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Page 1: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

Morris De Camp CrawfordStoria della civiltà

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Morris De Camp CrawfordStoria della civiltà

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Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di:

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia della civiltàAUTORE: Crawford, Morris De CampTRADUTTORE: Induno, Rosa (ps. Alessandra Scalero)CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Storia della civiltà / M. D. C.Crawford ; traduzione dall'originale americano di R.Induno. - Milano : Corbaccio, stampa 1939. - 343p. ; 23 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 giugno 2020

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1

2

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TITOLO: Storia della civiltàAUTORE: Crawford, Morris De CampTRADUTTORE: Induno, Rosa (ps. Alessandra Scalero)CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

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COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Storia della civiltà / M. D. C.Crawford ; traduzione dall'originale americano di R.Induno. - Milano : Corbaccio, stampa 1939. - 343p. ; 23 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 giugno 2020

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1

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Page 3: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

0: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:HIS039000 STORIA / Civilizzazione

DIGITALIZZAZIONE:Paolo Oliva, [email protected]

REVISIONE:Paolo Alberti, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Paolo Oliva, [email protected] Righi, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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0: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:HIS039000 STORIA / Civilizzazione

DIGITALIZZAZIONE:Paolo Oliva, [email protected]

REVISIONE:Paolo Alberti, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Paolo Oliva, [email protected] Righi, [email protected]

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Page 5: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

Indice generale

Liber Liber......................................................................4IGLI ANTENATI DI ADAMO.......................................8IIMADRE NECESSITÀ E LE SUE NOZZE.................23IIIIL FUOCO E LA PIETRA SCHEGGIATA..................33IVIL GHIACCIO, GRANDE MAESTRO.......................56VLA FINE DEI GHIACCIL’ALBA DELL’ELEGANZA.......................................72VIANTICHI CACCIATORI E NUOVE CIVILTÀ..........88VIILA DONNA MADRE DELL’AGRICOLTURA..........98VIIIDALLA PASTORIZIA ALL’ANIMALE DOMESTICOLA PRIMA FORZA MOTRICE.................................107IXEGITTO E SUMER....................................................120XYUCATAN E PERÙLE ASPIRAZIONI DEL NUOVO MONDO.............129

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4IGLI ANTENATI DI ADAMO.......................................8IIMADRE NECESSITÀ E LE SUE NOZZE.................23IIIIL FUOCO E LA PIETRA SCHEGGIATA..................33IVIL GHIACCIO, GRANDE MAESTRO.......................56VLA FINE DEI GHIACCIL’ALBA DELL’ELEGANZA.......................................72VIANTICHI CACCIATORI E NUOVE CIVILTÀ..........88VIILA DONNA MADRE DELL’AGRICOLTURA..........98VIIIDALLA PASTORIZIA ALL’ANIMALE DOMESTICOLA PRIMA FORZA MOTRICE.................................107IXEGITTO E SUMER....................................................120XYUCATAN E PERÙLE ASPIRAZIONI DEL NUOVO MONDO.............129

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Page 6: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

XICIVILTÀ AGRICOLE DEGLI ALTIPIANI..............139XIILA CINA E LA PERSIA............................................145XIIIINCONTRO FRA L’AMERICA E L’ASIA...............151INVENZIONE DEL DIAVOLO................................158XIVACCOSTAMENTO VERTICALE ALLA CIVILTA MECCANICA............................................................164XVIL TESSUTO E LA SUA STORIA SOCIALE...........172XVIIL TABACCO: LA FOGLIA DEL DESTINO...........223XVIIIL FERRO...................................................................236XVIIII TRASPORTI............................................................266XIXL’EUROPA CONQUISTA L’ORIENTE....................329XXGUERRA O CIVILTÀ?..............................................364

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XICIVILTÀ AGRICOLE DEGLI ALTIPIANI..............139XIILA CINA E LA PERSIA............................................145XIIIINCONTRO FRA L’AMERICA E L’ASIA...............151INVENZIONE DEL DIAVOLO................................158XIVACCOSTAMENTO VERTICALE ALLA CIVILTA MECCANICA............................................................164XVIL TESSUTO E LA SUA STORIA SOCIALE...........172XVIIL TABACCO: LA FOGLIA DEL DESTINO...........223XVIIIL FERRO...................................................................236XVIIII TRASPORTI............................................................266XIXL’EUROPA CONQUISTA L’ORIENTE....................329XXGUERRA O CIVILTÀ?..............................................364

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Page 7: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

M. D. C. CRAWFORD

STORIADELLA CIVILTÀ

Traduzione dall’originale americano di R. INDUNO.

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M. D. C. CRAWFORD

STORIADELLA CIVILTÀ

Traduzione dall’originale americano di R. INDUNO.

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Page 8: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

I

GLI ANTENATI DI ADAMO

L’uomo è l’unico animale che abbia mai unito la cu-riosità all’esperienza, facendo in modo che la combina-zione fruttasse continui interessi. È anche l’unico ani-male che includa se stesso e i suoi affari sociali entrol’ambito di questa curiosità. Ma in ciò, egli è forse menofortunato.

La crosta terrestre è tempestata delle ossa dei masto-dontici animali che furono i contemporanei dell’uomoprimitivo, e in certo senso i suoi rivali nella lotta perl’esistenza. Mancava loro la facoltà di pensare o sognareo costruire efficacemente; ora essi sono «fossili», e for-mano l’orgoglio dei musei e la delizia dei paleontologi.Ma l’uomo, portato dalle ali del suo intelletto, l’uomoavanza tuttora, superando ostacoli naturali con la sua fa-cilità all’invenzione, per poi inventare ostacoli sinteticiche vanno sotto il nome di usanze, tradizioni e leggi: iquali impediranno il rapido progresso delle sue inven-zioni meccaniche. Apparentemente, egli è sempre pron-to a perfezionare queste invenzioni, e ugualmente pro-clive a lasciar correre in materia di sociologia.

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GLI ANTENATI DI ADAMO

L’uomo è l’unico animale che abbia mai unito la cu-riosità all’esperienza, facendo in modo che la combina-zione fruttasse continui interessi. È anche l’unico ani-male che includa se stesso e i suoi affari sociali entrol’ambito di questa curiosità. Ma in ciò, egli è forse menofortunato.

La crosta terrestre è tempestata delle ossa dei masto-dontici animali che furono i contemporanei dell’uomoprimitivo, e in certo senso i suoi rivali nella lotta perl’esistenza. Mancava loro la facoltà di pensare o sognareo costruire efficacemente; ora essi sono «fossili», e for-mano l’orgoglio dei musei e la delizia dei paleontologi.Ma l’uomo, portato dalle ali del suo intelletto, l’uomoavanza tuttora, superando ostacoli naturali con la sua fa-cilità all’invenzione, per poi inventare ostacoli sinteticiche vanno sotto il nome di usanze, tradizioni e leggi: iquali impediranno il rapido progresso delle sue inven-zioni meccaniche. Apparentemente, egli è sempre pron-to a perfezionare queste invenzioni, e ugualmente pro-clive a lasciar correre in materia di sociologia.

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Page 9: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

Questo stato di cose dura da parecchio tempo ormai.Secondo i geologi, somma autorità in questo campo, iprimordi della nostra razza risalirebbero a un milione,forse a mezzo milione d’anni fa. Che cosa significa, peressi, qualche millennio in più o in meno? In stadî ante-riori, non si ha traccia di nulla che somigli anche sololontanamente all’uomo. Vogliamo goderci, sia pur sol-tanto per un momento, la squallida soddisfazione delconservativismo, e accettare un’anzianità di 500.000anni per quel dato animale il quale a partir da allora co-minciò ad agire umanamente, cioè a pensare; e tentiamoquindi di stabilire una relazione fra le sue invenzionimeccaniche e sociali.

Delle prime invenzioni dell’uomo noi non sappiamoche quanto ce ne rimane attraverso residui di pietra,osso o avorio. Può darsi che, come accade ai fanciulli,nella sua adolescenza l’uomo abbia imparato assai piùdi quanto non rivelino questi magri resti. In fatto di prei-storia, come in tutte le scienze sperimentali, è indispen-sabile un po’ d’immaginazione, entro l’ambito dei dati.All’uomo primitivo dobbiamo almeno concedere il be-neficio d’inventario; egli non può esser stato un girino,altrimenti non vi sarebbe mai stata una razza umana, pernon dire un gruppo preumano; nè avrebbe potuto so-pravvivere incidentalmente o per solo merito della forzabruta. Gli incidenti sono, in questo caso, effetti, le causedei quali sfuggirono alla nostra osservazione. Bruti piùforti dell’uomo soccombettero. Anche l’uomo dovetteevolversi per sopravvivere; e nessuno ci dice che ancora

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Questo stato di cose dura da parecchio tempo ormai.Secondo i geologi, somma autorità in questo campo, iprimordi della nostra razza risalirebbero a un milione,forse a mezzo milione d’anni fa. Che cosa significa, peressi, qualche millennio in più o in meno? In stadî ante-riori, non si ha traccia di nulla che somigli anche sololontanamente all’uomo. Vogliamo goderci, sia pur sol-tanto per un momento, la squallida soddisfazione delconservativismo, e accettare un’anzianità di 500.000anni per quel dato animale il quale a partir da allora co-minciò ad agire umanamente, cioè a pensare; e tentiamoquindi di stabilire una relazione fra le sue invenzionimeccaniche e sociali.

Delle prime invenzioni dell’uomo noi non sappiamoche quanto ce ne rimane attraverso residui di pietra,osso o avorio. Può darsi che, come accade ai fanciulli,nella sua adolescenza l’uomo abbia imparato assai piùdi quanto non rivelino questi magri resti. In fatto di prei-storia, come in tutte le scienze sperimentali, è indispen-sabile un po’ d’immaginazione, entro l’ambito dei dati.All’uomo primitivo dobbiamo almeno concedere il be-neficio d’inventario; egli non può esser stato un girino,altrimenti non vi sarebbe mai stata una razza umana, pernon dire un gruppo preumano; nè avrebbe potuto so-pravvivere incidentalmente o per solo merito della forzabruta. Gli incidenti sono, in questo caso, effetti, le causedei quali sfuggirono alla nostra osservazione. Bruti piùforti dell’uomo soccombettero. Anche l’uomo dovetteevolversi per sopravvivere; e nessuno ci dice che ancora

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Page 10: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

non debba seguitare a evolversi per poter continuare avivere.

L’uomo non ha mai fabbricato arnesi per amordell’arnese soltanto. Li fabbricò perché servissero aquelle cose che di arnesi necessitavano, e per soddisfarea un suo istintivo bisogno di quegli arnesi. A fondo diogni arnese o strumento, antico o moderno, c’è statosempre uno scopo; anzi, vari scopi. Ogni arnese è stato,in primo luogo, un pensiero incorporeo – un sogno, sevolete. Nacque nell’intelletto, prima di assumer formamateriale. Il pensiero precede l’uso di arnesi di pietra,legno o metallo, della macchina, di ogni processo tecni-co o sistema.

Noi abbiamo ragione di credere che entro la cerchiadell’ambiente, spinto dalla necessità, entro la portata deisuoi arnesi, l’uomo primitivo abbia fabbricato o inventa-to molte cose destinate di poi a perire. Molte invenzionirimasero intangibili; molte ingoiate dai secoli. Di radola natura è benigna verso l’opera dell’uomo, ma le ideeda cui nacquero queste cose sono assai difficili a ucci-dersi.

Nessuno pone in dubbio che fisicamente l’uomo ap-partenga al regno animale. Ma quale specie di animale èl’uomo? Ecco la questione. Se egli non fosse stato unanimale capace di pensare, come avrebbe potuto soprav-vivere e migliorare le proprie condizioni, mentre sonoperiti animali fisicamente più robusti di lui? Come, se ladifferenza non fosse stata tutta nella forza del pensiero edella memoria e nella forza creativa delle idee coordina-

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non debba seguitare a evolversi per poter continuare avivere.

L’uomo non ha mai fabbricato arnesi per amordell’arnese soltanto. Li fabbricò perché servissero aquelle cose che di arnesi necessitavano, e per soddisfarea un suo istintivo bisogno di quegli arnesi. A fondo diogni arnese o strumento, antico o moderno, c’è statosempre uno scopo; anzi, vari scopi. Ogni arnese è stato,in primo luogo, un pensiero incorporeo – un sogno, sevolete. Nacque nell’intelletto, prima di assumer formamateriale. Il pensiero precede l’uso di arnesi di pietra,legno o metallo, della macchina, di ogni processo tecni-co o sistema.

Noi abbiamo ragione di credere che entro la cerchiadell’ambiente, spinto dalla necessità, entro la portata deisuoi arnesi, l’uomo primitivo abbia fabbricato o inventa-to molte cose destinate di poi a perire. Molte invenzionirimasero intangibili; molte ingoiate dai secoli. Di radola natura è benigna verso l’opera dell’uomo, ma le ideeda cui nacquero queste cose sono assai difficili a ucci-dersi.

Nessuno pone in dubbio che fisicamente l’uomo ap-partenga al regno animale. Ma quale specie di animale èl’uomo? Ecco la questione. Se egli non fosse stato unanimale capace di pensare, come avrebbe potuto soprav-vivere e migliorare le proprie condizioni, mentre sonoperiti animali fisicamente più robusti di lui? Come, se ladifferenza non fosse stata tutta nella forza del pensiero edella memoria e nella forza creativa delle idee coordina-

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Page 11: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

te? Che l’uomo abbia scelto a sua abitazione permanen-te la terraferma, implica due condizioni di cose. Primo:egli doveva già aver formato un’organizzazione socialerudimentale, per poter agire di concerto; in altre parole,sin dai primi albori della nostra razza noi non conside-riamo individui sparsi, ma una «società». Secondo: eglideve aver avuto una certa facoltà di pensare – una ragio-ne che lo spingesse a scegliere la via del progresso, enon il sentiero assai più facile che conduceva ai cimiterid’ossa della paleontologia. Sin dai suoi primordi l’uomoera palesemente destinato a costruire, e non soltanto afornire ai posteri esemplari da museo.

Non fu capriccio, nè destino; fu il pensiero. Soltantosotto un possente stimolo del proprio pensiero l’uomomuta le sue abitudini. Allora come ora, il suo stato nor-male sarebbe l’inerzia. Pochi, pochissimi sono, in tuttele età, i cervelli che contano: la media è inerte, è unaforza mossa unicamente dal genio che risolve le necessi-tà, e a sua volta crea la necessità per il movimento. Daimpulsi simili furono mossi altri e meno socievoli ani-mali. Le migrazioni dei pesci e degli uccelli, le peregri-nazioni degli armenti costituiscono forse una conquistaintellettuale tanto grande quanto la discesa dell’uomodagli alberi. Ma l’uomo vinse pienamente questo primoostacolo. Quale sia stata la causa della difficoltà, o ilprocesso della soluzione, egli trovò la risposta giusta;quali siano stati i suoi metodi, il risultato non fu fortuito.Ma non fu ancora quella prima mossa a far di lui unuomo. Ciò che conta è quello ch’egli fece dopo che,

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te? Che l’uomo abbia scelto a sua abitazione permanen-te la terraferma, implica due condizioni di cose. Primo:egli doveva già aver formato un’organizzazione socialerudimentale, per poter agire di concerto; in altre parole,sin dai primi albori della nostra razza noi non conside-riamo individui sparsi, ma una «società». Secondo: eglideve aver avuto una certa facoltà di pensare – una ragio-ne che lo spingesse a scegliere la via del progresso, enon il sentiero assai più facile che conduceva ai cimiterid’ossa della paleontologia. Sin dai suoi primordi l’uomoera palesemente destinato a costruire, e non soltanto afornire ai posteri esemplari da museo.

Non fu capriccio, nè destino; fu il pensiero. Soltantosotto un possente stimolo del proprio pensiero l’uomomuta le sue abitudini. Allora come ora, il suo stato nor-male sarebbe l’inerzia. Pochi, pochissimi sono, in tuttele età, i cervelli che contano: la media è inerte, è unaforza mossa unicamente dal genio che risolve le necessi-tà, e a sua volta crea la necessità per il movimento. Daimpulsi simili furono mossi altri e meno socievoli ani-mali. Le migrazioni dei pesci e degli uccelli, le peregri-nazioni degli armenti costituiscono forse una conquistaintellettuale tanto grande quanto la discesa dell’uomodagli alberi. Ma l’uomo vinse pienamente questo primoostacolo. Quale sia stata la causa della difficoltà, o ilprocesso della soluzione, egli trovò la risposta giusta;quali siano stati i suoi metodi, il risultato non fu fortuito.Ma non fu ancora quella prima mossa a far di lui unuomo. Ciò che conta è quello ch’egli fece dopo che,

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Page 12: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

giunto a terra, si rizzò in piedi; e come se la cavò conl’ambiente che trovò. Uno scoiattolo in terra resta pursempre uno scoiattolo. Il fatto che l’uomo fosse passato«dall’altra parte» parlava in suo favore, ma non era an-cora una prova definitiva della sua superiorità sociale.

Fu la natura di ciottoli incidentalmente taglienti cheprima attirò l’attenzione dell’uomo; in un secondo tem-po, egli si provò a fabbricare arnesi, imitando con inten-zione la natura e perfezionandola. In altri termini, si ser-vì del suo intelletto per aumentare, espandere ed eclet-tizzare le proprie forze fisiche relativamente modeste.Un po’ più tardi, curiosità lo trasse a studiare la naturadella «Belva di Fuoco», e a trasformare questo mortaleterrore in un fedele schiavo che avrebbe servito a infinitiusi.

Quale altro animale aveva anche soltanto tentato im-prese simili? Il concetto della pietra affilata e del fuocoera estraneo alle bestie; e queste primitive invenzioni escoperte differenziano immediatamente l’uomo da tuttele altre e varie forme di vita terrestre. C’è minor diffe-renza fisica e intellettuale tra la più bassa e la più altaforma di vita umana, che non tra i più rudimentali omi-nidi1 e la più alta forma di bruti. Non è questione di for-ma e costituzione di scheletro, bensì d’intelletto: quella

1 Abbiamo mantenuto, qui e altrove, questo termine del qualesi serve l'A. La famiglia degli Hominidae, per la chiarezza, secon-do il Montandon è un termine più ampio, che comprende anche ilPitecantropo e l’Australopithecus in confronto degli Uomini,gruppo che contiene le forme attuali (N. d. Tr.).

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giunto a terra, si rizzò in piedi; e come se la cavò conl’ambiente che trovò. Uno scoiattolo in terra resta pursempre uno scoiattolo. Il fatto che l’uomo fosse passato«dall’altra parte» parlava in suo favore, ma non era an-cora una prova definitiva della sua superiorità sociale.

Fu la natura di ciottoli incidentalmente taglienti cheprima attirò l’attenzione dell’uomo; in un secondo tem-po, egli si provò a fabbricare arnesi, imitando con inten-zione la natura e perfezionandola. In altri termini, si ser-vì del suo intelletto per aumentare, espandere ed eclet-tizzare le proprie forze fisiche relativamente modeste.Un po’ più tardi, curiosità lo trasse a studiare la naturadella «Belva di Fuoco», e a trasformare questo mortaleterrore in un fedele schiavo che avrebbe servito a infinitiusi.

Quale altro animale aveva anche soltanto tentato im-prese simili? Il concetto della pietra affilata e del fuocoera estraneo alle bestie; e queste primitive invenzioni escoperte differenziano immediatamente l’uomo da tuttele altre e varie forme di vita terrestre. C’è minor diffe-renza fisica e intellettuale tra la più bassa e la più altaforma di vita umana, che non tra i più rudimentali omi-nidi1 e la più alta forma di bruti. Non è questione di for-ma e costituzione di scheletro, bensì d’intelletto: quella

1 Abbiamo mantenuto, qui e altrove, questo termine del qualesi serve l'A. La famiglia degli Hominidae, per la chiarezza, secon-do il Montandon è un termine più ampio, che comprende anche ilPitecantropo e l’Australopithecus in confronto degli Uomini,gruppo che contiene le forme attuali (N. d. Tr.).

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Page 13: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

singolare forza che muta le difficoltà in pietre miliari,che si nutre dei propri errori.

Molto tempo dopo aver creato i primi strumenti «spe-cializzati», dopo aver imparato a produrre e a conserva-re il fuoco; molto tempo dopo che già era diventato abi-le cacciatore e raccoglitore di semi e di frutti selvatici,l’uomo si servì di queste nozioni per lo scopo pratico diaddomesticare alcune piante e animali, e di renderli in-dipendenti da sè per la loro vita; mentre a sua volta,sempre più egli dipendeva da essi per il proprio cibo eper altri scopi, fra cui l’uso degli animali per la trazionedi veicoli a ruote.

L’uomo cuoceva il suo cibo in acqua bollente moltotempo prima che imparasse a fabbricar recipienti di pie-tra, di argilla cotta o di metallo fuso. La funzione prece-de sempre l’invenzione meccanica, per facilitare e spe-cializzare la funzione. In un primo tempo, l’uomo face-va bollire la carne mettendo una pietra riscaldatanell’acqua contenuta entro otri di pelle, o ceste imper-meabili. Per secoli e secoli, quindi, egli avrà visto eodorato il vapore appetitoso emanante dalle vivande checuocevano. Ma non ne fece nulla, sino a circa duemilaanni fa: quando di questa forza si servì per aprire le por-te del tempio, in Alessandria d’Egitto, e per far muoveregli occhi degli idoli, onde incoraggiare una vacillantefede pagana. Poi il mondo, dissolvendosi nella caduta diRoma e dell’uomo, alle prese con più urgenti problemipratici, si dimenticò del vapore.

Nel XVI secolo, un monaco tedesco traduceva

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singolare forza che muta le difficoltà in pietre miliari,che si nutre dei propri errori.

Molto tempo dopo aver creato i primi strumenti «spe-cializzati», dopo aver imparato a produrre e a conserva-re il fuoco; molto tempo dopo che già era diventato abi-le cacciatore e raccoglitore di semi e di frutti selvatici,l’uomo si servì di queste nozioni per lo scopo pratico diaddomesticare alcune piante e animali, e di renderli in-dipendenti da sè per la loro vita; mentre a sua volta,sempre più egli dipendeva da essi per il proprio cibo eper altri scopi, fra cui l’uso degli animali per la trazionedi veicoli a ruote.

L’uomo cuoceva il suo cibo in acqua bollente moltotempo prima che imparasse a fabbricar recipienti di pie-tra, di argilla cotta o di metallo fuso. La funzione prece-de sempre l’invenzione meccanica, per facilitare e spe-cializzare la funzione. In un primo tempo, l’uomo face-va bollire la carne mettendo una pietra riscaldatanell’acqua contenuta entro otri di pelle, o ceste imper-meabili. Per secoli e secoli, quindi, egli avrà visto eodorato il vapore appetitoso emanante dalle vivande checuocevano. Ma non ne fece nulla, sino a circa duemilaanni fa: quando di questa forza si servì per aprire le por-te del tempio, in Alessandria d’Egitto, e per far muoveregli occhi degli idoli, onde incoraggiare una vacillantefede pagana. Poi il mondo, dissolvendosi nella caduta diRoma e dell’uomo, alle prese con più urgenti problemipratici, si dimenticò del vapore.

Nel XVI secolo, un monaco tedesco traduceva

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Page 14: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

dall’arabo in latino la Pneumatica di Erone di Alessan-dria, originariamente scritta in greco; e gli uomini ripre-sero quegli antichissimi esperimenti col vapor acqueo.Proprio agli albori della recente epoca meccanica,l’umanità smetteva di trastullarsi con quel gigante e selo asserviva.

In un secondo tempo, Faraday scopriva che magneti-smo ed elettricità erano la stessa cosa; e una volta uscitaquest’idea dal laboratorio, gli uomini se ne servironoper molti usi. La Teoria intera non occupa lo spaziod’una pagina di taccuino, eppure muove e illumina ilmondo, ed è assai più potente, materialmente, di tutti ire e i conquistatori che la terra abbia mai creato. E ora èl’atomo o l’elettrone, o la natura chimica dei raggi delsole, che attirano la feconda curiosità umana. Comun-que egli sia o sia stato, e rimarrà probabilmente nei se-coli, l’uomo resta pur sempre un animale ingegnoso.

Ma ogni volta che l’uomo inventa un nuovo strumen-to o scopre forze nuove, semplici o complesse, ecco chesi crea un rivolgimento sociale. Ciò accade perchè in-venzioni e scoperte portano a un cambiamento nellasomma attuale e potenziale di ricchezza umana, renden-do necessario un riadattamento di rapporti fra l’associa-zione umana e l’individuo entro quel particolare am-biente. Così ogni volta che nuovi concetti in fatto dimeccanica vengono introdotti e accettati, è necessarioinventare ed evolvere costumanze, abitudini, leggi, co-dici e costituzioni per cui l’associazione ha vissuto pri-ma della nuova invenzione.

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dall’arabo in latino la Pneumatica di Erone di Alessan-dria, originariamente scritta in greco; e gli uomini ripre-sero quegli antichissimi esperimenti col vapor acqueo.Proprio agli albori della recente epoca meccanica,l’umanità smetteva di trastullarsi con quel gigante e selo asserviva.

In un secondo tempo, Faraday scopriva che magneti-smo ed elettricità erano la stessa cosa; e una volta uscitaquest’idea dal laboratorio, gli uomini se ne servironoper molti usi. La Teoria intera non occupa lo spaziod’una pagina di taccuino, eppure muove e illumina ilmondo, ed è assai più potente, materialmente, di tutti ire e i conquistatori che la terra abbia mai creato. E ora èl’atomo o l’elettrone, o la natura chimica dei raggi delsole, che attirano la feconda curiosità umana. Comun-que egli sia o sia stato, e rimarrà probabilmente nei se-coli, l’uomo resta pur sempre un animale ingegnoso.

Ma ogni volta che l’uomo inventa un nuovo strumen-to o scopre forze nuove, semplici o complesse, ecco chesi crea un rivolgimento sociale. Ciò accade perchè in-venzioni e scoperte portano a un cambiamento nellasomma attuale e potenziale di ricchezza umana, renden-do necessario un riadattamento di rapporti fra l’associa-zione umana e l’individuo entro quel particolare am-biente. Così ogni volta che nuovi concetti in fatto dimeccanica vengono introdotti e accettati, è necessarioinventare ed evolvere costumanze, abitudini, leggi, co-dici e costituzioni per cui l’associazione ha vissuto pri-ma della nuova invenzione.

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Page 15: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

Il bisogno di una invenzione nuova può esistere permolto tempo, fianco a fianco con la necessità di soddi-sfarlo; ma per unire bisogno e necessità occorrerannocervello e coraggio. E sono, queste, qualità rare. Nessu-no può specificare il preciso momento in cui un cervellogeniale è sul punto di evolvere un dato concetto mecca-nico, che di tutti gli altri concetti – o, incidentalmente,di una stabilita forma sociale – farà un mucchio di rotta-mi inutili. Perciò, raramente la società è preparata a que-ste evoluzioni; donde le periodiche fasi di idrofobia ac-cademica o di sovvertimenti politici.

Nuovi strumenti e macchine, forza e sistemi nuovis’impongono per via di dimostrazione. Esempio: unapunta di pietra perfeziona grandemente una lancia di le-gno; l’arco e la freccia costituiscono un progresso sulgiavellotto o sulla fionda; l’uomo procede più spedito earriva più lontano a cavallo che non a piedi; il bronzo èmigliore del silice, il ferro del bronzo, l’acciaio del fer-ro; un filatoio con molteplici fusi produce assai più fila-to del filatoio con un solo fuso; un motore a vapore èmille volte più potente di qualsiasi animale da tiro; el’elettricità è infinitamente più eclettica del vapore.L’automobile è più rapida del cavallo; l’aereo della fer-rovia; e la radio del servizio postale. Quel nobile anima-le che è l’uomo ha avuto sempre comprensione per que-sti fatti; nè, una volta che ne ha afferrato la portata, haesitato a porre in atto l’innovazione.

Ma le innovazioni politiche e sociali sono un’altracosa. Più antica e oscura è una legge, tanto più folle-

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Il bisogno di una invenzione nuova può esistere permolto tempo, fianco a fianco con la necessità di soddi-sfarlo; ma per unire bisogno e necessità occorrerannocervello e coraggio. E sono, queste, qualità rare. Nessu-no può specificare il preciso momento in cui un cervellogeniale è sul punto di evolvere un dato concetto mecca-nico, che di tutti gli altri concetti – o, incidentalmente,di una stabilita forma sociale – farà un mucchio di rotta-mi inutili. Perciò, raramente la società è preparata a que-ste evoluzioni; donde le periodiche fasi di idrofobia ac-cademica o di sovvertimenti politici.

Nuovi strumenti e macchine, forza e sistemi nuovis’impongono per via di dimostrazione. Esempio: unapunta di pietra perfeziona grandemente una lancia di le-gno; l’arco e la freccia costituiscono un progresso sulgiavellotto o sulla fionda; l’uomo procede più spedito earriva più lontano a cavallo che non a piedi; il bronzo èmigliore del silice, il ferro del bronzo, l’acciaio del fer-ro; un filatoio con molteplici fusi produce assai più fila-to del filatoio con un solo fuso; un motore a vapore èmille volte più potente di qualsiasi animale da tiro; el’elettricità è infinitamente più eclettica del vapore.L’automobile è più rapida del cavallo; l’aereo della fer-rovia; e la radio del servizio postale. Quel nobile anima-le che è l’uomo ha avuto sempre comprensione per que-sti fatti; nè, una volta che ne ha afferrato la portata, haesitato a porre in atto l’innovazione.

Ma le innovazioni politiche e sociali sono un’altracosa. Più antica e oscura è una legge, tanto più folle-

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mente e strettamente l’uomo vi si aggrappa. Le forzedella tradizione sono spesso assai più potenti della ra-gione. Difficilmente nuovi ordigni e costrutti si accorda-no con leggi antiche. Ogni legge e religione che sia esi-stita o esisterà è stata inventata, nè più nè meno di uncongegno meccanico. Ma poichè spesso involgonol’emozione più dell’intelletto, l’uomo ha per esse unostrano, spesso appassionato attaccamento. Per una leggeo un’usanza di cui poco o nulla sa, e che avrà forse du-ramente gravato su di lui, egli lotterà fieramente e acca-nitamente, ma senza sentimentalismo scarterà un vec-chio e fedele arnese per un altro che giudica migliore.Schiavi versarono il proprio sangue per amor dellaschiavitù, ma l’uomo non ha esitato a gettare la vangaper l’aratro, la piroga per la barca a vela, il carro a ca-valli per la locomotiva, la turbina ad acqua per il moto-re, la candela per la lampada ad olio e questa per la lam-padina elettrica, l’arco per il moschetto, il fucile per lamitragliatrice. E sì che ognuno di questi cambiamenti si-gnifica per il mondo assai più di molti codici o sistemisociali. L’uomo è un essere singolare; eppure non var-rebbe gran che, senza l’elemento emotivo: anche se è unlusso che gli viene a costar caro.

Molti misteri l’uomo ha spiegato e risolto, ma il suointelletto rimane al di là d’ogni spiegazione. Nè ciò devefar meraviglia, dato che l’unica misura che abbiamo perquesta forza è la forza stessa. Come si costruisce, si fab-brica un oggetto è chiaro; la ragione per cui lo si fabbri-ca è tuttora un mistero. Si potrà chiamarla Genio o Ispi-

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mente e strettamente l’uomo vi si aggrappa. Le forzedella tradizione sono spesso assai più potenti della ra-gione. Difficilmente nuovi ordigni e costrutti si accorda-no con leggi antiche. Ogni legge e religione che sia esi-stita o esisterà è stata inventata, nè più nè meno di uncongegno meccanico. Ma poichè spesso involgonol’emozione più dell’intelletto, l’uomo ha per esse unostrano, spesso appassionato attaccamento. Per una leggeo un’usanza di cui poco o nulla sa, e che avrà forse du-ramente gravato su di lui, egli lotterà fieramente e acca-nitamente, ma senza sentimentalismo scarterà un vec-chio e fedele arnese per un altro che giudica migliore.Schiavi versarono il proprio sangue per amor dellaschiavitù, ma l’uomo non ha esitato a gettare la vangaper l’aratro, la piroga per la barca a vela, il carro a ca-valli per la locomotiva, la turbina ad acqua per il moto-re, la candela per la lampada ad olio e questa per la lam-padina elettrica, l’arco per il moschetto, il fucile per lamitragliatrice. E sì che ognuno di questi cambiamenti si-gnifica per il mondo assai più di molti codici o sistemisociali. L’uomo è un essere singolare; eppure non var-rebbe gran che, senza l’elemento emotivo: anche se è unlusso che gli viene a costar caro.

Molti misteri l’uomo ha spiegato e risolto, ma il suointelletto rimane al di là d’ogni spiegazione. Nè ciò devefar meraviglia, dato che l’unica misura che abbiamo perquesta forza è la forza stessa. Come si costruisce, si fab-brica un oggetto è chiaro; la ragione per cui lo si fabbri-ca è tuttora un mistero. Si potrà chiamarla Genio o Ispi-

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razione o Afflato dello Spirito. Si potrebbe ricercarne leorigini in antichissimi momenti di genio, e usar espres-sioni correnti come «associazione d’idee» o «intrusio-ne» e via dicendo; ma allora, ci troveremmo alle presecon questi termini. La forza in sè, non importa in qualiparole formulata, resta spesso ignota.

L’uomo si è spiegato a se stesso come discendente diantichi animali, di mostri antropomorfici; come semidioo demone; si è creduto nato dalla costola d’un remotoantenato o impastato d’argilla. Tutto ciò ha ampiamentecontribuito alle parti plastiche e alla poesia, ma scarsa-mente alla realtà dei fatti.

Verso la metà del XIX secolo, una concentrata seriedi invenzioni e scoperte tecniche, e il rapido sviluppodel commercio mondiale e transoceanico si trovarono inurto con una massa di vecchie usanze, forme mentali,nuove tradizioni economiche e «sacri» interessi. Ciòcreò una infernale confusione sociale, per cui s’impone-va un motivo che ne fosse la ragione d’essere. Le provedella catastrofe erano chiare abbastanza – per molti epacifici decenni erano state fin troppo chiare. Era giustoed equo che le macchine dovessero trasformarsi, chel’uomo dovesse esser posto in grado di produrre unamaggior ricchezza, col sussidio di nuovi congegni mec-canici. Ecco il progresso! Ma le leggi e le tradizioni era-no un’altra cosa; erano sacre, e non soggette a muta-menti. L’uomo dovette riconciliarsi con l’idea che ilprincipio combaciava con la fine, e che mai nessunanuova invenzione tecnica avrebbe alterato uno statu quo

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razione o Afflato dello Spirito. Si potrebbe ricercarne leorigini in antichissimi momenti di genio, e usar espres-sioni correnti come «associazione d’idee» o «intrusio-ne» e via dicendo; ma allora, ci troveremmo alle presecon questi termini. La forza in sè, non importa in qualiparole formulata, resta spesso ignota.

L’uomo si è spiegato a se stesso come discendente diantichi animali, di mostri antropomorfici; come semidioo demone; si è creduto nato dalla costola d’un remotoantenato o impastato d’argilla. Tutto ciò ha ampiamentecontribuito alle parti plastiche e alla poesia, ma scarsa-mente alla realtà dei fatti.

Verso la metà del XIX secolo, una concentrata seriedi invenzioni e scoperte tecniche, e il rapido sviluppodel commercio mondiale e transoceanico si trovarono inurto con una massa di vecchie usanze, forme mentali,nuove tradizioni economiche e «sacri» interessi. Ciòcreò una infernale confusione sociale, per cui s’impone-va un motivo che ne fosse la ragione d’essere. Le provedella catastrofe erano chiare abbastanza – per molti epacifici decenni erano state fin troppo chiare. Era giustoed equo che le macchine dovessero trasformarsi, chel’uomo dovesse esser posto in grado di produrre unamaggior ricchezza, col sussidio di nuovi congegni mec-canici. Ecco il progresso! Ma le leggi e le tradizioni era-no un’altra cosa; erano sacre, e non soggette a muta-menti. L’uomo dovette riconciliarsi con l’idea che ilprincipio combaciava con la fine, e che mai nessunanuova invenzione tecnica avrebbe alterato uno statu quo

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sociale. Così il mondo assistè al curioso spettacolod’una ricchezza materiale che s’intensificava, e di unamiseria che contemporaneamente cresceva. Filosofi eintellettuali si scandalizzarono e s’impaurirono. E la Ri-voluzione Francese prese il posto della Russia Sovieticad’oggi: un fenomeno che per il mondo intero era ogget-to di critica. Fu, come tutti sapranno, una truce situazio-ne. Così si formò nelle «classi alte» una filosofia imbel-le e fatalistica, la quale rendeva l’involucro che la rico-priva saldo e sicuro quanto potevano renderlo teorie eleggi scritte e stampate.

L’uomo aveva inventato le macchine, e con quelleaveva instaurato i sistemi legali che ne limitavano unpiù fruttifero uso. Le macchine, le aveva costantementetrasformate; le leggi, per una strana confusione del suocervello, le credeva perfette e immutabili. La società siera data mani e piedi legati alle ombre della sua stessacreatura. Come uno sciocco Prometeo incatenato peropera di fantasmi alla roccia delle convinzioni, l’uomoobbligò le stesse macchine create dal proprio genio asollevare il fardello dalle stanche spalle, e a riversaresulla terra doni non mai sognati: perchè questi gli rodes-sero poi il fegato, come l’avvoltoio della favola greca.

Dalle viscere della terra l’uomo aveva strappato ferroe carbone; per riempirla fino all’orlo di ricchezze avevaframmisto sogni a intelletto, congegni di ruote al genio.Perciò l’uomo era condannato a morir di fame in squal-lidi tugurî perchè altri più fortunati di lui eran deposita-ri, quasi di magiche pergamene, di leggi inventate e

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sociale. Così il mondo assistè al curioso spettacolod’una ricchezza materiale che s’intensificava, e di unamiseria che contemporaneamente cresceva. Filosofi eintellettuali si scandalizzarono e s’impaurirono. E la Ri-voluzione Francese prese il posto della Russia Sovieticad’oggi: un fenomeno che per il mondo intero era ogget-to di critica. Fu, come tutti sapranno, una truce situazio-ne. Così si formò nelle «classi alte» una filosofia imbel-le e fatalistica, la quale rendeva l’involucro che la rico-priva saldo e sicuro quanto potevano renderlo teorie eleggi scritte e stampate.

L’uomo aveva inventato le macchine, e con quelleaveva instaurato i sistemi legali che ne limitavano unpiù fruttifero uso. Le macchine, le aveva costantementetrasformate; le leggi, per una strana confusione del suocervello, le credeva perfette e immutabili. La società siera data mani e piedi legati alle ombre della sua stessacreatura. Come uno sciocco Prometeo incatenato peropera di fantasmi alla roccia delle convinzioni, l’uomoobbligò le stesse macchine create dal proprio genio asollevare il fardello dalle stanche spalle, e a riversaresulla terra doni non mai sognati: perchè questi gli rodes-sero poi il fegato, come l’avvoltoio della favola greca.

Dalle viscere della terra l’uomo aveva strappato ferroe carbone; per riempirla fino all’orlo di ricchezze avevaframmisto sogni a intelletto, congegni di ruote al genio.Perciò l’uomo era condannato a morir di fame in squal-lidi tugurî perchè altri più fortunati di lui eran deposita-ri, quasi di magiche pergamene, di leggi inventate e

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scritte prima che l’uomo avesse inventato la macchina.Ma affinchè i loro simili potessero morir di fame col do-vuto senso d’umiltà, gli uomini inventarono «leggi sulreddito», «diminuzioni di rimesse», «diritti di liberoscambio», «sopravvento del più forte», «laissez- faire» ealtri dogmi che ancora vivono per il tormento di lau-reandi in economia politica e per la gioia dei conserva-tori, i quali nel trionfo della Legge sugli Scambi altronon vedono se non la fine dei loro miserabili piccolimondi.

Nel XIX secolo Tommaso Carlyle, guardando a que-sto stato di cose non senza amaritudine e con larghezzadi vedute, ripeteva il detto platoniano, che l’uomo non èche un «bipede implume». Ma gli uccelli non possonoesser accusati di diffamazione. Carlyle sospettava chel’uomo avesse altri doveri verso l’uomo, oltre il paga-mento dei salari; e avanzava l’idea che l’universo nonfosse stato creato per essere una riserva di fagiani. Egliera un radicale, e si dice che non andasse d’accordo conla moglie.

Un po’ più tardi, il mondo si trovò dilaniato dallequerele, nel grande sforzo di decidere se l’uomo discen-desse dagli angeli o si fosse elevato dalle scimmie; seprovenisse da regioni celesti, o fuor dal limo dei mariprimitivi si fosse fatto strada, mosso da una strana ciecaforza detta Fato o Natura.

Nè l’uno nè l’altro, cari lettori: noi non siamo nè an-geli nè demoni, nè girini nè antropoidi, bensì uomini: ti-tani con la testa fra le nuvole e i piedi sulla buona terra.

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scritte prima che l’uomo avesse inventato la macchina.Ma affinchè i loro simili potessero morir di fame col do-vuto senso d’umiltà, gli uomini inventarono «leggi sulreddito», «diminuzioni di rimesse», «diritti di liberoscambio», «sopravvento del più forte», «laissez- faire» ealtri dogmi che ancora vivono per il tormento di lau-reandi in economia politica e per la gioia dei conserva-tori, i quali nel trionfo della Legge sugli Scambi altronon vedono se non la fine dei loro miserabili piccolimondi.

Nel XIX secolo Tommaso Carlyle, guardando a que-sto stato di cose non senza amaritudine e con larghezzadi vedute, ripeteva il detto platoniano, che l’uomo non èche un «bipede implume». Ma gli uccelli non possonoesser accusati di diffamazione. Carlyle sospettava chel’uomo avesse altri doveri verso l’uomo, oltre il paga-mento dei salari; e avanzava l’idea che l’universo nonfosse stato creato per essere una riserva di fagiani. Egliera un radicale, e si dice che non andasse d’accordo conla moglie.

Un po’ più tardi, il mondo si trovò dilaniato dallequerele, nel grande sforzo di decidere se l’uomo discen-desse dagli angeli o si fosse elevato dalle scimmie; seprovenisse da regioni celesti, o fuor dal limo dei mariprimitivi si fosse fatto strada, mosso da una strana ciecaforza detta Fato o Natura.

Nè l’uno nè l’altro, cari lettori: noi non siamo nè an-geli nè demoni, nè girini nè antropoidi, bensì uomini: ti-tani con la testa fra le nuvole e i piedi sulla buona terra.

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Le prime invenzioni, come proveremo più avanti, ten-deranno a prodursi in un tempo relativamente breve edentro aree geografiche decisamente ristrette. Il fatto chealcune tra le invenzioni più semplici sembrino aver avu-to origini multiple non modifica in alcun modo questateoria. Ogni invenzione deve aver avuto luogo una pri-ma volta in un dato luogo e per opera di un dato uomo.Ma il fatto susseguente, di uguale e forse maggior signi-ficato sociale, è il singolare e quasi magico potere chel’invenzione ha di diffondersi per immense aree di tem-po e di spazio. Poco importa attraverso quali vie e vi-cende ciò accada; qualunque sia il metodo, le conse-guenze sociali non variano.

Alcuni arnesi e metodi per produrre il fuoco; l’agri-coltura, la ruota, l’arte del vasaio; imbarcazioni di variogenere; cibo e piante industriali; animali addomesticati;le varie fasi del veicolo a ruote, e altre invenzioni e sco-perte ancora si sparsero e diffusero per aree continentalispesso immense.

Questa forza è l’essenza secondaria della culturamondiale.

Le idee non hanno barriere conosciute o definibili,fuorchè la facoltà dell’uomo di riconoscerle e assorbirle.L’invenzione è un fatto intellettuale e la diffusione delleinvenzioni non è un accidente. Il seme che cade in terre-no fertile fiorirà: poco importa come e da chi sia statosparso e donde provenga.

La storia recente ha visto diffondersi per il mondo in-tero le macchine tessili, la macchina a vapore, la loco-

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Le prime invenzioni, come proveremo più avanti, ten-deranno a prodursi in un tempo relativamente breve edentro aree geografiche decisamente ristrette. Il fatto chealcune tra le invenzioni più semplici sembrino aver avu-to origini multiple non modifica in alcun modo questateoria. Ogni invenzione deve aver avuto luogo una pri-ma volta in un dato luogo e per opera di un dato uomo.Ma il fatto susseguente, di uguale e forse maggior signi-ficato sociale, è il singolare e quasi magico potere chel’invenzione ha di diffondersi per immense aree di tem-po e di spazio. Poco importa attraverso quali vie e vi-cende ciò accada; qualunque sia il metodo, le conse-guenze sociali non variano.

Alcuni arnesi e metodi per produrre il fuoco; l’agri-coltura, la ruota, l’arte del vasaio; imbarcazioni di variogenere; cibo e piante industriali; animali addomesticati;le varie fasi del veicolo a ruote, e altre invenzioni e sco-perte ancora si sparsero e diffusero per aree continentalispesso immense.

Questa forza è l’essenza secondaria della culturamondiale.

Le idee non hanno barriere conosciute o definibili,fuorchè la facoltà dell’uomo di riconoscerle e assorbirle.L’invenzione è un fatto intellettuale e la diffusione delleinvenzioni non è un accidente. Il seme che cade in terre-no fertile fiorirà: poco importa come e da chi sia statosparso e donde provenga.

