepnikov, l'arrogante figlio dell'alto funzionario, odiato amato e invidiato dai compagni, Sonja la dolce ragazza che fa della compassione indiscriminata verso tutti la sua ragione di vita, e gli altri, si ritrovano ormai all'università, dopo aver vissuto l'esperienza fondamentale della guerra in un clima di entusiasmo e di rinascita in cui tutto sembra possibile e la vita torna a pulsare piena di promesse. Ma poco dopo, all'inizio degli anni cinquanta, gli ultimi di Stalin, il clima di sospetto, di delazione, di piccolo orrore quotidiano torna a imporsi con prepotenza e a coinvolgere i vari

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personaggi. In particolare il protagonista, Vadim Glebov, l'uomo-nessuno a cui ognuno attribuisce una diversa valenza, che pur fidanzato della dolce Sonja, tradirà il professor Gan¬cuk, padre della ragazza e relatore della sua tesi di laurea, rifiutandosi di difenderlo dalle assurde e meschine accuse di alcuni piccoli burocrati universitari arrivisti e intriganti che di lì a poco verranno spazzati via dal nuovo clima chru¬s¬cëviano. Da quel momento le vite dei ragazzi, presi nel vortice di una grande forza centrifuga, si separano per sempre. Glebov cerca di rimuovere il tradimento, il passato che torna però spesso ad affacciarsi in brevissimi scorci, come la scena del professor Gan¬cuk in pasticceria, o quella di Sonja, ormai inerte e malata di mente in un caffè di Riga, provocando fitte lancinanti nella spessa corazza che si è fabbricato per sopravvivere. Negli anni settanta, che sono quelli dell'antefatto e della stesura del romanzo, la casa è stata adibita a teatro di varietà, Glebov è uno scrittore e saggista accademico, ben inserito nella nomenclatura che gli concede privilegi e viaggi all'estero, Lev ¬sulepnikov il borioso e fortunato figlio della casa sul lungofiume dei tempi d'oro è ridotto a un ubriacone declassato ora facchino, ora guardiano di un vecchio crematorio in disuso in cui è sepolta Sonja, custode della "morte morta". Il vecchio professor Gan¬cuk, riabilitato, titolare di una pensione speciale, vive solo a 86 anni in un nuovo quartiere di Mosca, si rifiuta di ricordare il passato di cui un tempo era andato fiero e trova rifugio e consolazione nei serials televisivi. Solo la madre di Lev ¬sulepnikov, vecchia aristocratica russa intelligente e sdegnosa, sembra aver conservato la sua lucidità: "il nostro sangue è il più resistente - dice - abbiamo sopportato di tutto" e non si degna di essere troppo gentile col vecchio compagno del figlio che tenta invece di ingraziarsela.

Trifonov non è un moralista, si limita a constatare che a vincere sono gli uomini-nessuno, quelli che si adattano alle circostanze e che per sopravvivere tentano di soffocare i rimorsi, di rimuovere il passato, di non ricordare, proprio come adesso sembra voler fare tutta la società russa. Lucetta Negarville

Nessuno di quei ragazzi è ancora vivo: chi è scomparso in guerra, chi è morto di malattia. Alcuni sono svaniti nel nulla, altri si sono completamente trasformati, e, se incontrassero, per qualche sortilegio, coloro che sono scomparsi con indosso i loro giubbotti di fustagno e le scarpe di tela con la suola di gomma non saprebbero di che parlare. Temo che sarebbero tanto ciechi da non accorgersi neppure di aver incontrato se stessi. Al diavolo loro e la loro cecità! Il loro tempo è prezioso: prendono aerei, navigano, corrono a rotta di collo, arraffano a destra e a manca, vanno sempre più lontano, sempre più in fretta, giorno dopo giorno, anno dopo anno; le rive cambiano, le montagne arretrano, i boschi si diradano e si spogliano, il cielo si oscura, incalza il freddo, bisogna affrettarsi, affrettarsi, e non si ha più la forza di guardare indietro a ciò che è rimasto fermo e sospeso come una nube all'orizzonte.

In una di quelle insopportabili giornate afose dell'agosto del 1972 - era l'estate in cui Mosca soffocava sotto una densa caligine e a Glebov era toccato, manco a farlo apposta, di restare molti giorni in città, in attesa del trasloco in una casa della cooperativa - Glebov aveva fatto una corsa al negozio di mobili in un nuovo quartiere a casa del diavolo, accanto al mercato Koptevskij; fu là che successe una strana storia. Incontrò un amico che non vedeva da un sacco di

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tempo. Si era dimenticato come si chiamava. Era andato in quel posto per un tavolo. Gli avevano detto che si poteva prendere un bel tavolo, non si sapeva bene dove, era un mistero, ma una cosa era certa: era un pezzo d'antiquariato, con dei medaglioni, che andava giusto bene per le sedie di mogano, acquistate l'anno prima da Marina per la casa nuova. Gli avevano detto che nel negozio vicino al mercato Koptevskij lavorava un certo Efim, che sapeva dove trovare il tavolo. Glebov c'era andato dopo pranzo, con una canicola rovente; aveva lasciato la macchina all'ombra e si era incamminato verso il negozio. Sul marciapiedi davanti all'ingresso, dove, tra stracci e carta da imballaggio, giacevano sparsi, armadi, sofà e altre cianfrusaglie tirate a lustro, appena scaricate o in attesa di essere caricate, dove gironzolavano malinconici acquirenti, tassisti e ometti trasandati, pronti a tutto per quattro soldi, Glebov chiese dove potesse trovare Efim. Nel cortile di dietro, gli fu risposto. Glebov attraversò il negozio; l'aria era irrespirabile per il caldo e l'odore di vernice, e uscì per una porta stretta nel cortile completamente vuoto. Un operaio sonnecchiava, accovacciato nella poca ombra vicino al muro. - E' lei Efim? - gli chiese Glebov. L'operaio sollevò gli occhi intorpiditi, lo guardò severamente e sporse appena in avanti con fare sprezzante la fossetta che aveva sul mento, il che doveva significare: no. Dalla fossetta e da qualche altro particolare impercettibile, Glebov all'improvviso si accorse che quel tizio, tramortito dal caldo e dall'arsura, quel misero "portatore" di mobili era un suo vecchio amico. Lo capì non con gli occhi, ma con qualcosa d'altro, come un colpo dentro. Ma il terribile era che, pur sapendo bene chi fosse, aveva completamente dimenticato il suo nome! Perciò se ne stava in silenzio, dondolandosi sui suoi sandali scricchiolanti e guardava l'operaio, cercando nella memoria con tutte le sue forze. Una vita intera lo investì di colpo. Ma il nome? Era un nome furbetto, divertente. E nello stesso tempo infantile. Unico nel suo genere. L'anonimo amico si mise di nuovo a sonnecchiare, il berretto calato sul naso, la testa all'indietro e la bocca spalancata. Glebov, turbato, si allontanò, urtò qua e là, cercando Efim, poi attraversò la porta di dietro, entrò nel negozio e domandò di nuovo: di Efim non c'era traccia, gli consigliarono di aspettare, ma Glebov non aveva tempo per aspettare e, bestemmiando mentalmente, maledicendo la gente che parla a vanvera, tornò nel cortile, nella canicola, dove lo aveva stupito e confuso ¬sulepa. Ma certo: ¬sulepa! Levka ¬sulepnikov! Una volta aveva sentito dire che ¬sulepa era scomparso, era finito male, come era arrivato fin qua? Al negozio di mobili? Voleva mettersi a parlare con lui amichevolmente, come un vecchio compagno, chiedergli tra l'altro di Efim. - Lev... - disse Glebov senza molta convinzione e si avvicinò all'uomo che stava seduto nello stesso posto di prima, all'ombra, nella stessa posizione, accovacciato; adesso però non sonnecchiava, ma osservava qualcuno che si muoveva in fondo al cortile, bagnando una sigaretta con le labbra. Più forte e con più coraggio aggiunse: - ¬sulepa! L'uomo guardò di nuovo Glebov torpidamente e voltò la testa. Certo, era Levka ¬sulepnikov, soltanto molto vecchio, sgualcito e corroso dalla vita, con baffi grigi da ubriaco, diverso da quello di una volta, ma forse in una cosa rimasto uguale, in quella arrogante e sciocca insolenza di prima. Dargli del denaro per una sbornia? Glebov toccò con le dita la tasca dei pantaloni cercando a tasto dei soldi. Poteva dargli tre o quattro rubli, senza problemi. Se glieli avesse chiesti. Ma l'uomo non gli rivolgeva la minima attenzione e Glebov era perplesso e pensava che forse si era sbagliato e quel tipo non era affatto ¬sulepnikov. Ma in quel momento stesso, arrabbiato, con voce aspra, con brutale familiarità, come era abituato a rivolgersi

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al personale di servizio, gli chiese: - Non mi riconosci, eh? Levk! ¬sulepnikov sputò il mozzicone, si alzò, senza guardare Glebov, e si avviò barcollando in fondo al cortile dove stavano scaricando un camion. Glebov, spiacevolmente colpito, si trascinò fuori, per strada. Lo aveva colpito non tanto l'aspetto di Levka ¬sulepa o la miseria del suo stato, ma il fatto che Levka non aveva voluto riconoscerlo. Levka non aveva nessun motivo di essere offeso con Glebov. Non era colpa di Glebov, né della gente, ma dei tempi. E con i tempi non te la puoi prendere. Di nuovo, all'improvviso: qualcosa di remoto, di povero, di sciocco, ecco la casa sul lungofiume, i cortili pieni di neve, le lampade elettriche sui fili, le risse sui mucchi di neve addosso al muro di mattoni. ¬sulepa era fatto di tante cose, e si sfaldava pezzo per pezzo, e ogni pezzo era diverso dall'altro, ma forse là, in mezzo alla neve, addosso al muro di mattoni, quando si battevano a sangue, fino a gridare ansimando: "Mi arrendo!", e poi nella tiepida casa enorme bevevano felici il tè dalle tazzine fini, forse, allora, erano autentici. Ma, chissà, come si può dirlo? In tempi diversi l'autenticità appare diversa. A dire il vero, Glebov odiava quei tempi, perché erano la sua infanzia. E la sera, quando ne parlò a Marina, era agitato e nervoso, non perché aveva incontrato un amico che non aveva voluto riconoscerlo, ma perché gli toccava avere a che fare con individui irresponsabili come Efim, che promettevano mari e monti per poi dimenticarsene o infischiarsene, e intanto il tavolo antico con i medaglioni era sparito in mani altrui. Andarono a passare la notte nella dacia. Vi regnava l'angoscia: i suoceri non dormivano, nonostante l'ora tarda: Margo¬sa era andata via la mattina sulla moto di Tolma¬cev, non aveva telefonato per tutta la giornata e soltanto alle nove aveva fatto sapere che si trovava sulla prospettiva Vernadskij, nello studio di un artista. Aveva detto di non preoccuparsi, Tolma¬cev l'avrebbe riportata non oltre mezzanotte. Glebov si infuriò: - Con la moto? Di notte? Perché non avete detto a quell'idiota di non fare pazzie, di tornare subito, immediatamente...? - Il suocero e la suocera, come due vecchi comici da commedia, borbottarono qualcosa di assurdo e a sproposito. - Io volevo innaffiare per bene, Vadim Leksany¬c, ma l'acqua l'hanno chiusa... Bisogna porre la questione all'amministrazione... Glebov fece un gesto con la mano e si diresse verso lo studio, al primo piano. L'afa non si era attenuata, neanche a sera inoltrata. La tiepida siccità del fogliame penetrava dal giardino oscuro. Glebov prese una medicina e si sdraiò sul divano senza spogliarsi, pensando che quel giorno stesso, se tutto andava bene e la figlia tornava viva, doveva finalmente parlarle di Tolma¬cev. Aprirle gli occhi su quella nullità. Alle dodici e mezza si sentì lo scoppiettio di una moto, poi un brusio di voci in basso. Glebov udì con sollievo la vocetta sonora della figlia. Subito, miracolosamente, si tranquillizzò, e gli passò la voglia di parlare con la figlia. Si preparò il letto sul divano, tanto sapeva che la moglie si sarebbe messa a chiacchierare con Margo¬sa fino a notte fonda. Invece si precipitarono tutte e due nello studio, senza tante cerimonie: la luce non era ancora spenta, Glebov era in mutande con un piede sul tappetino davanti al divano, l'altro sul divano, e si tagliava le unghie dei piedi con un paio di forbicine. Pallida in viso, la moglie disse con voce lamentevole: - Sai, si sposa con Tolma¬cev. - Cosa dici! - fece Glebov, come spaventato, sebbene in realtà non lo fosse, ma l'aspetto di Marina era disperato. - E quando? - Tra dodici giorni, quando lui sarà tornato dal suo viaggio di lavoro, - disse Margo¬sa, pronunciando in fretta e furia le parole, per dare risalto al carattere perentorio e ineluttabile di ciò che

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doveva accadere. Per di più, sorrideva: il piccolo viso infantile con le guance un po' pienotte, il nasino, gli occhietti, piccoli bottoncini neri come quelli della madre, tutto risplendeva, brillava, cieco e felice. Margo¬sa si slanciò verso il padre e lo baciò. Glebov sentì odore di vino. Si infilò frettolosamente sotto il lenzuolo. Era spiacevole che sua figlia, ormai adulta, lo vedesse in mutande, ed era ancor più spiacevole che non ne fosse affatto turbata, anzi sembrava che non avesse affatto notato l'aspetto indecente del padre. Del resto in quel momento non si accorgeva di niente. Uno straordinario infantilismo in tutto. E questa scioccherella voleva cominciare a vivere per conto suo, con un marito. O piuttosto, con un lazzarone. Glebov domandò: - Da quale viaggio di lavoro? Perché, Tolma¬cev lavora da qualche parte? - Certo che lavora. E' commesso in una libreria. - In una libreria? Commesso? - Per lo stupore, Glebov cacciò fuori le braccia da sotto il lenzuolo. Cos'era quella novità? una truffa? - E perché lo sento dire adesso, per la prima volta? Ci avevi fatto credere che era un pittore, ci hai mostrato dei quadretti, dei candelieri, dei ferri da stiro, o che so io... - No, ce l'ha detto dove lavora. L'ha detto, l'ha detto, - confermò Marina, amante della verità. - Ma non si tratta di questo... - Mammina, quanto vi amo, tutti e due! - esclamò Margo¬sa, baciando la madre e ridendo. - Papà, oggi sei pallido. Come ti senti? - E dov'è il tuo fidanzato in questo momento? - Paparino, ti prego, non pensare a niente, non preoccuparti! - Margo¬sa, rispondi: dove pensate di andare a vivere? Commesso in un negozio. Non poteva esserci niente di più assurdo. Da tanto tempo non vedeva occhi così devoti e felici, né sentiva risate così spensierate. Margo¬sa disse, ridendo: - Ma è così importante? - Tuo padre e io vogliamo sapere... - Ah, volete sapere? Siete assaliti dalla curiosità? - Di nuovo una risata. - E se dicessi, qui... non va bene? Non siete d'accordo? - Andrai con l'autobus? Ti alzerai alle cinque di mattina? - Ma, mamma, sono particolari insignificanti... All'improvviso scomparvero tutte e due. Glebov porse l'orecchio alle svolazzanti voci femminili che provenivano dal basso, alle quali si aggiungeva il sordo parlottio dei suoceri. Glebov aveva l'angoscioso presentimento che qualcosa sarebbe mutato e decise di prendere un sonnifero per addormentarsi prima. Ad un tratto ebbe un pensiero rasserenante: "Forse non succederà niente di terribile. Ma sì, che tutto vada come deve andare. Come sempre. Fra un anno si separeranno, e buonanotte". E si mise a pensare ad altro. Verso l'una di notte squillò il telefono. Glebov avvertì nel dormiveglia la rabbia che lo afferrava, l'accelerazione del battito cardiaco. Schizzò fuori dal divano con giovanile agilità e con un rapido balzo raggiunse l'apparecchio posato sul tavolo: doveva fare in tempo a prendere il ricevitore prima che Margo¬sa prendesse quello del telefono di sotto, per dare una lezione a quel maleducato! Era convinto che fosse Tolma¬cev. Ma era una voce sconosciuta, quasi sgangherata, da teppista. - Salve, Dunja, buon anno... Non mi riconosci? Eh? - gracchiò il teppista. - Prima mi riconosce, e adesso non mi riconosce. Stronzo... Ma che ore sono? L'una passata, accidenti, a quest'ora i bambini sono a nanna. Gli intellettuali no, invece... Discutono, discutono... Sono qui con un tizio... Ti ricordi che bei coltellini finlandesi che avevo? - Sì, mi ricordo - disse Glebov e se ne ricordava davvero: i coltellini erano cinque, tutti di misura diversa. Il più piccolo era come una sigaretta. Levka li portava a scuola e se ne vantava. E portava anche una pistola d'acciaio lucente con l'impugnatura d'osso,

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che sembrava vera. Nello studio entrò Marina e chiese con sguardo spaventato: - Chi è? - Glebov ammiccò, agitò la mano: niente, niente. Chissà perché, era contento che ¬sulepnikov avesse telefonato. - Bene, dormi tranquillo, vecchio compagno... Scusami del disturbo... Ho cercato per tre ore il tuo numero all'ufficio informazioni. Senti, oggi, quando ti sei avvicinato, non volevo riconoscerti. A che cavolo mi serve, ho pensato. Mi facevi proprio schifo. No, cerca di capire, Vadºka, per Dio! Dico sul serio: mi facevi terribilmente schifo. - Perché dici così? - domandò Glebov sbadigliando. - Che cavolo ne so. Non mi hai fatto niente di male. Certo, tu sei dottore, direttore, che ne so, porca merda, non mi interessa. Non me ne frega niente. Io sono di un'altra parrocchia. Ma poi sono tornato dal lavoro, mi sono messo a fare le mie cose e ho pensato: perché me la sono presa con Vadºka Gleby¬c? Sarà venuto per qualche carabattola che gli serviva? Magari, un'altra volta che viene, non mi trova più... In un posto, più di un paio d'anni non riesco a stare... "O signore! - pensò Glebov. - Sempre uguale..." - Lev, telefonami domani, per favore. - No, domani non ti telefono. O oggi o niente, cosa sei, un ministro? Telefonami domani! Chi ti credi di essere? Niente domani. Sei impazzito, Glebov, a parlarmi in questo modo! Ti si è girata la lingua? Tre ore ho cercato il tuo numero, sono qui con un tizio... E' del corpo diplomatico, uno in gamba... Attraverso l'ufficio informazioni del Mid (1)... Vadºka, te la ricordi la mia mamma? Glebov disse che se la ricordava e voleva aggiungere che anche del padre di Levka si ricordava, cioè del patrigno. O meglio ancora, dei suoi due patrigni. Ma il ricevitore emise un tintinnio, e si sentirono subito dei brevi segnali sonori. Marina guardava con crescente spavento. - Che sciocchezza. E' quel tipo che ho trovato oggi al negozio di mobili... - Glebov era in piedi, scalzo, accanto allo scrittoio e guardava pensieroso l'apparecchio telefonico.- Però è proprio un bel cretino... E poi, perché mi ha telefonato?

Quasi un quarto di secolo prima, quando Vadim Aleksandrovi¬c Glebov non era ancora pelato, grosso, con le poppe da donna, le cosce grasse, il pancione e le spalle cadenti che lo costringevano a farsi cucire i vestiti dal sarto e a non comprarli già confezionati, perché di giacca portava il 52 e di pantaloni a malapena entrava nel 56, e a volte prendeva addirittura il 58; quando in bocca ancora non aveva i ponti di sopra e di sotto, i medici non rilevavano cambiamenti nel suo cardiogramma, segni di insufficienza cardiaca e un principio di stenocardia; quando ancora non era tormentato al mattino dai bruciori di stomaco, dalle vertigini, da un senso di spossatezza generale; quando il suo fegato lavorava normalmente ed egli poteva mangiare cibi grassi, burro non troppo fresco, poteva bere vino e vodka finché voleva, senza temerne le conseguenze, non sapeva che cosa significa il dolore alle reni provocato dagli sforzi, dal freddo e Dio sa da quale altra cosa; quando non aveva paura di attraversare a nuoto la Moscova nel punto più largo, poteva giocare quattro ore a pallavolo senza riprendere fiato; quando era veloce di gambe, ossuto, con i capelli lunghi e gli occhiali rotondi che lo facevano somigliare a un populista del secolo scorso; quand'era spesso senza soldi, lavorava come facchino alla stazione o come spaccalegna nei cortiletti lungo la Moscova; quando faceva la fame, c'era pericolo che si ammalasse di tubercolosi, e allora lo mandarono in Crimea e tutto passò; quando erano ancora vivi il padre, la zia Polja e la nonna, e tutti stavano nella piccola casupola sul lungofiume, al primo piano, dove abitavano altre sei famiglie e in cucina c'erano otto tavoli; quando gli piaceva cantare le canzoni con le ragazze, e non lo chiamavano Vadim Aleksandrovi¬c, ma Gleby¬c e Sfilatino; quando, nelle crisi di

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insonnia, aveva appena cominciato a immaginare, nella dolorosa impotenza della giovinezza, tutto quello che poi gli sarebbe capitato senza dargli gioia perché gli avrebbe richiesto un tale dispendio di energie e quelle rinunce che si chiamano vita; a quei tempi, quasi un quarto di secolo fa, c'era un certo professor Gan¬cuk, c'era Sonja, c'erano Anton e Levka ¬sulepnikov, soprannominato ¬sulepa, tutti i suoi vicini di casa, c'erano varie altre persone scomparse un po' alla volta, e c'era lui, diverso da ora e sparuto come un passero. Di Marina, nessuna traccia. Marina deve essere sulla veranda, all'ombra delle betulle, che scrive su dei fogli di carta tesi come tamburi su barattoli di vetro e fissati con del filo al collo del recipiente, con calligrafia infantile, "Uva spina 72", "Fragola 72". Anton non è più tra i vivi, e neanche Sonja. Del professor Gan¬cuk non si sa nulla, probabilmente anche lui è morto, e, se anche vive, è come se non ci fosse più. Levka ¬sulepnikov è seduto nel cortile di un negozio di mobili, con la schiena appoggiata alla parete, all'ombra, con una sigaretta tra le labbra e sonnecchia: gli stessi sogni, le stanze spaziose dagli alti soffitti, gli enormi paralumi arancione degli anni trenta... E' come a teatro: atto primo, atto secondo, atto terzo... atto diciottesimo. Ogni volta il personaggio appare un po' diverso. Ma tra una scena e l'altra passano anni, decenni. All'istituto - atto secondo - ¬sulepnikov comparve solo al terzo anno, all'improvviso affiorò dall'oblio in modo così naturale e lieve, come può accadere soltanto nella prima metà della vita, quando sembra che ogni cosa avvenga così come viene immaginata. La storia con Gan¬cuk e tutti gli altri invece occupò il quarto e l'inizio del quinto atto. Incredibilmente presto ¬sulepnikov ne divenne l'attore principale. Era comprensibile, del resto: dietro le quinte c'era il patrigno, dotato di possibilità gigantesche. Erano in pochi a saperlo, ma lo sapevano certamente Glebov e Sonja, per i quali Levka ¬sulepnikov era rimasto sempre il buon vecchio ¬sulepa. Lo consideravano un individuo molto abile e capace, che avrebbe fatto una rapida e fortunata carriera: nel comitato, nelle riunioni, dovunque, le ragazze migliori le agganciava lui. Ma in realtà egli era una rapa, una mediocrissima rapa. Non se ne accorsero subito, all'inizio irritava molti. Una volta si avvicinò nel corridoio un robusto giovanotto di Charºkov, di cognome Smyga, e disse: "Glebov, dicono che stai a scuola con questo ¬zuljatnikov?". Glebov disse: "Sì, però non storpiare il nome e non fare troppo lo spiritoso". "Bene, il nome non glielo rovineremo, ma il grugno sì, - ribatté Smyga. - Di' a ¬zuljabºev che la smetta di correre dietro alle ragazze del nostro gruppo. O saran botte." Alcuni giorni dopo Smyga comparve nell'aula con il viso gonfio, come se avesse avuto un ascesso. Levka raccontava, con una certa meraviglia: "Questo elefante mi è caduto addosso al gabinetto e ha cominciato a gridare: "Ti avevamo avvertito, bestione, e tu non ci hai dato retta!". Pazzia furiosa; l'ho abbattuto con due colpi di sambo (2). Ha spaccato il cesso con la zucca". Glebov non gli credette, sapendo che Levka era un gran bugiardo, ma poi scoprì che la tazza del cesso era davvero rotta, e allora credette non solo alla crudele umiliazione di Smyga, ma anche a tutte le altre cose fantastiche che ¬sulepnikov gli aveva raccontato della propria vita. Che, per esempio, durante la guerra, aveva frequentato una fantomatica scuola segreta in cui si insegnava a sparare, a lanciare i coltelli, a uccidere a mani nude, oltre alle lingue straniere, e che aveva compiuto missioni segrete nelle retrovie tedesche, ma che poi lo avevano smobilitato perché gli si era aperta un'ulcera allo stomaco. Sulla veridicità di questo racconto si poteva nutrire qualche dubbio, perché il tedesco ¬sulepnikov lo conosceva poco, lanciava i coltelli mediocremente ed era chiassoso, sfacciato, mentiva su ogni sciocchezza, il che non corrispondeva all'immagine che egli voleva dare di sé. Glebov decise che sicuramente Levka

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doveva aver studiato in una scuola segreta (organizzata dal patrigno), che si proponeva di diventare un altro colonnello Law-rence, ma per qualche ragione il progetto era andato in fumo. E Smyga, che aveva litigato a morte con Levka, diventò poi il suo più fedele cavalier servente; questo l'anno dopo, quando il patrigno regalò a Levka una Bmw che aveva preso al nemico. Levka arrivò all'istituto su una carretta color ciliegia, vecchia e pidocchiosa: i poveri studenti non solo provarono invidia, ma persero addirittura il dono della parola. Da allora Smyga andava sempre in giro appresso a Levka, gli correva dietro per i negozi e gli faceva conoscere le ragazze che conosceva. Nei confronti di Levka ¬sulepnikov in quegli anni - era allora all'apice del suo destino, così lambiccato e capriccioso - potevano esserci solo due atteggiamenti: servirlo come uno schiavo o invidiarlo con odio. Glebov, il più vecchio amico di Levka, non fu mai suo schiavo, nemmeno nelle classi inferiori, quando è tanto diffusa la piaggeria dei ragazzi deboli e poveri verso quelli più forti e ricchi; e, quando fu all'istituto, non volle trasformarsi nel suo luogotenente, sebbene ne fosse tentato. Intorno a ¬sulepnikov si formavano compagnie vaganti, turbinava una vita particolare: ville di campagna, automobili, teatro, sport. In quegli anni venne fuori l'hockey su ghiaccio con disco, o, come allora veniva chiamato, l'"hockey canadese", o più semplicemente, "canada". L'entusiasmo per l'hockey era di gran moda, persino raffinato. Allo stadio andavano signore in persiano e uomini in castoro. ¬sulepnikov si portava dietro certe gran celebrità della squadra dell'aeronautica. Siccome Glebov non aveva voglia neppure di sfiorare questa vita affascinante, ma che gli appariva piuttosto illusoria e nello stesso tempo rozza, e poiché lo stesso Levka non era poi tanto attaccato alle leggi dell'amicizia, Glebov si teneva in disparte: non si trattava solo di amor proprio nel non voler essere l'ultima ruota del carro, ma di una sua innata riservatezza, che si rivelava talvolta senza motivo, istintivamente. ¬sulepnikov proponeva, dall'alto della sua liberalità: "Gleby¬c, è richiesta la tua presenza!". Questo voleva dire che qualcuna delle ragazze di Levka aveva notato Glebov o ne aveva sentito parlare - niente di strano, le ragazze, secondo un'espressione di allora, "gli mettevano gli occhi addosso" - e desiderava conoscerlo, o forse Levka raccontava balle, non c'era nessuna "richiesta", voleva soltanto iniziare l'amico alle gioie terrene. Levka era un compagnone, insisteva. Glebov si sottraeva. Inventava delle scuse. Il pretesto era Sonja: Sonja lo aspettava, aveva preso accordi con Sonja, Sonja era malata. In realtà, agiva un segreto meccanismo di autodifesa, sorprendentemente, poiché a quel tempo nessuno avrebbe potuto immaginare le catastrofi imminenti. Era qualcosa da cui Glebov non poteva liberarsi, qualcosa che lo accompagnava tormentosamente per tutti quegli anni, a cominciare dai primi, un'offesa che lo tormentava nel profondo... E non gli riuscì di dominarla, né di averne la meglio. Come una malattia cronica: a volte si aggravava, a volte in apparenza svaniva, ma a volte faceva così male che non aveva la forza di sopportarlo. Perché, per esempio, Levka aveva questo e quello, per lui era tutto facile, gli bastava tendere la mano, come se gli fosse stato assegnato un destino speciale? A Glebov, invece, toccava guadagnarsi ogni cosa faticosamente, curvare la schiena, tendere le vene, la pelle, così che poi, quando riusciva a ottenere qualcosa, le vene si rompevano, la pelle si raggrinziva. Questo tormento - questo, diciamo, soffrire di disuguaglianza - era cominciato in tempi remoti, in quinta o in sesta elementare, quando ¬sulepa era venuto ad abitare nel palazzone sul lungofiume. Glebov viveva, dalla nascita, in una casetta a due piani. E a fianco di quell'enorme palazzo dalle mille finestre, quasi un'intera città o addirittura un intero stato, dietro i cortiletti, oltre la chiesa,

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dietro i cumuli di rifiuti che crescevano come funghi su un ceppo, stava una casa un po' sbilenca, con il tetto sfondato qua e là, con quattro mezze colonne sulla facciata, conosciuta tra gli abitanti della zona come "casa Derjuginskij". Anche il vicolo in cui si trovava questa sgangherata bellezza si chiamava Derjuginskij. La grigia mole del palazzone sovrastava il vicolo, al mattino copriva subito il sole, di sera faceva volar via voci di radio, musica di grammofoni. Là, nei piani più vicini al cielo, si conduceva una vita che sembrava completamente diversa da quella dei piani bassi, nella mediocrità, coperta da una tinta gialla di tradizione secolare. Ecco la disuguaglianza! Alcuni non se ne accorgevano, altri se ne fregavano, altri lo ritenevano giusto e legittimo, Glebov fin dall'infanzia si portava un bruciore nell'anima: un misto di invidia e di qualche altro oscuro sentimento. Il padre lavorava come chimico, in una vecchia fabbrica di dolci, la madre faceva lavoretti saltuari o, per lo più, non faceva niente. Non aveva istruzione. A volte cuciva, a volte andava in qualche ufficio, a volte faceva la cassiera in un cinema. Questo lavoro al cinema - un locale di terz'ordine, in uno dei vicoli lungo la Moscova - era diventato oggetto di non poco orgoglio per Glebov e lo premiava come un grandissimo privilegio: poteva vedere qualunque film senza pagare. E nelle ore diurne, quando c'erano pochi spettatori, poteva persino portarsi un compagno e magari anche due. Naturalmente, se la madre era di buon umore. Questo privilegio era la base del potere di Glebov in classe. Se ne serviva con parsimonia e intelligenza: invitava i ragazzi alla cui compagnia era interessato o dai quali si aspettava qualcosa in cambio, nutriva altri di promesse prima di offrire loro il beneficio, altri invece, le canaglie, li privava per sempre dei suoi favori. La cosa andò avanti così per un pezzo, e il potere di Glebov - non il potere, ma, diciamo così, l'autorità - rimase saldo finché non spuntò Levka ¬sulepa. Levka si era trasferito nel palazzone da qualche zona della periferia o forse addirittura da un'altra città. Fece subito impressione per i suoi calzoni di pelle. I primi giorni si tenne sulle sue, guardando in giro sonnacchioso e sprezzante con i suoi occhi azzurrini; non attaccava discorso con nessuno e stava seduto in un banco accanto a una ragazzina. Durante le lezioni faceva scricchiolare in maniera insopportabile i suoi calzoni. Decisero di dargli una lezione, o meglio di umiliarlo. O, meglio ancora, di disonorarlo. C'era una punizione chiamata "oh-oh-oh!": portavano la vittima designata nel cortile di dietro, gli si ammucchiavano addosso e, al grido di "oh-oh-oh!", gli strappavano via i calzoni. Progettarono di riservare questo trattamento al novizio. Sarebbe stata una delizia: levargli i meravigliosi calzoni scricchiolanti e vederlo saltellare e piagnucolare mentre le ragazze, avvertite in precedenza, avrebbero assistito alla scena dalla finestra. Glebov incitava con calore a far giustizia di ¬sulepa, che non gli piaceva - in genere non gli piacevano quelli che abitavano nel palazzone - ma, all'ultimo momento, decise di non prendervi parte. Forse si vergognava un po'. Osservò la scena dalla porta che dava sulla scala posteriore. Dopo le lezioni invitarono Levka nel cortile di dietro. Erano in cinque: Orso, Sjava, Manjunja e altri due. Circondarono Levka, si misero a discutere di qualcosa, poi, ad un tratto, Orso, che era il più forte della classe, lo afferrò per il collo e, con uno strappo, lo rovesciò sul dorso. Al grido di "oh-oh-oh!" gli altri gli si buttarono addosso. Levka resisteva, tirava calci, ma gli altri, alla fine, lo tennero stretto, lo avvinghiarono, e uno gli si sedette sul petto, ma, ad un tratto, echeggiò uno scoppio, come se fosse scoppiato un pneumatico. Tutti e cinque si scansarono. Levka si alzò in piedi. I pantaloni di pelle erano ancora al loro posto: Levka teneva in mano una pistola. Sparò un'altra volta, in aria. Si sentì odore di fumo e ci fu un attimo di terrore. Glebov si sentì piegare

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le ginocchia. Orso gli si precipitò addosso con gli occhi sbarrati e corse di sopra, saltando i gradini. Risultò poi che quella di ¬sulepnikov era una pistola giocattolo straniera, molto bella, con delle speciali cartucce che riproducevano il rumore dei colpi di una pistola vera. ¬sulepnikov uscì da questa storia a testa alta, da eroe; gli aggressori invece furono coperti di infamia e in seguito fecero tutto il possibile per rappacificarsi e fare amicizia con il possessore di quella meravigliosa pistola. Con un'arma simile si poteva diventare i dominatori di tutti i cortili del lungofiume. A Glebov fu più facile che agli altri stringere amicizia con ¬sulepa. Egli infatti non aveva preso parte all'aggressione. ¬sulepnikov non manifestò nessuno spirito di vendetta, anzi forse era contento che adesso lo adulassero e fossero disposti a dargli interi patrimoni in cambio di un tiro con la pistola. Ma la faccenda non era finita lì. All'improvviso comparve il direttore con il bidello e un poliziotto e si mise a gridare che i banditi dovevano essere puniti. Il direttore era fuori di sé: gridava come non era mai accaduto, pallido, le guance tremanti, sembrava inesorabile. Il bidello disse che si trattava di un'azione di sabotaggio. Il poliziotto stava seduto in silenzio, ma la sua presenza causava disagio a tutti. Il direttore pretendeva che si facessero i nomi dei banditi. ¬sulepnikov non voleva. Disse che non aveva notato chi fossero; gli si erano ammucchiati addosso e poi se l'erano data a gambe. Il direttore venne altre due volte, senza il poliziotto. Si chiamava Borsover e sembrava quasi che avesse questo strano nome per via delle borse sotto gli occhi. Aveva una lunga faccia bianca, gonfi semicerchi bianchi sotto gli occhi. Era nervoso, non riusciva a stare seduto tranquillo, come tutti gli insegnanti, e per tutto il tempo andava su e giù, di corsa, davanti alla lavagna, come un invasato. Nessuno aveva simpatia per il capocorso, che avevano soprannominato Tromba, ma il direttore faceva pena. Aveva un'aria depressa. "Amici miei, vi chiedo un atto di coraggio... Coraggio non nel nascondere, ma nel dire..." La faccia bianca e la voce spezzata non parlavano affatto di coraggio. Nonostante tutta la compassione per il vecchio malato, la classe taceva. Anche ¬sulepa taceva. Raccontò poi che il padre lo aveva castigato: lo aveva chiuso nel bagno tutta la sera, e nel bagno c'era buio, e c'erano gli scarafaggi. Pretendeva che rivelasse i nomi, ma ¬sulepa non denunciò nessuno. Così Levka ¬sulepnikov, colui che avevano deciso di svergognare davanti a tutti, divenne un eroe. E fu probabilmente da quel momento, dai calzoni di pelle, dalla pistola giocattolo e dalla sua condotta eroica - una ragazza addirittura compose dei versi in onore di ¬sulepa - che ebbe origine quel peso terribile in fondo all'anima... Perché un individuo solo non deve avere tutto. Perché, allora, si doveva ribellare anche la natura, quello che è chiamato destino. In seguito, Levka ¬sulepnikov avrebbe sentito questa "protesta del destino", questi denti di drago sulla propria povera pelle, ma certo allora, nel dormiveglia dell'infanzia, nessuno avrebbe potuto pensare che una volta o l'altra si sarebbe rovesciato tutto quanto. E solo Glebov sentiva qualcosa, che ancora non poteva definire con esattezza, qualcosa di inquietante, come le voci sorde della realtà che si insinuano nel sogno. No, l'invidia non è affatto quel basso, vile sentimento che sembra. L'invidia è una parte della natura che si ribella, un segnale che le anime sensibili devono cogliere. Ma non c'è infelicità maggiore di quella delle persone colpite dall'invidia. E non c'era infelicità più deleteria di quella che toccò a Glebov nel momento di quello che sembrava il suo trionfo. Al cinema, al di là del ponte, davano il vecchio L'espresso azzurro. Avventure cruente, sparatorie, delitti. Ai film di questo tipo tutti si entusiasmavano, fantasticando di esserne coinvolti, ma,

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chissà perché, ai ragazzi erano vietati. Glebov ce lo accompagnò la madre. Il film risultò naturalmente straordinariamente bello. Per un'ora e mezza Glebov, seduto sulla sedia pieghevole, tremò, come avesse la febbre. S'intende che dovette vedere il film più di una volta. Erano i giorni del suo incontrastato dominio. Non c'era altra via se non attraverso di lui, Glebov, per poter sperare di vedere quel filmone mondiale e incomparabile: in due parole raccontava di un treno che portava i rossi ed era assalito dai bianchi, che facevano piazza pulita di donne, vecchi e bambini, ma poi i rossi avevano la meglio. C'erano sparatorie e duelli corpo a corpo sulle piattaforme, sui tetti e sotto le ruote dei vagoni a tutta velocità. Il pubblico, imbecille, non andava a vedere questo film, e la saletta nelle ore diurne era vuota. Glebov scelse un paio dei più meritevoli, ponderò a lungo quella scelta, annunciò la decisione dopo la lezione, quindi, attraversato di corsa il ponte, si precipitarono tutti e tre allo spettacolo. Sua madre ne poteva lasciar entrare anche quattro o cinque. Ma Glebov non si sbilanciava. Non c'era motivo di aver fretta. Avrebbe voluto che anche ¬sulepa lo pregasse, mendicasse come gli altri, ma quello non mostrava alcun interesse. Una volta disse con aria sprezzante: "Ma l'avrò visto cento volte!". Era certamente una fandonia. Durante le lezioni, Glebov si deliziava nella cernita dei postulanti: uno gli offriva una serie di francobolli di colonie francesi con l'aggiunta di uno spruzzatore, Manjunja promise di portarlo alle corse con suo padre; c'erano altre proposte, e c'erano anche delle minacce. Una ragazza gli scrisse un bigliettino in cui gli prometteva di baciarlo, se l'avesse portata al cinema. Glebov fu turbato dal biglietto. Non aveva mai ricevuto bigliettini da una ragazza e non era stato mai baciato. La ragazza si chiamava Dina, di cognome Kalmykova. Dina Kalmykova, soprannominata Paralume. Era grassoccia, molto colorita, con gli occhi e le ciglia nere, non molto bella. Glebov non le aveva mai rivolto la minima attenzione. Ma gli rimase impressa per tutta la vita. Ricevuto il bigliettino, Glebov ebbe un attimo di vero spavento. Aveva paura di muoversi e ancor più di voltarsi a guardare: Dina stava seduta due banchi dietro di lui. Per prima cosa fece il biglietto in mille pezzi. Si mise a riflettere febbrilmente a come doveva comportarsi. Avrebbe certamente potuto dirle: "Sì, ti posso portare al cinema, ma non è obbligatorio baciarsi". Ma questo sarebbe suonato per lei come un'offesa. Era già così grassoccia, una vera montagna di grasso, benché corresse veloce e alle lezioni di educazione fisica superasse le altre ragazze. Sapeva andare molto bene sulla trave e si arrampicava discretamente sulla fune. Aveva degli enormi calzoncini color amaranto a volant che qualcuno aveva definito un "paralume", e così era venuto fuori il soprannome: Paralume. Se il bigliettino lo avesse mandato Sveta Kirillova o, per esempio, Sonja Gan¬cuk, Glebov si sarebbe turbato assai di più. Sveta gli sembrava bella, aveva un portamento altero, era flessuosa, sottile, con le trecce color mogano e l'aria di chi sa un importante segreto, sconosciuto agli altri; Sonja Gan¬cuk invece attraeva Glebov non per la bellezza, ma per qualcos'altro. Forse per il fatto che il padre, il professor Gan¬cuk, era un eroe della guerra civile e nel suo studio, dove una volta Sonja lo aveva fatto entrare di nascosto, erano appesi alla parete pugnali, fucili e una scimitarra turca. Ah, se Sveta o Sonja gli avessero promesso di baciarlo! Ma Dina Paralume lo aveva confuso. Durante la ricreazione, cogliendo un momento in cui Dina era sola vicino alla finestra, con le spalle appoggiate al davanzale, gli occhi al soffitto, e il sorriso sulle labbra, le si avvicinò e disse borbottando: "Se vuoi, si può andare oggi. Vengono Tricheco e Chimius...". Dopo un momento di silenzio, aggiunse: "Se ti va, naturalmente...".