La storia recente ha visto diffondersi per il mondo in-tero le macchine tessili, la macchina a vapore, la loco-

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motiva, metodi per la produzione di ferro e acciaio edelettricità, creando ovunque nuove condizioni economi-che e sociali. I nomi di High, Galvani, Watt, Stephen-son, Volta, Faraday, Edison, Marconi, Diesel, Ford,Meucci corrono oggigiorno per tutto il mondo civile.Nel nostro passato più prossimo abbiamo visto il tele-grafo, il telefono, la trebbiatrice meccanica, la macchinada cucire, la macchina da scrivere, il fonografo, l’auto-mobile, la radio, il motore Diesel, la turbina idroelettricae l’aeroplano seguire vittoriosamente un comune cam-mino di progresso e di ricchezza mondiale.

Ma le invenzioni di modi di vita, di sistemi sociali dipensiero, di divisione di tempo e di peso, di diritto diproprietà, procedono più lentamente. A quanto pare, perlo scambio di queste idee non esiste media comune. Lin-gue e religioni, filosofie, tradizioni sono – apparente-mente almeno – impassibili ostacoli allo scambio di ideesociali. Per lo scienziato, noi siamo tutta una sola razza,che accomuna trionfi e disfatte, mossa da comuni biso-gni e desideri. Per il politico, siamo costretti tra limitatiartificiali reparti che recano il nome di nazioni, e dentroqueste immaginarie restrizioni le forze dell’invenzione,le innovazioni meccaniche fermentano come un vinovecchio in una botte nuova. Le botti della parabola era-no pelli caprine; le nostre botti sono fatte di pergamenelegali.

Migliaia d’anni fa, tra popoli così detti primitivi,l’uomo inventò il commercio. La ricchezza si trasferì daregione a regione, creando maggior benessere, maggior

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motiva, metodi per la produzione di ferro e acciaio edelettricità, creando ovunque nuove condizioni economi-che e sociali. I nomi di High, Galvani, Watt, Stephen-son, Volta, Faraday, Edison, Marconi, Diesel, Ford,Meucci corrono oggigiorno per tutto il mondo civile.Nel nostro passato più prossimo abbiamo visto il tele-grafo, il telefono, la trebbiatrice meccanica, la macchinada cucire, la macchina da scrivere, il fonografo, l’auto-mobile, la radio, il motore Diesel, la turbina idroelettricae l’aeroplano seguire vittoriosamente un comune cam-mino di progresso e di ricchezza mondiale.

Ma le invenzioni di modi di vita, di sistemi sociali dipensiero, di divisione di tempo e di peso, di diritto diproprietà, procedono più lentamente. A quanto pare, perlo scambio di queste idee non esiste media comune. Lin-gue e religioni, filosofie, tradizioni sono – apparente-mente almeno – impassibili ostacoli allo scambio di ideesociali. Per lo scienziato, noi siamo tutta una sola razza,che accomuna trionfi e disfatte, mossa da comuni biso-gni e desideri. Per il politico, siamo costretti tra limitatiartificiali reparti che recano il nome di nazioni, e dentroqueste immaginarie restrizioni le forze dell’invenzione,le innovazioni meccaniche fermentano come un vinovecchio in una botte nuova. Le botti della parabola era-no pelli caprine; le nostre botti sono fatte di pergamenelegali.

Migliaia d’anni fa, tra popoli così detti primitivi,l’uomo inventò il commercio. La ricchezza si trasferì daregione a regione, creando maggior benessere, maggior

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sicurezza di vita, comodità, lusso ed eleganza. Il com-mercio è un’invenzione, non meno del linguaggio,dell’arte di produrre il fuoco o della vite perpetua. Ilcommercio è il complemento dell’invenzione; ha contri-buito a diffondere invenzioni, ha portato la ricchezza peril mondo intero.

Da duemila anni a questa parte, la nostra società nonha visto che un solo sfogo per la sua eccedenza di ener-gia meccanica. Questo sfogo è l’antica furia di guerra.All’epoca in cui animali domestici e piante commestibi-li e vita aggregata conferivano valore alla terra, la guer-ra pareva un mezzo relativamente facile di acquisire ric-chezze. Fu questo il venefico ingrediente che il diavologittò entro il corno dell’abbondanza.

Molteplici forme di guerra ha inventato l’uomo. Saràegli mai capace di creare leggi per disciplinare questeinvenzioni, o saprà trovare in codici e trattati un modoper far la pace invece che la guerra? Il nostro problemasta nell’equilibrio tra invenzioni sociali e invenzionimeccaniche, ed entra nell’ambito della morale. Menosperanza abbiamo nelle istituzioni, che non nei processiindividuali di pensiero. I libri possono impostare il pro-blema, ma non risolverlo.

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sicurezza di vita, comodità, lusso ed eleganza. Il com-mercio è un’invenzione, non meno del linguaggio,dell’arte di produrre il fuoco o della vite perpetua. Ilcommercio è il complemento dell’invenzione; ha contri-buito a diffondere invenzioni, ha portato la ricchezza peril mondo intero.

Da duemila anni a questa parte, la nostra società nonha visto che un solo sfogo per la sua eccedenza di ener-gia meccanica. Questo sfogo è l’antica furia di guerra.All’epoca in cui animali domestici e piante commestibi-li e vita aggregata conferivano valore alla terra, la guer-ra pareva un mezzo relativamente facile di acquisire ric-chezze. Fu questo il venefico ingrediente che il diavologittò entro il corno dell’abbondanza.

Molteplici forme di guerra ha inventato l’uomo. Saràegli mai capace di creare leggi per disciplinare questeinvenzioni, o saprà trovare in codici e trattati un modoper far la pace invece che la guerra? Il nostro problemasta nell’equilibrio tra invenzioni sociali e invenzionimeccaniche, ed entra nell’ambito della morale. Menosperanza abbiamo nelle istituzioni, che non nei processiindividuali di pensiero. I libri possono impostare il pro-blema, ma non risolverlo.

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II

MADRE NECESSITÀ E LE SUE NOZZE

Siamo propensi ad ammettere che Necessità sia statal'arcigna e prolifica progenitrice di tutte le invenzioni.Ma opportunità e genio sono ugualmente essenziali, af-finchè essa possa adempire alla sua funzione naturale.Sono, questi due, fattori più o meno comuni in realtà, epotenzialmente presenti in tutti gli ambienti. Ma il genioha una qualità altamente variabile ed elusiva; e le leggiche segue sono spesso tanto sottili da sfuggire alla no-stra comprensione.

Abbiamo parlato della Genitrice in tutte le età e intutte le razze. E il Genitore? Nell’idea, come in tanti al-tri rapporti meno oscuri, non si può scartare senz’altrol’elemento maschile. E siamo assai curiosi dei padri chein varie epoche, luoghi e razze, hanno incontrato questafeconda e ardente donna.

Le nozze della buona e antica madre Necessità hannoluogo a intervalli oltremodo irregolari. Nei primi stadîdella razza, essa attende a lungo e con pazienza lo sposoadatto. Succedono poi periodi nei quali le sue graziehanno un appello più deciso. In altri e più rari periodi,

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MADRE NECESSITÀ E LE SUE NOZZE

Siamo propensi ad ammettere che Necessità sia statal'arcigna e prolifica progenitrice di tutte le invenzioni.Ma opportunità e genio sono ugualmente essenziali, af-finchè essa possa adempire alla sua funzione naturale.Sono, questi due, fattori più o meno comuni in realtà, epotenzialmente presenti in tutti gli ambienti. Ma il genioha una qualità altamente variabile ed elusiva; e le leggiche segue sono spesso tanto sottili da sfuggire alla no-stra comprensione.

Abbiamo parlato della Genitrice in tutte le età e intutte le razze. E il Genitore? Nell’idea, come in tanti al-tri rapporti meno oscuri, non si può scartare senz’altrol’elemento maschile. E siamo assai curiosi dei padri chein varie epoche, luoghi e razze, hanno incontrato questafeconda e ardente donna.

Le nozze della buona e antica madre Necessità hannoluogo a intervalli oltremodo irregolari. Nei primi stadîdella razza, essa attende a lungo e con pazienza lo sposoadatto. Succedono poi periodi nei quali le sue graziehanno un appello più deciso. In altri e più rari periodi,

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queste nozze sono tanto frequenti e varie, da costituireaddirittura uno scandalo scientifico. Oggigiorno, la granmadre si trova in un permanente stato interessante, chedura da sei secoli ormai. Apparentemente non ci sonopiù regole in materia, nè misure o restrizioni! Ogni voltache un genio spunta all’orizzonte, la signora appare pro-clive a lasciarsi persuadere; ma se questi geni non simostrano, la sua indifferenza è ugualmente sorprenden-te. Non c’è via di mezzo: o un’orgia, o una carestia.

Per 400.000 anni all’incirca – quattro quinti della sto-ria visibile dell’uomo – questi si contentò di pochi arne-si, fabbricati secondo una rudimentale tecnica della pie-tra, con la conservazione del fuoco naturale, e con unordinamento sociale di una primitiva semplicità. PoiMadre Necessità, sotto forma di gelo intenso e di ghiac-cio, venne a contatto col genio; ed ecco che per 30.000anni, più o meno, si svilupparono e si perfezionaronoquegli arnesi e quelle idee creati nei secoli anteriori.

Seguì poi un vago e tuttora imprecisabile interludio –l’Epoca Aziliana2 – in cui l’Europa fu devastata dallatravolgente piena dei ghiacci in scioglimento, per stabi-lizzarsi finalmente nel moderno mondo geologico a noinoto. E poi le vie del mondo si aprirono, e il piede dellagiovane umanità fu lesto a percorrerle, recando per tuttala terra nuove ricchezze, nuove idee e invenzioni e spe-ranze nuove. La progenie di Madre Necessità fecondata

2 Così detta dalle scoperte nelle scoperte delle caverne delMas d’Azil dell’Ariège, in Francia. Epoca di transizione tra glistrati quaternari e l’era geologica nostra. (N. d. Tr.).

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queste nozze sono tanto frequenti e varie, da costituireaddirittura uno scandalo scientifico. Oggigiorno, la granmadre si trova in un permanente stato interessante, chedura da sei secoli ormai. Apparentemente non ci sonopiù regole in materia, nè misure o restrizioni! Ogni voltache un genio spunta all’orizzonte, la signora appare pro-clive a lasciarsi persuadere; ma se questi geni non simostrano, la sua indifferenza è ugualmente sorprenden-te. Non c’è via di mezzo: o un’orgia, o una carestia.

Per 400.000 anni all’incirca – quattro quinti della sto-ria visibile dell’uomo – questi si contentò di pochi arne-si, fabbricati secondo una rudimentale tecnica della pie-tra, con la conservazione del fuoco naturale, e con unordinamento sociale di una primitiva semplicità. PoiMadre Necessità, sotto forma di gelo intenso e di ghiac-cio, venne a contatto col genio; ed ecco che per 30.000anni, più o meno, si svilupparono e si perfezionaronoquegli arnesi e quelle idee creati nei secoli anteriori.

Seguì poi un vago e tuttora imprecisabile interludio –l’Epoca Aziliana2 – in cui l’Europa fu devastata dallatravolgente piena dei ghiacci in scioglimento, per stabi-lizzarsi finalmente nel moderno mondo geologico a noinoto. E poi le vie del mondo si aprirono, e il piede dellagiovane umanità fu lesto a percorrerle, recando per tuttala terra nuove ricchezze, nuove idee e invenzioni e spe-ranze nuove. La progenie di Madre Necessità fecondata

2 Così detta dalle scoperte nelle scoperte delle caverne delMas d’Azil dell’Ariège, in Francia. Epoca di transizione tra glistrati quaternari e l’era geologica nostra. (N. d. Tr.).

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dal genio si accalcava alle frontiere dell’Europa. Tostovi affluirono bovini, ovini, equini, e frumento, orzo eavena; e nuovi metodi per lavorare la pietra e l’argilla; el’arte di filare e tessere, e i primi metalli. Si costruironoi primi villaggi cinti di mura, e imbarcazioni navigabili,e fortificazioni e grandi monumenti funerari di pietra;sorse l’alba dell’architettura moderna e di quell’ispiratoe incomparabile congegno che è la ruota da carro, madreinfinitamente fertile di nuove idee meccaniche. Tuttequeste invenzioni, basilari ed essenziali, han luogo tra i20.000 e i 10.000 anni del nostro tempo presente, in Eu-ropa e nel Vicino Oriente, dove molte di esse sorseroinizialmente, per arrivare poi in Europa solo assai piùtardi e già completamente sviluppate.

L’Egitto, la Persia, Sumer, Creta, Micene e la Greciasono le prime culle di quelle civiltà fondate sulle inven-zioni dell’Epoca Neolitica. In Alessandria d’Egitto, fon-data da un generale di Alessandro il Grande, troviamoradunati verso la fine dell’Impero Romano un piccologruppo d’uomini dotati di spirito scientifico acuto e in-dagatore. Poco ci è tuttavia noto delle loro imprese, senon attraverso rari documenti giunti a noi in arabo; esappiamo così che Erone di Alessandria e i suoi consocistabilirono le cinque macchine semplici per mezzo dicui un peso può esser sollevato «con l’applicazione diuna data forza» : la leva, la carrucola, l’argano, la vite eil cuneo. La vite perpetua rappresenta il primo contribu-to veramente moderno dell’uomo, fra questo gruppo diinvenzioni ancora primitive. Impiegata nella famosa

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dal genio si accalcava alle frontiere dell’Europa. Tostovi affluirono bovini, ovini, equini, e frumento, orzo eavena; e nuovi metodi per lavorare la pietra e l’argilla; el’arte di filare e tessere, e i primi metalli. Si costruironoi primi villaggi cinti di mura, e imbarcazioni navigabili,e fortificazioni e grandi monumenti funerari di pietra;sorse l’alba dell’architettura moderna e di quell’ispiratoe incomparabile congegno che è la ruota da carro, madreinfinitamente fertile di nuove idee meccaniche. Tuttequeste invenzioni, basilari ed essenziali, han luogo tra i20.000 e i 10.000 anni del nostro tempo presente, in Eu-ropa e nel Vicino Oriente, dove molte di esse sorseroinizialmente, per arrivare poi in Europa solo assai piùtardi e già completamente sviluppate.

L’Egitto, la Persia, Sumer, Creta, Micene e la Greciasono le prime culle di quelle civiltà fondate sulle inven-zioni dell’Epoca Neolitica. In Alessandria d’Egitto, fon-data da un generale di Alessandro il Grande, troviamoradunati verso la fine dell’Impero Romano un piccologruppo d’uomini dotati di spirito scientifico acuto e in-dagatore. Poco ci è tuttavia noto delle loro imprese, senon attraverso rari documenti giunti a noi in arabo; esappiamo così che Erone di Alessandria e i suoi consocistabilirono le cinque macchine semplici per mezzo dicui un peso può esser sollevato «con l’applicazione diuna data forza» : la leva, la carrucola, l’argano, la vite eil cuneo. La vite perpetua rappresenta il primo contribu-to veramente moderno dell’uomo, fra questo gruppo diinvenzioni ancora primitive. Impiegata nella famosa

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Idrostatica di Archimede per trarre l’acqua dal suolo, fuil principale fattore meccanico nei torchi da olio e davino; e serviva per aprire le branche di uno strumentochirurgico che ancora si usa in ginecologia. La macchi-na moderna sarebbe impossibile senza la vite perpetua.

In Alessandria si compirono i primi esperimenti colvapor acqueo. Per mezzo di rudimentali motori, si vide-ro schiudersi le porte dei templi, e idoli rotear sui piede-stalli, e acqua e vino scaturire dalle fontane. C’è financoragione di credere che a quei tempi risalga l’invenzionedella pompa meccanica. Ma in un’epoca in cui la manod’opera era affidata agli schiavi, necessariamente questeinvenzioni rimasero, per così dire, allo stato sperimenta-le: come l’elettricità nel XVIII secolo, nel VII secolo ilvapor acqueo era un curioso ed elegante trastullo. Più dimille anni l’umanità doveva attendere avanti che questiprimi esperimenti venissero ripresi, e verso la fine delRinascimento sorgesse così una seconda età del vapore.In quel periodo, ben altro risorgeva, oltre all’interesseper l’arte antica. La scienza meccanica degli uomini diAlessandria d’Egitto trovava la sua rinascita in Italia,per diramarsi poi verso la Germania, e in ultimo in In-ghilterra.

Sei secoli – tanto ci separa dal Rinascimento – sonoun breve intervallo, così come il tempo è misurato dallamente umana. E poi, l’uomo moderno, spronato dai lon-tani ricordi di Alessandria, ispirato dai quasi obliati se-greti che alla Grecia aveva tramandato l’ormai obliatoOriente, l’uomo si risvegliò; le invenzioni seguirono

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Idrostatica di Archimede per trarre l’acqua dal suolo, fuil principale fattore meccanico nei torchi da olio e davino; e serviva per aprire le branche di uno strumentochirurgico che ancora si usa in ginecologia. La macchi-na moderna sarebbe impossibile senza la vite perpetua.

In Alessandria si compirono i primi esperimenti colvapor acqueo. Per mezzo di rudimentali motori, si vide-ro schiudersi le porte dei templi, e idoli rotear sui piede-stalli, e acqua e vino scaturire dalle fontane. C’è financoragione di credere che a quei tempi risalga l’invenzionedella pompa meccanica. Ma in un’epoca in cui la manod’opera era affidata agli schiavi, necessariamente questeinvenzioni rimasero, per così dire, allo stato sperimenta-le: come l’elettricità nel XVIII secolo, nel VII secolo ilvapor acqueo era un curioso ed elegante trastullo. Più dimille anni l’umanità doveva attendere avanti che questiprimi esperimenti venissero ripresi, e verso la fine delRinascimento sorgesse così una seconda età del vapore.In quel periodo, ben altro risorgeva, oltre all’interesseper l’arte antica. La scienza meccanica degli uomini diAlessandria d’Egitto trovava la sua rinascita in Italia,per diramarsi poi verso la Germania, e in ultimo in In-ghilterra.

Sei secoli – tanto ci separa dal Rinascimento – sonoun breve intervallo, così come il tempo è misurato dallamente umana. E poi, l’uomo moderno, spronato dai lon-tani ricordi di Alessandria, ispirato dai quasi obliati se-greti che alla Grecia aveva tramandato l’ormai obliatoOriente, l’uomo si risvegliò; le invenzioni seguirono

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agli esperimenti, e nuovi esperimenti scaturirono da for-tunate invenzioni. Il mondo ricominciava a pensare. Nelmezzo di una umanità che si dibatteva per uscir dallemura delle fortezze e dai chiusi conventi, per sboccar daun ambiente raccolto ma ristretto in un’epoca di scambiattivi, di inauditi egoismi e brutalità, un’epoca straziatadalle guerre e dal terror delle epidemie, l’uomo ancorainventava e partoriva idee.

Nel XIV secolo l’Europa Occidentale, quasi cacciatadal Mediterraneo, si azzardava timidamente sui flutti de-gli Oceani Occidentali, e conquistava in ultimo i mari.Seguì poi la Rivoluzione Industriale, l’età del meccani-smo automatico, delle navi a vapore, della locomotiva,dell’elettricità, del telegrafo e del telefono, dell’automo-bile, dell’aeroplano e della radio; l’età del laboratorioscientifico industriale, della chimica e della fisica.

Nella scala dello stato sociale della cultura, gli scien-ziati hanno dato forse soverchia importanza a una inven-zione, o piuttosto a un gruppo d’invenzioni che com-prendono l’alfabeto fonetico, la scrittura, la stampa e lafabbricazione della carta. Ancora una volta, queste in-venzioni sono figlie della necessità. Circa 50.000 annifa, scoperte e invenzioni avevano creato nell’Asia Mi-nore uno stato di cose tanto complesso, da necessitar do-cumenti di una natura più precisa di quanto non permet-tessero il linguaggio o la memoria e le varie forme discritture a immagini. Nacquero così l’alfabeto e la scrit-tura. La storia consiste in massima parte dei documentiscritti; o, piuttosto, di ciò che l’uomo moderno ha potuto

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agli esperimenti, e nuovi esperimenti scaturirono da for-tunate invenzioni. Il mondo ricominciava a pensare. Nelmezzo di una umanità che si dibatteva per uscir dallemura delle fortezze e dai chiusi conventi, per sboccar daun ambiente raccolto ma ristretto in un’epoca di scambiattivi, di inauditi egoismi e brutalità, un’epoca straziatadalle guerre e dal terror delle epidemie, l’uomo ancorainventava e partoriva idee.

Nel XIV secolo l’Europa Occidentale, quasi cacciatadal Mediterraneo, si azzardava timidamente sui flutti de-gli Oceani Occidentali, e conquistava in ultimo i mari.Seguì poi la Rivoluzione Industriale, l’età del meccani-smo automatico, delle navi a vapore, della locomotiva,dell’elettricità, del telegrafo e del telefono, dell’automo-bile, dell’aeroplano e della radio; l’età del laboratorioscientifico industriale, della chimica e della fisica.

Nella scala dello stato sociale della cultura, gli scien-ziati hanno dato forse soverchia importanza a una inven-zione, o piuttosto a un gruppo d’invenzioni che com-prendono l’alfabeto fonetico, la scrittura, la stampa e lafabbricazione della carta. Ancora una volta, queste in-venzioni sono figlie della necessità. Circa 50.000 annifa, scoperte e invenzioni avevano creato nell’Asia Mi-nore uno stato di cose tanto complesso, da necessitar do-cumenti di una natura più precisa di quanto non permet-tessero il linguaggio o la memoria e le varie forme discritture a immagini. Nacquero così l’alfabeto e la scrit-tura. La storia consiste in massima parte dei documentiscritti; o, piuttosto, di ciò che l’uomo moderno ha potuto

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conservare e tradurre e interpretare di questi documenti,entro l’ambito della comprensione che ne aveva. A ciòvanno aggiunte più recenti testimonianze archeologiche,le quali chiarificano e modificano i documenti scritti.Ma all’epoca in cui l’uomo aveva cominciato a scriveresulla pietra, sui mattoni d’argilla, sul papiro e sulla per-gamena e anche sulla carta, con un selce appuntito, conuno stilo o con una penna d’oca, altre e più essenzialiinvenzioni facevano della società un organismo altret-tanto complesso quanto essa è oggi. La differenza statutta nell’intensità, nella ecletticità e produttività delcontenuto meccanico della società moderna a confrontodi quella antica. Già fin da allora elaborati procedimentimeccanici, agricoltura, arte, letteratura, medicina e chi-rurgia, finanze, commercio interno ed estero, scienzabellica erano nè più nè meno quel che sono ai giorni no-stri. Inoltre i documenti scritti a noi pervenuti registranoin preponderanza fatti e teorie che dovevano essere im-portanti per alcuni, a servizio dei quali stava lo storio-grafo. Cosicchè anche nella voluminosa testimonianzadella storia scritta abbiamo lacune; le quali non sonoche parzialmente riempite dall’archeologia classica.

Tutto ciò che accadde nel mondo prima che gli uomi-ni cominciassero a scrivere; tutte le conquiste, le disfat-te, le invenzioni e gli espedienti a cui ricorse l’umanitànelle più svariate condizioni di vita e d’ambiente, vasotto il nome di Preistoria. La distinzione è tendenziosa,non senza intenzione. Tutto ciò che accade al giornod’oggi, fra i popoli analfabeti è detto Etnologia; mentre

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conservare e tradurre e interpretare di questi documenti,entro l’ambito della comprensione che ne aveva. A ciòvanno aggiunte più recenti testimonianze archeologiche,le quali chiarificano e modificano i documenti scritti.Ma all’epoca in cui l’uomo aveva cominciato a scriveresulla pietra, sui mattoni d’argilla, sul papiro e sulla per-gamena e anche sulla carta, con un selce appuntito, conuno stilo o con una penna d’oca, altre e più essenzialiinvenzioni facevano della società un organismo altret-tanto complesso quanto essa è oggi. La differenza statutta nell’intensità, nella ecletticità e produttività delcontenuto meccanico della società moderna a confrontodi quella antica. Già fin da allora elaborati procedimentimeccanici, agricoltura, arte, letteratura, medicina e chi-rurgia, finanze, commercio interno ed estero, scienzabellica erano nè più nè meno quel che sono ai giorni no-stri. Inoltre i documenti scritti a noi pervenuti registranoin preponderanza fatti e teorie che dovevano essere im-portanti per alcuni, a servizio dei quali stava lo storio-grafo. Cosicchè anche nella voluminosa testimonianzadella storia scritta abbiamo lacune; le quali non sonoche parzialmente riempite dall’archeologia classica.

Tutto ciò che accadde nel mondo prima che gli uomi-ni cominciassero a scrivere; tutte le conquiste, le disfat-te, le invenzioni e gli espedienti a cui ricorse l’umanitànelle più svariate condizioni di vita e d’ambiente, vasotto il nome di Preistoria. La distinzione è tendenziosa,non senza intenzione. Tutto ciò che accade al giornod’oggi, fra i popoli analfabeti è detto Etnologia; mentre

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l’Antropologia, o studio dell’uomo, abbraccia tutto ciòche si riferisce alla natura fisica, artistica e socialedell’uomo. Le cose create dell’uomo evoluto, vannocollocate nei musei d’arte; e nei musei scientifici vannocose spesso assai più belle, create da popoli analfabeti.

Si presume che la cultura sia la prima e più importan-te virtù etica. Per tradizione, nessun uomo di lettereesercita da sè il proprio commercio.

In altre parole: sembra che fra i cervelli accademici visia un tacito consenso che dopo aver inventato l’alfabetoe la scrittura, l’uomo diventasse una creatura superioreai predecessori che avevano inventato il fuoco, la pietraaffilata e la ruota, e addomesticato gli animali; che ave-vano scoperto come trasformare i minerali in metallo, ealtre bazzecole simili.

Noi consideriamo queste distinzioni super-raffinate,sempliciste e indubbiamente scolastiche. Dopo tutto,storia e antropologia trattano la storia della vita d’unsingolo animale. Tutte le conquiste dell’uomo dopo cheimparò a scrivere si basano in gran parte su concetti escoperte e conquiste che risalgono alla preistoria, o sonoanteriori a quella condizione teorica che è la Storia.

Noi non abbiamo col commercio delle lettere alcunfatto personale. Ma riteniamo che se l’uomo non avesserisolto prima altri e più vitali problemi, mai avrebbe im-parato a scrivere; che non ci sarebbe stato nulla che va-lesse la pena d’esser scritto, nè il bisogno di scrivere. Cisembra incomprensibile che si possa iniziare un seriostudio della storia o della sua figliastra, l’economia poli-

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l’Antropologia, o studio dell’uomo, abbraccia tutto ciòche si riferisce alla natura fisica, artistica e socialedell’uomo. Le cose create dell’uomo evoluto, vannocollocate nei musei d’arte; e nei musei scientifici vannocose spesso assai più belle, create da popoli analfabeti.

Si presume che la cultura sia la prima e più importan-te virtù etica. Per tradizione, nessun uomo di lettereesercita da sè il proprio commercio.

In altre parole: sembra che fra i cervelli accademici visia un tacito consenso che dopo aver inventato l’alfabetoe la scrittura, l’uomo diventasse una creatura superioreai predecessori che avevano inventato il fuoco, la pietraaffilata e la ruota, e addomesticato gli animali; che ave-vano scoperto come trasformare i minerali in metallo, ealtre bazzecole simili.

Noi consideriamo queste distinzioni super-raffinate,sempliciste e indubbiamente scolastiche. Dopo tutto,storia e antropologia trattano la storia della vita d’unsingolo animale. Tutte le conquiste dell’uomo dopo cheimparò a scrivere si basano in gran parte su concetti escoperte e conquiste che risalgono alla preistoria, o sonoanteriori a quella condizione teorica che è la Storia.

Noi non abbiamo col commercio delle lettere alcunfatto personale. Ma riteniamo che se l’uomo non avesserisolto prima altri e più vitali problemi, mai avrebbe im-parato a scrivere; che non ci sarebbe stato nulla che va-lesse la pena d’esser scritto, nè il bisogno di scrivere. Cisembra incomprensibile che si possa iniziare un seriostudio della storia o della sua figliastra, l’economia poli-

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tica, senza qualche rudimentale principio della culturamateriale che precede la storia. Erodoto fu detto il Padredella Storia moderna; ma non dimentichiamo che primadi lui vennero gli Egiziani, i Fenici, gli Assiri ed altri; eanche così, tutti questi popoli non coprono che il trascu-rabile periodo di 5000 anni. Restano dunque almeno495.000 anni d’umanità, dei quali la Preistoria ci deverender conto.

Lo studio dell’antropologia rappresenta la fase più re-cente della storia. Cento anni sarebbero più che suffi-cienti ad abbracciare le sue principali scoperte, e il suoriconoscimento ufficiale quale parte della storiadell’umanità. Finora le ricerche più fruttifere, gli studipiù intensi, sono stati perseguiti in Francia, in Inghilter-ra e in Egitto; ma recentemente, anche le antiche civiltànell’oriente del Mediterraneo, in Cina e nell’Asia Mino-re, hanno attirato l’attenzione degli scienziati. E grandiprogressi furono fatti nello studio delle razze delle Ame-riche, particolarmente nell’America Centrale e nel Perù.Ma è una scienza ancora giovane, e ancora non è giuntoil momento per troppo precise generalizzazioni.

Un ramo speciale dell’antropologia tratta delle tra-sformazioni fisiche che si verificano nella razza daquando un animale simile all’uomo divenne scientifica-mente visibile. Dei nostri più remoti antenati, a noi nonresta che qualche mucchio di scompagnate e dubbieossa, rinvenute per caso in diverse parti del mondo, lequali rivelano un animale tanto simile a noi per moltipunti, quanto è dissimile in certi particolari. C’è ragione

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tica, senza qualche rudimentale principio della culturamateriale che precede la storia. Erodoto fu detto il Padredella Storia moderna; ma non dimentichiamo che primadi lui vennero gli Egiziani, i Fenici, gli Assiri ed altri; eanche così, tutti questi popoli non coprono che il trascu-rabile periodo di 5000 anni. Restano dunque almeno495.000 anni d’umanità, dei quali la Preistoria ci deverender conto.

Lo studio dell’antropologia rappresenta la fase più re-cente della storia. Cento anni sarebbero più che suffi-cienti ad abbracciare le sue principali scoperte, e il suoriconoscimento ufficiale quale parte della storiadell’umanità. Finora le ricerche più fruttifere, gli studipiù intensi, sono stati perseguiti in Francia, in Inghilter-ra e in Egitto; ma recentemente, anche le antiche civiltànell’oriente del Mediterraneo, in Cina e nell’Asia Mino-re, hanno attirato l’attenzione degli scienziati. E grandiprogressi furono fatti nello studio delle razze delle Ame-riche, particolarmente nell’America Centrale e nel Perù.Ma è una scienza ancora giovane, e ancora non è giuntoil momento per troppo precise generalizzazioni.

Un ramo speciale dell’antropologia tratta delle tra-sformazioni fisiche che si verificano nella razza daquando un animale simile all’uomo divenne scientifica-mente visibile. Dei nostri più remoti antenati, a noi nonresta che qualche mucchio di scompagnate e dubbieossa, rinvenute per caso in diverse parti del mondo, lequali rivelano un animale tanto simile a noi per moltipunti, quanto è dissimile in certi particolari. C’è ragione

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di credere che non tutti questi resti scheletrici apparte-nessero ai nostri diretti antenati. C’è una tendenza aclassificarli in vari gruppi, e a specificarli per mezzo diaggettivi che li differenziano dall’Homo Sapiens degliultimi trenta o quaranta millenni.

Queste distinzioni non ci riguardano. Noi non ponia-mo in dubbio l’accuratezza nè la sincerità delle ricerche,nè che grandi progressi siano stati fatti in questo campo;nè che in avvenire si giunga a conclusioni ancor più pre-cise circa i rapporti tra l’uomo fisico e l’uomo intellet-tuale. Ma poco importa, per lo scopo dell’opera nostra,quale fosse la forma del cranio umano o la capacità del-la scatola cranica. Non c’interessa se le gambedell’uomo preistorico fossero arcuate, o il dorso ricurvosotto il ricordo degli amari pesi sopportati. Non appenaavrà creato un arnese, egli diventa per noi un uomo e unfratello: la prima creatura che nelle tenebre che la cir-condano accende una luce artificiale per guidarci. Seegli non è l’Homo Sapiens degli antropologi, è, almeno,l’antenato intellettuale di tutti gli artefici.

Esistono, tra gli strumenti e utensili dell’uomo e lasua struttura fisica e mentale, rapporti assai significativi.Invenzioni e scoperte precedettero sempre a trasforma-zioni nella struttura fisica e mentale, non solo, ma rap-presentano i fattori che contribuirono a queste trasfor-mazioni. L’uomo inventa l’arnese, l’arnese «evolve»l’uomo. L’uomo non potrebbe inventare un arnese cheandasse oltre le sue possibilità fisiche di servirsene, o lesue capacità intellettuali di comprenderlo. Perciò i suoi

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di credere che non tutti questi resti scheletrici apparte-nessero ai nostri diretti antenati. C’è una tendenza aclassificarli in vari gruppi, e a specificarli per mezzo diaggettivi che li differenziano dall’Homo Sapiens degliultimi trenta o quaranta millenni.

Queste distinzioni non ci riguardano. Noi non ponia-mo in dubbio l’accuratezza nè la sincerità delle ricerche,nè che grandi progressi siano stati fatti in questo campo;nè che in avvenire si giunga a conclusioni ancor più pre-cise circa i rapporti tra l’uomo fisico e l’uomo intellet-tuale. Ma poco importa, per lo scopo dell’opera nostra,quale fosse la forma del cranio umano o la capacità del-la scatola cranica. Non c’interessa se le gambedell’uomo preistorico fossero arcuate, o il dorso ricurvosotto il ricordo degli amari pesi sopportati. Non appenaavrà creato un arnese, egli diventa per noi un uomo e unfratello: la prima creatura che nelle tenebre che la cir-condano accende una luce artificiale per guidarci. Seegli non è l’Homo Sapiens degli antropologi, è, almeno,l’antenato intellettuale di tutti gli artefici.

Esistono, tra gli strumenti e utensili dell’uomo e lasua struttura fisica e mentale, rapporti assai significativi.Invenzioni e scoperte precedettero sempre a trasforma-zioni nella struttura fisica e mentale, non solo, ma rap-presentano i fattori che contribuirono a queste trasfor-mazioni. L’uomo inventa l’arnese, l’arnese «evolve»l’uomo. L’uomo non potrebbe inventare un arnese cheandasse oltre le sue possibilità fisiche di servirsene, o lesue capacità intellettuali di comprenderlo. Perciò i suoi

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primi arnesi rappresentano la limitazione alle sue capa-cità fisiche e mentali. Ogni arnese deve esser nato qualeidea, quale pensiero prigioniero fra le maglie della reted’un intelletto umano. E questo non è che uno dei tantimodi di constatare come l’uomo e tutte le sue conquistesiano i frutti del pensiero.

Fisicamente e mentalmente l’uomo (e anche la suacultura) è il prodotto degli arnesi che di tempo in tempoil suo intelletto ha inventato; i suoi arnesi sono i fruttidel suo pensiero.

In qualche parte della terra deve essere esistita, ungiorno, la creatura che segnò il limite il quale separaval’animale dall’uomo, lo spirito dalla carne. Allorchè ilnostro primo antenato, ritto in piedi, guarda agli alboridel mondo che intorno a lui rompono le fitte e paurosetenebre, esitante eppur pronto, ardito eppur timido, in-torno a sè egli non scorge che limitate possibilità perprovvedere alle sue immediate necessità di ricovero e dicibo.

Ma in realtà, egli guarda un ambiente potenzialmentevasto quanto il mondo intero, il quale contiene, non an-cora dome, tutte le forze della natura; tutte le materieprime; tutte le idee, gli strumenti, le macchine, le reli-gioni, i sistemi sociali, le leggi da cui, col tempo, i suoibisogni sapranno forgiare il mondo quale noi lo vedia-mo.

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primi arnesi rappresentano la limitazione alle sue capa-cità fisiche e mentali. Ogni arnese deve esser nato qualeidea, quale pensiero prigioniero fra le maglie della reted’un intelletto umano. E questo non è che uno dei tantimodi di constatare come l’uomo e tutte le sue conquistesiano i frutti del pensiero.

Fisicamente e mentalmente l’uomo (e anche la suacultura) è il prodotto degli arnesi che di tempo in tempoil suo intelletto ha inventato; i suoi arnesi sono i fruttidel suo pensiero.

In qualche parte della terra deve essere esistita, ungiorno, la creatura che segnò il limite il quale separaval’animale dall’uomo, lo spirito dalla carne. Allorchè ilnostro primo antenato, ritto in piedi, guarda agli alboridel mondo che intorno a lui rompono le fitte e paurosetenebre, esitante eppur pronto, ardito eppur timido, in-torno a sè egli non scorge che limitate possibilità perprovvedere alle sue immediate necessità di ricovero e dicibo.

Ma in realtà, egli guarda un ambiente potenzialmentevasto quanto il mondo intero, il quale contiene, non an-cora dome, tutte le forze della natura; tutte le materieprime; tutte le idee, gli strumenti, le macchine, le reli-gioni, i sistemi sociali, le leggi da cui, col tempo, i suoibisogni sapranno forgiare il mondo quale noi lo vedia-mo.

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IL FUOCO E LA PIETRA SCHEGGIATA

Durante la prima metà del XIX secolo, un gruppo diautorevoli eruditi inglesi risolvette il Problemadell’Uomo, collocandolo al suo giusto posto nell’uni-verso. Adamo, il primo uomo e il padre degli uomini,era un contadino, nato il 23 marzo dell’anno 4004 A. C.Metterlo in dubbio era non soltanto eresia, ma ignoranzadei testi latini, greci ed ebraici contenenti la somma del-la sapienza umana non meno che le fonti di ogni scienzaal di là da venire. La cronologia del Vescovo Ussher eradefinitiva, dignitosa e soddisfacente. I confini tra buonsenso e assurdità sono ben deliminati. Essere eruditi èuna cosa; rimanerlo è un’altra, e un poco più difficileimpresa.

Le frequenti scoperte di curiosi arnesi di pietra unita-mente a ossa di elefante nelle antiche terre argillosed’Inghilterra non turbavano punto le serene coscienzeaccademiche. Nel 1690 John Bagford aveva rinvenuto aGray’s Inn Lane presso Londra una piccola ascia, diquelle dette acheuleane;3 e un secolo dopo John Frères

3 Il nome deriva da Saint-Acheul, presso Amiens, in Francia

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IL FUOCO E LA PIETRA SCHEGGIATA

Durante la prima metà del XIX secolo, un gruppo diautorevoli eruditi inglesi risolvette il Problemadell’Uomo, collocandolo al suo giusto posto nell’uni-verso. Adamo, il primo uomo e il padre degli uomini,era un contadino, nato il 23 marzo dell’anno 4004 A. C.Metterlo in dubbio era non soltanto eresia, ma ignoranzadei testi latini, greci ed ebraici contenenti la somma del-la sapienza umana non meno che le fonti di ogni scienzaal di là da venire. La cronologia del Vescovo Ussher eradefinitiva, dignitosa e soddisfacente. I confini tra buonsenso e assurdità sono ben deliminati. Essere eruditi èuna cosa; rimanerlo è un’altra, e un poco più difficileimpresa.

Le frequenti scoperte di curiosi arnesi di pietra unita-mente a ossa di elefante nelle antiche terre argillosed’Inghilterra non turbavano punto le serene coscienzeaccademiche. Nel 1690 John Bagford aveva rinvenuto aGray’s Inn Lane presso Londra una piccola ascia, diquelle dette acheuleane;3 e un secolo dopo John Frères

3 Il nome deriva da Saint-Acheul, presso Amiens, in Francia

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aveva scoperto un’intera collezione di arnesi consimili,insieme alle ossa di quegli elefanti che, sappiamo ora,vissero in Inghilterra qualche centinaio di migliaiad’anni or sono, quando essa non era un’isola ma unagiungla tropicale connessa al continente.

Gli arnesi di pietra vennero giudicati mere imitazionidi arnesi noti, dovute a uomini rozzi e selvatici; si cre-dettero anche nati nientemeno che dalla folgore celeste.Vennero detti «Pietre tonanti»: un nome imponente, ilquale era spiegazione e mistero in uno. Il pubblico, chedell’Elettricità ne sapeva già qualcosa e trovava la fol-gore un fenomeno piuttosto interessante, accettò la spie-gazione. La fantasia popolare attribuì quelle pietre to-nanti a elfi e gnomi, e presto furono assai ricercate per illoro occulto potere; si diceva che proteggessero le casedalla folgore e che aumentassero il latte alle mucche.Quanto agli elefanti, non c’era uomo dotto il quale nonsapesse che Cesare aveva invaso la Britannia, e che daiCartaginesi i Romani avevano appreso a servirsi deglielefanti. Tutto ciò, diamine, si leggeva nei libri. E checos’erano pochi frammenti di pietra, rozzamente sboz-zati, e qualche osso sbiancato, a paragone della scienzatramandata da secoli e stampata nero su bianco? Checos’era un rudimentale arnese a paragone di una frase ingreco, o un osso a confronto di una riga di latino dichiesa?

Ma nel 1836 lo scienziato danese C. F. Thomsen pub-

(N. d. Tr.).

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aveva scoperto un’intera collezione di arnesi consimili,insieme alle ossa di quegli elefanti che, sappiamo ora,vissero in Inghilterra qualche centinaio di migliaiad’anni or sono, quando essa non era un’isola ma unagiungla tropicale connessa al continente.

Gli arnesi di pietra vennero giudicati mere imitazionidi arnesi noti, dovute a uomini rozzi e selvatici; si cre-dettero anche nati nientemeno che dalla folgore celeste.Vennero detti «Pietre tonanti»: un nome imponente, ilquale era spiegazione e mistero in uno. Il pubblico, chedell’Elettricità ne sapeva già qualcosa e trovava la fol-gore un fenomeno piuttosto interessante, accettò la spie-gazione. La fantasia popolare attribuì quelle pietre to-nanti a elfi e gnomi, e presto furono assai ricercate per illoro occulto potere; si diceva che proteggessero le casedalla folgore e che aumentassero il latte alle mucche.Quanto agli elefanti, non c’era uomo dotto il quale nonsapesse che Cesare aveva invaso la Britannia, e che daiCartaginesi i Romani avevano appreso a servirsi deglielefanti. Tutto ciò, diamine, si leggeva nei libri. E checos’erano pochi frammenti di pietra, rozzamente sboz-zati, e qualche osso sbiancato, a paragone della scienzatramandata da secoli e stampata nero su bianco? Checos’era un rudimentale arnese a paragone di una frase ingreco, o un osso a confronto di una riga di latino dichiesa?

Ma nel 1836 lo scienziato danese C. F. Thomsen pub-

(N. d. Tr.).

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blicava il risultato di venti anni di pazienti ricerche fra isassi delle coste della Danimarca e nelle torbiere scandi-nave, e classificava la storia dell’Uomo in tre gruppi, ri-spondenti a tre Età: la Pietra, il Bronzo e il Ferro.

Nella prima metà del secolo nacque nell’uomo la cu-riosità per la crosta terrestre; e piuttosto che ricorrere aiclassici, egli incominciò a investigarla, a scrutarla. Ari-stotele e Platone avevano i loro meriti, ma erano alquan-to vaghi in materia di detriti glaciali e roccie ignee. Ecosì l’antropologia, la geologia e la paleontologia –l’uomo, la roccia e le antiche ossa – uscirono dai classi-ci greci e dal Libro della Genesi per entrare nel regnodella critica e degli studi comparati. Gli eruditi avrebbe-ro avuto il loro filo da torcere. Ma i fatti distruggono leformule.

Per un secolo almeno l’uomo aveva avuto il suo dafare a inventar nuove macchine per l’incremento dellaricchezza, o piuttosto, a modificare quelle antiche peraumentare la produttività. Fra il 1734 (la data della «na-vetta volante» di John Kay) e il memorabile libro diThomsen, pubblicato nel 1836, c’era stato un numerostupefacente di invenzioni, le quali non solo avevano ri-voluzionato l’orizzonte meccanico di tutti i paesi, ma al-terato tutti i rapporti sociali fino allora esistenti. Tantoprofondamente influivano le nuove macchine sulla vitasociale, che sul finir del XVIII secolo i fabbricanti dicotone e di ferro cominciarono a esser considerati allostesso rango dei proprietari terrieri e dei nobili.

Nell’ambito di questo secolo (1734-1834) vediamo

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blicava il risultato di venti anni di pazienti ricerche fra isassi delle coste della Danimarca e nelle torbiere scandi-nave, e classificava la storia dell’Uomo in tre gruppi, ri-spondenti a tre Età: la Pietra, il Bronzo e il Ferro.

Nella prima metà del secolo nacque nell’uomo la cu-riosità per la crosta terrestre; e piuttosto che ricorrere aiclassici, egli incominciò a investigarla, a scrutarla. Ari-stotele e Platone avevano i loro meriti, ma erano alquan-to vaghi in materia di detriti glaciali e roccie ignee. Ecosì l’antropologia, la geologia e la paleontologia –l’uomo, la roccia e le antiche ossa – uscirono dai classi-ci greci e dal Libro della Genesi per entrare nel regnodella critica e degli studi comparati. Gli eruditi avrebbe-ro avuto il loro filo da torcere. Ma i fatti distruggono leformule.