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"Sì" disse Dina continuando a sorridere e a guardare il soffitto. "Però non perdere tempo, altrimenti faremo tardi. Alle due e mezza. Vestiti subito e andiamo di corsa. Va bene?" Parlava seccamente, senza nessuna allusione sentimentale. Durante la proiezione, Dina gli sussurrò all'orecchio: "Io vado a casa!". Glebov si meravigliò. Le principali sparatorie de L'espresso azzurro dovevano ancora arrivare, ed egli si preparava a guardarle per la decima volta. Dina spiegò in un sussurro che le faceva male la pancia. Si alzò ed uscì dalla sala. Glebov, dopo averci pensato su, la seguì. Non era del tutto chiaro perché usciva con lei, e perciò si sentivano entrambi imbarazzati e non dicevano niente. Dina camminava rapidamente, quasi di corsa, e Glebov le camminava accanto con lo stesso passo. In silenzio percorsero velocemente il vicolo ed uscirono sul lungofiume Kanava. Sotto il ponte l'acqua era nera, fumante di vapore. A tratti sul fiume scivolavano ancora blocchi di ghiaccio; era aprile, un po' caldo e un po' freddo, chi ci capisce, ma Glebov batteva i denti e tremava tutto. Adesso desiderava tanto che Dina lo baciasse. Ma non sapeva come ricordarglielo. Almeno non sarebbe stato inutile piantare a metà! E poi era andata proprio bene: Tricheco e Chimius erano rimasti al cinema. In quattro non ne sarebbe uscito niente. Guardò di profilo Dina Paralume, la sua guancia rosso acceso, il naso all'insù, i riccioli neri che spuntavano da sotto il berretto da sciatore; osservò come ansimava per la camminata veloce, le sue grosse labbra dischiuse; quella vista gli era gradevole, perché sentiva che Dina Paralume, anche se grassa e non molto bella, era in quel momento in suo potere. E lei stessa aveva acconsentito a questo! Il cuore gli batteva. Stringeva i pugni. Ad un tratto Dina prese a camminare più lentamente. Anche Glebov rallentò il passo. Passarono accanto a un vecchio caseggiato di tre piani, che però non era casa sua. Abitava sulla Poljanka. Dina aprì il pesante portone d'ingresso, entrò, senza guardarsi attorno, e dietro di lei entrò Glebov. Salì di corsa le scale senza fermarsi né al primo piano, né al secondo, né al terzo, e lui dietro. Dal pianerottolo del terzo piano partiva un'altra rampa di scale, stretta e ripida, e Dina vi salì. Anche Glebov salì. Davanti all'ingresso della soffitta c'era un piccolo spazio, buio e maleodorante. Dina si voltò verso di lui ansimando, e disse: "Ecco fatto!". "Che cosa?" chiese lui, ansante. "Puoi baciarmi." "Perché dovrei? Sì, certo, me l'hai promesso..." "Cretino!" disse Dina. Erano in piedi, in silenzio, e il loro respiro si faceva a poco a poco più calmo. Dina non voleva andar via e ancora una volta disse a bassa voce: "Oh, che cretino...". Glebov decise fermamente di aspettare finché non avesse ricevuto quanto gli era stato promesso. Trascorsero tre o quattro minuti di assoluto silenzio e di immobilità, poi da dietro la porta della soffitta risuonò un disperato miagolio, si sentì un rapido frusciare. Si misero a ridere. All'improvviso Dina accostò il suo grasso viso caldo, ed egli si sentì sfiorare le labbra, per un attimo appena, da qualcosa di umido e sfuggente, e questo fu il primo bacio della sua vita. Niente di particolarmente piacevole, si era solo tolto il pensiero. Corsero giù per le scale e subito, all'ingresso, si separarono: lei doveva svoltare a destra, sulla Poljanka, Glebov attraversò il ponte di corsa. Uno o due giorni dopo, quando Glebov era al culmine della sua potenza, ci fu un tracollo. ¬sulepnikov invitò i ragazzi a casa sua dopo la scuola. Nel palazzone Glebov c'era già stato: da Tricheco, al nono piano, dove da una finestra si spalancava una gran vista sul ponte di Crimea, gli alberi del parco, e d'estate si vedeva la grande

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ruota girare; oppure da Chimius, che abitava al piano di sotto nella stessa scala e aveva stabilito con Tricheco un "sistema di comunicazione di corda e bandierine"; oppure ancora da Sonja Gan¬cuk o da Anton, nel piccolo appartamento al pianterreno, dove Anton abitava insieme alla madre, Anna Georgievna. Tra tutti gli inquilini del palazzo gli piaceva veramente Anton Ov¬cinnikov. Glebov riteneva Anton semplicemente un genio. Ed erano in molti a pensarlo. Anton era un musicista appassionato di Verdi, e sapeva cantare tutta l'Aida a memoria, dalla prima all'ultima parola; inoltre era un pittore, il migliore della scuola, dipingeva ad acquarello in maniera meravigliosa monumenti storici o disegnava a inchiostro di china profili di musicisti; per di più scriveva romanzi fantastici di speleologia e archeologia, ma si interessava anche di paleontologia, oceanografia, geografia e in parte di mineralogia. Di Anton lo attraeva non solo la genialità, ma anche la modestia, la mancanza di boria e di presunzione, a differenza degli altri inquilini del palazzo, in ognuno dei quali c'era qualche traccia di arroganza, detestabile agli occhi di Glebov. Anton viveva poveramente, in un locale solo, dal mobilio banale, e non aveva stivaletti tedeschi, maglioni finlandesi, meravigliosi coltellini dal fodero di cuoio e non si portava a scuola panini al prosciutto o al formaggio finemente avvoltolati nella carta velina che profumavano tutta la classe. Glebov non andava molto volentieri a casa dei ragazzi che abitavano nel palazzone; o piuttosto ci andava con grande circospezione, perché i portieri lo guardavano sempre sospettosi e gli chiedevano: "Da chi vai?". Bisognava dire da chi si andava, il numero dell'appartamento, a volte il portiere citofonava per accertare se realmente aspettavano il tal dei tali. Era spiacevole stare in piedi ad aspettare che finisse di accertarsi. Il portiere, mentre parlava, lo scrutava con uno sguardo tagliente e incorruttibile, come temendo che Glebov sgattaiolasse nell'ascensore senza permesso, e Glebov si sentiva un malfattore colto sul fatto. E non si poteva mai sapere che cosa avrebbero risposto dall'appartamento: Tricheco aveva una domestica sorda, che non riusciva né a capire né a spiegare niente; da Chimius invece andava a rispondere spesso la nonna, una vecchietta terribile che sorvegliava a vista il nipote. Una volta disse al portiere che Glebov non poteva salire, perché Chimius non aveva fatto i compiti. Solo quando andava da Anton, Glebov non subiva il tormento dell'interrogatorio: il suo appartamento era al pianterreno e il portiere, con una stretta sorveglianza, si limitava a controllare che Glebov suonasse proprio lì e che gli aprissero. Glebov aveva notato che anche i ragazzi che abitavano nel palazzo avevano timore dei portieri e cercavano di sgusciar loro davanti il più rapidamente possibile. Ma Levka ¬sulepnikov, sebbene vi abitasse da poco, si comportava diversamente. Quella volta, al suo passaggio, il portiere, un occhialuto scuro in volto e con le guance penzolanti, lo salutò per primo con un cenno del capo e accennò persino ad alzarsi dal grande tavolo sul quale era poggiato il telefono, ma ¬sulepa passò oltre, senza rivolgergli la minima attenzione. Si stiparono in cinque nell'ascensore. Il portiere tentò di fermarli, ma quasi timidamente, con una risatina: "Ma, giovanotti, e se restate bloccati tra un piano e l'altro?". Levka rispose seccamente: "Non fa niente! Corriamo questo rischio?". Tutti naturalmente gridarono: "Sì! Proviamo! Saggiamo il limite di portata!". La faccia occhialuta, quando l'ascensore partì, aveva un'espressione terrorizzata. Nell'appartamento, che colpì Glebov con le sue dimensioni gigantesche - i corridoi e le sale facevano pensare a un museo - continuarono a scherzare, a far baccano. Si tolsero gli stivali e si lasciarono scivolare sul parquet tirato a cera, cadendo e urtandosi l'uno con l'altro, risero forte, con allegria. Ad un tratto da una porta bianca con i vetri smerigliati uscì una vecchia con una

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sigaretta in bocca e disse: "Che diavolerie state facendo? Smettetela immediatamente! Rimettetevi le scarpe e andate subito nella stanza dei bambini". Levka ubbidì, borbottando. Gli chiesero se era sua madre. Disse che era Agnessa. Insegnava francese alla zia e faceva la spia alla madre. "Una volta o l'altra l'avveleno con l'arsenico o la violento." Scoppiarono tutti a ridere, ma nello stesso tempo rimasero meravigliati. Che modo di parlare! A nessuno sarebbe venuto in mente di pronunciare quella parola, di cui conoscevano tutti il significato, sebbene dicessero le sconcezze più indecenti senza il minimo scrupolo. Levka invece l'aveva pronunciata, riferendola a se stesso e alla vecchia con la sigaretta, in modo naturale, a cuor leggero. E quanto più distintamente Glebov coglieva le particolari qualità di Levka ¬sulepnikov, tanto più si concretava quel qualcosa di bruciante, quel peso che poi sarebbe diventato piombo. ¬sulepnikov era così abituato fin da quegli anni spensierati a pronunciare quella parola, come una vuota minaccia o come uno scherzo innocente, che la ripeté poi spesso, anche quando era già grande e grosso, all'istituto. Se si arrabbiava con una professoressa, la insultava così: "Se non mi dà la sufficienza, la violento". Fu nella camera dei bambini, arredata con un'insolita mobilia di bambù, con tappeti sul pavimento, ruote di bicicletta e guantoni da boxe appesi alle pareti, un enorme globo di vetro che ruotava, quando dentro si accendeva la lampadina, e un antico cannocchiale, montato su un treppiede per agevolare l'osservazione (Levka disse che la sera si poteva passare ottimamente il tempo, ispezionando le finestre dall'altra parte del cortile), fu lì, in quella camera, che fu demolito il fragile potere di Glebov. Nessuno però se ne accorse, tranne Glebov stesso. Levka portò un proiettore, stese un lenzuolo sulla parete e proiettò il film L'espresso azzurro. L'apparecchio crepitava, la vecchia pellicola si rompeva, le didascalie ballavano ed erano illeggibili, tuttavia ci fu un generale entusiasmo, mentre Glebov all'improvviso si sentì profondamente offeso. Pensava: perché diavolo un individuo deve avere tutto, ma proprio tutto? E persino quell'unica cosa che appartiene ad un altro, quell'unica cosa di cui si può vantare o servirsi, gliela tolgono e la dànno a lui, che ha già tutto. Poi a poco a poco si abituò. Ci si abitua a tutto, persino a un carico troppo gravoso: gli obesi si portano addosso trenta chili di peso superfluo e ce la fanno. Glebov si abituò al palazzone, che oscurava il vicolo, si abituò ai suoi portoni, ai portieri, al fatto che lo costringevano a prendere il tè, mentre Alina Fëdorovna, la madre di Levka ¬sulepa, ficcava la forchettina in un pezzo di torta e la scostava, dicendo: "Per me non è fresca", e la torta veniva portata via. Quando questo accadde per la prima volta, Glebov rimase colpito. Come poteva non essere fresca la torta? Gli sembrava un'assurdità. A casa sua la torta compariva raramente, ne facevano una alla svelta, quando era il compleanno di qualcuno, e a nessuno passava per la testa di dichiarare se era fresca o no. La torta era sempre fresca, splendidamente fresca, soprattutto quella sfarzosa con i fiori rosa di crema. Glebov si abituò anche al proprio appartamento, quando vi ritornava dopo le visite al palazzone. I primi tempi provava una certa malinconia, quando vedeva sorgere all'improvviso, come da un canto, la sua casupola sbilenca con le stuccature grigiastre, quando saliva la scala buia, dove bisognava fare attenzione perché c'erano dei gradini rotti; quando si avvicinava alla porta, costellata, come una vecchia coperta piena di toppe, di una quantità di targhette, di cartellini e di campanelli; quando affondava nell'odore composito, di petrolio, della sua casa, dove sempre la biancheria bolliva nella tinozza e qualcuno cuoceva i cavoli; quando si lavava le mani in quella che era stata una stanza da bagno, divenuta angusta per le tavole che coprivano la vasca in cui nessuno si lavava o faceva il bucato, e sulle tavole c'erano i catini e le bacinelle dei vari

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inquilini; quando molte altre cose vedeva, sentiva, notava, tornando dalla casa di Levka ¬sulepnikov o di qualcun altro del palazzone, ma un po' alla volta tutto questo si smussò, si ammorbidì e alla fine non ferì più. Una volta, rientrato da una visita, mentre Glebov descriveva eccitato il lampadario nella sala da pranzo di ¬sulepnikov e il corridoio in cui si poteva andare in bicicletta, e i meravigliosi dolci per il tè - non lo avevano colpito i dolci in sé, ma le dimensioni della scatola - e la madre e la nonna chiedevano curiose ora di questo ora di quello, il padre all'improvviso, strizzandogli l'occhio, gli disse: "Ma scusate, vorreste forse abitare in quella casa?". "E perché no? - disse la madre. - Vorrei avere un corridoio tutto mio." "Senza rumore di casseruole" disse nonna Nila, afflitta da una coinquilina che abitava nella stanza dirimpetto che arrivava tardi dal lavoro e cominciava, alle undici di sera, a rimestare tra camera e cucina, con le casseruole che tintinnavano una contro l'altra. Nonna Nila dormiva su un cassone, vicino alla porta, cosicché l'andirivieni della vicina e il tintinnio delle stoviglie la svegliavano. Il padre guardò la madre e la nonna con stizza. "Che devo dirvi? Galline pezzate, femmine rintronate..." I suoi scherzi erano così, del tutto innocenti. Aveva soprannominato anche sua madre "gallina pezzata". Le donne facevano finta di arrabbiarsi, gli si scagliavano contro agitando le mani - la madre non si era mai arrabbiata sul serio contro di lui - ed egli dava una gomitata a Glebov, strizzandogli l'occhio. "Eh, Dimy¬c, senti che chiocce... Che oche giulive... ma è mai possibile che non capiate che si vive più liberi senza un corridoio? E poi, che musica il tintinnio delle stoviglie! Io nemmeno per milleduecento rubli me ne andrei in quella casa..." Nonostante che avesse sempre un atteggiamento scherzoso e spensierato e si burlasse della madre, della nonna e della zia Polja, sorella della madre, prendendole in giro e spaventandole a tal punto che era a volte difficile capire se facesse sul serio o no - Glebov lo capì solo da adulto - il padre non era affatto un buontempone spensierato. Quella era la facciata, era la commedia domestica. Invece, in fondo alla natura paterna, il perno intorno a cui tutto ruotava era una qualità possente: la prudenza. Ciò che egli diceva ridendo, come una battuta "Ragazzi miei, seguite la regola del tram, non sporgetevi dai finestrini!", non era solo una battuta di spirito. Era saggezza nascosta, che egli cercava di trasfondere un po' alla volta, timidamente, quasi senza volerlo. Ma perché non sporgersi? Sembrava ritenerla una regola valida in sé. Forse lo soffocava, come un'angina pectoris, un'antica paura non sopita. Era un po' più anziano della madre, sembrava un vecchio, un vecchio crespo e incanutito, sebbene avesse appena cinquant'anni. Ma erano stati cinquant'anni di lotte, di avversità, di fatiche improbe. La sua era la famiglia molto povera di un contabile della fabbrica Duks. Il fratello, lo zio Nikolaj, era stato aviatore, uno dei primi piloti russi caduti nella guerra contro i tedeschi. In famiglia ne erano fieri. Non avevano altro di cui essere fieri. Il ritratto dello zio Nikolaj, con la divisa del ginnasio, era appeso nel posto più visibile. E, nell'amicizia sempre più stretta con Levka ¬sulepnikov (non si capiva perché Levka avesse un debole per Glebov, lo invitava a casa, gli regalava i libri che non lo interessavano, quindi praticamente tutti, e c'era il sospetto che li sottraesse alla biblioteca del padre, perché in alcuni vi era stampato il ritratto di un uomo con un martello, i raggi del sole e la scritta "Ex libris A'V'¬s'"), persino in quell'amicizia di ragazzi, il padre vedeva dei pericoli e ammoniva di "non sporgersi". Consigliò Glebov di frequentare meno quella casa, di non intensificare l'amicizia con

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Levka, perché "gli ¬sulepnikov hanno una loro linea di vita, tu la tua, e non si possono fare mescolanze". A lui, chissà perché, sembrava che prima o poi Glebov sarebbe venuto certamente a noia a Levka ¬sulepnikov, o, peggio ancora, ai suoi genitori, e da questo fatto sarebbero sorte delle contrarietà. Da parte sua, Glebov presentiva questa eventualità; non avrebbe voluto frequentare il palazzo e tuttavia ci andava ogni volta che lo chiamavano, e ci andava persino senza essere invitato. Tutto in quella casa era attraente, inconsueto: quanto chiacchieravano con Anton, quanti libri gli mostrava Sonja Gan¬cuk, prendendoli dalla biblioteca del padre, di quante meraviglie si vantava ¬sulepa! A casa sua tutto era risaputo, per filo e per segno, era meschinità, noia. Il padre non diceva niente direttamente, ma faceva capire alludendo, scherzando. Glebov non voleva che si parlasse di Levka. "Perché dici così? Che cosa non ti va di ¬sulepa?" Eppure quello che a Glebov non andava di Levka, quello che destava in lui un senso di avversione, di peso, era sconosciuto al padre. Il padre faceva altre congetture, evitava le spiegazioni oppure se ne usciva con spiritosaggini del tipo: "Vedi, in linea di principio io non ce l'ho con il tuo Levka, o ¬sulepa, come lo chiami tu. A proposito, ti consiglio di lasciare stare questo nomignolo. Chiamalo semplicemente Lev... Il fatto è che è un gran maleducato. Per esempio, non dice grazie, quando si alza dal tavolo dopo il tè". Era una sciocchezza, si capisce: il padre faceva lo spiritoso. Levka non gli andava per altri motivi più sostanziali. Ma quando Levka veniva a trovarlo a casa, il padre era gentile e persino molto affabile, come con un adulto e lo chiamava con tono serio Lev, senza i soliti diminutivi, cosa che faceva ridere Glebov. Per di più in presenza di Levka il padre si mostrava eccessivamente loquace, chiacchierava di argomenti diversi, raccontava frottole e faceva smargiassate. Glebov ne era disgustato. Una volta, a proposito dello zio Nikolaj, dichiarò che era stato il primo aviatore ad abbattere in una sola volta tre aerei, tra i quali quello del famoso asso tedesco conte von Schwerin, che era rimasto miracolosamente incolume, aveva ripreso a volare, e aveva dichiarato che sognava di scontrarsi con quel russo e di vendicarsi. L'avevano pubblicato su tutti i giornali. Glebov stava a sentire e non ne poteva più. Il padre disse: "Neppure tu lo sai. Non te l'ho mai detto". E Levka ¬sulepnikov disse: "Una volta lei ha detto che aveva abbattuto due aeroplani". "Io? Non può essere! Non ho mai detto che erano due. Non sarebbe un record. Due non è un record. Ne ha abbattuti tre in una sola volta..." Un'altra volta il padre raccontò che durante la guerra civile aveva prestato servizio nel Caucaso sotto il comando del compagno Kirov (che avesse prestato servizio da qualche parte nel Caucaso era vero) e che era stato in Persia con un reparto di cavalleria e aveva visto gli adoratori del fuoco. Levka ¬sulepnikov allora cominciò a dire balle sul conto di suo padre che a Tiflis avrebbe ucciso con le sue mani un fachiro. Il padre di Glebov disse che nell'India del nord aveva visto un fachiro che faceva crescere con gli occhi una pianta magica (non era mai stato di sicuro nell'India del nord). Levka disse che suo padre aveva acciuffato una banda di fachiri, che erano stati imprigionati in un sotterraneo e dovevano poi essere fucilati come spie degli inglesi, ma quando la mattina dopo andarono nel sotterraneo, non trovarono che cinque ranocchi. E i fachiri erano proprio cinque. "Dovevano fucilare i ranocchi" disse il padre. "E lo fecero, - disse Levka. - Ma sa quanto è difficile sparare ai ranocchi? E poi, in un sotterraneo..."

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Il padre rideva, minacciandolo maliziosamente con il dito. "Vedo che ti piace fantasticare, Lev! E' una bella cosa, mi piace. A parte gli scherzi, però, io li ho visti davvero i fachiri vivi... La prima volta nell'India del nord, come ho già detto, e la seconda volta qui da noi, a Mosca, sul viale Strastnoj..." Avevano qualcosa in comune, il padre e Levka ¬sulepnikov. Perciò chiacchieravano così fitto, d'amore e d'accordo. A Glebov non piaceva. Le fandonie lo esasperavano. Non tanto per il fatto che il padre diceva balle, ma perché pensava una cosa e ne diceva un'altra. Disse al padre, una volta: "E sì che Levka non ti piace. Perché ti comporti in quel modo? Quei sorrisi, quelle storie... Sembra il tuo principale...". E allora il padre se l'ebbe a male. Non si arrabbiava quasi mai, non gridava quasi mai, ma allora sbottò: "Moccioso! Mi fa il predicozzo, piccolo impudente! - gli piaceva l'espressione "piccolo impudente". - Io sorrido e racconto qualcosa solo perché sono una persona educata. E certo, voi siete abituati ai Levka! Dimka! Ehi! Tu! Frescone! Che incredibile faccia tosta, fare il predicozzo a suo padre!". Era così furente che andò a lamentarsi con la madre e con la nonna Nila, e anche le due donne se la presero con Glebov. Ma di sera Glebov sentì bisbigliare dietro il paravento: "E tu che frottole vai raccontando davanti a quel bellimbusto...". "E' un impudente! Fa le ramanzine a suo padre!" "Ma tu non strisciargli davanti in quel modo..." "Stupidi! Non capiscono niente!" Poi, a mente fredda, dopo qualche giorno, il padre gli spiegò con calma: "A proposito, quanto a quello che mi dicevi... che trattavo il tuo Levka come una personalità importante... sai, l'hai imbroccata! E' davvero una personalità importante, non dico lui, Levka, ma suo padre, anche se non so niente di preciso... Perché tutto è così confuso, complicato...". E venne subito la conferma: proprio una cosa complicata. Ad un tratto ci fu la storia di zio Volodja, il marito di zia Polja. Subito pensarono: forse potrebbe appoggiarlo il padre di Levka ¬sulepnikov? Zio Volodja e zia Polja abitavano alla Jakimanka, ma venivano a trovare i Glebov quasi tutti i giorni, soprattutto zia Polja. La madre e la nonna le erano affezionate. Era considerata la più bella di casa, la più dotata, e aveva un bel lavoro: faceva la modellista in una fabbrica di giocattoli. Zio Volodja era compositore tipografico. Aveva avuto delle noie, lo avevano accusato quasi di sabotaggio. Zia Polja piangeva: "Pensa un po', sabotatore il mio Vovka! Sabota se stesso, più che altro...". A se stesso faceva davvero del male, perché era un ubriacone. Il padre di Glebov lo sgridava sempre. La madre e la nonna a volte compiangevano zia Polja, a volte se la pigliavano con lei: "La colpa è tua, stupida, sei tu che lo hai viziato. Perché gli compri da bere?". "E' meglio in casa che per la strada, con chi capita", si giustificava zia Polja. Nonna Nila e la madre sostenevano che era per quello, per il vino, che c'erano state quelle noie, ma zia Polja non era d'accordo: "Lo hanno rovinato gli altri. E' un uomo fatto così!". Ed era davvero un uomo molto buono, senza malizia. Ma Glebov già allora indovinò che proprio queste anime candide sono la rovina di chi sta loro intorno: zia Polja piangeva, nonna Nila soffriva, la mamma non pensava ad altro e il padre bestemmiava. In primavera volevano comprare a Glebov la bicicletta, ma la mamma gli disse: "Adesso non ci sono soldi, bisogna aiutare Polina". E a un tratto pensarono al padre di Levka... Prima avevano cercato di allontanare Glebov da Levka, minacciato col dito: stai alla larga da loro, non ti impicciare, e adesso pensavano di chiedere aiuto a Levka. Perché tutti erano stati colpiti dalla storia dei By¬ckovy.

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I By¬ckovy, un'allegra famigliola, viveva nello stesso appartamento dei Glebov come se fossero i padroni. Erano temuti da tutti, davano sulla voce a tutti e facevano quel che volevano. Invadevano la cucina verso sera e non lasciavano entrare nessuno. Roba da correre alla polizia. Il vecchio By¬ckov, Semën Gervasievi¬c, metteva il pellame a bagno in un liquido puzzolente. Cuciva in casa gli stivali, i più cari e alla moda, e più spesso non li cuciva lui, ma li dava a un lavorante; si limitava a ricevere i clienti e il pellame. Quanti strilli per quella cucina chiusa di notte! La vicina che arrivava tardi la sera dava in escandescenze più di tutti. Anche la madre di Glebov si infuriava. Prima di tutto il puzzo, poi l'abuso. Talvolta la mamma stava per sbottare: "Vi faccio vedere io!... Con quale diritto!". Il vecchio Semën Gervasievi¬c borbottava a voce bassa: bu-bu-bu. Il padre di Glebov si trascinava malvolentieri in corridoio, perché tutti i By¬ckovy si rovesciavano fuori della "sala" - chissà perché chiamavano "sala" la grande stanza dove vivevano in sei - e il bu-bu-bu diventava generale, assordante. Come una tempesta, con tuoni e scrosci di pioggia. Ma i principali farabutti erano Minºka e Taranºka. Taranºka aveva dieci anni e frequentava la terza, Minºka invece ne aveva quindici e non andava a scuola per niente, perché aveva ripetuto due volte la quinta, era stato espulso, aveva fatto l'apprendista da qualche parte, poi aveva smesso. Si occupava di faccende poco chiare, passava tutto il giorno al biliardo e forse era entrato in un giro di ladri. Minºka By¬ckov era il piccolo zar di vicolo Derjuginskij e dintorni. E non era uno zar buono. Avevano paura di scontrarsi con lui, perché sapevano che non andava in giro a mani vuote. Spesso accorreva a scuola alla fine delle lezioni e si metteva a fare l'interrogatorio. "Chi è stato a picchiare Taras ieri sera? Chi l'ha graffiato per le scale? Tu, vigliacco?" E già sapeva chi era stato, perché Taranºka si lamentava continuamente e raccontava un mucchio di storie. Evitavano di toccare quello scrofoloso di Taranºka, ma c'erano anche i male informati, che non sapevano di Minºka: Taranºka faceva l'arrogante, e così gli appioppavano a cuor leggero uno schiaffo o un nocchino sulla capoccia, senza immaginare le terribili conseguenze. Minºka inscenava in cortile, presso il muro di mattoni, dove trascinava le sue vittime, un crudele processo sommario. "Come hai potuto, figlio d'un cane, prendertela con mio fratello? Ti sei stufato di campare?" Jurka Orso, l'atleta che non aveva paura nemmeno di quelli della decima, fu umiliato e pestato davanti a tutti: Minºka gli torse un braccio dietro la schiena, quello strillava dal dolore, ma Minºka torse ancora più forte, fino a farlo cadere in ginocchio. Poi gli ordinò: "Ripeti: perdonami, Taras Alekseevi¬c, per averti offeso... Non lo farò più!". E Taranºka, quel piccolo dritto dalle sopracciglia rossicce, assisteva alla scena e rideva. Orso soffriva al di sopra delle sue forze, gemeva, digrignava i denti e scuoteva la testa, non voleva parlare, ma By¬ckov lo sopraffece. Taranºka gli si accostò e gli avvicinò i piedi al viso. Minºka lo premeva, sempre più forte. "Ed ora ripeti, vigliacco, hai sentito? Altrimenti ti spezzo il braccio!" Orso balbettò in maniera appena percettibile: "Perdonami, Taras Alekseevi¬c..." e tutto il resto. Nessuno prese le sue difese: in cortile non c'erano ragazzi grandi, e come avrebbero potuto farcela i più piccoli? Anche Glebov aveva un po' paura di Minºka By¬ckov, ma non come gli altri, Minºka del resto era suo coinquilino. A volte gli chiedeva qualcosa, a volte gliela dava lui stesso. Talvolta Glebov s'inorgogliva: tutti avevano paura di attraversare il vicolo

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Derjuginskij dove c'era Minºka By¬ckov con la sua banda e lui no, non aveva paura. Poteva camminare per il vicolo anche di sera tardi, persino di notte, nessuno lo molestava. Glebov sentiva fortemente questo suo privilegio ed avvertiva persino, con una certa vergogna, senza neppure ammetterlo a se stesso, che nei momenti difficili avrebbe potuto diventare un secondo Taranºka, o quasi. Minºka sarebbe intervenuto in sua difesa! A chi toccava le avrebbe suonate. Ma Glebov non si lamentò mai di nessuno con Minºka. In genere non si serviva di tutti i vantaggi che gli venivano dall'essere suo vicino. Perché, oltre la segreta soddisfazione, c'era nascosto nel profondo qualcosa di assolutamente diverso: una paura che agghiacciava l'anima. Una paura che nessuno aveva mai provato. Perché nessuno come Glebov conosceva e sentiva tutti quei By¬ckov che facevano impallidire sua madre e costringevano la nonna a farsi il segno della croce. La mamma ripeteva: "Per l'amor di Dio, non ti mettere mai con Minºka, né con Taranºka...". Ma come poteva non stabilire dei rapporti, dal momento che loro stessi prendevano l'iniziativa? Avevano una sorella, Vera, una ragazza di sedici anni. Lavorava in fabbrica. Sembrava una donna fatta, ma forse appariva così a Glebov, tutta rotonda, con il petto prominente, le scarpe scricchiolanti e sempre un forte odore di acqua di colonia. Taranºka una volta tirò Glebov in corridoio e cominciò a importunarlo: "Vuoi che ti faccia vedere Vera nuda? Dammi venti copechi!". Glebov non voleva, naturalmente. Non aveva nessuna intenzione di guardare Vera nuda. Il solo pensiero gli procurava una spiacevole inquietudine. E poi dove prendere venti copechi? Rubarli alla madre o chiederli a nonna Nila? Ma Taranºka non gli dava pace e gli metteva paura con il cane: i By¬ckovy avevano un grosso cane nero chiamato Abdul che era considerato proprietà di Minºka. Abdul conosceva bene Glebov, tuttavia se glielo avessero aizzato contro, non si sa come sarebbe andata a finire. Andarono in bagno, tolsero il catino dalle tavole, vi misero uno sgabello e Glebov si arrampicò. Al di sopra c'era una finestrella che dava sulla "sala" coperta da una tenda. Taranºka scostò la tenda e Glebov vide Vera che si lavava in una tinozza in mezzo alla stanza. Vera, a quanto pare, non provava alcun imbarazzo di fronte a Taranºka. Glebov vide tutto... Poi Taranºka gli si incollò come una zecca: fuori subito i venti copechi! Erano tutti così: dammi, dammi subito! A volte succedeva che la mamma rientrasse in camera tutta sconvolta, come in preda al panico: "Aleutina vuole di nuovo la macchina da cucire... Che cosa le dico?". Aleutina era la madre di Minºka, di Taranºka e di Vera, la moglie del vecchio By¬ckov. Alla madre di Glebov non andava affatto di prestare la macchina da cucire. Ora trovava una scusa, ora un'altra, giocava d'astuzia, ma l'altra la spuntava ugualmente. Non c'era alcuna possibilità di affrancarsi dai By¬ckovy. Ma la loro potenza finì in questo modo. Una volta corsero al vicolo Derjuginskij Anton e Levka, non si sa per quale motivo, ma non andavano da Glebov. Forse volevano passare dal vicolo per andare al lungofiume Kanava, c'era un passaggio attraverso i cortili. I By¬ckovy li notarono e subito mandarono Taranºka a fare degli stupidi discorsi: "Ehi, giovanotto, vuoi che te le suoni?". Un vero invito a una rissa. I due non si misero certo a discutere con Taranºka, lo scostarono, ma a quel punto tutta la banda dei By¬ckovy si riversò fuori del portone, era come in un copione; la baruffa era nell'aria, qualcuno sguinzagliò Abdul, ma sembra che il cane non abbia morso nessuno, ci fu solo una gran paura e un vestito strappato. Levka non se la prese, ma per Anton ogni straccio che possedeva era prezioso. Il giorno dopo venne a casa dei Glebov un uomo con un lungo cappotto

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di pelle, che bussò subito alla "sala". Abdul ululò forte. Il vecchio Semën Gervasievi¬c, Aleutina e Taranºka erano in casa. Ci fu qualche rumore, si sentì parlare, Aleutina gridava, il cane abbaiava con voce acuta (Glebov non lo lasciarono uscire dalla camera e tutta la famiglia decise di non uscire in corridoio, stavano lì seduti, in ascolto), poi si sentirono tre colpi di pistola. Abdul, dissero poi, si ficcò sotto il divano e non ne uscì mai più. Glebov era deluso: lo considerava un cane terribile e coraggioso, e invece si era comportato come un vigliacco. Del cane dispiacque anche ai By¬ckovy, e specialmente ad Aleutina e Taranºka, che singhiozzarono. Nella casa invece furono contenti. Dopo la morte di Abdul, quasi all'improvviso le cose cominciarono ad andar male per tutti i By¬ckovy, e tutto crollò. Minºka fu arrestato per furto, il vecchio Semën Gervasievi¬c cadde in mezzo al cortile e fu portato all'ospedale, e in breve tempo tutti gli altri By¬ckovy scomparvero non si sa dove, come se li avesse spazzati via il vento. E nella "sala" divisa in due con un tramezzo e tappezzata a nuovo si trasferirono i tranquilli Pomra¬cinskie, marito, moglie ed una ragazza, Ljuba. Correvano per il corridoio senza farsi notare, come sorci, e parlavano tra di loro sempre a bassa voce.

Io mi ricordo tutte queste stupidaggini infantili, quello che si perdeva e si trovava, quanto soffrivo a causa sua quando non mi voleva aspettare e andava a scuola con un altro, e poi mi ricordo quando spostarono la casa con la farmacia, e che in cortile c'era sempre aria umida, odore di fiume, e l'odore si sentiva anche nelle stanze, specialmente in quella grande di mio padre, e, quando passava il tram sul ponte, si sentiva anche da lontano lo sferragliare e il cigolio delle ruote. Mi ricordo: fare d'un fiato la scala laterale del ponte; scontrarsi la sera sotto l'arco con la banda del vicolo che tornava dal cinema di corsa, come un branco di coyotes; andare loro incontro, stringendo i pugni, impietriti dalla paura. Tutta l'infanzia era avviluppata nella nube purpurea della vanità. Oh, quegli sforzi, la bramosia di una gloria momentanea! Il mondo era piccolo, gli uomini erano quattro, o cinque: Anton, Chimius, Tricheco, forse anche Sonja e Levka e, certamente, il buffo Jarik. E in questo cosmo gorgogliava la nostra brama: dimostrare. Tenero, succoso, vermiglio frutto dell'infanzia. Tutto era nuovo, senza paragoni. Per la prima volta nella vita corsi al fiume, durante la ricreazione, sull'asfalto inondato di sole. Per la prima volta nella vita indovinai che la primavera era semplicemente il vento che faceva sentire freddo e battere i denti. Un uomo magro e incurvato, con un giubbotto corto e un grande berretto da donna color mattone, camminava svelto sul marciapiedi e chiacchierava tra sé e sé. Una terribile preoccupazione divorava quelle guance scavate, gli occhi infossati. Dopo aver letto di sfuggita il nome della nostra scuola, si fermò all'improvviso e si mise a gridare: "Non può essere! Non può esistere una cosa simile! Mi sentite?". Non gridava rivolto a noi, piccolo gruppetto sparuto, addossato al parapetto del lungofiume, ma a qualcun altro invisibile, che bruciava con il suo sguardo d'odio: "Scuola media SENO. Ma quale SENO? Cosa significa questa assurdità? Dio mio, si rendono conto di quello che fanno?". E lanciò ancora qualche altra espressione di rabbia, con gli occhi scintillanti. A un tratto si arrampicò con un balzo sulla striscia di granito del parapetto e cominciò a camminare con gran facilità come se si trattasse di un marciapiedi. Noi restammo stupefatti, le ragazze urlarono dallo spavento. L'uomo con il berretto allora si accorse di noi e, fermatosi un momento, ci disse dall'alto: "Poveri bambini!". Dopo di che fece ancora alcuni metri con la sua andatura lunatica, saltò giù e si allontanò velocemente in direzione del ponte sulla Moscova. Per la prima volta in vita mia avevo visto un pazzo. Eravamo

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rimasti tutti colpiti da quell'uomo. Quando fu a ragionevole distanza, cominciammo a ridere selvaggiamente. Chimius si avvicinò alla barriera di granito e vi si arrampicò aiutandosi con le mani. Noi vedevamo che aveva paura, che non ce la faceva ad alzarsi, e tuttavia egli fu il primo a issarsi sul muretto e, con le mani alzate e il viso rattrappito dalla sofferenza, a gridare: "Poveri bambini!" per poi lasciarsi cadere come un sacco sul marciapiedi. Noi ridevamo. Ma ecco Anton Ov¬cinnikov, mortalmente pallido, mordendosi le labbra, si avvicinò con passo sicuro al muretto ed anche lui ci salì sopra, si alzò in piedi, allargò le braccia come un funambolo... Noi sapevamo che Anton aveva i piedi piatti, era miope, andava soggetto ad attacchi di epilessia, ma nessuno lo fermò. La pazzia aveva contagiato tutti. Risultò che camminare e persino correre sul parapetto era incredibilmente facile. Dopo Anton si arrampicò il grosso e pesante Zorik, detto Tricheco, ed anche lui strisciò sul granito, senza alzare le suole, ingobbito come una scimmia, ma quando saltò giù sull'asfalto le sue gambe cedettero ed egli cadde in ginocchio. Poi mi arrampicai io, e infine Jarik. Non era poi così difficile. Prima di tutto non bisognava pensarci, né guardare in basso, sul viottolo di pietra dell'argine. L'urlo spaventoso di Nikfed ci strappò a quello strano sogno. Probabilmente quell'urlo salvò Jarik, il più maldestro e indifeso di noi: non ce la faceva a correre né a lottare, né a prendere parte alle "scaramucce" che avvenivano nel cortile posteriore della scuola, dove si faceva a pugni "al primo sangue". Jarik era rosso di capelli, aveva la pelle bianca ed era tutto molle, come un giocattolo di gomma. Faceva pensare a un uccello che non sa volare. Lo picchiavano quelli delle altre classi, che non riuscivano a picchiare nessuno. Era una preda allettante: così grosso e così smidollato. Una volta le prese da uno della terza. Il fatto era che Jarik non poteva colpire nessuno, le dita non gli si stringevano a pugno, e perciò lui non faceva resistenza, quando gli si gettavano addosso, persino i piccolini. Noi difendevamo sempre Jarik, ingaggiavamo battaglie per lui, perché Jarik apparteneva alla nostra classe e chi alzava le mani su di lui offendeva noi tutti. Se qualcuno gridava: "Stanno picchiando Jarik!", noi volavamo a rotta di collo al primo piano o al secondo, in soffitta, nella palestra o in cortile, là dove qualche vigliacco si stava sfogando contro il nostro Jarik, come se fosse cosa sua: lo trascinava in un angolo o si faceva portare a cavalluccio, caracollandogli in groppa. Ma allora, sul lungofiume, quando egli si avvicinò al muretto e con aria disperata slanciò i suoi lunghi trampoli incurvati ai ginocchi, noi lo guardammo con gioioso interesse, aspettandoci uno spettacolo divertente. E pensare che poteva cadere in acqua e affogare. Cominciò allora il collaudo della volontà. Dopo che quasi tutti quelli della nostra compagnia ebbero imparato non solo a camminare, ma persino a correre sul parapetto, escluso un ragazzo che strascicava una gamba, esonerato dalla ginnastica, Anton inventò una seconda prova: attraversare il vicolo Derjuginskij di sera. Era il posto più malfamato dell'isola e, forse, di tutto l'Oltremoscova. Vi erano annidati i tipi meno raccomandabili: i banditi, per i quali non c'era nulla di sacro, spergiuri e predoni di pacifiche carovane di mercanti, filibustieri ed avventurieri, bande di pirati, come quella di capitan Silver, il corsaro dalla gamba sola. Ogni ragazzo che passava di là veniva derubato: a uno prendevano dieci copechi, a un altro quindici, a un altro ancora toglievano le mostrine o il coltello da tasca. I genitori proibivano di passarci. "Ma se quei banditi fossero capitati nei nostri cortili!..." Anton si allenava al ju-jitsu. L'allenamento consisteva in questo: dalla mattina alla sera, negli intervalli, durante le lezioni, a casa, mentre leggeva o ascoltava la musica alla radio, colpiva qualcosa di duro con il taglio della mano destra. La mano doveva

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diventare come ferro. Lui diceva "corazzarsi la mano". E, come tutto ciò che faceva Anton, grazie alla sua tenacia sovrumana e alla sua autodisciplina l'impresa procedeva con successo. Dopo un paio di mesi la mano si era ornata di una dura callosità. Nessuno di noi avrebbe avuto tanta pazienza. E quando spuntarono dal portone e ci si pararono davanti, sbarrandoci la strada, e un certo Minºka, detto Toro (una volta frequentava la nostra scuola, era un ragazzone e già gli spuntava la barba), domandò: "Siete di queste parti? Andate da Vadºka?", Anton rispose seccamente: "No!". Anton e Levka qualche volta facevano una capatina da Glebov. Lo consideravano uno abbastanza in gamba, senza troppa grinta. La maggior parte dei ragazzi della nostra classe avevano, naturalmente, molta grinta. Quella volta Anton rispose seccamente "no!", ben sapendo che, se avesse detto "sì", non ci avrebbero toccato. Vadºka e Toro vivevano nello stesso appartamento. Se noi avessimo gridato "Ehi! Sfilatino!" (Vadºka Glebov era chiamato Sfilatino), e lui si fosse affacciato alla finestra, poteva anche non scapparci la rissa. Ma Anton aveva escogitato tutto ciò per collaudare la nostra volontà e noi non dovevamo rendere più facile la prova. Levka ¬sulepnikov non aveva nemmeno preso la sua pistola giocattolo. Il povero Anton Ov¬cinnikov non aveva certo l'aria dell'eroe né dell'atleta (in seguito, dopo quella baruffa, nei cortili corsero leggende su di lui), era tarchiato, basso, uno dei meno sviluppati della classe, ma portava i calzoni corti anche nel periodo più freddo, per temprare il suo fisico, e questo gli dava un aspetto infantile. Chi non lo conosceva non lo prendeva sul serio. Per di più portava gli occhiali, quando andava al cinema o faceva una passeggiata in campagna. Quella volta, nel vicolo, pare che avesse gli occhiali. Per questo, quando cominciarono a molestarci, facendo a uno lo sgambetto, dando un buffetto a un altro, tentando di togliere ad Anton gli occhiali dal naso, fu come se a un tratto fosse scoppiata una bomba: Anton dette un colpo di taglio all'addome dell'aggressore e lo fece cadere. Ne colpì un altro, che cadde. Si slanciò su di un terzo... cadevano quasi istantaneamente, senza un grido, senza reagire, quasi per proprio desiderio, come clown ben addestrati nell'arena del circo... Furono momenti favolosi... Poi ce le dettero di santa ragione... E poi ancora quel cane... Anton stette un mese a casa con la testa fasciata... Ma, con tutto ciò, eravamo straordinariamente contenti. Di che cosa eravamo contenti? Era qualcosa di strano, di inspiegabile. Andavamo a trovare Anton nel suo buio appartamento al pianterreno, dove non c'era sole, dove alle pareti, accanto ai ritratti dei compositori, erano appesi i suoi acquarelli, giallini e azzurri, dove un giovane rapato a zero, con le stellette sulle mostrine, ci guardava da una foto, in una grossa cornice di legno, poggiata sul pianoforte (era il padre di Anton, morto in Asia minore, ucciso dai controrivoluzionari), dove la radio era sempre accesa, dove, in un recondito cassetto della scrivania, c'era un mucchio di grossi quaderni da 55 copechi, con le pagine ricoperte di scrittura minuta, dove nel bagno frusciavano tra i giornali gli scarafaggi (in quella scala c'erano scarafaggi in tutti gli appartamenti), dove mangiavamo in cucina patate fredde, cosparse di sale, che accompagnavamo con ottimo pane nero, tagliato a spesse fette, dove chiacchieravamo, lavoravamo di fantasia, ricordavamo, sognavamo ed eravamo contenti di chissacché, come scemi...

E di nuovo venne fuori il discorso di zio Volodja: si poteva dargli un aiuto attraverso il padre di ¬sulepnikov? Sembrava che fosse un uomo influente. La mamma intavolò il discorso. Il padre non era del tutto convinto. "Non bisogna importunare la gente, - diceva, molto innervosito. - Per ¬sulepnikov è una cosa di poco conto, è imbarazzante chiederglielo." La mamma diceva: "Volodja non ti è mai piaciuto. Ma è mio parente. E mi dispiace per Polina, per i bambini.

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No, io pregherò assolutamente Lev di parlarne con suo padre". "Io ti proibisco di farlo!", gridò il padre una volta. Difficilmente la madre entrava in discussione con il padre, ma di solito faceva di testa sua. Una sera venne Levka ¬sulepa (Glebov lo aiutava in algebra, ma veniva anche così per passare il tempo), presero il tè con le ciambelle, a Levka piaceva prendere il tè da Glebov, perché a casa sua non compravano le ciambelle. La madre di Glebov a un tratto si mise a parlare di zio Volodja, che bisognava conoscere qualcuno che potesse aiutarlo, perché si trattava di un equivoco. Levka fu subito d'accordo: "Va bene, parlerò con papà". La mamma gli diede un bigliettino con il cognome. Lo aveva già scritto prima. Glebov avvertì quasi fisicamente la tensione e la contrazione del padre, che stava rimescolando lo zucchero nel bicchiere: a un tratto il movimento della mano, il tintinnio del cucchiaino erano cessati, ed egli era rimasto immobile, con la testa china. La madre invece sorrideva, gli occhi le brillavano e, quando le fu vicina, Glebov sentì odore di vino. Neanche a lui era piaciuto molto l'intervento della madre perché ¬sulepa era pur sempre un suo compagno e, se c'era qualcosa da chiedergli, spettava a lui, a Glebov. Quando Levka uscì, il padre aggredì la mamma rimproverandola: "Non ti vergogni? Tu sei ubriaca! Hai parlato come un'ubriaca!". La mamma, naturalmente, disse che non era vero, che lei non era ubriaca e che la smettesse di dire sciocchezze. Non era affatto ubriaca, aveva bevuto appena un goccetto per farsi coraggio. Il padre si era accalorato, gridava che lui non ne voleva rispondere, che declinava ogni responsabilità, anche se non si capiva in che cosa consistesse il pericolo. In genere gli piaceva fare fosche previsioni. Glebov raramente aveva visto suo padre così agitato. Batté persino il pugno sul tavolo e farfugliò di rabbia: "Io faccio tutto per voi! In ogni momento! e voi... che il diavolo vi porti! Cervelli di gallina!". Solo più tardi Glebov comprese che il padre era spaventato a morte. Era una sua caratteristica: era arrabbiato sul serio, ma per qualcosa di completamente diverso da ciò che diceva a voce alta. La vera ragione bisognava indovinarla, e risultava piuttosto difficile, a volte impossibile. Ma allora, quando sgridò la mamma per il bicchierino bevuto in fretta in una cantina alla Poljanka, il motivo era chiaro: si era parlato di zio Volodja. Eppure lo aveva categoricamente proibito! E la mamma non gli aveva dato retta. Soltanto alla fine, rilassandosi, dopo aver gridato, disse come per inciso: "Per quanto riguarda Volodºka, poi, è una stupida faccenda... Che cosa vai cicalando, stupida che sei?". La madre scoppiò a piangere. Il padre si rattristò, se ne andò da qualche parte, sbattendo la porta. Nonna Nila disse a Glebov con calma: "Dim, cerca di ricordarglielo a Levka. La questione è che, chiasso o non chiasso, paura o non paura, bisogna aiutarlo...". Nonna Nila sapeva sempre dire qualcosa di semplice, di sereno, anche se intorno a lei sragionavano o gridavano spropositi. Glebov voleva bene a questa vecchietta, raggomitolata su se stessa, con la crocchia grigia ben stretta sulla nuca, con il piccolo viso giallastro, che sfaccendava per casa ininterrottamente, dalla mattina alla sera, si dava da fare, andava e veniva strisciando i piedi. Ed era la sola, gli sembrava, che qualche volta lo capisse. Una volta, in una giornata di gelo, Glebov stava in camera di Levka ¬sulepa a giocare a scacchi, e a un tratto entrò il padre di Levka. C'era anche un altro ragazzo, facevano un torneo a tre. Glebov aveva visto rare volte, tre o quattro in tutto, ¬sulepnikov padre. Levka diceva che papà lavorava ventiquattr'ore su ventiquattro e dormiva persino sul lavoro. Levka lo chiamava papà, sebbene fosse il patrigno: il padre vero, che aveva uno strano cognome doppio, era morto o forse era misteriosamente scomparso dalla sua vita.