Per un secolo almeno l’uomo aveva avuto il suo dafare a inventar nuove macchine per l’incremento dellaricchezza, o piuttosto, a modificare quelle antiche peraumentare la produttività. Fra il 1734 (la data della «na-vetta volante» di John Kay) e il memorabile libro diThomsen, pubblicato nel 1836, c’era stato un numerostupefacente di invenzioni, le quali non solo avevano ri-voluzionato l’orizzonte meccanico di tutti i paesi, ma al-terato tutti i rapporti sociali fino allora esistenti. Tantoprofondamente influivano le nuove macchine sulla vitasociale, che sul finir del XVIII secolo i fabbricanti dicotone e di ferro cominciarono a esser considerati allostesso rango dei proprietari terrieri e dei nobili.

Nell’ambito di questo secolo (1734-1834) vediamo

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sorgere tutte le invenzioni riguardanti l’industria tessile,e specie il cotone; e la navigazione a vapore, la locomo-tiva, e in conseguenza la ferrovia; oltre agli importantis-simi esperimenti di Faraday, i quali provavano che ma-gnetismo ed elettricità erano una medesima forza. Sievolvevano tutti i sistemi di produzione; era, insomma,la Rivoluzione Industriale.

Nel 1849 Boucher de Perthes pubblicava i risultati deisuoi studi sugli arnesi preistorici di pietra, evidentemen-te fabbricati da mano umana, da lui scoperti tra le ghiaiealluvionali della Somme, presso Abbeville, insieme aossa di animali che si reputavano estinti da tempo primache l’uomo venisse a turbar la pace del nostro pianeta.Ciò che rivelano gli alluvioni di Abbeville contrastavacon tutto quanto stabilivano fino allora libri e formule.Nacquero così, attorno alle lucide scoperte del De Per-thes, agitate controversie; persino il grande naturalistaCuvier respinse con disprezzo le conclusioni a cui esseportavano. Stando a Cuvier, il diluvio universale era sta-to preceduto da un altro, assai più potente, in cui ognitraccia di vita era stata distrutta. La comparsa dell’uomosulla terra era posteriore a questo fenomeno; e se quelleantiche ossa si accompagnavano a traccie di attivitàumana, o le osservazioni di De Perthes non erano esatte,oppure egli era un bugiardo. Una teoria che soddisfi tut-to e tutti non viene mai abbandonata di buon grado, nep-pure dal genio. Ma dopo quindici anni di dispute, gli ar-nesi preistorici di De Perthes venivano accettati, e siscopriva che per quanto antichi fossero, non erano anco-

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sorgere tutte le invenzioni riguardanti l’industria tessile,e specie il cotone; e la navigazione a vapore, la locomo-tiva, e in conseguenza la ferrovia; oltre agli importantis-simi esperimenti di Faraday, i quali provavano che ma-gnetismo ed elettricità erano una medesima forza. Sievolvevano tutti i sistemi di produzione; era, insomma,la Rivoluzione Industriale.

Nel 1849 Boucher de Perthes pubblicava i risultati deisuoi studi sugli arnesi preistorici di pietra, evidentemen-te fabbricati da mano umana, da lui scoperti tra le ghiaiealluvionali della Somme, presso Abbeville, insieme aossa di animali che si reputavano estinti da tempo primache l’uomo venisse a turbar la pace del nostro pianeta.Ciò che rivelano gli alluvioni di Abbeville contrastavacon tutto quanto stabilivano fino allora libri e formule.Nacquero così, attorno alle lucide scoperte del De Per-thes, agitate controversie; persino il grande naturalistaCuvier respinse con disprezzo le conclusioni a cui esseportavano. Stando a Cuvier, il diluvio universale era sta-to preceduto da un altro, assai più potente, in cui ognitraccia di vita era stata distrutta. La comparsa dell’uomosulla terra era posteriore a questo fenomeno; e se quelleantiche ossa si accompagnavano a traccie di attivitàumana, o le osservazioni di De Perthes non erano esatte,oppure egli era un bugiardo. Una teoria che soddisfi tut-to e tutti non viene mai abbandonata di buon grado, nep-pure dal genio. Ma dopo quindici anni di dispute, gli ar-nesi preistorici di De Perthes venivano accettati, e siscopriva che per quanto antichi fossero, non erano anco-

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ra i primi arnesi fabbricati dall’uomo; sebbene rappre-sentassero un notevole progresso dell’ingegnosità uma-na. La piccola ascia acheuleana – un arnese squisita-mente simmetrico e ben costruito – è preceduta da unalunga serie di arnesi assai più rozzi, i quali fanno capo aun concetto di maggiore e stupefacente antichità.

Nel 1867 l’Abate Bourgeois scopriva una serie di ru-dimentali silici, che risalgono allo Stadio superiore oli-gocenico, un periodo terziario tra Focene e Micene, nelquale fino allora non s’erano riscontrate traccie umane;e la controversia ricominciava da capo. Pochi spiriti il-luminati riconoscevano in quelle pietre la manodell’uomo, considerandole invenzioni. La maggioranzale considerava invece accidenti di natura; due ciottoliche s’erano urtati l’uno con l’altro, sia spinti dalla cor-rente d’un fiume, o in seguito a una pressione di naturageologica. Vennero stabiliti raffronti tra quelle preistori-che pietre e altre schiacciate da una ruota o frantumateentro una macina. E la controversia non è ancora finita:ancora c’è chi dubita, sebbene quei pochi frammenti sia-no ormai quasi universalmente considerati come i piùantichi arnesi manuali di cui si abbia traccia: invenzio-ne, se non dell’uomo, di un essere affine o di un omini-de. Fu dato loro il nome di eoliti, o pietre dell’aurora: laprima pietra affilata di invenzione umana.

Poichè l’arnese fabbricato dall’uomo dimostra unprogresso ben definito, dal semplice al composto, dallaestrema rozzezza alla squisita perfezione; poichè in ogniarnese è il derivato di una forma precedente, è logico

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ra i primi arnesi fabbricati dall’uomo; sebbene rappre-sentassero un notevole progresso dell’ingegnosità uma-na. La piccola ascia acheuleana – un arnese squisita-mente simmetrico e ben costruito – è preceduta da unalunga serie di arnesi assai più rozzi, i quali fanno capo aun concetto di maggiore e stupefacente antichità.

Nel 1867 l’Abate Bourgeois scopriva una serie di ru-dimentali silici, che risalgono allo Stadio superiore oli-gocenico, un periodo terziario tra Focene e Micene, nelquale fino allora non s’erano riscontrate traccie umane;e la controversia ricominciava da capo. Pochi spiriti il-luminati riconoscevano in quelle pietre la manodell’uomo, considerandole invenzioni. La maggioranzale considerava invece accidenti di natura; due ciottoliche s’erano urtati l’uno con l’altro, sia spinti dalla cor-rente d’un fiume, o in seguito a una pressione di naturageologica. Vennero stabiliti raffronti tra quelle preistori-che pietre e altre schiacciate da una ruota o frantumateentro una macina. E la controversia non è ancora finita:ancora c’è chi dubita, sebbene quei pochi frammenti sia-no ormai quasi universalmente considerati come i piùantichi arnesi manuali di cui si abbia traccia: invenzio-ne, se non dell’uomo, di un essere affine o di un omini-de. Fu dato loro il nome di eoliti, o pietre dell’aurora: laprima pietra affilata di invenzione umana.

Poichè l’arnese fabbricato dall’uomo dimostra unprogresso ben definito, dal semplice al composto, dallaestrema rozzezza alla squisita perfezione; poichè in ogniarnese è il derivato di una forma precedente, è logico

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che debba esservi stata un’epoca, definita come l’êracristiana o la scoperta dell’America, ma che sfugge aogni nostro accertamento, in cui l’uomo era un animaleprivo di arnesi come era privo di coda. Nessun bambino,neppure in questa nostra epoca della macchina, nascecon un arnese in mano, o con la minima cognizione diservirsi sia pur d’un solo arnese. Così fu per la razza;essa non sorse provvista d’arnesi, nè con la capacità dimaneggiarli. L’uomo dovette dapprima compiere le ne-cessarie funzioni elementari senza arnesi, e poichè que-ste funzioni diventavano più e più specifiche, egli fu co-stretto a inventare prima l’idea dell’arnese, e poi ogniarnese a sè. In altre parole, prima ch’egli lo concepisse oinventasse, doveva esattamente sapere come se ne sa-rebbe servito. Inventare un oggetto di cui non avrebbesaputo che farsi sarebbe stato contrario a ogni più lonta-na logica.

Ai nostri tempi abbiamo visto le scimmie far occasio-nalmente uso di pietre o di pezzi di legno. Ma non c’èscimmia, nè recente nè preistorica, paragonabileall’uomo, per la capacità cranica, per intelligenza o perla complicata struttura delle mani. Abbiamo dunque ra-gione di supporre che il primo uomo il quale scese da unalbero o uscì dal regno del mito possedesse almeno tan-ta manualità quanto una scimmia. Quando poi ambientee necessità costrinsero un ominide, la creatura simileall’uomo, a rizzarsi più o meno permanentemente sullegambe posteriori, così dando alle anteriori la possibilitàdi diventar braccia, e alle piote anteriori agio di evolver-

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che debba esservi stata un’epoca, definita come l’êracristiana o la scoperta dell’America, ma che sfugge aogni nostro accertamento, in cui l’uomo era un animaleprivo di arnesi come era privo di coda. Nessun bambino,neppure in questa nostra epoca della macchina, nascecon un arnese in mano, o con la minima cognizione diservirsi sia pur d’un solo arnese. Così fu per la razza;essa non sorse provvista d’arnesi, nè con la capacità dimaneggiarli. L’uomo dovette dapprima compiere le ne-cessarie funzioni elementari senza arnesi, e poichè que-ste funzioni diventavano più e più specifiche, egli fu co-stretto a inventare prima l’idea dell’arnese, e poi ogniarnese a sè. In altre parole, prima ch’egli lo concepisse oinventasse, doveva esattamente sapere come se ne sa-rebbe servito. Inventare un oggetto di cui non avrebbesaputo che farsi sarebbe stato contrario a ogni più lonta-na logica.

Ai nostri tempi abbiamo visto le scimmie far occasio-nalmente uso di pietre o di pezzi di legno. Ma non c’èscimmia, nè recente nè preistorica, paragonabileall’uomo, per la capacità cranica, per intelligenza o perla complicata struttura delle mani. Abbiamo dunque ra-gione di supporre che il primo uomo il quale scese da unalbero o uscì dal regno del mito possedesse almeno tan-ta manualità quanto una scimmia. Quando poi ambientee necessità costrinsero un ominide, la creatura simileall’uomo, a rizzarsi più o meno permanentemente sullegambe posteriori, così dando alle anteriori la possibilitàdi diventar braccia, e alle piote anteriori agio di evolver-

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si in mani, non c’è dubbio che questo essere ne sapessegià qualcosa di pietre e legno, e di queste cognizioni siservisse per i suoi bisogni.

Col tempo, l’uomo incuriosito venne indotto a studiarla natura delle pietre. Erano diverse da ogni altra sostan-za: più pesanti e dure, più forti e aguzze. Egli cominciòa notare le differenze più che le analogie. Se attraver-sando un ruscello, o lungo il fianco d’un collina, o sullido del mare osserverete i ciottoli, non vi sfuggirà lavarietà di forme e di sostanze. Alcuni sono lisci, di for-ma romboidale; altri tendono a sagome più o menogrossolane. Possiamo esser quasi certi che anche ai no-stri lontani avi, tutto ciò non sia sfuggito. Non c’è esse-re, per quanto primitivo, che non studi costantementel’ambiente e le opportunità che esso gli offre. Esaminan-do le culture primitive, noi restiamo stupiti dalla quanti-tà e varietà d’oggetti d’uso che furono trovati in am-bienti relativamente ristretti. La natura è stata sempre unlaboratorio sperimentale per la razza.

Una prova di questa perspicacia investigativadell’uomo primitivo è la sua giudiziosa selezione dellamateria prima litica. Appare, in tutti questi arnesi outensili di pietra, come l’uomo abbia sempre scelto ilmateriale più adatto allo scopo. A volte, la sua scelta èresa limitata dall’ambiente; ma non avviene mai a caso.Sempre egli impiega il meglio che può trovare, e anchenelle epoche susseguenti egli intraprenderà scavi, avvie-rà imprese commerciali allo scopo di procurarsi i mine-rali adatti. Per tutta la terra, la scelta dell’uomo cade su

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si in mani, non c’è dubbio che questo essere ne sapessegià qualcosa di pietre e legno, e di queste cognizioni siservisse per i suoi bisogni.

Col tempo, l’uomo incuriosito venne indotto a studiarla natura delle pietre. Erano diverse da ogni altra sostan-za: più pesanti e dure, più forti e aguzze. Egli cominciòa notare le differenze più che le analogie. Se attraver-sando un ruscello, o lungo il fianco d’un collina, o sullido del mare osserverete i ciottoli, non vi sfuggirà lavarietà di forme e di sostanze. Alcuni sono lisci, di for-ma romboidale; altri tendono a sagome più o menogrossolane. Possiamo esser quasi certi che anche ai no-stri lontani avi, tutto ciò non sia sfuggito. Non c’è esse-re, per quanto primitivo, che non studi costantementel’ambiente e le opportunità che esso gli offre. Esaminan-do le culture primitive, noi restiamo stupiti dalla quanti-tà e varietà d’oggetti d’uso che furono trovati in am-bienti relativamente ristretti. La natura è stata sempre unlaboratorio sperimentale per la razza.

Una prova di questa perspicacia investigativadell’uomo primitivo è la sua giudiziosa selezione dellamateria prima litica. Appare, in tutti questi arnesi outensili di pietra, come l’uomo abbia sempre scelto ilmateriale più adatto allo scopo. A volte, la sua scelta èresa limitata dall’ambiente; ma non avviene mai a caso.Sempre egli impiega il meglio che può trovare, e anchenelle epoche susseguenti egli intraprenderà scavi, avvie-rà imprese commerciali allo scopo di procurarsi i mine-rali adatti. Per tutta la terra, la scelta dell’uomo cade su

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ossidiani, giaditi, dioriti di diaspro, quarzo, pietre calca-ree di grana compatta; e quando è possibile, sul suo vec-chio amico: il silice. Ugualmente oculata è la scelta dipietre da macina; in queste egli ricerca il peso e la du-rezza piuttosto che la tendenza a fendersi per otteneresagome sottili quanto lame. L’uomo primitivo non erageologo, ma conosceva le pietre per esperienza.

È ragionevole supporre che l’uomo abbia scopertopietre naturalmente taglienti prima di aver fabbricato oinventato una sagoma tagliente infrangendo e spezzandola pietra. Egli era cacciatore; si nutriva di quegli animaliche riusciva a cacciare entro la possibilità delle proprieforze fisiche. Ma non dobbiamo considerarlo come uncacciatore solitario. Il quadro della cosidetta famigliadelle caverne, maschio femmina e rampollo adolescente,è stato creato dagli idealisti del XVIII secolo, i qualipoco o nulla sapevano dell’uomo primitivo, vivo o mor-to, e crearono il mito del nobile selvaggio che viveva inuna specie di età dell’oro dell’innocenza. Fortunatamen-te, nessun essere simile ha mai calcato la terra. L’uomonon è una rapa; e la società umana, sia pure nella formapiù bassa in cui la conosciamo, è già un ordinamento re-lativamente complesso. Gli indigeni australiani abitatoridei boschi non sanno nulla di metalli, di animali dome-stici, non coltivano vegetali e non costruiscono abitazio-ni, eppure hanno inventato complicate organizzazionisociali e religiose e i loro rapporti coniugali sono fra ipiù astrusi. E così i Tasmani, che andarono distrutti allafine del XIX secolo e la cui cultura tecnica era assai più

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ossidiani, giaditi, dioriti di diaspro, quarzo, pietre calca-ree di grana compatta; e quando è possibile, sul suo vec-chio amico: il silice. Ugualmente oculata è la scelta dipietre da macina; in queste egli ricerca il peso e la du-rezza piuttosto che la tendenza a fendersi per otteneresagome sottili quanto lame. L’uomo primitivo non erageologo, ma conosceva le pietre per esperienza.

È ragionevole supporre che l’uomo abbia scopertopietre naturalmente taglienti prima di aver fabbricato oinventato una sagoma tagliente infrangendo e spezzandola pietra. Egli era cacciatore; si nutriva di quegli animaliche riusciva a cacciare entro la possibilità delle proprieforze fisiche. Ma non dobbiamo considerarlo come uncacciatore solitario. Il quadro della cosidetta famigliadelle caverne, maschio femmina e rampollo adolescente,è stato creato dagli idealisti del XVIII secolo, i qualipoco o nulla sapevano dell’uomo primitivo, vivo o mor-to, e crearono il mito del nobile selvaggio che viveva inuna specie di età dell’oro dell’innocenza. Fortunatamen-te, nessun essere simile ha mai calcato la terra. L’uomonon è una rapa; e la società umana, sia pure nella formapiù bassa in cui la conosciamo, è già un ordinamento re-lativamente complesso. Gli indigeni australiani abitatoridei boschi non sanno nulla di metalli, di animali dome-stici, non coltivano vegetali e non costruiscono abitazio-ni, eppure hanno inventato complicate organizzazionisociali e religiose e i loro rapporti coniugali sono fra ipiù astrusi. E così i Tasmani, che andarono distrutti allafine del XIX secolo e la cui cultura tecnica era assai più

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bassa di quella dei selvaggi australiani. Le prime testi-monianze dei nostri più lontani predecessori ci presenta-no non individui singoli, e nemmeno unioni sessuali, magruppi socialmente organizzati.

Rientra dunque nel novero delle Probabilità che già inepoche remote bande di cacciatori, unite per una qual-che forma di organizzazione sociale, abbatterono e ucci-sero animali di proporzioni considerevoli, e che la divi-sione della preda presentasse, oltre a problemi economi-ci e sociali, anche difficoltà materiali. L’animale, insom-ma, doveva essere squartato e fatto a pezzi, onde venirespartito in modo soddisfacente per tutto il gruppo. A talescopo saranno state trovate adatte pietre, naturalmentetaglienti, che l’uomo raccoglieva secondo il bisogno,per poi liberarsene dopo che avevano servito allo scopo.Ogni tanto egli ne avrà serbata qualcuna che aveva unasagoma migliore delle altre. Ciò rientra nel campo delleScoperte: l’osservazione gli aveva insegnato che pietretaglienti spartivano la carne e, all’occorrenza, anche illegno.

E poi, sarà venuta quella volta – la prima – in cui unuomo concepì l’idea di imitare o perfezionare la Natura,sia riproducendo la lama, sia perfezionandone una tro-vata in natura. E questa era Invenzione. Non soltanto unarnese e la teoria della sagoma tagliente egli aveva sco-perto, ma inventato un procedimento di manifattura checol tempo gli avrebbe procurato molti arnesi. Ormai,egli non doveva più affidarsi al caso soltanto.

Tra i vaghi labirinti delle intricate vie del passato sta

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bassa di quella dei selvaggi australiani. Le prime testi-monianze dei nostri più lontani predecessori ci presenta-no non individui singoli, e nemmeno unioni sessuali, magruppi socialmente organizzati.

Rientra dunque nel novero delle Probabilità che già inepoche remote bande di cacciatori, unite per una qual-che forma di organizzazione sociale, abbatterono e ucci-sero animali di proporzioni considerevoli, e che la divi-sione della preda presentasse, oltre a problemi economi-ci e sociali, anche difficoltà materiali. L’animale, insom-ma, doveva essere squartato e fatto a pezzi, onde venirespartito in modo soddisfacente per tutto il gruppo. A talescopo saranno state trovate adatte pietre, naturalmentetaglienti, che l’uomo raccoglieva secondo il bisogno,per poi liberarsene dopo che avevano servito allo scopo.Ogni tanto egli ne avrà serbata qualcuna che aveva unasagoma migliore delle altre. Ciò rientra nel campo delleScoperte: l’osservazione gli aveva insegnato che pietretaglienti spartivano la carne e, all’occorrenza, anche illegno.

E poi, sarà venuta quella volta – la prima – in cui unuomo concepì l’idea di imitare o perfezionare la Natura,sia riproducendo la lama, sia perfezionandone una tro-vata in natura. E questa era Invenzione. Non soltanto unarnese e la teoria della sagoma tagliente egli aveva sco-perto, ma inventato un procedimento di manifattura checol tempo gli avrebbe procurato molti arnesi. Ormai,egli non doveva più affidarsi al caso soltanto.

Tra i vaghi labirinti delle intricate vie del passato sta

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Page 42: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

l’Uomo, in una mano (rudimentale piota ben lontana an-cora dalla mano umana) un ciottolo di silice raccolto nelletto del torrente, nell’altra una pietra atta a servir dimartello; un’idea, composta di varie idee, si va introdu-cendo nel suo cervello, e con essa egli tenta di dirigere ilritmo e la direzione dei suoi colpi. Il primitivo martelloscende a colpire una porzione di silice, e un’altra anco-ra; e con un principio di pollice (ancora non è sviluppataquella branca di morsa con la quale l’uomo potrà «farpresa» e reggere arnesi più complicati) strofina la sago-ma tagliente che si va formando. Del risultato egli non èscontento: bene o male, è una lama; e basterà ai suoi bi-sogni. È sua, parte del suo corpo quanto i suoi occhi, ilsuo cervello e le sue mani.

Ogni teoria meccanica nasce dall’osservazione deifatti e della natura, della pratica e dell’esperimento. Per-ciò il nostro uomo non afferra il pieno significato teori-co del suo atto. Il suo arnese è soddisfacente per i suoilimitati bisogni, e questo è quanto egli vuole. Per lui, èun prodotto rifinito e definitivo; per noi, il rudimentaleprincipio di tutti gli arnesi.

Una pietra affilata, una lancia di legno sbozzata incima da questa pietra e poche ossa appuntite sono quan-to il tempo abbia serbato, di prove palpabili dell’inventi-vità dell’uomo primitivo. Tra le sue invenzioni invisibilipossiamo ragionevolmente includere qualche nozione dicaccia in gruppi aggregati, (una forma un poco più pri-mitiva del branco dei lupi) e forse qualche tentativo ditrappola: una buca scavata e nascosta lungo la traccia

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l’Uomo, in una mano (rudimentale piota ben lontana an-cora dalla mano umana) un ciottolo di silice raccolto nelletto del torrente, nell’altra una pietra atta a servir dimartello; un’idea, composta di varie idee, si va introdu-cendo nel suo cervello, e con essa egli tenta di dirigere ilritmo e la direzione dei suoi colpi. Il primitivo martelloscende a colpire una porzione di silice, e un’altra anco-ra; e con un principio di pollice (ancora non è sviluppataquella branca di morsa con la quale l’uomo potrà «farpresa» e reggere arnesi più complicati) strofina la sago-ma tagliente che si va formando. Del risultato egli non èscontento: bene o male, è una lama; e basterà ai suoi bi-sogni. È sua, parte del suo corpo quanto i suoi occhi, ilsuo cervello e le sue mani.

Ogni teoria meccanica nasce dall’osservazione deifatti e della natura, della pratica e dell’esperimento. Per-ciò il nostro uomo non afferra il pieno significato teori-co del suo atto. Il suo arnese è soddisfacente per i suoilimitati bisogni, e questo è quanto egli vuole. Per lui, èun prodotto rifinito e definitivo; per noi, il rudimentaleprincipio di tutti gli arnesi.

Una pietra affilata, una lancia di legno sbozzata incima da questa pietra e poche ossa appuntite sono quan-to il tempo abbia serbato, di prove palpabili dell’inventi-vità dell’uomo primitivo. Tra le sue invenzioni invisibilipossiamo ragionevolmente includere qualche nozione dicaccia in gruppi aggregati, (una forma un poco più pri-mitiva del branco dei lupi) e forse qualche tentativo ditrappola: una buca scavata e nascosta lungo la traccia

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della selvaggina. Ma queste invenzioni non bastano peruna soddisfacente spiegazione dei macelli della selvag-gina grossa che serviva a nutrire l’uomo. Ci sono proveincontestabili che l’uomo primitivo cacciò con successola tigre, il grande elefante antico, il rinoceronte e moltealtre robuste e feroci belve; e con armi che senza altrosussidio sembrano assolutamente inadatte allo scopo. Laspiegazione di questi fatti è da ricercarsi nelle invenzio-ni invisibili.

Prima di vincere le belve, l’uomo dovette vincere edomare la più feroce di esse: la Paura. E che cos’eral’impersonificazione visibile e intangibile della Paura,se non il Fuoco? Era, e ancora è, la più misteriosa di tut-te le forze. I suoi appetiti abbracciano tutte le cose vive:bestie, piante, l’uomo stesso; tutto, fuorchè la pietra el’acqua; e non conosce barriere nè timori. Presto l’uomoconobbe e paventò il fuoco in tutte le sue forme: la fol-gore che lampeggiava nel cupo seno delle nubi e schian-tava gli alberi più grossi; il fuoco che rumoreggiava nelcuor delle montagne e ne usciva in pennacchi di fumo eincandescenti torrenti micidiali; la fiamma che divoravaintere foreste e sconfinate praterie, e col suo greve fiatodi fumo soffocava l’uomo prima ancora di cacciarlocontro il fianco delle colline e di ridurne le carni in ce-nere. Queste cose l’uomo temeva, e più di ogni belva fe-roce; temeva lo spettacolo, l’afflato e la voce tonante delFuoco.

Era un terrore ch’egli condivideva con tutti gli altrianimali. Ma in una cosa si differenziava da questi: col

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della selvaggina. Ma queste invenzioni non bastano peruna soddisfacente spiegazione dei macelli della selvag-gina grossa che serviva a nutrire l’uomo. Ci sono proveincontestabili che l’uomo primitivo cacciò con successola tigre, il grande elefante antico, il rinoceronte e moltealtre robuste e feroci belve; e con armi che senza altrosussidio sembrano assolutamente inadatte allo scopo. Laspiegazione di questi fatti è da ricercarsi nelle invenzio-ni invisibili.

Prima di vincere le belve, l’uomo dovette vincere edomare la più feroce di esse: la Paura. E che cos’eral’impersonificazione visibile e intangibile della Paura,se non il Fuoco? Era, e ancora è, la più misteriosa di tut-te le forze. I suoi appetiti abbracciano tutte le cose vive:bestie, piante, l’uomo stesso; tutto, fuorchè la pietra el’acqua; e non conosce barriere nè timori. Presto l’uomoconobbe e paventò il fuoco in tutte le sue forme: la fol-gore che lampeggiava nel cupo seno delle nubi e schian-tava gli alberi più grossi; il fuoco che rumoreggiava nelcuor delle montagne e ne usciva in pennacchi di fumo eincandescenti torrenti micidiali; la fiamma che divoravaintere foreste e sconfinate praterie, e col suo greve fiatodi fumo soffocava l’uomo prima ancora di cacciarlocontro il fianco delle colline e di ridurne le carni in ce-nere. Queste cose l’uomo temeva, e più di ogni belva fe-roce; temeva lo spettacolo, l’afflato e la voce tonante delFuoco.

Era un terrore ch’egli condivideva con tutti gli altrianimali. Ma in una cosa si differenziava da questi: col

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tempo, alla paura si aggiunse in lui la curiosità, sino ache questa dominò la paura, e sorse in lui l’idea di stu-diare quel mostro a fine di poterlo domare. Che il fuocofosse una belva, egli non ne dubitava, poichè non avreb-be potuto concepire una forza che non fosse provvista divita e quindi di personalità. Egli ignorava che cosa fosseil Fuoco, così come noi ignoriamo tuttora che cosa sial’elettricità. Eppure, centinaia di secoli prima che so-gnasse di domare le belve, l’uomo stabilì di domare ilfuoco, la belva più feroce di cui avesse conoscenza. Èquesto il coraggio che forma la razza.

Il gran mistero stava nella voracità del fuoco. L’uomone venne a capo attraverso processi che oggi noi chia-miamo pensiero, esperienza, memoria, coordinazione dipassate osservazioni e di presenti esperimenti. Se divo-rava press’a poco tutto, il Fuoco aveva una particolareaffinità per certe cose che all’uomo parevano meno es-senziali, come erba, legna minuta, foglie secche; e que-sto parlava in suo favore. Ma il mistero non era ancoratutto lì. La gran forza del fuoco stava nel fatto che piùmangiava, più la sua fame cresceva; ma ciò era anche lasua debolezza. Un fuoco poco nutrito non era veramentepericoloso. Lo si poteva uccidere pestandolo con i piedi;o soffocare con qualche pugno di terra; o annegarenell’acqua. Ma più era ben nutrito, più i suoi appetiticrescevano, sino a che pareva che il mondo intero nonbastasse a soddisfarlo.

Quando l’uomo s’era ben riempito di carne, non ave-va voglia di muoversi e di cacciare, sino a che il suo tor-

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tempo, alla paura si aggiunse in lui la curiosità, sino ache questa dominò la paura, e sorse in lui l’idea di stu-diare quel mostro a fine di poterlo domare. Che il fuocofosse una belva, egli non ne dubitava, poichè non avreb-be potuto concepire una forza che non fosse provvista divita e quindi di personalità. Egli ignorava che cosa fosseil Fuoco, così come noi ignoriamo tuttora che cosa sial’elettricità. Eppure, centinaia di secoli prima che so-gnasse di domare le belve, l’uomo stabilì di domare ilfuoco, la belva più feroce di cui avesse conoscenza. Èquesto il coraggio che forma la razza.

Il gran mistero stava nella voracità del fuoco. L’uomone venne a capo attraverso processi che oggi noi chia-miamo pensiero, esperienza, memoria, coordinazione dipassate osservazioni e di presenti esperimenti. Se divo-rava press’a poco tutto, il Fuoco aveva una particolareaffinità per certe cose che all’uomo parevano meno es-senziali, come erba, legna minuta, foglie secche; e que-sto parlava in suo favore. Ma il mistero non era ancoratutto lì. La gran forza del fuoco stava nel fatto che piùmangiava, più la sua fame cresceva; ma ciò era anche lasua debolezza. Un fuoco poco nutrito non era veramentepericoloso. Lo si poteva uccidere pestandolo con i piedi;o soffocare con qualche pugno di terra; o annegarenell’acqua. Ma più era ben nutrito, più i suoi appetiticrescevano, sino a che pareva che il mondo intero nonbastasse a soddisfarlo.

Quando l’uomo s’era ben riempito di carne, non ave-va voglia di muoversi e di cacciare, sino a che il suo tor-

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pore non fosse svanito. Persino la più feroce tigre era re-lativamente innocua, se ben pasciuta. Uomo e tigre era-no più temibili quando si trovavano digiuni da lungotempo. Il fuoco ben nutrito, invece, era spaventoso. Unfuoco a razione era tanto mansueto, che lo si poteva do-mare. Il segreto, dunque, stava tutto in un’oculata ali-mentazione del fuoco!

Come può aver ragionato altrimenti l’uomo privo difuoco? Come, mancando di cognizioni acquisite solo at-traverso osservazioni ed esperienza, nel suo raziocinioprivo di parola e di frasi coordinate, può esser giuntoalla conquista del fuoco? Egli conquistò il fuoco colpensiero; e lo signoreggiò dapprima nella sua mente.

Non fu soltanto la conquista di uno schiavo che loavrebbe servito in molti bisogni. Fu il primo grandetrionfo sulle paure che avevano intorbidito il suo spiritoe rappreso la sua feconda ingegnosità. Di giorno egli eraun cacciatore; e valente, come ci testimoniano le ossa ri-maste dai suoi festini. Ma di notte, il cacciatore diventa-va a sua volta la preda. L’oscurità era piena di errantifiere avide di carne, silenziose, provviste di occhio acu-to; fiere che non era in potere dell’uomo evitare e chealla sua mente ancora buia offrivano tutti i terrori, tuttele apprensioni. Oggi ancora l’abitatore della giungladorme con un occhio solo. Anche il bambino temel’oscurità. Ma tutto il sistema di vita dell’uomo primiti-vo poneva continue e incalzanti esigenze al suo intellet-to. Egli non poteva trascorrere le sue notti a rabbrividirein abbietto terrore, ed esser poi valido e forte di giorno;

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pore non fosse svanito. Persino la più feroce tigre era re-lativamente innocua, se ben pasciuta. Uomo e tigre era-no più temibili quando si trovavano digiuni da lungotempo. Il fuoco ben nutrito, invece, era spaventoso. Unfuoco a razione era tanto mansueto, che lo si poteva do-mare. Il segreto, dunque, stava tutto in un’oculata ali-mentazione del fuoco!

Come può aver ragionato altrimenti l’uomo privo difuoco? Come, mancando di cognizioni acquisite solo at-traverso osservazioni ed esperienza, nel suo raziocinioprivo di parola e di frasi coordinate, può esser giuntoalla conquista del fuoco? Egli conquistò il fuoco colpensiero; e lo signoreggiò dapprima nella sua mente.

Non fu soltanto la conquista di uno schiavo che loavrebbe servito in molti bisogni. Fu il primo grandetrionfo sulle paure che avevano intorbidito il suo spiritoe rappreso la sua feconda ingegnosità. Di giorno egli eraun cacciatore; e valente, come ci testimoniano le ossa ri-maste dai suoi festini. Ma di notte, il cacciatore diventa-va a sua volta la preda. L’oscurità era piena di errantifiere avide di carne, silenziose, provviste di occhio acu-to; fiere che non era in potere dell’uomo evitare e chealla sua mente ancora buia offrivano tutti i terrori, tuttele apprensioni. Oggi ancora l’abitatore della giungladorme con un occhio solo. Anche il bambino temel’oscurità. Ma tutto il sistema di vita dell’uomo primiti-vo poneva continue e incalzanti esigenze al suo intellet-to. Egli non poteva trascorrere le sue notti a rabbrividirein abbietto terrore, ed esser poi valido e forte di giorno;

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gli occorreva qualcosa che non sapeva definire nè chia-mar per nome; aveva bisogno di liberarsi dalla paura,per poter pensare a creare. Il fuoco non rappresentavaunicamente un elemento di calore. Il clima in cui egliviveva allora non era freddo; e del resto, l’uomo primiti-vo era ben temprato al freddo. Per lui, il fuoco significa-va sicurezza; era un rifugio, una serra entro cui dai semidel suo intelletto potevano nascere pensieri fecondi, chea loro volta avrebbero generato l’azione. La mentedell’uomo non sopporta il pensiero e la paura al tempostesso. Per l’uomo, nella sua solitudine, il fuoco diventòun amico verso il quale al cader delle ombre notturneegli andava fiducioso; presso di lui solo, in tutto l’uni-verso, erano la pace e la sicurezza, quasi che tra l’uomoe i pericoli della notte sorgesse una barriera vivente e vi-gile e insonne. La gran cupola di luce sopra il suo capofu il primo tabernacolo dell’uomo, la prima oasi ove ilpensiero si sollevava dalla carne e lo spirito liberato tro-vava la via alle stelle – quei piccoli fuochi che sospesinell’aria guidavano il cacciatore al suo rifugio. E non fameraviglia che in breve tempo giungesse ad attribuire alFuoco un’origine sacra.

Il fuoco doveva recar con sè tutto un nuovo ordine diresponsabilità e di limitazioni sociali. Già abbiamo ac-cennato come l’uomo possedesse una certa forma di go-verno quanto gli bastava per vivere e cacciare e difen-dersi in gruppo, e non come singolo individuo. Indivi-duo e gruppo erano un ente solo, nel pericolo. Ma c’eradi più. Il fuoco esigeva una cura costante, ed era, questa,

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gli occorreva qualcosa che non sapeva definire nè chia-mar per nome; aveva bisogno di liberarsi dalla paura,per poter pensare a creare. Il fuoco non rappresentavaunicamente un elemento di calore. Il clima in cui egliviveva allora non era freddo; e del resto, l’uomo primiti-vo era ben temprato al freddo. Per lui, il fuoco significa-va sicurezza; era un rifugio, una serra entro cui dai semidel suo intelletto potevano nascere pensieri fecondi, chea loro volta avrebbero generato l’azione. La mentedell’uomo non sopporta il pensiero e la paura al tempostesso. Per l’uomo, nella sua solitudine, il fuoco diventòun amico verso il quale al cader delle ombre notturneegli andava fiducioso; presso di lui solo, in tutto l’uni-verso, erano la pace e la sicurezza, quasi che tra l’uomoe i pericoli della notte sorgesse una barriera vivente e vi-gile e insonne. La gran cupola di luce sopra il suo capofu il primo tabernacolo dell’uomo, la prima oasi ove ilpensiero si sollevava dalla carne e lo spirito liberato tro-vava la via alle stelle – quei piccoli fuochi che sospesinell’aria guidavano il cacciatore al suo rifugio. E non fameraviglia che in breve tempo giungesse ad attribuire alFuoco un’origine sacra.

Il fuoco doveva recar con sè tutto un nuovo ordine diresponsabilità e di limitazioni sociali. Già abbiamo ac-cennato come l’uomo possedesse una certa forma di go-verno quanto gli bastava per vivere e cacciare e difen-dersi in gruppo, e non come singolo individuo. Indivi-duo e gruppo erano un ente solo, nel pericolo. Ma c’eradi più. Il fuoco esigeva una cura costante, ed era, questa,

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una grande responsabilità, che poteva essere affidata aipiù valenti ed esperti soltanto. Nasceva, in tutto il mon-do primitivo, una complicata tecnica di custodia e di ali-mentazione del fuoco. Qui come in altre cose, l’uomo sirivelò uno studioso sapiente e prudente; e seppe trovarenella sua immediata cerchia il materiale più adatto. Ilfuoco doveva esser nutrito costantemente, ma ancheprudentemente; bisognava scegliere, preparare e usarecon discernimento il suo cibo. Bisognava non lasciarlocrescere troppo, nè indebolirsi. Era questo un compitoper gli specializzati; e qui abbiamo la prima pallida ideadello stregone, dell’esorcizzatore e del sacerdote. In unsecondo tempo, in seno all’aggregato sociale il Fuoco eil Custode del Fuoco debbono essersi identificati nellastessa persona. Tanta preziosa scienza non poteva certoandar esposta ai pericoli della caccia. Bisognava dunqueproteggere chi ne era il detentore, esimerlo dalla caccia,e proteggerlo e nutrirlo. E il servo del Fuoco divenne ilGuardiano delle Genti. La carne che il Custode del Fuo-co mangiava fu la prima forma di tassa; ed egli fu il pri-mo pubblico funzionario. Così le funzioni sociali si de-terminavano prima ancora che l’ominide diventasseuomo.

I cacciatori che a sera si riscaldavano attorno a ungran braciere debbono aver riflettuto a lungo sulla natu-ra di quel demone che s’erano asservito. Il fuoco aveva identi più aguzzi in tutta la giungla; ancor più aguzzi del-le aguzze lancie di legno. Il fuoco divorava il legno; edargliene una punta da rosicchiare appena valeva forse

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una grande responsabilità, che poteva essere affidata aipiù valenti ed esperti soltanto. Nasceva, in tutto il mon-do primitivo, una complicata tecnica di custodia e di ali-mentazione del fuoco. Qui come in altre cose, l’uomo sirivelò uno studioso sapiente e prudente; e seppe trovarenella sua immediata cerchia il materiale più adatto. Ilfuoco doveva esser nutrito costantemente, ma ancheprudentemente; bisognava scegliere, preparare e usarecon discernimento il suo cibo. Bisognava non lasciarlocrescere troppo, nè indebolirsi. Era questo un compitoper gli specializzati; e qui abbiamo la prima pallida ideadello stregone, dell’esorcizzatore e del sacerdote. In unsecondo tempo, in seno all’aggregato sociale il Fuoco eil Custode del Fuoco debbono essersi identificati nellastessa persona. Tanta preziosa scienza non poteva certoandar esposta ai pericoli della caccia. Bisognava dunqueproteggere chi ne era il detentore, esimerlo dalla caccia,e proteggerlo e nutrirlo. E il servo del Fuoco divenne ilGuardiano delle Genti. La carne che il Custode del Fuo-co mangiava fu la prima forma di tassa; ed egli fu il pri-mo pubblico funzionario. Così le funzioni sociali si de-terminavano prima ancora che l’ominide diventasseuomo.

I cacciatori che a sera si riscaldavano attorno a ungran braciere debbono aver riflettuto a lungo sulla natu-ra di quel demone che s’erano asservito. Il fuoco aveva identi più aguzzi in tutta la giungla; ancor più aguzzi del-le aguzze lancie di legno. Il fuoco divorava il legno; edargliene una punta da rosicchiare appena valeva forse

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renderselo amico. Quando l’uomo ebbe scoperto che ilfuoco gustava il legno, e che la lancia rosicchiata offrivauna punta più aguzza e più dura, nacque l’idea di un usoindustriale del fuoco. Alla belva domata l’uomo avràfatto qualche piccolo dono di carne e di grasso, che ilfuoco sembrava gradire enormemente, ricambiandolo insegno di soddisfazione con nubi che emanavano un acrema grato odore. Anche il gusto della carne che era statalambita appena dal fuoco era oltremodo saporito.L’uomo imparò a esporre al fuoco un pezzo di carne in-filzato sulla punta d’una lancia; e abbiamo così gli albo-ri dell’arte cucinaria.

Una volta che l’uomo ebbe riconosciuto i vantaggidel fuoco, esso divenne per lui un elemento di prima ne-cessità, e la vita senza di esso gli sembrò inconcepibile.Ma per vivere col fuoco, il gruppo dovette imparare irudimenti delle buone maniere. Il fuoco, anzitutto, non«apparteneva» a nessuno; era proprietà del gruppo, cosìcome a ognuno che ne faceva parte toccava un pezzodella preda cacciata, poco importando di chi fosse lalancia che l’aveva colpita.

Tra i dati di fatto che ci sono pervenuti su questa vagacreatura affine all’uomo è la chiara evidenza ch’egli siastato un fortunato ed esperto cacciatore delle più grandibelve che mai siano state preda dell’uomo. Per procurar-si il cibo, i nostri lontani antenati cacciavano l’elefante,il rinoceronte, l’ippopotamo e la tigre; e le ossa trovatene fanno fede. Le prove di queste caccie sono irrefutabi-li, ed è ovvio che esse richiedano una spiegazione la

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renderselo amico. Quando l’uomo ebbe scoperto che ilfuoco gustava il legno, e che la lancia rosicchiata offrivauna punta più aguzza e più dura, nacque l’idea di un usoindustriale del fuoco. Alla belva domata l’uomo avràfatto qualche piccolo dono di carne e di grasso, che ilfuoco sembrava gradire enormemente, ricambiandolo insegno di soddisfazione con nubi che emanavano un acrema grato odore. Anche il gusto della carne che era statalambita appena dal fuoco era oltremodo saporito.L’uomo imparò a esporre al fuoco un pezzo di carne in-filzato sulla punta d’una lancia; e abbiamo così gli albo-ri dell’arte cucinaria.

Una volta che l’uomo ebbe riconosciuto i vantaggidel fuoco, esso divenne per lui un elemento di prima ne-cessità, e la vita senza di esso gli sembrò inconcepibile.Ma per vivere col fuoco, il gruppo dovette imparare irudimenti delle buone maniere. Il fuoco, anzitutto, non«apparteneva» a nessuno; era proprietà del gruppo, cosìcome a ognuno che ne faceva parte toccava un pezzodella preda cacciata, poco importando di chi fosse lalancia che l’aveva colpita.

Tra i dati di fatto che ci sono pervenuti su questa vagacreatura affine all’uomo è la chiara evidenza ch’egli siastato un fortunato ed esperto cacciatore delle più grandibelve che mai siano state preda dell’uomo. Per procurar-si il cibo, i nostri lontani antenati cacciavano l’elefante,il rinoceronte, l’ippopotamo e la tigre; e le ossa trovatene fanno fede. Le prove di queste caccie sono irrefutabi-li, ed è ovvio che esse richiedano una spiegazione la

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quale vada un po’ più lungi che non la scoperta di qual-che silice tagliente, ossa appuntite e di più rare cime dilancie di legno. Esse fanno pensare a gruppi organizzatidi cacciatori, e a uno stato sociale in accordo con questofatto.

Anche la più riluttante fantasia dovrà ammettere cheuna selvaggina di tali proporzioni non poteva esser ab-battuta da un solo colpo di lancia, per quanto robusto ilbraccio di chi lo vibrasse e animoso il cacciatore. Gliuomini preistorici non cacciavano per divertimento, maper procurarsi la carne. E che cosa potevano farsene sin-goli cacciatori di quelle ch’erano vere montagne di car-ne, le quali per contro servivano al nutrimento di un in-tero gruppo o tribù?

La razza che seguì questi primi ominidi appartiene almedesimo gruppo fisico dell’uomo moderno (Homo Sa-piens). Essa ci ha lasciato grandi quantità di ossa di ca-valli selvaggi, di bisonti e di renne, i quali comprovanocome già avessero evoluto le armi e l’organizzazionenecessarie a imprese difficili e pericolose, poichè si trat-tava di affrontar mandre o branchi interi di animali. Na-turalmente, le uniche prove che ci restano sono le rudi-mentali armi, i grandi depositi di ossa d’animali e le pit-ture che si trovano sulle mura delle caverne abitate daquesti uomini. Ma le caccie alla renna degli Esquimesi ele caccie al bisonte degli Indiani d’America ci offronosimili e più recenti analogie.

Queste caccie dovettero essere minutamente organiz-zate; la tribù divenne un’unità militare sottoposta a rigi-

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quale vada un po’ più lungi che non la scoperta di qual-che silice tagliente, ossa appuntite e di più rare cime dilancie di legno. Esse fanno pensare a gruppi organizzatidi cacciatori, e a uno stato sociale in accordo con questofatto.

Anche la più riluttante fantasia dovrà ammettere cheuna selvaggina di tali proporzioni non poteva esser ab-battuta da un solo colpo di lancia, per quanto robusto ilbraccio di chi lo vibrasse e animoso il cacciatore. Gliuomini preistorici non cacciavano per divertimento, maper procurarsi la carne. E che cosa potevano farsene sin-goli cacciatori di quelle ch’erano vere montagne di car-ne, le quali per contro servivano al nutrimento di un in-tero gruppo o tribù?

La razza che seguì questi primi ominidi appartiene almedesimo gruppo fisico dell’uomo moderno (Homo Sa-piens). Essa ci ha lasciato grandi quantità di ossa di ca-valli selvaggi, di bisonti e di renne, i quali comprovanocome già avessero evoluto le armi e l’organizzazionenecessarie a imprese difficili e pericolose, poichè si trat-tava di affrontar mandre o branchi interi di animali. Na-turalmente, le uniche prove che ci restano sono le rudi-mentali armi, i grandi depositi di ossa d’animali e le pit-ture che si trovano sulle mura delle caverne abitate daquesti uomini. Ma le caccie alla renna degli Esquimesi ele caccie al bisonte degli Indiani d’America ci offronosimili e più recenti analogie.

Queste caccie dovettero essere minutamente organiz-zate; la tribù divenne un’unità militare sottoposta a rigi-

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da disciplina, guidata da passate esperienze, e al coman-do dei cacciatori più abili ed esperti. Non intendiamotuttavia affermare che i primi ominidi, gli uomini dellaPrima Epoca Glaciale, possedessero un’organizzazioneparagonabile per disciplina e abilità a quella delle cacciein gruppo, le quali risalgono alla fine di questa stessaepoca. Seguire la pista di un solo animale e ucciderloera affare diverso e men pericoloso che non affrontarebranchi interi, protetti e difesi da maschi adulti e robu-sti. Ma anche nel primo caso, una parvenza di organiz-zazione era necessaria; e una disordinata massa di cac-ciatori armati di lancie, i quali agissero secondo la pro-pria immaginazione e iniziativa, non avrebbe potuto re-care frutti utili. S’imponeva quindi un certo metodo ditrasmettere idee e istruzioni agli inesperti, affinchè que-ste imprese venatorie riuscissero proficue e non perico-lose. In altre parole: l’uomo doveva inventare qualchemezzo di trasmettere la passata esperienza entro l’azio-ne presente. Non sappiamo quanto esatto sarebbe defini-re «linguaggio» un’invenzione simile. L’invenzione dellinguaggio è un fatto tutt’altro che semplice, che non siverificò in un sol tempo. Noi parliamo della scritturacome di una «invenzione», ma prima che l’uomo faces-se uso dei caratteri s’era già servito di immagini, di sim-boli e diversi altri segni. C’è un’intera storia di una in-venzione che non può essere classificata come verascrittura, ma che precede la scrittura e porta all’alfabetofonetico. Anche l’invenzione del linguaggio si componedi una serie di esperimenti fonetici, oltrechè di mimica

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da disciplina, guidata da passate esperienze, e al coman-do dei cacciatori più abili ed esperti. Non intendiamotuttavia affermare che i primi ominidi, gli uomini dellaPrima Epoca Glaciale, possedessero un’organizzazioneparagonabile per disciplina e abilità a quella delle cacciein gruppo, le quali risalgono alla fine di questa stessaepoca. Seguire la pista di un solo animale e ucciderloera affare diverso e men pericoloso che non affrontarebranchi interi, protetti e difesi da maschi adulti e robu-sti. Ma anche nel primo caso, una parvenza di organiz-zazione era necessaria; e una disordinata massa di cac-ciatori armati di lancie, i quali agissero secondo la pro-pria immaginazione e iniziativa, non avrebbe potuto re-care frutti utili. S’imponeva quindi un certo metodo ditrasmettere idee e istruzioni agli inesperti, affinchè que-ste imprese venatorie riuscissero proficue e non perico-lose. In altre parole: l’uomo doveva inventare qualchemezzo di trasmettere la passata esperienza entro l’azio-ne presente. Non sappiamo quanto esatto sarebbe defini-re «linguaggio» un’invenzione simile. L’invenzione dellinguaggio è un fatto tutt’altro che semplice, che non siverificò in un sol tempo. Noi parliamo della scritturacome di una «invenzione», ma prima che l’uomo faces-se uso dei caratteri s’era già servito di immagini, di sim-boli e diversi altri segni. C’è un’intera storia di una in-venzione che non può essere classificata come verascrittura, ma che precede la scrittura e porta all’alfabetofonetico. Anche l’invenzione del linguaggio si componedi una serie di esperimenti fonetici, oltrechè di mimica

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ed espressione del viso; e come tutte le invenzioni, haun’antestoria lunga e vaga.

A questo primo gruppo preistorico non possiamo dun-que attribuire che l’inizio di questi esperimenti e inven-zioni, che dovevano finire allo sviluppo del linguaggioarticolato; il quale a sua volta precede ogni e qualsiasiforma di scrittura. Tutto quanto possiamo arguire è chel’uomo che domò il Fuoco inventasse qualche mezzo in-telligibile di comunicazione per servirsene durante lesue caccie. I cacciatori esperti avevano compreso comeogni animale richiedesse una diversa tecnica. Col tem-po, impararono che ogni lancia doveva avere il suo po-sto; e ogni cacciatore doveva esser precedentementepreparato per le vicende e gli incidenti della caccia.Quando l’elefante ferito, negli ultimi aneliti si rivoltavaferocemente; o il gran rinoceronte si precipitava dai can-neti del fiume come una valanga vivente; o la tigre bal-zava dal suo covo come una fiamma di distruzione – al-lora non c’era più tempo per accordarsi o consultarsi; eper fronteggiare questi pericoli ed altri imprevisti, ci vo-leva un’oculata preparazione, e un qualche sistema perinstillar le esperienze dei cacciatori veterani entro lementi dei giovani che per la prima volta brandivano lelance.

Il luogo più sicuro per l’uomo su tutta la terra –l’antro dove si custodiva il primo Fuoco Comune – eraanche il più logico e adatto per questa istruzione o pre-parazione. Qui l’uomo aveva luce, nel mezzo delle tene-bre protettrici; e aveva modo di studiare i propri simili e

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ed espressione del viso; e come tutte le invenzioni, haun’antestoria lunga e vaga.

A questo primo gruppo preistorico non possiamo dun-que attribuire che l’inizio di questi esperimenti e inven-zioni, che dovevano finire allo sviluppo del linguaggioarticolato; il quale a sua volta precede ogni e qualsiasiforma di scrittura. Tutto quanto possiamo arguire è chel’uomo che domò il Fuoco inventasse qualche mezzo in-telligibile di comunicazione per servirsene durante lesue caccie. I cacciatori esperti avevano compreso comeogni animale richiedesse una diversa tecnica. Col tem-po, impararono che ogni lancia doveva avere il suo po-sto; e ogni cacciatore doveva esser precedentementepreparato per le vicende e gli incidenti della caccia.Quando l’elefante ferito, negli ultimi aneliti si rivoltavaferocemente; o il gran rinoceronte si precipitava dai can-neti del fiume come una valanga vivente; o la tigre bal-zava dal suo covo come una fiamma di distruzione – al-lora non c’era più tempo per accordarsi o consultarsi; eper fronteggiare questi pericoli ed altri imprevisti, ci vo-leva un’oculata preparazione, e un qualche sistema perinstillar le esperienze dei cacciatori veterani entro lementi dei giovani che per la prima volta brandivano lelance.

Il luogo più sicuro per l’uomo su tutta la terra –l’antro dove si custodiva il primo Fuoco Comune – eraanche il più logico e adatto per questa istruzione o pre-parazione. Qui l’uomo aveva luce, nel mezzo delle tene-bre protettrici; e aveva modo di studiare i propri simili e

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di comunicar con i compagni per mezzo di gesti, suoniimitativi e mimica. E così, in un certo senso, la luce delFuoco fu la prima maestra di grammatica, il primoesempio concreto di organizzazione sociale basata sutradizioni ed esperienze. Certo, gli animali che s’aggira-vano attorno alla cerchia di quella luce dovettero conce-pire un oscuro terrore delle notturne confabulazioni de-gli strani cacciatori bipedi che di giorno li perseguitava-no. Di fatto, quel mormorio di voci umane era assai piùmicidiale che non un colpo di lancia; era il simbolo delpensiero che guidava le lancie e ne dirigeva i colpi; erauna barriera di più che l’uomo aveva alzato fra se stessoe la sua preda; un altro piuolo della scala che conducevaall’alto.

Se un così rudimentale mezzo di comunicazione dauomo a uomo non si può ancora chiamare linguaggio, èsenza dubbio un mezzo utile con cui trasmettere il pen-siero in azione; è uno dei nebulosi stadi che condurran-no alla parola articolata.

* * *

Abbiamo seguito finora la più antica storia tecnica esociale dell’uomo così come è rivelata da dati raccoltiprincipalmente in Europa durante lo scorso secolo. Essaè indubbiamente frammentaria; parecchio è ancora dub-bio; e forse non ne sapremo mai di più. I periodi già ri-cordati, il Pre-Chelleano, il Chelleano4 e l’Acheuleano,

4 Il nome deriva dalla località di Chelles (Dip. Senna e Mar-

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di comunicar con i compagni per mezzo di gesti, suoniimitativi e mimica. E così, in un certo senso, la luce delFuoco fu la prima maestra di grammatica, il primoesempio concreto di organizzazione sociale basata sutradizioni ed esperienze. Certo, gli animali che s’aggira-vano attorno alla cerchia di quella luce dovettero conce-pire un oscuro terrore delle notturne confabulazioni de-gli strani cacciatori bipedi che di giorno li perseguitava-no. Di fatto, quel mormorio di voci umane era assai piùmicidiale che non un colpo di lancia; era il simbolo delpensiero che guidava le lancie e ne dirigeva i colpi; erauna barriera di più che l’uomo aveva alzato fra se stessoe la sua preda; un altro piuolo della scala che conducevaall’alto.

Se un così rudimentale mezzo di comunicazione dauomo a uomo non si può ancora chiamare linguaggio, èsenza dubbio un mezzo utile con cui trasmettere il pen-siero in azione; è uno dei nebulosi stadi che condurran-no alla parola articolata.

* * *

Abbiamo seguito finora la più antica storia tecnica esociale dell’uomo così come è rivelata da dati raccoltiprincipalmente in Europa durante lo scorso secolo. Essaè indubbiamente frammentaria; parecchio è ancora dub-bio; e forse non ne sapremo mai di più. I periodi già ri-cordati, il Pre-Chelleano, il Chelleano4 e l’Acheuleano,

4 Il nome deriva dalla località di Chelles (Dip. Senna e Mar-

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s’impostano su un singolo metodo di fabbricazione distrumenti di pietra; cioè, la semplice frattura di un ciot-tolo per mezzo di un altro ciottolo, o di un rudimentalemartello di pietra. Durante queste età il clima varia, èvero; ma come attestano la maggioranza dei letti dei fiu-mi, delle miniere di carbone e delle ossa d’animali, inpreponderanza rimase umido e temperato. L’Inghilterraera allora parte del Continente Europeo, l’Asia unitaall’America Settentrionale per le regioni artiche, el’Africa all’Europa per gli istmi mediterranei. L’uomopoteva camminare a piedi asciutti per tutto il globo ter-racqueo. Se gli arnesi dell’uomo sono una testimonian-za, quel mondo doveva esser un paradiso per il cacciato-re primitivo, nel senso che invenzioni meccaniche quan-to sociali relativamente semplici bastavano a sopperireai bisogni dell’uomo per il cibo e per la sicurezza mate-riale. Pochi erano questi bisogni, e poche quindi le in-venzioni.

La storia è un problema, non d’anni ma di individua-zioni e soluzioni di difficoltà. L’uomo può aver vissutocol più semplice equipaggiamento tecnico, fino a chel’ambiente non avrà pòsto al suo genio imperative esi-genze. Entro l’ambito di un unico orizzonte tecnico, percentinaia di migliaia di anni i cambiamenti si effettuaro-no lenti, con qualche miglioramento ma senza fonda-mentali trasformazioni. Ma ecco che ora un gelido sof-

na). È la fase più antica del vero periodo paleolitico, detto ancheepoca amigdaliana (N. d. Tr.).

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s’impostano su un singolo metodo di fabbricazione distrumenti di pietra; cioè, la semplice frattura di un ciot-tolo per mezzo di un altro ciottolo, o di un rudimentalemartello di pietra. Durante queste età il clima varia, èvero; ma come attestano la maggioranza dei letti dei fiu-mi, delle miniere di carbone e delle ossa d’animali, inpreponderanza rimase umido e temperato. L’Inghilterraera allora parte del Continente Europeo, l’Asia unitaall’America Settentrionale per le regioni artiche, el’Africa all’Europa per gli istmi mediterranei. L’uomopoteva camminare a piedi asciutti per tutto il globo ter-racqueo. Se gli arnesi dell’uomo sono una testimonian-za, quel mondo doveva esser un paradiso per il cacciato-re primitivo, nel senso che invenzioni meccaniche quan-to sociali relativamente semplici bastavano a sopperireai bisogni dell’uomo per il cibo e per la sicurezza mate-riale. Pochi erano questi bisogni, e poche quindi le in-venzioni.

La storia è un problema, non d’anni ma di individua-zioni e soluzioni di difficoltà. L’uomo può aver vissutocol più semplice equipaggiamento tecnico, fino a chel’ambiente non avrà pòsto al suo genio imperative esi-genze. Entro l’ambito di un unico orizzonte tecnico, percentinaia di migliaia di anni i cambiamenti si effettuaro-no lenti, con qualche miglioramento ma senza fonda-mentali trasformazioni. Ma ecco che ora un gelido sof-

na). È la fase più antica del vero periodo paleolitico, detto ancheepoca amigdaliana (N. d. Tr.).

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fio muoveva le tepide brune della giungla, facendo av-vizzire e morire le foglie degli alberi; e gli animali erra-vano irrequieti e tristi. Lunghe pioggie e impervie gran-dini spingevano l’uomo a cercar sempre più il confortodel fuoco. Nella giungla sconsolata, sulle foglie secches’aggirava una nuova belva, il Gelo, che con invisibiliartigli straziava i muscoli intorpiditi, lasciando l’uomoirrigidito e inerte, ricoperto d’uno strano mantello bian-co che al calor del fiato si mutava in acqua. E in queifrangenti, anche i cuori più animosi si avvilivano!

I potenti spiriti che avevan sede nell’estremo Setten-trione soffiavano il loro alito sulla razza umana; forseintendevano divellere i deboli e forgiare i più robusti perun domani ancor più grande. Fra il turbinar del nevi-schio, una voce aveva profferito la nuova legge di vita:«Ogni cosa debole è destinata a perire; solo ciò che èforte prevarrà». E gli immensi icebergs si staccarono dailoro ancoraggi di roccia, a provare che in nessun modoil nuovo ordine venisse contrastato da quella miseracreatura ch’era l’uomo.

Ecco dunque l’uomo al crocevia del Destino, sullastrada stessa delle altissime avanguardie del ghiaccio:fratello nostro in spirito, speriamo, se pure un po’ menoche cugino nella carne. Tutto intorno ad esso è distruzio-ne, mutamento; alberi, erbe, animali – tutto appare di-verso e nuovo; anche la superficie dei famigliari stagni efiumicelli ai quali egli soleva dissetarsi, anche questa, aperiodi, è condensata e indurita, sotto il tocco di quelmisterioso terrore che ha intorpidito l’animo suo. Di

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fio muoveva le tepide brune della giungla, facendo av-vizzire e morire le foglie degli alberi; e gli animali erra-vano irrequieti e tristi. Lunghe pioggie e impervie gran-dini spingevano l’uomo a cercar sempre più il confortodel fuoco. Nella giungla sconsolata, sulle foglie secches’aggirava una nuova belva, il Gelo, che con invisibiliartigli straziava i muscoli intorpiditi, lasciando l’uomoirrigidito e inerte, ricoperto d’uno strano mantello bian-co che al calor del fiato si mutava in acqua. E in queifrangenti, anche i cuori più animosi si avvilivano!

I potenti spiriti che avevan sede nell’estremo Setten-trione soffiavano il loro alito sulla razza umana; forseintendevano divellere i deboli e forgiare i più robusti perun domani ancor più grande. Fra il turbinar del nevi-schio, una voce aveva profferito la nuova legge di vita:«Ogni cosa debole è destinata a perire; solo ciò che èforte prevarrà». E gli immensi icebergs si staccarono dailoro ancoraggi di roccia, a provare che in nessun modoil nuovo ordine venisse contrastato da quella miseracreatura ch’era l’uomo.

Ecco dunque l’uomo al crocevia del Destino, sullastrada stessa delle altissime avanguardie del ghiaccio:fratello nostro in spirito, speriamo, se pure un po’ menoche cugino nella carne. Tutto intorno ad esso è distruzio-ne, mutamento; alberi, erbe, animali – tutto appare di-verso e nuovo; anche la superficie dei famigliari stagni efiumicelli ai quali egli soleva dissetarsi, anche questa, aperiodi, è condensata e indurita, sotto il tocco di quelmisterioso terrore che ha intorpidito l’animo suo. Di

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giorno l’uomo esce a caccia, scoraggiato, cacciato a suavolta dal nuovo pericolo che viene da Settentrione; e inluogo della preda consueta trova nuove mandre robustee selvaggie, pronte ad avvistare il pericolo, abili a difen-dersi. Lentamente ma inesorabilmente quanto la marciadei Ghiacci, l’uomo giunge a una risoluzione. Fuggapure chi vuole: egli affronterà l’arrivo del Ghiaccio, cer-to di una cosa soltanto: del proprio indomito coraggio.L’uomo è più forte del Ghiaccio! Il Ghiaccio non ha uncervello.

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giorno l’uomo esce a caccia, scoraggiato, cacciato a suavolta dal nuovo pericolo che viene da Settentrione; e inluogo della preda consueta trova nuove mandre robustee selvaggie, pronte ad avvistare il pericolo, abili a difen-dersi. Lentamente ma inesorabilmente quanto la marciadei Ghiacci, l’uomo giunge a una risoluzione. Fuggapure chi vuole: egli affronterà l’arrivo del Ghiaccio, cer-to di una cosa soltanto: del proprio indomito coraggio.L’uomo è più forte del Ghiaccio! Il Ghiaccio non ha uncervello.

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IV

IL GHIACCIO, GRANDE MAESTRO

La nostra alquanto lirica descrizione di questo primoe degno Uomo dei ghiacci esige un po’ di precisione.Della specie umana, egli fu il primo assennato abbastan-za da lasciarci una chiara se pur limitata documentazio-ne del suo aspetto, dei suoi costumi, dei suoi arnesi edelle sue idee. Secondo i documenti che abbiamo, fu an-che il primo che avesse una dimora stabile e formali ce-rimonie funebri. Fu anche l’ultimo di quella specie an-tropologicamente e socialmente vaga che precedettel’Homo Sapiens, o l’uomo moderno e recente. Visse50.000, forse 100.000 anni fa. E non ebbe certo una vitafacile, sia ai suoi tempi che nelle posteriori tempestescientifiche che oggi ancora non han finito di turbare isuoi sonni.

Fatti importanti; ma il nostro interesse precipuo perquesto nostro cugino si concentra sulla sua apparizionesulla terra durante una delle più travagliate epoche cuil’uomo abbia fatto mai fronte. Dure contingenze pone-vano ben definite esigenze alla sua genialità e alla possi-bilità che gli offriva l’ambiente, costringendolo ad ele-

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IV

IL GHIACCIO, GRANDE MAESTRO

La nostra alquanto lirica descrizione di questo primoe degno Uomo dei ghiacci esige un po’ di precisione.Della specie umana, egli fu il primo assennato abbastan-za da lasciarci una chiara se pur limitata documentazio-ne del suo aspetto, dei suoi costumi, dei suoi arnesi edelle sue idee. Secondo i documenti che abbiamo, fu an-che il primo che avesse una dimora stabile e formali ce-rimonie funebri. Fu anche l’ultimo di quella specie an-tropologicamente e socialmente vaga che precedettel’Homo Sapiens, o l’uomo moderno e recente. Visse50.000, forse 100.000 anni fa. E non ebbe certo una vitafacile, sia ai suoi tempi che nelle posteriori tempestescientifiche che oggi ancora non han finito di turbare isuoi sonni.

Fatti importanti; ma il nostro interesse precipuo perquesto nostro cugino si concentra sulla sua apparizionesulla terra durante una delle più travagliate epoche cuil’uomo abbia fatto mai fronte. Dure contingenze pone-vano ben definite esigenze alla sua genialità e alla possi-bilità che gli offriva l’ambiente, costringendolo ad ele-

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varsi oltre il passato e il presente, e a far di necessitàvirtù. Che altro avrebbe potuto fare? Egli fu il nostroprimo self-made-man.

Malgrado gli onori che gli furono resi in seguito, lasua prima introduzione nel mondo della scienza avven-ne in modo oltremodo poco formale, per non dire che fudovuta al caso. Da tempo gli scienziati sospettavano cheun tipo fisico d’uomo fosse esistito prima che l’uomoattuale facesse la sua comparsa sulla scena del mondo.Alla luce della scienza il concetto di Adamo s’era al-quanto modificato, e il Libro della Genesi non era piùconsiderato una guida completa allo studio dei resti pre-istorici, nè una spiegazione esauriente della razza uma-na. Donde la loro delusione, che la prima scoperta deiresti di questa creatura avesse luogo nel modo meno or-todosso e scientifico immaginabile.

Nel 1856 alcuni operai tedeschi che lavoravano nellecave di pietra lungo il fiume Düssel rinvennero inaspet-tatamente uno scheletro. Purtroppo quegli onesti artigia-ni mancavano di ogni curiosità scientifica, sicchè granparte delle preziose ossa andarono distrutte; e uno scien-ziato scandalizzato quanto ritardatario giunse appena intempo a salvare dall’eterno oblio uno stinco, una scatolacranica e pochi altri frammenti ossei. Poichè la cava dipietra si trovava nella gola di Neanderthal, ecco cheall’oscuro antenato cui doveva esser serbato l’onore ditramandarsi fino ai tempi nostri rimase il nome di HomoNeanderthalensis.

Cinquant’anni dopo, nel 1910, il suo stato fisico e so-

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varsi oltre il passato e il presente, e a far di necessitàvirtù. Che altro avrebbe potuto fare? Egli fu il nostroprimo self-made-man.

Malgrado gli onori che gli furono resi in seguito, lasua prima introduzione nel mondo della scienza avven-ne in modo oltremodo poco formale, per non dire che fudovuta al caso. Da tempo gli scienziati sospettavano cheun tipo fisico d’uomo fosse esistito prima che l’uomoattuale facesse la sua comparsa sulla scena del mondo.Alla luce della scienza il concetto di Adamo s’era al-quanto modificato, e il Libro della Genesi non era piùconsiderato una guida completa allo studio dei resti pre-istorici, nè una spiegazione esauriente della razza uma-na. Donde la loro delusione, che la prima scoperta deiresti di questa creatura avesse luogo nel modo meno or-todosso e scientifico immaginabile.

Nel 1856 alcuni operai tedeschi che lavoravano nellecave di pietra lungo il fiume Düssel rinvennero inaspet-tatamente uno scheletro. Purtroppo quegli onesti artigia-ni mancavano di ogni curiosità scientifica, sicchè granparte delle preziose ossa andarono distrutte; e uno scien-ziato scandalizzato quanto ritardatario giunse appena intempo a salvare dall’eterno oblio uno stinco, una scatolacranica e pochi altri frammenti ossei. Poichè la cava dipietra si trovava nella gola di Neanderthal, ecco cheall’oscuro antenato cui doveva esser serbato l’onore ditramandarsi fino ai tempi nostri rimase il nome di HomoNeanderthalensis.

Cinquant’anni dopo, nel 1910, il suo stato fisico e so-

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ciale era definitivamente stabilito. Alcuni scienziatifrancesi (non sterratori, stavolta) nelle loro ricerche neifamosi «cimiteri di ossa» della Dordogna, capitarono sudue sepolture preistoriche, nelle quali trovarono nonsolo uno scheletro completo e ben conservato, ma armi,arnesi ed elementi per stabilire come questi venisserofabbricati; e uno scheletro di bisonte e un pezzo di terrad’ocra. Il genere di sepoltura, con tutto il suo contenuto,offriva l’idea che già l’uomo avesse cominciato a consi-derare l’esistenza di un altro mondo, oltre la rude realtàche intorno a sè gli era dato vedere e toccar con mano.Già a quell’epoca doveva esistere qualcuno che si davale arie e l’importanza di un imprenditore di pompe fune-bri.

Siccome la più cospicua delle due tombe era situatavicino al villaggio di Le Moustier, il nostro uomo prei-storico veniva ribattezzato col nome di Uomo Mouste-riano. Da allora in poi, resti consimili sono stati scopertiin tutta l’Europa e in parti dell’Asia e dell’Africa, unita-mente ad armi e arnesi ed a traccie di cerimonie funebri;ma non mai nel Nuovo Mondo. L’uomo dell’Epoca Gla-ciale era finalmente un tipo definitivo, reale quanto gliuomini preistorici più recenti, ai quali accordiamol’onore di essere i nostri antenati.

Era di statura bassa, tozzo, con la fronte prominente ela parete cranica spessa; aveva stinchi ricurvi e il suocorpo era probabilmente rivestito di peli. Con la mascel-la pesante e la dentatura feroce, non era certo una bel-lezza. In certi esemplari, vediamo la mascella sporgere

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ciale era definitivamente stabilito. Alcuni scienziatifrancesi (non sterratori, stavolta) nelle loro ricerche neifamosi «cimiteri di ossa» della Dordogna, capitarono sudue sepolture preistoriche, nelle quali trovarono nonsolo uno scheletro completo e ben conservato, ma armi,arnesi ed elementi per stabilire come questi venisserofabbricati; e uno scheletro di bisonte e un pezzo di terrad’ocra. Il genere di sepoltura, con tutto il suo contenuto,offriva l’idea che già l’uomo avesse cominciato a consi-derare l’esistenza di un altro mondo, oltre la rude realtàche intorno a sè gli era dato vedere e toccar con mano.Già a quell’epoca doveva esistere qualcuno che si davale arie e l’importanza di un imprenditore di pompe fune-bri.

Siccome la più cospicua delle due tombe era situatavicino al villaggio di Le Moustier, il nostro uomo prei-storico veniva ribattezzato col nome di Uomo Mouste-riano. Da allora in poi, resti consimili sono stati scopertiin tutta l’Europa e in parti dell’Asia e dell’Africa, unita-mente ad armi e arnesi ed a traccie di cerimonie funebri;ma non mai nel Nuovo Mondo. L’uomo dell’Epoca Gla-ciale era finalmente un tipo definitivo, reale quanto gliuomini preistorici più recenti, ai quali accordiamol’onore di essere i nostri antenati.

Era di statura bassa, tozzo, con la fronte prominente ela parete cranica spessa; aveva stinchi ricurvi e il suocorpo era probabilmente rivestito di peli. Con la mascel-la pesante e la dentatura feroce, non era certo una bel-lezza. In certi esemplari, vediamo la mascella sporgere

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come quella di un bull-dog (protagona, se volete). I suoipiedi erano in grado di afferrare oggetti (piedi prensili).In complesso, un antenato poco lusinghiero. Egli eratroppo vicino agli alberi, e lontano dal retto sentiero an-tropologico. Poco fa quindi supporre ch’egli sia stato undiretto nostro antenato. Il fatto che i nostri avi ricono-sciuti venissero subito dopo ad abitare le sue caverne, eche noi ignoriamo donde venissero tanto l’Uomo Mou-steriano quanto i nostri avi, è tuttavia fuori causa. A luidobbiamo l’invenzione di un miglior sistema di vita e,in difficili condizioni, di un nuovo metodo per la fabbri-cazione degli arnesi, una organizzazione nuova dellacaccia, il modo di procurarsi artificiosamente il fuoco equalcosa che se ancora non è vestito, è già un modo dicoprirsi. Pare che quest’uomo abbia anche inventato unal di là, e tutta una serie di spiriti e fantasmi che ebberogrande influenza sulle epoche susseguenti, non esclusala nostra.

Più che al suo aspetto fisico, tuttavia, il nostro inte-resse va ai suoi problemi e al modo come li risolveva,strettamente connessi agli effetti di ghiaccio e freddo.Le cause che portarono al raffreddamento dell’Europa edell’America Settentrionale sono tuttora vaghe. A quan-to pare, tre o quattro volte il ghiaccio invase questi con-tinenti e ne retrocesse, con periodi di intermittenze egeli parziali. Per ora, la storia dell’uomo non si occupache dell’ultimo di questi sconvolgimenti. L’uomo attua-le è, più o meno, il prodotto del Ghiaccio e della solu-zione tecnica e sociale imposta dalla pressione del

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come quella di un bull-dog (protagona, se volete). I suoipiedi erano in grado di afferrare oggetti (piedi prensili).In complesso, un antenato poco lusinghiero. Egli eratroppo vicino agli alberi, e lontano dal retto sentiero an-tropologico. Poco fa quindi supporre ch’egli sia stato undiretto nostro antenato. Il fatto che i nostri avi ricono-sciuti venissero subito dopo ad abitare le sue caverne, eche noi ignoriamo donde venissero tanto l’Uomo Mou-steriano quanto i nostri avi, è tuttavia fuori causa. A luidobbiamo l’invenzione di un miglior sistema di vita e,in difficili condizioni, di un nuovo metodo per la fabbri-cazione degli arnesi, una organizzazione nuova dellacaccia, il modo di procurarsi artificiosamente il fuoco equalcosa che se ancora non è vestito, è già un modo dicoprirsi. Pare che quest’uomo abbia anche inventato unal di là, e tutta una serie di spiriti e fantasmi che ebberogrande influenza sulle epoche susseguenti, non esclusala nostra.

Più che al suo aspetto fisico, tuttavia, il nostro inte-resse va ai suoi problemi e al modo come li risolveva,strettamente connessi agli effetti di ghiaccio e freddo.Le cause che portarono al raffreddamento dell’Europa edell’America Settentrionale sono tuttora vaghe. A quan-to pare, tre o quattro volte il ghiaccio invase questi con-tinenti e ne retrocesse, con periodi di intermittenze egeli parziali. Per ora, la storia dell’uomo non si occupache dell’ultimo di questi sconvolgimenti. L’uomo attua-le è, più o meno, il prodotto del Ghiaccio e della solu-zione tecnica e sociale imposta dalla pressione del

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Ghiaccio. Con l’ultimo retrocedimento delle barriereglaciali, la superficie terrestre assunse la sua attuale for-ma geografica e divenne dimora stabile dell’uomo.

In certo modo, tutta la civiltà moderna si è sviluppatasul fertile suolo ridotto in polvere dal peso del ghiacciovagante, sparso poi sulla superficie della terra dagli im-petuosi venti che soffiavano dai ghiacciai che si ritirava-no, e innaffiato dalle acque che ovunque fluivano dallenevi e dai ghiacci in scioglimento. Non menodell’Uomo Mousteriano, se pure in modo meno ovvio,noi siamo dunque i Figli del Ghiaccio.

Lungo le coste delle terre artiche, già fino alla Groen-landia ricoperta d’una spessa crosta di neve e ghiaccio,ogni anno a primavera grandi montagne di ghiaccio an-cora si staccano e viaggiano verso il sud, per discioglier-si entro le acque più calde. Tutto un servizio di segnala-zione e di vigilanza è organizzato in quei mari dalle na-zioni interessate, per proteggere la navigazione dal peri-colo degli icebergs.

Per le prove della nostra parentela con l’Epoca Gla-ciale, noi dobbiamo fidare soltanto sui geologi; anchegli antropologi hanno parecchio da dire in proposito.Lungo 5000 miglia di coste tra la Siberia e la Groenlan-dia vivono sparse tribù esquimesi. Fino a quando nonvenne a contatto coi cacciatori di balene e di pelliccie econ gli esploratori del XIV secolo, questo popolo vivevain un ambiente artico e con un sistema di vita che in par-te risale alle civiltà maturate alle ultime ombre dei gran-di ghiacciai europei. Abbiamo qui l’esempio di una ci-

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Ghiaccio. Con l’ultimo retrocedimento delle barriereglaciali, la superficie terrestre assunse la sua attuale for-ma geografica e divenne dimora stabile dell’uomo.

In certo modo, tutta la civiltà moderna si è sviluppatasul fertile suolo ridotto in polvere dal peso del ghiacciovagante, sparso poi sulla superficie della terra dagli im-petuosi venti che soffiavano dai ghiacciai che si ritirava-no, e innaffiato dalle acque che ovunque fluivano dallenevi e dai ghiacci in scioglimento. Non menodell’Uomo Mousteriano, se pure in modo meno ovvio,noi siamo dunque i Figli del Ghiaccio.

Lungo le coste delle terre artiche, già fino alla Groen-landia ricoperta d’una spessa crosta di neve e ghiaccio,ogni anno a primavera grandi montagne di ghiaccio an-cora si staccano e viaggiano verso il sud, per discioglier-si entro le acque più calde. Tutto un servizio di segnala-zione e di vigilanza è organizzato in quei mari dalle na-zioni interessate, per proteggere la navigazione dal peri-colo degli icebergs.

Per le prove della nostra parentela con l’Epoca Gla-ciale, noi dobbiamo fidare soltanto sui geologi; anchegli antropologi hanno parecchio da dire in proposito.Lungo 5000 miglia di coste tra la Siberia e la Groenlan-dia vivono sparse tribù esquimesi. Fino a quando nonvenne a contatto coi cacciatori di balene e di pelliccie econ gli esploratori del XIV secolo, questo popolo vivevain un ambiente artico e con un sistema di vita che in par-te risale alle civiltà maturate alle ultime ombre dei gran-di ghiacciai europei. Abbiamo qui l’esempio di una ci-

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viltà che in condizioni di vita approssimativamente si-mili è rimasta immutata e soddisfacente per innumerimigliaia d’anni: una civiltà vergine, fino ai tempi recen-ti, delle sconvolgenti invenzioni meccaniche dell’AsiaCentrale o dell’Europa moderna.

A sentire i geologi, noi vivremmo tuttora in un’epocaglaciale, o piuttosto, in un’età in cui i ghiacciai si sareb-bero ritirati ancora una volta verso l’estremo Nord. Visono altri indizi di simili retrocessioni di ghiaccio, se-guite da nuove avanzate sull’Europa, Asia e AmericaSettentrionale. Le cause di questi movimenti restano tut-tora oscure; e che il ghiaccio possa avanzar nuovamen-te, è un fatto indiscutibile. Forse, tutta la civiltà modernanon è che un interessante interludio fra due movimentiglaciali; e nessuna forza del progresso tecnico varrà areprimere una forza che potrà schiacciare le nostre vite,scavar nuovi fiumi e innalzar nuove montagne secondoil proprio arbitrio e non il nostro. Sotto l’urto di una si-mile catastrofe, l’uomo potrà forse trovare ausilio nelleforze cosmiche che egli sta studiando, in modo da sviareo modificare questa potenza distruttiva. L’uomo è inge-gnoso, e la necessità lo ispira; ma potrebbe darsi che difronte a questo problema anche la scienza moderna fos-se impotente.

L’Uomo Mousteriano nulla sapeva di raggi cosmici,di atomi e di elettricità, di vapor acqueo o di metallo.Queste forze erano latenti nel suo ambiente fisico, malontane dalle sue possibilità intellettuali. La sua primaimpresa fu di trasformare l’ormai invecchiata tecnica di

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viltà che in condizioni di vita approssimativamente si-mili è rimasta immutata e soddisfacente per innumerimigliaia d’anni: una civiltà vergine, fino ai tempi recen-ti, delle sconvolgenti invenzioni meccaniche dell’AsiaCentrale o dell’Europa moderna.

A sentire i geologi, noi vivremmo tuttora in un’epocaglaciale, o piuttosto, in un’età in cui i ghiacciai si sareb-bero ritirati ancora una volta verso l’estremo Nord. Visono altri indizi di simili retrocessioni di ghiaccio, se-guite da nuove avanzate sull’Europa, Asia e AmericaSettentrionale. Le cause di questi movimenti restano tut-tora oscure; e che il ghiaccio possa avanzar nuovamen-te, è un fatto indiscutibile. Forse, tutta la civiltà modernanon è che un interessante interludio fra due movimentiglaciali; e nessuna forza del progresso tecnico varrà areprimere una forza che potrà schiacciare le nostre vite,scavar nuovi fiumi e innalzar nuove montagne secondoil proprio arbitrio e non il nostro. Sotto l’urto di una si-mile catastrofe, l’uomo potrà forse trovare ausilio nelleforze cosmiche che egli sta studiando, in modo da sviareo modificare questa potenza distruttiva. L’uomo è inge-gnoso, e la necessità lo ispira; ma potrebbe darsi che difronte a questo problema anche la scienza moderna fos-se impotente.

L’Uomo Mousteriano nulla sapeva di raggi cosmici,di atomi e di elettricità, di vapor acqueo o di metallo.Queste forze erano latenti nel suo ambiente fisico, malontane dalle sue possibilità intellettuali. La sua primaimpresa fu di trasformare l’ormai invecchiata tecnica di

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fabbricazione degli arnesi. Egli cessò dunque di scheg-giare un ciottolo, trovato a caso, per farne una rudimen-tale lama, e scelse invece un blocco di silice adatto alloscopo, ne levigò con cura la superficie e poi, d’un solcolpo, ne fece saltare una scheggia, con la quale avrebbepoi foggiato l’arnese. Le sue moltiplicate necessità e at-tività, ora, gli facevano sentire il bisogno di variare laforma dei suoi arnesi.

Gli arnesi preistorici si interpretano dall’uso piuttostoche dalla forma. La genialità dell’idea è naturalmenteoscurata dalla iniziale grossolanità dell’esecuzione; eper comprendere l’evoluzione è indispensabile tenerconto delle condizioni d’ambiente, e anche del caso.

Il freddo, il freddo che aumentava e faceva morireogni cosa viva, fu il primo problema dell’Uomo Mou-steriano. L’esperienza deve avergli gradatamente sugge-rito che col fuoco acceso all’aria aperta non si poteva ri-scaldare l’Europa intera. Ma prima di questa lucidacomprensione, ci dev’esser stata l’eliminazione di indi-vidui e gruppi di individui, i quali non riuscivano ad af-ferrare un fatto tanto ovvio. Chi non è in grado di rico-noscere la necessità paga con la morte. In epoche ditransizione, i conservatori tendono a scomparire. Ciòdovrebbe riconciliarci con i bruschi rivolgimenti; è que-sta forza di eliminazione che migliora e seleziona le raz-ze.

Attento osservatore di tutte le forme di vita animale,l’Uomo Mousteriano sapeva che alcuni animali viveva-no in tane, cavi d’albero o antri, e conservando così il

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fabbricazione degli arnesi. Egli cessò dunque di scheg-giare un ciottolo, trovato a caso, per farne una rudimen-tale lama, e scelse invece un blocco di silice adatto alloscopo, ne levigò con cura la superficie e poi, d’un solcolpo, ne fece saltare una scheggia, con la quale avrebbepoi foggiato l’arnese. Le sue moltiplicate necessità e at-tività, ora, gli facevano sentire il bisogno di variare laforma dei suoi arnesi.

Gli arnesi preistorici si interpretano dall’uso piuttostoche dalla forma. La genialità dell’idea è naturalmenteoscurata dalla iniziale grossolanità dell’esecuzione; eper comprendere l’evoluzione è indispensabile tenerconto delle condizioni d’ambiente, e anche del caso.

Il freddo, il freddo che aumentava e faceva morireogni cosa viva, fu il primo problema dell’Uomo Mou-steriano. L’esperienza deve avergli gradatamente sugge-rito che col fuoco acceso all’aria aperta non si poteva ri-scaldare l’Europa intera. Ma prima di questa lucidacomprensione, ci dev’esser stata l’eliminazione di indi-vidui e gruppi di individui, i quali non riuscivano ad af-ferrare un fatto tanto ovvio. Chi non è in grado di rico-noscere la necessità paga con la morte. In epoche ditransizione, i conservatori tendono a scomparire. Ciòdovrebbe riconciliarci con i bruschi rivolgimenti; è que-sta forza di eliminazione che migliora e seleziona le raz-ze.

Attento osservatore di tutte le forme di vita animale,l’Uomo Mousteriano sapeva che alcuni animali viveva-no in tane, cavi d’albero o antri, e conservando così il

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proprio calore resistevano meglio al freddo. Fra questianimali c’era il grande orso delle caverne. Essendo unessere ragionevole, l’Uomo Mousteriano si mise in cer-ca di una casa, e cacciò l’orso dalla sua caverna. Unavolta entratovi, accolse in modo tale l’inquilino scaccia-tone, che questo si disgustò non solo d’aver perduto ildomicilio, ma della vita in genere. E la sua spoglia di-venne uno dei principali ornamenti della dimoradell’uomo. Lo attestano i numerosi cranî d’orso sparsiper i musei, sui quali si possono anche constatare i colpimenati da una mano che doveva essere tanto sicuraquanto robusta.

L’uomo aveva dunque risolto il problema di un rico-vero che lo proteggeva dal freddo e dove rifugiarsi lanotte. Ma di giorno bisognava uscirne per andare a cac-cia; e non ci si poteva portar dietro nè il fuoco, nè lemura protettrici delle caverne. D’altra parte, restando alchiuso si moriva di fame.

Ancora una volta l’uomo osservò l’orso. Neppure ilpiù vecchio ed esperto cacciatore aveva mai visto, nèdentro nè fuori di un antro, un orso gelato. E il segretodoveva esser tutto in quell’involucro esteriore, peloso enon commestibile. Anche l’uomo era peloso, ma nonabbastanza. Finì che l’uomo si prese l’involucrodell’orso, quando gli parve che a questo non servissepiù; e così venne in uso, se non proprio il vestito, un si-stema di coprirsi; e abbiamo forse il primo esempio diun prodotto completamente industriale. Anche i robustifemori dell’orso riuscivano assai utili per farne sgorbie

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proprio calore resistevano meglio al freddo. Fra questianimali c’era il grande orso delle caverne. Essendo unessere ragionevole, l’Uomo Mousteriano si mise in cer-ca di una casa, e cacciò l’orso dalla sua caverna. Unavolta entratovi, accolse in modo tale l’inquilino scaccia-tone, che questo si disgustò non solo d’aver perduto ildomicilio, ma della vita in genere. E la sua spoglia di-venne uno dei principali ornamenti della dimoradell’uomo. Lo attestano i numerosi cranî d’orso sparsiper i musei, sui quali si possono anche constatare i colpimenati da una mano che doveva essere tanto sicuraquanto robusta.

L’uomo aveva dunque risolto il problema di un rico-vero che lo proteggeva dal freddo e dove rifugiarsi lanotte. Ma di giorno bisognava uscirne per andare a cac-cia; e non ci si poteva portar dietro nè il fuoco, nè lemura protettrici delle caverne. D’altra parte, restando alchiuso si moriva di fame.

Ancora una volta l’uomo osservò l’orso. Neppure ilpiù vecchio ed esperto cacciatore aveva mai visto, nèdentro nè fuori di un antro, un orso gelato. E il segretodoveva esser tutto in quell’involucro esteriore, peloso enon commestibile. Anche l’uomo era peloso, ma nonabbastanza. Finì che l’uomo si prese l’involucrodell’orso, quando gli parve che a questo non servissepiù; e così venne in uso, se non proprio il vestito, un si-stema di coprirsi; e abbiamo forse il primo esempio diun prodotto completamente industriale. Anche i robustifemori dell’orso riuscivano assai utili per farne sgorbie

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con cui rimuovere l’involucro della bestia.Come si sanno queste cose? – si domanderà il lettore.L’immaginazione scientifica non dovrebbe nè creare

dati di fatto, nè correre alla conclusione. Ma i primisono presenti e irrefutabili, sotto forma di coltelli di sili-ce, di spatole d’osso e di pietra e di punte laboriosissimetemprate, che non si possono spiegare se non come lesi-ne per bucare il cuoio e inserirvi delle striscie. La fab-bricazione di un arnese elaborato quale è una lesina dipietra presume uno scopo ben definito, e fa supporreuna specie di copertura che avvicina assai all’indumen-to. Gli indigeni della Terra del Fuoco, i quali vivono inun clima poco meno rigoroso di quello dell’Uomo Mou-steriano, oggigiorno ancora si vestono di simili primitivimantelli, fatti di pelle di guanaco; e per il medesimoscopo gli Australiani si servono delle pelli di opossum.E non è giusto supporre una intelligenza almeno ugualenel nostro Uomo, quando gli arnesi creati implicano uncosì logico uso?

La lesina e il raschiatoio semicircolare sono in usoancora nelle arti del cuoio; e con l’ago a cruna, di osso edi avorio di mammut, sono importanti elementi nelleepoche che seguono l’Uomo Mousteriano e che si svol-gono nelle medesime caverne. Non c’è dubbio che que-sti aghi più raffinati significassero l’esistenza di abitiveri e propri, nelle epoche Paleolitiche Superiori: e checosa potrebbero dunque testimoniare lesine, raschiatoi ecoltelli, in un’epoca antecedente, se non pelli d’orso ac-conciate e tagliate per coprire l’uomo?

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con cui rimuovere l’involucro della bestia.Come si sanno queste cose? – si domanderà il lettore.L’immaginazione scientifica non dovrebbe nè creare

dati di fatto, nè correre alla conclusione. Ma i primisono presenti e irrefutabili, sotto forma di coltelli di sili-ce, di spatole d’osso e di pietra e di punte laboriosissimetemprate, che non si possono spiegare se non come lesi-ne per bucare il cuoio e inserirvi delle striscie. La fab-bricazione di un arnese elaborato quale è una lesina dipietra presume uno scopo ben definito, e fa supporreuna specie di copertura che avvicina assai all’indumen-to. Gli indigeni della Terra del Fuoco, i quali vivono inun clima poco meno rigoroso di quello dell’Uomo Mou-steriano, oggigiorno ancora si vestono di simili primitivimantelli, fatti di pelle di guanaco; e per il medesimoscopo gli Australiani si servono delle pelli di opossum.E non è giusto supporre una intelligenza almeno ugualenel nostro Uomo, quando gli arnesi creati implicano uncosì logico uso?