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Prochorov-Plunge! Così si chiamava il padre vero di Levka. Per questo una ventina di anni più tardi Levka riprese il suo vero cognome: Prochorov. Senza Plunge. Ma questo accadde molto più tardi, in un'altra vita. Tra il cognome ¬sulepnikov e il riesumato Prochorov-Plunge (si parla sempre di nomi, non di persone), ci fu un terzo cognome, un terzo padre, qualcosa come Fivejskij o Flavickij. Con i padri di Levka c'era da confondersi. La madre invece era sempre la stessa, ed era una donna rara! Levka diceva che era di origine nobile e che lui, tra l'altro, era un discendente dei principi Barjatinske. Alina Fëdorovna era alta, abbronzata, parlava in tono severo, aveva lo sguardo altero. A Glebov sembrava che fosse la persona più importante della famiglia e che Levka avesse più paura di lei che del padre. Una via di mezzo tra l'antica boiarda Morozova e la Dama di Picche. ¬sulepnikov, il patrigno di Levka, era invece una figura insignificante, con gli occhi sporgenti, piccolo di statura; parlava a bassa voce, e Glebov era colpito dal suo assoluto pallore. Non aveva mai visto un viso così sbiadito e immobile. Il patrigno di Levka portava una camicia grigia, tenuta alla vita da una sottile cintura caucasica con decorazioni d'argento, un paio di calzoni a sbuffo e gli stivali. Quando entrò nella stanza di Levka, si soffermò a guardare la partita a scacchi e domandò: "Glebov Vadim devi essere tu, vero?". Glebov fece cenno di sì. "Vieni un attimo con me." Glebov esitava. Non voleva interrompere la partita: stava vincendo, aveva due cavalli in più. "Finito! Non valida!" gridò subito Levka, e mescolò le pedine. Glebov, depresso, seguì il patrigno nello studio, riflettendo a come fosse astuto e ingiusto ¬sulepa. Non riusciva a immaginare che cosa avrebbe sentito là dentro. "Siediti!" Glebov si sedette in una poltrona di pelle rosso scuro, così morbida, che subito gli sembrò di sprofondare in un abisso, ebbe un po' di paura, ma subito si riprese, trovando una posizione comoda e tranquilla. Il patrigno di Levka disse: "Lev mi ha dato il biglietto di tua madre riguardo a... - si mise gli occhiali e lesse: - Burmistrov Vladimir Grigorºevi¬c. E' un vostro parente? Bene, cercherò di informarmi della sua faccenda, se sarà possibile. Se non sarà possibile, vi prego di scusarmi. Ma ho anch'io una cosa da chiederti, Vadim!". ¬sulepnikov stava seduto dietro un'enorme scrivania; era piccolo, abbattuto, con le spalle cadenti e tracciava qualcosa su di un foglio. "Dimmi, Vadim, chi è stato l'istigatore dell'aggressione a mio figlio Lev nel cortile della scuola?" Glebov rimase allibito. Non si sarebbe mai aspettato una tale domanda. Gli pareva che quella storia fosse ormai dimenticata da un pezzo, erano trascorsi vari mesi! Anche lui era stato uno degli istigatori, sebbene all'ultimo minuto avesse deciso di non prendervi parte. Ma qualcuno poteva averlo raccontato. Subito gli venne questo pensiero e ne fu un po' spaventato. Vedendo che Glebov era rimasto turbato e taceva, ¬sulepnikov disse severamente: "Non è una cosa da niente, non è una sciocchezza: c'è stata un'aggressione ai danni di mio figlio. E' stata opera di un gruppo, ma devono esserci stati degli istigatori, degli organizzatori. Chi sono?". Glebov borbottò che non lo sapeva. Non si sentiva a suo agio. A tal punto che qualcosa cominciò a gemere e a fargli male in fondo allo stomaco. Il patrigno di ¬sulepa non somigliava a un uomo malvagio, non gridava, non sbraitava, ma nella sua voce bassa e nello sguardo luminoso di quegli occhi sporgenti c'era qualcosa che metteva a disagio Glebov che gli sedeva di fronte, in una morbida poltrona.

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Glebov si accorse che non c'era altra via d'uscita, che bisognava parlare. Da questo forse dipendeva il destino di zio Volodja. Dapprima cercò di fare il furbo e cominciò a parlare di Minºka e Taranºka, ma il patrigno di Levka lo interruppe bruscamente, dicendo che quella era una faccenda conclusa e non interessava nessuno. Chi era stato l'istigatore dell'aggressione in cortile? I responsabili non erano stati ancora smascherati e puniti. Glebov soffriva, titubava, la lingua non si muoveva, gli mancava il coraggio, e rimasero così per qualche tempo, in silenzio, quando a un tratto avvenne l'imprevedibile: lo stomaco di Glebov si mise a gorgogliare forte, in maniera distinta. Era così inaspettato e umiliante che Glebov si rannicchiò, ritirò la testa nelle spalle e rimase immobile. I borborigmi non cessavano. Ma il patrigno di Levka non ci badava. Disse: "Vedi, Lev ha un grande difetto, è testardo. Si è incaponito e non vuole testimoniare per un falso senso di amicizia. Tu sai, certamente, che non è mio figlio, è figlio di Alina Fëdorovna, e questo complica le cose, perché io non posso, per così dire, prendere provvedimenti. Che devo fare, allora? Tu devi aiutarmi, Vadim. Hai dodici anni, sei un adulto e capisci quanto sia grave tutto ciò. E' molto, molto grave!". Ed alzò il dito con sussiego. I borborigmi erano cessati, ma Glebov temeva che potessero ricominciare da un momento all'altro. Fu anche a causa di questa paura che sbottò: nominò Orso, che era stato realmente il principale sobillatore dell'impresa e che Glebov non amava perché, approfittando della sua forza, a volte gli dava dei ceffoni senza motivo, e nominò Manjunja, noto spilorcio. In fondo, aveva agito con giustizia: sarebbero stati puniti dei furfanti. Ma gli rimase dentro una spiacevole sensazione, come se in un certo senso avesse tradito qualcuno, sebbene avesse detto la pura verità sul conto di quei furfanti. E questa sensazione gli durò a lungo, certamente per parecchi giorni. Poi Levka venne un giorno da Glebov e disse che papà lo aveva pregato di riferire questo: per zio Volodja non era riuscito a sapere niente. Nessuno se ne dispiacque particolarmente, perché avevano già immaginato che non ci sarebbe riuscito. Zio Volodja era ormai lassù, nel nord, da dove aveva già mandato una lettera. Quanto poi a Orso e a Manjunja, non successe niente di terribile. I genitori di Orso si trasferirono da qualche parte per motivi di lavoro, fuori Mosca, e Orso andò con loro. Manjunja invece andava molto male a scuola; fu cacciato e capitò in una "scuola forestale", da dove scappò, si unì a dei ladri e durante la guerra finì in un campo per criminali comuni. La primavera in cui lo cacciarono dalla scuola, Manjunja andò nel cortile del palazzone, si appostò e dette una lezione a Levka. Dissero che era stato per una ragazza, ma Glebov sapeva di che si trattava. Tutto ciò era ormai così remoto, così deformato nel ricordo e nebuloso, sfilacciato come una pezza fradicia, così frammentato, che non riusciva più a venirne a capo: che cosa in realtà era accaduto? Che cosa aveva determinato questo o quello? E perché si era comportato in quel modo e non in un altro? Si conserva sempre, invece, qualche sciocchezza. Immortale nel ricordo, immarcescibile. Per esempio, i borborigmi. E di tutto quello che era successo dopo, alcuni anni più tardi, quando il destino lo fece di nuovo incontrare con Levka ¬sulepnikov all'istituto, e di nuovo erano spuntati Sonja e il padre di Sonja, il professor Gan¬cuk, che cosa gli era rimasto nella memoria? Che cosa era fermo nel ricordo, saldo, come un chiodo dalla capocchia d'acciaio? Un'altra sciocchezza: il professor Gan¬cuk, che, dopo la riunione in cui lo avevano annientato, mangiava con avidità un millefoglie in una pasticceria di via Gorºkij. Glebov era passato di lì per caso e l'aveva visto dalla vetrina.

Quando Glebov nell'autunno del '47 rivide ¬sulepnikov nel cortile

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dell'istituto, lo riconobbe, anche se in sette anni Levka si era trasformato: alto, la fronte sporgente, con una precoce calvizie, con dei baffetti rossicci, quadrati, alla caucasica, che non solo erano di moda, ma denotavano un carattere, uno stile di vita, addirittura una visione del mondo. Oltre alla meraviglia e alla curiosità, Glebov avvertì subito l'urto di qualcosa che aveva dimenticato, di quel piombo nell'animo che in lui era stato sempre legato a ¬sulepnikov. Chiacchierarono, si dettero delle pacche sulle spalle, gridarono, divertiti. "E questo chi è?", "Guarda chi c'è!", "E questo che ci fa?" e, nello stesso istante, Glebov sentì dentro di sé il noto peso. Con il suo giubbotto, la sua camicia a scacchi, i suoi calzoni rattoppati, Glebov era ancora, se non il parente povero, l'amico povero di questo festeggiato dalla vita. ¬sulepnikov aveva una magnifica giacca americana di pelle marrone con tante chiusure lampo. Giacche di quel tipo erano in vendita, a volte, nei negozi su "commissione", ma molto di rado, e costavano un mucchio di soldi. Glebov non se le sognava nemmeno. Una volta sì, se le sognò: fu quando frequentava Sonja Gan¬cuk. A casa di Sonja si radunava gente molto scelta, e lui non si sentiva mai abbastanza sicuro di sé, nonostante fosse un vecchio amico di Sonja. Allora ardentemente sognò una giacca di quel tipo. Era quello che ci voleva per sentirsi virile, elegante, all'ultima moda, a proprio agio. Dio sa cosa avrebbe dato per una giacca simile! Mentre parlava con Levka non riusciva a staccare gli occhi dalle morbide pieghe della pelle. Levka raccontò qualcosa della Germania, di una disavventura matrimoniale, del padre, della casa in cui adesso abitava: di fronte al telegrafo, dov'era la cocktail-hall. Anche Glebov raccontò. Parlarono con voce volgare di cose volgari. La guerra aveva scosso via quello che avevano di infantile, così pareva a loro, in ogni caso. In realtà erano rimasti dei ragazzi. Glebov disse: "Hai una giacca pazzescamente bella. Dove si può trovare?". "Non è un problema." "No, certo. Ma dove si trova?" "Lo dico al papà, che lo dice a un dirigente..." Due ore più tardi stavano seduti sugli alti sgabelli della cocktail-hall. Glebov ci andava per la prima volta, gli sgabelli gli parevano brutti, scomodi, somigliavano a trespoli per far appollaiare gli uccelli. Con le gambe penzoloni fumavano in continuazione, sorseggiavano il kobler più forte, e, ubriacandosi a poco a poco, si raccontavano le burrascose avventure di quei sette anni. Ne avevano di cose da raccontare! Glebov era stato sfollato a Glazov. La madre era morta per strada: un colpo al cuore. Glebov era a lavorare in foreste al taglio della legna, non ne aveva saputo niente. Levka era andato in aereo a Istanbul per una missione diplomatica. Da lì erano volati a Vienna con un passaporto straniero. Glebov era tornato dal taglio del bosco a funerale avvenuto, e per poco non se ne era andato pure lui per una polmonite: nonna Nila lo aveva salvato. Poi era tornato suo padre, ferito alla testa. Non poteva applicarsi a nessun lavoro che richiedesse uno sforzo mentale. Faceva lo stampatore in fabbrica. Tricheco era morto vicino a Leningrado. Orso, Scepa, Chimius non si sapeva dov'erano. Dal palazzo erano andati via tutti, chi da una parte, chi dall'altra. Non era rimasto nessuno, tranne Sonja Gan¬cuk. La moglie di ¬sulepa era un'italiana, Maria, una donna di rara bellezza. A Glazov la gente moriva di fame, Glebov imparò a mangiare zuppa di erba, a bere tè di ghiande. Maria aveva sette anni più di Levka ¬sulepa. Un tempo gli piacevano le donne più anziane. Poi gli erano venute a noia. Si mettevano troppe idee in testa. No, le donne di Glebov erano più giovani. Tutte, tutte, tutte le sue donne erano più giovani, tranne una. Ma quell'una era una canaglia! Glielo avrebbe raccontato un giorno o l'altro, un'altra volta... Ce n'erano di cose da raccontare. Quando era morto Anton? Nell'autunno

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del '42, a quanto si diceva. Non si capiva come avessero potuto mandarlo al fronte: era malato, era miope, aveva attacchi d'epilessia. E non ci sentiva molto bene. Anton non ci sentiva bene? Certo, durante le lezioni pregava sempre di ripetere e stava al primo banco. Eppure aveva una straordinaria inclinazione per la musica, l'Aida la sapeva tutta a memoria. Che c'è di strano? E Beet-hoven? Sì, ecco di chi gli dispiaceva, di Anto¬ska. Era un uomo geniale. Sicuro, era un genio. Proprio uno spirito leonardesco, un genio assoluto. Bisognava andare a trovare sua madre. Dicono che da sfollati se la fossero passata piuttosto male. La madre di Anton abitava ancora là, nell'appartamento di una stanza al pianterreno, nel cortile centrale. Nella scala degli scarafaggi. Levka aveva sparato a un intendente degli eserciti alleati, era stato processato, aveva corso il pericolo di finire in galera, poi era stato accertato che l'intendente era un individuo losco, legato al servizio segreto tedesco, e così volevano dare una decorazione a Levka, poi però non gliela avevano data. Era evidentemente una fandonia. Ma Glebov allora credeva a ogni parola, era contento di aver incontrato ¬sulepa ed era disposto a spendere i suoi ultimi soldi per il kobler, ma non ce ne fu bisogno, pagò Levka. E Glebov aveva sempre più voglia di quella giacca di pelle. Poi gironzolarono attorno all'ufficio del telegrafo, importunando i passanti e cercando di abbordare le donne; un poliziotto li osservava con condiscendenza, e Levka se ne vantò: "Qui tutti sanno chi sono io! Vivono soltanto perché io li lascio vivere...". Fece lo sguardo severo e minacciò il poliziotto con il dito. Poi salirono a casa sua, al terzo piano. Bevvero ancora qualcosa. La madre di Levka, Alina Fëdorovna, era rimasta assolutamente identica a com'era prima della guerra. Una cosa straordinaria. Tutto intorno era cambiato. Levka era diventato robusto e calvo, la madre di Glebov era morta, Glebov stesso era stato sul punto di morire, la prima volta a Glazov con la polmonite, poi molte altre volte ancora, quando avevano bombardato l'aeroporto, e c'erano stati tanti morti e tanti dispersi. E invece la madre di Levka, con le sue magre guance abbronzate, fumava, faceva sempre quello sguardo strano, di traverso, a occhi socchiusi. "E tu, scusa la domanda imbarazzante, non ti sei ancora sposato, Vadim? Bravo, hai sempre avuto cervello. Non ti offendi se ti do del tu?" Anche la voce era quella di prima: rauca, indolente, con la erre appena arrotata. Del resto, pur essendo una donna non comune e di grande intelligenza (Levka diceva: "Io mi inchino davanti alla mamma, nel suo genere ha del talento, quanto poi al carattere è come Ivan il Terribile"), poteva anche risparmiarsi quel "tu". Glebov voleva comportarsi con dignità. Rispondeva brevemente, con un sorriso trattenuto, senza rivolgere lo sguardo né al tappeto, né ai quadri, né a tutte le altre cianfrusaglie, ficcate dappertutto. Come se non le notasse nemmeno. Poi, a uno sguardo più attento, notò che l'arredamento era notevolmente diverso da quello dell'appartamento al palazzone: lo sfarzo era maggiore, i pezzi d'antiquariato erano più numerosi, e c'erano molti oggetti in stile marinaro. Su una mensola c'erano modellini di velieri, alle pareti, incorniciati, una marina e una battaglia navale che pareva di Ajvazovskij (3) (risultò poi che era proprio di Ajvazovskij), e c'erano ancore dorate alle pareti. Disse: "Non so perché, non riconosco la sua vecchia mobilia, Alina Fëdorovna. E' come se tutto fosse diverso". Se in quel momento non fosse stato "su di giri", non avrebbe avuto una simile sfacciataggine, né quel tono impertinente. Ma era come se qualcosa lo spingesse di dentro: parla, su, parla! Insomma, durante la guerra la gente vendeva tutti i propri tesori per non soccombere (nonna Nila si era venduta i cucchiaini d'argento, il portabicchieri, un tappetino, degli scialli, tutto quello che poteva avere un valore

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sia pur piccolo, che si erano portati via da Mosca, persino la crocetta che aveva al collo, perché Glebov stava morendo, e un litro di latte costava sulla piazza all'incirca quanto un cucchiaino d'argento), qui invece avevano accumulato cose nuove, persino un Ajvazovskij. Uno scherzetto da niente: comprare un Ajvazovskij. Si avvicinò apposta alla parete e si mise a esaminare il quadro, incurvandosi, come un intenditore. Levka rideva: "Che spirito d'osservazione! No, mamma, tu dici: è ubriaco, è ubriaco no, è un osservatore". Alina Fëdorovna disse: "Gli antichi dicevano: nella stessa corrente non ci si può immergere due volte. E' così, mi sembra. O mi sbaglio, ragazzi? Tu, Dima, ti sei immerso nella nostra corrente (fece il gesto di abbracciare suo figlio) in quale anno, all'incirca? Quando ci eravamo trasferiti in quell'orribile casa, nel '30 e...". "Sì, non ha importanza. Una decina di anni fa, - disse Glebov. - Ma io me lo ricordo bene il vostro appartamento. Ricordo che nella stanza da pranzo c'era un enorme buffet di mogano: la parte superiore era sostenuta da sottili colonnine attorcigliate e sugli sportelli c'erano delle piccole maioliche ovali. Un pastorello, delle mucche. Vero?" "Avevamo un buffet così, - disse Alina Fëdorovna. - Io me l'ero dimenticato; invece tu te lo ricordi." "Bravo! - Levka dette a Glebov una manata sulla spalla. - Uno spirito di osservazione diabolico, una memoria di ferro. Puoi trovarti un lavoro. Ti raccomanderò io..." Quando rimasero soli nella sua stanza, gli spiegò che Alina Fëdorovna aveva un altro marito. ¬sulepnikov era morto. E quell'appartamento, con tutte quelle cagate che c'erano dentro, apparteneva a Flavickij (o Fivejskij), il nuovo marito di Alina Fëdorovna. Anche lui era un uomo importante. Si era occupato proprio del caso ¬sulepnikov: era morto in modo misterioso, lo avevano trovato morto in macchina nel garage chiuso. Forse era stato un attentato, lo avevano avvelenato con il gas, o forse semplicemente un attacco cardiaco. Il fatto è che lavorava giorno e notte. Fivejskij aveva indagato sul caso ed era stato così che aveva conosciuto la madre di Levka. Glebov stava quasi per chiedere perché non avevano trasferito da Fivejskij le cose che stavano nel vecchio appartamento. C'era qualcosa di poco chiaro. Nella vita di Levka c'erano molte cose poco chiare. Meglio non fare domande. Levka disse che il nuovo "papà" non era cattivo, veniva da una famiglia di marinai, gli piaceva bere e frequentare le ballerine. Una volta aveva invitato anche Levka, in una compagnia di attori. Era molto simpatico, benché un po' alla vecchia maniera. Fivejskij aveva sessant'anni, ma era terribilmente robusto. Glebov chiese: "E tua madre? Che cosa ne pensa delle scappatelle con le ballerine?". Levka si strinse nelle spalle: "Da dove lo può venire a sapere? E' cosa fra maschi". Glebov ascoltò, rimase sbalordito, si tranquillizzò: che andassero al diavolo, vivessero pure come volevano. Ma c'era qualcosa che lo seccava e lo esasperava, come una vecchia piaga che prude in maniera intollerabile. In seguito vide questo Fivejskij o Flavickij due o tre volte nell'appartamento di via Gorºkij e una volta allo stadio Dinamo. Era tifoso accanito di una certa squadra, nella quale aveva radunato, grazie alle sue relazioni, i migliori calciatori, togliendoli alle altre squadre. Levka una volta si accalorava per tutte queste cretinaggini. Il nuovo "papà" di Levka aveva una mole imponente, una voce che assordava, stringeva le mani come una pressa, aveva una testa calva e lucente, come una nocchia, baffi da cosacco, persino degli occhiali con la montatura dorata. Insomma, era un tipo! Il palazzone, così carico di significato nella vita precedente di Glebov (era peso, incanto, tormento, era una misteriosa forza magnetica che lo attirava irresistibilmente), adesso, dopo la fine della guerra, era caduto nell'ombra. Non c'era più nessuno da cui

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andare. A parte Sonja Gan¬cuk. Ma all'inizio vi andò non per Sonja (Sonja era rimasta a lungo un attributo dell'infanzia, che silenziosamente e quietamente si era offuscata nel suo animo, insieme a tutto il resto, che era diventato inutile ed era svanito nello spessore degli anni), andava da suo padre, dal professore. Il caso aveva voluto fargli incontrare di nuovo il professore e Glebov visse quella coincidenza tranquillamente, senza precipitazione. Lasciò passare mezzo anno di lezioni all'istituto, prima di decidersi a rivolgere la parola al professore: "Lo sa?, a quanto pare io e lei, Nikolaj Vasilºevi¬c, in un certo senso siamo vecchi conoscenti. Sono stato a casa sua". Il professore continuò a sfogliare le pagine di un libro, indifferente: "Che cosa dice?". E per quella volta la cosa finì lì. Non capì, o non volle capire. Glebov non rimase particolarmente turbato e decise di rinfrescargli la memoria con maggiore decisione. Sonja lo interessava poco, ma Gan¬cuk era un grand'uomo e, come Glebov aveva intuito, poteva essere straordinariamente prezioso per lui nei primi tempi. Un giorno, dopo le lezioni, colse il momento opportuno e lo pregò di trasmettere i suoi saluti a Sonja. "E lei come fa a conoscere Sone¬cka?" disse Gan¬cuk, meravigliato. "Gliel'ho già detto, Nikolaj Vasilºevi¬c..." Come? Che cosa? Ah, sì! Certo, si ricordava, di ragazzi a casa loro ce ne erano stati sempre tanti, si ricordava di lui. E i busti, quei piccoli busti bianchicci, quelli dei filosofi che erano nello studio? Ma come, persino i busti si ricordava! Il professore sorrideva contento. La vita si stava normalizzando. Per ora a piccole tessere, ma la gioia si rafforzava, si diffondeva. Tutti i busti erano al loro posto! Avevano superato la guerra, lo sfollamento, le avversità, la distruzione degli uomini e delle idee: per questo erano filosofi. Chissà perché Gan¬cuk ne era molto contento e si entusiasmò quando Glebov si ricordò dei busti. Era molto più contento di quando gli aveva parlato di Sonja. E subito volle invitarlo: "Un giorno o l'altro venga a prendere il tè, Sone¬cka sarà contenta...". Poi vennero subito i saluti di Sonja, e venne l'invito. Gan¬cuk era spesso malato, andavano a casa sua per consultarlo, e anche per farsi interrogare. Sonja era diventata una ragazza alta e pallida, magrolina, con le labbra piene ed esangui, e l'azzurro pallido dei grandi occhi che esprimevano bontà e premura. Studiava all'istituto di lingue straniere. "Vadºka, che cosa è successo? Come devo interpretarlo? - furono le sue prime parole, dopo quel distacco di sei anni. - Perché sei scomparso così a lungo?" Come se, separandosi, avessero promesso di rimanere amici per sempre. Tuttavia i loro rapporti, allora e adesso, erano irrimediabilmente camerateschi, piani come un muro. Sonja era soltanto un'appendice di quella cosa piena di sole, di facce, di colori, che si chiamava infanzia. E se non fosse sbucato fuori per caso il professor Gan¬cuk, certamente Sonja sarebbe svanita. Glebov era seduto nello studio del professore su un divanetto dalla spalliera di mogano dura e incurvata (a quel tempo divani di quel tipo li davano via come legna da ardere, dai robivecchi, ora provati a trovarne uno, a qualunque prezzo!), e godeva a far domande sui "compagni di strada", i formalisti, la Rapp, il Proletkulºt, su molte cose che allora interessavano a fondo Glebov. Il professore conosceva tantissime minuzie. Si ricordava con particolare vivezza ogni meandro, ogni peripezia delle battaglie letterarie degli anni venti-trenta. Parlava in modo netto, risoluto. "A questo punto noi assestammo un colpo... era recidivo, si dovette colpire forte... gli abbiamo dato battaglia..." Sì, erano state davvero battaglie, non discussioni. Le idee giuste si conquistano col sangue sulla camicia. Glebov ascoltava, pieno di rispetto,

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immaginandosi zuffe rumorose, miti che cadevano in briciole, libri gettati nel mare in tempesta, e quel vigoroso, grasso vecchietto dalle guance vermiglie gli appariva come un eroe, un paladino alla Eruslan Lazarevi¬c. Del resto era stato proprio così, in un certo senso. A Glebov piaceva molto prendere il tè nello studio, gli piacevano i ricordi, le confidenze. "A proposito, sa come lo abbiamo disarmato? Come studioso era una nullità completa, ma si reggeva con l'appoggio di un autorevole personaggio..." A Glebov piacevano l'odore dei tappeti, dei vecchi libri, il cerchio tracciato sul soffitto dall'enorme paralume della lampada sulla scrivania, le pareti corazzate di libri fino al soffitto e in cima, in fila come soldati, i piccoli busti di gesso. Dov'era Platone? E Aristotele? Dal basso non era possibile distinguerli, i soffitti in quella casa erano molto alti, non come quelli che costruiscono adesso, tre metri e mezzo, per lo meno. Ma a Glebov sembrava che quelle statuette bianche, non riconoscibili dal basso (un ornamento scolastico, acquistato in Germania al tempo dell'inflazione, quando il giovane Gan¬cuk, avido di sapere, ex soldato dell'armata a cavallo, poeta della sezione politica e oratore ai raduni militari, con rinnovato ardore ginnasiale si era dato anima e corpo alla scienza), che quei saggi-giocattolo avessero preso parte alle battaglie, assestato colpi, sconfitto, smascherato, ordinato la resa.

NOTE: (1) Ministerstvo inostrannych del: ministero degli affari esteri(n'd't'). (2) Lotta molto popolare in Russia, simile allo judo (n'd't'). (3) Ivan Ajvazovskij (1817-1900) pittore paesaggista russo,specializzato nel ritrarre paesaggi marini (n'd't').A poco a poco Glebov si insinuò di nuovo nell'atmosfera delpalazzone. Non c'erano più i portieri all'ingresso. E gli inquilini sembravano non essere più gli stessi: erano più alla buona, i discorsi non erano più quelli di prima. Negli ascensori persistevano gli odori straordinari di un tempo: sciasclìk (4), pesce, pomodoro, talvolta sigarette pregiate e cani. Ai cani Glebov si era disabituato, in tempo di guerra. I cani erano rimasti indietro, nell'infanzia, come i gelati con le cialde rotonde, il bagno nel fiume e tutte le altre sciocchezze. Nell'ascensore della scala di Gan¬cuk, per la prima volta dopo tanto tempo, rivide da vicino un cane e lo osservò attentamente. Era un mastodontico e ben pasciuto cane pastore, giallognolo a macchie nere, accucciato con modestia e dignità contro la parete posteriore della cabina, sotto lo specchio, e osservava Glebov con la stessa attenzione. Accanto al cane, tenuto al guinzaglio, c'era una vecchietta triste, con lo scialle. L'educazione e la modestia dell'enorme pastore colpirono Glebov, e, nello stesso tempo, in quegli opachi occhi color nocciola gli apparve un tranquillo senso di superiorità: lui era infatti un inquilino del palazzo e l'altro soltanto un ospite. Avrebbe voluto accarezzare quel cane. Un soprassalto, involontario, della memoria infantile. Allungò una mano, ma il cane allungò il muso ringhiando e scoprì i denti: "Non si può! Fermo! - si poteva leggere sul quel nero muso pieno di boria. - Che ti lascino entrare in questa casa e andare in ascensore, non significa ancora che tu qui sia dei nostri". Glebov uscì sul pianerottolo dell'ottavo piano di cattivo umore. "Nel vostro ascensore c'è puzzo di cane" disse a Sonja. C'erano momenti che aveva voglia di ferirla. Glebov viveva allora in mezzo a mille difficoltà, affamato allegramente, avidamente. Come molti. A pensarci bene, era vera miseria. Non c'erano stivali o camicie o cravatte di ricambio. C'era sempre la voglia di mangiare. Dappertutto, all'istituto, quando

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andava a far visita, indossava la vecchia giubba militare, non solo perché non aveva niente altro da mettersi (quello che aveva prima della guerra si era fatto piccolo e roba nuova non poteva comprarla), ma anche perché non si doveva dimenticare che lui era stato nell'esercito. L'ultimo anno era stato arruolato, aveva prestato servizio nel Bao (5), nei reparti del servizio aeroportuale. La casa, dopo la morte della madre, era diventata vuota e silenziosa. Il padre aveva preso a bere. Nonna Nila si trascinava con le sue ultime forze, tutta la casa era sulle sue spalle. Non si riusciva a capire come facesse a barcamenarsi, da dove prendesse tutte quelle energie. Una volta alla settimana nonna Nila prendeva la borsa e andava in tram al mercato Danilovskij per comprare verdura, funghi secchi, acetosa, rose canine. Quanto tè di rosa canina si beveva! Ora, Glebov non avrebbe potuto berne neppure per tutto l'oro del mondo. Ma a quel tempo nonna Nila cercava di fargli trangugiare anche dopo le sbornie quel fresco teuccio che faceva bene: "Bevi, Dimo¬cka, è rosa canina, ti fa bene...". Macché bene! O forse sì, faceva bene, come faceva bene quell'esistenza in fondo al vicolo Derjuginskij, nel buio fitto, in quella lunga stanza simile a una cripta, perché tiravano avanti, riuscivano a sopravvivere. Nonna Nila ingobbiva sempre più, camminava sempre più piano, si piegava sempre di più. Il padre, quando doveva fare gli straordinari, scompariva. Quella era la causa dei suoi mali. Ma non ci si faceva caso. Gli amici, la calca, la corsa, la fretta, al sabato ultimi spiccioli in un ristorante di quart'ordine o in un bar sulla Serpuchovskaja... Quando andava dai Gan¬cuk, Glebov faceva il viso severo, da accademico. All'inizio tutto avveniva come a tastoni. Sonja faceva azione di disturbo. Voleva portarlo via al padre per coinvolgerlo nelle sue chiacchiere, nelle sue amiche, nelle sue mille sciocchezze. Ed egli ne aveva una tacita paura. E' mai possibile, pensava, povera Sonºka, che abbia in mente qualcosa? Eppure Glebov non vagheggiava altre carezze se non quelle che gli venivano dal professore, nel quadro del suo programma di studio. Per di più s'era messo in mente molto presto l'idea di essere un tipo pericoloso e attraente per il cuore femminile. Era cominciato con quella signora quarantenne, durante lo sfollamento. All'inizio gli era sembrato di esserle necessario non più a lungo di quanto lei lo fosse per lui. Ma poi si erano scatenate passioni, minacce idiote. Dio, come si era spaventato! E aveva capito che doveva stare in guardia. Scherzi di quel genere potevano finire male. Egli sentiva in sé, non senza soddisfazione, delle riserve di radioattività di cui erano vittime le donne, non tutte però, solo quelle di un certo tipo. La sua azione era specialmente deleteria sulle donne che svolgevano un lavoro intellettuale e su quelle più anziane di lui. E, tra le giovani, quelle serie, non molto belle, spesso con gli occhiali, le prime della classe, soccombevano facilmente al suo fascino. Ecco perché gli venne una certa trepidazione, quando si accorse di un certo brillio negli occhi buoni, azzurro chiari, di Sonja, di un certo debole sorriso sulle sue labbra piene e pallide. A Sonja piaceva invitare gente. Andavano a trovarla le sue amiche dell'istituto di lingue straniere, splendide ragazze dai vestiti lucenti, garrule, allegre, moderne; alcune lo ferirono subito e dolorosamente. Ma lui si teneva sulle sue, perché sapeva che su quel tipo di donne le sue radiazioni non avevano effetto. Quando Glebov diventò segretario del seminario, prese a frequentare la casa dei Gan¬cuk quasi tutte le settimane. Il professore era puntiglioso, smemorato e, a dire la verità, un po' sconclusionato. Talvolta venivano fuori delle questioni spiacevoli. In pigiama, sulla porta, a occhi spalancati: "Ma caro, io l'avevo invitato per lunedì!". "No, Nikolaj Vasilºevi¬c, per sabato..." "Come potevo dirle sabato, quando..." "Ma io me lo ricordo con assoluta certezza!" Tutto questo avveniva sulle scale, Glebov si innervosiva, si sentiva in una

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situazione sciocca, ma a un tratto rapida come un nibbio, accorreva a volo Sonja: "Papà, non ti vergogni di tenere una persona sulla porta! Hai perduto il cervello!". In verità, Gan¬cuk era sempre contento dell'arrivo di Glebov e subito trovava qualcosa da fargli fare. Diventò particolarmente bendisposto nei riguardi di Glebov dopo che Glebov gli portò la bibliografia riguardante un argomento importante per un suo lavoro, con una straordinaria prontezza. Gan¬cuk ne era rimasto colpito, ma Glebov non gli aveva detto che lavorava di notte. Non era affatto obbligato a sfiancarsi in quel modo, e in genere non era obbligato affatto a compilare quella bibliografia, ma, come risultò poi, questo gesto gli fu genialmente utile. Una sera ci fu una festicciola da Sonja. C'erano ragazze bene, giovanotti di vario calibro, accorsi, come si usava allora, a bere e mangiare, dal professore, non si sa da dove. Qualcuna delle ragazze aveva portato dei conoscenti e questi avevano portato i loro amici. La sala del professore consentiva di ospitare un sacco di gente. Camere di questo tipo adesso non esistono neanche nella memoria. Forse solo in case di cooperative, su progetto personale. C'erano dei musicisti, un giocatore di scacchi, c'era un poeta che nelle serate studentesche declamava versi assordanti come barattoli di latta (a quel tempo, chissà perché, sembravano musica), c'erano, si capisce, intellettuali vari, scialbi o vistosi, timidi o sfacciati. Il poeta imperversava come una tempesta di neve. Nessuno sapeva chi fosse, tranne una persona che conosceva di vista una delle ragazze e che per la prima volta compariva in casa di Sonja. Appena entrato, senza salutare, il poeta aveva chiesto a voce alta, imitando i suoi modelli poetici: "Dov'è qui il luogo di decenza?". Si erano sentiti bisbigli di entusiasmo: "E' un poeta... Una forza d'urto... Non rispetta le convenzioni...". I versi che egli fece poi crepitare per tutta la sera non furono dimenticati e certo per merito del luogo di decenza. Adesso, a trent'anni di distanza, il poeta continua a rumoreggiare come latta, ma nessuno prende più i suoi versi per musica. Latta, pura latta, nient'altro. Uno degli intellettuali, tempestando i tasti del pianoforte, se ne uscì con un grido isterico, penetrante: Un moro di Venezia un certo Otelloandava in un casino un dì. Risuonò un coro gioioso: Lo vide Shakespeare disse: ma che bello!e poi ci scrisse su un vaudeville... A quel tempo cretinerie simili piacevano alla follia. Urlarono fino a diventare rauchi, fino alle lacrime. "E la sua donna, la bianca Desdemona,@ quando Otello andava a combattere,@ sedotta dalle offerte, anche se anonime@ per denaro si faceva sbattere.@" Ma che cosa c'era in quelle scemenze di così incendiario? per quale motivo il cuore vibrava, e aveva voglia di godere, di trasmettere la propria gioia agli altri? Del resto, ai conviti dei Gan¬cuk, attorno alla pallida e taciturna Sonja dal sorriso buono, echeggiava anche qualcosa di diverso. Veniva Nikolaj Vasilºevi¬c, beveva insieme ai giovani il suo bicchierino di vodka con la buccia di limone, si metteva a sedere anche Julija Michajlovna, la madre di Sonja, e, al cenno di una forchetta impugnata dal vecchio, intonavano insieme Per le valli e le colline avanzava la divisione oppure Laggiù, oltre il fiume. Sonja poteva stare delle ore seduta in silenzio ad ascoltare gli altri con la bocca semiaperta (per via di alcuni polipi che non erano stati tolti). Una volta a Glebov venne in mente che lei poteva essere un'ottima moglie, la più straordinaria moglie del mondo. Aveva un mucchio di qualità superlative. Anche quella di tacere con la bocca semiaperta. Ci pensava con aria distratta, senza che la cosa lo riguardasse direttamente. Qualcosa come: "Sonja potrebbe essere un'ottima moglie per Levka!". Sì, un tempo rimuginava quest'idea, supponendo che Sonja potesse realmente esercitare una benigna influenza su quel balordo di Levka, che a sua volta avrebbe

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neutralizzato e calmato un po' l'azzurro brillio degli occhi di Sonja, che tanto inquietava Glebov. Lui no, non poteva assolutamente contraccambiare! Non gli era mai venuta voglia di abbracciare Sonja in un angolo buio, come era successo con altre ragazze, persino con certe ospiti di Sonja, con la sua amichetta dell'istituto di lingue straniere, ad esempio, quella con gli occhi neri, pienotta. Come si chiamava? Il nome lo aveva dimenticato, ma nella memoria era rimasta impressa la sensazione di quelle spalle piene, l'attimo di quella dolcezza furtiva, nel buio del guardaroba, tra le morbide pellicce... Era fatto così: di alcune aveva timore, e si irrigidiva in un tono affettato, con altre invece, quasi all'improvviso, senza motivo, diventava insolente, si lasciava andare, diventava irriconoscibile. Quanto alla ragazza pienotta, si accorse subito che era di qualche vicolo Derjuginskij anche lei. Sonja invece era chiusa ermeticamente. Con lei non c'era bisogno né di contenersi, né di lasciarsi andare. Non si turbava mai. Più tardi sarebbe venuto il momento in cui Glebov avrebbe voluto che Sonja si turbasse. E più tardi, finalmente, Sonja cominciò a turbarsi, ma, prima di arrivarci, passarono due anni. Alla serata con il poeta (quello era appena il principio) ci fu un po' troppo vino, la gente era ubriaca, i padroni di casa si spaventarono. Gli uomini erano andati sulle scale a fumare. C'era un giovanotto il cui nome, naturalmente era svanito, e che non sarebbe più comparso in scena: un giuggiolone arruffato e dinoccolato, con occhiali e cravatta, un tipo molto robusto. Sembrava un sollevatore di pesi. In mezzo al gruppo dei fumatori sul pianerottolo, domandò, con un fil di voce: "Ragazzi, una cosa non afferro, ma chi è che fila con la padrona di casa? Sì, con quella Sonja?". Nel gergo di allora "filare con la padrona di casa" significava all'incirca quello che oggi significa "farsi la padrona di casa". Voleva semplicemente sapere se il posto era libero. Il tono era volgare e fuor di luogo, tutti ne erano infastiditi. Si strinsero nelle spalle. A un tratto uno degli intellettuali indicò Glebov con un cenno di capo. "Il compagno Dima, probabilmente..." "Io? - si meravigliò Glebov. - La cosa mi giunge nuova." Era seccante: si erano accorti di una cosa che lui stesso non sospettava, di cui non si rendeva conto. Forse qualcosa c'era, nonostante tutto? Chissà perché raccontò che aveva fatta la scuola insieme a Sonja. Il giovanotto di prima disse: "E allora, sotto, ragazzi! E' un harem. Ce n'è per tutti... - ammiccò alla porta aperta dell'appartamento. - Vi do io il permesso. Non è niente male, la piccola... un po' alla Turgenev...". "Sta' zitto, cretino", disse qualcuno. Il giovanotto si offese, gettò il mozzicone e rientrò in casa. Non era piaciuto a nessuno. "Chi l'ha fatto venire quel fesso?" "Che diavolo ne so. Deve essere di lettere..." "Gli diamo una lezione?" Tutti d'accordo. Qualcuno andò dentro per richiamarlo sul pianerottolo. Dopo un po' tornò dicendo che il giovanotto aveva mangiato la foglia e si era rifiutato di uscire. Bene, la lezione era solo rimandata. Non poteva scappare. Il giocatore di scacchi era particolarmente ringalluzzito. Tutti erano molto "su di giri". Glebov, invece, di colpo era tornato lucido: l'ubriacatura gli era stranamente scomparsa. L'aveva risvegliato la frase idiota di quel ragazzo. "Certo, non è lui lo scemo, - pensava Glebov. - Siamo noi gli scemi!" E gli venne una gran voglia di dargli una lezione, o per lo meno di spedirlo il più lontano possibile. "Ah, ce n'è per tutti, eh?... Beh, comincia a prendere questi..." Glebov irruppe nella sala con passo rabbioso. Di dargliele all'occhialuto non gli riuscì per uno stupido motivo: da lì a mezz'ora, l'occhialuto era ubriaco fradicio. A mezzanotte e

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mezza gli ospiti si accomiatarono, contando di fare in tempo a prendere la metropolitana. Se ne andarono tutti, ma quello con gli occhiali non fu possibile non solo metterlo in piedi, ma persino spostarlo dal divano dove era crollato in maniera ributtante, mettendo in mostra le toppe dei suoi miseri calzoni da studente, la maglia tirata su e, nello spazio tra la maglia e la cinghia dei pantaloni, la grigia nudità del ventre con l'ombelico. Aveva le mani dietro la testa, la testa penzolava dal bordo del divano, e russava orrendamente. L'uomo che lo aveva portato se n'era già andato con la sua ragazza, un'amica di Sonja. Nessuno sapeva neppure come si chiamava. I Gan¬cuk erano confusi. La domestica Vasena consigliava di chiamare la polizia. Julija Michajlovna, con la sua germanica praticità che in trent'anni non si era affievolita, propose di mettere accanto al dormiente un bicchiere d'acqua e bicarbonato e una pasticca di piramidone. Vasena sbuffava fra sé e sé: "A che gli serve il tuo piramidone... Appena comincerà a frugare, andrà a sbattere al buio contro l'armadio...". Il vecchio Nikolaj Vasilºevi¬c tentava con il sistema già usato dagli ussari: gli strofinava le orecchie. Ma Sonja prese le difese di quel citrullo ubriaco e dette ordine di non disturbarlo. "Ma non vi fa pena? Guardate che bel faccino, che simpatica mascella da bulldog..." Glebov fece una proposta, con fermezza: sarebbe rimasto anche lui, a ogni buon conto. In salotto, sulla branda. E che quello continuasse a dormire sul divano, gli togliessero soltanto gli stivali. E così Glebov passò la notte in casa di Sonja, e a lungo rimase sveglio, pensando a Sonja in modo del tutto diverso. In poche parole, non riusciva a prendere sonno e continuava a pensare. Si assopiva, aveva dei brevi sogni confusi, si svegliava e tornava a pensare. Non successe niente. Sonja dormiva nella sua stanza con la porta ben chiusa, l'ubriaco non si mosse, e tuttavia quella notte Glebov fu colpito da qualcosa: la mattina si alzò che era un altro uomo. Capì che poteva innamorarsi di Sonja. Questo sentimento non era ancora comparso, ma era per strada, si avvicinava, come l'aria tiepida che giungeva a ondate dal sud. Il tempo non era ancora cambiato, ma gli uomini, con i loro vasi sanguigni ammalati, ne sentivano l'arrivo. All'alba, verso le sei, il citrullo si voltò, scivolò dal divano e, come aveva previsto Vasena, cominciò a gironzolare per la stanza, con il singhiozzo e borbottando. Glebov lo trascinò in anticamera, gli cacciò in testa il berretto e cercò di mandarlo via. Quello non voleva arrendersi, cominciarono a litigare bisbigliando. "Dove mi stai spingendo, idiota? Non so dove andare, balordo che non sei altro..." "Ritornatene da dove sei venuto." "Da dove sono venuto? Puoi capire quello che ha scritto Dostoevskij Fëdor Michajlovi¬c?... Quando un uomo non sa dove andare..." A quel tempo c'erano certi studenti mezzo accattoni che conducevano quasi una vita da strada: li espellevano sempre, li allontanavano, ma loro vagavano da un amico all'altro, da una casa dello studente all'altra, passavano la notte nelle stazioni. Quello guardava con tristezza l'"harem" dal quale lo cacciavano. Glebov dovette discutere con lui per una mezz'ora, poi riuscì a mandarlo via, tornò in salotto e si sdraiò sulla branda. Un'ora dopo Sonja gli passò vicino in vestaglia. Glebov vide i suoi bianchi piedi dalle caviglie delicate. Sonja gettò un'occhiata alla stanza e chiese: "E quell'uomo?". "Gli ho dato il benservito." Glebov fece un movimento con il ginocchio, raffigurando un calcio al sedere. Si sentiva un eroe, un difensore dei deboli. Ma Sonja, inaspettatamente, si arrabbiò. "Chi ti ha chiesto di farlo? Non voleva andarsene?" "No. Ci siamo spinti per un'ora intera in anticamera..." "E lo hai cacciato? Che porcheria, Dimka, dovresti vergognarti!