La lesina e il raschiatoio semicircolare sono in usoancora nelle arti del cuoio; e con l’ago a cruna, di osso edi avorio di mammut, sono importanti elementi nelleepoche che seguono l’Uomo Mousteriano e che si svol-gono nelle medesime caverne. Non c’è dubbio che que-sti aghi più raffinati significassero l’esistenza di abitiveri e propri, nelle epoche Paleolitiche Superiori: e checosa potrebbero dunque testimoniare lesine, raschiatoi ecoltelli, in un’epoca antecedente, se non pelli d’orso ac-conciate e tagliate per coprire l’uomo?

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Trovato il modo di coprirsi, l’uomo non aveva ancorarisolti tutti i problemi. Quegli stessi mutamenti che ave-vano rivoluzionato la sua esistenza si riflettevano anchesugli animali ch’egli cacciava. La selvaggina, ora, appa-riva a grandi mandre feroci, inquiete e incerte. Il pro-gresso nella lavorazione della pietra prova ch’egli com-prese la necessità di armi da caccia che fossero più effi-cienti e pratiche. Nelle sue caverne furono trovate pal-lottole di pietra calcarea evidentemente formate permezzo di arnesi di silice. Oggi ancora, nelle pampas ar-gentine, gli indigeni assicurano pesanti pallottole, rico-perte di cuoio grezzo, in cima a correggie che poi lan-ciano a distanza per inceppar le zampe della preda: sa-rebbe, insomma, una varietà del lasso. C’è anche ragio-ne di credere che l’Uomo Mousteriano conoscesse ilcappio. Avremmo dunque due armi che permettevano dicacciare con maggior prudenza che non con la lancia.Ma c’è di più. Si sono trovati pezzi di silice intaccati:allo scopo, si suppone, di farne manici per rozze ascie, ogiavellotti. Se così è, l’Uomo Mousteriano deve aver in-ventato il nodo: grandissimo progresso, che gli permet-teva di congiungere stabilmente due materiali altrimentiestranei, per farne uno strumento o un’arma composita.Ancora una volta l’uomo, spinto dal bisogno, aveva per-fezionato la natura attraverso il pensiero.

La presenza di pialle di silice, che dovevano servire alevigare e a raddrizzare le punte di legno, ci fa pensareche a quell’epoca l’uomo diventasse più esigente, ri-guardo alla forma e all’equilibrio delle sue armi. E per-

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Trovato il modo di coprirsi, l’uomo non aveva ancorarisolti tutti i problemi. Quegli stessi mutamenti che ave-vano rivoluzionato la sua esistenza si riflettevano anchesugli animali ch’egli cacciava. La selvaggina, ora, appa-riva a grandi mandre feroci, inquiete e incerte. Il pro-gresso nella lavorazione della pietra prova ch’egli com-prese la necessità di armi da caccia che fossero più effi-cienti e pratiche. Nelle sue caverne furono trovate pal-lottole di pietra calcarea evidentemente formate permezzo di arnesi di silice. Oggi ancora, nelle pampas ar-gentine, gli indigeni assicurano pesanti pallottole, rico-perte di cuoio grezzo, in cima a correggie che poi lan-ciano a distanza per inceppar le zampe della preda: sa-rebbe, insomma, una varietà del lasso. C’è anche ragio-ne di credere che l’Uomo Mousteriano conoscesse ilcappio. Avremmo dunque due armi che permettevano dicacciare con maggior prudenza che non con la lancia.Ma c’è di più. Si sono trovati pezzi di silice intaccati:allo scopo, si suppone, di farne manici per rozze ascie, ogiavellotti. Se così è, l’Uomo Mousteriano deve aver in-ventato il nodo: grandissimo progresso, che gli permet-teva di congiungere stabilmente due materiali altrimentiestranei, per farne uno strumento o un’arma composita.Ancora una volta l’uomo, spinto dal bisogno, aveva per-fezionato la natura attraverso il pensiero.

La presenza di pialle di silice, che dovevano servire alevigare e a raddrizzare le punte di legno, ci fa pensareche a quell’epoca l’uomo diventasse più esigente, ri-guardo alla forma e all’equilibrio delle sue armi. E per-

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chè un processo di fabbricazione tanto faticoso, se noncon l’intenzione di ottenere un proiettile da scagliare adistanza?

Non c’è dubbio che tutte queste invenzioni nuove equesti perfezionamenti di altre antiche, migliorasserograndemente i rapporti tra l’uomo e il suo ambiente. Manon bastava ancora. Le condizioni climatiche, come giàaccennammo, si riflettevano anche sulla fauna da cuitraeva il suo nutrimento, operandovi grandi cambiamen-ti. Apparvero il cavallo e il bisonte; la renna iniziò il suolunghissimo regno in Europa, mentre ancora restavano,degli antichi animali, il rinoceronte e il mammut. Questinuovi animali non avevano una dimora fissa, ma si aggi-ravano in aree più o meno vaste, cercando un rifugio daigelidi venti, oltre al pascolo che offrivano le rare tundre.La fame spingeva l’uomo a seguirli. Le giornate eranogrigie e fredde; soffiavano venti ingrati e il suolo eraduro e pungente quanto il silice. E durante le lunghenotti, i cacciatori tremanti di freddo si rinserravano at-torno al fuoco, e con occhi dilatati di terrore guardavanoi vuoti lasciati dai compagni che mai più sarebbero ri-tornati; e sapevano che li avrebbero ritrovati poi copertidi neve, immobili e inerti; che il loro spirito era partitoper una caccia donde non avrebbe più fatto ritorno.

Durante quelle lunghe notti, in qualcuno di quei ne-bulosi cervelli deve aver preso corpo l’idea di impadro-nirsi ancor più decisamente del Fuoco, creandolo secon-do la propria volontà piuttosto che accettandolo dallemani della natura. Una decisione simile deve essersi for-

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chè un processo di fabbricazione tanto faticoso, se noncon l’intenzione di ottenere un proiettile da scagliare adistanza?

Non c’è dubbio che tutte queste invenzioni nuove equesti perfezionamenti di altre antiche, migliorasserograndemente i rapporti tra l’uomo e il suo ambiente. Manon bastava ancora. Le condizioni climatiche, come giàaccennammo, si riflettevano anche sulla fauna da cuitraeva il suo nutrimento, operandovi grandi cambiamen-ti. Apparvero il cavallo e il bisonte; la renna iniziò il suolunghissimo regno in Europa, mentre ancora restavano,degli antichi animali, il rinoceronte e il mammut. Questinuovi animali non avevano una dimora fissa, ma si aggi-ravano in aree più o meno vaste, cercando un rifugio daigelidi venti, oltre al pascolo che offrivano le rare tundre.La fame spingeva l’uomo a seguirli. Le giornate eranogrigie e fredde; soffiavano venti ingrati e il suolo eraduro e pungente quanto il silice. E durante le lunghenotti, i cacciatori tremanti di freddo si rinserravano at-torno al fuoco, e con occhi dilatati di terrore guardavanoi vuoti lasciati dai compagni che mai più sarebbero ri-tornati; e sapevano che li avrebbero ritrovati poi copertidi neve, immobili e inerti; che il loro spirito era partitoper una caccia donde non avrebbe più fatto ritorno.

Durante quelle lunghe notti, in qualcuno di quei ne-bulosi cervelli deve aver preso corpo l’idea di impadro-nirsi ancor più decisamente del Fuoco, creandolo secon-do la propria volontà piuttosto che accettandolo dallemani della natura. Una decisione simile deve essersi for-

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mata nella mente di vari uomini, a diversi momenti e indiverse parti del mondo. Prometeo aveva molti fratelli.Ma prima di concretarsi doveva sorgere allo stato diidea e pensiero. L’uomo guardiano del Fuoco e l’uomoCreatore del Fuoco sono due esseri ben diversi.

Esistono almeno otto maniere di produrre il fuoco permezzo dello strofinio, ma l’ambiente e i mezzi tecnicidell’uomo primitivo non ne permettevano che due. Èpossibile ottenere scintille dal silice per mezzo dell’urtocon la pirite di ferro; sistema noto e praticato dagliEsquimesi, i quali sono considerati i discendenti cultura-li degli ultimi uomini del Ghiaccio. Sappiamo altresìche la pirite del ferro, esposta all’aria, tende a disinte-grarsi. Ma l’assenza di questo minerale nelle cavernedell’Uomo Mousteriano non esclude che egli se ne siaservito, poichè ne aveva a sua disposizione in quantità.Tuttavia, siamo più proclivi a credere che il metodo in-ventato sia stato quello largamente diffuso dei due pezzidi legno soffregati l’uno contro l’altro. La vasta diffu-sione di una tecnica non è, naturalmente, una provacompleta della sua antichità. Il sistema dello strofinío fuusato fino a tempi recenti in Europa, in tutta l’Asia el’Africa, in certe isole oceaniche e nelle due Americhe;è il più diffuso per produrre il fuoco, ed è una tra le piùuniversali conquiste meccaniche dell’uomo.

All’Uomo Mousteriano non sarà sfuggito che nel ri-pulire le punte delle sue lancie, strofinandole egli gene-rava un certo calore. Gli appetiti del fuoco gli erano bennoti; egli sapeva che preferiva il legno alla pietra. Per

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mata nella mente di vari uomini, a diversi momenti e indiverse parti del mondo. Prometeo aveva molti fratelli.Ma prima di concretarsi doveva sorgere allo stato diidea e pensiero. L’uomo guardiano del Fuoco e l’uomoCreatore del Fuoco sono due esseri ben diversi.

Esistono almeno otto maniere di produrre il fuoco permezzo dello strofinio, ma l’ambiente e i mezzi tecnicidell’uomo primitivo non ne permettevano che due. Èpossibile ottenere scintille dal silice per mezzo dell’urtocon la pirite di ferro; sistema noto e praticato dagliEsquimesi, i quali sono considerati i discendenti cultura-li degli ultimi uomini del Ghiaccio. Sappiamo altresìche la pirite del ferro, esposta all’aria, tende a disinte-grarsi. Ma l’assenza di questo minerale nelle cavernedell’Uomo Mousteriano non esclude che egli se ne siaservito, poichè ne aveva a sua disposizione in quantità.Tuttavia, siamo più proclivi a credere che il metodo in-ventato sia stato quello largamente diffuso dei due pezzidi legno soffregati l’uno contro l’altro. La vasta diffu-sione di una tecnica non è, naturalmente, una provacompleta della sua antichità. Il sistema dello strofinío fuusato fino a tempi recenti in Europa, in tutta l’Asia el’Africa, in certe isole oceaniche e nelle due Americhe;è il più diffuso per produrre il fuoco, ed è una tra le piùuniversali conquiste meccaniche dell’uomo.

All’Uomo Mousteriano non sarà sfuggito che nel ri-pulire le punte delle sue lancie, strofinandole egli gene-rava un certo calore. Gli appetiti del fuoco gli erano bennoti; egli sapeva che preferiva il legno alla pietra. Per

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associazione di idee sarà arrivato a strofinare legno con-tro legno, sviluppando così un primo rudimentale meto-do per produrre il fuoco.

Ormai l’uomo ha al suo servizio una forza superiorealle altre forze naturali, un controllo sul suo ambienteche finora gli era mancato e che non abbandonerà maipiù. Ora egli può portarsi dietro quanto gli occorre perprodurre il fuoco a piacimento. Egli è in grado di segui-re le migrazioni delle grandi mandre, fatto forte dallacertezza di poter disporre di luce e di calore ovunque sitrovi e quando ne sorga il bisogno. Non è da stupirsi,dunque, ch’egli abbia signoreggiato un’immensa areacontinentale: la tecnica della produzione del fuoco lo af-francava dall’antico legame del fuoco comune, mentregliene assicurava tutti i benefici. Egli era in grado diviaggiare: era un uomo completo.

Ma l’immaginazione, che sì validamente aveva tenutotesta alle difficoltà materiali, creava ora per l’uomo invi-sibili terrori – la paura dei morti e l’alba della magia. Inquella lontanissima età, l’uomo inizia l’uso universaledelle cerimonie funebri. Nelle tombe dell’uomo preisto-rico, noi troviamo gli arnesi di pietra usati in vita, leossa d’animali di cui si è nutrito, e le sue stesse ossasono spesso colorate con ocra e manganese: i pigmentirossi e neri universalmente associati con la magia e ilculto dei morti. Nei suoi sogni, l’uomo ha visto ritornarei morti, sotto forma di spiriti maligni e infinitamente piùterribili dei vivi! E nell’idea della magia egli cercascampo e protezione contro gli irati spettri dei compa-

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associazione di idee sarà arrivato a strofinare legno con-tro legno, sviluppando così un primo rudimentale meto-do per produrre il fuoco.

Ormai l’uomo ha al suo servizio una forza superiorealle altre forze naturali, un controllo sul suo ambienteche finora gli era mancato e che non abbandonerà maipiù. Ora egli può portarsi dietro quanto gli occorre perprodurre il fuoco a piacimento. Egli è in grado di segui-re le migrazioni delle grandi mandre, fatto forte dallacertezza di poter disporre di luce e di calore ovunque sitrovi e quando ne sorga il bisogno. Non è da stupirsi,dunque, ch’egli abbia signoreggiato un’immensa areacontinentale: la tecnica della produzione del fuoco lo af-francava dall’antico legame del fuoco comune, mentregliene assicurava tutti i benefici. Egli era in grado diviaggiare: era un uomo completo.

Ma l’immaginazione, che sì validamente aveva tenutotesta alle difficoltà materiali, creava ora per l’uomo invi-sibili terrori – la paura dei morti e l’alba della magia. Inquella lontanissima età, l’uomo inizia l’uso universaledelle cerimonie funebri. Nelle tombe dell’uomo preisto-rico, noi troviamo gli arnesi di pietra usati in vita, leossa d’animali di cui si è nutrito, e le sue stesse ossasono spesso colorate con ocra e manganese: i pigmentirossi e neri universalmente associati con la magia e ilculto dei morti. Nei suoi sogni, l’uomo ha visto ritornarei morti, sotto forma di spiriti maligni e infinitamente piùterribili dei vivi! E nell’idea della magia egli cercascampo e protezione contro gli irati spettri dei compa-

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gni. Nè i suoi terrori ed esorcismi si limitano a spiritiumani. Anche quelli animali gli ispirano rispetto e pau-ra; specie il grande orso delle caverne ch’egli ha espro-priato, macellato e mangiato, e delle cui spoglie si veste.Tra l’uomo e l’orso s’erano stabiliti curiosi rapporti.L’orso (già la sua abitudine di rizzarsi sulle zampe po-steriori doveva aver prodotto sull’uomo un’impressioneprofonda) di mala voglia aveva ceduto abitazione, ossae spoglia; non c’era dubbio che l’uomo avesse di chesentirsi pieno di rimorsi verso di esso. Donde i suoi ter-rori di spettri di orsi, terribili esseri immuni a ogni arma.Gli innumerevoli teschi d’orsi trovati nelle caverne nonpossono spiegarsi unicamente come trofei di caccia: era-no certo qualcosa di più. In una sola caverna sono statiscoperti ben 800 di quei macabri gingilli. L’Uomo Mou-steriano aveva il coraggio delle proprie convinzioni, eandava a fondo delle cose.

Per esperienza propria l’uomo sapeva che quandocolpiva il cranio dell’orso, ne usciva uno spirito invisi-bile, e la pericolosa fiera si mutava in un inerte ammas-so di buona carne nutriente e di utili ossa e pelliccia.Dove se ne andava quell’essenza? E non era essa che ri-tornava in visioni d’incubo? Conservando il cranio dellabelva, non si poteva in qualche modo prevenire o scac-ciare quei notturni pericoli? Se di giorno l’uomo era riu-scito a vincere l’orso vivo, non intendeva che di notte lospettro di questo stesso orso signoreggiasse la sua ani-ma. Qui l’uomo si affaccia al buio regno della magia,per lottare contro le forze occulte.

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gni. Nè i suoi terrori ed esorcismi si limitano a spiritiumani. Anche quelli animali gli ispirano rispetto e pau-ra; specie il grande orso delle caverne ch’egli ha espro-priato, macellato e mangiato, e delle cui spoglie si veste.Tra l’uomo e l’orso s’erano stabiliti curiosi rapporti.L’orso (già la sua abitudine di rizzarsi sulle zampe po-steriori doveva aver prodotto sull’uomo un’impressioneprofonda) di mala voglia aveva ceduto abitazione, ossae spoglia; non c’era dubbio che l’uomo avesse di chesentirsi pieno di rimorsi verso di esso. Donde i suoi ter-rori di spettri di orsi, terribili esseri immuni a ogni arma.Gli innumerevoli teschi d’orsi trovati nelle caverne nonpossono spiegarsi unicamente come trofei di caccia: era-no certo qualcosa di più. In una sola caverna sono statiscoperti ben 800 di quei macabri gingilli. L’Uomo Mou-steriano aveva il coraggio delle proprie convinzioni, eandava a fondo delle cose.

Per esperienza propria l’uomo sapeva che quandocolpiva il cranio dell’orso, ne usciva uno spirito invisi-bile, e la pericolosa fiera si mutava in un inerte ammas-so di buona carne nutriente e di utili ossa e pelliccia.Dove se ne andava quell’essenza? E non era essa che ri-tornava in visioni d’incubo? Conservando il cranio dellabelva, non si poteva in qualche modo prevenire o scac-ciare quei notturni pericoli? Se di giorno l’uomo era riu-scito a vincere l’orso vivo, non intendeva che di notte lospettro di questo stesso orso signoreggiasse la sua ani-ma. Qui l’uomo si affaccia al buio regno della magia,per lottare contro le forze occulte.

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Da questo momento in poi, egli avrà maggior cura deisuoi morti. Non vogliamo dar troppa importanza ad al-cune centinaia di crani d’orsi, a pochi grumi di ocra ros-sa e a qualche osso dipinto trovati nelle caverne, ma èun fatto che queste cose si ritrovano nelle caverne delmondo intero, ovunque è traccia dell’uomo preistorico. Icrani dipinti dell’Uomo di Peiping, in Cina, in certo sen-so collegano in una simultaneità di pensiero le anticheciviltà dei due continenti, e non meno degli arnesi dipietra.

Nell’età susseguente troveremo una varietà infinita-mente maggiore di arnesi, una sempre maggiore perfe-zione nella loro fabbricazione. Accanto a questo pro-gresso nella tecnica, si constata una maggior raffinatez-za nelle forme di magia, la cui importanza diventa sem-pre più evidente. Ma al tempo stesso dobbiamo consta-tare come questa creatura affine a noi, questo uomo pre-istorico il quale seppe far fronte al terrore dei ghiacci,scatenò anche nel mondo una terribile paura – una paurache avrebbe riempito il mondo di orrore e di crudeltà eintorpidito lo spirito umano, e che ancora non è dilegua-ta. Il Becchino e lo Stregone sono sopravvissuti sinoall’età della scienza; non accennano a perder la loro im-portanza, nè a voler scomparire.

L’Uomo Mousteriano s’era comportato bene. Ricapi-tolando: aveva inventato nuovi sistemi per lavorare gliarnesi – la prima rivoluzione tecnica in 400.000 anni ogiù di lì; possedeva una maggior varietà di arnesi degliominidi suoi predecessori. Sembra che a lui si debba

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Da questo momento in poi, egli avrà maggior cura deisuoi morti. Non vogliamo dar troppa importanza ad al-cune centinaia di crani d’orsi, a pochi grumi di ocra ros-sa e a qualche osso dipinto trovati nelle caverne, ma èun fatto che queste cose si ritrovano nelle caverne delmondo intero, ovunque è traccia dell’uomo preistorico. Icrani dipinti dell’Uomo di Peiping, in Cina, in certo sen-so collegano in una simultaneità di pensiero le anticheciviltà dei due continenti, e non meno degli arnesi dipietra.

Nell’età susseguente troveremo una varietà infinita-mente maggiore di arnesi, una sempre maggiore perfe-zione nella loro fabbricazione. Accanto a questo pro-gresso nella tecnica, si constata una maggior raffinatez-za nelle forme di magia, la cui importanza diventa sem-pre più evidente. Ma al tempo stesso dobbiamo consta-tare come questa creatura affine a noi, questo uomo pre-istorico il quale seppe far fronte al terrore dei ghiacci,scatenò anche nel mondo una terribile paura – una paurache avrebbe riempito il mondo di orrore e di crudeltà eintorpidito lo spirito umano, e che ancora non è dilegua-ta. Il Becchino e lo Stregone sono sopravvissuti sinoall’età della scienza; non accennano a perder la loro im-portanza, nè a voler scomparire.

L’Uomo Mousteriano s’era comportato bene. Ricapi-tolando: aveva inventato nuovi sistemi per lavorare gliarnesi – la prima rivoluzione tecnica in 400.000 anni ogiù di lì; possedeva una maggior varietà di arnesi degliominidi suoi predecessori. Sembra che a lui si debba

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l’invenzione del nodo, e l’idea di arnesi e armi munitid’impugnatura o manico. Ebbe l’ispirazione di servirsidelle caverne come abitazioni; inventò il sistema perprodurre il fuoco a volontà, e se non propriamentel’indumento, un modo di coprirsi. Quale sia il Vahallaper il quale si sarà involato, gli auguriamo la felicitàeterna; fu un uomo valente e coraggioso.

Era necessario che l’uomo vedesse degli spiriti, e spi-riti malvagi, in tutte le cose, prima di poter vedere tuttele cose raccolte in un unico spirito benigno. L’uomo stri-scia, prima di camminare a quattro gambe: chissà che ungiorno non impari a camminare diritto intellettualmentenon meno che fisicamente.

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l’invenzione del nodo, e l’idea di arnesi e armi munitid’impugnatura o manico. Ebbe l’ispirazione di servirsidelle caverne come abitazioni; inventò il sistema perprodurre il fuoco a volontà, e se non propriamentel’indumento, un modo di coprirsi. Quale sia il Vahallaper il quale si sarà involato, gli auguriamo la felicitàeterna; fu un uomo valente e coraggioso.

Era necessario che l’uomo vedesse degli spiriti, e spi-riti malvagi, in tutte le cose, prima di poter vedere tuttele cose raccolte in un unico spirito benigno. L’uomo stri-scia, prima di camminare a quattro gambe: chissà che ungiorno non impari a camminare diritto intellettualmentenon meno che fisicamente.

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V

LA FINE DEI GHIACCI

L’ALBA DELL’ELEGANZA

Secondo la paleoantropologia, le lunghe età che ab-biamo brevemente passato in rivista finora appartengo-no agli Ominidi, e non all’Homo Sapiens, l’uomo fisica-mente evoluto. Le eredità lasciate da questi antenati col-laterali dell’uomo sono state divise in gruppi speciali,denominati secondo i luoghi dove furono ritrovati i pro-totipi, situati per lo più in Francia, e nell’ordine seguen-te: Chelleano, Acheuleano superiore e inferiore, Mou-steriano o di Neanderthal.

In tempi recenti, civiltà affini e resti di ossa trovatifuori d’Europa sono stati classificati secondo la termi-nologia europea; ma ciò significa soltanto che i tipi eu-ropei sono meglio conosciuti, e non che le razze sianooriginarie dell’Europa o più antiche ivi che altrove. Nes-suna traccia di ominidi, tuttavia, è stata trovata finoranelle Americhe. La vita umana del Nuovo Mondo e nel-le isole del Pacifico risale alle medesime radici che inEuropa. Per ragioni sulle quali non ci soffermeremo per

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LA FINE DEI GHIACCI

L’ALBA DELL’ELEGANZA

Secondo la paleoantropologia, le lunghe età che ab-biamo brevemente passato in rivista finora appartengo-no agli Ominidi, e non all’Homo Sapiens, l’uomo fisica-mente evoluto. Le eredità lasciate da questi antenati col-laterali dell’uomo sono state divise in gruppi speciali,denominati secondo i luoghi dove furono ritrovati i pro-totipi, situati per lo più in Francia, e nell’ordine seguen-te: Chelleano, Acheuleano superiore e inferiore, Mou-steriano o di Neanderthal.

In tempi recenti, civiltà affini e resti di ossa trovatifuori d’Europa sono stati classificati secondo la termi-nologia europea; ma ciò significa soltanto che i tipi eu-ropei sono meglio conosciuti, e non che le razze sianooriginarie dell’Europa o più antiche ivi che altrove. Nes-suna traccia di ominidi, tuttavia, è stata trovata finoranelle Americhe. La vita umana del Nuovo Mondo e nel-le isole del Pacifico risale alle medesime radici che inEuropa. Per ragioni sulle quali non ci soffermeremo per

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ora, questo tipo è stato definito Homo Sapiens – cioè,l’Uomo della Conoscenza. Qualcuno troverà che la di-stinzione fra uomo e ominide sa un poco di affettazione,ma per le nostre teorie è cosa che non poniamo nemme-no in dubbio.

Noi non intendiamo punto discutere le pazienti fati-che degli antropologi. Il loro Homo Sapiens merita ogniconsiderazione. Non potremo mai saperne abbastanzasul conto suo; e certe distinzioni basate sui fatti sono es-senziali. Ma non possiamo neppur negare una certa no-stra parentela culturale con questi gnomi di un remotopassato, poichè le loro invenzioni nel campo della tecni-ca formano tuttora parte della nostra complessa culturamateriale.

Ogni misura di tempo non può essere che estrema-mente approssimativa per questa vaga età, e variaall’insorger di ogni nuova teoria. Ma, se è vero che super giù ci si può basare sui 500.000 anni, dai giorni incui un ominide fabbricò il più rudimentale arnese allanostra epoca, 450.000 di questi anni appartengonoall’ominide e 50.000 soltanto all’uomo.

Fra le invenzioni del periodo anteriore e più lungodobbiamo includere la scoperta e il perfezionamentodella pietra scheggiata e dell’arma a punta, due specie ditecniche litiche; la scoperta e conservazione del fuoconaturale e, verso la fine del periodo degli ominidi,l’invenzione del mezzo per produrre il fuoco a volontà.La prova palese di caccie di selvaggina grossa implicauna specie di organizzazione sociale, così come la cura

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ora, questo tipo è stato definito Homo Sapiens – cioè,l’Uomo della Conoscenza. Qualcuno troverà che la di-stinzione fra uomo e ominide sa un poco di affettazione,ma per le nostre teorie è cosa che non poniamo nemme-no in dubbio.

Noi non intendiamo punto discutere le pazienti fati-che degli antropologi. Il loro Homo Sapiens merita ogniconsiderazione. Non potremo mai saperne abbastanzasul conto suo; e certe distinzioni basate sui fatti sono es-senziali. Ma non possiamo neppur negare una certa no-stra parentela culturale con questi gnomi di un remotopassato, poichè le loro invenzioni nel campo della tecni-ca formano tuttora parte della nostra complessa culturamateriale.

Ogni misura di tempo non può essere che estrema-mente approssimativa per questa vaga età, e variaall’insorger di ogni nuova teoria. Ma, se è vero che super giù ci si può basare sui 500.000 anni, dai giorni incui un ominide fabbricò il più rudimentale arnese allanostra epoca, 450.000 di questi anni appartengonoall’ominide e 50.000 soltanto all’uomo.

Fra le invenzioni del periodo anteriore e più lungodobbiamo includere la scoperta e il perfezionamentodella pietra scheggiata e dell’arma a punta, due specie ditecniche litiche; la scoperta e conservazione del fuoconaturale e, verso la fine del periodo degli ominidi,l’invenzione del mezzo per produrre il fuoco a volontà.La prova palese di caccie di selvaggina grossa implicauna specie di organizzazione sociale, così come la cura

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del fuoco comune. E stando ai fatti, non ci vorrà moltafantasia per immaginare una primitiva forma di simbolifonetici o di un linguaggio simile all’umano. L’ominideera lento ad attuare le sue idee; ma non dimentichiamoche, se non proprio nella carne, egli fu nostro antenatonello spirito.

La principale «invenzione» dell’ominide fu, forse,l’uomo moderno. L’uso dei suoi grossolani arnesi stabi-liva una nuova relazione, altrimenti impossibile, fra oc-chio, cervello e mani. Il progresso degli arnesi e il lorodiffondersi rendeva possibile, anzi imponeva una natu-rale selezione fra gli ominidi più dotati di abilità manua-le. Il cervello è l’unico motore che mai sia stato escogi-tato per trasmettere la forza del pensiero, e capace di ca-ricarsi del voltaggio dell’ispirazione. La mano è il piùcomplicato e perfetto strumento per eseguire ciò che ilpensiero vuole. L’uomo moderno sarebbe dunque il ri-sultato fisico di secoli di esercizio e di esperienzed’arnesi e di memoria, basate sull’influsso di esperimen-ti ed errori, sui tessuti fisici, sulle ossa e sui nervi. Odobbiamo piuttosto affermare ch’egli è l’espressionemateriale di mezzo milione di anni di pensiero?

Gli ultimi 50.000 anni, si è detto, appartengono a raz-ze umane del nostro tipo. Anche qui è esclusa ogni ap-prossimativa precisione storica di date. Si può forse direche 30.000 anni appartengano a quelle civiltà materialiche ancora non includono animali e vegetali domestici,lavori a telaio e di vasellami, la ruota e i metalli. Con glialbori di queste invenzioni ci troveremo all’Epoca Neo-

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del fuoco comune. E stando ai fatti, non ci vorrà moltafantasia per immaginare una primitiva forma di simbolifonetici o di un linguaggio simile all’umano. L’ominideera lento ad attuare le sue idee; ma non dimentichiamoche, se non proprio nella carne, egli fu nostro antenatonello spirito.

La principale «invenzione» dell’ominide fu, forse,l’uomo moderno. L’uso dei suoi grossolani arnesi stabi-liva una nuova relazione, altrimenti impossibile, fra oc-chio, cervello e mani. Il progresso degli arnesi e il lorodiffondersi rendeva possibile, anzi imponeva una natu-rale selezione fra gli ominidi più dotati di abilità manua-le. Il cervello è l’unico motore che mai sia stato escogi-tato per trasmettere la forza del pensiero, e capace di ca-ricarsi del voltaggio dell’ispirazione. La mano è il piùcomplicato e perfetto strumento per eseguire ciò che ilpensiero vuole. L’uomo moderno sarebbe dunque il ri-sultato fisico di secoli di esercizio e di esperienzed’arnesi e di memoria, basate sull’influsso di esperimen-ti ed errori, sui tessuti fisici, sulle ossa e sui nervi. Odobbiamo piuttosto affermare ch’egli è l’espressionemateriale di mezzo milione di anni di pensiero?

Gli ultimi 50.000 anni, si è detto, appartengono a raz-ze umane del nostro tipo. Anche qui è esclusa ogni ap-prossimativa precisione storica di date. Si può forse direche 30.000 anni appartengano a quelle civiltà materialiche ancora non includono animali e vegetali domestici,lavori a telaio e di vasellami, la ruota e i metalli. Con glialbori di queste invenzioni ci troveremo all’Epoca Neo-

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litica, che in realtà non è l’ultima delle Età della Pietra,ma la prima epoca moderna. Questo capitolo è dedicatoalle epoche antecedenti e alle invenzioni del primouomo fisicamente moderno.

Nulla separa tanto chiaramente questa età dal passato,quanto la prima espressione delle arti grafiche. La magi-ca ocra rossa e il nero manganese dell’Uomo Mousteria-no, i suoi sbiancati crani d’orsi e i suoi primitivi funeralici suggeriscono l’idea, anzi l’invenzione di visioni disogno o spettri. Ma ai suoi sogni e terrori egli univa ungrande coraggio; e lottava per propiziarsi e forse domi-nare il mondo della propria immaginazione, per mezzodelle arti creative che erano il suo patrimonio inventivo.In molte altre parti del mondo altre razze, che si trova-vano ai medesimi stadî di civiltà, hanno fatto altrettanto,e poco meno al disotto di questi primi artisti dell’EpocaGlaciale.

Sculture in avorio, incisioni con una rozza punta dipietra, modellazioni con argilla, pitture monocrome epolicrome: ecco queste arti dell’uomo primitivo. Nonc’è dubbio che molte sue opere rivelino una discretaespressività, e più ancora, una compiuta abilità manuale;ma la maggioranza in genere è cruda, nè va al disopradella media di numerosi altri tentativi artistici della prei-storia.

Gli spiriti romantici si riferiscono alle caverne dipintedi Francia e di Spagna come alle prime gallerie d’arte.Se l’intenzione era tale, questo non è tuttavia un compli-mento. La galleria d’arte ortodossa è un luogo dove la

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litica, che in realtà non è l’ultima delle Età della Pietra,ma la prima epoca moderna. Questo capitolo è dedicatoalle epoche antecedenti e alle invenzioni del primouomo fisicamente moderno.

Nulla separa tanto chiaramente questa età dal passato,quanto la prima espressione delle arti grafiche. La magi-ca ocra rossa e il nero manganese dell’Uomo Mousteria-no, i suoi sbiancati crani d’orsi e i suoi primitivi funeralici suggeriscono l’idea, anzi l’invenzione di visioni disogno o spettri. Ma ai suoi sogni e terrori egli univa ungrande coraggio; e lottava per propiziarsi e forse domi-nare il mondo della propria immaginazione, per mezzodelle arti creative che erano il suo patrimonio inventivo.In molte altre parti del mondo altre razze, che si trova-vano ai medesimi stadî di civiltà, hanno fatto altrettanto,e poco meno al disotto di questi primi artisti dell’EpocaGlaciale.

Sculture in avorio, incisioni con una rozza punta dipietra, modellazioni con argilla, pitture monocrome epolicrome: ecco queste arti dell’uomo primitivo. Nonc’è dubbio che molte sue opere rivelino una discretaespressività, e più ancora, una compiuta abilità manuale;ma la maggioranza in genere è cruda, nè va al disopradella media di numerosi altri tentativi artistici della prei-storia.

Gli spiriti romantici si riferiscono alle caverne dipintedi Francia e di Spagna come alle prime gallerie d’arte.Se l’intenzione era tale, questo non è tuttavia un compli-mento. La galleria d’arte ortodossa è un luogo dove la

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pittura è trattata come un elemento prezioso e raro, de-gno d’esser separato e protetto dalla vita, nonchè appar-tenente a tempi passati e presumibilmente più ricchid’ingegno. Di tempi simili l’Uomo Paleolitico non ha ilconcetto. Egli basta a se stesso; le sue opere d’arte ave-vano lo scopo pratico di stabilire un accordo tra le forzesoprannaturali e le difficoltà materiali cui egli dovevafar fronte nella vita quotidiana. Non erano dunque robadi tutti i giorni quale è l’Arte; erano Magia.

Un’espressione così completa ed elegante dell’occul-to doveva avere uno sfondo d’esperienza che per noi siperde nella notte dei tempi. Ma il significato dello sfor-zo è tanto chiaro, che ci permette di interpretare l’inten-zione almeno.

Le figurine d’avorio di donne incinte che risalgono alPeriodo Aurignaciano fanno evidentemente parte di ritipropiziatori per la fecondità, per assicurare alle tribù lacontinuità della razza. E le forme modellate di animali,maschili e femminili, sono preghiere grafiche alla divi-nità, per l’accrescimento delle mandre selvagge cheall’uomo fornivano la carne per nutrirsi. Le sue cogni-zioni della loro fisiologia e delle loro abitudini formaro-no la base sulla quale migliaia di anni più tardi egli im-parò a domare o a render domestiche alcune razze diquesti animali.

La caccia a queste mandre era cosa assai diversadall’uccisione di singoli animali, per quanto possenti,nelle Età che precedono il Ghiaccio e la concentrazionedegli animali in branchi o mandre. In passato, l’intelli-

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pittura è trattata come un elemento prezioso e raro, de-gno d’esser separato e protetto dalla vita, nonchè appar-tenente a tempi passati e presumibilmente più ricchid’ingegno. Di tempi simili l’Uomo Paleolitico non ha ilconcetto. Egli basta a se stesso; le sue opere d’arte ave-vano lo scopo pratico di stabilire un accordo tra le forzesoprannaturali e le difficoltà materiali cui egli dovevafar fronte nella vita quotidiana. Non erano dunque robadi tutti i giorni quale è l’Arte; erano Magia.

Un’espressione così completa ed elegante dell’occul-to doveva avere uno sfondo d’esperienza che per noi siperde nella notte dei tempi. Ma il significato dello sfor-zo è tanto chiaro, che ci permette di interpretare l’inten-zione almeno.

Le figurine d’avorio di donne incinte che risalgono alPeriodo Aurignaciano fanno evidentemente parte di ritipropiziatori per la fecondità, per assicurare alle tribù lacontinuità della razza. E le forme modellate di animali,maschili e femminili, sono preghiere grafiche alla divi-nità, per l’accrescimento delle mandre selvagge cheall’uomo fornivano la carne per nutrirsi. Le sue cogni-zioni della loro fisiologia e delle loro abitudini formaro-no la base sulla quale migliaia di anni più tardi egli im-parò a domare o a render domestiche alcune razze diquesti animali.

La caccia a queste mandre era cosa assai diversadall’uccisione di singoli animali, per quanto possenti,nelle Età che precedono il Ghiaccio e la concentrazionedegli animali in branchi o mandre. In passato, l’intelli-

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genza dell’uomo si era trovata alle prese con la stupiditàdi un singolo animale, ma ora l’uomo doveva impiegareil proprio raziocinio e coraggio contro la mandra, abile eforte a difendersi contro le altre bestie da preda, nonescluso l’uomo. È nota la ferocia di tutti i ruminantiquando sono uniti in branco. Per migliaia di secolil’uomo ha dovuto venirne a capo; e ai tempi nostri lalotta non è finita ancora. La necessità costringe l’UomoMousteriano a inventare armi da tiro, trappole più perfe-zionate, oltre a tutta una organizzazione venatoria. Que-sti metodi si riflettono in un maggior coordinamento so-ciale e nella magia.

Le pareti delle caverne preistoriche sono tappezzatedi queste «opere d’arte»: pitture che rappresentano bel-ve colpite in punti vitali, spesso con le freccie ancoraconficcate nelle ferite. Queste pitture sono rogazioniallo spirito della caccia, affinchè i proiettili colpiscanonel segno, e l’uomo possa abbattere l’utile preda a dove-rosa distanza. Così dunque l’uomo inventò la magiacome aveva inventato l’arma da tiro, per uno scopo pra-tico, e non soltanto come arte per il piacere dell’arte eper soddisfare le proprie vanità. È constatato che moltetra le più celebri di queste opere d’arte si trovano in par-ti delle caverne dove non giunge la luce del giorno, e inspazi così ristretti che pochi individui alla volta avrannopotuto vederle, e solo alla luce artificiale. Esse non era-no dunque destinate alla massa, ma a un ristretto gruppodi iniziati.

E qui incontriamo per la prima volta una lampada for-

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genza dell’uomo si era trovata alle prese con la stupiditàdi un singolo animale, ma ora l’uomo doveva impiegareil proprio raziocinio e coraggio contro la mandra, abile eforte a difendersi contro le altre bestie da preda, nonescluso l’uomo. È nota la ferocia di tutti i ruminantiquando sono uniti in branco. Per migliaia di secolil’uomo ha dovuto venirne a capo; e ai tempi nostri lalotta non è finita ancora. La necessità costringe l’UomoMousteriano a inventare armi da tiro, trappole più perfe-zionate, oltre a tutta una organizzazione venatoria. Que-sti metodi si riflettono in un maggior coordinamento so-ciale e nella magia.

Le pareti delle caverne preistoriche sono tappezzatedi queste «opere d’arte»: pitture che rappresentano bel-ve colpite in punti vitali, spesso con le freccie ancoraconficcate nelle ferite. Queste pitture sono rogazioniallo spirito della caccia, affinchè i proiettili colpiscanonel segno, e l’uomo possa abbattere l’utile preda a dove-rosa distanza. Così dunque l’uomo inventò la magiacome aveva inventato l’arma da tiro, per uno scopo pra-tico, e non soltanto come arte per il piacere dell’arte eper soddisfare le proprie vanità. È constatato che moltetra le più celebri di queste opere d’arte si trovano in par-ti delle caverne dove non giunge la luce del giorno, e inspazi così ristretti che pochi individui alla volta avrannopotuto vederle, e solo alla luce artificiale. Esse non era-no dunque destinate alla massa, ma a un ristretto gruppodi iniziati.

E qui incontriamo per la prima volta una lampada for-

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mata da un recipiente simile a un piatto poco profondo,in cui bruciava grasso d’animale. A quelle cerimoniemagiche la luce era essenziale. Questa lampada soprav-visse nell’antico Egitto e a Sumer, nella Grecia e aRoma; era in uso nel Medioevo e nel Rinascimento; lavediamo tuttora nell’Africa del Nord; e gli Esquimesi sene servono sia per illuminazione che per cuocere il cibo.

Nella caverna detta dei Trois Frères, in Francia, ve-diamo un ritratto dell’Esorcista in persona. Il suo capo èornato di grandi palchi di cervo; sul viso porta una ma-schera belluina; è munito di ugne e zoccoli animaleschie di coda; e si appresta probabilmente a una danza magi-ca rituale per la fecondità della mandra e per la salvezzadei cacciatori. L’ufficio, ormai, poggia su una base pro-fessionale. Davanti all’Esorcista si estendono innumere-voli secoli, durante i quali l’uomo si torturerà con i ter-rori nati in seno alla sua fantasia, per confortarsi poi conle sue speranze. «Tu non permetterai a una strega di ri-manere in vita»: tale è il suo antico credo. Una fermacredenza nella stregoneria va dalla Grecia e da Romaantica, attraverso il Medioevo al Rinascimento, per fer-marsi appena alle soglie della Rivoluzione Industriale.Contro la stregoneria la Chiesa Cattolica e la Riformacondussero una spietata e vana guerra. L’unico modo diliberar l’animo umano da questa schiavitù in cui era ca-duto sarebbe stato di negare l’esistenza; di credere eproclamare che era ciò che era in realtà: un’Illusione.Come molti altri mali, non era che un frutto malvagiodella fantasia dell’uomo.

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mata da un recipiente simile a un piatto poco profondo,in cui bruciava grasso d’animale. A quelle cerimoniemagiche la luce era essenziale. Questa lampada soprav-visse nell’antico Egitto e a Sumer, nella Grecia e aRoma; era in uso nel Medioevo e nel Rinascimento; lavediamo tuttora nell’Africa del Nord; e gli Esquimesi sene servono sia per illuminazione che per cuocere il cibo.

Nella caverna detta dei Trois Frères, in Francia, ve-diamo un ritratto dell’Esorcista in persona. Il suo capo èornato di grandi palchi di cervo; sul viso porta una ma-schera belluina; è munito di ugne e zoccoli animaleschie di coda; e si appresta probabilmente a una danza magi-ca rituale per la fecondità della mandra e per la salvezzadei cacciatori. L’ufficio, ormai, poggia su una base pro-fessionale. Davanti all’Esorcista si estendono innumere-voli secoli, durante i quali l’uomo si torturerà con i ter-rori nati in seno alla sua fantasia, per confortarsi poi conle sue speranze. «Tu non permetterai a una strega di ri-manere in vita»: tale è il suo antico credo. Una fermacredenza nella stregoneria va dalla Grecia e da Romaantica, attraverso il Medioevo al Rinascimento, per fer-marsi appena alle soglie della Rivoluzione Industriale.Contro la stregoneria la Chiesa Cattolica e la Riformacondussero una spietata e vana guerra. L’unico modo diliberar l’animo umano da questa schiavitù in cui era ca-duto sarebbe stato di negare l’esistenza; di credere eproclamare che era ciò che era in realtà: un’Illusione.Come molti altri mali, non era che un frutto malvagiodella fantasia dell’uomo.

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Neppure la nostra illuminata epoca si è completamen-te liberata di una certa fede nella stregoneria. Questa so-pravvisse in pieno presso le razze primitive, e comeogni tanto ce ne fanno fede tristi testimonianze, pressocomunità rurali di tutti i paesi. Nè la stregoneria è com-pletamente assente dalle grandi città; se si facesse il cal-colo dei tributi pagati alla chiromanzia, all’astrologia ecartomanzia, e ai molti ciarlatani che vendono amuleti epolverine magiche, si vedrebbe che ammontano a milio-ni.

Non sappiamo se sia stato proprio l’Uomo Paleoliticoa inventare queste occulte assurdità, ma fu lui a lasciarcile prime prove visibili di un’attività professionale in talsenso.

Nel capitolo seguente, diremo delle prime ricerche escoperte della donna nel campo dei vegetali commesti-bili adatti a essere sfruttati industrialmente. A questosuo interesse si congiunga quello assai vivo per le pianteche hanno potere purgativo, narcotico, emetico. (Neivillaggi neolitici nei pressi dei Laghi Svizzeri furonotrovati semi di papavero, notoriamente un oppiaceo). Suqueste scoperte si fonda la medicina moderna; quasi tut-te le droghe usate nella moderna farmaceutica furonoelementi della magia primitiva. E vediamo così come lamedicina stessa non sia che un derivato dell’antica ma-gia.

Alla base dei nuovi arnesi che l’uomo inventò inquelle età stava, abbiamo accennato, una nuova tecnicadella lavorazione della pietra. Il suo genio creativo esi-

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Neppure la nostra illuminata epoca si è completamen-te liberata di una certa fede nella stregoneria. Questa so-pravvisse in pieno presso le razze primitive, e comeogni tanto ce ne fanno fede tristi testimonianze, pressocomunità rurali di tutti i paesi. Nè la stregoneria è com-pletamente assente dalle grandi città; se si facesse il cal-colo dei tributi pagati alla chiromanzia, all’astrologia ecartomanzia, e ai molti ciarlatani che vendono amuleti epolverine magiche, si vedrebbe che ammontano a milio-ni.

Non sappiamo se sia stato proprio l’Uomo Paleoliticoa inventare queste occulte assurdità, ma fu lui a lasciarcile prime prove visibili di un’attività professionale in talsenso.

Nel capitolo seguente, diremo delle prime ricerche escoperte della donna nel campo dei vegetali commesti-bili adatti a essere sfruttati industrialmente. A questosuo interesse si congiunga quello assai vivo per le pianteche hanno potere purgativo, narcotico, emetico. (Neivillaggi neolitici nei pressi dei Laghi Svizzeri furonotrovati semi di papavero, notoriamente un oppiaceo). Suqueste scoperte si fonda la medicina moderna; quasi tut-te le droghe usate nella moderna farmaceutica furonoelementi della magia primitiva. E vediamo così come lamedicina stessa non sia che un derivato dell’antica ma-gia.

Alla base dei nuovi arnesi che l’uomo inventò inquelle età stava, abbiamo accennato, una nuova tecnicadella lavorazione della pietra. Il suo genio creativo esi-

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geva strumenti specializzati e precisi; e per ottenerli egliinventò un metodo particolare, che consiste nello stacca-re una scaglia di silice da un pezzo accuratamente pre-parato, e nel darle poi la forma voluta mediante unapressione esercitata da un bastoncello di avorio o da unosso. L’uomo della Media Epoca Paleolitica (Solutrea-no) ha portato questa tecnica a una grande abilità: furo-no trovati coltelli a forma di foglie di lauro, lunghi oltretrenta centimetri, larghi circa sette, perfettamente sim-metrici e dello spessore di due millimetri e mezzo appe-na. Una bravura consimile, se non superiore, si trova inScandinavia, nell’Egitto predinastico e fra gli Aztechi.

Il nuovo metodo non era accidentale, del resto. Quelprimitivo stadio dell’invenzione sarebbe stato impossi-bile senza arnesi adatti, così come la nostra epoca sareb-be inconcepibile senza la pila di Volta, il tornio diMaudsley o certi strumenti di precisione sorti al princi-pio del XIX secolo. Verso la fine della preistoria, per isuoi strumenti più raffinati l’uomo si serve di osso, avo-rio, corna o difese d’animali; e di pietra e legno per gliarnesi.

Fra le invenzioni di quelle epoche notiamo: il propul-sore o atlatl; l’arpione; quelli che sembrano i resti di unsucchiello, per scopi industriali e per produrre il fuoco;una slitta che veniva tirata dall’uomo (se ne supponel’esistenza da un disegno inciso su un osso di renna); euna sorprendente sequela di arnesi di pietra, succhielli,raspe, seghe, scalpelli e sgorbie per la lavorazione dellegno, dell’osso e dell’avorio. Ma ai nostri occhi, la più

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geva strumenti specializzati e precisi; e per ottenerli egliinventò un metodo particolare, che consiste nello stacca-re una scaglia di silice da un pezzo accuratamente pre-parato, e nel darle poi la forma voluta mediante unapressione esercitata da un bastoncello di avorio o da unosso. L’uomo della Media Epoca Paleolitica (Solutrea-no) ha portato questa tecnica a una grande abilità: furo-no trovati coltelli a forma di foglie di lauro, lunghi oltretrenta centimetri, larghi circa sette, perfettamente sim-metrici e dello spessore di due millimetri e mezzo appe-na. Una bravura consimile, se non superiore, si trova inScandinavia, nell’Egitto predinastico e fra gli Aztechi.

Il nuovo metodo non era accidentale, del resto. Quelprimitivo stadio dell’invenzione sarebbe stato impossi-bile senza arnesi adatti, così come la nostra epoca sareb-be inconcepibile senza la pila di Volta, il tornio diMaudsley o certi strumenti di precisione sorti al princi-pio del XIX secolo. Verso la fine della preistoria, per isuoi strumenti più raffinati l’uomo si serve di osso, avo-rio, corna o difese d’animali; e di pietra e legno per gliarnesi.

Fra le invenzioni di quelle epoche notiamo: il propul-sore o atlatl; l’arpione; quelli che sembrano i resti di unsucchiello, per scopi industriali e per produrre il fuoco;una slitta che veniva tirata dall’uomo (se ne supponel’esistenza da un disegno inciso su un osso di renna); euna sorprendente sequela di arnesi di pietra, succhielli,raspe, seghe, scalpelli e sgorbie per la lavorazione dellegno, dell’osso e dell’avorio. Ma ai nostri occhi, la più

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preziosa di tutte le invenzioni è forse l’ago a cruna, oltrea un finissimo coltello di pietra per tagliare le pelliccedegli animali; e infine, il bottone e l’asola. Questo grup-po d’invenzioni, bene rappresentate in tutte le collezio-ni, stabilisce chiaramente e al di là d’ogni dubbio il fattoche furono gli uomini di questa epoca a inventare l’abitotagliato e cucito. La perfezione che solo l’ago può dare,e raffinatezze come bottoni e occhielli, poi, rappresenta-no già un’eleganza che va oltre il semplice scopo di ri-parar dal freddo. L’uomo aveva dunque imparato a ta-gliare, nelle pelli e pelliccie degli animali uccisi, abitiadatti al proprio corpo, a cucirli e a ornarli; poichè c’èanche di che supporre che fossero decorati: nelle caver-ne furono scoperte ben diciassette varietà di colori, e pa-recchi degli strumenti che dovevan servire alla decora-zione erano vere opere d’arte. Non c’è ragione di noncredere che questo senso dell’ornamento, magico o este-tico che fosse, ma innato nell’uomo, non trovasse la suaespressione anche nell’indumento umano.

Il professore Sollar è d’opinione che gli Esquimesisiano, se non i congiunti di sangue, i discendenti cultu-rali di questi uomini. Gli Esquimesi sono certo il popolopiù adeguatamente vestito della terra; i loro abiti si adat-tano all’ambiente e sono certamente eleganti, pittoreschie decorativi.

In questa epoca ci troviamo faccia a faccia con unodei fenomeni più importanti delle civiltà preistoriche eanche di quelle susseguenti: la diffusione dell’invenzio-ne meccanica. Alcuni tipi di arnesi erano diffusi anche

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preziosa di tutte le invenzioni è forse l’ago a cruna, oltrea un finissimo coltello di pietra per tagliare le pelliccedegli animali; e infine, il bottone e l’asola. Questo grup-po d’invenzioni, bene rappresentate in tutte le collezio-ni, stabilisce chiaramente e al di là d’ogni dubbio il fattoche furono gli uomini di questa epoca a inventare l’abitotagliato e cucito. La perfezione che solo l’ago può dare,e raffinatezze come bottoni e occhielli, poi, rappresenta-no già un’eleganza che va oltre il semplice scopo di ri-parar dal freddo. L’uomo aveva dunque imparato a ta-gliare, nelle pelli e pelliccie degli animali uccisi, abitiadatti al proprio corpo, a cucirli e a ornarli; poichè c’èanche di che supporre che fossero decorati: nelle caver-ne furono scoperte ben diciassette varietà di colori, e pa-recchi degli strumenti che dovevan servire alla decora-zione erano vere opere d’arte. Non c’è ragione di noncredere che questo senso dell’ornamento, magico o este-tico che fosse, ma innato nell’uomo, non trovasse la suaespressione anche nell’indumento umano.

Il professore Sollar è d’opinione che gli Esquimesisiano, se non i congiunti di sangue, i discendenti cultu-rali di questi uomini. Gli Esquimesi sono certo il popolopiù adeguatamente vestito della terra; i loro abiti si adat-tano all’ambiente e sono certamente eleganti, pittoreschie decorativi.

In questa epoca ci troviamo faccia a faccia con unodei fenomeni più importanti delle civiltà preistoriche eanche di quelle susseguenti: la diffusione dell’invenzio-ne meccanica. Alcuni tipi di arnesi erano diffusi anche

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prima per tutta la terra; il fatto più sorprendente restasempre la diffusione del metodo di produrre il fuoco permezzo dello strofinio. Come un’invenzione che risaleall’Uomo Mousteriano abbia potuto sorgere contempo-raneamente in paesi così distanti come l’Asia, la vecchiaEuropa, le due Americhe e l’Australia, è davvero ungrande mistero. Del resto, nell’Epoca Paleolitica ante-riore (l’ultima Epoca Glaciale) le invenzioni si diffondo-no quasi altrettanto rapidamente quanto nella Neolitica,o ai tempi nostri.

Consideriamo l’ago da cucire, che divenne così co-mune nell’epoca Magdaleniana5. Nell’Egitto predinasti-co era noto in due forme: una, il semplice ago forato incima, l’altra, caratteristica della tecnica del rame, di cuisi servivano gli Egiziani: la cima dell’ago veniva proba-bilmente arroventata, e poi ripiegata in modo da formareun occhiello per inserire il filamento che serviva a cuci-re. Per quel che ne sappiamo, però, gli Egiziani cuciva-no poco i loro indumenti; resta a credere che dell’ago siservivano per ricami decorativi.

Aghi a cruna e lesine si trovarono nei villaggi neoliti-ci intorno ai Laghi Svizzeri. Assieme agli aghi eranonoti indumenti tagliati e cuciti nel periodo della dinastiadel Chang, in Cina (1400 A. C.). L’ago è usato nelle tri-bù indigene Siberiane e dell’Alaska, che confezionanobegli abiti di pelliccia. Un lungo ago di legno con una

5 Così detta dalla località di La Madeleine (Dordogna) (N. d.Tr.).

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prima per tutta la terra; il fatto più sorprendente restasempre la diffusione del metodo di produrre il fuoco permezzo dello strofinio. Come un’invenzione che risaleall’Uomo Mousteriano abbia potuto sorgere contempo-raneamente in paesi così distanti come l’Asia, la vecchiaEuropa, le due Americhe e l’Australia, è davvero ungrande mistero. Del resto, nell’Epoca Paleolitica ante-riore (l’ultima Epoca Glaciale) le invenzioni si diffondo-no quasi altrettanto rapidamente quanto nella Neolitica,o ai tempi nostri.

Consideriamo l’ago da cucire, che divenne così co-mune nell’epoca Magdaleniana5. Nell’Egitto predinasti-co era noto in due forme: una, il semplice ago forato incima, l’altra, caratteristica della tecnica del rame, di cuisi servivano gli Egiziani: la cima dell’ago veniva proba-bilmente arroventata, e poi ripiegata in modo da formareun occhiello per inserire il filamento che serviva a cuci-re. Per quel che ne sappiamo, però, gli Egiziani cuciva-no poco i loro indumenti; resta a credere che dell’ago siservivano per ricami decorativi.

Aghi a cruna e lesine si trovarono nei villaggi neoliti-ci intorno ai Laghi Svizzeri. Assieme agli aghi eranonoti indumenti tagliati e cuciti nel periodo della dinastiadel Chang, in Cina (1400 A. C.). L’ago è usato nelle tri-bù indigene Siberiane e dell’Alaska, che confezionanobegli abiti di pelliccia. Un lungo ago di legno con una

5 Così detta dalla località di La Madeleine (Dordogna) (N. d.Tr.).

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specie di intacco in cima è in uso presso i popoli dellecoste di nord-ovest dell’America, per la lavorazione del-le stuoie di fibra vegetale. Tra i Pueblos indiani del Co-lorado e della California, tra gli «Abitatori delle Rocce»lungo il fiume Arkansas, l’ago è meno frequente; eraben noto, invece, ai Maya e agli Aztechi.

Nel Perù lo vediamo apparire sotto varie forme: dirame, di bronzo, d’oro, d’argento e di spine d’alberi.Come l’Egitto, anche il Perù ha la sua forma speciale,oltre l’ago a cruna. La parte superiore dell’ago è stataschiacciata e tagliata a triangolo, il cui apice si congiun-ge al corpo dell’ago. A metà della base del triangolo èstato lasciato un minuscolo nastro di metallo; i lati sonorivoltati in modo da formare un cono cavo, alla cui baseil nastrino di metallo, ripiegato, forma il cappio per in-serirvi il filamento. Al Perù, l’ago non serve che persemplici orli o cuciture di tessuti non tagliati; e l’usoprincipale è, anche qui, per ricami decorativi su stoffetessute.

Il lancia-freccie (il nome non è esatto, veramente, chèl’arco e la freccia appariranno solo molto più tardi) con-siste in un pezzo di legno o di osso, con una scanalaturaper inserirvi l’asta della lancia, la quale rimane fissataall’estremità. Il movimento di lancio è press’a pocoquello con cui i ragazzi scagliano una mela infissa incima a un bastoncello; e la portata e la precisione di tirodi questo grossolano strumento sono doppie almeno diquelle della lancia scagliata dalla mano. Lo vediamo inuso nelle civiltà Magdaleniane (le ultime dell’Epoca

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specie di intacco in cima è in uso presso i popoli dellecoste di nord-ovest dell’America, per la lavorazione del-le stuoie di fibra vegetale. Tra i Pueblos indiani del Co-lorado e della California, tra gli «Abitatori delle Rocce»lungo il fiume Arkansas, l’ago è meno frequente; eraben noto, invece, ai Maya e agli Aztechi.

Nel Perù lo vediamo apparire sotto varie forme: dirame, di bronzo, d’oro, d’argento e di spine d’alberi.Come l’Egitto, anche il Perù ha la sua forma speciale,oltre l’ago a cruna. La parte superiore dell’ago è stataschiacciata e tagliata a triangolo, il cui apice si congiun-ge al corpo dell’ago. A metà della base del triangolo èstato lasciato un minuscolo nastro di metallo; i lati sonorivoltati in modo da formare un cono cavo, alla cui baseil nastrino di metallo, ripiegato, forma il cappio per in-serirvi il filamento. Al Perù, l’ago non serve che persemplici orli o cuciture di tessuti non tagliati; e l’usoprincipale è, anche qui, per ricami decorativi su stoffetessute.

Il lancia-freccie (il nome non è esatto, veramente, chèl’arco e la freccia appariranno solo molto più tardi) con-siste in un pezzo di legno o di osso, con una scanalaturaper inserirvi l’asta della lancia, la quale rimane fissataall’estremità. Il movimento di lancio è press’a pocoquello con cui i ragazzi scagliano una mela infissa incima a un bastoncello; e la portata e la precisione di tirodi questo grossolano strumento sono doppie almeno diquelle della lancia scagliata dalla mano. Lo vediamo inuso nelle civiltà Magdaleniane (le ultime dell’Epoca

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Glaciale) fino all’Egitto predinastico, dove serviva percacciare l’ippopotamo e i grandi pesci del Nilo. Oggiancora è l’arma preferita degli indigeni Australiani, ed ènota in Siberia e nell’Alaska, dove l’uso continua insie-me a quello dell’arco e della freccia. Nel Perù preistori-co, presso i Maya, i Pueblos e gli Aztechi era al tempostesso arma da guerra e da caccia e scettro.

L’arpione appare sul finir dell’Epoca Glaciale; è inuso oggigiorno, nella sua forma primitiva, in quegli iso-lotti dell’Oceano Indiano dette le Isole Andamane; esotto varie forme è un’utilissima arma da caccia in Sibe-ria. Raggiunge il massimo sviluppo, la maggior varietà eperfezione nell’Alaska. Lo troviamo anche lungo l’inte-ra costa del Pacifico, dall’America del Nord, lungol’America del Sud fino alla Terra del Fuoco; e nel Brasi-le e nel Nicaragua, la punta della freccia che serve per lacaccia alla tartaruga ha ancora la stessa formadell’arpione preistorico. Infine, il principio dell’arpioneè rimasto anche nelle moderne baleniere, le quali lancia-no quel proiettile paleolitico per mezzo del cannone.

A Folson, nel Nuovo Messico, fu scoperto recente-mente un ammasso di ossa fossilizzate di bisonte, fra cuisi trovarono punte di silice, evidentemente cime di pro-iettili lanciati dal propulsore o lancia-freccie. La lavora-zione di queste punte ricorda curiosamente la tecnicaSolutrea, o della media civiltà Paeolitica. Si è stimatal’età di questi resti a quindici o ventimila anni fa; e ciòproverebbe l’esistenza della vita umana nelle Americheall’incirca al tempo dell’ultima Epoca del Ghiaccio in

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Glaciale) fino all’Egitto predinastico, dove serviva percacciare l’ippopotamo e i grandi pesci del Nilo. Oggiancora è l’arma preferita degli indigeni Australiani, ed ènota in Siberia e nell’Alaska, dove l’uso continua insie-me a quello dell’arco e della freccia. Nel Perù preistori-co, presso i Maya, i Pueblos e gli Aztechi era al tempostesso arma da guerra e da caccia e scettro.

L’arpione appare sul finir dell’Epoca Glaciale; è inuso oggigiorno, nella sua forma primitiva, in quegli iso-lotti dell’Oceano Indiano dette le Isole Andamane; esotto varie forme è un’utilissima arma da caccia in Sibe-ria. Raggiunge il massimo sviluppo, la maggior varietà eperfezione nell’Alaska. Lo troviamo anche lungo l’inte-ra costa del Pacifico, dall’America del Nord, lungol’America del Sud fino alla Terra del Fuoco; e nel Brasi-le e nel Nicaragua, la punta della freccia che serve per lacaccia alla tartaruga ha ancora la stessa formadell’arpione preistorico. Infine, il principio dell’arpioneè rimasto anche nelle moderne baleniere, le quali lancia-no quel proiettile paleolitico per mezzo del cannone.

A Folson, nel Nuovo Messico, fu scoperto recente-mente un ammasso di ossa fossilizzate di bisonte, fra cuisi trovarono punte di silice, evidentemente cime di pro-iettili lanciati dal propulsore o lancia-freccie. La lavora-zione di queste punte ricorda curiosamente la tecnicaSolutrea, o della media civiltà Paeolitica. Si è stimatal’età di questi resti a quindici o ventimila anni fa; e ciòproverebbe l’esistenza della vita umana nelle Americheall’incirca al tempo dell’ultima Epoca del Ghiaccio in

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Europa. Alcuni scienziati sono ancora riluttanti ad am-mettere tanta antichità della razza umana nelle Ameri-che; ma non ve ne sono forse che hanno i loro bravidubbi riguardo alla sfericità della terra?

Si crede che alcune stecche di avorio trovate in caver-ne Magdaleniane fossero parti di pompe e di succhielli.Questi ultimi servivano anche per forare il legno, l’ossoe l’avorio. La pompa e il succhiello erano noti nell’Egit-to predinastico, e ancora hanno mantenuto la medesimaforma presso gli Esquimesi e altre tribù dell’AmericaArtica.

Abbiamo accennato al rozzo disegno di una slitta, tro-vato su uno scapolare di renna. Ancora non c’è tracciadi animale da tiro, ma, se il disegno è veramente ciò chesupponiamo, sarebbe il primo veicolo, la prima inven-zione nella storia dei mezzi di trasporto.

C’è un preciso legame di tecnica fra le ultime epocheglaciali in Europa, e due industrie dei nostri tempi.L’arpione connette la moderna pesca della balena con lecaccie di trentamila anni fa; e tutta la sartoria modernasi fonda ancora sull’ago a cruna, sul bottone a occhielloe sugli strumenti da taglio: tutte cose che fanno la loroapparizione nelle epoche Paleolitiche anteriori, e che daallora in poi sono state in uso in varie parti del mondo.

Ma ci sembra che a questa lista di invenzioni ve nesia da aggiungere un’altra di massima importanza: quel-la delle strade, o quanto meno di piste che segnavanodirezioni e connettevano zone distanti. Era, questa,un’idea vitale, la quale permetteva all’uomo e alle sue

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Europa. Alcuni scienziati sono ancora riluttanti ad am-mettere tanta antichità della razza umana nelle Ameri-che; ma non ve ne sono forse che hanno i loro bravidubbi riguardo alla sfericità della terra?

Si crede che alcune stecche di avorio trovate in caver-ne Magdaleniane fossero parti di pompe e di succhielli.Questi ultimi servivano anche per forare il legno, l’ossoe l’avorio. La pompa e il succhiello erano noti nell’Egit-to predinastico, e ancora hanno mantenuto la medesimaforma presso gli Esquimesi e altre tribù dell’AmericaArtica.

Abbiamo accennato al rozzo disegno di una slitta, tro-vato su uno scapolare di renna. Ancora non c’è tracciadi animale da tiro, ma, se il disegno è veramente ciò chesupponiamo, sarebbe il primo veicolo, la prima inven-zione nella storia dei mezzi di trasporto.

C’è un preciso legame di tecnica fra le ultime epocheglaciali in Europa, e due industrie dei nostri tempi.L’arpione connette la moderna pesca della balena con lecaccie di trentamila anni fa; e tutta la sartoria modernasi fonda ancora sull’ago a cruna, sul bottone a occhielloe sugli strumenti da taglio: tutte cose che fanno la loroapparizione nelle epoche Paleolitiche anteriori, e che daallora in poi sono state in uso in varie parti del mondo.

Ma ci sembra che a questa lista di invenzioni ve nesia da aggiungere un’altra di massima importanza: quel-la delle strade, o quanto meno di piste che segnavanodirezioni e connettevano zone distanti. Era, questa,un’idea vitale, la quale permetteva all’uomo e alle sue

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invenzioni di muoversi, di camminare e di espandersi, edi arricchire così il patrimonio dell’umanità.

Per innumerevoli e negletti millenni, animosi caccia-tori percorsero l’Asia, l’Europa, l’Africa e forse anchele Americhe, inseguendo le grandi mandre degli anima-li, inventando per questo scopo armi e arnesi. Tantol’uomo quanto la bestia erano cacciati dal pungolo dellafame; le strade erano dure, interminabili. Eppure fu que-sta la grande scuola a cui imparò l’uomo preistorico.Spesso la preda eludeva l’inseguitore, e lo conducevaincontro a irreparabili catastrofi, nelle quali i cacciatoritrovavano una fine ingloriosa e obliata. Altre volte laselvaggina diventava rara, e l’uomo era costretto a di-fenderla contro belve rivali. Erano le donne, allora, cheandavano in cerca di cibo nel mondo vegetale, sfruttan-do tutto ciò che trovavano commestibile. In questomodo, la razza andava acquistando quella conoscenza dicerti animali e di certe piante, che in seguito sarebbe di-ventata il terreno per le più feconde invenzioni della ci-viltà.

Gli aspri bisogni delle molte vie percorse avevano in-segnato all’uomo la meccanica. Le bande erranti si era-no comunicate a vicenda le proprie esperienze. La Natu-ra era implacabile verso i deboli; di tempo in tempo simostrava stranamente benigna, e per qualche millenniol’uomo riposava, prima di riprendere la dura ascesa perla scala della civiltà.

Su per passi montani difesi da ghiacci eterni e da ter-ribili valanghe, attraverso cupe foreste impenetrabili e

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invenzioni di muoversi, di camminare e di espandersi, edi arricchire così il patrimonio dell’umanità.

Per innumerevoli e negletti millenni, animosi caccia-tori percorsero l’Asia, l’Europa, l’Africa e forse anchele Americhe, inseguendo le grandi mandre degli anima-li, inventando per questo scopo armi e arnesi. Tantol’uomo quanto la bestia erano cacciati dal pungolo dellafame; le strade erano dure, interminabili. Eppure fu que-sta la grande scuola a cui imparò l’uomo preistorico.Spesso la preda eludeva l’inseguitore, e lo conducevaincontro a irreparabili catastrofi, nelle quali i cacciatoritrovavano una fine ingloriosa e obliata. Altre volte laselvaggina diventava rara, e l’uomo era costretto a di-fenderla contro belve rivali. Erano le donne, allora, cheandavano in cerca di cibo nel mondo vegetale, sfruttan-do tutto ciò che trovavano commestibile. In questomodo, la razza andava acquistando quella conoscenza dicerti animali e di certe piante, che in seguito sarebbe di-ventata il terreno per le più feconde invenzioni della ci-viltà.

Gli aspri bisogni delle molte vie percorse avevano in-segnato all’uomo la meccanica. Le bande erranti si era-no comunicate a vicenda le proprie esperienze. La Natu-ra era implacabile verso i deboli; di tempo in tempo simostrava stranamente benigna, e per qualche millenniol’uomo riposava, prima di riprendere la dura ascesa perla scala della civiltà.

Su per passi montani difesi da ghiacci eterni e da ter-ribili valanghe, attraverso cupe foreste impenetrabili e

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deserti gelidi e sconfinate lande sabbiose, incandescentisotto un torrido sole, corre l’intrico degli innumerevolisentieri dell’uomo. Su queste medesime traccie, attra-verso l’Asia immutata e fuor d’ogni tempo, ancoral’uomo viaggia; e tra la polvere gli scienziati vanno spi-golando resti e memorie degli antichissimi cacciatori.Le prime vie degli eserciti, i primi itinerari commercialifurono un tempo le péste dei grandi armenti che l’uomoseguiva per procacciarsi il cibo quotidiano.

Non è dunque giustizia attribuire al cacciatore prei-storico l’invenzione della strada, che rendeva possibileall’uomo orientarsi e muoversi sulla faccia della terra?

In questo e in altri modi, difficili, forse impossibiliper noi a rintracciarsi, le più semplici invenzioni trasse-ro l’uomo a quelle altre e più complesse su cui si basa lanostra civiltà tecnica.

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deserti gelidi e sconfinate lande sabbiose, incandescentisotto un torrido sole, corre l’intrico degli innumerevolisentieri dell’uomo. Su queste medesime traccie, attra-verso l’Asia immutata e fuor d’ogni tempo, ancoral’uomo viaggia; e tra la polvere gli scienziati vanno spi-golando resti e memorie degli antichissimi cacciatori.Le prime vie degli eserciti, i primi itinerari commercialifurono un tempo le péste dei grandi armenti che l’uomoseguiva per procacciarsi il cibo quotidiano.

Non è dunque giustizia attribuire al cacciatore prei-storico l’invenzione della strada, che rendeva possibileall’uomo orientarsi e muoversi sulla faccia della terra?

In questo e in altri modi, difficili, forse impossibiliper noi a rintracciarsi, le più semplici invenzioni trasse-ro l’uomo a quelle altre e più complesse su cui si basa lanostra civiltà tecnica.

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VI

ANTICHI CACCIATORI E NUOVE CIVILTÀ

Il mondo moderno, incommensurabilmente ricco dicongegni tecnici, forme di ricchezze e varietà di istitu-zioni sociali, non s’inizia con l’invenzione della scrittu-ra, cioè con l’alba delle civiltà classiche, ma con dueidee fondamentali, sorte nella primordiale età di cui trat-teremo ora: la coltivazione delle piante e l’addomestica-zione degli animali.

L’antico nome di Neolitico, o della Nuova Pietra,male si addice a questa grande epoca, così come essa ciè nota. La nuova tecnica non include soltanto piante col-tivate e animali domestici, ma anche il telaio, l’arte delvasaio, quella di intrecciare le stuoie, e varie forme diruota; e la lavorazione del bronzo, del ferro e del rame;e costruzioni di villaggi e fortificazioni. La guerra orga-nizzata comincia a essere considerata un’occupazionenobile.

Si presume che, per quanto riguarda l’Europa Centra-le e Settentrionale, questa epoca risalga a circa 10.000anni fa. Naturalmente è assai più antica in altre partidella terra, dalle quali si propagò per l’Europa. Per

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ANTICHI CACCIATORI E NUOVE CIVILTÀ

Il mondo moderno, incommensurabilmente ricco dicongegni tecnici, forme di ricchezze e varietà di istitu-zioni sociali, non s’inizia con l’invenzione della scrittu-ra, cioè con l’alba delle civiltà classiche, ma con dueidee fondamentali, sorte nella primordiale età di cui trat-teremo ora: la coltivazione delle piante e l’addomestica-zione degli animali.

L’antico nome di Neolitico, o della Nuova Pietra,male si addice a questa grande epoca, così come essa ciè nota. La nuova tecnica non include soltanto piante col-tivate e animali domestici, ma anche il telaio, l’arte delvasaio, quella di intrecciare le stuoie, e varie forme diruota; e la lavorazione del bronzo, del ferro e del rame;e costruzioni di villaggi e fortificazioni. La guerra orga-nizzata comincia a essere considerata un’occupazionenobile.

Si presume che, per quanto riguarda l’Europa Centra-le e Settentrionale, questa epoca risalga a circa 10.000anni fa. Naturalmente è assai più antica in altre partidella terra, dalle quali si propagò per l’Europa. Per

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esempio, troviamo invenzioni neolitiche a Creta, circa14.000 anni A. C.; in Egitto 18.000 A. C. e a Susa (Per-sia) anche 20.000 anni A. C. Dalla Cina e dall’India sihanno testimonianze che indicano press’a poco la stessaantichità; nè certi particolari decisamente neolitici sononuovi nelle Americhe.

In tutte le età anteriori, l’uomo fu un cacciatore; in-ventore sempre più abile di armi e arnesi, sempre piùcomplesso nella sua organizzazione sociale, ma ancorasempre e soltanto cacciatore. Ora egli ha fatto un grandepasso in avanti, e sta per diventare un essere infinita-mente più complesso e difficile da analizzare.

Dall’Oriente, in due correnti costanti – una prove-niente dal Mar Nero lungo il corso del Danubio, l’altraforse dall’Africa, seguendo il Mediterraneo – uomininuovi con nuove idee giungevano all’Europa, ponendole basi del mondo quale lo conosciamo ora. Intanto,l’influenza di parecchie di queste invenzioni si facevasentire in molte altre e più remote parti del mondo; poi-chè questo movimento non era d’origine europea, nè li-mitato nei suoi effetti all’Europa. Esso toccava le Ame-riche, i deserti asiatici, l’Africa, la Cina e le isole del Pa-cifico. Fu il più universale fra i movimenti culturali,fino ai nostri giorni, e al pari della nostra età assorbìmolte altre culture antecedenti.

Immaginiamo che l’uomo, a un dato punto della suaevoluzione culturale, abbia rivolto all’antica arcigna nu-trice, la Natura, un discorso press’a poco in questi ter-mini:

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esempio, troviamo invenzioni neolitiche a Creta, circa14.000 anni A. C.; in Egitto 18.000 A. C. e a Susa (Per-sia) anche 20.000 anni A. C. Dalla Cina e dall’India sihanno testimonianze che indicano press’a poco la stessaantichità; nè certi particolari decisamente neolitici sononuovi nelle Americhe.

In tutte le età anteriori, l’uomo fu un cacciatore; in-ventore sempre più abile di armi e arnesi, sempre piùcomplesso nella sua organizzazione sociale, ma ancorasempre e soltanto cacciatore. Ora egli ha fatto un grandepasso in avanti, e sta per diventare un essere infinita-mente più complesso e difficile da analizzare.

Dall’Oriente, in due correnti costanti – una prove-niente dal Mar Nero lungo il corso del Danubio, l’altraforse dall’Africa, seguendo il Mediterraneo – uomininuovi con nuove idee giungevano all’Europa, ponendole basi del mondo quale lo conosciamo ora. Intanto,l’influenza di parecchie di queste invenzioni si facevasentire in molte altre e più remote parti del mondo; poi-chè questo movimento non era d’origine europea, nè li-mitato nei suoi effetti all’Europa. Esso toccava le Ame-riche, i deserti asiatici, l’Africa, la Cina e le isole del Pa-cifico. Fu il più universale fra i movimenti culturali,fino ai nostri giorni, e al pari della nostra età assorbìmolte altre culture antecedenti.

Immaginiamo che l’uomo, a un dato punto della suaevoluzione culturale, abbia rivolto all’antica arcigna nu-trice, la Natura, un discorso press’a poco in questi ter-mini:

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«Mia buona donna, i tempi sono mutati e le nostreposizioni sono cambiate. Io non sono più un trastulloalla mercè dei tuoi capricci, ma un uomo con un intellet-to che è mio. Ti sono grato per le materie brute che tumi dai; ma al tempo stesso, e per rendermi giustizia, bi-sogna riconoscere che queste materie non mi servivanoa nulla sino a che io, col mio genio, non le ho modifica-te. Altrettanto grato ti sono per la tua dura scuola diesperienza pratica, ma non riesco a scacciare l’impres-sione che spesso sia stata più dura che pratica – come nefanno fede gli sterili strati culturali nelle caverne che fu-rono le mie dimore. Grato ti sono anche, fino a un certopunto, per le carni degli animali selvaggi e le selvaggepiante, tanto spesso concesse quanto negate alla miafame. Ma ora ho imparato qualcuno dei tuoi segreti –tanto quanto basta per far da solo. I tuoi armenti, che inaltri tempi ho cacciato, ora sono il «mio» bestiame, le«mie» pecore, i «miei» cavalli: obbedienti alla mia vo-lontà, e riserve perenni contro la fame. Tu, è vero, li haicreati, ma io li ho nuovamente inventati, ho dato loro at-tributi nuovi, utili e proficui. Anche il tuo lupo, ora, è il«mio» cane. I tuoi grani di erbe selvatiche che una volta,quando la carne era scarsa, mi saziavano malamente, orasono il «mio» frumento, il «mio» orzo e il «mio» riso.Io li semino; e sotto la mia cura crescono e maturano, eho imparato ad accantonarli per il crudo inverno. Ora, ioposso migrare a piacere con le mie mandre, senza pauradei tuoi corrucci; posso fondare tranquillo sulle miemessi, e anche su quelle che matureranno negli anni fu-

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«Mia buona donna, i tempi sono mutati e le nostreposizioni sono cambiate. Io non sono più un trastulloalla mercè dei tuoi capricci, ma un uomo con un intellet-to che è mio. Ti sono grato per le materie brute che tumi dai; ma al tempo stesso, e per rendermi giustizia, bi-sogna riconoscere che queste materie non mi servivanoa nulla sino a che io, col mio genio, non le ho modifica-te. Altrettanto grato ti sono per la tua dura scuola diesperienza pratica, ma non riesco a scacciare l’impres-sione che spesso sia stata più dura che pratica – come nefanno fede gli sterili strati culturali nelle caverne che fu-rono le mie dimore. Grato ti sono anche, fino a un certopunto, per le carni degli animali selvaggi e le selvaggepiante, tanto spesso concesse quanto negate alla miafame. Ma ora ho imparato qualcuno dei tuoi segreti –tanto quanto basta per far da solo. I tuoi armenti, che inaltri tempi ho cacciato, ora sono il «mio» bestiame, le«mie» pecore, i «miei» cavalli: obbedienti alla mia vo-lontà, e riserve perenni contro la fame. Tu, è vero, li haicreati, ma io li ho nuovamente inventati, ho dato loro at-tributi nuovi, utili e proficui. Anche il tuo lupo, ora, è il«mio» cane. I tuoi grani di erbe selvatiche che una volta,quando la carne era scarsa, mi saziavano malamente, orasono il «mio» frumento, il «mio» orzo e il «mio» riso.Io li semino; e sotto la mia cura crescono e maturano, eho imparato ad accantonarli per il crudo inverno. Ora, ioposso migrare a piacere con le mie mandre, senza pauradei tuoi corrucci; posso fondare tranquillo sulle miemessi, e anche su quelle che matureranno negli anni fu-

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turi; e non temo più i tuoi corrucci, cioè le frustate dellafame.

«Tu, cara nutrice, non ti trovi più dinanzi a un pariaerrante, schiavo delle tue incongruenze, ma a un cittadi-no bene organizzato nelle molte comunità che si vannoformando».

Questo nuovo punto di vista separa la nuova epocadalle passate in modo più preciso che non ogni genialitào profusione di invenzioni; e connette questa epoca conla nostra, per mezzo dei medesimi fattori che la separa-no da un più remoto passato. Prima ancora che l’ultimadelle Età della Pietra, è la prima Età moderna. Qui in-contriamo per la prima volta, e in molte disperse partidel mondo, il primo prodotto sintetico dell’uomo: la ter-racotta, composto di creta e argilla e dei sottili chimismidel fuoco, con cui si fabbricano recipienti adatti per cuo-cere commestibili vegetali e per contenere provviste;qui vediamo sorgere il telaio da tessere che renderà pos-sibile la confezione di indumenti più pratici e consisten-ti; e i metalli (rame, bronzo e ferro, oro e argento); e dalforno del vasaio nasceranno nuovi tipi di fornaci. Poichèora il fuoco serve a una gran varietà di usi industriali.Vediamo anche nuove specie di arnesi: l’ascia di pietradal filo tagliente, che serve a ripulire la superficie delsuolo per potervi seminare le piante e coltivarle; la zap-pa, la vanga e in ultimo, in alcune regioni, l’aratro. Lafalce e la roncola appaiono prima in pietra, ma ben pre-sto in metallo. Dapprima in Asia, poi in Africa e in Eu-ropa si diffonde la ruota, nella primitiva forma di rullo

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turi; e non temo più i tuoi corrucci, cioè le frustate dellafame.

«Tu, cara nutrice, non ti trovi più dinanzi a un pariaerrante, schiavo delle tue incongruenze, ma a un cittadi-no bene organizzato nelle molte comunità che si vannoformando».

Questo nuovo punto di vista separa la nuova epocadalle passate in modo più preciso che non ogni genialitào profusione di invenzioni; e connette questa epoca conla nostra, per mezzo dei medesimi fattori che la separa-no da un più remoto passato. Prima ancora che l’ultimadelle Età della Pietra, è la prima Età moderna. Qui in-contriamo per la prima volta, e in molte disperse partidel mondo, il primo prodotto sintetico dell’uomo: la ter-racotta, composto di creta e argilla e dei sottili chimismidel fuoco, con cui si fabbricano recipienti adatti per cuo-cere commestibili vegetali e per contenere provviste;qui vediamo sorgere il telaio da tessere che renderà pos-sibile la confezione di indumenti più pratici e consisten-ti; e i metalli (rame, bronzo e ferro, oro e argento); e dalforno del vasaio nasceranno nuovi tipi di fornaci. Poichèora il fuoco serve a una gran varietà di usi industriali.Vediamo anche nuove specie di arnesi: l’ascia di pietradal filo tagliente, che serve a ripulire la superficie delsuolo per potervi seminare le piante e coltivarle; la zap-pa, la vanga e in ultimo, in alcune regioni, l’aratro. Lafalce e la roncola appaiono prima in pietra, ma ben pre-sto in metallo. Dapprima in Asia, poi in Africa e in Eu-ropa si diffonde la ruota, nella primitiva forma di rullo

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per muovere pesanti pietre tombali, più tardi adattata aicarri, ai telai e al tornio del vasaio; e mossa dall’acquadiventerà infine uno dei fattori tecnici essenziali delleinnumerevoli invenzioni destinate a durare sino ai tempinostri.

È un’êra feconda, brulicante di elementi e idee nuove.Non soltanto le abitudini sociali dell’uomo rivoluziona,ma altera la superficie della terra, mutando le sequenzee le esuberanze della natura secondo i disegni dell’uomoe della sua volontà.

Ci appare come, in queste età, l’uomo dedicasse mag-gior attenzione alle sue armi che non ai suoi arnesi oall’equipaggiamento per la caccia. Nella prima Età delBronzo, spade, scudi, elmetti e lancie diventano oggettid’arte; e il guerriero è l’uomo eminente, che si distingueper la sua potenza. I funerali di guerrieri delle ultimeEtà del Bronzo e delle prime del Ferro dovevano esserecerimonie imponenti. La caccia di questo animale a sta-tura eretta, dotato d’intelletto, era ormai un’industria ingrande, un’impresa particolare e, a quanto pare, assairedditizia. Nei confusi ammassi di resti degli antichicacciatori troviamo le ossa di animali segnati dalle armidell’uomo; ma ora sono ossa umane che troviamo trafit-te da punte di pietra; poichè l’uomo, quell’animale inge-gnoso, aveva trovato il modo di combinare la cedevo-lezza della corda con l’elasticità del legno. L’arco e lafreccia cominciano a fare la storia e a formare l’opinio-ne pubblica. Nelle antiche tombe troviamo le ossa dianimali apprestati come cibo ai defunti; nelle tombe più

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per muovere pesanti pietre tombali, più tardi adattata aicarri, ai telai e al tornio del vasaio; e mossa dall’acquadiventerà infine uno dei fattori tecnici essenziali delleinnumerevoli invenzioni destinate a durare sino ai tempinostri.

È un’êra feconda, brulicante di elementi e idee nuove.Non soltanto le abitudini sociali dell’uomo rivoluziona,ma altera la superficie della terra, mutando le sequenzee le esuberanze della natura secondo i disegni dell’uomoe della sua volontà.

Ci appare come, in queste età, l’uomo dedicasse mag-gior attenzione alle sue armi che non ai suoi arnesi oall’equipaggiamento per la caccia. Nella prima Età delBronzo, spade, scudi, elmetti e lancie diventano oggettid’arte; e il guerriero è l’uomo eminente, che si distingueper la sua potenza. I funerali di guerrieri delle ultimeEtà del Bronzo e delle prime del Ferro dovevano esserecerimonie imponenti. La caccia di questo animale a sta-tura eretta, dotato d’intelletto, era ormai un’industria ingrande, un’impresa particolare e, a quanto pare, assairedditizia. Nei confusi ammassi di resti degli antichicacciatori troviamo le ossa di animali segnati dalle armidell’uomo; ma ora sono ossa umane che troviamo trafit-te da punte di pietra; poichè l’uomo, quell’animale inge-gnoso, aveva trovato il modo di combinare la cedevo-lezza della corda con l’elasticità del legno. L’arco e lafreccia cominciano a fare la storia e a formare l’opinio-ne pubblica. Nelle antiche tombe troviamo le ossa dianimali apprestati come cibo ai defunti; nelle tombe più

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recenti troviamo traccie di sacrifici umani offerti conl’idea di fornir spiriti schiavi a qualche onnipotente de-funto.

Il commercio varca i limiti locali delle tribù; è inter-regionale, poi intercontinentale, portando l’uomo a co-noscere nuovi prodotti, nuove materie prime, nuovi ar-nesi e armi, nuove aspirazioni; e stimola l’immaginazio-ne, sia nel campo sociale che industriale. La diffusionedelle idee ne moltiplica il valore; l’aumentata ricchezzala rende ovunque desiderabile; e poichè l’uomo conosceormai il mondo, il commercio diventa mondiale.L’ambra del Baltico e della Prussia fu trovata non sol-tanto nelle tombe d’Europa Occidentale, ma anche neisepolcri di Micene, di Creta e dell’Egitto. Alcune varie-tà di silice originarie della Francia Occidentale si diffon-dono, sotto forma di scaglie parzialmente lavorate, pertutta l’Europa Centrale. L’ossidiano o vetro vulcanico,originario dell’isola di Melo, attraverso le Cicladi delMediterraneo arriva al continente. A spade e pugnali, or-namenti di rame e di bronzo, seguono verghe e lingottidi questi metalli, e la tecnica per lavorarli. Le perle e letazze di vetro dall’Egitto si fanno strada attraversol’Europa sino all’Inghilterra. Il commercio crea una cer-ta eleganza di costumi, un desiderio di qualcosa chevada oltre l’abbondanza materiale.

Abbiamo tutte le ragioni di credere che, fin da queitempi, l’Oriente esportasse vino e olio d’oliva, comepure tessuti tinti di lana e di canapa. Ma i popoli d’Euro-pa dovevano certo ricambiare queste merci; probabil-

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recenti troviamo traccie di sacrifici umani offerti conl’idea di fornir spiriti schiavi a qualche onnipotente de-funto.

Il commercio varca i limiti locali delle tribù; è inter-regionale, poi intercontinentale, portando l’uomo a co-noscere nuovi prodotti, nuove materie prime, nuovi ar-nesi e armi, nuove aspirazioni; e stimola l’immaginazio-ne, sia nel campo sociale che industriale. La diffusionedelle idee ne moltiplica il valore; l’aumentata ricchezzala rende ovunque desiderabile; e poichè l’uomo conosceormai il mondo, il commercio diventa mondiale.L’ambra del Baltico e della Prussia fu trovata non sol-tanto nelle tombe d’Europa Occidentale, ma anche neisepolcri di Micene, di Creta e dell’Egitto. Alcune varie-tà di silice originarie della Francia Occidentale si diffon-dono, sotto forma di scaglie parzialmente lavorate, pertutta l’Europa Centrale. L’ossidiano o vetro vulcanico,originario dell’isola di Melo, attraverso le Cicladi delMediterraneo arriva al continente. A spade e pugnali, or-namenti di rame e di bronzo, seguono verghe e lingottidi questi metalli, e la tecnica per lavorarli. Le perle e letazze di vetro dall’Egitto si fanno strada attraversol’Europa sino all’Inghilterra. Il commercio crea una cer-ta eleganza di costumi, un desiderio di qualcosa chevada oltre l’abbondanza materiale.

Abbiamo tutte le ragioni di credere che, fin da queitempi, l’Oriente esportasse vino e olio d’oliva, comepure tessuti tinti di lana e di canapa. Ma i popoli d’Euro-pa dovevano certo ricambiare queste merci; probabil-

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mente con pelliccie e cuoio, oltre al rame e a quell’altrometallo più raro, lo stagno, che alle attive fucine orien-tali erano necessari per il bronzo. Lungo le antiche stra-de commerciali nascevano così a poco a poco le minie-re, e anche le fonderie, che permettevano di fondere ilminerale grezzo in lingotti più facilmente trasportabili.