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Cacciare via un affamato. Forse non sa dove andare..." "Certo che non sa dove andare, è una canaglia." "Io non conosco nessuna canaglia." "Io sì. Ci vivo in mezzo. Il vicolo Derjuginskij è pieno di canaglie." Ma Sonja scuoteva la testa e lo guardava con uno strano sguardo nuovo, incredulo. Se ne tornò in camera sua, scontenta. Glebov non sapeva che fare. Andarsene, forse? La scontentezza di Sonja lo aveva sorpreso. Poi, conoscendola meglio, capì che il tratto principale del suo carattere era una morbosa e indiscriminata compassione per gli altri. Per tutti indistintamente. A volte era noioso e persino doloroso, poi ci si abituò e non vi fece più caso. La sua prima reazione in ogni scontro con la vita, con la gente, era di compassione. Glebov arrivò anche a prenderla in giro: "Mi dispiace tanto per lui, povero delinquente, ha ammazzato solo tre persone alla fermata del tram... Immagina quanto soffre...". Sonja stessa vedeva l'assurdità del suo carattere e ne soffriva. Quando si misero a colazione in due al tavolino rotondo, in cucina, vicino alla finestra, Sonja era confusa e si giustificò per il tono sgarbato della mattina: "Se almeno gli avessi offerto del tè...". "Non fa niente, - disse Glebov. - Anche così starà bene." Glebov guardava là in basso la gigantesca arcata del ponte sul quale correvano le macchine e passava il tram, la riva opposta con il muro, i palazzi, gli abeti, le cupole; tutto era molto pittoresco e aveva un aspetto particolarmente fresco e chiaro da quella altezza. E Glebov pensava che nella sua vita stava evidentemente cominciando qualcosa di nuovo... Vedere ogni giorno, dopo colazione, quei palazzi dall'alto, come in volo d'uccello! E aver compassione per tutti gli uomini, tutti, nessuno escluso, che corrono come formiche lungo l'arco di cemento laggiù in basso! Era la continuazione dei pensieri mezzo chiari mezzo vaneggianti che aveva avuto nella nottata. Disse: "Sai una cosa? Faresti meglio a compatire me". "Ma io già ti compatisco, - Sonja gli guardò le gote. - Sei una specie di anima in pena..." E Glebov cominciò a frequentare i Gan¬cuk quasi tutti i giorni. Ora andava a trovare il professore, ora Sonja. Da principio il professore gli diceva "mio caro" e "Vadim Aleksandrovi¬c", poi cominciò a chiamarlo Dima. Lo invitava alle sue passeggiate serali. Quando si metteva il berretto di astrakan, i bianchi stivali di feltro foderati di pelle color cioccolata e la pelliccia a lunghe falde con l'interno di volpe, sembrava un mercante delle commedie di Ostrovskij. Un mercante, però, che passeggiava tranquillamente, a piccoli passi misurati, sul lungofiume, nella sera deserto, parlando della campagna di Polonia, della differenza tra il colpo alla cosacca e quello da ufficiale, della lotta inesorabile contro la mentalità piccolo-borghese e gli elementi anarcoidi, e che dava anche giudizi sulle confusioni teoriche di Luna¬carskij, sugli errori di Pokrovskij, sulle indecisioni di Gorºkij, sugli sbagli di Aleksej Tolstoj: Nikolaj Vasilºevi¬c li aveva conosciuti tutti, aveva bevuto il tè con loro, era stato nelle loro dacie. E di tutti, anche dei più famosi, come Gorºkij, parlava magari con deferenza, ma anche con una certa sfumatura di superiorità, da uomo che aveva raggiunto un gradino in più di conoscenza. "Se Aleksej Maksimovi¬c avesse capito fino in fondo...", diceva. Oppure: "Come avevo spiegato ad Aleksej Nikolaevi¬c...". Glebov ascoltava Gan¬cuk con grande attenzione. Era tutto interessante e valido. A volte Nikolaj Vasilºevi¬c faceva delle dichiarazioni sensazionali che lasciavano Glebov stupefatto. Raccontando, ad esempio, della sua dacia di Bruskovo e delle difficoltà relative (il soviet locale ritardava esageratamente ad asfaltare la strada), concluse inaspettatamente: "Tra cinque anni

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tutti i sovietici saranno proprietari di una dacia". Glebov si meravigliò, ma non fece obiezioni. Certe sere il freddo era tremendo, venticinque sotto zero, e la gente saggia preferiva starsene a casa, ma alle nove Nikolaj Vasilºevi¬c si imbacuccava lo stesso nella sua sciarpa, si calcava il berretto fin sugli occhi, si metteva addosso la sua pelliccia da mercante e domandava con tono esigente: "Viene con me?". Che voglia andare fuori, al gelo! Attraversare i cortili e correre a casa, nel vicolo, era un conto, passeggiare sul lungofiume gelato un altro... Glebov rispondeva con lo zelo del condannato: "Certamente! Sono pronto". Tremava e si rannicchiava nel suo cappottuccio da studente, rifatto da un vecchio cappotto del padre, e si sforzava di non correre, di misurare il suo passo su quello del vecchio, che era contento di gracchiare e di sbuffare nella sua pelliccia ovattata. "Ma guarda che egoista! - pensava a volte Glebov irritato. - Non gli viene mai in mente che..." C'era poi un altro pensiero che lo tormentava: lo faceva forse uscire a bella posta, per non lasciarlo solo con Sonja? Vasena, d'altra parte, faceva altre congetture. L'astuta vecchia a cui non sfuggiva niente gli chiese una volta con interesse: "Perché ti trascina fuori? Per me, ti prende per una specie di guardia del corpo...". "Sono io che faccio la guardia a lui o lui che la fa a me?", domandò Glebov. Vasena sussurrò: "Non lo so, so solo che c'è della gente che non ama quelli in pelliccia...". A volte usciva a passeggiare anche Sonja, e si univa a loro Kuno Ivanovi¬c, detto Kunik, un amico intimo di Gan¬cuk, suo assistente all'accademia. Questo Kunik viveva dai Gan¬cuk quasi come un parente. Glebov aveva notato che Nikolaj Vasilºevi¬c non portava con sé Sonja molto volentieri; quanto a Kuno Ivanovi¬c, se si accodava, non lo degnava della minima attenzione. La spiegazione era semplice: Nikolaj Vasilºevi¬c soltanto in presenza di Glebov si infervorava, diventava eloquente, raccontando e ricordando senza soste; quando invece aveva accanto Sonja si annoiava e si chiudeva in se stesso. Sonja era capace di dire, con severità: "Papà, sta' zitto! Non devi parlare quando è freddo". Oppure: "Papà, ti stai ripetendo". Julija Michajlovna invece non amava le strade, le automobili, il vento, il gelo. Aveva la stenocardia. Stava spesso male, non andava alle lezioni (insegnava tedesco nello stesso istituto in cui studiava Glebov e del quale Nikolaj Vasilºevi¬c era preside). Sebbene vivesse in Russia da molti anni, Julija Michajlovna era rimasta, in un certo modo, rigidamente e rudemente tedesca, e parlava russo con un notevole accento. Suo padre era morto durante la rivolta di Amburgo. Julija Michajlovna conservava dei legami con alcuni vecchi antinazisti tedeschi e austriaci scampati alle avversità, che di tanto in tanto comparivano a casa Gan¬cuk. Kuno Ivanovi¬c veniva di qui. Sua madre, morta ancora prima della guerra, era stata una vecchia amica di Julija Michajlovna, avevano frequentato insieme l'università di Vienna, e da molto tempo i Gan¬cuk facevano da tutori a Kunik, che avevano conosciuto bambino. Kunik, Kunik, Kunik, Kunik, Kunik! Una specie di nomignolo per cani. Per un cagnolino da salotto, capriccioso e con gli occhietti intelligenti. "Bisogna dare da mangiare a Kunik!", diceva Sonja. "Chiedetelo a Kunik... Telefonate a Kunik... Bisogna chiedere a Kunik di andare a prendere i biglietti, ma con molta delicatezza..." Era magro, un po' curvo, piegava leggermente la testa da un lato, verso il basso, come se tendesse costantemente l'orecchio verso qualcosa, sebbene non tendesse mai l'orecchio a niente, anzi spesso non stava nemmeno a sentire quando si rivolgevano a lui. Scuoteva di continuo la sua testolina sghemba (che avesse un tic?), scrollando indietro i suoi lunghi capelli tedeschi, di un rosso sbiadito. All'inizio Glebov pensava che avesse la scrofola. Kunik non piaceva a Glebov. Era un tipo molto taciturno, poco

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affabile, malaticcio e scaltro. Viveva solo. I Gan¬cuk erano sempre in apprensione per lui: starà male? avrà bisogno di qualcosa? Chissà per quale motivo pensavano che avesse sempre bisogno di aiuto e che fosse un infelice. Del resto era scritto sul suo mesto visino rinsecchito, dalla bocca invariabilmente serrata: "Io sono un infelice!". Ma in che cosa consisteva, propriamente, la sua infelicità? Una volta, dopo cena, Glebov avviò con cautela una conversazione su un articolo di Kunik pubblicato in una rivista. Da tempo aveva sentito dire che l'articolo era in preparazione, che la redazione pretendeva delle correzioni, che Kunik era irremovibile, dava prova di essere un uomo di principio, che nella lotta con la redazione erano state coinvolte le supreme istanze e che alla fine Kunik l'aveva spuntata. Se ne parlava come di un grosso avvenimento nel mondo scientifico. Attorno all'avvenimento si dava particolarmente da fare Julija Michajlovna. Dopo averlo letto attentamente, Glebov si accorse che l'articoletto era assolutamente mediocre e non c'era proprio nulla di notevole, a parte il fatto (evidente da tracce impercettibili) che l'autore non era di origine russa. Una specie di generale soffocamento, una mancanza di ricchezza lessicale. Proprio di questo argomento cominciò a parlare dopo cena: del fatto che, purtroppo, i lavori storico-letterari erano spesso scritti in una lingua lontana dalla letteratura. Nikolaj Vasilºevi¬c era d'accordo, si dissero cose di ogni genere, poi, indugiando e con molta delicatezza, Glebov portò qualche esempio tratto dall'articolo di Kunik. Erano davvero degli esempi lampanti di incomprensione dello stile e dello spirito di una lingua. Nikolaj Vasilºevi¬c rise, Sonja abbozzò un sorriso, ma Julija Michajlovna fece notare seccamente che "una critica così maligna bisognava farla in faccia". Glebov spiegò che non c'era niente di maligno nelle sue osservazioni, ma Julija Michajlovna obiettò: "Non è vero, Dima, non faccia il furbo. Insomma, non ha ancora detto che cosa pensa dell'articolo di Kuno Ivanovi¬c nel suo complesso". Glebov si strinse nelle spalle e borbottò: "Che cosa ne penso? Onestamente... Non che ne sia entusiasta, ma neppure...". "Ah! Vuol dire che ho ragione io! - Julija Michajlovna alzò il dito con alterigia e bellicosità. - E mi permetta di chiederle..." Ma Sonja interruppe la madre: perché Glebov non aveva diritto a una propria opinione, diversa da quella della famiglia Gan¬cuk? Perché scagliarsi subito all'attacco? Nikolaj Vasilºevi¬c fece notare che l'opinione della famiglia Gan¬cuk non era affatto uniforme. E Julija Michajlovna disse che scagliarsi all'attacco era privilegio di Nikolaj Vasilºevi¬c, ex ufficiale di cavalleria, che lei invece non amava brandire la sciabola. "Però lo fai anche tu, - disse Sonja. - E a volte in modo molto violento." A Glebov dispiacque di aver iniziato quella discussione. Quella fragile e cagionevole Julija Michajlovna, dall'aspetto straordinariamente debole, bisognava dire che era oltremodo testarda. Poteva discutere e incaponirsi sulle sue idee bis zum Schluss, fino all'attacco cardiaco. Cominciò a dire che ogni critica doveva essere prima di tutto obiettiva, prima si doveva dare un giudizio di insieme e poi andare a spulciare gli errori. Kunik aveva scritto un magnifico articolo. Inutile cercare il pelo nell'uovo. Aveva affrontato l'argomento fondamentale: i pericoli della mentalità piccolo-borghese. Proprio allora, dopo la vittoria, dopo l'enorme tensione della guerra, quando la gente aveva voglia di rilassarsi e di tirare un sospiro di sollievo, potevano riaccendersi le emozioni piccolo-borghesi, prima frenate dalla coscienza. Non si poteva sottovalutare quel pericolo. Niente di tutto questo aveva trovato Glebov nell'articolo di Kunik. Si fece coraggio e obiettò timidamente: "Scusi, Julija Michajlovna,

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ma, se ho fatto un paio di osservazioni di carattere linguistico, questo ancora non vuol dire che io sottovaluti il pericolo piccolo-borghese". "Proprio così! - disse Nikolaj Vasilºevi¬c e batté il pugno sul tavolo. Egli cercava sempre di ridurre un po' tutto in scherzo. - Una cosa non deriva dall'altra, diamine!" "No, lei sottovaluta il pericolo piccolo-borghese", disse Julija Michajlovna, che non aveva voglia di scherzare. "E da che cosa lo vede, Julija Michajlovna?" "Vuole che glielo dica, vuole che sia sincera? Da tempo io la osservo, Dima..." E a questo punto disse una sciocchezza talmente impensabile e sbalorditiva che Glebov ammutolì dallo stupore. Risultò che Glebov osservava sempre con particolarissima attenzione il loro appartamento, della cucina in particolare lo interessavano il frigorifero sotto la finestra e la porta del montacarichi. Una volta le aveva fatto domande dettagliatissime sulla loro dacia di Bruskovo, quante camere aveva, se c'era l'acqua, quanti erano gli ettari di terreno, come se stesse per comprarla... "Mamma! Ma che stai dicendo?" esclamò Sonja spaventata. "Io dico quello che osservo nella gioventù di oggi, - disse la caparbia malata di cuore che già cominciava a sentirsi soffocare dalla sua stessa intransigenza. - E questo riguarda non soltanto Dima. Per Dima ho simpatia e non voglio affatto offenderlo. Tu non temere, resteremo ottimi amici. Ma io lo vedo in molti giovani: una passione per le cose materiali, per le comodità e la proprietà, per quello che i tedeschi chiamano das Gut, per il benessere... Perché? Perché ce l'ha con questo appartamento? - Alzò le spalle e osservò la stanza con sdegno, quasi con ripugnanza. - Lei pensa che nella sua stanzetta, nella sua piccola casa di legno, non possa lavorare? che non possa essere felice?" "Perché non ti trasferisci tu nella piccola casa di legno?" disse Sonja. "Perché dovrei? Per me è assolutamente indifferente, dove abito, in un grande palazzo o in un'isba di legno, basta che io viva secondo il mio ordine interno..." Julija Michajlovna aveva ragione, i suoi rapporti con Glebov non peggiorarono dopo quelle strane accuse. Glebov decise di non offendersi. Aveva indovinato di cosa si trattava: la madre di Sonja nutriva una particolare simpatia per Kunik e forse vedeva in lui un genero ideale, ma Sonja era a questo proposito di tutt'altro avviso. Senza saperlo, Glebov aveva toccato un punto debole. Sentiva, non senza una recondita soddisfazione, che l'irritazione di Julija Michajlovna, le sue punzecchiatine e i suoi attacchi rivelavano soltanto che lui aveva la meglio. Più enigmatiche si presentavano le accuse ai suoi peccati piccolo-borghesi. Glebov non si era mai sentito neppure per un attimo colpevole di questo. Piuttosto, parlava sul serio? Non era per caso uno scherzo ben orchestrato? Non a caso lo stesso Gan¬cuk si era chiuso nel silenzio e sogghignava. E che dire dell'ascensore, lucidato a mogano, con lo specchio ad altezza d'uomo? Ogni giorno Julija Michajlovna non saliva certo a piedi all'ottavo piano, ma andava su e giù con quell'ascensore, si guardava allo specchio e respirava l'odore delle sigarette costose, dei cani costosi e di tutte le altre cose costose. In basso, all'ingresso, non passeggiavano più, è vero, i vispi portieri in divisa, tuttavia sulla sedia rotta c'era una vecchietta con i valenki (6) e a tutti quelli che entravano domandava con una voce statica, viscerale: "Da chi va?". A Bruskovo avevano una casa mal ridotta, quasi fatiscente, con il terrazzino d'ingresso marcito, il primo piano da finire, le finestre chiuse con del compensato, e tuttavia quella casa, con il suo bel terreno intorno (quasi mezzo ettaro), la palizzata, i pini, la vite selvatica attorno alla veranda, l'orticello, era proprio quell'odiata proprietà, quello

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stesso das Gut, dal quale, come la cipolla dell'aiuola, spuntava l'albero dell'odio. In primavera, quando cominciava la bella stagione, la famiglia Gan¬cuk si recava a Bruskovo per il cosiddetto fine settimana in dacia: tutti lavoravano nel giardino, in casa, nell'orto. Ma come lavoravano? Julija Michajlovna, a causa del suo cagionevole stato di salute, si aggirava qua e là, impotente, e infastidiva gli altri con direttive sconclusionate, Sonja era indolente e incapace, Nikolaj Vasilºevi¬c si rintanava nel suo studio e sprofondava nei suoi vecchi libri e nelle carte. Tutto il lavoro lo tirava avanti la vecchia Vasena, con l'aiuto dell'autista Anikeev, che portava la Pobeda di Gan¬cuk a giorni alterni. Questo Anikeev, uomo attempato e cupo, prima della guerra era stato un piccolo dirigente, poi era caduto in disgrazia. Faceva tutto con lentezza, guidava senza fretta, si sottraeva abilmente ai lavori pesanti, sceglieva quelli più leggeri e si gingillava per delle ore: poteva stare mezza giornata a mettere un paralume o a inchiodare una tavola della palizzata. Una volta che Glebov stava trasportando con una carriola i rifiuti in fondo al cortile (aveva offerto con gioia il suo aiuto a Nikolaj Vasilºevi¬c, curiosissimo di vedere la famosa dacia), Anikeev gli bisbigliò: "Lascialo fare alla vecchia! O sei pagato anche per fare lo spazzino?". Lo aveva preso per un salariato... Venne l'estate, vennero i distacchi, il Kuban, il lavoro in remoti villaggi ai piedi dei monti e la nostalgia - inaspettata - per Sonja. Allora capì che era qualcosa di serio. Per l'anno nuovo, con l'inverno mite, gli studenti andarono in gruppo a Bruskovo, riscaldarono la dacia, prepararono un abete in giardino, con i lampioncini elettrici. Fu una cosa magnifica... Comparve allora per la prima volta, nella loro compagnia, Levka ¬sulepnikov, che era entrato in istituto l'anno prima, ma viveva per conto suo, non si sa dove. "Io sono come il gatto di Kipling, - diceva, - passeggio da solo." A Bruskovo si era portato dietro una ragazza molto carina di nome Stella. Era una ballerina del Berëska, la compagnia apparsa da poco e già di moda a Mosca. Ci fu una lunghissima discussione. Strillarono e sbraitarono, per poco non ci scappò una rissa. Tutto era cominciato da Astrug, un professore di linguistica che erano riusciti a cacciar via a furia di far fracasso, ma quella disputa era scoppiata per una battuta: di che colore erano le mutande di Astrug? Naturalmente, c'era sotto ben altro. Qualcosa di diverso, di completamente diverso, che non riguardava il povero Astrug. Tra l'altro, Astrug era della cerchia di Gan¬cuk. Ma quel giorno la cosa non aveva nessuna importanza. Si era accumulata, evidentemente, una rabbia esplosiva, soffocata, nascosta a ogni sguardo: e all'improvviso scoppiò. Levka ¬sulepnikov era come sempre il principale provocatore, ma nella sua incoscienza non se n'era accorto. E poi, certamente, avevano bevuto molta vodka a stomaco vuoto. Il solito disordine studentesco. Quello che svuotava lo stomaco, spossava, eccitava i nervi prima di ogni sessione d'esame, accumulava rabbie esplosive dentro, nel profondo... C'era un certo ¬ceremisin, un tipo antipatico, che non era amico di Glebov, ma era lì insieme a tutti gli altri, perché quella era una banda eterogenea: chi metteva qualcosa nella cassa comune era il benvenuto. Erano una ventina. La dacia era grande, e sul terreno intorno alla dacia si poteva passeggiare in cento. E invece si ritrovarono tutti uno addosso all'altro e scoppiò la rissa. Questo ¬ceremisin, quando si cominciò a parlare di Astrug, raccontò una storia. Astrug l'aveva interrogato a un esame: "Che cosa significa morfema?". ¬ceremisin non lo sapeva. Astrug aveva detto: "Come può pensare di conoscere una lingua se non sa che cosa significa morfema?". E ¬ceremisin, di rimando: "E che cosa vuol dire salazgàn?". Astrug, naturalmente, si era stretto nelle spalle. E ¬ceremisin, implacabile: "E che cosa vuol dire ciurda-furda?". Non

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sapeva neppure quello. "Come può conoscere la lingua, professore, se non conosce delle parole così semplici? Da noi le conoscono tutti, vecchi e bambini. Salazgàn è come dire canaglia. E ciurda-furda è quello che c'è stato tra noi, un gran casino." Astrug si era messo a ridere, aveva scrollato la mano e gli aveva dato la sufficienza. "Comunque sia, han fatto bene a mandarlo via, - concluse ¬ceremisin. - C'era in lui del servilismo. Lui non lo faceva vedere, ma era così. Di sicuro. La lingua letteraria, forse, la conosceva, ma quella autentica, del popolo, non la masticava per niente." Una ragazza disse: "Io non so che cosa sapeva o non sapeva, ma sono molto contenta che non lo avremo più con noi. Faceva proprio schifo: si sedeva sulla sedia, accavallava le gambe, faceva dondolare il piede e chissà perché portava sempre i pantaloni troppo corti, si vedevano i mutandoni azzurri, infilati nei calzini. Dio, che schifo! - la ragazza fece una smorfia di ribrezzo. - Non potevo guardarlo, c'era da chiudere gli occhi... E in testa non entrava niente...". ¬ceremisin rideva forte. "E' vero. Proprio così, proprio così! Solo che non erano azzurri, erano bianchi. Non mi ricordo niente di azzurro..." "Che se ne stia seduto a casa sua, a far dondolare il piede" disse la ragazza. Gli altri cominciavano a irritarsi e a surriscaldarsi, non solo per il fatto di aver bevuto molto, ma anche perché si erano infilate delle persone estranee tra loro. Certe amiche di Sonja, certi amici di queste amiche, da una parte, gli amici di Glebov dall'altra, e anche ospiti indesiderati o occasionali, come ¬ceremisin. Tutto questo concorreva a rendere l'atmosfera ruggente, bollente, incandescente; si stringevano amicizie, si beveva nel segno della fratellanza, si diventava istantaneamente ottimi amici, e istantaneamente nasceva l'inimicizia che covava da tempo, pronta a uscire fuori. Scoppiarono discussioni violente. Alcune amiche di Sonja cominciarono a prendere in giro la ragazza che parlava delle mutande, Levka ¬sulepnikov interruppe brutalmente ¬ceremisin: prima faceva il leccapiedi davanti ad Astrug, e ora invece gli rideva dietro. Troppo facile, troppo comodo. Levka non era affatto una persona di ferrei principi, e poi sul conto di Astrug anche lui ne aveva dette di cotte e di crude - Glebov conosceva ¬sulepa troppo bene - ma quel ragazzo doveva averlo in qualche modo urtato, forse per la sua sfacciataggine, forse per qualcos'altro. E quello cominciò a prendersela con la bella del Berëska. Perché lo fece? Risultò poi che era per far dispetto a Levka. Lo odiava. E non era il solo. "Tutti i ragazzi del nostro gruppo, - gridava ¬ceremisin, che aveva un viso zigomoso e sbiancato dalla rabbia, - non darebbero un soldo per le tue macchine, per i tuoi papà e le tue mamme! Tu per noi sei una nullità! Puh!" E per rendere più evidente il concetto sputò all'indirizzo di Levka. Forse non sputò sul serio, ma fece il gesto di sputare. Stella lanciò un grido. Levka saltò sul tavolo per battersi. Lo trattennero. Ma era chiaro che ci sarebbe stata una grande zuffa. ¬ceremisin era con due compagni della casa dello studente. Glebov li conosceva bene, uno dei due per niente sciocco, un tipo tranquillo, era del suo gruppo, ma erano tutti talmente ubriachi! Fino alle due di notte finché rimasero al tavolo, si trattennero, ma poi si alzarono sbattendo le sedie, cominciarono a muoversi a fatica, si sparsero per le stanze, al primo piano, si precipitarono fuori, sulla neve, sotto le stelle: e allora cominciò, sulla neve... E da lì passarono dentro casa, per le stanze, sul pavimento; tra sedie rotte, grida di donne e rumore di vetri... Glebov, che in un certo senso si sentiva il padrone di casa, tentò di separarli, ma senza troppa convinzione, sentì un gran dolore, qualcuno gli aveva dato una gomitata sull'occhio, gli venne un bel bozzo. Al povero Levka avevano storto il naso. E per molto tempo, per mezzo anno, andò in giro con il naso conciato a quel modo. Si dice

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che Stella si fosse comportata eroicamente in difesa del suo cavaliere; si era tolta una scarpa e colpiva chi le capitava con il tacco, mirando agli occhiali. I colpi e i traumi si rivelarono non la mattina dopo (all'alba tutti quelli che erano rimasti in piedi, alla svelta, vergognandosi, erano corsi alla ferrovia e Glebov non aveva trovato quasi nessuno per colazione), ma tre giorni dopo, quando si riunirono in istituto per prepararsi all'esame di turno. Ma allora, a Bruskovo, quando tutti si dileguarono, e Glebov rimase solo con Sonja, avvenne qualcosa di molto importante. Non c'era freddo, cadeva una tranquilla neve. Uscirono con le pale e pulirono la stradina, c'era una luce crepuscolare, tutto il giorno era stato così. La mattina presto accesero il fuoco. Per molte ore furono occupati a mettere in ordine la casa, erano terribilmente stanchi (Sonja aveva fretta di riordinare la dacia, temeva che arrivassero i genitori), poi si sedettero in cucina e presero il tè nelle tazze di terracotta. I genitori non vennero. Le tazze erano pesanti, color cioccolata, e il tè era straordinariamente saporito. Quelle tazze di terracotta rimasero per sempre impresse nella sua memoria. A un certo punto, quando Sonja era andata nella dacia dei vicini a riportare le stoviglie, Glebov salì nella mansarda, la stanza più calda di tutta la dacia; la finestra sul giardino era aperta, si sentiva profumo di neve, di abete, giungeva da qualche parte odore di legna bruciata, Glebov era sdraiato su un divano vecchiotto, con i rulli e i fiocchi, con le mani dietro la testa, guardava il soffitto rivestito di doghe scurite dal tempo, le pareti con il feltro che sporgeva dalle tavole, alcune fotografie, una piccola incisione antica sotto vetro, che rappresentava un episodio della guerra russo-turca, e a un tratto - con l'afflusso di tutto il sangue, fino al capogiro - sentì che quella poteva diventare la sua casa. E forse già allora - nessuno lo sospettava, ma lui lo sapeva - tutte quelle tavole ingiallite, con i nodi, il feltro, le fotografie, il telaio scricchiolante della finestra, il tetto colmo di neve, appartenevano a lui. E questa idea gli dava un senso di sfinimento così dolce, spossante, inebriante... Avrebbe voluto immediatamente trovare qualcosa, magari un sorso di vecchia birra. Scese di sotto, cercò dappertutto, non trovò niente. La neve cadeva senza farsi sentire. Quando Sonja tornò, Glebov sentì un improvviso impeto di forze. Gli occhi di Sonja brillavano, le guance erano bagnate di neve. Le baciò le labbra fredde, le dita fredde, farfugliò che non poteva vivere senza di lei, preso da un desiderio che non aveva mai provato prima con Sonja, e ne era felice. Sonja si mise a piangere e disse: "Perché abbiamo sciupato tutta la giornata?". Malgrado fosse ancora presto, circa le sette di sera, si coricarono in mansarda, sul divano, spensero la luce e, nudi, si gettarono l'uno contro l'altra, senza voler sprecare neppure un secondo. Passò un po' di tempo e si sentì bussare alla porta di sotto. Bussavano alla porta d'ingresso, poi cominciarono a battere alla porta della veranda. Probabilmente qualcuno dei ragazzi era tornato a finire di far baldoria. Bussavano con molta insistenza, si sentiva che due o tre persone camminavano nella neve intorno alla dacia, parlando e consigliandosi. Qualcuno gridò: "Vadim! Apri, verme!". E una voce femminile: "Sone¬cka, siamo noi!". Gridarono ancora, allegramente: "Ehi, risparmiatevi un po' per stanotte". Scoppiarono a ridere. Dalle voci Glebov non riuscì a capire chi fossero. Sonja voleva andare giù ad aprire, ma Glebov non glielo permise: "Sta' giù, non fare rumore!". Abbracciò qualcosa di esile, docile, tenero, delle spalle magre, una schiena magra, quel corpo non aveva alcun peso, ma apparteneva a lui - ecco che cosa sentiva - apparteneva a lui insieme a tutto il resto, insieme alla vecchia casa, agli abeti, alla neve; e Glebov lo baciava, lo stringeva, ne faceva quello che voleva, ma cercava di farlo senza rumore; per un po' giù in basso picchiarono, urlarono, bestemmiarono, poi se ne andarono.

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Quella notte nella dacia c'era un caldo insopportabile. Glebov non sapeva manovrare la caldaia, ci aveva gettato troppo carbone e aveva combinato un tale inferno che non si poteva dormire. Tutte le finestre della dacia erano spalancate, ma non serviva a niente. Anche l'aria fuori era tiepida, un vero disgelo, dal tetto la neve sciogliendosi cadeva sonoramente, sotto la finestra, si sentiva incessantemente qualcosa che sgocciolava, che stillava, tintinnava. Glebov e Sonja gettarono via la coperta; rimasero nudi sul letto, lamentandosi per l'afa, chiacchierando con un fil di voce. Non si vergognavano più l'uno dell'altra. Sonja chiese: "Quando hai cominciato ad amarmi?". Glebov si sentiva in imbarazzo. Non poteva davvero rispondere con esattezza. Era successo pochissimo tempo prima, ma non sapeva decidersi a dirlo. Rispose: "Che differenza fa? L'importante è che sia successo...". "Certo! - sussurrò lei, felice. - Te l'ho chiesto perché io me lo ricordo molto bene... Tu puoi aver dimenticato, io no..." "Davvero? - disse lui. - E quando ti sei innamorata tu?" La risposta fu sorprendente: già dalla sesta classe. Fu quando Glebov era andato a casa sua insieme a Jarik il rosso e ad Anton Ov¬cinnikov e le aveva raccontato di un gattino molto intelligente che aveva trovato malato per strada e che poi tutte le mattine lo accompagnava a scuola fino al lungofiume. Erano andati tutti a vedere il gatto a casa di Glebov. Glebov non si ricordava niente. "E mi ricordo ancora, - disse Sonja, - un altro impeto di amore per te... Fu una cosa brevissima, ma acuta, tormentosa e tanto dolce, lo ricordo distintamente... Tu eri venuto con una giacca marrone, con una cintura così; non era nuova, ma non eri mai venuto con quella giacca addosso, perciò ti avevo notato. Ti osservavo sempre con attenzione. Mentre tu eri là, in piedi, vicino alla finestra, io vidi sulla giacca, di dietro, una toppa attaccata con cura, grande all'incirca come un foglio di quaderno. Tu non immagini quanto ti ho amato in quell'istante!" Glebov si seccò. Innamorarsi per una cosa simile? Ma non lo fece vedere, borbottò soltanto: "La nonna era un genio a mettere le toppe...". Sonja chiese con vivo interesse: "Ah, era tua nonna? Chissà perché pensavo che la ricamatrice così brava fosse tua madre". In seguito Glebov notò spesso che Sonja aveva un ardente interesse per le più piccole sciocchezze che riguardavano la sua infanzia, la sua vita con il padre e la madre, gli domandava dei particolari insignificanti del suo passato. L'impeto di amore, scatenato dalla toppa sulla giacca, era sfociato in un sogno recondito: procurarsi da qualche parte i denari, comperargli una giacca nuova e mandargliela con un biglietto: "Da parte di un amico sconosciuto". Un'altra sensazione, straordinariamente forte, era legata a lui: paura e amore, che affluirono insieme, nello stesso momento. Fu quando da una finestra lo vide sul balcone. Chimius era tutto sporto fuori del parapetto, sul vuoto. Glebov aveva un viso pietrificato dall'orrore, più morto che vivo. Come se Chimius fosse già sul marciapiedi. Oh, che attimo tremendo! Se ne ricordava? Doveva certamente ricordarsene ancora. Le follie dell'infanzia si ricordano per tutta la vita. "Ci sono state altre piccole sofferenze, - disse Sonja. - Per esempio, quando ti eri invaghito di quell'idiota di Tamara Mi¬s¬cenko..." Glebov scoppiò a ridere. Quale Tamara Mi¬s¬cenko? Quella grassona, enorme, che sembrava un'aiuola fiorita? Erano allegri. Avevano i corpi sudati per il caldo, e si asciugavano a vicenda con un asciugamano. Il giorno seguente - doveva essere domenica - vennero i genitori di Sonja con Vasena. Glebov temeva che avrebbero senz'altro immaginato quello che era successo alla figlia e si preparò al peggio. Gli pareva che non ci volesse troppa perspicacia. Ma Sonja si comportò

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con tale naturalezza e sangue freddo, con tale gioia andò loro incontro, colmandoli di amorevoli attenzioni, che Glebov dentro di sé ne rimase sbalordito. E i genitori non capirono niente. Del resto erano proprio delle teste di rapa. Certo, delle buone, oneste teste di rapa sommerse dai loro affari. E della stessa razza, tutti e due. E Vasena con il suo sguardo acuto? Neanche lei riuscì a vedere. In seguito fu la prima a indovinare. Nikolaj Vasilºevi¬c quel giorno era di cattivo umore, era incupito e non si accorgeva di niente. A pranzo regnò un silenzio generale. Glebov pensava che fosse la sua presenza a ostacolare la conversazione. Chiese sottovoce a Sonja se doveva andarsene. Sonja scrollò la testa. "Per niente! Ha dei problemi. E' come se tu non esistessi." Dopo pranzo Glebov uscì con Sonja per una passeggiata. La sera, dopo aver dormito un paio d'ore, ormai rabbonito, il vecchio si mise a parlare e spiegò che era preoccupato proprio per la faccenda di Astrug. Il giorno prima non erano potuti venire, perché all'improvviso avevano ricevuto la visita degli Astrug, Boris Lºvovi¬c e moglie. Non si poteva non riceverli. Erano abbattuti, depressi, per Capodanno non erano andati da nessuna parte, come si poteva non riceverli? Astrug aveva raccontato tutti i particolari. Nikolaj Vasilºevi¬c non aveva preso parte al consiglio di facoltà, che aveva decretato la sua rovina e aveva praticamente definito l'intera faccenda. "Capisce, Dima, che porcheria: io ero in missione. - disse Gan¬cuk a Glebov, sempre più infervorandosi, mentre Julija Michajlovna a gesti, con la mimica e con interiezioni rabbiose cercava di farlo parlare con più calma o meglio ancora di farlo tacere. - Sono stato tre settimane e mezzo a Praga per esaminare certi archivi, lei si ricorderà, e loro, approfittando della mia assenza..." "Papà, perché avevano bisogno della tua assenza?" chiese Sonja. "Come perché? Ridicolo! Se io fossi stato lì, avrei fatto un intervento molto duro." "Proprio quello che vorrebbero loro", disse Julija Michajlovna. "Ah, smettila, per favore! Tu non capisci." "No, capisco. Sei tu che non capisci, perché ci vai così di rado, mentre io ci vado tutti i giorni. Non sarebbero stati affatto dispiaciuti, se tu fossi intervenuto nella faccenda." "Ma io interverrò anche così!" ruggì Gan¬cuk. "Adesso non ha più senso. Assolutamente sinnlos." "Vedremo!" Era di nuovo diventato cupo, imbronciato; si alzò dalla tavola dove aveva preso il tè e andò nel suo studiolo. Sonja e Glebov salirono in mansarda per la scaletta scricchiolante. Chiusa la porta, senza accendere la luce, Sonja si lanciò su Glebov e cominciò a baciarlo, sussurrando: "Come mi dispiace per Astrug! Povero, povero, povero, povero il mio Astrug...". Ogni "povero" era accompagnato da un bacio. "Anche a me, - sussurrò Glebov, baciando la tenera cavità sopra la clavicola, - dispiace molto per lui..." "Non riesco a dirlo... come mi dispiace per Astrug..." "Pure a me..." Sonja teneva stretto Glebov tra le sue deboli braccia, con tutte le sue forze. Glebov le accarezzava la schiena, le scapole, i fianchi, tutto quello che adesso apparteneva a lui. Si sentivano in basso le chiacchiere di Vasena e di Julija Michajlovna e l'acciottolio delle stoviglie. Poi Julija Michajlovna chiamò: "So-nja!". Sonja si staccò subito da Glebov e bisbigliò: "Noi stiamo facendo i cretini, ma a me dispiace davvero per lui... Non dico bugie, non pensare... Se verrà, lo conoscerai meglio...". Glebov pensava: questo che significa? Dal basso chiamarono con irritazione: "Sonja, che fai?".

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Dopo aver baciato Glebov, Sonja corse giù per la scaletta, facendo rumore con i tacchi. Glebov, senza accendere la luce, si avvicinò alla finestra e l'aprì con una manata. Il freddo del bosco e l'oscurità alitavano attorno a lui. Si sentiva l'odore resinoso di un pesante ramo di abete, incappucciato di neve, che brillava appena nell'oscurità, proprio davanti alla finestra. Glebov stava in piedi vicino alla finestra, respirava, pensava: "Anche questo ramo è mio!". Il giorno dopo a colazione, quando già era venuto Anikeev con la macchina, per riportare tre persone a Mosca - Gan¬cuk e Vasena sarebbero rimasti ancora alcuni giorni - il discorso cadde di nuovo su Astrug. Julija Michajlovna domandò: "Ma lei, Dima, che è stato sempre zitto, che cosa ne pensa di Boris Lºvovi¬c? Come docente?". "E' difficile dirlo. Ci ha fatto lezione solo per un semestre. Un corso di specializzazione su Dostoevskij..." "Proprio questo volevo sapere! - dichiarò Julija Michajlovna con un'aria di trionfo. - L'esitazione nel dare un giudizio vuol dire molte cose. Solo per un semestre! Ma un semestre è lungo. Gan¬cuk, tu sei sempre parziale con la gente e ti piace sopravvalutare." "Che vuol dire che mi piace sopravvalutare?" "Ti piace sopravvalutare le contrarietà e le ingiustizie. Perché non dovrebbe esserci nessuna parte di vero in quello che dicono di Boris? E' davvero un uomo perfetto, ineccepibile, senza difetti? Io penso che abbia dei difetti, e non piccoli. Io penso anzi che abbia dei grossi difetti!" Quando Julija Michajlovna si arrabbiava, diventavano evidenti alcune imperfezioni del suo russo. Parlava in modo del tutto corretto, non faceva errori di grammatica né lessicali, ma all'improvviso traspariva un'impercettibile inesattezza. Nervosamente, cercò di spiegare i difetti di Astrug: non riusciva a farsi apprezzare, non lasciava nessuna impressione dopo un semestre. Anche lei insegnava e, poteva scommetterci, sapeva conquistare il pubblico giovane dopo due ore di lezione. Di più non le serviva. E i ragazzi poi correvano a casa sua, le telefonavano, le regalavano fiori per le feste. Dopo due sole ore! Mentre diceva questo, Julija Michajlovna teneva le mani sui fianchi e guardava il marito e Glebov un po' dall'alto in basso. Ma diceva la pura verità. Gli studenti le volevano bene. Julija Michajlovna accennò poi a un altro difetto di Astrug: gli piaceva vantarsi, fare sfoggio di cultura. Insomma, si poteva cogliere talvolta in lui e in sua moglie Vera - in lei soprattutto - una certa aria di sussiego: avevano un'alta opinione di se stessi. Di cosa mai, si domandava, potevano vantarsi davanti a Gan¬cuk? Era ridicolo. Ora, certo, facevano compassione. Senza un vero lavoro lui poteva anche andare a finir male. E lei avrebbe smesso di darsi delle arie... Sonja ascoltava la madre, sorridendo con tenerezza e simpatia, come gli adulti che stanno a sentire le chiacchiere dei bambini. Nikolaj Vasilºevi¬c non aveva più voglia di continuare quel discorso. Si rivolse ad Anikeev che stava sulla porta e faceva tintinnare con impazienza le chiavi, e disse: "Ivan Grigorºevi¬c, almeno lei non si dia delle arie! venga a sedere con noi, beva un sorso di tè...". Ma Julija Michajlovna aveva deciso di aggiungere una precisazione. "No, amici miei, bisogna avere una visione più ampia, più ampia! Che abbiano in mente di sbarazzarsi di Gan¬cuk è un fatto. Ma che Boris, purtroppo, offra il fianco a delle critiche e costituisca un facile bersaglio, è pure un fatto." "Io interverrò lo stesso nella faccenda, - dichiarò velocemente Nikolaj Vasilºevi¬c. - E basta con questo argomento!" In macchina si sistemarono così: davanti, accanto a Anikeev era seduta Julija Michajlovna, dietro avevano preso posto Glebov, Sonja e il pacco della biancheria sporca, avvolta in una tovaglia. Julija parlava incessantemente di faccende molto complicate riguardanti

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l'istituto, che Gan¬cuk non conosceva e che lei invece cercava di dipanare. Il rettore non amava Gan¬cuk - chiamava sempre Gan¬cuk il marito, in sua presenza e in sua assenza - perché era un indipendente, non gli si potevano dare degli ordini, era un personaggio troppo importante, e il direttore didattico, Dorodnov, una nullità, non avrebbe mai dimenticato che Gan¬cuk si era rifiutato di appoggiarlo nel suo tentativo di presentare la dissertazione di dottorato. E non solo per questo. C'erano dei vecchi conti in sospeso. Macchinavano di togliere a Gan¬cuk la cattedra, ma ci provassero! Non era così semplice. Vecchio comunista, combattente della guerra civile, autore di centottanta pubblicazioni, traduzioni in otto lingue europee e in sette asiatiche... Ecco, Boris Astrug, il suo allievo, era uno strumento molto comodo per... Glebov e Sonja ascoltavano poco Julija Michajlovna. Erano occupati l'uno con l'altra. Si accarezzarono con le dita per tutta la strada: lui con la mano destra, e lei, che stava seduta accanto al finestrino, con la sinistra. Glebov doveva tenere con la sinistra il pacco della biancheria, che nelle frenate si ostinava a cadere sul pavimento. Vedeva che le guance di Sonja si arrossavano e sentiva che le tremava un po' la voce quando di tanto in tanto diceva: "Sì mamma... Certo, mamma... Hai ragione...". "Del resto, Sone¬cka, vorrei che Gan¬cuk se ne andasse dall'istituto. Eh? Che te ne pare?" Julija Michajlovna si voltò inaspettatamente e forse vide qualcosa nel viso di Sonja che la colpì. Girò di nuovo le spalle e tacque. Sonja non le rispose. E solo quando furono vicini a Mosca, disse: "Certo, hai ragione, mamma... Ma papà non se ne andrà per niente al mondo...". Quella notte nella dacia, con tutto quello sgocciolio, i blocchi di neve che cadevano sonoramente e l'aria soffocante... Sonja la rivedeva, seduta in macchina. Glebov se la ricordava anche a venticinque anni di distanza, sebbene sarebbe stato meglio dimenticarsene. Ci furono poi altre notti, nonostante il gennaio, gli esami, il freddo intensissimo, che arrivava all'improvviso e rendeva difficili gli spostamenti. Andavano a Bruskovo perché là nessuno li disturbava e si potevano "preparare meglio agli esami". Andavano con l'automotrice, attraversavano di corsa il bosco gelato, irrompevano nella dacia, fredda come uno scantinato, che in due ore diventava calda. Glebov pensava sempre: è mai possibile che i genitori non si accorgano di quello che sta succedendo? E sì che si preparavano a esami diversi e in sessioni diverse. Era assurdo: filarsela dalla città, perdere due ore per il viaggio, starsene in quelle stanze, per studiare cose diverse. Ai genitori dicevano che andavano in parecchi. Ma era impossibile non accorgersi del cambiamento di Sonja! Eppure non vedevano o non ci facevano caso. Sonja affermava con certezza che non si erano accorti di niente. E persino quando Sonja diceva che era indietro con la preparazione di un esame e lo raccontava ridendo - era una cosa insolita sia il fatto che fosse indietro, sia che ridesse quando lo raccontava - né la madre né il padre cominciavano a nutrire sospetti. Avevano una fiducia incrollabile nel fatto che Sonja avrebbe lo stesso superato l'esame e con ottimo profitto. Era un dono di natura, come il pallore del viso. E qui avevano ragione. Conoscevano bene la loro figlia. Lei ce la faceva persino con quelle materie di cui studiava appena qualcosa la mattina degli esami. Certo, gli studenti sotto esami di solito studiano di notte, ma Sonja e Glebov occupavano diversamente le loro nottate. Era Glebov a rimanere indietro. Ma quello che era successo con Sonja nel mese di gennaio era, secondo lui, il suo esame principale, immensamente più importante di tutti gli altri. Vasena fu la prima a mangiare la foglia - la macilenta vecchietta dal naso spigoloso e giallo ricordava a Glebov i disegni medievali che raffiguravano la morte con la falce - e fu proprio con la falce

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che lei fece a pezzi Glebov. Una volta disse a Sonja (Glebov era lì vicino e sentiva e lei certo aveva parlato in modo che lui sentisse): "Quel tuo scaldapanche non si pulisce nemmeno i piedi quando entra, come se andasse in trattoria...". "Di che cosa parla, Vasena? - chiese Glebov, avvicinandosi. - E che cosa vuol dire scaldapanche?" "E io che ne so... Si dice così...", borbottò Vasena. Sonja, più pallida del solito, abbracciò la vecchia. "Balia, cara, perché fai così? Eppure sei buona, lo so..." Alla fine di gennaio Sonja, turbata, disse a Glebov che era successo un guaio: Julija Michajlovna era andata all'improvviso nella dacia con Anikeev a prendere alcuni oggetti ed aveva scoperto degli indizi palesi, lasciati da loro per distrazione o negligenza, nella fretta di non far tardi al treno. E cos'era successo? La madre, che pure rimproverava il padre per la sua mancanza di perspicacia e per la sua ingenuità, era poi più ingenua di lui e respingeva per abitudine tutto ciò che poteva darle dispiacere, a mo' di struzzo domestico, ed ecco a che conclusione arrivò: "Sonja, ti devo dire una cosa spiacevole. Nella nostra dacia hanno dormito degli estranei. Non hanno preso niente, non hanno rubato, sono venuti soltanto per passarci la notte". "Che dici!", gridò Sonja spaventata. "Sì, è così, purtroppo. Ci sono delle tracce poco simpatiche. Non lo dirò a tuo padre, per non dargli un dispiacere inutile. Ormai non ci si può più fare niente." Glebov, dopo averci pensato un po', avanzò l'ipotesi che Julija Michajlovna avesse capito tutto e avesse voluto dirglielo nella forma migliore, lasciandoglielo intendere con un'allusione. Lui non ci vedeva nessun guaio. Non erano affatto obbligati a custodire gelosamente il segreto. Avevano deciso di diventare marito e moglie, no?, era solo questione di tempo: subito, tra sei mesi, tra un anno, che differenza faceva? Lo pensava davvero, perché sembrava una cosa sicura, definitiva e immutabile. La loro intimità si faceva sempre più stretta. Non poteva sopravvivere un giorno senza di lei. Adesso, dopo tanti anni da quell'inverno, poteva riflettere con serenità: che cos'era? Amore vero, maturato realmente e a lungo, o quell'ossessione fisica della giovinezza, che colpisce all'improvviso, come l'angina? Forse la seconda cosa. Qualcosa di cieco, insensato, irresponsabile, qualcosa di così diverso dalla sua natura, per quanto potesse conoscere se stesso. Del resto anche lei si era mostrata del tutto diversa da quella alla quale Glebov si era abituato e, ormai da anni, rassegnato. I silenzi, la timidezza, l'aspetto anemico di lei appartenevano al passato. Di lei soltanto la bontà e la sottomissione erano rimaste nella nuova vita.

Mi ricordo come mi tormentava e come io, malgrado tutto, lo amavo. Mi telefonava la mattina - mio padre e mia madre sapevano che era lui e cercavano di non alzare il ricevitore, perché io mi arrabbiavo, quando lo facevano - e io mi precipitavo a rotta di collo, alzandomi da qualunque luogo mi trovassi in quel momento: dalla cucina, dove stavo finendo la mia collosa e orribile palla di semolino al latte, dal bagno, e persino da quel posticino (sentendo lo squillo, attraverso la porta, mi alzavo di corsa con i pantaloni sbottonati). "Sì! - gridavo. - Con chi parlo?" Volevo sentire il suo nome. Ma lui non diceva mai il suo nome, escogitava sempre qualcosa di straordinariamente arguto. "Sir, - diceva, - l'aspetto alle otto e un quarto in punto sotto l'orologio del cortile centrale e la prego di venire armato di spada. L'infilzerò come una lepre... Lei dev'essere un ottimo arrosto, Sir!" "E io farò lo stesso con lei, - gridavo, soffocando in una felice risata. - Da lei, Sir, si può cavare un'ottima bistecca alla brace! Proprio così, Sir! Una bistecchina cotta al punto giusto, da leccarsi le dita, proprio gustosa, Sir!"

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Era terribile, lo imitavo sempre. Nella mia testa non nasceva niente di originale, oppure vi nasceva molto più tardi di quanto fosse necessario. Arrivavo all'appuntamento cinque minuti prima e lo aspettavo, languendo d'impazienza. In tutta la mia lunga vita non mi ricordo di avere in seguito aspettato qualcuno con tanta trepidazione e con la dolorosa paura di un brutto tiro, perché Anton Ov¬cinnikov, come si addiceva a un vero scienziato e a un grand'uomo, era incredibilmente distratto, smemorato e incostante. Dopo essersi messo d'accordo con me, poteva prendere due minuti dopo nuovi impegni con Tricheco o con Chimius, e io a un tratto vedevo che se ne andavano tranquillamente da un'altra parte del cortile, verso altre uscite, e a me non rivolgevano alcuna attenzione. Come se non esistessi! Come se non avesse telefonato a me un momento prima e non avesse preteso con tono da cospiratore che lo aspettassi sotto l'orologio! Quando accadde la prima volta, mi scagliai contro di lui con rabbia: "Sir, che cosa significa questo? Io ti aspetto come un cretino e tu te ne vai da un'altra parte?". Mi guardò, così mi parve, con disprezzo e disse: "Carissimo, non avevamo detto che mi sarei trovato in un determinato punto? Ma avevo ben il diritto di attraversare il cortile in qualunque modo e con chiunque mi pare, è affar suo se intende spiare i miei movimenti, basta che poi si trovi al punto stabilito". Esponeva quelle geniali assurdità con un tono secco che non ammetteva obiezioni, Tricheco e Chimius sghignazzavano, e io ero sbalordito, non ero capace di discutere con lui, non riuscivo a prendermela. E lo seguivo a testa bassa. Il magro Chimius e quel molle ciccione di Tricheco camminavano a fianco del tarchiato Ov¬cinnikov che era naturalmente senza berretto, nonostante il gelo; i capelli color lino tremavano, aveva i pantaloni corti e i calzettoni, il bianco della pelle, tra i calzettoni e i calzoni, diventava livido, i passanti lo guardavano e ridacchiavano: raccontava in continuazione qualcosa e Tricheco e Chimius lo stavano a sentire a bocca aperta. Quell'inverno si appassionò alla paleontologia: si era procurato dei grandi album sui quali disegnava i vari dinosauri e pterodattili, e non la finiva di raccontare tutto quello che conosceva sull'argomento. Anch'io non trovai niente di meglio che appassionarmi alla stessa cosa. Anch'io mi procurai un album e cercai di disegnare, o meglio di ricalcare dai libri, con l'aiuto della carta velina, ogni sorta di mostri antidiluviani, ma, poiché mi venivano male, rovinai scandalosamente i volumi ritagliandone le figure. Ecco con chi avrebbe dovuto far conversazione sui rettili, ma lui perdeva il suo tempo a istruire Tricheco e Chimius, che erano, se si vuol dire tutta la verità, un po' fresconi. Anton e io chiamavamo fresconi quelli le cui conoscenze erano limitate al programma scolastico e superfresconi i secchioni. Questo gruppetto assurdo era formato in sostanza da ragazze, ma ci rientravano anche alcuni ragazzi, due o tre miseri omuncoli. E c'erano poi i "polpi". Si chiamavano così i nobili e puri cavalieri della scienza, che si interessavano di tutto allo stesso modo, ma in particolare di ciò che esulava dalla scienza scolastica: Anton Ov¬cinnikov, io, un altro paio di persone e l'unico "polpo" tra le ragazze, Sonja Gan¬cuk, che s'occupava di letteratura mistica, per esempio dei racconti di Edgar Poe. E inoltre il padre di Sonja aveva una bellissima biblioteca, non inferiore a quella del capitano Nemo, e noi spesso correvamo da lei, per delle delucidazioni su qualche questione scientifica. Ad Anton era venuta in testa un'idea meravigliosa: fondare la Sscv, cioè: Società segreta per il collaudo della volontà. Questo accadde dopo che ci conciarono per le feste nel vicolo Derjuginskij. Anton si era ristabilito e noi decidemmo di andarci di nuovo. Noi, cioè Anton, Chimius, Tricheco, Levka ¬sulepa e io. Ma allora venne fuori la questione di Vadºka Glebov, soprannominato Sfilatino, che abitava nel

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vicolo. Bisognava farlo entrare nella società segreta? Una volta, tanto tempo prima, aveva portato a scuola uno sfilatino bianco, si era seduto, aveva spezzato il pane e l'aveva offerto a chi lo desiderava. Ed erano in molti! Era evidentemente una cosa di poco conto: aveva portato uno sfilatino che ognuno poteva comprare dal fornaio per quindici copechi. Ma nessuno ci aveva pensato, e lui sì. Durante l'intervallo tutti gliene chiedevano un pezzetto e Glebov ne distribuiva a tutti, come Cristo. Anzi, non proprio a tutti. Ad alcuni non ne dava. Per esempio a quelli che avevano portato a scuola un sandwich con formaggio e salame, e certo anche loro, poveretti, avrebbero voluto un po' di sfilatino! Per molto tempo questo Vadºka Sfilatino mi parve un personaggio un po' enigmatico. Chissà perché erano in molti a voler fare amicizia con lui. Sembrava che andasse bene per tutti. Era in un modo e anche in un altro, né buono né cattivo, non era molto avido, né molto generoso, non era proprio un "polpo", ma nemmeno un frescone, non era quello che si dice un furbo, e nello stesso tempo non era un minchione. Poteva fare amicizia con Levka e Manjunja, benché Levka e Manjunja non si potessero soffrire a vicenda. Era in buoni rapporti con Anton, era accettato a casa di Chimius e Levka ma andava d'accordo anche con quelli del vicolo Derjuginskij, che ci odiavano. Era contemporaneamente amico di Anton e di Minºka Toro! Perciò non sapevamo bene come comportarci con Glebov. Dovevamo raccontargli il nostro segreto? ¬sulepa era un suo appassionato sostenitore. Diceva che Sfilatino non avrebbe mai tradito. Anche Anton era propenso ad ammettere Sfilatino nella Sscv, perché poteva esserci utile. Non mi ricordo tutte le discussioni e i ragionamenti, mi ricordo soltanto che c'era un gran gusto a decidere del destino di qualcuno. Ci conveniva o non ci conveniva? Mi ricordo che il destino di Vadºka mi tormentava molto. Non mi andava che fosse accolto nella Società segreta, ma non potevo dirlo chiaramente né spiegarne le ragioni. C'era di mezzo una donna. Sì, certo, si trattava anche di questo! Sonja Gan¬cuk era innamorata di quello Sfilatino poco avvenente, così indefinibile. Che cosa ci trovava? Le orecchie a sventola, la faccia coperta a metà di lentiggini, i denti radi e l'andatura sgraziata e ciondolante. Aveva i capelli scuri, lucenti, pettinati un po' da una parte e così lisci che pareva appena uscito dal fiume. Proprio non riuscivo a capire. Ma era evidente a tutti: Sonja diventava rossa quando parlava con lui, cercava in tutti i modi di rimanere in classe se Glebov era di turno, gli faceva delle domande insulse e rideva quando lui tentava di fare dello spirito. Nelle sue battute c'era più scherno che arguzia. Per esempio, gli piaceva prendere in giro Jarik, con osservazioni maligne. O forse me lo immaginavo io, per dispetto! Anche Jarik aveva un debole per lui e voleva diventargli amico... Era assolutamente un "nessuno", Vadik Sfilatino. Ma, come ho capito più tardi, è un dono raro: essere un "nessuno". Quelli che sono capaci di essere genialmente "nessuno" arrivano lontano. La questione è in fondo tutta qui: a quello sfondo neutro vengono aggiunti tocchi e figure, suggeriti dai desideri e dalle paure personali di chi ha a che fare con questi "nessuno". I "nessuno" sono sempre fortunati. Nella mia vita mi è capitato di incontrare due o tre individui di questa razza meravigliosa (Sfilatino mi è rimasto impresso semplicemente perché è stato il primo ad avere fortuna per "nessun" merito) e mi ha sempre colpito l'incoraggiante benevolenza dimostrata nei loro confronti dal destino. Vadºka Sfilatino è diventato nel suo campo un pezzo grosso. Non so chi sia con precisione, non mi interessa. Ma quando qualcuno raccontava di lui, non mi meravigliavo: doveva essere così. E anche secoli fa, quando quei cinque ragazzini dovevano prendere la decisione sullo scottante problema: iniziarlo o no al loro segreto? lui, naturalmente, ebbe fortuna. Decisero di iniziarlo e lo accolsero. Anton diceva che la guerra con quelli del

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vicolo Derjuginskij sarebbe stata lunga ed estenuante, e occorreva avere un proprio uomo nel loro campo. Una volta dopo le lezioni portarono Vadºka Sfilatino nel cortile di dietro e gli raccontarono tutto. Ma lui aveva già subodorato qualcosa. Si vedeva che era contento, quando gli proposero di entrare nella Sscv. Ma rispose... Oh, che straordinaria risposta fu quella! Allora non comprendemmo realmente, sono passati anni, è trascorsa una vita, e ripercorrendo la memoria, a un tratto ci si arriva: ecco la forza di non avere nessun carattere! Disse che era contento di entrare nella Sscv, ma voleva che gli si riconoscesse il diritto di uscirne quando gli faceva comodo, cioè voleva essere membro della nostra società e nello stesso tempo non esserlo. Era in una posizione di eccezionale vantaggio: conosceva il nostro segreto, ma non era completamente dei nostri. Quando lo capimmo, ormai era tardi. Eravamo nelle sue mani. Ricordo che avevamo architettato una spedizione nel vicolo Derjuginskij ed era stato indicato il giorno, ma Sfilatino disse che quel giorno non andava bene, bisognava spostare di una settimana, poi di tre giorni, senza spiegarne i motivi e con un misterioso comportamento. Noi accettammo. Era uno dei nostri, ma non fino in fondo, e in ogni momento poteva uscire dal gioco. "Se volete, fatelo pure oggi, ma senza di me..." Noi temevamo che avvisasse Minºka Toro e che così l'assalto di sorpresa al vicolo fallisse. Che cosa volevamo? Semplicemente andare su e giù per quel vicolo, dove i ragazzi del nostro caseggiato venivano pestati e derubati. E se ci aggredivano, avremmo opposto resistenza. Levka ¬sulepa promise di portare con sé la pistola-giocattolo tedesca che faceva il rumore di una vera rivoltella. Finalmente Sfilatino fissò il giorno. Ci muovemmo verso le cinque della sera. Giunti alla casa Derjuginskij, vedemmo a una finestra del primo piano il muso pallido di Sfilatino, anche lui ci vide subito e agitò una mano. Attraversammo tutto il vicolo, ma nessuno ci aggredì. Il cane nero non si fece vedere. Alcuni ragazzetti che scendevano giù dalla parte alta del vicolo, in mezzo al lastricato, non fecero caso a noi. Ci fermammo vicino a un portone, poi a un altro e i predoni non si fecero vedere: né Minºka Toro, né Taranºka, nessuno. ¬sulepa sparò in aria, aspettammo ancora un poco e ce ne andammo. Eravamo delusi. Non ci era riuscito di collaudare la volontà. Ci andammo ancora un paio di volte, ma ugualmente senza risultato. Che cosa era successo? Dove si erano cacciati? E' rimasto un mistero, che forse si è perduto nel corso degli anni. Nella memoria non c'è nient'altro che un senso di rabbia e uno strano sentimento: come se Vadºka Sfilatino l'avesse fatto apposta, per farci un dispetto e per salvaguardare la propria tranquillità... Ci furono poi altre prove, paure, passeggiate notturne in certi luoghi, in certe cripte. I corridoi sotterranei della nostra chiesetta. E il balcone di Sonja che dava sull'abisso. Che balcone! E il freddo da morire che stringeva le mani in una morsa! E il viso di Sonja, con quello sguardo bianco, insensato! Eravamo rimasti in quattro. All'ultimo minuto Sfilatino non aveva detto né sì né no. E il grosso Tricheco spiegò con dolorosa vergogna che soffriva di vertigini. Restava da stabilire in quale appartamento fare la prova. Chimius si rifiutò, perché il suo era pieno di gente, era impossibile appartarsi sul balcone. Anche da Levka gironzolava della gente: parenti, parassiti e la madre stava tutto il giorno in casa. Anton abitava al pianterreno, io al secondo. Rimaneva quel povero invalido di Tricheco. Aveva un'ottima abitazione al settimo piano, dove viveva con la madre, una donna d'affari che stava in ufficio dalla mattina alla sera, e una vecchia domestica sorda che potevamo rinchiudere in cucina dandole da leggere la Pravda dei pionieri. Alla vecchietta piaceva la Pravda dei pionieri. Ma a un tratto Tricheco si oppose. Era contrario a quella prova e diceva che quello non era collaudare

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la volontà, ma la vita. E a questo punto mi ricordai di Sonja. A dire il vero io non mi dimenticavo mai di lei. Sonja abitava all'ottavo piano, e i suoi genitori proprio in quel periodo erano partiti per un viaggio. A casa era rimasta la domestica, ma questa a volte si assentava e Sonja rimaneva a lungo sola in casa. L'ottavo piano. Certo, era enormemente allettante. Quello che ci voleva. Quanto più in alto, tanto meglio. Tanto più qualificante il collaudo. Ce lo confermammo l'un l'altro, sebbene la paura ci torcesse le budella. L'unica cosa che lasciava perplesso Anton era la necessità di mettere a parte del segreto una donna. Era categoricamente contrario alle donne. "Io nemmeno a mia madre l'ho raccontato, eppure le dico tutto." Era vero, la madre di Anton era al corrente di tutti i suoi pensieri e dei suoi lavori. Bastava telefonarle: "Che fa Antoska?", e lei rispondeva: "Ha appena finito la terza parte dell'album di paleontologia. I rettili volanti. L'album italiano è già a metà, gli è venuto molto bene, soprattutto il Vesuvio...". Dio, quanto volevo che Sonja assistesse al collaudo della volontà! Dissi che si poteva nasconderle la cosa principale, dirle che noi "polpi" avevamo bisogno di parlare in segreto sul balcone, e pregarla di rimanere mezz'ora nello studio. Se Sonja dava la parola d'onore dei "polpi" che non sarebbe uscita dallo studio, non avrebbe trasgredito. Anton sbuffò, ma dette il suo consenso: "Bene! Sonºka di sicuro si distingue dalle altre ragazze, se non altro perché capisce Verdi. Una volta ha cantato persino la marcia dell'Aida, per la verità non in maniera perfetta". Detta da lui, era una lode immensa. L'umanità si divideva in quelli che capivano Verdi e quelli che non capivano Verdi, i primi erano gli uomini migliori, gli altri la cieca massa degli ignoranti. Fu scelto il giorno, e andammo da Sonja. Non posso dire che ci andai con baldanza e con buona volontà. Le gambe mi si piegavano, e dentro, nelle ossa, c'era come un formicolio. Anche gli altri membri della società segreta non avevano una cera migliore. Desideravo fortemente che Sfilatino non venisse, che gli mancasse il coraggio all'ultimo minuto! Ne aveva il diritto. Poteva non venire, e noi non gli avremmo detto niente. Ma lui venne, che il diavolo se lo porti. Il suo viso era di un verde cangiante, come quello d'un morto. Chimius invece sorrideva scioccamente e cercava di fare dello spirito fuor di luogo. Sembrava che fossimo andati là per consultare un volume di Elise Rackley che ci serviva. Poi, all'improvviso, Anton si rivolse a Sonja: "Sonºka, devi giurare subito, in questo momento che...". Sonja, colpita dal tono misterioso, si impensierì. Cominciò a chiederci angosciata che cosa avevamo in mente. Perché proprio sul balcone? Avevamo forse intenzione di buttare qualcuno di sotto? Non immaginava quanto fosse vicina alla verità. Questo "qualcuno" poteva essere chiunque di noi. Alle parole semischerzose di Sonja mi spuntarono le lacrime agli occhi ed ebbi compassione di me stesso. Ma non se ne accorse nessuno. Feci alcuni passi per la stanza, con le ginocchia tremanti e il passo malfermo. A un tratto mi spaventai per le mie gambe. Con le gambe in quel modo non era pensabile scavalcare il parapetto del balcone e camminare tra le sbarre all'altezza di otto piani. Lanciavo agli altri occhiate furtive. Quando, a turno, tutti andammo al bagno, mi accorsi che eravamo tutti un po' scombussolati. Solo Anton Ov¬cinnikov non andò al bagno. Era seduto accanto a Sonja, rimase seduto, immobile fino al momento necessario, né prima né dopo. Pesante, piccolo, giallo, le spalle e gli zigomi larghi, come un Buddha. Quando Sonja finalmente se ne andò nello studio e chiuse la porta con la maniglia - così aveva voluto lui - Anton si alzò per primo e a passi decisi andò nella camera accanto, separata da una tenda, dov'era la porta che dava sul balcone. Gli andammo dietro. Il balcone era mezzo chiuso e mezzo

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aperto, nonostante fosse già arrivato il freddo. Il padre di Sonja faceva qui la ginnastica mattutina. Come nel resto del palazzo, il balcone era diviso in due da un'inferriata, l'altra metà apparteneva ai vicini. Così c'era il pericolo che in ogni momento qualcuno potesse uscire sul balcone e - miracolo! - salvarci. Ma nessuno usciva fuori né si notava il più piccolo segno di vita a quelle finestre estranee. Guardavo al di là dell'inferriata i bricchi e le casseruole, la tendina della porta a vetri e pensavo: "Proprio non volete dare uno sguardo, vigliacchi, nemmeno per un solo istante? E' così semplice saltare l'inferriata e svaligiare il vostro appartamento... Che stupidi che siete...". No, i vicini non avevano intenzione di salvarci. Eravamo condannati al collaudo della volontà. Dieci gradi sotto zero, e noi non avevamo né cappotto né cappello. I denti mi battevano. Anton si diresse all'estremità sinistra del balcone, dove il parapetto si saldava alla parete di cemento. Proprio lì si affacciava la finestra della grande stanza dove noi un momento prima eravamo seduti con Sonja. Anton saggiò il corrimano di metallo: era solidissimo, fermo. Anton lo scosse, con tutte le sue forze. Tutto andava come doveva andare. Io pensavo: "Siamo impazziti". Ma se in quel momento avessi voluto andarmene, non avrei potuto: le gambe non mi ubbidivano. In basso, come al solito, c'era tranquillità, silenzio, la neve, i marciapiedi neri, il cortile bianco, i tetti delle automobili. Ma tutto era a una distanza irraggiungibile. Raggiungere il cortile sottostante era come capitare su un altro pianeta. Là si poteva soltanto cadere. Anton scavalcò la ringhiera con una gamba, poi con l'altra e lentamente si mosse lungo il bordo del balcone tenendosi al corrimano, con la schiena rivolta al precipizio e il viso verso di noi. Metteva i piedi tra una sbarra e l'altra. In tal modo, muovendosi lateralmente e con molta lentezza, raggiunse il balcone dei vicini e tornò indietro. Nel frattempo canticchiava qualcosa, doveva essere la marcia dell'Aida. Noi gli andavamo dietro dall'altra parte della ringhiera, pronti a soccorrerlo in qualsiasi momento. Chissà come potevamo farlo! Raggiunta la parete, appoggiò il ginocchio nudo - era come sempre in calzoni corti - sul parapetto e, superata con la pancia la ringhiera, ricadde ai nostri piedi. Dopo Anton toccò a Chimius il quale non mancò di fare sfoggio di coraggio e, piegandosi un poco con le braccia tese, guardò in basso e sputò... E in quello stesso momento vidi alla finestra che dava sul balcone il viso di Sonja raggelato, stravolto dalla paura. Un istante dopo era fuori, sul balcone. Con la bocca aperta che non emetteva alcun suono, afferrò Chimius sotto le braccia e cominciò a tirarlo al di qua della ringhiera (Chimius raccontò poi che lo tirava con una forza sovrumana) continuando a muovere la bocca, come se volesse gridare, ma senza suono. Chimius ricadde all'indietro. Fummo spinti dentro la stanza. Eravamo tutti intirizziti, sporchi, imbrattati di ruggine, con le facce illividite. Sonja teneva stretto Vadºka Sfilatino per la mano e non lo lasciava, perché temeva che si liberasse e scavalcasse la ringhiera. Sussurrava come un automa: "Oh, sciocchi, sciocchi, sciocchi, sciocchi...". Sfilatino era accigliato e scontento. Sembrava che lo avessero offeso e gli avessero tolto qualcosa. Seppi poi come erano andate le cose. Sfilatino non aveva resistito e aveva raccontato qualcosa in segreto a Sonja, probabilmente quando era andato al bagno, le aveva consigliato di assistere a uno spettacolo divertente. Disgraziato fanfarone. Ma salvò Levka ¬sulepa, se stesso e me. Lui, lui ci salvò! Le mie gambe non valevano proprio niente. Quei "nessuno" che non sono né vigliacchi né temerari, né questo né quello, a volte salvano gli altri, quelli che hanno troppo di tutto. Lo odiai ancora di più. Brontolò contro Sonja e le disse qualcosa di cattivo. Poi Sonja svenne, noi ci spaventammo e telefonammo al medico...

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E dopo che cosa avvenne? Dopo, dopo e dopo ancora? Il palazzo si vuotò. I miei amici se ne andarono e scomparvero chissà dove. Tricheco, che aveva tanto sofferto per non aver potuto prendere parte al collaudo della volontà, non poteva camminare neppure sulla trave in palestra, scomparve chissà dove, prima degli altri. Quasi in quello stesso inverno. Avevamo avuto proprio una fretta inutile. I collaudi ci piombarono addosso molto presto, dall'esterno, senza che ci fosse bisogno di inventarli. Caddero giù come una pioggia fitta e greve, buttando a terra alcuni di noi, inzuppandone altri fino al midollo, affogandone altri dentro il diluvio. Ricordo la madre di Anton, in casa nostra, con il padre di Chimius e qualcun altro ancora, e tutti parlavano, chiusi nella stanza da pranzo, a me e ad Anton non era permesso presenziare. Tuttavia stavamo ad ascoltare. Alcune voci si sentivano molto bene, specialmente quando si accaloravano e gridavano. Sento ancora mio padre che dice forte, irritato: "Senta, si è rivolta a un medico?". E la voce della madre di Anton: "Perché?". "Forse vostro figlio non è del tutto normale" e la madre di Anton che scoppia a ridere: "Mio figlio? Che assurdità! Mio figlio è assolutamente, assolutamente normale!". Tutti parlavano tra il frastuono generale, e la madre di Anton continuava a ridere.

Durante quell'inverno in cui nella dacia di Bruskovo divampò l'amore di Glebov, nella sua casa al Derjuginskij si raggrumava la desolazione che accompagna la fine di ogni vita. La vita della famiglia di Glebov era alla fine: nonna Nila camminava a stento e faceva tutto al di sopra delle sue forze, il padre, dopo la morte della madre, era invecchiato, ingobbito, aveva una malattia che lo consumava e per di più aveva cominciato a bere. Tutto andava in sfacelo, la fine si avvicinava. Glebov non amava stare a casa. Il padre non gli faceva pena, perché quel vecchio taciturno e sciamannato non trovava il coraggio di accettare la fine con dignità, nutriva ancora delle speranze, faceva il furbo con la vita, sognando di riuscire a estorcerle alla fine qualche elemosina. Ci riuscì con zia Polja: dopo la morte della sorella, veniva più spesso a fare visita come si addice a una parente, aiutava nonna Nila e piano piano, semplicemente, prese posto nel letto dove dormiva la madre. Dove avrebbe potuto andare? Lo zio Volodja, dopo essere stato al nord, l'aveva lasciata, era andato a Ta¬skent e si era rifatto una famiglia. Glebov se ne disinteressava. Che facessero come volevano! Era occupato da altri sentimenti: il petto gli si stringeva, il sangue pulsava nelle tempie pensando ai cambiamenti che stavano per avvenire nel suo destino... Ma zia Polja aveva una figlia, Klavdija, alla quale tutto questo non piaceva. Non trovava scusanti né per la madre, né per il padre di Glebov. Jurka, il figlio di zia Polja, di due anni più anziano di Glebov, era morto in guerra, e Klavdija aveva una sua famiglia, un bambino, viveva bene e doveva essere contenta che la madre non era più sola e viveva con la nonna, alleviando la sua vecchiaia. Ma Klavdija aveva preso in odio sua madre. Quando arrivava al Derjuginskij sottolineava che veniva solo per far visita a nonna Nila. Con sua madre quasi non parlava, mentre con il padre di Glebov era dura, beffarda. Klavdija era come zio Volodja: alta, grossa, non bella. Chissà perché era considerata una brava persona. La stessa leggenda per cui zia Polja era una beltà. A Glebov urtava il tono sprezzante con cui Klavdija si rivolgeva al padre, che ne rimaneva sbigottito. Zia Polja diventava nervosa, si dava un gran da fare e diceva delle sciocchezze. Glebov con rabbia sentiva in Klavdija una struttura diversa, qualcosa di estraneo, una spiacevole crudeltà. Una volta disse a Glebov: "Mi meraviglio di te: come fai a mandar giù tutto con tranquillità? Hai un carattere unico".

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"In che senso?" chiese Glebov. "Come se fossi onnivoro. O forse si tratta di una sorprendente indifferenza." Glebov sorrise. "E che dovrei fare? Io sono un uomo adulto, loro sono persone adulte..." Guardava la cugina con un'espressione cattiva, sarcasticamente corrucciata e pensò: è meglio essere indifferente che cattivo. E disse ad alta voce: "Io non auguro loro niente di male". "Dio mio, e chi augura il male? Io, per esempio, soffro in silenzio e basta, per me è una tortura, e per te niente... Ecco che cosa mi sorprende..." "Un'altra cosa mi sorprende: come puoi odiare a tal punto tua madre? Da che cosa deriva tale spietatezza?" Klavdija si nascose il volto tra le mani e se ne andò. In seguito confessò a Glebov che sarebbe stata contenta di raddolcirsi e di perdonare alla madre, ma non ne aveva la forza, perché a causa sua aveva sofferto tutta la famiglia. La cosa era cominciata già prima della guerra. E si era trascinata per tutto lo sfollamento. Per questo motivo tutto era caduto a brandelli: zio Volodja non aveva più voluto vivere con Polja, e la madre di Glebov era morta di crepacuore. Glebov non l'aveva mai notato o, per meglio dire, non l'aveva capito. Klavdija, mentre raccontava, scoppiava ogni tanto in singhiozzi e cominciò a rimproverare se stessa, dicendo che era una sciocca, che non avrebbe dovuto dire queste cose a Glebov, che lui la perdonasse. "Adesso almeno potrai forse capirmi, - disse lei, ora piangendo, ora afferrando Glebov per la mano. - Sì, sono cattiva, sono infame, non avevo il diritto di dirti... Chi mi ha fatto parlare, sciagurata che sono!" Glebov era stupefatto, ma disse con calma: "E allora? Lo avevo indovinato. Non ne faccio colpa a zia Polja". "Ma io sì, - mormorò Klavdija e abbandonò la testa sul tavolo. - Io sì, io sì... Mi ha privato nello stesso tempo della madre e del padre." Glebov taceva, pensieroso. Certo, la scoperta era dolorosa, ma il peggio era già successo, e sentì soltanto un accresciuto desiderio di andarsene al più presto e di ricominciare per conto suo. Sonja aveva preso a frequentare la casa di Glebov. Voleva conoscere tutti i suoi parenti, li amava già in anticipo. Ma queste visite erano un tormento per Glebov. Sonja vedeva l'aspetto misero del padre, sentiva discorsi vuoti e adulatori, osservava la povertà, la ristrettezza. Un tempo, durante la scuola, tutto questo non lo turbava affatto, i suoi amici facevano a gara a venire da lui, ma adesso la propria casa gli diventava sempre più di peso, e in particolare temeva le perplessità che potevano nascere in Sonja riguardo alla zia Polja. Una volta Sonja comparve quando tutti erano a casa, ed era venuta persino Klavdija a far visita a nonna Nila, e aveva portato la frutta comprata al mercato. Era la fine di maggio, faceva caldo. Glebov presentò Sonja a Klavdija e la trascinò al più presto nella sua stanzetta, che adesso, grazie a Dio, era ben isolata dalla camera dove vivevano nonna Nila, il padre e dove passava la notte sul divano zia Polja, quando veniva ad "aiutare nelle faccende di casa". Mezz'ora dopo li chiamarono per il tè. Glebov ci andò malvolentieri, ma Sonja fu subito assorbita dalle nuove conoscenze: quella volta con Klavdija c'era Sveto¬cka, la figlia di quattro anni, che mostrò molto interesse per Sonja. Sonja e Sveto¬cka si piacquero subito a vicenda e si misero a cinguettare e a giocare, isolandosi dal resto della compagnia. Nel frattempo, nella stanza echeggiava una pesante discussione familiare, cosa che accadeva raramente (Klavdija evitava di attaccar briga in quella casa). Quella volta la situazione era precipitata quasi all'improvviso, e Klavdija non era riuscita a

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trattenersi. Motivo della lite era proprio la piccola Sveto¬cka che si doveva al più presto portare in campagna, fuori città. Guardando malvolentieri Sonja, che era capitata nel bel mezzo della discussione, Klavdija disse con voce dura, litigiosa: "No, devi dare una risposta precisa: andrai con Sveto¬cka o no? Se dici di no, allora parlerò con la zia di Kolja, ma non vorrei, perché non è in buona salute...". Zia Polja disse che avevano preso la dacia in un posto scomodo, lontano, e lei doveva andare tre volte la settimana a Mosca per lavoro. Lavorava in una cooperativa, faceva certe reti per le macchine. E poi come poteva lasciare nonna Nila senza aiuto? Klavdija si seccò. "Non scaricare la colpa su nonna Nila! La porteremo con noi nella dacia. Là starà ancora meglio." "Ma dove vuoi portare la nonna? Sei impazzita!" "E qui sta bene, vero?" "Ha bisogno dei medici, stupida! Dell'ospedale! Tu ti preoccupi di avere una balia, non la nonna. Ma lei la parte sua l'ha già fatta." Nonna Nila obiettò che non stava ancora male. Zia Polja chiedeva con tono di rimprovero perché non volevano mettere la bambina all'asilo, invece di trasformare tutta la dacia in un nido d'infanzia. E pensare che nella fabbrica di Klavdija l'asilo era molto buono, a quanto pareva. "Chi lo dice? Tu, basta che te ne sbarazzi! E si fa chiamare nonna! - Klavdija era su tutte le furie. - Signore, quante volte ho giurato di non rivolgermi più a lei..." Il padre borbottò qualcosa. Era impossibile comprendere le parole che masticava con quella bocca sdentata. Le donne bisticciavano non in maniera volgare, non a parolacce, ma certo in modo insopportabile, e soprattutto senza troppi complimenti nei confronti di Sonja. Klavdija accusava la madre di egoismo, diceva che alla bambina non ci pensavano, che si preoccupavano solo di se stessi. E che cosa si poteva fare? Non aveva nessuno con cui mandarla, avrebbero perso la caparra. Certo, se lo avesse saputo, avrebbe messo la bambina all'asilo, ma adesso era tardi. Zia Polja disse: "Ma perché non parli con tua madre? Sempre in silenzio, in silenzio, come un animale. Che cosa ti ho fatto?". Zia Polja si mise a piangere. Sonja a un tratto disse: "Volete che vi presti la nostra dacia? C'è annessa una casetta estiva, molto comoda, con l'elettricità e l'acqua. Vuoi venire con me, Sveto¬cka?". "Sì!" esclamò la bambina, facendo i salti. Ma nessuno fece caso alle parole di Sonja, come se non le avessero sentite. Continuavano a bisticciare. Il padre agitava la mano. "Non ti agitare, verrà, non scappa." La zia Polja, piangendo, scuoteva la testa. "Non posso andare così lontano... Io non voglio stare con lei, di me non vuole saperne..." Sonja sussurrò a Glebov: "Parla di Bruskovo... Si può arrangiare benissimo...". Klavdija all'improvviso si rivolse a Sonja: "Signorina, non si immischi nelle nostre faccende, per favore. Grazie per la proposta, ma la sua dacia non è per le nostre tasche e poi non è adatta". "Insolente! - disse Glebov. - Andiamo Sonja." Ritornarono nella stanza di Glebov, si sedettero sul letto, ricoperto di flanella ruvida. Glebov chiuse la porta e accese la lampada a muro con il paralume di carta che stava al capo del letto. Quante sere e quante notti aveva passato sotto quella lampada, sdraiato sul letto a leggere, a fantasticare. Appoggiò le spalle e la nuca alla parete di tavole (una delle sue posizioni sibaritiche, testimoniata dalla macchia d'unto lasciata dalla testa sulla carta da parato), e Sonja gli si sedette accanto, sprofondando nel vecchio letto, si strinse a lui, appoggiandogli la testa sul petto, e Glebov

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l'abbracciò con il braccio sinistro, mentre con la destra le accarezzava le cosce, facendo frusciare le calze. Sopra la calza c'era una striscia di pelle nuda. Dall'altra parte del tramezzo di legno proseguiva la monotona discussione. Si sentiva ogni parola. Glebov aveva paura che Klavdija dicesse qualcosa di terribile, di irreparabile, che Sonja non doveva sapere. Carezzava con il palmo della mano la striscia di fresca pelle che gli apparteneva ed era completamente a sua disposizione, e disse che sua cugina era boriosa, maleducata, aveva fatto solo sette classi e una scuola tecnica e che non avevano niente da dirle. Era operaia in una fabbrica di maglieria, e Kolja, il marito, era operatore nella stessa fabbrica. "Mi ha fatto pena quella donna... E' così esasperata, che fa male a vederla... - disse Sonja. - E anche tua zia mi fa pena, è buona e mi sembra bella... E la bambina, meravigliosa, ma deboluccia... Mi fanno tutti compassione, tutti, tutti! E' male, forse? Non bisogna?" "No, e perché? E' una cosa buona, e giusta", disse Glebov, continuando ad accarezzare la pelle al di sopra delle calze e, perché fosse più comodo per la mano, sbottonò il reggicalze e scostò la calza. Avrebbe potuto fare tutto quello che voleva. Sonja prese le dita della sua mano sinistra e le strinse sulle labbra. Le voci dall'altra parte del tramezzo non tacevano, Glebov ne era tra sé irritato e tuttavia provava un'enorme, tranquilla gioia: quella donna era così docile. E soprattutto era una donna fuori del comune. Lo aveva capito e se ne era persuaso, quando aveva ordinato alla propria mano di gustare il piacere di accarezzare la coscia a una donna fuori del comune, che apparteneva totalmente a lui. Passò l'estate. Arrivò per Glebov il quinto anno di corso, l'ultimo. Ed ecco che cosa accadde in autunno - era già freddo, mancava poco che nevicasse, forse era novembre - quando Glebov inseguiva la laurea con tutte le sue forze. Lo avevano invitato a passare alla sezione didattica. C'era un certo Druzjaev di recente nomina. Glebov lo conosceva appena. Gli domandò della laurea. Glebov stava scrivendo una tesi sul giornalismo russo degli anni ottanta. L'argomento era inesauribile, era stato sommerso dai materiali, dalle citazioni, da migliaia di pagine di giornali. Druzjaev gli faceva domande con cognizione di causa. E recitò persino una rara poesiola: "Pobedonoscev al Sinodo, Obedonoscev a Corte...". Si era forse preparato apposta per parlargli? Glebov guardava con stupore quell'uomo dalla faccia stanca e floscia che denotava uno scompenso cardiaco e, come spesso succede ai cardiopatici, dallo sguardo stranamente triste, languido. "Chissà perché - pensava - ha mandato un bidello in aula come per una chiamata urgente?" Druzjaev aveva la giacca da ufficiale e i pantaloni di un abito borghese, sotto i quali scricchiolavano in continuazione gli stivali. C'era nel suo aspetto un certa confusione. Lo scricchiolio e la tenuta burocratica non si accordavano con la tristezza degli occhi e con i discorsi sui redattori liberali, con l'allusione semisovversiva a proposito di Suvorin: "Aleksej Sergei¬c era, detto tra noi, un grosso talento, caspita!". Ma Glebov, mentre parlavano, si era fissato su di un particolare: non molto tempo prima Druzjaev era procuratore militare ed era stato congedato solo l'anno precedente. Si affacciò l'assistente ¬sirejko. Sporse la testa con gli occhiali, come dovesse subito fuggire, ma, vedendo Glebov, decise, chissà per quale motivo, di entrare. Andò verso il tavolo e si mise tranquillamente a sedere, con disinvoltura, come se fosse a casa sua. Glebov allora cominciò a capire: ¬sirejko a quel tempo faceva il gradasso, pur essendo ancora assistente. Al corso di Glebov teneva una esercitazione su Gorºkij, al posto di Astrug. Druzjaev chiese: "Il professore che vi ha guidato è Nikolaj Vasilºevi¬c Gan¬cuk?". Come nel gioco infantile "acqua-fuoco", Glebov capì a un tratto che

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qui c'era "focherello". Druzjaev non aveva detto "Gan¬cuk" che avrebbe avuto un suono secco e spiacevole, né Nikolaj Vasilºevi¬c, come era più naturale, se non addirittura "Nikvas" che era la forma più familiare ed amichevole, ed anche più consueta. Aveva scelto la forma completa, ufficiale, "Nikolaj Vasilºevi¬c Gan¬cuk", come quando assegnano un premio, o negli annunci funebri. Era del resto rispettosa e forse serviva a rendere un'impercettibile differenza tra l'autorità menzionata e tutto il resto. C'era stato con il professore un contatto reale? Non c'era alcun problema? Glebov confermò anche questo. Druzjaev trapassò Glebov con uno sguardo del tutto diverso, da procuratore; la sua infermità si era istantaneamente dileguata, si era raddrizzato e sembrava diventato più largo dentro la sua giacca. "Capisce, Glebov, si tratta di una cosa delicata... Per quale motivo l'ho invitata? Solo, vi prego, che resti entre nous, come dicono i francesi. Jurij Severºjani¬c è al corrente dei nostri problemi, - Druzjaev accennò a ¬sirejko, che ascoltava con attenzione, con espressione severa. - Perciò non si meravigli della sua presenza. Qui noi siamo tutti preoccupati. Sa che Nikolaj Vasilºevi¬c Gan¬cuk vi ha incluso nell'elenco dei laureati proposti per l'assistentato? Non lo sa? E' una novità? E per giunta piacevole, no? E poi è il vostro professore. E per di più lei è, per così dire, il suo futuro... genero, è vero? Scusatemi, l'informazione mi è arrivata. E io, come militare, sono abituato a fidarmi delle informazioni ricevute..." Druzjaev si afflosciò di nuovo, si indebolì e sorrise persino. Ma il sorriso non era rivolto a Glebov, bensì all'assistente ¬sirejko. Glebov emise dei suoni inarticolati e accennò vagamente di sì con la testa, e questo significava che non negava alcuni fatti. "Vede, Glebov, - continuò Druzjaev, - noi non siamo contrari al suo assistentato, né al fatto che Gan¬cuk l'abbia guidato nella preparazione della tesi. E poi, certamente, non siamo contrari a che lei si imparenti con il professore. E nemmeno abbiamo mai fatto obiezioni (io sono nuovo di qui, me lo hanno detto i colleghi, che la questione non è stata sollevata neppure una volta) contro il fatto che la moglie di Gan¬cuk, Julija Michajlovna Bruss lavori da noi alla cattedra di lingue e sia capogruppo. Vede: ogni cosa presa a sé va bene, ma tutte insieme è un po' troppo." "Ci puzza un pochettino! - disse duramente ¬sirejko. E aggiunse: - Dal punto di vista della moralità." Glebov chiese: "E allora? Quali sono le vostre proposte?". Aveva assunto persino un atteggiamento leggermente provocatorio, perché aveva capito di non essere il loro bersaglio. Cominciarono a spiegare che era difficile parlare con il vecchio, abituato a non subire critiche, che i suoi vecchi compagni si rifiutavano di discutere; era necessario che qualcuno glielo facesse capire. Altrimenti sarebbe stato tardi! La voce sarebbe giunta a chi di dovere. Non sarebbe stato disposto Glebov a parlarne con Gan¬cuk con calma, come un parente, descrivendogli la situazione? Che Gan¬cuk stesso scegliesse un altro professore, come relatore per la tesi di Glebov. Presentasse la domanda. Con le motivazioni che voleva. Era una sciocchezza, una formalità. Ecco, il gran segreto era tutto qui. E allora? Era d'accordo il compagno Glebov ad aiutare in primo luogo se stesso? A Glebov la faccenda sembrava straordinariamente semplice e chiara, perciò disse che era d'accordo. E da allora cominciò quella storia che gli causò confusione, fastidio e infine tormento. Se avesse saputo prima dove lo avrebbe portato quella storia! Ma Glebov non vedeva al di là del proprio naso. I complicati avvenimenti che si verificarono in seguito erano per lui un segreto dai sette sigilli. Del resto nessuno avrebbe potuto prevedere niente. E Druzjaev stesso, che con tanta audacia e astuzia aveva lanciato il primo guardingo assalto alla fortezza inespugnabile, non immaginava

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certo che proprio due anni più tardi egli, premuto da ogni parte e colpito da un attacco cardiaco, sarebbe stato inchiodato su una sedia vicino a una finestra sul cortile a scuotere le mani contorte, per spiegare stentatamente alla moglie che desiderava una sigaretta. E un anno dopo ancora, ormai assistente, Glebov avrebbe letto sul giornale un breve annuncio: "Con profondo rincrescimento... dopo grave e prolungata malattia...". Al funerale di Druzjaev c'erano solo sette-otto persone. Tutti erano stati sconvolti da ben altri recenti funerali (era il marzo del '53), ma la questione era un'altra: Druzjaev era scomparso altrettanto rapidamente di quanto era apparso. Era come se avesse una rapida missione da compiere. Era arrivato fulmineo, l'aveva compiuta ed era scomparso. In un primo momento, riflettendo sulla proposta di Druzjaev, a Glebov sembrò che fosse stata provocata dalla preoccupazione sul buon esito della sua tesi. Che ingenuità! Gli sembrava che la faccenda consistesse soltanto nel trovare uno disposto a firmare un lavoro seguito da Nikolaj Vasilºevi¬c. Una pura formalità, avevano paura di avere delle noie di tipo formale. Decise che la sera del giorno dopo, quando sarebbe andato da Sonja, avrebbe parlato con Gan¬cuk. C'era solo una cosa che lo lasciava perplesso, a cui non aveva pensato subito: come spiegare al vecchio la storia del "fidanzamento", a cui grossolanamente aveva alluso Druzjaev? Fra Glebov e Sonja tutto era stato deciso, ma ai genitori ancora non avevano rivelato niente. Si delineava una situazione assurda: riferire a Gan¬cuk delle decisioni così serie, in concomitanza con la proposta di Druzjaev, era così sciocco che, in qualunque forma avesse incominciato un simile discorso - Glebov subito lo sentì - sarebbe stato indelicato. Significava affrettare avvenimenti che dovevano svilupparsi in maniera piana, per il loro corso. Meglio tirarla per le lunghe, stendere un velo su tutta la storia. Forse se ne sarebbero dimenticati, oppure la faccenda si sarebbe sistemata da sé. Il suo principio preferito: lasciare che le cose "vadano per proprio conto". Il giorno dopo non andò da Sonja, né il seguente, né l'altro ancora. Non deliberatamente, vi erano dei motivi, delle preoccupazioni. Allora Glebov faceva qualche lavoretto per guadagnare, anche i più umili - spaccava la legna insieme a un amico nei depositi di legname oltre Moscova, e in quel periodo, alla vigilia dell'inverno, di lavoretti simili ce n'erano proprio tanti - ma sotto sotto era spinto dal desiderio di tirare per le lunghe quella cosa spiacevole. Forse sarebbe scomparsa. Ma non era scomparsa! ¬sirejko dopo il seminario gli chiese: "Ha parlato?". Glebov fece finta di non capire: "Con chi?". "Ma con il suo relatore, con il suo futuro suocero." "Ah, sì! Non ancora. Finora non gli ho parlato. Non ce n'è stata l'occasione." "Ma lei la cerchi l'occasione, per favore, - disse ¬sirejko, freddamente. - Dobbiamo iscriverla in qualche modo, da qualche parte." Il diavolo sa che cosa non si permetteva questo assistente! Glebov si allarmò: erano proprio irremovibili, e la cosa non sarebbe andata avanti "per proprio conto". Sonja lo chiamò al telefono. Che cosa era successo? Dove era andato a finire? Glebov spiegò: aveva guadagnato dei soldi. Sonja si preoccupò: "Non ti sei strapazzato troppo? Non ti sei fatto male?". La sera andò da lei e le raccontò tutto di Druzjaev e ¬sirejko. Non era possibile immaginare niente di più sciocco. Cosa pensava di ottenere? Sonja si smarrì, si rinchiuse in se stessa, disse solo: "Come vuoi, come ritieni necessario...". Allora notò per la prima volta quel suo sguardo pieno di stupore. "Forse non avrei dovuto parlartene" disse lui. "Forse sì, - e di nuovo lo guardò, sorridente e stupita. - E' una trappola. Al tuo posto io avrei risposto sai come?" "Come?"