Sorgeva anche un’altra forma di commercio. Sel’Oriente mandava all’Europa molti utili animali dome-stici, bovini, ovini e cavalli, l’Europa mandavaall’Oriente un importante animale domestico: lo schiavoumano. Nell’Età Neolitica l’Europa, come l’Africa nelXVI e nel XVII secolo, era un mercato mondiale dischiavi. Gli schiavi come agricoltori, rematori, portatorierano una merce corrente; e la futura storia industrialedell’antico mondo mediterraneo è, in parte, la storia del-la schiavitù.

Col sorgere e diffondersi del commercio tra paesi epopoli distanti, i mezzi di trasporto assurgevano a pri-maria necessità e importanza. Tutte le specie di veicoli efinimenti furono creati dapprima per l’uomo; ma nontardarono a esser seguiti da veicoli a trazione animale, eanche da imbarcazioni capaci di navigare da un’isolaall’altra, sui grandi fiumi e lungo le coste mediterranee.Donde l’invenzione dei remi e delle vele. Anche di pesie misure si faceva sentire la necessità; e in secondo luo-go, i metalli più rari e preziosi vennero impiegati cometermine per le misure di valore e per gli scambi. Pezzi dimetallo di peso uguale e distinti da segni impressi mo-nete, in altre parole – fecero la loro apparizione,

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mente con pelliccie e cuoio, oltre al rame e a quell’altrometallo più raro, lo stagno, che alle attive fucine orien-tali erano necessari per il bronzo. Lungo le antiche stra-de commerciali nascevano così a poco a poco le minie-re, e anche le fonderie, che permettevano di fondere ilminerale grezzo in lingotti più facilmente trasportabili.

Sorgeva anche un’altra forma di commercio. Sel’Oriente mandava all’Europa molti utili animali dome-stici, bovini, ovini e cavalli, l’Europa mandavaall’Oriente un importante animale domestico: lo schiavoumano. Nell’Età Neolitica l’Europa, come l’Africa nelXVI e nel XVII secolo, era un mercato mondiale dischiavi. Gli schiavi come agricoltori, rematori, portatorierano una merce corrente; e la futura storia industrialedell’antico mondo mediterraneo è, in parte, la storia del-la schiavitù.

Col sorgere e diffondersi del commercio tra paesi epopoli distanti, i mezzi di trasporto assurgevano a pri-maria necessità e importanza. Tutte le specie di veicoli efinimenti furono creati dapprima per l’uomo; ma nontardarono a esser seguiti da veicoli a trazione animale, eanche da imbarcazioni capaci di navigare da un’isolaall’altra, sui grandi fiumi e lungo le coste mediterranee.Donde l’invenzione dei remi e delle vele. Anche di pesie misure si faceva sentire la necessità; e in secondo luo-go, i metalli più rari e preziosi vennero impiegati cometermine per le misure di valore e per gli scambi. Pezzi dimetallo di peso uguale e distinti da segni impressi mo-nete, in altre parole – fecero la loro apparizione,

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all’incirca con l’alfabeto fonetico e la scrittura, assiemea forme di contratti e cambiali, e anche a misure di tem-po, limitate dapprima a giorni e a mesi.

Tutte queste invenzioni e molte altre – dall’ascia dipietra levigata a una primitiva letteratura basatasull’alfabeto fonetico – sono gli effetti, non le cause,della civiltà. Lo stato di cose che noi chiamiamo civiltàpoggia, come già abbiamo accennato, su due sempliciinvenzioni di solito associate nella nostra mente, ma chein realtà hanno origini separate e uno sviluppo indipen-dente e spesso antagonistico, per giungere tuttavia, intempi relativamente vicini, a una medesima conclusio-ne. Una di esse è 1’addomesticazione di animali perscopi economici, che è opera dell’uomo; l’altra, la colti-vazione delle piante di valore economico, ed è operadella donna. Tanto piante quanto animali oggi domesticifurono un tempo specie selvatiche. Dato però che nonesiste pianta coltivata o animale domestico che allo statoselvaggio fossero originari dell’Europa Centrale o Occi-dentale, dobbiamo ricercarne le origini fuor dell’Europa.Qui dobbiamo però ammettere che manchiamo di datiprecisi, sebbene recenti ricerche abbiano gettato un po’di luce su punti finora oscuri. Già la Persia, la Mesopo-tamia e l’Egitto ci hanno rivelato parecchio, e maggiorisperanze ci danno per l’avvenire; e lentamente la Cinava palesando segreti di grande importanza. Un accosta-mento, sebbene di genere alquanto diverso, ci viene of-ferto da una conoscenza più precisa dell’America pre-columbiana. Per fortuna nostra, l’antropologia moderna

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all’incirca con l’alfabeto fonetico e la scrittura, assiemea forme di contratti e cambiali, e anche a misure di tem-po, limitate dapprima a giorni e a mesi.

Tutte queste invenzioni e molte altre – dall’ascia dipietra levigata a una primitiva letteratura basatasull’alfabeto fonetico – sono gli effetti, non le cause,della civiltà. Lo stato di cose che noi chiamiamo civiltàpoggia, come già abbiamo accennato, su due sempliciinvenzioni di solito associate nella nostra mente, ma chein realtà hanno origini separate e uno sviluppo indipen-dente e spesso antagonistico, per giungere tuttavia, intempi relativamente vicini, a una medesima conclusio-ne. Una di esse è 1’addomesticazione di animali perscopi economici, che è opera dell’uomo; l’altra, la colti-vazione delle piante di valore economico, ed è operadella donna. Tanto piante quanto animali oggi domesticifurono un tempo specie selvatiche. Dato però che nonesiste pianta coltivata o animale domestico che allo statoselvaggio fossero originari dell’Europa Centrale o Occi-dentale, dobbiamo ricercarne le origini fuor dell’Europa.Qui dobbiamo però ammettere che manchiamo di datiprecisi, sebbene recenti ricerche abbiano gettato un po’di luce su punti finora oscuri. Già la Persia, la Mesopo-tamia e l’Egitto ci hanno rivelato parecchio, e maggiorisperanze ci danno per l’avvenire; e lentamente la Cinava palesando segreti di grande importanza. Un accosta-mento, sebbene di genere alquanto diverso, ci viene of-ferto da una conoscenza più precisa dell’America pre-columbiana. Per fortuna nostra, l’antropologia moderna

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si vale meno di formule precise e generali, che non difatti documentati. C’è financo la vaga speranza di un av-vicinamento con la Storia; e relazioni oltremodo fecon-de con la botanica, la geologia e la paleontologia sonoormai un fatto compiuto. Tuttavia, nulla ci dice che ipoco profondi mari dell’India non custodiscano segretiche nessuno finora ha indagato; o che qualche tombalungo le coste dell’America del Sud, o un obliato monti-cello che serviva di segnavia alle carovaniere dell’AsiaMinore, non contengano documenti tali da rivoluzionareo modificare le teorie finora in corso. Si dice spesso, enon senza ragione, che la storia della civiltà è un dram-ma; ma si dovrebbe tener presente che le prime scene diquesto dramma vennero recitate dietro un sipario chereca tuttora la parola «ignoto».

Tutte le invenzioni che abbiamo ricordato e molte al-tre ancora si basano sull’addomesticazione di animali edi piante, particolarmente di queste ultime, senza le qua-li l’uomo, cacciatore o pastore, non si sarebbe mai civi-lizzato, poichè la civiltà richiede per primo elementouna residenza fissa e stabile. Fino a che l’uomo seguivai suoi armenti, la civiltà era sempre dietro di lui, fuocofatuo di tutti gli orizzonti. Vero è che nella seconda fasedell’addomesticazione degli animali, quando cioèl’uomo se li asservì per uno scopo economico, le sueabitudini errabonde gli vennero in aiuto nel commerciofra le colonie industriali e quelle agricole; e ciò fud’incremento alla civiltà, contribuendo a diffonder leidee. Ma la vera e duratura civiltà non è possibile senza

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si vale meno di formule precise e generali, che non difatti documentati. C’è financo la vaga speranza di un av-vicinamento con la Storia; e relazioni oltremodo fecon-de con la botanica, la geologia e la paleontologia sonoormai un fatto compiuto. Tuttavia, nulla ci dice che ipoco profondi mari dell’India non custodiscano segretiche nessuno finora ha indagato; o che qualche tombalungo le coste dell’America del Sud, o un obliato monti-cello che serviva di segnavia alle carovaniere dell’AsiaMinore, non contengano documenti tali da rivoluzionareo modificare le teorie finora in corso. Si dice spesso, enon senza ragione, che la storia della civiltà è un dram-ma; ma si dovrebbe tener presente che le prime scene diquesto dramma vennero recitate dietro un sipario chereca tuttora la parola «ignoto».

Tutte le invenzioni che abbiamo ricordato e molte al-tre ancora si basano sull’addomesticazione di animali edi piante, particolarmente di queste ultime, senza le qua-li l’uomo, cacciatore o pastore, non si sarebbe mai civi-lizzato, poichè la civiltà richiede per primo elementouna residenza fissa e stabile. Fino a che l’uomo seguivai suoi armenti, la civiltà era sempre dietro di lui, fuocofatuo di tutti gli orizzonti. Vero è che nella seconda fasedell’addomesticazione degli animali, quando cioèl’uomo se li asservì per uno scopo economico, le sueabitudini errabonde gli vennero in aiuto nel commerciofra le colonie industriali e quelle agricole; e ciò fud’incremento alla civiltà, contribuendo a diffonder leidee. Ma la vera e duratura civiltà non è possibile senza

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la solida base dell’agricoltura. Sarebbe bastata la colti-vazione di una sola specie di erbe selvatiche, quelle chediventano poi i nostri insostituibili cereali, ad assicurarele più alte fasi della cultura.

Le primitive e più rozze fasi della pastorizia differi-scono poco dalla caccia in grande. In ambi i casi la tribùsegue l’armento, lo protegge dagli altri animali da pre-da, e gradatamente ottiene da esso una certa dimesti-chezza. L’uomo ancora non assicura al bestiame nè cibonè tetto; e non ha contatto col singolo animale. La diffe-renza tra pastorizia e caccia è questione di sfumature; unpo’ più di moderatezza nel macello da parte del pastore,una maggior enfasi nell’autorità è quanto separa questidue stadî. Ma l’armento domina ancora la tribù; e dimo-ra fissa e civiltà sono ugualmente impossibili sino a chela tribù dipende dall’armento.

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la solida base dell’agricoltura. Sarebbe bastata la colti-vazione di una sola specie di erbe selvatiche, quelle chediventano poi i nostri insostituibili cereali, ad assicurarele più alte fasi della cultura.

Le primitive e più rozze fasi della pastorizia differi-scono poco dalla caccia in grande. In ambi i casi la tribùsegue l’armento, lo protegge dagli altri animali da pre-da, e gradatamente ottiene da esso una certa dimesti-chezza. L’uomo ancora non assicura al bestiame nè cibonè tetto; e non ha contatto col singolo animale. La diffe-renza tra pastorizia e caccia è questione di sfumature; unpo’ più di moderatezza nel macello da parte del pastore,una maggior enfasi nell’autorità è quanto separa questidue stadî. Ma l’armento domina ancora la tribù; e dimo-ra fissa e civiltà sono ugualmente impossibili sino a chela tribù dipende dall’armento.

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VII

LA DONNA MADRE DELL’AGRICOLTURA

Quali fossero gli specifici doveri della donna nellelunghe età della caccia e nei primi tempi della pastori-zia, possiamo arguirlo soltanto dal fatto che nessuna tri-bù di cacciatori o pastori è interamente carnivora; nessu-na colonia dedita a primitive industrie è strettamente li-mitata ai prodotti della caccia o dell’armento. Mentrel’uomo gettava le basi di quella esperienza delle abitudi-ni degli animali che avrebbero portato alla loro addome-sticazione, gli studi, per così dire, della donna nel regnovegetale contribuivano costantemente al benessere dellecomunità, ponendo le fondamenta di un avvenire piùfulgido.

Non ci fu bivacco o periodico accampamento che nonfosse per lei un laboratorio sperimentale di ricerche nelmondo vegetale. I suoi doveri di madre, e la stessa de-bolezza fisica, la tenevano lontana dall’ardua e avventu-rosa vita degli uomini. Compito suo erano i lavori se-dentari, e le opportunità offerte da un limitato orizzonte.Da testimonianze più tarde, siamo proclivi ad attribuirealla donna i primi filati; i più antichi, eccettuate le rozze

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LA DONNA MADRE DELL’AGRICOLTURA

Quali fossero gli specifici doveri della donna nellelunghe età della caccia e nei primi tempi della pastori-zia, possiamo arguirlo soltanto dal fatto che nessuna tri-bù di cacciatori o pastori è interamente carnivora; nessu-na colonia dedita a primitive industrie è strettamente li-mitata ai prodotti della caccia o dell’armento. Mentrel’uomo gettava le basi di quella esperienza delle abitudi-ni degli animali che avrebbero portato alla loro addome-sticazione, gli studi, per così dire, della donna nel regnovegetale contribuivano costantemente al benessere dellecomunità, ponendo le fondamenta di un avvenire piùfulgido.

Non ci fu bivacco o periodico accampamento che nonfosse per lei un laboratorio sperimentale di ricerche nelmondo vegetale. I suoi doveri di madre, e la stessa de-bolezza fisica, la tenevano lontana dall’ardua e avventu-rosa vita degli uomini. Compito suo erano i lavori se-dentari, e le opportunità offerte da un limitato orizzonte.Da testimonianze più tarde, siamo proclivi ad attribuirealla donna i primi filati; i più antichi, eccettuate le rozze

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strisce di cuoio e i tendini degli animali, erano ricavatidagli steli di piante selvatiche come la canapa, il lino ela corteccia d’albero: quei materiali che oggi vanno sot-to il nome di «fibra». La donna imparò a conoscere lanatura attraverso l’osservazione e l’esperimento. Anchel’arte dell’intrecciare cesti e stuoie cadeva entro le sferedelle attività femminili; e più tardi, la tessitura a telaio, el’arte del vasaio. Non c’è dubbio che a un dato puntoessa abbia sperimentato le virtù mediche di certe erbe eradici, dei narcotici e delle tinture. Ma la sua conoscen-za delle piante commestibili fu di valore inestimabileper le tribù, e rappresentò il fattore ultimo e determinan-te della civiltà.

Anche nelle terre artiche ha importanza il raccolto dicerti licheni e radici, di semi e bacche selvagge; e le mi-grazioni – soggette al giro delle stagioni – dei cacciatoridi terra e di mare dipendono in parte dal ricorrere diquesti rudimentali raccolti. Tanto più forte dev’esserestata questa tendenza in regioni più favorite e ricche divegetazione. Ghiande, semi, radici, funghi e varie speciedi frutti furono importanti elementi di nutrimento in di-verse parti del mondo, prima e dopo una coltivazionemetodica dei raccolti, e assai prima che l’uomo si dedi-casse alla pastorizia. In California e nel Sud-ovestdell’America, dove la selvaggina era rara, certe tribù sinutrivano massimamente di bacche e radici, e non si sol-levarono mai da quel livello. Gli abitanti dell’Australiadovevano contare su una gran varietà di bacche, radici efrutti selvatici, nella loro disperata lotta contro la fame.

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strisce di cuoio e i tendini degli animali, erano ricavatidagli steli di piante selvatiche come la canapa, il lino ela corteccia d’albero: quei materiali che oggi vanno sot-to il nome di «fibra». La donna imparò a conoscere lanatura attraverso l’osservazione e l’esperimento. Anchel’arte dell’intrecciare cesti e stuoie cadeva entro le sferedelle attività femminili; e più tardi, la tessitura a telaio, el’arte del vasaio. Non c’è dubbio che a un dato puntoessa abbia sperimentato le virtù mediche di certe erbe eradici, dei narcotici e delle tinture. Ma la sua conoscen-za delle piante commestibili fu di valore inestimabileper le tribù, e rappresentò il fattore ultimo e determinan-te della civiltà.

Anche nelle terre artiche ha importanza il raccolto dicerti licheni e radici, di semi e bacche selvagge; e le mi-grazioni – soggette al giro delle stagioni – dei cacciatoridi terra e di mare dipendono in parte dal ricorrere diquesti rudimentali raccolti. Tanto più forte dev’esserestata questa tendenza in regioni più favorite e ricche divegetazione. Ghiande, semi, radici, funghi e varie speciedi frutti furono importanti elementi di nutrimento in di-verse parti del mondo, prima e dopo una coltivazionemetodica dei raccolti, e assai prima che l’uomo si dedi-casse alla pastorizia. In California e nel Sud-ovestdell’America, dove la selvaggina era rara, certe tribù sinutrivano massimamente di bacche e radici, e non si sol-levarono mai da quel livello. Gli abitanti dell’Australiadovevano contare su una gran varietà di bacche, radici efrutti selvatici, nella loro disperata lotta contro la fame.

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Col tempo, essi hanno imparato a conoscere le epochein cui maturano quei selvaggi raccolti, e li raccolgonoprima che gli uccelli o altri animali li distruggano.

Molte di queste piante selvatiche esigono una prepa-razione speciale prima che possano essere commestibili.I semi vengono abbrustoliti, scuotendoli entro setacci divimini insieme a carboni di legno accesi, per rimuover-ne la loppa; poi, schiacciati tra due pietre verranno ri-dotti in farina. Il procedimento è noto nel sud-estdell’America e in Australia, per non dir altri paesi. Mol-te piante selvatiche contengono acidi non digestibili, eanche veleni che vengono eliminati con vari metodi dicottura.

Nel XVII secolo il capitano John Smith così scrivevasugli Indiani Powhatan della Virginia:

«Il loro cibo principale è una radice detta tockawou-ghe, la quale cresce in abbondanza nelle paludi. In unagiornata un selvaggio ne raccoglie quanto basta per unasettimana, Essi ne ricoprono un bel mucchio con fogliedi quercia e felci, indi sotterrano il tutto come fanno icarbonai per la legna da carbone, e per ventiquattr’orelo abbruciano a fuoco lento. Cruda, questa pianta sareb-be perfida come il veleno e irriterebbe la gola...».

Press’a poco così gli Esquimesi preparano radici ve-lenose di piante selvatiche, e gli Indiani di Californiaespellono gli acidi dalle farine di ghiande. Nella valledel Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco, il cibo principa-le è la manioca, i cui succhi sono un veleno micidialeche gli indigeni estraggono con un complicato e abile

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Col tempo, essi hanno imparato a conoscere le epochein cui maturano quei selvaggi raccolti, e li raccolgonoprima che gli uccelli o altri animali li distruggano.

Molte di queste piante selvatiche esigono una prepa-razione speciale prima che possano essere commestibili.I semi vengono abbrustoliti, scuotendoli entro setacci divimini insieme a carboni di legno accesi, per rimuover-ne la loppa; poi, schiacciati tra due pietre verranno ri-dotti in farina. Il procedimento è noto nel sud-estdell’America e in Australia, per non dir altri paesi. Mol-te piante selvatiche contengono acidi non digestibili, eanche veleni che vengono eliminati con vari metodi dicottura.

Nel XVII secolo il capitano John Smith così scrivevasugli Indiani Powhatan della Virginia:

«Il loro cibo principale è una radice detta tockawou-ghe, la quale cresce in abbondanza nelle paludi. In unagiornata un selvaggio ne raccoglie quanto basta per unasettimana, Essi ne ricoprono un bel mucchio con fogliedi quercia e felci, indi sotterrano il tutto come fanno icarbonai per la legna da carbone, e per ventiquattr’orelo abbruciano a fuoco lento. Cruda, questa pianta sareb-be perfida come il veleno e irriterebbe la gola...».

Press’a poco così gli Esquimesi preparano radici ve-lenose di piante selvatiche, e gli Indiani di Californiaespellono gli acidi dalle farine di ghiande. Nella valledel Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco, il cibo principa-le è la manioca, i cui succhi sono un veleno micidialeche gli indigeni estraggono con un complicato e abile

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procedimento.Fu l’uomo che preparò i terreni ove la donna avrebbe

tentato i primi esperimenti.Degli studi fatti nelle valli dell’Orinoco e del Rio del-

le Amazzoni nel XVIII secolo, Gumilla scrive:«Con le ascie di pietra fissate a un manico di legno

che le rendeva più maneggiabili, gli uomini tagliavano irovi e i pruni, dopo averli abbattuti con le macanas, omazze di legno durissimo; dopo di che le donne ardeva-no la legna secca... Per abbattere un tronco si impiega-vano due mesi...».

L’uomo faceva la sua parte di lavoro.Lucien Febre, brillante geografo ed economo, sostie-

ne che questi approcci e tentativi agricoli dell’uomo pre-istorico abbiano mutato a poco a poco il carattere dellesconfinate e tetre giungle d’Africa e dell’America Meri-dionale. Queste grandi selve, fecondate dalle piogge pe-riodiche, differivano dalle foreste nordiche, esclusedall’agricoltura neolitica, per la grande varietà di alberiche si trovano riuniti nella medesima zona. Nel Nord leforeste si compongono di gruppi d’una stessa specie: fo-reste di pini, quercie, betulle, castagni; ma nelle regioniequatoriali, le specie si frammischiano senza alcun ordi-ne. Via via che l’uomo diradava con l’ascia le forestevergini, e le donne ardevano la legna, e dopo qualcheanno di coltivazione essi si allontanavano dalla zona or-mai sfruttata, nasceva nella vegetazione una nuova di-sciplina, in cui solo le piante più forti e adatte sopravvi-vevano nel nuovo ambiente creato dall’uomo. Così que-

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procedimento.Fu l’uomo che preparò i terreni ove la donna avrebbe

tentato i primi esperimenti.Degli studi fatti nelle valli dell’Orinoco e del Rio del-

le Amazzoni nel XVIII secolo, Gumilla scrive:«Con le ascie di pietra fissate a un manico di legno

che le rendeva più maneggiabili, gli uomini tagliavano irovi e i pruni, dopo averli abbattuti con le macanas, omazze di legno durissimo; dopo di che le donne ardeva-no la legna secca... Per abbattere un tronco si impiega-vano due mesi...».

L’uomo faceva la sua parte di lavoro.Lucien Febre, brillante geografo ed economo, sostie-

ne che questi approcci e tentativi agricoli dell’uomo pre-istorico abbiano mutato a poco a poco il carattere dellesconfinate e tetre giungle d’Africa e dell’America Meri-dionale. Queste grandi selve, fecondate dalle piogge pe-riodiche, differivano dalle foreste nordiche, esclusedall’agricoltura neolitica, per la grande varietà di alberiche si trovano riuniti nella medesima zona. Nel Nord leforeste si compongono di gruppi d’una stessa specie: fo-reste di pini, quercie, betulle, castagni; ma nelle regioniequatoriali, le specie si frammischiano senza alcun ordi-ne. Via via che l’uomo diradava con l’ascia le forestevergini, e le donne ardevano la legna, e dopo qualcheanno di coltivazione essi si allontanavano dalla zona or-mai sfruttata, nasceva nella vegetazione una nuova di-sciplina, in cui solo le piante più forti e adatte sopravvi-vevano nel nuovo ambiente creato dall’uomo. Così que-

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sto essere piccolo e debole, seguendo la legge della suaascia e del fuoco, conquistava le foreste come già avevaconquistato le belve.

La divisione di lavoro tra i due sessi si basa in primoluogo sulle diverse forze fisiche e sui doveri maternidella donna. Ma la magia arriva in tempo per assumereuna parte importante. Per la mente primitiva tutte lecose, animate o no, avevano un loro spirito che bisogna-va trattare con grande rispetto. Questi spiriti avevano unloro codice speciale, che dovevasi seguire se non si vo-leva incorrere in sinistri. Nè l’ignoranza di queste leggiserviva di scusa! Malattie, accidenti, disgrazie, sfortunanella caccia, in amore o in guerra non erano che conse-guenze naturali della violazione, consapevole o no, diqueste regole. La morte stessa non era un fatto «natura-le», ma dovuta all’offesa di qualche spirito, o procuratada uno stregone, il quale spediva un compiacente spiritoa sortire i suoi malvagi effetti.

La nascita, l’avvento della pubertà, il matrimonio, lamorte, la caccia, l’agricoltura e i viaggi avevano la loroparticolare funzione propiziatoria. Pittura e tatuaggiodel corpo, scarificazione, foratura di labbra, naso e orec-chie, deformazione dei crani, nonchè varie forme di mu-tilazione (come estrazione di denti, circoncisione e altredolorose e umilianti pratiche) erano altrettante fasi dimagia profilattica. E quasi tutte le forme di ornamenti –anelli, orecchini, braccialetti, collane e diademi – furonoin origine amuleti o incantesimi per scongiurare il male.

Le donne erano oggetto di terror magico, a causa del-

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sto essere piccolo e debole, seguendo la legge della suaascia e del fuoco, conquistava le foreste come già avevaconquistato le belve.

La divisione di lavoro tra i due sessi si basa in primoluogo sulle diverse forze fisiche e sui doveri maternidella donna. Ma la magia arriva in tempo per assumereuna parte importante. Per la mente primitiva tutte lecose, animate o no, avevano un loro spirito che bisogna-va trattare con grande rispetto. Questi spiriti avevano unloro codice speciale, che dovevasi seguire se non si vo-leva incorrere in sinistri. Nè l’ignoranza di queste leggiserviva di scusa! Malattie, accidenti, disgrazie, sfortunanella caccia, in amore o in guerra non erano che conse-guenze naturali della violazione, consapevole o no, diqueste regole. La morte stessa non era un fatto «natura-le», ma dovuta all’offesa di qualche spirito, o procuratada uno stregone, il quale spediva un compiacente spiritoa sortire i suoi malvagi effetti.

La nascita, l’avvento della pubertà, il matrimonio, lamorte, la caccia, l’agricoltura e i viaggi avevano la loroparticolare funzione propiziatoria. Pittura e tatuaggiodel corpo, scarificazione, foratura di labbra, naso e orec-chie, deformazione dei crani, nonchè varie forme di mu-tilazione (come estrazione di denti, circoncisione e altredolorose e umilianti pratiche) erano altrettante fasi dimagia profilattica. E quasi tutte le forme di ornamenti –anelli, orecchini, braccialetti, collane e diademi – furonoin origine amuleti o incantesimi per scongiurare il male.

Le donne erano oggetto di terror magico, a causa del-

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le loro regole mensili. Di due gemelli, il secondo natoveniva soppresso per la ferma convinzione che fosse fi-glio di un demone. Il famoso jus primae noctis, traman-datosi attraverso il Medio Evo e rimasto in alcuni paesifino alla Rivoluzione Francese, era sorto dalla primitivaconvinzione che le vergini fossero pericolose perl’uomo, sino a che l’esorcista della tribù, venendo acontatto con esse, non le avesse rese innocue.

Constatiamo in tutto il mondo primitivo, passato epresente, sorprendenti analogie di questi usi, credenze epratiche: analogie che solo in parte possono essere attri-buite al loro diffondersi. È evidente che in tutti gli stadianaloghi di cultura e di ambiente, gli uomini coltivanole medesime idee; l’uomo, dopo tutto, è fisicamente eintellettualmente sempre uguale, soggetto a identici fe-nomeni fisici: sonno, sogni, nascita, morte, e a identichepassioni e timori verso la morte e i fenomeni naturali. Intutte le cose egli vuole scoprire una ragione d’essere perciò che vede e sente. Non meno violentemente di quantola natura aborra il vuoto, ripugna all’uomo il fatto in-spiegato. Perciò egli tenta di spiegarli tutti, e le sue azio-ni sono piuttosto la misura della sua esperienza e intelli-genza, che non del fatto.

Partendo da un tale punto di vista, l’uomo è spiritual-mente inadatto a maneggiar gli arnesi della donna, la ru-dimentale zappa o la vanga; nè la donna saprebbe comecavarsela con l’ascia e la pietra del proprio compagno,con le sue armi o i suoi aggeggi di magia. Constatazioniche nessuno poneva in dubbio: erano un principio fon-

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le loro regole mensili. Di due gemelli, il secondo natoveniva soppresso per la ferma convinzione che fosse fi-glio di un demone. Il famoso jus primae noctis, traman-datosi attraverso il Medio Evo e rimasto in alcuni paesifino alla Rivoluzione Francese, era sorto dalla primitivaconvinzione che le vergini fossero pericolose perl’uomo, sino a che l’esorcista della tribù, venendo acontatto con esse, non le avesse rese innocue.

Constatiamo in tutto il mondo primitivo, passato epresente, sorprendenti analogie di questi usi, credenze epratiche: analogie che solo in parte possono essere attri-buite al loro diffondersi. È evidente che in tutti gli stadianaloghi di cultura e di ambiente, gli uomini coltivanole medesime idee; l’uomo, dopo tutto, è fisicamente eintellettualmente sempre uguale, soggetto a identici fe-nomeni fisici: sonno, sogni, nascita, morte, e a identichepassioni e timori verso la morte e i fenomeni naturali. Intutte le cose egli vuole scoprire una ragione d’essere perciò che vede e sente. Non meno violentemente di quantola natura aborra il vuoto, ripugna all’uomo il fatto in-spiegato. Perciò egli tenta di spiegarli tutti, e le sue azio-ni sono piuttosto la misura della sua esperienza e intelli-genza, che non del fatto.

Partendo da un tale punto di vista, l’uomo è spiritual-mente inadatto a maneggiar gli arnesi della donna, la ru-dimentale zappa o la vanga; nè la donna saprebbe comecavarsela con l’ascia e la pietra del proprio compagno,con le sue armi o i suoi aggeggi di magia. Constatazioniche nessuno poneva in dubbio: erano un principio fon-

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damentale, una convinzione che non aveva nulla a chefare con la ragione. I popoli primitivi sono conservatoriper eccellenza: riluttanti a mutar idea, restano quindiprimitivi. Porre in dubbio «fatti» magici era un atto anti-sociale, e i popoli primitivi, quale che sia il loro statoculturale, fanno presto a giudicare gli innovatori: o lielevano al rango di divinità, o li offrono in sacrificio adivinità già esistenti.

Per esempio, poichè la donna era l’elemento fecondo,era essa che seminava e accudiva ai raccolti maturanti.Se poi essa modellava la creta e con le sue mani ne for-mava recipienti, anche questa sembrava una specie dicreazione o di «nascita», come la seminagione, e perciòera lavoro suo. Ma quando l’uomo inventò la ruota el’aratro e addomesticò gli animali, assunse per sè le fasiagricole dipendenti da quei fattori. Quando della ruotadel suo carro fece il tornio del vasaio, egli diventò il va-saio. Alla donna rimase però la cura dell’orto, cioè,quell’agricoltura che richiedeva solo l’opera della zap-pa; ed essa seguitò a fabbricar vasi e stoviglie con le suemani. C’era ancora, fra gli arnesi e le attività dei duesessi, una barriera spirituale: poco importa quanto lonta-no avrebbe camminato la civiltà tecnica.

Nei Primordi della Porcellana in Cina, Berthold Lau-fer dice:

«Nello stadio primitivo dell’agricoltura, in cui questaè affidata alla donna, non c’è traccia della ruota o torniodel vasaio. Quando il tornio appare, è in stretto rapportocon l’attività agricola maschile, basata sull’uso dell’ara-

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damentale, una convinzione che non aveva nulla a chefare con la ragione. I popoli primitivi sono conservatoriper eccellenza: riluttanti a mutar idea, restano quindiprimitivi. Porre in dubbio «fatti» magici era un atto anti-sociale, e i popoli primitivi, quale che sia il loro statoculturale, fanno presto a giudicare gli innovatori: o lielevano al rango di divinità, o li offrono in sacrificio adivinità già esistenti.

Per esempio, poichè la donna era l’elemento fecondo,era essa che seminava e accudiva ai raccolti maturanti.Se poi essa modellava la creta e con le sue mani ne for-mava recipienti, anche questa sembrava una specie dicreazione o di «nascita», come la seminagione, e perciòera lavoro suo. Ma quando l’uomo inventò la ruota el’aratro e addomesticò gli animali, assunse per sè le fasiagricole dipendenti da quei fattori. Quando della ruotadel suo carro fece il tornio del vasaio, egli diventò il va-saio. Alla donna rimase però la cura dell’orto, cioè,quell’agricoltura che richiedeva solo l’opera della zap-pa; ed essa seguitò a fabbricar vasi e stoviglie con le suemani. C’era ancora, fra gli arnesi e le attività dei duesessi, una barriera spirituale: poco importa quanto lonta-no avrebbe camminato la civiltà tecnica.

Nei Primordi della Porcellana in Cina, Berthold Lau-fer dice:

«Nello stadio primitivo dell’agricoltura, in cui questaè affidata alla donna, non c’è traccia della ruota o torniodel vasaio. Quando il tornio appare, è in stretto rapportocon l’attività agricola maschile, basata sull’uso dell’ara-

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tro che sarà poi tirato dal bue». E ancora: «Tecnicamen-te, il tornio del vasaio altro non è che una primitiva ruo-ta di carro che gira sul proprio asse. L’invenzione pre-suppone l’esistenza della ruota adattata ai veicoli; in tut-te le civiltà in cui sorse il tornio del vasaio, lo vediamoprocedere dal veicolo a ruote. Osserviamo altresì chedove appare il tornio e non il veicolo a ruote, il primo èstato importato da una regione a civiltà più elevata: peresempio nel Giappone, dove il concetto del veicolo eraignoto e che ebbe il tornio dalla Corea; e nel Tibet dovenon si conoscono veicoli a ruote, e il tornio è maneggia-to unicamente da artigiani cinesi».

L’uomo si dedica all’agricoltura e diventa così unacolonna della società, allorchè i suoi bisogni lo portanoalla seconda fase dell’addomesticamento dei singoli ani-mali. Le prime fasi di invenzioni quali la slitta, la ruota,il carro e l’aratro sono avvolte nel mistero ormai fami-gliare di tutte le «idee prime». L’uomo è la prima pro-pria bestia da soma, il primo animale da fatica, dappri-ma lavoratore volontario, poi schiavo. Delle erculee fa-tiche compiute pel mondo intero, molte antiche rovineci danno ampia testimonianza: i dolmen – le tombe neo-litiche – sparse per l’Europa e per l’Asia, le piramidid’Egitto, i templi assiri e altri monumenti ancora.

Ma quando l’uomo comincia ad addestrare a questolavoro certi animali dei suoi armenti, aggiunge ai proprimezzi una potente forza motrice, che sui problemi eco-nomici, sociali e industriali del mondo antico ha il me-desimo effetto che la forza idraulica ha su epoche susse-

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tro che sarà poi tirato dal bue». E ancora: «Tecnicamen-te, il tornio del vasaio altro non è che una primitiva ruo-ta di carro che gira sul proprio asse. L’invenzione pre-suppone l’esistenza della ruota adattata ai veicoli; in tut-te le civiltà in cui sorse il tornio del vasaio, lo vediamoprocedere dal veicolo a ruote. Osserviamo altresì chedove appare il tornio e non il veicolo a ruote, il primo èstato importato da una regione a civiltà più elevata: peresempio nel Giappone, dove il concetto del veicolo eraignoto e che ebbe il tornio dalla Corea; e nel Tibet dovenon si conoscono veicoli a ruote, e il tornio è maneggia-to unicamente da artigiani cinesi».

L’uomo si dedica all’agricoltura e diventa così unacolonna della società, allorchè i suoi bisogni lo portanoalla seconda fase dell’addomesticamento dei singoli ani-mali. Le prime fasi di invenzioni quali la slitta, la ruota,il carro e l’aratro sono avvolte nel mistero ormai fami-gliare di tutte le «idee prime». L’uomo è la prima pro-pria bestia da soma, il primo animale da fatica, dappri-ma lavoratore volontario, poi schiavo. Delle erculee fa-tiche compiute pel mondo intero, molte antiche rovineci danno ampia testimonianza: i dolmen – le tombe neo-litiche – sparse per l’Europa e per l’Asia, le piramidid’Egitto, i templi assiri e altri monumenti ancora.

Ma quando l’uomo comincia ad addestrare a questolavoro certi animali dei suoi armenti, aggiunge ai proprimezzi una potente forza motrice, che sui problemi eco-nomici, sociali e industriali del mondo antico ha il me-desimo effetto che la forza idraulica ha su epoche susse-

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guenti e il vapore e l’elettricità sulla nostra. L’influenzasulla civiltà del bue, del cavallo, dell’elefante, del cam-mello e della renna come forza motrice vivente fu im-mensa è ed tuttora di vitale importanza.

Un’idea dell’importanza anche attuale degli animalidomestici potrà essere data dal fatto che la parziale mo-torizzazione dei lavori agricoli negli Stati Uniti ha signi-ficato per i proprietari la perdita di 40.000.000 di acri dipraterie da fieno, che servivano ai foraggi di questi ani-mali, sostituiti da motori, creando così uno tra i più ur-genti problemi sociali del Paese.

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guenti e il vapore e l’elettricità sulla nostra. L’influenzasulla civiltà del bue, del cavallo, dell’elefante, del cam-mello e della renna come forza motrice vivente fu im-mensa è ed tuttora di vitale importanza.

Un’idea dell’importanza anche attuale degli animalidomestici potrà essere data dal fatto che la parziale mo-torizzazione dei lavori agricoli negli Stati Uniti ha signi-ficato per i proprietari la perdita di 40.000.000 di acri dipraterie da fieno, che servivano ai foraggi di questi ani-mali, sostituiti da motori, creando così uno tra i più ur-genti problemi sociali del Paese.

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VIIIDALLA PASTORIZIA ALL’ANIMALE DOMESTICO

LA PRIMA FORZA MOTRICE

L’addomesticazione degli animali fu un’impresa dellapiù alta importanza. Anzitutto: nè una tigre del Bengalain un giardino zoologico, nè un canarino in gabbia pos-sono dirsi addomesticati. Alcune delle nostre razze cani-ne, diventando animali di lusso, hanno financo degene-rato, con la perdita d’ogni utilità per l’uomo. Assai re-mota è la parentela fra un pechinese e il suo lontano evituperato avo, il lupo domato dall’uomo.

D’altra parte, in tempi recenti alla nostra lista di ani-mali domestici abbiamo aggiunto volpi, conigli, lontre etassi, allevati e nutriti nelle moderne fattorie da pellic-cie; e l’uomo ne trae non lievi vantaggi economici.

Perchè un animale possa dirsi addomesticato, deveesser completamente o in parte sotto il controllodell’uomo, oltre a recargli vantaggio economico. Quan-do l’uomo addomesticò l’armento, si valse del fatto chequesto s’era già in parte addomesticato da sè; cioè, vi-vendo sotto la guida dei maschi adulti. La forza fisica, la

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VIIIDALLA PASTORIZIA ALL’ANIMALE DOMESTICO

LA PRIMA FORZA MOTRICE

L’addomesticazione degli animali fu un’impresa dellapiù alta importanza. Anzitutto: nè una tigre del Bengalain un giardino zoologico, nè un canarino in gabbia pos-sono dirsi addomesticati. Alcune delle nostre razze cani-ne, diventando animali di lusso, hanno financo degene-rato, con la perdita d’ogni utilità per l’uomo. Assai re-mota è la parentela fra un pechinese e il suo lontano evituperato avo, il lupo domato dall’uomo.

D’altra parte, in tempi recenti alla nostra lista di ani-mali domestici abbiamo aggiunto volpi, conigli, lontre etassi, allevati e nutriti nelle moderne fattorie da pellic-cie; e l’uomo ne trae non lievi vantaggi economici.

Perchè un animale possa dirsi addomesticato, deveesser completamente o in parte sotto il controllodell’uomo, oltre a recargli vantaggio economico. Quan-do l’uomo addomesticò l’armento, si valse del fatto chequesto s’era già in parte addomesticato da sè; cioè, vi-vendo sotto la guida dei maschi adulti. La forza fisica, la

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ferocia di questi maschi non solo proteggevano l’armen-to da altri animali, ma per la legge del più forte decide-vano quale dovesse essere il genitore maschio, eserci-tando così una specie di selezione naturale della razza.

Prima che i ghiacci trasformassero il mondo nordico,l’uomo aveva inventato la caccia in gruppo di animalipossenti come il mammut, il rinoceronte, l’elefante, ol-tre a belve feroci come la tigre e il leone. Era un grandeprogresso; ma non si trattava che di singoli animali con-tro parecchi uomini; di una limitata intelligenza controparecchie menti sveglie, sostenute dalla memoria di pas-sate esperienze. Allorchè i ghiacci cacciarono in mandreil cavallo selvaggio, il bisonte e la renna dal Nord, con-finandoli gradatamente nei ristretti pascoli d’Europa,l’uomo si ebbe di fronte la mandra. Che le armidell’uomo cominciassero a trasformarsi non fu per caso.Egli si trovò faccia a faccia con una necessità che mette-va a prova la sua intelligenza. La sua risposta fu l’armada lancio, acuita da punte di pietra o d’osso: il giavellot-to, la fionda, il bolo, l’atlal, l’arpione. Egli aveva biso-gno di armi di cui potersi servire a distanza, fuor di por-tata dei maschi difensori del branco.

Ma quando la necessità gli suggerì di domare e adde-strare questi animali per i propri scopi, la ferocia tantoutile al branco diventò un ostacolo quasi insuperabileche si opponeva a desideri e bisogni dell’uomo e al pro-gresso.

I maschi degli animali sono tuttora pericolosi. Anchedopo millenni di domesticità, di vita in comune con

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ferocia di questi maschi non solo proteggevano l’armen-to da altri animali, ma per la legge del più forte decide-vano quale dovesse essere il genitore maschio, eserci-tando così una specie di selezione naturale della razza.

Prima che i ghiacci trasformassero il mondo nordico,l’uomo aveva inventato la caccia in gruppo di animalipossenti come il mammut, il rinoceronte, l’elefante, ol-tre a belve feroci come la tigre e il leone. Era un grandeprogresso; ma non si trattava che di singoli animali con-tro parecchi uomini; di una limitata intelligenza controparecchie menti sveglie, sostenute dalla memoria di pas-sate esperienze. Allorchè i ghiacci cacciarono in mandreil cavallo selvaggio, il bisonte e la renna dal Nord, con-finandoli gradatamente nei ristretti pascoli d’Europa,l’uomo si ebbe di fronte la mandra. Che le armidell’uomo cominciassero a trasformarsi non fu per caso.Egli si trovò faccia a faccia con una necessità che mette-va a prova la sua intelligenza. La sua risposta fu l’armada lancio, acuita da punte di pietra o d’osso: il giavellot-to, la fionda, il bolo, l’atlal, l’arpione. Egli aveva biso-gno di armi di cui potersi servire a distanza, fuor di por-tata dei maschi difensori del branco.

Ma quando la necessità gli suggerì di domare e adde-strare questi animali per i propri scopi, la ferocia tantoutile al branco diventò un ostacolo quasi insuperabileche si opponeva a desideri e bisogni dell’uomo e al pro-gresso.

I maschi degli animali sono tuttora pericolosi. Anchedopo millenni di domesticità, di vita in comune con

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l’uomo, il toro e lo stallone devono essere trattati congrandi precauzioni. Nelle carovane dell’Asia, la mag-gioranza dei cammelli sono femmine o castrati, e i ma-schi sono contrassegnati da un nastro rosso, affinchè icammellieri possano distinguerli da lontano. Negli StatiUniti, i cow-boys sono armati di grosse rivoltelle per po-tersi difendere, al caso, dai tori. Se per una sola genera-zione l’uomo cessasse di domare i grandi armenti di be-stiame nel mondo, questi ritornerebbero allo stato sel-vaggio, e non si può dire quando e come l’uomo potreb-be riacquistarne il controllo. Infinitamente più pericolo-so sarà quindi stato il compito dell’uomo, quando per laprima volta si trovò di fronte ad armenti selvatici. Il pro-blema sarebbe stato insolubile senza l’invenzione dellacastrazione. Come fu che l’uomo venne ad associarenella sua mente la ferocia dell’animale maschio con leglandole sessuali? Come concepì l’idea di servirsi deicastrati docili per acquistare individualmente controllosugli animali?

Propendiamo a considerare l’idea come un risultatocombinato della sua esperienza di cacciatore e di certiconcetti di magia. Sulle pitture e sui bassorilievi muralinelle caverne dell’ultima Età Paelolitica, immediata-mente precedenti alla Neolitica, l’uomo dimostra il chia-ro concetto che ha delle funzioni di riproduzione, e sene serve come di formule di magia simpatica, per inco-raggiare la fecondità dell’armento. Inoltre, non dovevaessergli sfuggita l’accresciuta ferocia dei maschi durantela primavera. Ci sarà stato un primo uomo a concepire

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l’uomo, il toro e lo stallone devono essere trattati congrandi precauzioni. Nelle carovane dell’Asia, la mag-gioranza dei cammelli sono femmine o castrati, e i ma-schi sono contrassegnati da un nastro rosso, affinchè icammellieri possano distinguerli da lontano. Negli StatiUniti, i cow-boys sono armati di grosse rivoltelle per po-tersi difendere, al caso, dai tori. Se per una sola genera-zione l’uomo cessasse di domare i grandi armenti di be-stiame nel mondo, questi ritornerebbero allo stato sel-vaggio, e non si può dire quando e come l’uomo potreb-be riacquistarne il controllo. Infinitamente più pericolo-so sarà quindi stato il compito dell’uomo, quando per laprima volta si trovò di fronte ad armenti selvatici. Il pro-blema sarebbe stato insolubile senza l’invenzione dellacastrazione. Come fu che l’uomo venne ad associarenella sua mente la ferocia dell’animale maschio con leglandole sessuali? Come concepì l’idea di servirsi deicastrati docili per acquistare individualmente controllosugli animali?