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"Io avrei detto: sentite, è una cosa assolutamente indelicata. Non trovate che sia indelicata?" "Ho cercato di persuaderli" mentì lui. "Come l'hanno saputo? Perché ne parlano? - la voce di Sonja tremava, le spuntarono le lacrime agli occhi. Glebov tentò di abbracciarla, ma lei, leggera e flessibile, con una mossa civettuola e insolita, si scostò. - E quello che è successo tra noi riguarda solo noi due." "Onestamente, ero demoralizzato... Ho cercato di spiegare - borbottò Glebov, continuando a mentire, - che era una cosa indelicata..." "Glielo hai spiegato? Hai detto che sono pettegolezzi? - Sonja sorrise di nuovo. - Ti dico che è una grossa trappola! No, Dima, è un incubo. Non bisogna immischiare mio padre nei nostri rapporti. E anche la mamma ha avuto delle noie: l'ha chiamata Dorodnov e le ha detto che deve fare degli esami. Per ottenere una laurea sovietica e aver diritto a insegnare. Ha la laurea dell'università di Vienna. E insegna da venti anni. Ridicolo, vero? - Sonja lo prese per la mano. - Dima, voglio dirti che tu sei assolutamente libero. Fai come ritieni necessario. E, grazie a Dio, non c'è nessuna costrizione... Mi capisci?" Glebov annuì col capo. Dopo cena, Julija Michajlovna, oltremodo eccitata, raccontava della conversazione con Dorodnov. Di come Dorodnov era stato cortese ed amabile, come metteva le labbra a cuoricino, la chiamava "cara Julija Michajlovna" e presentava la cosa come se lui non c'entrasse affatto in quell'intrigo. Tutto sembrava dipendere solo da certe persone, da certi burocrati, senza né volto, né nome, che chiedevano l'adempimento di talune formalità. Ancora formalità! Dorodnov era dispiaciuto, si scusava. Ma quando Julija Michajlovna fece osservare che Sima, un'altra insegnante, aveva fatto un compendio della Dialettica della natura di Engels, eppure conosceva il tedesco molto peggio di lei, Dorodnov a un tratto fece gli occhi tondi e intrecciò le mani: "Julija Michajlovna, non negherà che la lingua è un fenomeno di classe?". Julija Michajlovna rideva nel raccontarlo. Anche Gan¬cuk rise, ma aggrottò anche le sopracciglia. A tavola non si parlò che di questa ridicola novità degli esami. C'era molta animazione, si facevano ipotesi, congetture, si rideva, Julija Michajlovna rivelò doti di attrice e si mise a fare il verso a Dorodnov, Kunik raccontò certe storielle accadute in istituto; la sorella di Julija Michajlovna, Elºfrida Michajlovna, zia Elly, come la chiamava Sonja, che non somigliava affatto alla sorella, una signora robusta e disinvolta, con i capelli ossigenati, accusava a voce alta e con indignazione il burocratismo. Elºfrida Michajlovna era giornalista, lavorava alla radio. Ricordò la frase di Lenin che la lotta al burocratismo avrebbe richiesto dei decenni. E che, per il successo di questa lotta, era necessaria la diffusione generalizzata dell'istruzione e della cultura, che il burocratismo è certamente un fenomeno di origine piccolo-borghese e questo non va dimenticato. In presenza di Gan¬cuk, zia Elly parlava con tono perentorio, categorico, come se il professore fosse lei e non lui. Quella donna non era simpatica a Glebov, forse perché sentiva di non essere simpatico a lei. Ripagava la gente della stessa moneta. In lei c'era dello snobismo. A volte non si accorgeva del suo saluto, oppure faceva appena un cenno con vile boria. Aveva il vezzo di interromperlo a tavola. Chi pretendeva di essere? Era una pubblicista fallita, che millantava di essere corrispondente dall'estero. Di zia Elly non gli garbava neppure il fatto che si considerasse l'eroina di famiglia: durante la guerra aveva lavorato per due settimane a Barcellona come corrispondente. Poi, non si sa bene perché, l'avevano richiamata. Probabilmente per stupidità. Zia Elly domandò: "Mi interesserebbe sapere di che estrazione è il vostro Dorodnov. Sono pronta a scommettere che non è di origine proletaria".

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Julija Michajlovna disse che non sapeva di che estrazione era Dorodnov, ma che di Druzjaev si sapeva con certezza che era figlio di un mugnaio. "Voilà! Si ammantano di frasi marxiste, ma gratta, gratta..." Gan¬cuk disse che non si illudessero. Dorodnov non era male quanto a estrazione, era di una famiglia di ferrovieri. Non è così semplice, care mie. "Non ti sbaglierai?", si incaponì zia Elly. Sul finire della cena si erano tutti piuttosto calmati, il ridicolo episodio con Dorodnov era stato esaurito, Julija Michajlovna e zia Elly si sedettero al piano e fecero una sonata a quattro mani. Gan¬cuk e Kunik andarono nello studio a lavorare. Sonja era cambiata completamente. Vedeva le cose diversamente dai parenti. Li prese in giro di nascosto. A un tratto dichiarò a Glebov a bassa voce: "E sai chi era il padre di mia madre? e di zia Elly? Era il figlio di un banchiere, rovinato per la verità...". Soltanto lei pareva trovare ridicolo il fatto che ridessero di Dorodnov, e nel suo sorriso c'era tristezza. Più tardi, quando uscì dalla camera di Sonja, passando attraverso la stanza da pranzo buia, vide le sorelle - una fragile, dalle gambe sottili, l'altra robusta, piena di boria, con la testa piccola come la donnina del copriteiera - alla finestra, abbracciate e coperte da un solo scialle, guardare le luci in basso, canticchiando in sordina e dondolandosi: era molto bello.

NOTE: (4) Carne di montone allo spiedo (n'd't'). (5) Batalºon aerodromnogo obslu¬zivanija: battaglione del servizioaeroportuale (n'd't'). (6) Tradizionali stivali di feltro dei contadini russi (n'd't').

E ancora mi ricordo quando ce ne andammo dalla casa sul lungofiume.Un ottobre piovoso, l'odore di naftalina e di polvere, il corridoiocon i libri affastellati, con i pacchi, le valigie, i sacchi e i cartocci. Bisognava portare tutta questa roba dal quarto piano fino in strada. I ragazzi erano venuti a darci una mano. Una persona chiese al portiere: "Di chi è questa roba?". Il portiere rispose: "Viene dal quarto". Non disse il cognome della famiglia, non fece nessun cenno a me che gli stavo accanto, anche se mi conosceva bene; disse semplicemente così: "Dal quarto". "E dove vanno?" "E chi lo sa. Da qualche parte, dicono in periferia." Avrebbe potuto chiedermelo, gli avrei risposto, ma non me lo chiese. Per lui già non esistevo più. Chi se ne andava da quella casa cessava di esistere. Soffrivo dalla vergogna. Mi sembrava vergognoso rovesciare per strada, davanti a tutti, le misere intimità della nostra vita! I mobili dell'enorme appartamento erano dello Stato, rimanevano tutti al loro posto. Il pianoforte l'avevamo venduto l'anno prima. Anche i tappeti avevamo venduto. Ma ero così abituato a quei tavoli, a quelle sedie con i numeri d'inventario sulla targhetta di metallo, alle pesanti poltrone e ai divani rivestiti di stoffa ruvida, che sapeva di disinfettante, alle porte con il vetro opaco e smerigliato, con il telaio sottile, alle carte da parati che, dopo aver tolto le fotografie, con quelle macchie di colore sbiadito, avevano assunto un aspetto piuttosto sporco e vuoto. Tutto questo era ancora quasi mio, ma già di altri. Ero in piedi indeciso davanti alla carta della Spagna. Prenderla o no? Sette mesi prima era caduta Madrid. Era finita quell'appassionante occupazione, le bandierine erano state tolte. "Prendila, - disse Anton. - Ci potrà ancora essere utile." "Dalla a me", disse Vadºka Sfilatino che era comparso senza essere invitato. Andava sempre appresso ad Anton, come il pesce-guida dietro lo squalo. Venne la nonna e disse: "Se non la prendi, ci avvolgo il tritacarne". La presi. Staccai le puntine, tolsi la carta e la piegai in otto, così che diventò un gonfio fascicoletto, che si poteva mettere nelle tasche del cappotto. Questa carta è rimasta fino a ora

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nel palchetto dei miei libri. Sono passati molti anni, non l'ho aperta neppure una volta. Ma il fatto che abbia assorbito in se stessa tante sofferenze e tante passioni, sia pure infantili, non può essere annullato del tutto. A qualcuno tutto questo dovrà servire. Allora, sotto la pioggerella, attorno a quel bailamme ammucchiato, in attesa del camion... "E l'appartamento - domandò Sfilatino - dove andrete ad abitare, com'è?" "Non lo so" dissi. Invece lo sapevo, la nonna aveva detto che era un posto molto bello, accanto a un parco, che c'era molto verde, un'aria meravigliosa. Purtroppo, certo, la nonna era lontana da dove lavorava. Prima il tram fino alla periferia, poi l'autobus, in tutto circa un'ora. Ma la cosa buona, diceva la nonna, era che in tram e in autobus doveva salire al capolinea, nelle vetture vuote. Avremmo abitato una piccola stanza in un appartamento comune, una stanza al sole, sul cortile. "Una camera molto bella!" diceva la nonna. Non avevo voglia di raccontare tutto questo a Sfilatino. Non ero nello stato d'animo di parlare con lui. Se avesse saputo che peso avevo nell'anima! Arrivavano, facevano gli scemi, scherzavano, aiutavano a portare i pacchi, di ottimo umore, e non immaginavano che ci vedevamo forse per l'ultima volta. Per loro era secondario, restavano insieme. Ma io andavo verso una vita sconosciuta, fra persone sconosciute. Dove potevo incontrare compagni come questi: geniali come Anton, spiritosi come Chimius e buoni come Jarik? E la cosa più importante, la più assolutamente importante e segreta: dove avrei incontrato una persona come Sonja? Naturalmente in nessuna parte del mondo. Sarebbe stato persino inutile cercare e sperare. Certo, c'erano forse delle ragazze più belle di Sonja, dalle lunghe trecce, dagli occhi azzurri, dalle ciglia straordinarie, ma tutte queste erano sciocchezze. Quelle ragazze non erano degne di lustrarle le scarpe. Passarono i minuti, era l'imbrunire, stava per arrivare il camion, e Sonja non c'era. Eppure lo sapevano tutti che oggi ci saremmo separati. Almeno per un secondo, almeno da lassù, da lontano... Invece no, no, no. Sfilatino domandò: "Quante camere? Tre, quattro?". "Una", dico io. "E senza ascensore? Dovrete salire a piedi?" Godeva tanto nel fare domande che non riusciva a nascondere un sorriso. A un tratto la vidi apparire in fondo al cortile, sotto l'arco di cemento. Svelta svelta, fece di corsa il giro del cortile nero e umido e arrivò all'ingresso. Si avvicinò, chiese, ansante: "Ancora non siete andati via? Bene! Questo è per te... per ricordo...", e mi porse qualcosa che somigliava a un libro incartato in un giornale. Guardava allegra, non me, ma tutti, tutti. Una scacchiera da viaggio. Con i fori per inserirvi le pedine. Ne avevo visti di simili a casa sua. Ma in quel momento niente mi rallegrava. Ci stavamo separando. Per tutta la vita, per sempre! Perché non capivano come era terribile; per sempre!? Non riuscivo a pronunciare neppure una parola, guardavo quel pallido viso un po' lentigginoso, vedevo che sorrideva con le labbra buone, con lo sguardo buono degli occhi miopi, in cui non c'era altro che una allegra serenità, la simpatia, il calore, per tutti... "Allora, arrivederci" dissi, tendendole la mano. Era arrivato il camion. Mi chiamarono. La nonna si dava un gran da fare, era nervosa. Cacciammo tutta la roba sul camion. La nonna si sedette accanto all'autista, io e mia sorella scavalcammo il bordo e ci issammo sopra i pacchi. Mia sorella teneva stretto a sé il gatto Barsik. La pioggia, grazie al cielo, continuava a cadere, perciò il cortile era vuoto, nessuno vedeva che ce ne andavamo via. Soltanto il portiere con il suo berretto nero era uscito dal portone, stava con le mani dietro la schiena a guardare non me, non mia sorella, ma il camion. Fece appena un cenno: forse ci salutava, forse gli era venuta in mente qualcosa e rivolgeva quel cenno a se stesso o forse era

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contento che finalmente ce ne andavamo. E scomparve a poco a poco il cortile asfaltato, nero per la pioggia, dove era trascorsa la mia vita. E vedevo i compagni di questa vita che spariva agitare le mani, i loro volti non sembravano allegri, ma non erano neppure molto tristi, e la ragazza sorrideva a qualcuno. Lo indovinai, stava sorridendo a uno, per amore del quale era venuta a salutarmi.

Era come al bivio delle favole: se vai diritto, perdi la testa, se vai a sinistra, perdi il cavallo, e a destra c'è qualche altra disgrazia. Del resto in certe favole si dice: a destra andrai e un tesoro troverai. Glebov apparteneva a una particolare razza di eroi: era pronto ad arrestarsi al bivio fino all'ultima possibilità, fino a quell'attimo finale, in cui si cade morti dalla spossatezza. Un eroe temporeggiatore, un eroe che la fa lunga. Di quelli che da soli non prendono nessuna decisione, ma lasciano che la prenda il cavallo. Era forse una pigra leggerezza, la speranza di una "curva che cava d'impiccio", oppure perplessità di fronte alla vita, che incessantemente, giorno dopo giorno, ti fa sbattere il muso in grandi e piccoli bivi. Adesso che sono passati tanti anni sono evidenti, come i segni nel palmo della mano, tutte le strade e i viottoli che si ramificano da quel nebbioso, lontano e dimenticato crocevia, appare un disegno strano e semivisibile, che a quell'epoca non si poteva indovinare. E' così che nella sabbia del deserto si scoprono le città morte da tempo e nascoste sotto le dune: dai contorni, visibili solo da grandi altezze, dall'aereo. Molte cose sono state velate dalla sabbia, coperte irrimediabilmente. Ma quello che allora appariva evidente e semplice, ora si manifesta di colpo sotto un nuovo punto di vista, è visibile lo scheletro delle azioni, il loro disegno osseo: è il disegno della paura. Che cosa c'era da temere in quella fase di miope giovinezza? E' impossibile capire, non si può trovare una spiegazione. Nemmeno in trenta anni di scavi si è approdati a nulla. Ma lo scheletro è apparso... Avevano fatto rotolare una botte contro Gan¬cuk. E nient'altro. Assolutamente niente! E la paura - del tutto insignificante, cieca, informe, come una creatura che nasce e vive nel buio - la paura non si sa di che, che si manifestava nonostante tutto, che si presentava a dispetto di tutto. Ed era così profonda, dietro tanti tramezzi e strati spessi, che non assomigliava a niente altro. Forse solo incomprensione, solo mancanza di amore, solo sciocca leggerezza. Levka ¬sulepnikov nell'intervallo di una partita di hockey allo stadio, dove Glebov era andato appositamente per incontrarlo ("Ti ho spifferato tutto, canaglia, così adesso aiutami, consigliami"), disse a un tratto con cattiveria: "Ma a te Gan¬cuk non ti serve affatto!". "Perché non mi serve?" E da qualche parte, in fondo, sotto sotto, già si muoveva il dubbio. Certo che non serviva. ¬sulepnikov trinciava giudizi: "E perché non ti serve che te lo dico! Ascoltami, tanghero!". Ma Glebov si rifiutò di ascoltarlo. Aveva cercato Levka per sapere qualcosa, e ora non voleva sapere. Ecco da che cosa era infastidito e cosa gli sembrava infinitamente più importante di tutto: può un uomo sapere esattamente di se stesso se è innamorato o no? Chissà perché di un'altra persona lo si sapeva con sicurezza: è innamorata. C'era la sicurezza. Ma di se stesso? Questo era necessario capire, era di importanza vitale, perché si trovava al bivio. Talvolta sembrava che fosse un legame autentico, qualcosa di serio, senza inganni, gli sembrava di spasimare se non la vedeva per qualche giorno, ma a volte si accorgeva con sorpresa che non aveva pensato a lei per un'intera serata. E, quando all'improvviso si ricordava di lei, si sentiva pungere dal rimorso, come uno scolaretto. "Perché mi comporto così? Non è bello!" E subito poteva essere assalito da una voglia matta di vederla al più presto, e allora telefonava in fretta, si accordava con lei, escogitava come organizzare un appuntamento. Quell'inverno era comparso

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all'improvviso Pavlik Dembo, un tecnico cinematografico che gli forniva le chiavi del suo appartamento nel vicolo Charitonºev. Andare a Bruskovo per incontrarsi, cosa che richiedeva tanta fatica e tanto tempo, non era più indispensabile. Di sicuro di andare a Bruskovo in questo secondo inverno Glebov non aveva voglia. Era sempre terribilmente pesante andare e venire. Ci voleva quasi sempre tutta la giornata e spesso anche la notte. Mentre al Charitonºev era una faccenda di due ore. Certo a Bruskovo era tutta un'altra cosa. Non era tormentato da dubbi. Al Charitonºev, nella lurida, buia stanza di Pavlik, dove c'era sempre odore di mangiare, di bor¬s¬c (7) (di sotto c'era una mensa, l'odore filtrava dalle tavole del pavimento, e, quando nella mensa si mettevano a distruggere gli scarafaggi, c'era puzzo di disinfettante e c'era pericolo di un'invasione), in quella tana da scapolo Glebov provò i primi assalti della sfiducia, dell'incomprensione di se stesso, o, per dirla più semplicemente, della tristezza che segue l'amore. A un tratto gli diventavano sgradevoli le carezze, il contatto, persino le semplici parole: si scostava, diventava tetro. Era una cosa del tutto involontaria, lo afferrava contro la propria volontà! Pensava con tristezza: "Ma può scomparire così l'amore, in un attimo? Vuol dire che questo non è amore. E' qualcos'altro". Certo, era uno stupido, un ragazzetto, ma quando era alle prese con qualcosa di importante, quando cercava di farla venire in luce, non era stupido. Chi si sta a tormentare sulla verità del proprio amore? La maggior parte della gente cerca di osservarlo negli altri. Glebov invece si incaponiva a indagare su se stesso, poiché, pur non sapendolo per esperienza, intuiva o aveva letto in qualche buon libro che non c'è nulla di più perfido di un'unione fondata su di un falso amore. Avrebbe significato infelicità, insipido e monotono tran-tran, che non puoi chiamare neppure vita. Allora, come sapere fino in fondo? Lo preoccupava una cosa segreta, vergognosa. Al Charitonºev a volte non era bello come a Bruskovo. A volte non arrivava fino in fondo. Nonostante lunghi, estenuanti tentativi. Sonja non capiva cosa gli succedeva, per poco non piangeva di compassione per lui. Le sembrava di essere lei la colpevole. Si dava sempre la colpa di tutto. "Tu hai bisogno di un'altra donna!" Glebov sosteneva di no, ma nel profondo pensava che forse Sonja aveva ragione... O forse no! C'erano anche altri momenti al vicolo Charitonºev. E c'era qualcosa di cui non si poteva dubitare: l'amore di lei, la sua bontà. Povero imbecille, quelle doti gli parevano poco. E c'era anche un'altra dote: l'incapacità di nascondere i pensieri, i sentimenti, i moti dell'animo. Oh, con gli altri Sonja sapeva giocare d'astuzia! Ma solo per godere con lui di un'implacabile sincerità. Una volta gli raccontò come con Kunik stessero per perdere la testa e come lei lo avesse mortificato. Sonja aveva diciotto anni. Era d'estate, a Bruskovo, alla fine della guerra, il treno funzionava irregolarmente, ed era rimasta sola con Kunik nella dacia. Di notte ci fu un temporale, i fulmini cadevano vicini, tutto tremava, nella veranda si ruppero i vetri e ci fu un'inondazione. Sonja aveva paura del temporale, diventava come pazza, e fu proprio in quello stato di confusione mentale che si precipitò nella camera di lui: Kunik dormiva, era un po' sordo, non aveva sentito i tuoni, si mise a calmarla, l'avvolse bene nella coperta, la fece sdraiare nel letto e a quel punto fu lui a uscire di senno. Attraverso il terrore che la faceva tremare come per i brividi, Sonja a un tratto capì che quell'uomo era impazzito. Balbettava delle sciocchezze, sempre le stesse: "Tua madre e mia madre...". Sonja non aveva la forza di gridare, di muovere un dito, il frastuono del temporale l'aveva paralizzata, e Kunik non aveva la forza di lottare contro se stesso. Si piegò e si sdraiò a terra. Si avvicinava, strisciando carponi sul pavimento voleva arrampicarsi sul letto. Come in un sogno opprimente, in cui ogni movimento richiede uno sforzo incredibile. Quando ormai

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le respirava accanto e la stava abbracciando, Sonja lo respinse, Kunik fece un volo sul pavimento e in silenzio strisciò via come un cane bastonato. E' un tormento indicibile quello che si prova dopo aver colpito il viso di una persona! Tanto più quello di una persona buona, debole, legata da amicizia, la cui unica colpa è quella di essere uscita di senno. Sonja soffriva, non sapeva che fare, come riparare a quell'orrore. E Kunik, da parte sua, che cosa doveva provare? Per compassione di lui e per placare i rimorsi di coscienza era pronta a tutto... Ma naturalmente né la mattina dopo, né in seguito parlarono più di quella notte, come se non ci fosse stata mai. "Perché non dici niente?", chiese Sonja e si mise a baciare Glebov. Egli taceva, colpito dal racconto, ma non tanto da parlarne. "E che cosa dovrei fare? Sfidarlo a duello?" Sonja a un tratto cominciò a piangere sommessamente, quasi sorridendo: "No, no! Mai, per carità... Solo che io non lo avevo mai raccontato a nessuno, a te soltanto...". Per lei, parlare di questo - anche se era un'inezia, perché non era successo niente - rappresentava un'impresa eroica, un atto di espiazione. Non voleva nascondergli neppure un briciolo del suo passato. E poi che c'era da nascondere! Non c'era da nascondere proprio nulla in ventitré anni, le amicizie quasi infantili, le sofferenze altrui, le enigmatiche esperienze delle amiche che cercavano di renderla partecipe e di chiederle consigli. E lei consigliava. Ma quando era capitato a lei, era stata zitta, non aveva fatto parola con nessuno. Le amiche dello stesso corso che una volta erano abbarbicate a quella casa, a quel chiasso, alla sua bontà, alle torte che provenivano dal fornitore dell'università, erano svanite. Nessuna le era più necessaria. E non per durezza, per gelosia o per egoismo, ma solo perché tutta la sua esistenza era piena di lui, non c'era posto per nessun altro. Era forse possibile rendere infelice una ragazza come quella? Su di lei stava una terribile minaccia l'amore senza amore... Ma al di sopra di tutto questo groviglio che gli tormentava l'anima - allora era invisibile, ma ormai ne aveva individuato il disegno - brillava in segreto un piccolo invisibile scheletro, lo spettro della paura. Ecco la verità. Ma questo lo scoprì in seguito. Passarono i decenni, e, quando ormai tutto è stato messo via, sepolto, e non c'è più niente da capire, quando si chiede una riesumazione e non c'è nessuno che stia a occuparsi di questo scavo d'oltretomba, improvvisamente dall'oscurità, grigio come l'ardesia, viene fuori uno scheletro, quello spettro. Gli dissero: "Giovedì devi venire e intervenire!". Comprese all'istante e stava per raccontare una fandonia, che per esempio qualcuno a casa sua era malato, quando lo fecero desistere tre parole: era più che obbligatorio. Allora comprese che stava facendo un errore, non bisognava negarsi in anticipo adducendo la malattia di qualcuno, poiché - se era più che obbligatorio - avrebbero preso delle misure, avrebbero fatto venire dei parenti, un'infermiera; se invece la malattia, mettiamo, gli fosse scoppiata all'improvviso, il mercoledì... Allora era impossibile rimediare. Disse che ci sarebbe andato immancabilmente, sebbene non vi credesse neppure per un istante. Anzi, in linea di massima, lo escludeva del tutto. "Lei non deve semplicemente andarci, ma intervenire! - era stato rettificato con durezza. - Ripetere, se non altro, quello che ha detto a noi. Non le si richiede niente di grave... Solo alcuni dettagli, ma è necessario... altrimenti non si combina niente..." Quella frase si era ficcata nella sua coscienza come un chiodo. Ci rifletté per molte ore, la ripeté mentalmente con la stessa intonazione che aveva usato Druzjaev, cercò di capire se era una minaccia o una constatazione, se si riferiva a lui, a Gan¬cuk o alla segreteria. Cosa si doveva "combinare"? Alcuni giorni prima, nella conversazione con Druzjaev e ¬sirejko - erano loro a spingere la

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botte, gli altri docenti si sottomettevano senza convinzione o tutt'al più borbottavano tra di loro - gli era sfuggito qualcosa a proposito dei poveri busti che stavano sulla libreria nello studio di Gan¬cuk. Druzjaev gli chiese in tono bonario e con un sorriso affabile: "Vadim, ci descriva, se le è possibile, lo studio di Nikolaj Vasilºevi¬c, per favore. Che libri ha, che quadri, che fotografie ci sono alle pareti?". Era una specie di perquisizione verbale, un ritratto verbale. Glebov decise di non nominare certi libri e certe fotografie che gli si erano impresse, per esempio la fotografia di Gan¬cuk insieme con Demºjan Bednyj durante la guerra civile, entrambi con l'elmo alla Budennyj e la fotografia di Lozovskij con dedica. A quel tempo Lozovskij aveva ancora le carte perfettamente in regola, ma Glebov fu cauto. Invece, dei piccoli busti che stavano come soldati sotto il soffitto, parlò come di un particolare di poco conto, quasi come un aneddoto. Ma l'assistente ¬sirejko si fece serio e domandò con tono duro: "Mi interesserebbe sapere quali filosofi tiene il professor Gan¬cuk sulla sua libreria". Glebov non li ricordava tutti, ce n'erano sette o otto. Nominò Platone, Aristotele e anche, gli sembrava, Kant o Schopenhauer, qualcuno dei tedeschi. "E non vi ricordate qualche filosofo di indirizzo materialista?" Glebov cercò di ricordare. Gli sembrava che ci fosse anche Spinoza, ma non ne era sicuro. "Certo, Baruch Spinoza! Si capisce, - disse ¬sirejko. - Ma Spinoza non è un vero materialista. E gli antichi materialisti, Democrito, Eraclito, non si ricorda? E i francesi? E Hegel? Ludwig Feuerbach?" Glebov capì d'un tratto che era stato sciocco a cacciarsi in quella faccenda, potevano tirarne fuori chissà che diavolo, perciò si mise a dire che non se ne ricordava, che non sapeva. Forse sì. Mi sembra di sì... Poi gli chiesero come veniva seguita la sua tesi, quali consigli, quali osservazioni, quali indicazioni gli venivano date. Non c'era nella sua metodologia l'eco di vecchi errori? In particolare, per esempio, della teoria di Pereverzev? Glebov negò con fermezza. Ma quelli insistettero. Sottovalutava la lotta di classe? Sopravvalutava il subconscio? Era un menscevico mascherato? Dalle trappole che cercavano di mettergli davanti Glebov si difendeva convulsamente, ma comprendeva che, se gliele avevano già messe, avrebbe dovuto capitolare. Insieme al professore. Ma sì, quando uno desidera ardentemente ricevere una certa risposta, diventa difficile non venirgli incontro di un mezzo passo, non tirar fuori un sia pur piccolo elemento. "Glebov, lei si sta contraddicendo. Appena adesso ha detto..." "Certo, in qualche misura... in minima parte... Io non ci avevo fatto caso..." Nel congedarsi Druzjaev, quasi per scherzo, sogghignando - in tutto quel tempo aveva aggrottato le sopracciglia, come un procuratore, o aveva sorriso e fatto dei mugolii, mentre ¬sirejko, senza desistere neppure per un attimo, lo martellava con uno sguardo d'acciaio - gli chiese nell'interesse dell'amicizia, di informarsi meglio sui busti, cercando di scoprire chi c'era esattamente. Glebov promise, pensando tra sé: che sciocchezza! Una gran cretineria. Che cosa vogliono cavare da quei busti? Era un problema stupidissimo, evidentemente, se si attaccavano a un simile "fuflo". "Fuflo" era una paroletta di Pa¬sa Dembo, tratta dal gergo dei giocatori, che indicava una cosa da nulla, una sciocchezza. ¬sirejko, a un tratto, con voce severa, disse: "Mi permetta di dissentire da lei, Vikentij Vladimirovi¬c. Non nell'interesse dell'amicizia, ma in quello della verità è necessario sapere chi sono i suoi veri idoli. Qui non si tratta di oziosa curiosità, ma di una questione di fondo". E Druzjaev, il capo della sezione didattica, chissà perché non stava tranquillo e si dimenava continuamente davanti all'assistente: "No, no! Certamente, Jurij Severºjani¬c! Condivido appieno...". Glebov si spaventò e nello stesso tempo gli venne da ridere. Idoli! Era una fesseria, e ne parlavano come di una cosa seria. Erano

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vent'anni che non levavano la polvere da quegli idoli. Stavano là, nel punto più alto e non si riusciva a capire chi fossero. Va bene, se la cosa li interessava tanto, avrebbe cercato di sapere Poi ci fu il tè a casa di Gan¬cuk. Il vecchio domandò con un fil di voce se era vero quello che dicevano al rettorato, che lui, Glebov, voleva cambiare relatore. "Che cosa, che cosa? - chiese ripetutamente Julija Michajlovna, sbalordita. - Dima vuole cambiare relatore? Cioè non ti vuole più? Straordinario!" E scoppiò a ridere. "Questo fatto ha divertito anche me." "Soprattutto ha scelto il momento opportuno." "Sì, il momento non poteva essere migliore. A proposito, sabato o domenica apparirà un articolo di ¬sirejko (tu non lo conosci, è un nostro assistente, un avventuriero) dal titolo Mancanza di princìpi come principio. I miei me l'hanno fatto sapere. E' un'intera colonna." "Su chi è?" Julija Michajlovna con un'espressione di terrore si coprì la bocca con la mano. "Non è solo su di me, ma io sono la pedina principale, come la regina degli scacchi! Sarei una pedina artificialmente gonfiata e, cosa peggiore, senza principi..." "Ahi..." gemette Julija Michajlovna. Sonja, pallida, divorava con gli occhi Glebov, e Glebov era impietrito, non riusciva né a muoversi, né a dire una parola. "Non conosco i particolari, io non l'ho letto. C'è qualcosa a proposito del mio ineliminabile menscevismo, cosa che mi ha sorpreso assai, perché io ho lottato tutta la vita contro il menscevismo. C'è un'incongruenza. Si sarebbe dovuta esaminare un po' più da vicino la mia biografia. Ma in generale, nel complesso..." "Perché non dice niente, Dima?" esclamò Julija Michajlovna e batté la mano sul tavolo. "Io non so... che parli Sonja..." borbottò Glebov, alzandosi da tavola. Andò in camera di Sonja, quasi di corsa. Sonja mancò a lungo. Glebov camminava per la stanza da un angolo all'altro, da uno scaffale all'altro, fumando furiosamente, imprecando contro se stesso perché non si era spiegato con Gan¬cuk per tempo, pieno di rabbia contro Druzjaev. Quella porcheria - rivelare l'affare dell'articolo a Gan¬cuk, che non aveva sospetti - l'avevano fatta apposta. Per spingere lui, Glebov, a una decisione e nello stesso tempo per fargli troncare i suoi rapporti con Gan¬cuk. E se non avesse abboccato? Si sarebbero appoggiati a qualcun altro, avrebbero afferrato qualche altra occasione? In base a che cosa? Chi dava loro il diritto? Sonja entrò di corsa, gli si gettò addosso. "Dima! Hai una brutta cera! - con impeto gli mise una mano sulla spalla. Era un gesto di incoraggiamento da studenti, da ragazzi. - Come ti senti? Sei pallido. Io ho spiegato tutto, tutto..." Lo guardava spaventata, e Glebov era colpito dall'aspetto di lei, dal suo smorto pallore e dal tremolio della mano appoggiata sulla sua spalla. "Papà ha capito subito. Mamma dapprima non ha capito, poi ha capito anche lei e ha detto: "Allora forse lui ha ragione..."." "Che cosa hai detto? Hai parlato di noi?" "Sì, ho detto tutto. Anche di quella conversazione, di quell'infame trappola, e che tu mi hai chiesto consiglio, ma io non ho potuto - no, non ho voluto - dartene nessuno..." Poi comparve Gan¬cuk, rosso in viso e un po' frastornato. "Ho capito, non fa niente... D'altronde non starò a discutere, comprendere è perdonare... Ma a tempo debito si sarebbe dovuto parlare di queste cose..." Abbracciò Glebov e gli dette una pacca sulla spalla. Sonja si asciugò gli occhi, erano tutti e tre confusi. Ma ognuno a suo modo. Gan¬cuk propose di bere un bicchiere di cahors (8), egli teneva

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sempre una bottiglia di questa bevanda stucchevolmente dolce, diceva che suo nonno, il padre della povera mamma, un pope di campagna, amava questo vino chiamato ecclesiastico e ne aveva trasmessa la predilezione alla mamma, cosicché il cahors gli ricordava la sua infanzia, una remota viuzza di ¬cernigov, l'odore del comò, dei pavimenti di legno, il muggito delle vacche alla sera, le dalie gialle sotto la finestra. Glebov, anche se non poteva soffrire quella schifezza, naturalmente accettò. Tornarono nella sala grande, dissero a Julija Michajlovna, la quale stava maldestramente sparecchiando la tavola dopo il tè - Vasena andava a dormire presto, i pasti serali avvenivano senza di lei - che tutti volevano subito bere del cahors, al che Julija Michajlovna, senza interrompere le faccende, rispose che aveva un fortissimo Kopfschmerz. Poi se ne andò, con il vassoio pieno di stoviglie sporche, e non ricomparve più. Forse aveva davvero il Kopfschmerz. A Glebov non rivolse neppure una volta lo sguardo, ed era strano, era come se Sonja non le avesse detto niente e lei non sapesse niente. Gan¬cuk spiegò - come a uno dei suoi, ormai - che cosa aveva scatenato questa campagna contro di lui. Che prendesse questa piega non se l'aspettava nessuno. Certo, il motivo era che aveva difeso Astrug, Rodi¬cevskij e qualcun altro, che erano stati criticati in una forma inammissibile. Quando delle persone venivano ingiustamente umiliate, egli non poteva starsene da una parte e tacere. E Dorodnov - bisognava tenere bene a mente che era lui il motore di questa macchinazione, gli altri erano solo pulegge e rotelle - contava per l'appunto sul fatto che egli avrebbe conservato il silenzio come appartenente all'Olimpo. All'Olimpo apparteneva davvero, era membro corrispondente! Ma non aveva saputo trattenersi. Del resto, contavano appunto di provocarlo. Si era immischiato nell'affare, aveva scritto delle lettere, era andato da chi di dovere... In una parola, era scoppiata la guerra... E come poteva essere diversamente? Boris Astrug era suo allievo, Rodi¬cevskij era un grande talento, per grazia di Dio... Non sperava di riammetterli al lavoro, ed essi ormai non sarebbero più tornati, ma voleva almeno togliere loro il marchio d'infamia di leccapiedi, senza patria, opportunisti, una vera feccia. Boris Astrug aveva fatto tutta la guerra come ufficiale, aveva ottenuto l'onorificenza al merito, altro che leccapiedi! Certo, di errori Astrug ne aveva fatti, per esempio, nel libro su Gorºkij c'erano dei lapsus metodologici, ma chi non ne ha fatti? Lo stesso Dorodnov aveva collezionato tali assurdità nel suo libro sul romanticismo! Era un libro assolutamente vuoto. Rabberciato alla meglio. Eppure non aveva avuto nemici. Egli sapeva che cosa significa fare a pezzi i nemici. La mano non gli tremava quando la rivoluzione gli ordinava: colpisci! A ¬cernigov prima che iniziasse gli studi, aveva lavorato nel reparto speciale della ¬ceka locale. Il nome Gan¬cuk aveva un suono terrificante per i nemici. Perché non aveva né esitazione, né compassione. E quando una volta il padre ammalato, ormai grave, raccomandò un certo pope sospettato di avere dei legami con una banda controrivoluzionaria, Gan¬cuk si oppose recisamente: quell'avversario doveva essere schiacciato insieme con i banditi, era un lupo con la pelle di agnello, aveva sulla coscienza il sangue dell'esercito rosso. Con il padre litigò fino alla fine. Ecco come si risolvevano allora le questioni: e adesso? chi stava per essere annientato dal compagno Dorodnov? C'erano delle cause molto più profonde. E di nuovo colpiva la genialità di Marx che in ogni fenomeno, in ogni fatto della vita sapeva vedere l'essenza dialettica e classista. "Proprio questo, caro Dima, deve capire, per tenere i piedi saldi. Negli anni venti Dorodnov subì un duro colpo, era un compagno di strada, un senza partito, scriveva varia robetta sull'apocalisse del nostro tempo, insomma, era un tipico elemento piccolo-borghese, appena camuffato, secondo lo spirito dei tempi, quando si moltiplicavano le case editrici in cooperativa e private, i

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gruppuscoli, i giornaletti dai programmi incomprensibili, e allora noi gli abbiamo dato addosso. Riuscì a sgattaiolare, mutò colore, come molti, per riemergere ora in una nuova veste. E' una barzelletta: mi dà lezione di marxismo! Un immaturo ginnasiale che nasconde una mentalità fra il conservatore e l'anarchico mi accusa di sottovalutare il ruolo della lotta di classe... Che ringrazi Iddio di non essermi capitato tra le mani negli anni venti: l'avrei schiacciato come un controrivoluzionario. Ecco l'errore fondamentale: non aver schiacciato fino in fondo gli elementi piccolo-borghesi. Adesso che l'ordine si è ristabilito, che dopo la grande prova è arrivato il tempo della mietitura, essi sono strisciati fuori dalle varie tane, sotto vari aspetti, loro, gli scampati... Naturalmente si mostrano ancora più rivoluzionari, sfoggiano citazioni di Marx e di Lenin, si presentano come costruttori di un nuovo mondo, ma la loro sostanza, il loro fetido spirito borghese, risbuca fuori. Colpiscono, arraffano, si impinguano, si organizzano e fanno i conti con coloro che li hanno battuti negli anni venti. La canaglia spera di prendersi la rivincita. Ma sono inetti, ignoranti! Non capiscono questa semplice verità, che la borghesia è stata liquidata come classe. Che non c'è più e che non avrà più spazio sulla terra russa. Sonja ci ha comunicato una certa decisione importante. E' vero? Ci sarà una trasformazione rivoluzionaria della famiglia Gan¬cuk? In tal caso ci vuole un altro bicchierino, per festeggiare questa bella notizia..." "Julija! Vieni qui, la gioventù ti reclama!" chiamò ad alta voce Nikolaj Vasilºevi¬c, eccitato dalla conversazione, dal vino e dal fatto che la moglie mostrava un confuso malcontento. Gan¬cuk non riusciva a capire che cosa stesse succedendo alla moglie: su di lui la notizia comunicata da Sonja non aveva fatto una particolare impressione. Altri pensieri tormentavano il suo cervello in fiamme: i giornali, gli amici, i nemici, l'università, i libri, il passato. E anche la vecchiaia, la morte che si avvicinava... Il suo viso, macchiato di rosso per l'agitazione, era adesso ricoperto da un unico rossore intenso, a causa del vino: lo stesso colore delle meline rosse di marzapane che si appendono all'albero. Julija Michajlovna aveva ancora il Kopfschmerz. Sonja guardava Glebov con occhi raggianti. Glebov accompagnò nello studio Gan¬cuk sotto braccio: voleva mostrargli un album risalente alla guerra civile. "Le mostrerò un ragazzo che aveva una zampa mo-olto pesante! Non le avrei mai consigliato - mi ascolta, Dima? - di capitargli davanti agli occhi. Oh, come non gli piacevano i giovani studiosi con gli occhiali! Li spaccava subito - oh, oh! - senza nemmeno chiederti come ti chiamavi!" Glebov si ricordò che anche lui aveva qualche cosa di maledettamente importante da fare nello studio: guardare quei maledetti busti. "Più che obbligatorio, - aveva detto Druzjaev. - Giovedì, dopodomani." E in quella stessa conversazione - senza soluzione di continuità, impastando una frase all'altra come due pezzi di plastilina dello stesso colore, in una palla o in un salamino molle e viscido; che poi si può anche appiattire tra le mani: ecco, si era sentito a un tratto debole e sottomesso come nell'infanzia, quando le mani degli altri ti prendono come un pezzo di plastilina, ti impastano, ti stringono, ti fanno a fettine, ti lavorano come vogliono, - Druzjaev aveva parlato, come per inciso, come una proposizione subordinata, in quella stessa frase in cui parlava di giovedì, dell'imminente decisione di assegnare in anticipo la borsa di studio Griboedov. A lui, a Glebov. In base ai risultati della sessione invernale. E Glebov era rimasto zitto, senza rispondere, assecondando il gioco - come se fosse una notizia lasciata cadere a caso, una sciocchezza, che non meritava attenzione, - benché dentro lo cogliesse un subitaneo calore. La borsa di studio Griboedov! Aveva ancora qualche mese da studiare ma andava bene lo stesso. La cosa più

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importante, pensava, non era tanto il denaro, quanto lo stimolo morale ad andare avanti, a migliorare. Ma la notizia conteneva anche l'amaro - lo comprese con tristezza in un secondo momento - perché si saldava strettamente al giovedì, una cosa era inseparabile dall'altra. O tutte e due insieme, in un'unica palla, o niente. "Certo è impensabile andare e fare un intervento." La sera stessa era da ¬sulepnikov. Di nuovo con quella insensata speranza nelle possibilità di Levka, rimasta incrollabile fin dagli anni dell'infanzia. Che cosa poteva fare? Che influenza poteva avere? Glebov si figurava che bastasse, ad esempio, a Levka - beh, non proprio a Levka, ma al padre, al patrigno - dire all'amministrazione dell'istituto: "Non tormentate Glebov!", e loro l'avrebbero smessa. C'è un limite nelle forze umane: fino a dove poteva arrivare Glebov? Prima di tutto, cambiare relatore. Poi, raccontare delle teorie di Pereverzev, di questo e di quello. Poi di ciò che Gan¬cuk aveva sulla libreria. Aveva accettato quelle porcherie, era stato consenziente, aveva parlato. Eppure era sempre poco per loro, eccoti un altro compito: andare e intervenire. Non era troppo? Non si superava il limite? Levka ascoltava con una specie di simpatia, faceva dei mugolii, annuiva, mentre girava le manopole di un apparecchio mai visto prima: il televisore. Nella piccola scatola biancastra baluginava qualcosa di vago, si contorceva, arrivavano dei suoni spezzettati: stavano trasmettendo un'opera dal Bolº¬soj. Dicevano che a Mosca c'erano in tutto settantacinque apparecchi televisivi. Levka era assorbito dal nuovo divertimento, ci si arrabbiava, bestemmiava, l'immagine non andava bene. La zia e la madre, arrivate per vedere lo spettacolo, si erano messe a sedere, e il discorso che doveva fare non veniva fuori. Ma non c'era altra possibilità. Glebov allora uscì allo scoperto, davanti alle donne. La madre di Levka si infervorò: "Lev, tu devi assolutamente aiutare Dima!". "Tu pensi?" "Sì, penso di sì! Mi ricordo bene di Sonja, è molto cara. Suo padre non lo conosco. Ma che pazzia beffarsi dei sentimenti di due giovani..." "Anch'io ho dei sentimenti..." Levka agitò una mano. "Certo, tu non puoi capire! - esclamò con aria di scherno e con energia ancora maggiore Alina Fëdorovna. - Per chi non ha orecchio musicale, ogni musica è solo rumore." "Alja, non ti agitare, per favore", disse la zia di Levka. "Sei venuta per vedere un'opera o un comizio?", chiese Levka. "Che senso ha parlare con te!" Alina Fëdorovna fece un gesto brusco con la mano, esattamente lo stesso che poco prima aveva fatto il figlio. Dopo un minuto di silenzio, sussurrò senza rivolgersi a nessuno: "Così ci si può rovinare la vita...". Lo schermo del televisore si schiarì, apparvero le figure dei cantanti in mezzo alla scena, e per un po' di tempo vi fu silenzio: erano intenti a guardare lo schermo e ad ascoltare la musica. Levka era seduto sul pavimento davanti al televisore. Rivoltosi a Glebov, disse allegramente: "Si vedrà ancora meglio, capisci? Ci vuole un'altra antenna. Me la procurerà Jan. E' tutta questione di antenna". "Lev, ti ripeto, devi fare qualcosa per Dima e Sonja!" Nella voce di Alina Fëdorovna c'erano stizza e irritazione. A Glebov questa cosa non piaceva, temeva che Levka andasse in collera. Tra lui e la madre c'erano sempre dei dissidi. "Di', perché tu non puoi fare niente per gli altri? Questo non è certo nobile, Lev! E' molto vile. Non si può essere egoisti a tal punto. E' venuto da te un vecchio compagno, ti chiede aiuto..." "E io che ci posso fare! - ringhiò a un tratto Levka. - Chi sono io, il direttore? Il viceministro?" "Tu puoi. Lo sappiamo. Con tutta la gentaglia che hai intorno..."

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"Mamma, vacci piano con i miei amici!" disse Levka, facendo un leggero cenno di minaccia con il dito. Tutta la conversazione aveva un che di innaturale: la madre lo attaccava piuttosto per abitudine che per obbedire a un impulso, e lui l'ascoltava con un orecchio solo, ed era come se entrambi si fossero accordati in anticipo per un risultato di parità. "Perché ti agiti, Sfilatino? C'è una cosa che non ho capito..." Glebov ripeté. Voleva che non lo tormentassero, che non gli stessero addosso. Non potevano tirarsi fuori da quel putiferio senza di lui? Era proprio assolutamente necessario umiliare una persona: senti, caro, tu vieni e parla apertamente, la tua opinione è molto preziosa, perché tu sei la persona più vicina al professore. E poi? Come si sarebbe messa con Sonja? Parlare apertamente! Facile dirlo. Quello non si chiamava "parlare apertamente", ma "infangare". Vieni e infanga. "Ma guarda, l'onest'uomo! - a un tratto Levka digrignò i denti con cattiveria. - Gli altri infanghino pure, io me ne sto da una parte, eh? Così, va bene? Che bel tipo!" Glebov disse che gli altri non avevano rapporti così stretti con quella famiglia, per loro era più facile. Capì che Levka non avrebbe fatto niente, non voleva farlo. Non doveva neanche parlargliene. Era molto cambiato. Sua madre aveva ragione, era diventato incredibilmente indifferente verso tutti e tutto. Per questa ragione, forse, c'era stata quell'improvvisa e inspiegabile malvagità da animale. Certo, cattiveria come reazione a tutto ciò che c'era di noioso, di spiacevole, a ciò che procurava disagio nella vita. Per esempio, telefonare da qualche parte, intercedere per qualcuno. Levka continuava con tono seccato a sproloquiare sul fatto che non c'era niente di terribile nell'andare a dire due parole dalla tribuna se fosse stato necessario. Anche lui sarebbe intervenuto, sebbene con un certo imbarazzo, perché conosceva Gan¬cuk fin da bambino, ma non c'era tempo, aveva altro per la testa. Gli stavano preparando un viaggio di sei mesi, stava sveglio la notte, l'inglese lo tormentava, era sommerso da mucchi di libri, di vocabolari. Ma se era necessario intervenire, voleva dire che era necessario, il vecchio era rimbecillito, aveva fatto il suo tempo, ma non si accorgeva di niente, si ringalluzziva invece di lasciare il posto ad altri. A che cavolo servivano quelle cerimonie cinesi, e che pretese: volersi arrampicare sull'abete senza scorticarsi il sedere... Quando Levka ripeté: "Io stesso farò un intervento e lo concerò per le feste!", Glebov chiese: "Con quale fondamento?". "Come con quale fondamento? Ma per la mancanza di princìpi, per il suo spirito di gruppo. E il servilismo." "Storie!" "Macché storie! Te lo dimostro su due piedi." "Ah! su due piedi! - gridò a un tratto Glebov. - Tu non sei il fidanzato di Sonja Gan¬cuk, che il diavolo ti porti!" "Perché sei tu il fidanzato? - Levka lo guardava malignamente, strizzando un occhietto arrossato. - Ti do mille contro uno, che neppure tu... Scommettiamo, eh?" "Lev, che stai dicendo? Non ti vergogni?" esclamarono sdegnate la madre e la zia, senza staccarsi dal televisore, dove c'era ancora qualcosa che continuava a baluginare e contorcersi. E Levka, parlando, di tanto in tanto girava delle manopole. "Io me ne vado, - disse Glebov, alzandosi. - Addio!" Ma Levka saltò su con vivacità e afferrò Glebov per il braccio. "Aspetta! Siediti! Adesso escogitiamo qualcosa. Sai una cosa? Faccio una telefonata a Jurka ¬sirejko." Andò subito al telefono e si mise a fare il numero. Fu una conversazione singolare, condotta con molta familiarità. Quanto si era allontanato Levka da Glebov: Glebov non sapeva niente dei suoi amici, non solo di quelli della città e dintorni, ma nemmeno di

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quelli dell'istituto. "Che fai? Ti stai rompendo la schiena? Sei chino su una carta che ti fa impazzire? Stai spremendoti ancora una volta le meningi sul piano per la battaglia definitiva? Eh?" Levka faceva il cretino. Glebov fremeva in anticipo per quello che Levka, con quel tono da imbecille, avrebbe potuto dire sul suo conto. "Senti, rotola qua! Ci hanno portato l'apparecchio televisivo. Su speciale ordinazione. Vieni, lo guardiamo insieme. L'abbiamo acceso proprio adesso. C'è un'opera trasmessa dal Bolºsoj... Sono qui con Dimka Glebov, il tuo figlioccio. Ti saluta... grazie, riferirò... E allora? Il chvan¬ckara (9) c'è. A papà ieri ne hanno mandata una cassa... No? Per niente? Non puoi o non vuoi? Beh, guarda, ragazzo, è affar tuo... Senti un po'! C'è una faccenda... Non volevo per telefono, ma dato che sei così follemente occupato..." "Non dire niente di me!" bofonchiò Glebov, gesticolando. Levka lo respinse: seduto e zitto. "C'è un problema. La riunione è per giovedì, vero? Sì, abbiamo letto, certamente... L'articolo è una forza! Molto forte!... - ammiccò a Glebov. - Lo stiamo appunto esaminando. Tutto giusto, proprio così... Proprio, proprio... Sì, sì, sì... Giusto... Esatto..." Allontanando il ricevitore con il braccio teso, disse tra i denti, con aria beffarda: "Ha messo insieme un mucchio di porcherie, e ora vuole pure i complimenti, che bestia! Sì, l'articolo t'è riuscito. Ci congratuliamo. Un articolo stupendo. E allora come la mettiamo con Dima Glebov? Per lui è imbarazzante fare un intervento, lo capisci da te... vero? E allora? Perciò ti telefoniamo, per chiederti consiglio..." Poi ci furono delle lunghe e confuse esclamazioni, quindi Levka lasciò cadere il ricevitore, disse "ciao", e con un sospiro dichiarò: "Ha borbottato qualcosa su di te... Nessuno, dice, lo trascinerà a forza sulla tribuna, che non la faccia tanto lunga, dice. Che corre a fare a lamentarsi con tutti? Che noia, dice, il tuo Glebov...". Glebov stava zitto, avvilito. Solo cose spiacevoli da quella telefonata, ne aveva avuto il presentimento. Levka invece era contento e soddisfatto, aveva l'aria del vincitore e pensava di aver cavato Glebov dagli impicci. "Adesso sei un libero cosacco: puoi fare l'intervento, se vuoi, e puoi non farlo, come preferisci. Padronissimo. E questo l'ho fatto per te, hai capito? Ha riguardo per me, quel serpente... Vivono solo perché io li lascio vivere! Adesso prendo il chvan¬ckara, è una vera specialità, viene da un negozio georgiano. Faremo baldoria come due principi!" Glebov era ancora indeciso se andarsene a casa, da Sonja o restare in quella baraonda di casa, quando comparve Levka, con quattro grandi bottiglie nere strette al petto. Le donne avevano già steso la tovaglia sulla tavola rotonda, i boccali tintinnavano... Mancavano due giorni. Glebov ancora non sapeva che cosa avrebbe fatto giovedì: andare o non andare gli pareva ugualmente impossibile. Martedì, dopo la visita a Levka ¬sulepnikov, che era finita con una spaventosa baldoria durata tutta la notte, si era stancato mortalmente e non poté alzarsi per andare in istituto. Passò mezza giornata in camera buttato giù come un morto - era rincasato all'alba, senza capire niente ed era crollato sul letto tutto vestito - e quando aprì gli occhi, vide un medico con il camice bianco. Il medico non era venuto per lui, ma per la nonna. Nonna Nila già da molti giorni stava male, non si alzava più. Attraverso un rumore confuso e insopportabile (era come se qualcuno scuotesse sopra il suo orecchio una lamiera), Glebov sentì il medico parlare con la cugina Klavdija. "E se gli facesse un'iniezione?" domandava Klavdija, e il suo viso era odioso. Il medico ripeté con voce sorda: "Padronissimi!". Scoprirono il braccio, fecero l'iniezione. Uscendo dalla stanza, il medico, piuttosto giovane e bello, con le guance

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colorite, guardò Glebov con attenzione e ripeté: "Padronissimi". Glebov aveva il cuore stretto e ondate di freddo serpeggiavano per tutto il corpo. Klavdija gli si sedette accanto, piegò il pallido viso cattivo e sussurrò: "La nonna sta male, stanotte non ho dormito, l'assisto io, ma tu - aveva le lacrime agli occhi - sembri un maiale... Dove sei stato? Come diavolo ti sei conciato, ho dovuto mandare tutto in tintoria...". Aveva compassione di Klavdija che piangeva, ma Glebov non poteva ricordare niente, non poteva spiegare, e solo dopo un enorme sforzo, disse come rantolando: "Padronissimo". Poi, a poco a poco, cominciarono ad affiorare frammenti della serata precedente. Tutto quello che era cominciato così pacificamente, in maniera casalinga, con la mamma, la zia, la tovaglia bianca e il tintinnio dei boccali, era finito in un'assurda ubriacatura, non sapeva dove. In un appartamento con le finestre a semicerchio, sottotetto. C'era un vecchio grammofono a tromba. In corridoio bisognava passare in punta di piedi, c'era sempre qualcuno che cadeva e lo tiravano su sghignazzando. C'era una biondina, molto morbida, bianca, porosa, che non faceva che chiedere: "Quanto ti danno per la tesi?". Quando stavano a sedere con la zia e la madre attorno al tavolo rotondo e bevevano il chvan¬ckara, Levka a un tratto si era annebbiato. Glebov si meravigliò: come mai così rapidamente? Sua madre beveva un boccale dietro l'altro. I loro volti si assomigliavano sempre di più. Si vedeva subito che erano madre e figlio. Lei aveva dei piccoli occhi da uccello che mandavano un luccichio rossastro, e anche lui aveva gli occhi rossastri, a scintille. E continuavano a litigare, si colpivano a vicenda con le nocche delle dita! La voce di Levka rintronava: "E che diritto hai di parlare così? Chi ti credi di essere? Sei una normale strega!". E Alina Fëdorovna annuiva con sussiego: "Sì, sono una strega. E sono orgogliosa di essere una strega". Sua sorella approvava: "Sì, una strega, la nostra è una famiglia di streghe". Essere streghe sembrava quasi un merito. In ogni caso, c'era una origine aristocratica, cui alludevano le due donne. Noi siamo streghe e tu sei feccia. Glebov sapeva che non era possibile stabilire dei rapporti con Levka. La faccenda prendeva inevitabilmente una piega tumultuosa, diventava rissa o qualche altra mostruosa assurdità. Così stava succedendo. "Ah, io sono feccia? E come ti dovrei chiamare allora?" C'era lì un tale Avdotºin. Con la metà di una divisa militare. Stava anche lui al tavolo rotondo, beveva il chvan¬ckara. Aveva un viso cadente, con il doppio mento, triste, come la mammella di una vacca. Borbottava: "Ciascuno paga per sé!". Chissà perché, questa frase gli era rimasta impressa. C'erano sette o otto bottiglie di chvan¬ckara. Bisognava andarsene di corsa, ma le gambe non ubbidivano, non ce la faceva ad alzarsi. "Se sono una nullità, me ne vado via, - disse Levka a Glebov. - Cosa mi servono le streghe? Non siamo mica sul Monte Calvo! Anche se è mia madre, io non la voglio! Io le mando tutte al diavolo, ne ho abbastanza, me ne vado!" Avdotºin non lo lasciava andare. Levka colpì Avdotºin in faccia. Riuscirono ad andarsene, a scappar via. Una macchina li portò via nella notte. Gironzolarono a lungo, non riuscivano a trovare la casa, l'autista li voleva gettare in mezzo alla strada. Alla fine arrivarono. C'era un grammofono a tromba. Di che cosa parlarono? Perché ci fu quel putiferio? Ah, sì, ecco: Levka cercava di convincere Glebov a mollare Sonja. "Sonja è bella, ma a che ti serve? Non fare il fesso!" E disse ancora: "Vuoi essere amico suo? E' una cosa nobile. Io pure sono amico suo, e lo sarò per tutta la vita. Raccontarle tutto, consigliarsi su tutto... E' così bello avere una donna-amica...". La madre aveva detto: sei una feccia. Questo era chiaro anche a Glebov. Ma l'energia vitale di Levka sembrava così incontestabile, così distruttiva... Vi serve una donna? In piena notte? Perché vi conforti, vi accarezzi, vi parli

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soavemente, intenerendovi con le parole - e non per denaro, ma semplicemente così, per l'eterna generosità femminile - quando siete infelici, buttati sul lastrico e maledetti dalla vostra stessa madre? Nessuno è in grado di dare conforto, come una donna, nel cuore della notte. E quella biondina con la bianca pelle porosa, che cinguettava assurdità, era, certo, una felicità inverosimile e mistica - come la bottiglia di birra, che a un tratto apparve in casa di Pomra¬cinskij, che non beveva mai birra: ci sbatté contro Glebov, sbucando fuori mezzo morto in corridoio, la birra era stata comprata dalla moglie di Pomra¬cinskij per lavarsi la testa - ma nemmeno con quella biondina ci fu l'oblio totale. Continuava a tormentarlo un'idea dolorosa: che fare giovedì? La matassa si ingarbugliava sempre più. I sostenitori di Gan¬cuk - ce n'erano ancora parecchi, tra cui alcuni pezzi grossi, come il professor Kruglov, il docente di linguistica Simonjan, altre persone ormai dimenticate, studenti, assistenti - si erano preparati per quel giovedì, ardendo dal desiderio di difendere Gan¬cuk. Ma non tutti potevano fare un intervento in quella riunione. Era una seduta allargata del consiglio di facoltà a cui era invitato a partecipare l'attivo. Glebov doveva andarci in quanto vicepresidente dell'Associazione studentesca. Gli era arrivato un biglietto nella busta azzurra ministeriale: "La sua presenza è obbligatoria...". La sera di martedì venne Marina Krasnikova, una delle attiviste dell'Associazione studentesca, che parlava sempre a voce alta e si agitava come se fosse leggermente ubriaca. La sua passione sociale traboccava. Che cosa le era successo? Dove s'era cacciata? Sembrava che la pacioccona fosse andata dritta dritta all'Accademia delle scienze o al Comitato delle donne sovietiche. Si era dileguata senza fare nessun rumore, come una pietra che va a fondo... "Bisogna che tu faccia un intervento a nome della nostra associazione, dell'Associazione studentesca, perché Lisakovi¬c è malato, - cicalava Marina. - Ecco qui alcuni punti... li ha dettati Lisakovi¬c per telefono..." "E che gli è successo a Lisakovi¬c? Di che cosa si è ammalato?" chiese Glebov, allarmato. Quel furbo di Fedja Lisakovi¬c aveva, a quanto pare, indicato lui, costringendolo ad andare. Lisakovi¬c era presidente dell'Associazione studentesca. Marina disse che aveva un'angina follicolare e la febbre alta, ma avrebbe fatto di tutto per venire alla riunione. Sperava che giovedì sarebbe stato meglio. Il medico gli aveva categoricamente proibito di uscire. Glebov chiese, dubbioso: "Quanto ha di temperatura?". Marina disse che aveva circa 39. I punti erano i seguenti: Gan¬cuk era il fondatore dell'Associazione studentesca. Grazie a lui, l'associazione aveva ottenuto risultati sempre migliori. Gli errori di Gan¬cuk erano gli errori della maggioranza. Se mandavano via Gan¬cuk, avrebbero dovuto mandar via tutti gli altri. I meriti erano incommensurabilmente superiori agli errori. Non fare parola dell'articolo. Se non era possibile, dire che non era sufficientemente concreto ed era poco convincente. Dichiarare con fermezza: bisognava essere fieri se Nikolaj Vasilºevi¬c Gan¬cuk stava da loro. Glebov si stupì a quella lettura: Fedja Lisakovi¬c era proprio coraggioso! Una delle due: o era coraggioso fino all'imprudenza nel mettersi contro Druzjaev, Dorodnov e gli altri, oppure sapeva qualcosa. La battaglia stava per diventare violenta. Marina disse che il professore di folclore Kruglov Vasilij Dmitrievi¬c, un buon vecchio stimato da tutti, era andato su tutte le furie per l'articolo di ¬sirejko e minacciava di andarsene dall'istituto, se non l'avessero smessa con la persecuzione contro Gan¬cuk. "E che se ne vada, - pensava Glebov, mettendosi al posto di Druzjaev. - Sai che paura. Da noi non ci sono persone insostituibili." Un'assistente aveva incontrato ¬sirejko in cortile e, quando questi l'aveva salutata, aveva voltato la schiena in modo dimostrativo. ¬sirejko

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sarebbe diventato rosso e avrebbe detto a voce alta: "Che significa questo?". Lei non aveva risposto e se n'era andata. E gli studenti del primo corso, ai quali teneva un seminario, non si erano fatti vedere quasi per niente alle ultime lezioni. Prima, Marina Krasnikova non era mai venuta a casa di Glebov. La sua venuta stava a significare che le passioni erano accese al massimo grado. Gli occhi di Marina ardevano di nobile simpatia per tutte le persone d'animo nobile ed erano pieni di gioia perché anche lei faceva parte di quella nobile società. "Tu devi alzare la voce! Parlare per tutti noi! Che cosa turpe: gli studenti non possono difendere il loro professore!" Questo impeto, questo brillio degli occhi e il dito levato minacciosamente fecero ricordare a Glebov le parole di Druzjaev: più che obbligatorio. In fondo era la stessa cosa, lo stesso terrorismo. Marina sembrava non aver notato che in casa c'era una malata grave, che c'era un'infermiera con la valigetta, che si sentiva odore di medicinali e che per il corridoio camminava in fretta una giovane donna, Klavdija, con il volto in lacrime. E quando Glebov, esitante, cercò di dire: "Capisci, qui da me c'è una situazione complicata, la nonna è malata, non si sa che cosa succederà tra un'ora...", era un tentativo debole e quasi disperato di tirarsi fuori dagli impicci, Marina disse rapidamente: "Puoi disporre di me! Posso rimanere un'ora, due, un giorno intero, quanto è necessario. Ma tu devi assolutamente andare...". Quella sera ci fu un altro ospite, Kuno Ivanovi¬c. Questa visita lo lasciò sbalordito. Il segretario di Gan¬cuk non era mai andato da lui, i loro rapporti non erano stretti. In presenza di Glebov Kuno Ivanovi¬c, o Kunik, come lo chiamavano i Gan¬cuk, era preso da uno strano nervosismo: era agitato, faceva dello spirito, gli cominciava a tremare la voce. Una volta Glebov era andato a trovare Kuno Ivanovi¬c nel suo appartamento in via Gnezdikovskaja. Gan¬cuk ce lo aveva mandato per prendere certe carte. L'appartamento di Kuno Ivanovi¬c aveva colpito Glebov per la sua pulizia, per l'ordine, per l'atmosfera accogliente, del tutto insolita nella casa di uno scapolo. C'erano molti fiori nei vasi, nei vasetti sul tavolo, sul davanzale, nei quadri appesi molto pittorescamente dappertutto. I quadri erano alternati a fotografie e riproduzioni. Ogni parete appariva come un'opera d'arte appositamente ideata. Tutto era così raffinato, sembrava un museo, non c'era niente di maschile, era ambiguo. Mentre Kunik raccoglieva le carte, Glebov stava seduto su un puf a osservare la stanza. Tra due quadri dove erano dipinti dei vasi di cactus dall'aspetto muscoloso, vide una grande fotografia di Sonja. C'erano molte altre fotografie, ma quella di Sonja era un ingrandimento, quasi a sottolinearne l'importanza. "Che martire!" pensò Glebov, prendendolo in giro tra sé. Tollerava con calma e con sicurezza il tono di nervosa superiorità e l'atteggiamento da maestro usato da Kunik nei suoi colloqui con lui, a sottolineare la propria anzianità. Glebov in sua presenza era assolutamente imperturbabile. E persino quel martedì sera quando vide quella magra figura con un lungo cappotto e la testina sbilenca piegata verso il basso, Glebov, benché sbalordito, rimase tranquillo. Kunik non disse né "Salve!" né "Buona sera", cominciò subito a parlare, come continuando una conversazione appena interrotta. "La condizione preliminare - disse, varcando la soglia - è che Nicolaj Vasilºevi¬c non ne venga a sapere niente." Quale condizione? Stava delirando? Glebov fece un gesto per invitare il misterioso personaggio a seguirlo in corridoio. E di nuovo s'imbatterono in Klavdija. "La nonna chiede se sei a casa." "Non lo vedi?" "Per tutto il giorno non hai fatto nemmeno una capatina. Si preoccupa che non sia successo qualcosa..."

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"Abbiamo la nonna malata" spiegò Glebov a Kunik. Ma questi, come se non avesse sentito, continuò il suo discorso: "Perché se lo viene a sapere, mi fa a pezzi. Con la sua suscettibilità. Spero che abbia capito il suo carattere: suscettibile, collerico, ingenuo e incapace di difendersi, tutto nello stesso tempo". Entrarono nella camera di Glebov e Kunik, senza togliersi né cappotto, né cappello, e senza guardare nulla attorno, si abbandonò come un sonnambulo dove capitava, sul letto di Glebov. Sembrò affondare nel proprio cappotto. "Per gli altri lotta come un leone, va dove occorre, si azzuffa con chi è necessario. Perciò si è battuto per quella nullità di Astrug... Ma non è assolutamente capace di difendere se stesso. Non muove neanche un dito. E qui dobbiamo intervenire noi, i suoi amici..." "Che cosa possiamo fare noi, poveri omuncoli?" pensava Glebov. "Ho insistito con lui: "Deve rispondere a ¬sirejko, immediatamente! Una lettera alla redazione. Molto decisa. La viltà non si deve lasciare impunita". Ha detto che non ci pensava nemmeno. Ha citato le parole di Pu¬skin: "Se qualcuno mi ha sputato sul frac alle mie spalle, è compito del mio lacchè togliere lo sputo"." "Scusi, sa, si può anche fare la parte del lacchè, volendo, - disse Glebov. - Non sono contrario. Ma come si può fare, in pratica?" "Non la invito a svolgere il ruolo del lacchè, ma quello dell'amico! Il ruolo dell'uomo onesto! La citazione di Pu¬skin significa solo che Gan¬cuk non capisce niente di quello che sta succedendo. Crede che gli abbiano sputato sul frac alle sue spalle. Ma qui sono usciti fuori con lo spiedo e vogliono infilzarlo. Ecco che cosa sta succedendo. Vogliono finirlo." "Che cosa propone di fare, KunoIvanovi¬c? Come possiamo agire noi?" "Come agire!... Come agire!... - borbottò Kunik, levandosi, con un colpo di spalla, il cappotto dal colletto di lupo nero, che cadde sul letto, una delle maniche andò a finire sul cuscino. - Io sono già in azione. Ho scritto alla redazione del giornale, otto cartelle a macchina. L'hanno sottoscritta sei persone. E adesso scriverò alle supreme istanze. Questa lettera non chiederò di sottoscriverla, è molto violenta, non voglio sottoporre gli altri a questa prova. Io non ho niente da perdere, non ho paura. Per quanto riguarda lei, caro Dima Glebov..." Per un istante trafisse Glebov con uno sguardo quasi dubbioso, inquisitore, muovendo le sopracciglia rossastre. Era piuttosto comico. "Mi scusi, posso considerarla un vero amico di Nikolaj Vasilºevi¬c?" "Cioè? E perché no?" "Mi scusi, ma io voglio una risposta precisa. Mi risponda, per favore." "Certo, si capisce." "Sì, si capisce. Bene. Allora perché si comporta in maniera così strana?" "Mi perdoni, non la capisco." "Perché si lascia strumentalizzare in questa vile campagna?" A questo punto Glebov rimase di stucco. Quale strumentalizzazione? Aveva letto, lui, Glebov, l'articolo di ¬sirejko che Kunik, fra l'altro, conosceva bene da quando studiavano insieme all'istituto pedagogico? Glebov lo aveva letto, ma di corsa, saltando le righe, come si legge una cosa rivoltante, che si desidera gettare via al più presto. Gli sembrava che ci fosse scritto: "Non a caso alcuni studenti del quinto anno hanno deciso di cambiare relatore". Kuno Ivanovi¬c spiegò: questi studenti erano in realtà uno solo. Si era persino preso la briga di correre in facoltà a vedere con i propri occhi la domanda del compagno Glebov, futuro assistente. Quando gli avevano fatto per telefono il nome di Glebov, non aveva creduto alle proprie orecchie. Ma c'era stato e si era convinto. Una cosa incredibile. "Ma lei sa di che si tratta? - gridò Glebov. - Lei non sa niente!

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Ignora i retroscena!" "Io so, so! - Kunik agitò velocemente le mani, con un senso di ripugnanza, come se temesse di sentire qualcosa di spiacevole. - ...E se non lo so, lo immagino. Ma il retroscena non mi interessa. L'importante è questo: si sono serviti di lei, e lei sta zitto... Lei non dice niente, Dima! Perché? Come può non dire niente, quando poi va a casa Gan¬cuk, parla con Nikolaj Vasilºevi¬c, con gli altri... Ne convenga, è un po', come dire, non bello dal punto di vista morale..." Glebov guardava di traverso il suo ospite-aguzzino. Il cuore gli martellava. Ora avrebbe voluto gridargli: "E introdursi sotto le coperte di una fanciulla spaventata durante un temporale, com'è questo dal punto di vista morale?"; ora sentiva un certo senso di vergogna ed era pronto a fare tutto, ad andare dappertutto, pur di rimediare a quello che era successo... Ma riuscì soltanto a balbettare: "Io, veramente, non ho visto quella frase...". "Come se la questione fosse in quella frase! Ma se davanti ai suoi occhi, - tuonò Kunik, - aggrediscono un uomo in mezzo alla strada per derubarlo e chiedono a lei, che sta passando, un fazzoletto per tappargli la bocca..." "La smetta! - implorò Glebov. - Parli più piano, al di là della parete c'è una malata." "No, lei mi sta a sentire! Che razza di uomo è lei, mi domando? Un testimone occasionale o un complice? D'accordo, lasciamo perdere, ci sono certi motivi, c'è il retroscena... Ammettiamo, supponiamo... Ma adesso che cosa si deve fare? Come continuare a vivere? Starà ad aspettare come prima? Non c'è più tempo. Giovedì lei dovrà fare il boia, Dima. Io già lo vedo, le mancherà la forza di alzarsi e di dire: "Non è vero!". Quindi, farà il boia... Così deve essere... A volte si condanna a morte con il proprio silenzio." Allora Glebov sbottò: "Non è vero! Farò un intervento giovedì, parlerò!". L'uomo rossiccio pallido si alzò dal letto, si gettò il lungo cappotto sulle spalle. Alzò la testina sbilenca, guardò con occhi immobili e socchiusi, come dall'alto, sebbene fosse più basso di statura. Non disse niente, non salutò, si allontanò nel corridoio con il suo passo svolazzante, lunatico, si precipitò fuori dalla porta, Glebov chiuse ma all'improvviso Kunik bussò di nuovo. "Dima, caro, la prego di una sola cosa... - sussurrò, piegando il viso pallido dalla paura e ancor più inclinato di fianco. - Faccia come vuole, ma con il vecchio neppure una parola! Promesso? Sì? Né delle mie lettere, né del nostro colloquio. Non deve saperlo!" E così si avvicinava inevitabilmente quel bivio che lo tormentava, era lì davanti a lui, e i piedi non se li sentiva per la stanchezza, si sentiva come se fosse sul punto di precipitare... Dove poteva andarsi a nascondere? Si sarebbe cacciato da qualche parte. Solo che ancora non sapeva dove. Ci fu un'altra giornata, ugualmente incolore, piena di movimenti bruschi, di brighe, di corse in farmacia, di discorsi assolutamente vuoti. Klavdija litigava di nuovo con la madre e piangeva in cucina. Voleva molto bene a nonna Nila. E Glebov pure. E a chi volere bene, se non a nonna Nila? Le stava seduto accanto, le teneva la vecchia mano grigiastra, leggera come un cencio e qualcosa gli ronzava dentro, raccontava - lei glielo chiedeva, come una bambina - e nella testa era come un martellare: di là perderai il cavallo, di qua la moglie e qui anche la vita. Lo chiamarono in istituto per un colloquio con quelli del primo corso. Ma tutto era chiaro. A che scopo andare? Non andò. Poi telefonò Afoni¬ceva, la segretaria del decano: "Glebov, si ricordi che è per domani alle dodici". Parlava velocemente, con energia: doveva telefonare nel più breve tempo possibile a venti persone, cercando sull'elenco. "Me ne ricordo!" "Non venga in ritardo." "Va bene."

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Si sforzava di ragionare con calma: bene, ci sono quattro varianti, bisogna pensarci su. Variante prima: andare e intervenire in sua difesa. Certo non direttamente, con qualche riserva, rilevando alcune inesattezze, ma, in sostanza, prendendo le sue difese, sia pure nella forma che aveva suggerito Kunik: riportare la frase dell'articolo di ¬sirejko e spiegarne il senso provocatorio. Che cosa avrebbe potuto fruttare questa variante? La collera dell'amministrazione. Addio, borsa di studio Griboedov, assistentato e tutto il resto. Voleva dire un inatteso e brusco dietro-front. Non l'avrebbero perdonato. No, mai, mai. L'avrebbero considerato un tradimento. La vendetta sarebbe stata terribile e rapida. E, poiché Dorodnov aveva attualmente tutto il potere in mano sua - il direttore sarebbe stato assente dei mesi, in Corea, in Cina, o all'ospedale - poteva fare di testa sua. Voleva saldare il debito con Gan¬cuk. Quale vantaggio avrebbe ricavato da questa variante? La gratitudine di Gan¬cuk e di tutta la sua famiglia. L'amore ancora più smisurato di Sonja. Qualcuno del tipo di Marina Krasnikova lo avrebbe preso per mano mezzo minuto e gli avrebbe detto quanto era stato in gamba, come era stato valido il suo intervento, e Kunik avrebbe detto con un sorriso: "Mi ha stupito! Mi compiaccio di lei!". Tutto qui. Poi avrebbe fatto l'impiegatuccio da qualche parte. Il sabato, dopo aver sgobbato come un mulo, si sarebbe trascinato in treno fino a Bruskovo. Una perdita rovinosa, una vincita mediocre. Variante seconda: andare a fare un intervento critico contro Gan¬cuk. Cioè, per dirla in parole povere, attaccarlo, mettendosi in coda a tutta la cricca. Ovviamente non in maniera aggressiva, né rozza, ma con cordialità, con simpatia, con enorme dispiacere per quanto gli toccava constatare, con appelli alla delicatezza, menzione dei meriti trascorsi... All'incirca come gli avevano chiesto. Qualche cosa a proposito delle tesi di Pereverzev o della Rapp, faceva lo stesso. Un accenno ai busti, di sfuggita. Ma si potevano anche lasciare stare. Poteva cavarsela con due o tre parole di delicato rincrescimento. Soprattutto tacere su quella frase di ¬sirejko, come se non ci fosse mai stata, da nessuna parte. E, mettendosi la mano sul cuore, con tutta sincerità: era davvero perfetto in ogni senso Nikolaj Vasilºevi¬c come studioso, come insegnante? Non c'era neppure un grammo di verità nelle palle di cannone che venivano sparate su quella fortezza? Bisognava pur riconoscerlo: c'era qualcosa, c'era... I libri erano noiosi. Non se ne poteva leggere nessuno fino alla fine. Una noia insopportabile! Così si scriveva vent'anni fa, ormai c'era bisogno d'altro. Un sociologismo volgare e inestirpabile, come una malattia ereditaria. Ma di questo non si doveva parlare! Era solo così, in segreto. Una rivelazione alla propria coscienza. E che regnasse come un dittatore in facoltà, anche quella non era poi una menzogna. I docenti erano nominati solo su suo benestare. Si riusciva a entrare come assistenti soltanto dopo il suo "bene". E non era poi così "fuori del mondo" come si diceva, era un osservatore, era esigente, aveva le sue idee sulle persone e in generale non era un campione di imparzialità, anzi era parziale, alcuni li amava, altri li odiava, e a volte era difficile capire la ragione. Aveva dei gusti antiquati, le sue predilezioni erano radicate nel passato, nei decenni delle rivolte, delle lotte, delle mischie. Da certe chimere, la cui irrealtà era ormai evidente a molti, egli non poteva staccarsi, come il bambino affamato dal capezzolo. E c'erano fenomeni degli ultimi anni - quello che era successo nel mondo prima della guerra e subito dopo la guerra - che egli non era capace di accogliere nella sua coscienza. Perché, Dorodnov ne era capace? Ma certamente Nikolaj Vasilºevi¬c era un uomo molto più integro e onesto, ecco dove stava la faccenda! E scagliarsi contro di lui significava scagliarsi contro la stessa bandiera dell'onestà. Perché era chiaro a tutti che Dorodnov era una cosa e Gan¬cuk un'altra. Talvolta gli incompetenti domandavano in che cosa stesse propriamente quella differenza. Temporaneamente si erano

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scambiati il posto. Entrambi muovevano le pedine. Solo che uno era già un po' stanco, e all'altro avevano dato in mano da poco le pedine. Perciò, se c'era da scagliarsi contro uno dei due, bisognava farlo anche contro l'altro, contro tutti coloro che muovevano le pedine. Ma non era così. Facevano movimenti diversi, come i nuotatori nel fiume: uno muoveva le braccia sott'acqua, l'altro le muoveva lateralmente. Ah Dio mio, certo, non c'erano vere e proprie differenze! Nuotavano nello stesso fiume, in una stessa direzione. Ma il punto più doloroso era: separarsi per sempre da Sonja, dal suo amore. Ed era proprio una cosa irrevocabile, un amaro frantumarsi dell'animo: privarsi dell'amore, sia pure di una sola persona... E non era solo quello, non solo quello! Gli sarebbero piovute addosso da tutte le parti maledizioni, o braccia tenute dietro la schiena per non essere contaminati, Dio non voglia, dalla sua stretta di mano. Poi qualcuno gli avrebbe mandato un telegramma: "Siamo lieti di assegnarle il premio Griboedov, i trenta denari". Di tutto questo se ne poteva fregare. Perché avrebbe ricevuto all'improvviso una tale spinta che sarebbe volato lontano, lontano e quelli sarebbero scomparsi dal suo orizzonte, sarebbero spariti per sempre con i loro sorrisetti, con il loro disprezzo, i loro bellissimi paraocchi. Non vedere che tutto era stato già deciso sul conto di Gan¬cuk! Salvarlo sarebbe stato come nuotare contro corrente in un fiume in cui tutti sono trascinati. Si sarebbe sfiancato e sarebbe stato gettato da un'ondata sulle rocce. Non era forse lo stesso terrore, quello di trovarsi all'improvviso sulle rocce, insanguinato, con la clavicola spezzata? Allora non se lo immaginava quel terrore. Eppure il terrore è la molla più impercettibile e più segreta della coscienza. Aveva appena mosso le sue dita di acciaio, e lui subito era pronto, definitivamente e stabilmente pronto, ma c'era una forza invisibile che gli sbarrava la strada. Sonja forse? Che lui non amava? E della quale non c'era niente di migliore nella sua vita? No, non Sonja, ma quello che c'era in Sonja: il suo tepore, la sua bontà... Ecco, questa parte di Sonja faceva da barriera, ed era impossibile oltrepassarla. Allora, se erano impossibili queste due varianti, rimaneva la terza. Andare e non intervenire, tacere. Non avrebbe accontentato nessuno. Si sarebbe attirato l'odio di una parte e dell'altra. Niente da fare! Allora la quarta. Ed era l'ultima, non ce n'erano più. Non andare affatto. Ma come? Lo avevano avvertito: più che obbligatorio. Quindi ci sarebbe voluta una disgrazia, una catastrofe. Ad esempio, andare sotto una macchina mentre attraversava la piazza per recarsi alla riunione. Imbattersi in un cane randagio che lo mordesse cosicché doveva essere subito portato a fare la puntura antirabbica. Che cosa non andava pensando! Tutte le sciocchezze. Ecco, se quell'attacco cardiaco e la perdita di conoscenza che aveva avuto due giorni prima fossero capitati allora! Ma Druzjaev, come lavoratore della giustizia, avrebbe svolto un'inchiesta e avrebbe chiarito che la causa era l'abuso di alcool. No, non era possibile non andare. Ma anche andare non era possibile. Ogni cosa era impossibile. Stallo. Nessuna figura si poteva muovere. Fu questo all'incirca, solo in maniera discontinua, in breve, con voce fiacca, interrompendosi e restando a volte sopra pensiero, che Glebov raccontò a nonna Nila. Gli aveva chiesto di parlare di qualcosa, dei suoi problemi. "Mi piace sentir parlare dei vostri problemi..." La nonna non aveva mai lavorato in vita sua. Cioè, aveva lavorato tutta la vita, ma in casa, in famiglia. E certamente non capiva niente di quello che Glebov le diceva. Ma lui raccontava lo stesso, bisognava raccontare qualcosa e in testa aveva solo questo. Nonna Nila a un tratto si mise pure lei a raccontare quello che le era venuto in mente poco prima, molto dettagliatamente. Erano tutte cose del passato. Un passato che faceva impressione: una settantina

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d'anni. Il nonno Nicolaj, il trisavolo di Glebov, un commerciante, l'aveva portata d'estate in campagna. Abitavano alla Varvarka, oltre il palazzo Soljanyj - la casa la vendettero prima della rivoluzione, andarono allo ¬s¬cipak, al di là della Moscova - ma in campagna, nel distretto Venevskij, c'era una casa che suo nonno Nikolaj aveva fatto costruire per la suocera, che non voleva andare ad abitare a Mosca. Nonna Nila, da ragazza, amava molto andare d'estate in campagna. Non amavano nonno Nikolaj. Lo chiamavano il Secco. Ma a nonna Nila sembrava buono. Durante il viaggio le davano sempre il "fardello di tela" gialla, pulita, dove c'erano caramelle, panpepato e noci. Tutta questa roba era chiamata "minutaglia". Così chiedevano al negozio: "Due sacchetti con la minutaglia!". E le ragazze della campagna aspettavano, aspettavano e, appena il carretto entrava nella corte, arrivavano subito. E nonna Nila distribuiva i regali: a te le noci, a te le caramelle, a te il panpepato al miele. Lo zucchero della quaresima piaceva alla bisnonna, la vecchietta per la quale nonno Nikolaj aveva fatto costruire l'izba, anche se poi non ci viveva lo stesso, perché era stata costruita come una casa di città, non c'era una vera antiporta, ma un'intera sala, e i mobili erano cittadini, e perciò viveva da un'altra figlia, in una vera e propria izba, e quell'altra casa restava vuota, finché non arrivavano dalla città. E il nonno chiedeva: "Che cosa le devo portare, mamma, da Mosca?". "Lo zucchero quaresimale, Nikolaj Efimovi¬c, se è possibile!" Sì, certamente, per la quaresima, quando si presentava l'occasione per mandarglielo. D'estate, sicuramente ne portavano due banchetti (lo vendevano a banchetti nel negozio di Zajcev). Non erano banchetti grandi, erano cassette poco profonde, ce n'erano due strati, di vari colori: c'erano al limone, al lampone, alla mela, alla prugna, misti. E in mezzo ai pezzi di zucchero due moggi di tè. Così si raccontavano le cose tra loro - Glebov a nonna Nila, lei a lui - e a tutti sembrava che la vecchietta stesse migliorando. Dava persino dei consigli: "Dima, sai che ti dico, - lo guardava con compassione, con le lacrime agli occhi, come se stesse morendo lui e non lei. - Non ti tormentare, non ti accorare. Se non si può fare niente in ogni caso, non pensarci... Le cose andranno da sole, si aggiusteranno per il meglio...". E, cosa strana, quella notte Glebov si addormentò tardi senza pensare a niente, in pace. Alle sei di mattina fu svegliato da una voce bassa, o da qualcos'altro, d'improvviso e udì: "Nonna Nila è morta...". Sulla porta c'era Klavdija, nera, senza viso, sullo sfondo del corridoio illuminato. La voce bassa e quasi maschile era la sua. Dietro la parete, zia Polja singhiozzava piano piano, per paura di disturbare i vicini. Singhiozzava in modo bizzarro, come una gallina che starnazzi mentre le tirano il collo. Venne il padre, si discusse di qualcosa a proposito del medico, delle faccende da sbrigare. Così cominciò il giovedì. E quel giorno Glebov non riuscì ad andare da nessuna parte.

Nella casa sul lungofiume ci tornai tre anni dopo, nel settembre del '41. La scuola non era ancora cominciata. C'erano delle fredde notti stellate. Facevamo una vita notturna e quelle notti mi sono rimaste impresse. Di giorno avevamo un gran daffare: ora andavamo al porto, ora al deposito di legname, ora portavamo gli avvisi per incarico del commissariato militare e, nei ritagli di tempo, imparavamo ad usare l'idropompa a mano, a svolgere il tubo, ad aprire il tombino stradale. Insomma, eravamo dei pompieri. E che pompieri! Aiutavamo chiunque capitasse. Al porto scaricavamo le casse di munizioni dalle chiatte, al deposito di legname liberavamo i camion dalla legna. Facevamo tutto in fretta, non mettevamo in ordine la legna, ma la tiravamo giù dagli autocarri come capitava, facendone dei mucchi. Bisognava liberare la strada il più presto possibile.

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Questo mi ricordo: la fretta selvaggia. E mi ricordo come mi sentivo schiantare quando cercavo di sollevare i ciocchi più grandi. Ma la nostra vera vita cominciava di notte, dopo che la radio aveva dato l'allarme. E allora cominciava il nostro turno: salivamo in soffitta, correvamo sui tetti alla ricerca di qualche pestilenziale "accendisigaro", per afferrarlo con le lunghe tenaglie e buttarlo giù, ma soprattutto respiravamo il freddo mortale di quelle notti. Erano così luminose, color cenere. Brillavano i lampi lontani, il rombo tappava le orecchie. E quell'odore di fumo e di polvere sopra i tetti di Mosca, i frammenti di schegge, il triste odore di bruciato degli incendi, laggiù, oltre la Serpuchovskaja... La caserma della nostra compagnia di pompieri - il nome intero era pressappoco "Compagnia del komsomol giovanile di difesa antincendio del rione Lenin" - era situata sulla Jakimanka, al di là del ponte. La casa sul lungofiume non faceva parte del nostro settore. Ma una volta ci capitammo. Non riesco a ricordare che cosa ci andammo a fare, e perché ci mandassero là. Mi ricordo che sul tetto incontrai Anton con tre ragazzi e poi corremmo da Sonja Gan¬cuk, e c'era Vadºka Sfilatino che il giorno dopo andava via da Mosca. Forse era andato là per salutare. Il loro convoglio partiva all'alba. Ma alla stazione dovevano andare in piena notte perché era molto difficile trovar posto in vettura. Io avevo accompagnato mia zia e ne sapevo qualcosa. Sfilatino era molto cresciuto, aveva una voce di basso e gli spuntavano dei baffetti neri. Probabilmente era andato da Sonja non solo per salutarla, ma anche per prendere un baule che lei gli aveva promesso. Mi ricordo che stava in mezzo alla cucina e beveva in piedi una tazza di tè, mentre Sonja spolverava il baule straordinariamente pieno di polvere, e a un tratto si spense la luce, ci mettemmo a cercare una candela o una torcia, quando suonò l'allarme. Per la seconda volta in quella notte. Quando la luce poco dopo tornò, vidi che Sonja aveva il viso bagnato di lacrime e sorrideva. Sonja in quel periodo era quasi del tutto scomparsa dal mio ricordo, e Vadºka Sfilatino mi era indifferente. Tutto questo apparteneva alle sofferenze dell'infanzia ormai lontana. Mi ricordo ancora un particolare di quella notte: Anton aveva appeso alla cintola un enorme pugnale caucasico. Anton e io eravamo in piedi, sul tetto, accanto alla ringhiera metallica dalle sbarre sottili, e guardavamo la nera città notturna. Né un chiarore, né una fiammella in basso, un buio fitto e ovattato, si vedevano solo due ferite rosate muoversi nella tenebra: incendi al di là della Moscova. La città era infinitamente grande. Era difficile difendere l'immensità. E anche il fiume non lo si poteva nascondere. Brillava del riflesso delle stelle e le sue anse delimitavano le varie zone della città. Pensavamo alla città con dolore, come a un essere vivente che avesse bisogno di aiuto. Ma come potevamo aiutarla? Vi fu un attimo di stupore e di silenzio. Stavamo sull'orlo di un abisso invisibile e guardavamo il cielo, dove ogni cosa tremava, cambiando colore, ed era tesa nell'aspettativa di un mutamento del destino: le stelle, le nuvole, gli aerostati, le lame dei riflettori che cadevano di traverso senza rumore e fendevano incessantemente quel fragile universo. E allora Anton borbottò una frase che mi meravigliò "Sai di chi mi dispiace? Delle nostre madri...". Questo significava che noi, quelli di un tempo, non esistevamo più. Una demolizione forzata. Il tempo, come il cielo, si rompeva con un crepitio assordante. Poi, ricordo, stavamo sul pianerottolo ad aspettare l'ascensore per far scendere giù la madre di Sonja che stava male. Sfilatino fece in tempo a dirmi che io ero stato un dritto, che avevo fatto appena in tempo a svignarmela da quella casa. I tedeschi ci avevano dato dentro. Le bombe erano cadute tutto attorno: sul ponte, sulla Kada¬sevka. Era come se rendesse merito alla mia astuzia personale o

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alla buona fortuna, non lo so, in ogni caso io ci sentivo della malignità. Ma non mi preoccupai di rispondergli, perché mi era completamente indifferente. A ogni piano sbattevano le porte. Da tutte le parti c'era rumore, gente che si chiamava, scalpiccio sui gradini, la scala vibrava. Tutti tendevano l'orecchio a quello che succedeva nel cielo. Finché non ci fu silenzio. Anton disse: "Forse è una carogna isolata". Dall'appartamento di fronte uscì un uomo con il cappotto messo sopra alla camicia da notte, e dietro di lui una donna che teneva in braccio una ragazzina molto grossa dalle gambe lunghe. Da lontano giungeva il rombare dei pezzi antiaerei. La donna disse, senza rivolgersi a nessuno: "Vadano all'inferno tutti quanti, brutti bastardi...". Poi guardò il marito e domandò: "E' vero, Kolº?". Quando si aprì la porta dell'ascensore e la madre di Sonja fece per entrarvi, la donna la respinse abilmente con le gambe della ragazzina, dicendo: "No, aspetti", entrò per prima in ascensore, poi entrarono il marito e qualcun altro. L'ascensore partì. Il professor Gan¬cuk chiese: "Chi sono costoro?". Sonja disse che erano i nuovi vicini. E aggiunse, incerta: "Non è gente cattiva, ma sono così strani...". Io e Anton incrociammo le mani a seggiolino, ci facemmo sedere sopra la madre di Sonja e la portammo giù, al rifugio. I cannoni antiaerei erano sempre più vicini e rumorosi. Quando uscii di casa in cortile, il rombo delle cannonate era dovunque e, negli intervalli tra le scariche, si sentivano distintamente cadere con violenza sull'asfalto le schegge dei proiettili antiaerei. Così, di corsa, nel fracasso, mi congedai da tutti loro, o forse non feci neanche in tempo a salutarli... No, ci fu un altro incontro, ancora uno! L'ultima volta che incontrai Anton fu alla fine di ottobre nella panetteria di via Poljanka. L'inverno era arrivato all'improvviso, con il gelo, la neve, ma Anton era naturalmente senza berretto e senza cappotto. Disse che tra due giorni doveva sfollare con la madre negli Urali e mi chiedeva consiglio su che cosa doveva portare con sé: i diari, i romanzi di fantascienza o gli album di disegni? La madre aveva le mani malate. I pesi li poteva portare solo lui. Le sue preoccupazioni mi sembravano assurde. A quali album, a quali romanzi si poteva pensare, quando i tedeschi erano alle porte di Mosca? Anton scriveva e disegnava ogni giorno. Dalla tasca della sua giacca sporgeva un quaderno di tipo comune piegato in due. Disse: "Scriverò di questo incontro dal fornaio. E di tutta la nostra conversazione. Perché tutto è importante per la storia". Molti anni dopo andai dalla madre di Anton - era la sola rimasta nella casa sul lungofiume, in quello stesso appartamentino al pianterreno - e lei mi diede sei quaderni di diari di Anton. Erano i diari dell'ultimo anno prima della guerra, chissà perché erano rimasti a Mosca. Per questo si erano conservati. Tutte le altre opere di Anton Ov¬cinnikov, i suoi album e i lavori scientifici, erano finite nel fiume Isetº, quando il barcone si era rovesciato e Anton e sua madre erano riusciti a stento a salvarsi.

Ecco che cosa Glebov si sforzava di non ricordare: quello che gli aveva detto Kuno Ivanovi¬c, quando, per una sfortunata circostanza, si erano scontrati sul viale Ro¬zdestvenskij. E come si era comportato nel sentire quello che gli aveva detto l'altro. Altri tempi, sette otto anni prima, ma era nervoso, eccitato, sia perché era alla vigilia del dottorato, sia perché correva da una parte all'altra, continuamente, e non si aspettava quell'incontro sul viale Ro¬zdestvenskij. D'inverno! Sì, era pieno inverno. Il viale era giallo di sabbia, e di lato era ammucchiata la neve. Qualcuno cadde nella neve. Glebov non era solo. Di questo appunto si preoccupava, di

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ciò che potevano dire gli altri, e Glebov perse la testa. Se non fosse stato che lo trascinarono via, sarebbe finita in malo modo. Perché non si rendeva conto di quello che faceva. Avrebbe voluto strozzare quell'uomo, lo aveva buttato a terra, gli aveva stretto la gola. Tutta la vita si era sforzato di dimenticarlo e quasi ci era riuscito, aveva quasi dimenticato - per esempio, non si ricordava più quali parole avesse detto esattamente quell'uomo - e gli era rimasta soltanto una specie di leggera stretta in mezzo al petto, come uno spavento da tempo svanito. Quando si affacciava il ricordo di quell'omino, estremamente di rado e senza una spiegazione, tutto si limitava alla sensazione di una leggera stretta in mezzo al petto. Cercava poi di non ricordare il viso di Julija Michajlovna, quando gli passò accanto nel corridoio, ritornando dallo studio di Druzjaev, una ragazza la teneva sotto braccio. Glebov ebbe un attimo di esitazione, non sapendo come comportarsi, se inchinarsi e dire qualcosa o salutare con un inchino e tacere, invece rimase di stucco, e anche a lei si gelò l'espressione, mentre passava. Ecco, cercava con tutte le sue forze di non ricordare quel viso gelido, perché la memoria è una rete che non bisogna tendere troppo, affinché possa reggere carichi pesanti. Che i pesi intollerabili squarcino la rete e cadano, scompaiano. Altrimenti si dovrebbe vivere in continua tensione. Quel viso gelido ed esangue era stato per qualche tempo dimenticato, ma ricompariva all'improvviso, quando gli giungeva qualche notizia, per esempio quella della sua morte. Era morta presto, quando Glebov era ancora assistente. Del resto era molto malata di cuore. Non si capiva perché si fosse tanto battuta per ritornare a lavorare. Non avrebbe potuto lavorare, in nessun caso. Né lavorare, né questionare, né discutere, né vendicarsi, niente, se non vivere una vita tranquilla a Bruskovo tra le aiuole, ma lei non ci riusciva, e poi anche Bruskovo non c'era più. Si era rovinata con le proprie mani. Glebov non sapeva tutti i particolari della vicenda, ma a un tratto era ricomparso quel volto. E tutto il resto, tutto quello che cercava di dimenticare. Per esempio, quello che aveva detto Gan¬cuk al consiglio di redazione, quando si incontrarono nello stesso dibattito. Non fu detto niente di ingiurioso. Nessuno capì quello che il vecchio voleva dire: stava male, gli era capitato qualcosa alla parte destra della faccia, perciò parlava in maniera poco chiara, e lo ascoltavano senza troppa attenzione. Sebbene egli fosse stato reintegrato in tutte le sue funzioni e il suo principale nemico, Dorodnov, fosse stato eliminato e messo ormai nel dimenticatoio - gli ultimi anni avevano messo fine a quella battaglia - tuttavia qualcosa di vitale era ormai scomparso. Ascoltare un vecchio che raccontava solo minuzie di poco conto non era molto interessante. Nessuno, all'infuori di Glebov, prestava ascolto al suo borbottare. Ma Glebov colse del sarcasmo nel discorso del vecchio. Lo ferì e lo meravigliò: quei muscoli flosci, a quanto pare, erano ancora in grado di contrarsi! Tutto questo bisognava dimenticarlo. Come pure quel giorno di settembre, a Riga, nel caffè all'aperto, non lontano dai grandi magazzini del centro, quando vide Sonja al tavolino accanto. Erano tutt'altri tempi, diversi anche da quelli che vennero in seguito, del tutto, del tutto diversi, e Glebov poteva pensare che non lo avrebbero riconosciuto, e tutto ciò che giungeva sino a lui da un passato che ancor non molto tempo prima lo faceva soffrire e lo torturava, adesso non suscitava alcun sentimento, si sgranava, si staccava. Una volta venne a sapere che Sonja era stata portata in un ospedale fuori città, c'era da aspettarselo, aveva infatti una brutta eredità: la madre di Julija Michajlovna aveva finito i suoi giorni in una clinica per malattie mentali, e la stessa Julija Michajlovna certo non era molto sana. Qualcuno di quelli che andarono a trovare Sonja disse che la sua malattia si manifestava nella paura della luce e nel voler stare sempre al buio. Era come se non avesse altro. Soltanto questo terrore della luce e il desiderio

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dell'oscurità. Poi forse si era ristabilita. Non lo sapeva con precisione. Non c'era più nessun collegamento tra di loro. Ed ecco quell'incontro a Riga; Glebov abitava al lido, era venuto in città per un giorno solo, Marina andava in giro per negozi, e, a un tratto, Sonja al tavolino accanto. Vicino a lei era seduta una donna dall'aspetto strano, alta, con un nasone e gli occhiali, con l'abbigliamento sciatto dei turisti: pantaloni e scarpe da ginnastica. Sonia fissò Glebov, che si voltò sentendo quello sguardo su di sé. E subito, involontariamente, fece un movimento verso di lei e disse qualcosa: "Sonja!" oppure "Ciao!" oppure "Sei tu?". Un'onda di allegria, di calore lo sommerse per un attimo. Sonja era invecchiata, si era appesantita, aveva i capelli per metà grigi, ma le era rimasta la capacità di impallidire all'istante e proprio così, con il viso pallido, lo guardava spaventata, poi la donna con il naso lungo la prese sotto braccio, la fece alzare dalla sedia e se ne andarono. Gli rimasero impresse le enormi scarpe da ginnastica di quella donna. Marina domandò: "Conosci quelle donne? Chi sono?". Disse che erano delle conoscenze di Mosca, ma chi fossero propriamente non se lo ricordava. Forse non era del tutto esatto, Glebov si sforzava soltanto di non ricordare. Quello che non ricordava, cessava di esistere. Non c'era stato mai. Non c'era stata mai una seconda riunione, con molte persone, quando ormai non aveva senso tormentarsi per i rimorsi, bisognava comunque andarci, e, se non doveva più intervenire personalmente, doveva però ascoltare gli altri. Pare che avesse detto qualcosa in quell'occasione. Qualcosa di molto breve, di poco importante. Uscito completamente dalla memoria: che cosa aveva detto? Non aveva importanza. Per Gan¬cuk tutto era stato deciso e firmato. All'Istituto regionale di alti studi pedagogici, per il rafforzamento dei quadri periferici. Ci furono alcune obiezioni, crisi di isterismo, niente di interessante, dimenticato, non c'era mai stato. C'era poi stato davvero? Ma ecco qualcosa di certo: la pasticceria di via Gorºkij. Gli rimase impressa per tutta la vita. Questo c'era stato. E tutto il resto, le grida, le agitazioni, cinque ore a parlare, con le pause per il fumo, Levka ubriaco che ciarlava, l'onomastico di ¬sirejko - a quanto pare era balzato in prima fila tra i pezzi grossi, ma chissà per quale motivo la sua carriera si ridusse a quegli incontri, senza progredire - tutto quel fracasso, quella confusione, quelle assurdità che si sollevarono attorno a Gan¬cuk, fra mille piedi che battevano a ritmo e mani che si contorcevano, e lacrime, infarti, applausi, tutto questo era scomparso, come un incantesimo palustre. Ecco, non c'era stato, non c'era mai stato. Camminava per la strada, con il capo confuso e pesante, accanto a lui c'era Levka, completamente distrutto. Là si reggeva ancora e sulla tribuna aveva l'aspetto di uno in gamba. Levka borbottava: "Siamo degli animali, delle canaglie...". Bisognava portarlo a casa, poteva cadere. Fu allora che cominciò la sua china discendente. Alcuni anni più tardi, quando la sua vita si capovolse, il suo secondo "papà", simile a un baffuto soldato cosacco, fu esonerato dall'incarico, la casa andò in rovina, la macchina scomparve, la madre, rimasta sola, si fissò bizzarramente su cose pazze, Levka diventò l'amministratore di una piccola squadra di calcio e viaggiò di città in città, per trovare gli alloggi, le scarpe, i palloni, le partite "fasulle". Si ubriacava, perciò presto lo cacciarono via da ogni parte, poi trovò qualche altra occupazione, e, quando la polizia lo raccattava dal marciapiede, talvolta diceva di chiamarsi Glebov e dava l'indirizzo di Glebov. Per la verità dava anche altri indirizzi. Da Glebov lo riportarono un paio di volte. Ma anche questo era avvenuto molto tempo prima. Quattordici anni prima. Poi le onde si erano chiuse sopra di lui, e Glebov non ne aveva saputo più niente, fino a quell'improvvisa apparizione nel negozio di mobili, quando ormai non era più capace di provare nessun sentimento,

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al di fuori della cosa che l'interessava in quel momento. Ma allora, dopo la riunione, prima del diluvio, quando vagavano a zonzo per Mosca, non potevano ancora immaginare niente: Levka non sapeva che presto avrebbe fatto un capitombolo, ruzzolando come uno slittino vuoto giù per la montagna ghiacciata, e Glebov non sapeva che sarebbe arrivato un tempo in cui avrebbe cercato di non ricordare tutto quello che gli stava capitando in quel momento, e, per conseguenza, non sapeva di vivere una vita che non c'era. E a un tratto, dietro la vetrina della pasticceria di via Gorºkij, nei pressi di piazza Pu¬skin, Glebov vide Gan¬cuk. Stava in piedi davanti a un tavolino alto, attorno al quale altra gente beveva il caffè, e mangiava con avidità un millefoglie, tenendolo con tutte e cinque le dita dentro il tovagliolino di carta. Il viso carnoso, dalle grinze rossastre, esprimeva piacere, si muoveva, si contraeva, come una maschera ben tesa, vibrava in tutta la pelle, dalle mascelle alle sopracciglia. Gan¬cuk era così assorto nell'assaporare la dolcezza della crema e della cialda sottile e friabile, che non si accorse né di Glebov, che era rimasto impietrito davanti alla vetrina e lo guardava fisso, né di ¬sulepnikov che gli ciondolava accanto. Eppure mezz'ora prima quell'uomo era stato annientato; Glebov poi raccontò spesso la storia della pasticceria. Sì, c'era di che raccontare. Molto, di tutto. Ma c'era anche qualcosa, molte cose, che era meglio non ricordare. E quello stava lì, a mangiare il millefoglie con enorme appetito! Ma qualcos'altro gli si era impresso nella memoria con tutte le sfumature, i dettagli, le ombre: la prima visita ai Gan¬cuk, dopo i funerali della nonna, dopo la riunione alla quale era riuscito a non andare, ma prima della seconda riunione di marzo. Una di quelle fesserie che solo lui sapeva fare. Eppure dentro di sé aveva già deciso tutto. La fesseria consisteva nel fatto che Glebov aveva voglia di ricevere da Sonja, sia pure indirettamente, alla lontana e di nascosto, il permesso di andarsene. Sognava, cioè, che gli dicesse: "Sì, tu hai ragione, caro, devi lasciarmi. Così è meglio per me, per te, per papà, per la scienza, per tutto e per tutti". Naturalmente, Sonja non poteva dire niente di simile. Ma che solo lo vedesse e condividesse le sue sofferenze, avrebbe così capito che non c'era via d'uscita. Chissà perché era convinto che avrebbe capito. Era quello infatti il suo pregio maggiore: capire tutto. Venne ad aprire Julija Michajlovna. Glebov sentì che la madre di Sonja per un attimo barcollò nel vederlo e indugiò quasi a parlare: "Ah, salve, si accomodi...". Glebov entrò. Tutto era irriconoscibile. Julija Michajlovna con un gesto veloce e sprezzante indicò l'attaccapanni: "Può mettere lì". Come se fosse stata la prima volta. Gli fecero capire subito che per lui quella casa non esisteva più. "Sonja rientra subito. Aspetti per favore in sala da pranzo." Con lo stesso gesto sprezzante gli fu indicato dove sedersi: sul divanetto accanto al pianoforte. Si sedette sul divanetto. Julija Michajlovna se ne andò. Glebov era solo e abbastanza tranquillo, sebbene provasse un certo disagio e il presentimento di dolorose sensazioni future, come nella sala d'aspetto del dentista. Ma era necessario andarci, era indispensabile togliersi il dente malato, perciò era pronto a soffrire. Una cosa lo lasciava perplesso: perché Julija Michajlovna era così palesemente fredda? Non lo capiva. Eppure era prima della riunione di marzo. Non poteva leggergli nel pensiero quello che lui aveva deciso, solo per se stesso. Glebov contava, non appena Julija Michajlovna fosse tornata, di domandarle con sincera meraviglia che cosa fosse successo. Per quale motivo fosse arrabbiata con lui. Julija Michajlovna non venne. Sonja era sempre fuori. Sentiva Julija Michajlovna che correva con passi veloci in corridoio, parlava con Vasena, poi la sentì bussare alla porta dello studio, udì la voce di Gan¬cuk e Julija Michajlovna che diceva a voce alta: "Non è quello che voglio!", e Gan¬cuk che rispondeva con una frase indecifrabile.

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Poi tutto tacque. Nella sala da pranzo non entrava nessuno. La porta si aprì senza far rumore, comparve Mavrikij, il gatto nero, e senza degnare di uno sguardo Glebov, gli passò accanto, come fosse una sedia, attraversò la sala da pranzo e andò verso la camera di Sonja. Era già mezz'ora che Glebov era seduto sul divanetto. Cominciava a innervosirsi. Che razza di trattamento era quello? E per quale motivo? Non ne vedeva nessuno. Se non era andato al consiglio c'era stato un grave motivo. Altro che! La morte di un parente è una cosa più seria delle noie delle riunioni ufficiali. A poco a poco diventava sempre più maldisposto contro Julija Michajlovna - in lei aveva sempre sentito una certa boria, egoismo, antipatia - e nello stesso tempo contro Gan¬cuk, che le dava manforte in tutto. Glebov per la prima volta pensò tra sé con gioia maligna che in fondo non era male dare una lezione a quella gente. Non si può guardare sempre tutto dalla propria torre d'avorio. E non era un caso che avessero così pochi sostenitori. Quando Julija Michajlovna a un tratto entrò, portando non il tè, non una scatola di biscotti, e neppure il posacenere, ma una lampada da tavolo, Glebov disse con un tono quasi di sfida: "Ce l'ha forse con me, Julija Michajlovna?". Julija Michajlovna fece uno strano mugolio, ma non rispose subito. Mise la lampada in un angolo della stanza, sul tavolino dei giornali. La posò e l'accese. "Già, s'immagini, sono arrabbiata." "Ma perché, Julija Michajlovna?" "Non si può spiegare in due parole. Non abbiamo tempo per fare discorsi. Sta per arrivare Sone¬cka. E' un po' scuro, non è vero? Bisogna accendere la luce. Mehr Licht, come disse Goethe in punto di morte." Accese la lampada e uscì. Erano le quattro del pomeriggio, non era poi così buio. A un tratto Julija Michajlovna tornò, chiuse bene la porta dietro di sé; le brillavano gli occhi, e i suoi movimenti erano frettolosi. Si sedette sulla sedia di fronte al divanetto e, fissandolo negli occhi con uno sguardo acceso, disse piano e rapidamente: "Proverò lo stesso a spiegarle, prima che venga Sone¬cka. Parlo a bassa voce perché Nikolaj Vasilºevi¬c non senta... Io non avrei voluto questa conversazione, ma lei ha insistito... Sa quello che penso di lei? La odio. Sì, sì, non faccia quegli occhi meravigliati...". A questo punto disse qualcosa di inconcepibile. Che era sempre difficile comprendere una persona, ma veniva un momento (chissà perché disse "il momento della mezzanotte") in cui si rivelava interamente. Parlò di sua madre che era chiaroveggente e sapeva prevedere il futuro. Glebov ricordava che a un tratto si era spaventato: se anche lei era chiaroveggente e gli leggeva nel pensiero? Ecco la spiegazione di quella freddezza. Ma Julija Michajlovna, come se rispondesse ai suoi pensieri, disse che non aveva tale dono e non sapeva come sarebbero andati i suoi rapporti con Sonja, non voleva immischiarsi, tuttavia le sembrava... Pensava con spavento... Malediva quel giorno... Che razza di confusione, che flusso di risentimenti, di controsensi, di pazzie! Certamente quella donna era malata. Sonja diceva che, quando sua madre aveva la pressione alta e stava per avere un attacco di stenocardia, la sua psiche si alterava. Avrebbe voluto andarsene, e balzò in piedi dicendo: "Le porto dell'acqua!". Ma Julija Michajlovna, afferratolo per un braccio, non lo mollava. Le sue dita prensili lo stringevano con una forza inaspettata. Si sentì gelare: gli sembrava che solo una pazza potesse avere una forza simile. Ma Julija Michajlovna non era pazza, semplicemente, chissà perché, odiava Glebov e si era affrettata a dirlo. Come se avesse indovinato i suoi pensieri, disse rapidamente: "Non c'è bisogno di chiamare nessuno, riuscirò a dirvi tutto, Sonja verrà, berremo il tè. E - mi sente? - io non le ho detto niente, eh...".

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Poi, con la stessa fretta, a mezza voce, rapidissima, gli disse che era un uomo intelligente, ma che la sua era un'intelligenza fredda, inutile agli altri, disumana, un'intelligenza fine a se stessa, di un uomo del passato. Era una specie di delirio clinico. "Lei non immagina quanto è borghese!" Si era servito di tutto: della sua casa, della dacia, dei libri, del marito e della figlia. Che cosa poteva obiettare Glebov? Non si poteva mettere a discutere con una donna così disgraziata. Alzandosi dal divano chiese: "Posso portarle dell'acqua?". "Sì" disse piano Julija Michajlovna. Glebov andò in cucina, Vasena gli dette un bicchiere. Lo riempì di acqua bollita e tornò. Julija Michajlovna era seduta sulla stessa sedia e guardava davanti a sé. "Sa che cosa le dico? - disse lentamente, come tornando in sé, e prendendo il bicchiere. - Ecco quale sarebbe la cosa migliore... Questa conversazione rimanga fra noi. La cosa migliore e che lei se ne vada da questa casa..." Glebov chiese che cosa aveva fatto di male. "Niente, ancora. Non c'è ancora riuscito. Ma perché aspettare che lo faccia? Se ne vada adesso... La prego, la supplico... - e lo guardava davvero con aria implorante. - Sone¬cka non saprà niente della nostra conversazione. Glielo giuro! Vuole dei soldi?" "Che soldi? Di che cosa parla?" "Certo, le serviranno dei soldi. Li ama, non è vero? E non ne ha. Quanto le do? - cominciava di nuovo a delirare. - Dica presto, prima che venga Sonja. Su, su, dica. Io glieli do, a patto che lei subito, immediatamente... No, fermo! Ora le porterò un'altra cosa! - E a questo punto abbassò ancora di più la voce. - Le darò un anello antico, con uno zaffiro. Le piacciono le cose borghesi? L'oro? Le gemme?" "Se vuole che io me ne vada, - la interruppe Glebov, - prego, non ho niente in contrario..." Julija Michajlovna agitò le mani sussurrando: "Un minuto! Glielo porto subito! A me non serve, mentre a lei sarà utile!". Si slanciò verso la porta della camera da letto, ma, per fortuna non poté compiere il suo gesto: era entrato Gan¬cuk. Vi fu una conversazione strana, confusa, a scatti. Su Dostoevskij. Gan¬cuk diceva di aver sottovalutato Dostoevskij, che Aleksej Maksimy¬c aveva torto e che era necessaria una rivalutazione. Ora avrebbe avuto molto tempo libero e se ne sarebbe occupato. Julija Michajlovna guardava il marito con tristezza e passione. Disse qualcosa su Dostoevskij, che il suo principale tormento - tutto è lecito se non c'è altro che una stanza buia con i ragni - era valido ancora in una riformulazione banale e quotidiana. Tutti i problemi si erano ridotti alla forma più meschina, ma esistevano sempre. I Raskolºnikov odierni non uccidevano le vecchie usuraie con la scure, ma si tormentavano di fronte allo stesso limite: potevano superarlo? E in fondo che differenza c'era, con la scure o in un altro modo? Uccidere o dare un colpetto: purché si liberi il posto. Del resto Raskolºnikov non uccideva per l'armonia universale, ma semplicemente per sé, per salvare la vecchia madre, per aiutare la sorella, e per sé, per sé, Dio mio, per sé, in qualche modo, in qualche luogo, in questa vita... Egli pensava ad alta voce, senza preoccuparsi che lo sentissero o che capissero quello che voleva dire. Anche la voce era cambiata. All'improvviso entrò Sonja. Proprio quando Gan¬cuk diceva: "E lei, Dima, perché è venuto? E' una cosa incomprensibile, secondo la logica formale. Ma, forse, c'è un'altra spiegazione...". "Papà, - gridò Sonja, lanciandosi verso Glebov. - Non tormentare Dima! Lo hanno già tormentato tanto!" Sonja era in piedi, davanti a Glebov, come per proteggerlo, come se Gan¬cuk potesse scagliare qualcosa contro di lui. Ma Gan¬cuk non la stava a sentire, non l'aveva vista.

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"C'è, forse, - diceva, - una spiegazione metafisica. Si ricorda? Tutto attirava Raskolºnikov in quella casa... Ma no! Non questo! - con un gesto netto, professorale, scartò la propria ipotesi. - Allora tutto era molto più chiaro e più semplice, c'era un aperto conflitto sociale. Mentre ora l'uomo non capisce fino in fondo quello che fa... Perciò è un contrasto con se stessi... L'uomo cerca di convincersi... Il conflitto entra in profondità, ecco che cosa succede..." "Papà, caro, - disse Sonja, - ti prego!" "Sì, va bene, figlia mia, scusami. Perdonami, - Gan¬cuk guardò per la prima volta Glebov con attenzione, riconoscendolo. - E poi io non sono affatto offeso con lui. Assolutamente no." Egli se ne andò, ma dopo poco, quando Glebov aveva seguito Sonja e si era sdraiato, come faceva di solito nei momenti di stanchezza, sul divano col tappeto, e Sonja gli si era seduta accanto e gli accarezzava i capelli, perché le faceva molta compassione (sapeva quanto voleva bene a nonna Nila), Gan¬cuk a un tratto ricomparve e chiese con la sua solita voce: "E sa in che cosa consiste l'errore? Nel fatto che nel '28 abbiamo risparmiato Dorodnov. Bisognava abbatterlo". Queste parole tranquillizzarono Glebov: capì che il vecchio era rimasto tale e quale. Cioè, tutto quello che era successo, era giusto. Glebov passò la notte da Sonja. Non poterono dormire. Si addormentarono all'alba. Glebov fece un sogno: in una scatoletta rotonda di latta c'erano delle croci, decorazioni, medaglie, distintivi, e lui ci frugava dentro, cercando di non far rumore per non svegliare qualcuno. Il sogno con le croci e le medaglie dentro la scatola di latta si ripeté poi altre volte nella sua vita. La mattina dopo, mentre faceva colazione in cucina e guardava la grigia arcata del ponte, gli uomini, le automobiline, il palazzo grigio-giallastro, incappucciato di neve, dalla parte opposta del ponte, disse che avrebbe telefonato dopo le lezioni e che sarebbe tornato la sera. Non tornò mai più in quella casa. Ecco che cosa ricordò Glebov, in parte con uno sforzo di memoria, in parte da sé, involontariamente, la notte seguente il giorno che aveva incontrato Levka ¬sulepnikov nel negozio di mobili. Una sola cosa gli sembrava strana e quella notte si addormentò, nel suo studio al primo piano, con la finestra sul giardino, senza aver sciolto l'enigma: perché Levka non aveva voluto riconoscerlo?

Nell'aprile del 1974 Glebov andò in treno a Parigi al congresso dell'Associazione internazionale dei critici e dei saggisti (era membro della direzione della sezione di saggistica). In treno incontrò la madre di Levka, Alina Fëdorovna: si recava a Parigi su invito della sorella, che aveva lasciato la Russia cinquantatré anni prima. Alina Fëdorovna era diventata una vecchietta canuta e gobba, ma Glebov la riconobbe subito: lo stesso viso dal naso curvo e dalle guance magre e abbronzate, lo stesso sguardo acuto e brillante, e la stessa sigaretta fra le labbra, che conosceva fin dall'infanzia. Stava in piedi, per ore, in corridoio vicino al finestrino, a fumare. Glebov si avvicinò, si fece riconoscere, ma non riuscì ad avviare una conversazione. All'improvviso, come tanto tempo prima, sentì la barriera di presunzione che circondava quella donna. Com'era ancora possibile? Tutto era stato distrutto, la vita era finita, il figlio era finito male - non ne voleva sentir parlare - e, tuttavia, la vecchia dama socchiuse gli occhi, come se vedesse Glebov attraverso un occhialino e chiese con maestosa indifferenza: - Ah, sì? Saggistica? E' interessante? -. Dopo Varsavia, cominciò a parlare un po' di più, e Glebov venne a sapere che riceveva una pensione a causa del primo marito, Prochorov-Plunge, un vecchio comunista, riabilitato dopo la morte; che abitava in un bel monolocale sulla prospettiva Mir, vicino al metrò, dove stava da sola; che non desiderava vedere nessuno: né l'amato figlio, né l'ex nuora che otto anni prima aveva

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lasciato il figlio, perché non c'era nessuno che poteva sopportarlo, né il nipote, un fannullone di diciassette anni, che si era ricordato di lei solo quando si preparava ad andare dai parenti a Parigi. Allora si era scomodato per farle visita, era diventato il miglior nipote della terra, e, tra l'altro, le aveva dato un piccolo elenco di cose da prendere scritto a macchina: jeans, una cintura, un accendino, una camicia azzurra aderente, un giubbotto con le tasche a zip, tutto ben scelto e studiato. Era vissuta per gli altri tutta la vita, ora voleva vivere per se stessa. Dopo Berlino, si fece ancor più loquace e schietta. - Si dice che la nobiltà russa è degenerata, l'ho sentito anche a Parigi, ma io le dico il contrario: il nostro sangue è più resistente, perché abbiamo sopportato tutto. - Alla stazione di Parigi, Glebov vide una vecchietta dal naso adunco, somigliante ad Alina Fëdorovna, ma più appassita, ingobbita, vestita non alla parigina, ma con una palandrana fuori moda; accanto a lei c'erano un giovanotto e una ragazza, che cinguettavano attorno ad Alina Fëdorovna, che rispondeva ora in russo ora in francese; vennero trascinati via dalla folla, e Glebov rimase qualche minuto ad aspettare che Alina Fëdorovna gli rivolgesse lo sguardo e lo salutasse, ma Alina Fëdorovna non lo guardò. Risuonò invece vicino a lui una voce insinuante, in un russo storpiato: - Lieto di riceverla, signor Glebòff, nella città di Parigi! Permette, le sue valigie. E' tutto qui? -. Un giovane dai capelli rosso scuri e dalle grosse labbra, con i baffi, con un nome come Seculot, che Glebov ricordava di aver visto ai congressi di Oslo e di Zagabria, prese la sua unica valigia e, sorridendo, chinando la testa coperta da un berretto a scacchi bianchi tirato sulla nuca, indicò qualcosa con la mano sinistra in lontananza e si immerse anche lui nella folla. La nota aria della stazione di Parigi, in cui c'era di tutto e che dava un senso di dolcezza quasi amara e soffocante, afferrò Glebov dandogli un'impressione di afa. Quaranta minuti dopo, camminava a passi veloci in una oscura camera d'albergo, le cui finestre davano su una stretta viuzza non lontano da Pigalle, e, canticchiando qualcosa, disfece la valigia, sbatté gli sportelli degli armadi, e andò quasi di corsa nel bagno a mettere sotto lo specchio i suoi oggetti da toletta...

Quando lavoravo a uno studio sugli anni venti, mi imbattei nel nome di Gan¬cuk N'V', che aveva avuto un ruolo importante nelle discussioni di quel tempo, e in particolare nel dibattito intorno alla rivista La ronda letteraria, sviluppatosi nel '25 e nel '26. Qualcuno mi disse che Gan¬cuk era ancora vivo. Riuscii a trovarlo con non poca fatica. Viveva solo, in un angusto appartamentino di una camera, pieno zeppo di libri - gli scaffali erano persino in cucina - in un complesso di nuova costruzione accanto alla stazione Re¬cnyj. Il vecchio appartamento, dove ero stato una volta - Gan¬cuk l'aveva certo dimenticato o lo ricordava male - lo aveva dato via volentieri, perché viverci da solo dopo la morte di Sonja non era più possibile. Lì, diceva, c'era un eccellente microclima, c'era odore di bosco, si poteva sciare. Aveva ottantasei anni. Si era asciugato, incurvato, la testa era rientrata nelle spalle, ma sugli zigomi ardeva sempre l'inesauribile rossore di Gan¬cuk. E quando egli tendeva a fatica il braccio destro contorto e con le dita prensili vi afferrava la mano, si sentiva ancora l'antica potenza. "Ego sum!", diceva la sua stretta di mano, sebbene gli occhi lacrimassero e la lingua si movesse a fatica. In un angolo dell'ingresso c'erano gli sci. Una vecchia dal naso ritto, dai capelli bianchi tenuti con cura, veniva ad aiutare in casa. Una volta la sentii canterellare in cucina. Andai più volte da Gan¬cuk con il registratore, cercando di strappargli i particolari relativi alle burrasche degli anni venti - testimoni di quegli anni semileggendari non ce n'erano quasi più - ma, purtroppo, ne ricavai ben poco. E non perché la memoria del

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vecchio si fosse indebolita. Non voleva ricordare. Non gliene importava più. Tutto quello che era accaduto allora era molto più interessante per me che non per lui, e, a volte, mi chiedeva con stizza e persino con rabbia: - Santo cielo, neanche questo mio articolo le è sfuggito? Che voglia che ha di occuparsi di tutta questa roba... -. Invece parlava con piacere dell'ultimo sceneggiato a puntate trasmesso alla televisione o di un articolo letto su Scienza e vita. Era abbonato a diciotto tra giornali e riviste. Nell'anniversario della morte di Sonja, in ottobre, andammo al cimitero. Sonja era sepolta nel terreno del vecchio crematorio, presso il monastero Donskoj. Il crematorio era chiuso ormai da un anno e mezzo. Il nuovo crematorio era fuori città. Lontano, scomodo, sgradevole. Era gradevole qui, al Donskoj! Nel cimitero facevano entrare fino alle sette di sera, e noi arrivammo alle sette meno dieci. I taxi rimanevano sulla piazzetta davanti all'ingresso. La tenebra gravava ormai sulla terra, gli alberi erano neri come carbone, anche il muro era nero come il carbone, ma il cielo ancora ardeva per il tramonto ed era vivo. I corvi volavano gridando. Il custode faceva rumore di ferraglia con le sue chiavi, apprestandosi a chiudere il portone quando noi arrivammo. Io tenevo il vecchio sotto braccio. Il custode non voleva lasciarci entrare. Cominciò una discussione nell'oscurità. Noi minacciammo, pregammo, cercammo di dargli del denaro, ma il custode rispondeva sempre più sgarbato e inflessibile. Gan¬cuk insisteva sul fatto di essere un pensionato, che aveva ottantasei anni e poteva morire da un momento all'altro, ma il custode, con una voce stridula e cattiva, gridava che anche lui era un essere umano e voleva andare a casa in tempo. - Ma non ha il diritto, mancano dieci minuti... - Gli alimentari chiudono alle sette meno un quarto! - Ma che paragoni fa? Non ha coscienza? - Ma non statemi a fare la lezione! Non si possono neanche fare paragoni! - Mi dica il suo nome! - gridò con debole voce Gan¬cuk. - Mi dica subito come si chiama. Farò un esposto. - Prochorov! - ringhiò il custode. - Lev Michajlovi¬c! - E allora? A chi vuol scrivere? All'altro mondo? - ¬sulepa... - dissi io piano.- Lasciaci entrare. L'uomo, irriconoscibile nell'oscurità, ammutolì di colpo e si scostò, barcollando, dal vano del portone. Noi entrammo. Nel silenzio, turbato solo dal grido dei corvi, si sentiva il ticchettio dei miei tacchi e frusciavano le suole di Gan¬cuk strascicate sull'asfalto. Camminavamo molto lentamente. Sembrava che sciasse. Allontanatici una ventina di passi dal portone, dissi a Gan¬cuk: - Secondo me, è uno della nostra classe. All'inferno... Facemmo il giro del nero crematorio fuori uso e ci mettemmo a cercare la tomba. Non era facile nell'oscurità. Il vecchio si chinava e palpava le lapidi. Alla fine disse, con un pesante sospiro: - E' qui... Si accovacciò sui talloni e, in questa posizione, trafficò qualcosa: si sentiva come un fruscio di foglie secche. Io pensavo che non c'era niente di più terribile della morte morta. Un crematorio spento: ecco la morte morta. E Levka ¬sulepa al portone di un cimitero... A un tratto io compresi perché il vecchio non voleva ricordare. I corvi mandavano strida assordanti, volteggiando sulle nostre teste, molto irritati per qualcosa. Era come se noi fossimo entrati nei loro domini. O, forse, era il loro momento, e noi non avremmo dovuto essere lì. Sugli alberi attorno c'era una quantità di nidi neri e grossi. Il vecchio sussurrava, parlando tra sé e sé: - Che mondo assurdo e insensato! Sonja giace sottoterra, un suo compagno di scuola non ci lascia entrare, e io ho ottantasei anni... Perché tutto questo? Chi può spiegarlo? - strinse con forza la mia

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mano. - Eppure non si ha voglia di lasciare questo mondo... Quando mezz'ora dopo uscimmo, il portone era aperto e il custode non c'era più. Il taxi ci stava aspettando. Andammo via in silenzio. Solo quando scendemmo verso la piazza e svoltammo per il tunnel verso la Sadovaja, Gan¬cuk sì avvicinò al tassista e chiese con un filo di voce di andare più veloce; voleva arrivare in tempo per una trasmissione alla televisione. Si accendevano le luci, risplendeva la sera, senza fine si muoveva quella città che io tanto amavo, tanto ricordavo, tanto conoscevo, tanto cercavo di comprendere... Poco dopo anche il custode, in una logora giubba di pelle, di quelle che portavano i piloti alla fine degli anni quaranta, uscì sul viale lungo le mura del monastero, svoltò a sinistra e sboccò sull'ampia via, dove prese il filobus. Pochi minuti dopo, attraversando il ponte sul fiume, lanciò uno sguardo alla tozza, informe, lunga casa sul lungofiume, che splendeva di mille finestre, trovò per abitudine la finestra del vecchio appartamento, dove era balenato un tempo più felice, e prese a fantasticare: se all'improvviso ci fosse stato un miracolo, ancora un mutamento nella sua vita?...Fine

NOTE: (7) Popolare minestra a base di barbabietola e altre verdure(n'd't'). (8) Vino rosso da dessert (n'd't'). (9) Vino rosso da pasto, proveniente dalla Georgia (n'd't').