Propendiamo a considerare l’idea come un risultatocombinato della sua esperienza di cacciatore e di certiconcetti di magia. Sulle pitture e sui bassorilievi muralinelle caverne dell’ultima Età Paelolitica, immediata-mente precedenti alla Neolitica, l’uomo dimostra il chia-ro concetto che ha delle funzioni di riproduzione, e sene serve come di formule di magia simpatica, per inco-raggiare la fecondità dell’armento. Inoltre, non dovevaessergli sfuggita l’accresciuta ferocia dei maschi durantela primavera. Ci sarà stato un primo uomo a concepire

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l’idea della castrazione, oltre a una prima specie e a unprimo animale di questa che fu soggetto di quell’esperi-mento. Più avanti, considereremo i primordî degli espe-rimenti col vapore acqueo e l’elettricità, e quelli recen-tissimi sulle forze cosmiche dell’atomo. Con tutto il do-vuto rispetto, sosteniamo che l’esperimento di cui trat-tiamo ora è ugualmente vitale e, da un punto di vista fi-losofico, simile. Quanto l’invenzione della castrazioneanimale abbia contribuito alla forza dell’umanità nellaconquista della natura o dell’ambiente; in quanti milionidi miglia di faticoso cammino abbia sollevato l’uomo, edi quanti bilioni di altrimenti insostenibile peso, è cosaincalcolabile. Ciò che l’umanità deve a questa piccolaoperazione chirurgica eseguita con una pietra tagliente,non potrà mai esser computato in cifre.

La castrazione si diffuse subito ovunque vi fossero ar-menti di bovini, mandre di cavalli, cammelli, branchi direnne e di suini. Tutte le civiltà collimano a un certopunto e si scambiano qualche elemento. Tipi di finimen-ti, metodi di guidare, cavalcare, mungere ecc., passaro-no evidentemente da un paese all’altro. La diffusionecostante di questi particolari della civiltà è cosa troppocomplessa per fondarsi su una spiegazione tanto sempli-cista quale l’invenzione indipendente in ogni regione.L’Asia e l’Europa offrono vasti spazi, ma non c’è partedi esse che anche nella preistoria non fosse inaccessibileai pastori nomadi. Varie ragioni ci fanno credere che ilbove sia stato uno dei più antichi animali piegati al gio-go, assai prima del cavallo; ma può darsi che il cane e la

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l’idea della castrazione, oltre a una prima specie e a unprimo animale di questa che fu soggetto di quell’esperi-mento. Più avanti, considereremo i primordî degli espe-rimenti col vapore acqueo e l’elettricità, e quelli recen-tissimi sulle forze cosmiche dell’atomo. Con tutto il do-vuto rispetto, sosteniamo che l’esperimento di cui trat-tiamo ora è ugualmente vitale e, da un punto di vista fi-losofico, simile. Quanto l’invenzione della castrazioneanimale abbia contribuito alla forza dell’umanità nellaconquista della natura o dell’ambiente; in quanti milionidi miglia di faticoso cammino abbia sollevato l’uomo, edi quanti bilioni di altrimenti insostenibile peso, è cosaincalcolabile. Ciò che l’umanità deve a questa piccolaoperazione chirurgica eseguita con una pietra tagliente,non potrà mai esser computato in cifre.

La castrazione si diffuse subito ovunque vi fossero ar-menti di bovini, mandre di cavalli, cammelli, branchi direnne e di suini. Tutte le civiltà collimano a un certopunto e si scambiano qualche elemento. Tipi di finimen-ti, metodi di guidare, cavalcare, mungere ecc., passaro-no evidentemente da un paese all’altro. La diffusionecostante di questi particolari della civiltà è cosa troppocomplessa per fondarsi su una spiegazione tanto sempli-cista quale l’invenzione indipendente in ogni regione.L’Asia e l’Europa offrono vasti spazi, ma non c’è partedi esse che anche nella preistoria non fosse inaccessibileai pastori nomadi. Varie ragioni ci fanno credere che ilbove sia stato uno dei più antichi animali piegati al gio-go, assai prima del cavallo; ma può darsi che il cane e la

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slitta siano più antichi ancora. Non c’è dubbio che ilcane sia stato il primo animale addomesticato, forse findai tempi in cui l’uomo non era che cacciatore. L’addo-mesticazione di questo utile e fedele animale seguì altrevie; non fu mai domato un branco poichè un branco dilupi non avrebbe servito ad alcun uso. Anzi, l’uomo do-vette disgregare il branco, prima che il singolo lupo di-ventasse il suo compagno di caccia.

Ma è con l’addomesticazione secondaria di altri ani-mali che l’uomo dimostra la sua più grande ingegnosità.Egli trasforma radicalmente tipo, carattere, abitudini,aspetto fisico e proporzioni dei suoi animali. Il cibo el’ambiente possono avere influenzato questi cambia-menti, ma l’elemento maggiore fu la selezione, operatanella razza, piuttosto a favor dell’uomo che non dellanatura; e poichè la castrazione dava modo all’uomo dieliminare certi tipi di maschi, fu un potente fattore in talsenso. Tanto lontano arriva la selezione, che vi sono og-gigiorno alcuni tipi di animali domestici che non potreb-bero esistere neppure per una sola generazione senzal’aiuto dell’uomo, loro signore e modificatore.

Col tempo, via via che la vita diventava più comples-sa e cresceva la richiesta di schiavi docili, l’uomo appli-cò all’uomo la castrazione. L’eunuco divenne una mer-canzia come un’altra.

Alla lista degli animali domestici, l’Egitto contribuìcon l’asino, l’oca e alcune varietà di anitre. Al Perù dob-biamo il lama, che servì e serve tuttora come animale datiro ed è utile per la carne quanto per la lana; del Messi-

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slitta siano più antichi ancora. Non c’è dubbio che ilcane sia stato il primo animale addomesticato, forse findai tempi in cui l’uomo non era che cacciatore. L’addo-mesticazione di questo utile e fedele animale seguì altrevie; non fu mai domato un branco poichè un branco dilupi non avrebbe servito ad alcun uso. Anzi, l’uomo do-vette disgregare il branco, prima che il singolo lupo di-ventasse il suo compagno di caccia.

Ma è con l’addomesticazione secondaria di altri ani-mali che l’uomo dimostra la sua più grande ingegnosità.Egli trasforma radicalmente tipo, carattere, abitudini,aspetto fisico e proporzioni dei suoi animali. Il cibo el’ambiente possono avere influenzato questi cambia-menti, ma l’elemento maggiore fu la selezione, operatanella razza, piuttosto a favor dell’uomo che non dellanatura; e poichè la castrazione dava modo all’uomo dieliminare certi tipi di maschi, fu un potente fattore in talsenso. Tanto lontano arriva la selezione, che vi sono og-gigiorno alcuni tipi di animali domestici che non potreb-bero esistere neppure per una sola generazione senzal’aiuto dell’uomo, loro signore e modificatore.

Col tempo, via via che la vita diventava più comples-sa e cresceva la richiesta di schiavi docili, l’uomo appli-cò all’uomo la castrazione. L’eunuco divenne una mer-canzia come un’altra.

Alla lista degli animali domestici, l’Egitto contribuìcon l’asino, l’oca e alcune varietà di anitre. Al Perù dob-biamo il lama, che servì e serve tuttora come animale datiro ed è utile per la carne quanto per la lana; del Messi-

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co è originario il tacchino. Ma di primaria importanza èla lista dell’Asia e dell’Eurasia, che comprende il bove,il bufalo, la pecora, il porco, l’elefante, il cammello, lagallina, il piccione e il cavallo. Le ragioni di tale predo-minanza sono difficili a indagarsi; possono essere dovu-te ugualmente alla maggiore antichità dell’uomo inAsia, come alle ricchezze naturali della fauna; forseall’invenzione del veicolo a ruote, o all’incrocio fra ani-mali di tipo affine. In ogni caso, la ricchezza della faunadomestica dell’Asia va di pari passo con la superioritànumerica e di qualità dei vegetali commestibili e conquella delle sue invenzioni tecniche. Ma queste sonocongetture, e dobbiamo contentarci dei fatti senza ricer-care spiegazioni troppo sofistiche.

Esaminiamo ora alcuni fatti specifici. La renna è for-se l’ultimo animale che l’uomo si è assoggettato. Essanon è altro che il caribù addomesticato: quel medesimoanimale durante il Periodo Magdaleniano che si trovavain Francia. Nelle terre artiche dell’Europa e dell’Ameri-ca Settentrionale il caribù selvaggio esiste ancora e vie-ne cacciato.

Ecco quanto ci dice Gudmund Hatt, riconosciuta au-torità in materia di nomadismo della renna: «In com-plesso, la civiltà dei nomadi della renna offre alcune ca-ratteristiche indubbiamente anteriori all’addomestica-zione della renna, e altre ereditate dal periodo della cac-cia. Uno studio comparato della civiltà materiale di que-sti nomadi e delle tribù americane Atabasche e Algon-quine, che similmente usano la renna, rivelerebbe un di-

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co è originario il tacchino. Ma di primaria importanza èla lista dell’Asia e dell’Eurasia, che comprende il bove,il bufalo, la pecora, il porco, l’elefante, il cammello, lagallina, il piccione e il cavallo. Le ragioni di tale predo-minanza sono difficili a indagarsi; possono essere dovu-te ugualmente alla maggiore antichità dell’uomo inAsia, come alle ricchezze naturali della fauna; forseall’invenzione del veicolo a ruote, o all’incrocio fra ani-mali di tipo affine. In ogni caso, la ricchezza della faunadomestica dell’Asia va di pari passo con la superioritànumerica e di qualità dei vegetali commestibili e conquella delle sue invenzioni tecniche. Ma queste sonocongetture, e dobbiamo contentarci dei fatti senza ricer-care spiegazioni troppo sofistiche.

Esaminiamo ora alcuni fatti specifici. La renna è for-se l’ultimo animale che l’uomo si è assoggettato. Essanon è altro che il caribù addomesticato: quel medesimoanimale durante il Periodo Magdaleniano che si trovavain Francia. Nelle terre artiche dell’Europa e dell’Ameri-ca Settentrionale il caribù selvaggio esiste ancora e vie-ne cacciato.

Ecco quanto ci dice Gudmund Hatt, riconosciuta au-torità in materia di nomadismo della renna: «In com-plesso, la civiltà dei nomadi della renna offre alcune ca-ratteristiche indubbiamente anteriori all’addomestica-zione della renna, e altre ereditate dal periodo della cac-cia. Uno studio comparato della civiltà materiale di que-sti nomadi e delle tribù americane Atabasche e Algon-quine, che similmente usano la renna, rivelerebbe un di-

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screto numero di affinità». È curioso che gli indigenidell’America artica, i quali tanto presero dalla Siberia,non abbiano anche preso la renna addomesticata, con-tentandosi per i trasporti della slitta trainata dal cane.Grandi cacciatori di caribù, essi lo cacciano con la stes-sa organizzazione in uso in Europa e in Asia. Ma conl’introduzione delle più moderne cacce alla balenaall’estremo Nord, essi decimarono i caribù costringen-doli anche a mutar d’abitudini, col risultato che ben pre-sto i cacciatori si trovarono alle porte della fame.

Ma queste tribù sono ora sotto la giurisdizione degliStati Uniti e del Canadà, e fortunatamente le due nazioniricordano l'obbrobriosa storia del bisonte. I rapporti diquesti governi coi loro neolitici pupilli non sono maistati particolarmente avveduti nè amichevoli; ma in que-sto caso, entrambi i governi hanno agito con rara pru-denza. Importarono le renne; installarono scuole per in-segnare agli Atabaschi e agli Esquimesi il modo di alle-varle e trattarle. Così entro l'ambito di una sola genera-zione, dallo stato di cacciatori un intero popolo è passa-to a quello più progredito di pastori. Un imprevisto ri-sultato di questo esperimento è stata la comparsa nellegrandi metropoli di carne commestibile di renna. Dopomillenni, l'uomo civilizzato può dunque gustare il cibofavorito dei progenitori paleolitici, allorchè la FranciaSettentrionale era una sola barriera di azzurri ghiacciai.

Per quanto ci consta, le sterili alture dell'Alaska, legelide tundre e le spinose macchie del Canadà articoospitano gli ultimi pastori nomadi, i quali seguono gli

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screto numero di affinità». È curioso che gli indigenidell’America artica, i quali tanto presero dalla Siberia,non abbiano anche preso la renna addomesticata, con-tentandosi per i trasporti della slitta trainata dal cane.Grandi cacciatori di caribù, essi lo cacciano con la stes-sa organizzazione in uso in Europa e in Asia. Ma conl’introduzione delle più moderne cacce alla balenaall’estremo Nord, essi decimarono i caribù costringen-doli anche a mutar d’abitudini, col risultato che ben pre-sto i cacciatori si trovarono alle porte della fame.

Ma queste tribù sono ora sotto la giurisdizione degliStati Uniti e del Canadà, e fortunatamente le due nazioniricordano l'obbrobriosa storia del bisonte. I rapporti diquesti governi coi loro neolitici pupilli non sono maistati particolarmente avveduti nè amichevoli; ma in que-sto caso, entrambi i governi hanno agito con rara pru-denza. Importarono le renne; installarono scuole per in-segnare agli Atabaschi e agli Esquimesi il modo di alle-varle e trattarle. Così entro l'ambito di una sola genera-zione, dallo stato di cacciatori un intero popolo è passa-to a quello più progredito di pastori. Un imprevisto ri-sultato di questo esperimento è stata la comparsa nellegrandi metropoli di carne commestibile di renna. Dopomillenni, l'uomo civilizzato può dunque gustare il cibofavorito dei progenitori paleolitici, allorchè la FranciaSettentrionale era una sola barriera di azzurri ghiacciai.

Per quanto ci consta, le sterili alture dell'Alaska, legelide tundre e le spinose macchie del Canadà articoospitano gli ultimi pastori nomadi, i quali seguono gli

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ultimi armenti: le renne. In base a questo esperimentogli Stati Uniti potrebbero fare un altro passo avanti e ad-domesticare un animale che finora è sfuggito a ogni ten-tativo in proposito il bisonte. L'inutile strage di questonobile e prezioso animale fu uno dei maggiori peccaticommessi contro il buon senso. Gli Stati Uniti potrebbe-ro adattare a praterie per le mandre di bisonti e bufaliqualche milione d'acri delle proprie terre incolte, le qua-li, abbandonate a se stesse, minacciano financo l'esisten-za delle grandi città. La carne di bufalo non è un cibodisprezzabile, e il cuoio di bufalo è da preferirsi ai ciclo-ni di polvere, alle inondazioni o alla siccità. E in questomodo, un popolo industriale potrebbe forse «inventare»un altro animale domestico, in piena Età della Macchi-na.

Le pecora è fra i più antichi animali domestici, manon fu mai addestrata singolarmente per scopi economi-ci. L'uomo se ne servì prima come cibo, poi ne usò lalana per filare, Già dai più antichi tempi se ne conosco-no molte varietà, risultati di allevamenti, incroci e sele-zioni; ma si crede che il progenitore di tutte le specie sial'argali, originario dell'Asia Occidentale. Anchenell'Epoca Neolitica, dai loro paesi di origine gli ovinis'erano sparsi per la Mesopotamia, l'Egitto, le Isole Me-diterranee, l'Italia, l'Europa Centrale e del Nord, l'Inghil-terra e le Isole Orkney. Ai nostri giorni si contano tren-tadue razze note, oltre a innumerevoli incroci; gli ovinisono acclimatati in tutte le regioni del mondo fuorchèl'estremo Nord e le terre tropicali a clima piovoso. Sono

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ultimi armenti: le renne. In base a questo esperimentogli Stati Uniti potrebbero fare un altro passo avanti e ad-domesticare un animale che finora è sfuggito a ogni ten-tativo in proposito il bisonte. L'inutile strage di questonobile e prezioso animale fu uno dei maggiori peccaticommessi contro il buon senso. Gli Stati Uniti potrebbe-ro adattare a praterie per le mandre di bisonti e bufaliqualche milione d'acri delle proprie terre incolte, le qua-li, abbandonate a se stesse, minacciano financo l'esisten-za delle grandi città. La carne di bufalo non è un cibodisprezzabile, e il cuoio di bufalo è da preferirsi ai ciclo-ni di polvere, alle inondazioni o alla siccità. E in questomodo, un popolo industriale potrebbe forse «inventare»un altro animale domestico, in piena Età della Macchi-na.

Le pecora è fra i più antichi animali domestici, manon fu mai addestrata singolarmente per scopi economi-ci. L'uomo se ne servì prima come cibo, poi ne usò lalana per filare, Già dai più antichi tempi se ne conosco-no molte varietà, risultati di allevamenti, incroci e sele-zioni; ma si crede che il progenitore di tutte le specie sial'argali, originario dell'Asia Occidentale. Anchenell'Epoca Neolitica, dai loro paesi di origine gli ovinis'erano sparsi per la Mesopotamia, l'Egitto, le Isole Me-diterranee, l'Italia, l'Europa Centrale e del Nord, l'Inghil-terra e le Isole Orkney. Ai nostri giorni si contano tren-tadue razze note, oltre a innumerevoli incroci; gli ovinisono acclimatati in tutte le regioni del mondo fuorchèl'estremo Nord e le terre tropicali a clima piovoso. Sono

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animali che si accontentano delle più primitive condi-zioni di vita. In un recente numero della rivista Antiqui-ty il dottor Max Hilzheimer scrive: «In alcune regioniasiatiche la pecora domestica vive ancor oggi allo statoselvaggio, e le mandre compiono le loro migrazioni an-nuali seguite dai proprietari. Non si addomesticano mainel vero senso della parola, poichè non vengono mairinchiuse nell'addiaccio...»

Animali come il bove o la pecora possono aver costi-tuito maggior valore economico, ma il cavallo sta al pri-mo posto, quale fattore sociale nella storia primitiva. Èla grande forza nelle migrazioni e nelle guerre; e anchenei tempi moderni è stato sostituito soltanto in parte dalmotore. Per migliaia d'anni il cavallo dominò i destinidell'umanità. Nelle civiltà agricole dell'Asia Minore edella Mesopotamia, questo strano e terribile animale eranoto come l'«asino delle montagne». L'uomo guardavaallora con terrore a quelle gole che dai monti si aprivanoalle pianure fertili ma offerte a tutti i pericoli. Nel 2°millennio A. C., l'Egitto retrocedeva di fronte ai cavalie-ri semitici, i Re Pastori e gli Ittiti; ma più tardi, gli stessisuoi soldati adottavano il cavallo e il carro a due ruote.A cavallo i Greci dovettero uscir dalle piane nordicheper conquistare l'antica cultura di Micene. I Romani era-no cavalieri; equestre era sinonimo di nobile, allorchèRoma dominava il mondo. Per cinquemila anni e più,fino all’avvento del vapore, il cavallo regnò da signoreindiscusso; e l’uomo a piedi fu alla mercè di tutte leorde che a cavallo giungevano dal lontano Oriente.

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animali che si accontentano delle più primitive condi-zioni di vita. In un recente numero della rivista Antiqui-ty il dottor Max Hilzheimer scrive: «In alcune regioniasiatiche la pecora domestica vive ancor oggi allo statoselvaggio, e le mandre compiono le loro migrazioni an-nuali seguite dai proprietari. Non si addomesticano mainel vero senso della parola, poichè non vengono mairinchiuse nell'addiaccio...»

Animali come il bove o la pecora possono aver costi-tuito maggior valore economico, ma il cavallo sta al pri-mo posto, quale fattore sociale nella storia primitiva. Èla grande forza nelle migrazioni e nelle guerre; e anchenei tempi moderni è stato sostituito soltanto in parte dalmotore. Per migliaia d'anni il cavallo dominò i destinidell'umanità. Nelle civiltà agricole dell'Asia Minore edella Mesopotamia, questo strano e terribile animale eranoto come l'«asino delle montagne». L'uomo guardavaallora con terrore a quelle gole che dai monti si aprivanoalle pianure fertili ma offerte a tutti i pericoli. Nel 2°millennio A. C., l'Egitto retrocedeva di fronte ai cavalie-ri semitici, i Re Pastori e gli Ittiti; ma più tardi, gli stessisuoi soldati adottavano il cavallo e il carro a due ruote.A cavallo i Greci dovettero uscir dalle piane nordicheper conquistare l'antica cultura di Micene. I Romani era-no cavalieri; equestre era sinonimo di nobile, allorchèRoma dominava il mondo. Per cinquemila anni e più,fino all’avvento del vapore, il cavallo regnò da signoreindiscusso; e l’uomo a piedi fu alla mercè di tutte leorde che a cavallo giungevano dal lontano Oriente.

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Secondo Hilzheimer tutti i cavalli, eccettuato forsel’arabo, discendono dalla specie ora estinta del Tarpan,che un tempo errò per le steppe del Mar Nero. Scarsasembra la parentela fra i magri cavallini irsuti del Norde i nobili cavalli da guerra che vediamo sui bassorilieviassiri o tra i pesanti Percherons e i destrieri dei cavalierimedioevali e gli svelti cavalli da caccia e da corsa delgiorno d’oggi; ma queste diversità non sono dovute cheal clima, all’ambiente e all’intelligenza degli allevatori.Senza dubbio gran parte dell’antica superiorità dei ca-valli di Persia, d’Asia e d’Africa su quelli d’Europa fumerito dei foraggi coltivati, tra cui è da noverare in pri-mo luogo l’alfalfa.

Singolare è il fatto che per quanto importante sia statala parte del cavallo nelle civiltà che seguirono, per quan-to romantico il suo apparire nel mondo primitivo, il suoprimo influsso sulla civiltà fu deleterio. Per decine di se-coli i popoli sedentari, dediti all’agricoltura, tremaronodi fronte alle orde dei selvaggi cavalieri che piombava-no dall’Asia. Infinite volte queste umane ondate di di-struzione invasero i campi coltivati, lasciando squalloree rovina là dov’erano abbondanza e civiltà in divenire.Damasco e Babilonia, Ninive e Menfi conobbero la pol-vere sollevata da quei tempestosi zoccoli. A varie ripre-se l’India fu devastata, e nemmeno la Grande Muragliaservì di difesa alla Cina. Gli Sciti, che diedero un granda fare a Erodoto (450 A. C.) e i Hiung-Nu, che minac-ciarono e saccheggiarono la Cina, appaiono singolar-mente affini: entrambi questi popoli vivevano di Ku-

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Secondo Hilzheimer tutti i cavalli, eccettuato forsel’arabo, discendono dalla specie ora estinta del Tarpan,che un tempo errò per le steppe del Mar Nero. Scarsasembra la parentela fra i magri cavallini irsuti del Norde i nobili cavalli da guerra che vediamo sui bassorilieviassiri o tra i pesanti Percherons e i destrieri dei cavalierimedioevali e gli svelti cavalli da caccia e da corsa delgiorno d’oggi; ma queste diversità non sono dovute cheal clima, all’ambiente e all’intelligenza degli allevatori.Senza dubbio gran parte dell’antica superiorità dei ca-valli di Persia, d’Asia e d’Africa su quelli d’Europa fumerito dei foraggi coltivati, tra cui è da noverare in pri-mo luogo l’alfalfa.

Singolare è il fatto che per quanto importante sia statala parte del cavallo nelle civiltà che seguirono, per quan-to romantico il suo apparire nel mondo primitivo, il suoprimo influsso sulla civiltà fu deleterio. Per decine di se-coli i popoli sedentari, dediti all’agricoltura, tremaronodi fronte alle orde dei selvaggi cavalieri che piombava-no dall’Asia. Infinite volte queste umane ondate di di-struzione invasero i campi coltivati, lasciando squalloree rovina là dov’erano abbondanza e civiltà in divenire.Damasco e Babilonia, Ninive e Menfi conobbero la pol-vere sollevata da quei tempestosi zoccoli. A varie ripre-se l’India fu devastata, e nemmeno la Grande Muragliaservì di difesa alla Cina. Gli Sciti, che diedero un granda fare a Erodoto (450 A. C.) e i Hiung-Nu, che minac-ciarono e saccheggiarono la Cina, appaiono singolar-mente affini: entrambi questi popoli vivevano di Ku-

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miss, e bevevano intossicanti beveraggi entro i teschidei nemici uccisi; la sella era la loro dimora permanente,ed erano insuperabili arcieri. Roma, sicura del suo anti-co diritto, si circondò della dignità delle sue imbattibililegioni; ma le fortezze sul Danubio, sul Reno, sul remo-to Eufrate, non la salvarono in ultimo da quel fiume in-cessante e sempre rinnovato di cavalieri che dalle aridepiane dell’Asia andavano verso l’Occidente.

Costantinopoli, custodita dalle massicce mura, dallesue navi e dal segreto di quel fuoco inestinguibile tra-mandatole dagli Assiri, seppe tenere a bada i cavalieribarbari per un migliaio d’anni dopo che Roma era cadu-ta e il resto dell’Europa era diventato un solo immensobivacco di cavalli. Ma poco meno di mezzo secolo pri-ma che il genio meccanico d’Europa aprisse al commer-cio gli oceani del mondo, la dolce signora del Bosforodovette cedere di fronte ai cavalieri di Maometto Alì,spalleggiati, è vero, dai potenti cannoni dei Franchi.

Consideriamo le vecchie città europee che guardanoall’Oriente: sono ben fortificate, persino le loro chiesesono cittadelle, armate contro il nemico che perenne-mente minaccia dall’Oriente. Solo dopo la scopertadell’America, dopo la conquista del Perù e del Messico,quando già l’Europa si trovava alle soglie dell’età dellegrandi invenzioni, le inquiete orde si arrestano final-mente sotto le mura di Vienna e retrocedono davanti aun crudo inverno e alle bocche dei cannoni. In guerra,fino a tempi relativamente vicini, il cavallo fu sempreun fattore potente quanto il motore nella nostra epoca.

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miss, e bevevano intossicanti beveraggi entro i teschidei nemici uccisi; la sella era la loro dimora permanente,ed erano insuperabili arcieri. Roma, sicura del suo anti-co diritto, si circondò della dignità delle sue imbattibililegioni; ma le fortezze sul Danubio, sul Reno, sul remo-to Eufrate, non la salvarono in ultimo da quel fiume in-cessante e sempre rinnovato di cavalieri che dalle aridepiane dell’Asia andavano verso l’Occidente.

Costantinopoli, custodita dalle massicce mura, dallesue navi e dal segreto di quel fuoco inestinguibile tra-mandatole dagli Assiri, seppe tenere a bada i cavalieribarbari per un migliaio d’anni dopo che Roma era cadu-ta e il resto dell’Europa era diventato un solo immensobivacco di cavalli. Ma poco meno di mezzo secolo pri-ma che il genio meccanico d’Europa aprisse al commer-cio gli oceani del mondo, la dolce signora del Bosforodovette cedere di fronte ai cavalieri di Maometto Alì,spalleggiati, è vero, dai potenti cannoni dei Franchi.

Consideriamo le vecchie città europee che guardanoall’Oriente: sono ben fortificate, persino le loro chiesesono cittadelle, armate contro il nemico che perenne-mente minaccia dall’Oriente. Solo dopo la scopertadell’America, dopo la conquista del Perù e del Messico,quando già l’Europa si trovava alle soglie dell’età dellegrandi invenzioni, le inquiete orde si arrestano final-mente sotto le mura di Vienna e retrocedono davanti aun crudo inverno e alle bocche dei cannoni. In guerra,fino a tempi relativamente vicini, il cavallo fu sempreun fattore potente quanto il motore nella nostra epoca.

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Le ricerche moderne ci vanno rivelando un’Asia anti-ca assai diversa dai desolati deserti che finora suppone-vamo. Oltre duecentocinquanta città gli archeologi han-no segnato sulle loro carte; le quali non chiedono che dirivelar sepolti mondi di bellezza a un mondo che, Dio losa, di bellezza ha bisogno per mitigar in parte almeno labrutalità delle sue metropoli. Ognuna di queste città eraun centro di ricchezza, basato sull’agricoltura e sul com-mercio; e andarono distrutte in guerre in cui il cavalloera il fattore dominante, più forte ancora del ferro.

Il professor A. D. D. Sanford, di Oxford, osserva: «Iosono convinto che dal principio dell’Era Cristiana in quavi siano stati pochi radicali cambiamenti di clima, men-tre vi furono trasformazioni locali d’importanza vitale.D’altra parte, vediamo come l’uomo abbia riscattato va-ste zone dal deserto, per poi lasciarle nuovamente deca-dere». La stessa amara verità si può applicare alle coste,un tempo fertilissime, dell’Africa Settentrionale: l’uomole coltivò, le nobilitò; ma fu poi la guerra e non la naturaa mutarle in deserti.

L’agricoltura in Persia, Babilonia e Caldea si basavasu vaste opere d’irrigazione che regolavano l’Eufrate eil Tigri, e su un forte governo che conosceva il valore e ipericoli dell’acqua, e sapeva che l’agricoltura era la basedella civiltà. Così, monti e foreste erano protetti, e scon-giurato il pericolo di erosione per opera delle acque.Nessun cittadino aveva il diritto di disporre a modo suodi una ricchezza essenziale e naturale.

Sembra che gli eserciti invasori, crudeli e avidi di

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Le ricerche moderne ci vanno rivelando un’Asia anti-ca assai diversa dai desolati deserti che finora suppone-vamo. Oltre duecentocinquanta città gli archeologi han-no segnato sulle loro carte; le quali non chiedono che dirivelar sepolti mondi di bellezza a un mondo che, Dio losa, di bellezza ha bisogno per mitigar in parte almeno labrutalità delle sue metropoli. Ognuna di queste città eraun centro di ricchezza, basato sull’agricoltura e sul com-mercio; e andarono distrutte in guerre in cui il cavalloera il fattore dominante, più forte ancora del ferro.

Il professor A. D. D. Sanford, di Oxford, osserva: «Iosono convinto che dal principio dell’Era Cristiana in quavi siano stati pochi radicali cambiamenti di clima, men-tre vi furono trasformazioni locali d’importanza vitale.D’altra parte, vediamo come l’uomo abbia riscattato va-ste zone dal deserto, per poi lasciarle nuovamente deca-dere». La stessa amara verità si può applicare alle coste,un tempo fertilissime, dell’Africa Settentrionale: l’uomole coltivò, le nobilitò; ma fu poi la guerra e non la naturaa mutarle in deserti.

L’agricoltura in Persia, Babilonia e Caldea si basavasu vaste opere d’irrigazione che regolavano l’Eufrate eil Tigri, e su un forte governo che conosceva il valore e ipericoli dell’acqua, e sapeva che l’agricoltura era la basedella civiltà. Così, monti e foreste erano protetti, e scon-giurato il pericolo di erosione per opera delle acque.Nessun cittadino aveva il diritto di disporre a modo suodi una ricchezza essenziale e naturale.

Sembra che gli eserciti invasori, crudeli e avidi di

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saccheggio, rispettassero le foreste e i sistemi d’irriga-zione, pur distruggendo le messi in via di maturare. Madopo la caduta di Roma, gli uomini cessarono di rispet-tare acque e foreste e le opere di quegli antichi ingegne-ri. I predoni maomettani erano cavalieri e pastori sel-vaggi; per essi, quegli intricati sistemi erano privi di va-lore.

Oggigiorno i discendenti di Attila, delle orde di Gen-gis Kan o dei seguaci di Timur, il beccaio zoppo, ancoraerrano per gli sterili deserti dell’Asia, seguendo i loroarmenti; compiendo, se capita l’occasione, qualche attodi brigantaggio. Ma non sognano più di supremazia sulmondo; a meno che qualche nazione moderna non inse-gni loro quegli stessi metodi che un tempo posero fine ailoro sogni. Ma fino a che non venga loro quest’aiuto,non saranno certo essi a turbar la pace d’Europa, e nem-meno dell’Asia. Eppure, che cosa abbiamo fatto noi,con tutta la nostra scienza e potenza, per cancellar dallafaccia della terra questi terribili deserti creati dall’avidi-tà e dall’ignoranza umana, là dove altri uomini avevanocreato un giorno pace e fertilità? L’ingegnositàdell’uomo nel distruggere le sue opere migliori è davve-ro sorprendente. La forza bruta ha distrutto più d’una ci-viltà; la forza, da sola, non ne ha mai creata alcuna. Nonesiste una civiltà fisica, nè potrà mai esistere; sarebbeuna contraddizione in termini.

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saccheggio, rispettassero le foreste e i sistemi d’irriga-zione, pur distruggendo le messi in via di maturare. Madopo la caduta di Roma, gli uomini cessarono di rispet-tare acque e foreste e le opere di quegli antichi ingegne-ri. I predoni maomettani erano cavalieri e pastori sel-vaggi; per essi, quegli intricati sistemi erano privi di va-lore.

Oggigiorno i discendenti di Attila, delle orde di Gen-gis Kan o dei seguaci di Timur, il beccaio zoppo, ancoraerrano per gli sterili deserti dell’Asia, seguendo i loroarmenti; compiendo, se capita l’occasione, qualche attodi brigantaggio. Ma non sognano più di supremazia sulmondo; a meno che qualche nazione moderna non inse-gni loro quegli stessi metodi che un tempo posero fine ailoro sogni. Ma fino a che non venga loro quest’aiuto,non saranno certo essi a turbar la pace d’Europa, e nem-meno dell’Asia. Eppure, che cosa abbiamo fatto noi,con tutta la nostra scienza e potenza, per cancellar dallafaccia della terra questi terribili deserti creati dall’avidi-tà e dall’ignoranza umana, là dove altri uomini avevanocreato un giorno pace e fertilità? L’ingegnositàdell’uomo nel distruggere le sue opere migliori è davve-ro sorprendente. La forza bruta ha distrutto più d’una ci-viltà; la forza, da sola, non ne ha mai creata alcuna. Nonesiste una civiltà fisica, nè potrà mai esistere; sarebbeuna contraddizione in termini.

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EGITTO E SUMER

Le grandi civiltà, ricche di dignità, ornate di bellezza,calme e sicure, si sono fondate sempre sulla coltivazio-ne dei cereali. In secondo luogo vennero gli animali do-mestici, i metalli e le invenzioni tecniche derivate dallaruota. La civiltà è, per così dire, una seconda fiorituradel frumento, dell’orzo, del riso e del granturco. Fu lacoltivazione dell’uno o dell’altro in regioni favorevoliche pose l’uomo al sicuro dalla fame, e lo persuase acessare i suoi vagabondaggi, a formare nei molti suoiidiomi e nei suoi innumeri cuori una parola che signifi-casse «casa».

L’Egitto ci appare una terra antichissima, non solo;ma quale un’associazione saggia e veneranda dal puntodi vista economico quanto da quello sociale. La sua ci-viltà resistette attraverso guerre, ribellioni e invasioni, eogni tanto sorse e risorse a grande splendore. Eppure,anche l’Egitto è meno antico dell’orzo e del frumento.Per il tramite dei Greci e di altri popoli, l’Egitto traman-dò i suoi doni al mondo; e perciò merita la nostra rico-noscenza.

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EGITTO E SUMER

Le grandi civiltà, ricche di dignità, ornate di bellezza,calme e sicure, si sono fondate sempre sulla coltivazio-ne dei cereali. In secondo luogo vennero gli animali do-mestici, i metalli e le invenzioni tecniche derivate dallaruota. La civiltà è, per così dire, una seconda fiorituradel frumento, dell’orzo, del riso e del granturco. Fu lacoltivazione dell’uno o dell’altro in regioni favorevoliche pose l’uomo al sicuro dalla fame, e lo persuase acessare i suoi vagabondaggi, a formare nei molti suoiidiomi e nei suoi innumeri cuori una parola che signifi-casse «casa».

L’Egitto ci appare una terra antichissima, non solo;ma quale un’associazione saggia e veneranda dal puntodi vista economico quanto da quello sociale. La sua ci-viltà resistette attraverso guerre, ribellioni e invasioni, eogni tanto sorse e risorse a grande splendore. Eppure,anche l’Egitto è meno antico dell’orzo e del frumento.Per il tramite dei Greci e di altri popoli, l’Egitto traman-dò i suoi doni al mondo; e perciò merita la nostra rico-noscenza.

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Gli Egiziani furono il primo popolo a dividere l’annoin dodici mesi di trenta giorni ciascuno, con l’aggiuntadi cinque giorni di festività, sommandoli così ai 365giorni nostri. Ciò venne stabilito nell’anno 4241 A. C.: èla più antica data conosciuta. Per gli Egiziani, il tempoera una necessità: essi dovevano sapere quando veniva-no le inondazioni del Nilo, quando era necessario prepa-rare i terreni per i raccolti, e come regolare il vasto ecomplicato sistema d’irrigazione.

Già verso l’anno 3000 A. C. gli Egiziani possedevanouna serie di 24 segni alfabetici, ciascuno dei quali rap-presentava una lettera. Il loro alfabeto è il più antico delmondo; avrebbero potuto servirsene anche per scrivere,senonchè tanto inveterato era in essi l’uso dei geroglifi-ci, che vi rinunciarono. Il conservatorismo è una grandeforza, nella cultura dei popoli, ma spesso agisce in sensoinverso.

All’Egitto dobbiamo tuttavia l’invenzionedell’inchiostro, composto dapprima di sostanze vegetaligommose, di acqua e di fuliggine. La nostra prima pen-na fu una canna del Nilo, temperata a dovere; e dallascorza del papiro del Nilo provennero i primi fogli dicarta; la parola si è tramandata in molte lingue (franc.papier, ingl. paper ecc.). Il papiro si vendeva a rotolinella città di Biblos, sulle coste della Fenicia, dove arri-vavano molte merci egiziane; donde la parola bibbia,che assunse in seguito il significato di libro.

Già verso il 1600 A. C., i Semiti Occidentali avevanoescogitato un alfabeto per scopi commerciali, basato sui

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Gli Egiziani furono il primo popolo a dividere l’annoin dodici mesi di trenta giorni ciascuno, con l’aggiuntadi cinque giorni di festività, sommandoli così ai 365giorni nostri. Ciò venne stabilito nell’anno 4241 A. C.: èla più antica data conosciuta. Per gli Egiziani, il tempoera una necessità: essi dovevano sapere quando veniva-no le inondazioni del Nilo, quando era necessario prepa-rare i terreni per i raccolti, e come regolare il vasto ecomplicato sistema d’irrigazione.

Già verso l’anno 3000 A. C. gli Egiziani possedevanouna serie di 24 segni alfabetici, ciascuno dei quali rap-presentava una lettera. Il loro alfabeto è il più antico delmondo; avrebbero potuto servirsene anche per scrivere,senonchè tanto inveterato era in essi l’uso dei geroglifi-ci, che vi rinunciarono. Il conservatorismo è una grandeforza, nella cultura dei popoli, ma spesso agisce in sensoinverso.

All’Egitto dobbiamo tuttavia l’invenzionedell’inchiostro, composto dapprima di sostanze vegetaligommose, di acqua e di fuliggine. La nostra prima pen-na fu una canna del Nilo, temperata a dovere; e dallascorza del papiro del Nilo provennero i primi fogli dicarta; la parola si è tramandata in molte lingue (franc.papier, ingl. paper ecc.). Il papiro si vendeva a rotolinella città di Biblos, sulle coste della Fenicia, dove arri-vavano molte merci egiziane; donde la parola bibbia,che assunse in seguito il significato di libro.

Già verso il 1600 A. C., i Semiti Occidentali avevanoescogitato un alfabeto per scopi commerciali, basato sui

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geroglifici egiziani. I Fenici adottarono il sistema, cheera assai pratico, e lo passarono ai Greci, i quali vi ag-giunsero le vocali. Verso il 1000 A. C., gli Arabi perfe-zionavano definitivamente questi primitivi tentativi, eabbiamo finalmente il più antico sistema noto di scrittu-ra formato di lettere alfabetiche. I Babilonesi lo portaro-no per tutta l’Asia Occidentale, donde, attraversatol’Eufrate, passò nella Persia, e venne usato anche nelSanscrito.

Attraverso l’India, ogni altro alfabeto discende daquesto alfabeto orientale, che nacque dalla primitivaidea egiziana di 2000 anni fa. Nell’antico mondo asiati-co, l’aramaico era il linguaggio corrente, usato in com-mercio: il linguaggio con cui Cristo parlò dal Monte.

All’antico Egitto il mondo deve l’idea della naviga-zione a vela, destinata a rimanere invariata nei suoi prin-cipî dal terzo millennio A. C. all’incirca, fino a che,4500 anni più tardi, nel XIV e XV secolo, l’Europa Oc-cidentale sboccava nei turbolenti oceani dell’Atlantico.Agli artefici del Nilo dobbiamo le nostre moderne sup-pellettili. Il legno dovette essere importato, poichè quel-lo della valle del Nilo non era degno della loro abilità; ecosì, non essendovi miniere in Egitto, si dovè importareil rame per gli arnesi e gli strumenti. Ma al mondol’Egitto donò letti e tavoli, seggiole in tutte le forme:sgabelli, scranne e poltrone e troni. Ovunque gli uominisi seggano, oggigiorno, senza saperlo rendono omaggioai falegnami e stipettai del Nilo, e al senso di grazia edignità che informava tutta la vita egiziana.

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geroglifici egiziani. I Fenici adottarono il sistema, cheera assai pratico, e lo passarono ai Greci, i quali vi ag-giunsero le vocali. Verso il 1000 A. C., gli Arabi perfe-zionavano definitivamente questi primitivi tentativi, eabbiamo finalmente il più antico sistema noto di scrittu-ra formato di lettere alfabetiche. I Babilonesi lo portaro-no per tutta l’Asia Occidentale, donde, attraversatol’Eufrate, passò nella Persia, e venne usato anche nelSanscrito.

Attraverso l’India, ogni altro alfabeto discende daquesto alfabeto orientale, che nacque dalla primitivaidea egiziana di 2000 anni fa. Nell’antico mondo asiati-co, l’aramaico era il linguaggio corrente, usato in com-mercio: il linguaggio con cui Cristo parlò dal Monte.

All’antico Egitto il mondo deve l’idea della naviga-zione a vela, destinata a rimanere invariata nei suoi prin-cipî dal terzo millennio A. C. all’incirca, fino a che,4500 anni più tardi, nel XIV e XV secolo, l’Europa Oc-cidentale sboccava nei turbolenti oceani dell’Atlantico.Agli artefici del Nilo dobbiamo le nostre moderne sup-pellettili. Il legno dovette essere importato, poichè quel-lo della valle del Nilo non era degno della loro abilità; ecosì, non essendovi miniere in Egitto, si dovè importareil rame per gli arnesi e gli strumenti. Ma al mondol’Egitto donò letti e tavoli, seggiole in tutte le forme:sgabelli, scranne e poltrone e troni. Ovunque gli uominisi seggano, oggigiorno, senza saperlo rendono omaggioai falegnami e stipettai del Nilo, e al senso di grazia edignità che informava tutta la vita egiziana.

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L’Egitto ci ha lasciato in eredità le più antiche formedi commercio. Oltre 3000 anni A. C., le imbarcazioniegiziane risalivano il Nilo, fortificavano le cateratte con-tro i Nubiani, si addentravano nel Sahara e lasciavanoun presidio armato in un’oasi per tenere a bada le tribùlibiche; e stabilivano il commercio dell’avorio, dellapolvere d’oro, dell’ebano e dei Pigmei neri, delizia delleCorti dei Faraoni.

Il Nilo era connesso al Mar Rosso per mezzo d’un ca-nale; sulle coste dell’Africa Orientale le navi dei Farao-ni andavano a ricercare oro e avorio e schiavi neri. Ilcomplicato, esoterico culto dei defunti esigeva essenzepreziose, mirra e storace. Coloro che erano stati i potentidella terra dovevano essere conservati in tutto il lorosplendore, allorchè la morte li portava in un altro mon-do. Per loro volere le inondazioni del Nilo si lasciavanodietro fecondi depositi di melma; delle sottili striscie diterra tra le rive del gran fiume e le sabbie del deserto,essi avevano fatto i campi più fertili della terra. L’Egittoè la prima nazione di cui abbiamo testimonianza, cioè ilprimo gruppo di genti che vivessero sotto comuni condi-zioni sociali, con un comune linguaggio, con un corpodi leggi civili e un’unica religione. L’Egitto creò il pri-mo impero: un gruppo di nazioni socialmente unite daun’autorità militare.

L’Egitto conseguì tutte queste cose senz’altro metalloche il rame, importato dalle sue miniere del Sinai. L’uni-co ferro che gli Egiziani conoscessero proveniva daimeteoriti ed era chiamato «Metallo degli Dèi»; o era

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L’Egitto ci ha lasciato in eredità le più antiche formedi commercio. Oltre 3000 anni A. C., le imbarcazioniegiziane risalivano il Nilo, fortificavano le cateratte con-tro i Nubiani, si addentravano nel Sahara e lasciavanoun presidio armato in un’oasi per tenere a bada le tribùlibiche; e stabilivano il commercio dell’avorio, dellapolvere d’oro, dell’ebano e dei Pigmei neri, delizia delleCorti dei Faraoni.

Il Nilo era connesso al Mar Rosso per mezzo d’un ca-nale; sulle coste dell’Africa Orientale le navi dei Farao-ni andavano a ricercare oro e avorio e schiavi neri. Ilcomplicato, esoterico culto dei defunti esigeva essenzepreziose, mirra e storace. Coloro che erano stati i potentidella terra dovevano essere conservati in tutto il lorosplendore, allorchè la morte li portava in un altro mon-do. Per loro volere le inondazioni del Nilo si lasciavanodietro fecondi depositi di melma; delle sottili striscie diterra tra le rive del gran fiume e le sabbie del deserto,essi avevano fatto i campi più fertili della terra. L’Egittoè la prima nazione di cui abbiamo testimonianza, cioè ilprimo gruppo di genti che vivessero sotto comuni condi-zioni sociali, con un comune linguaggio, con un corpodi leggi civili e un’unica religione. L’Egitto creò il pri-mo impero: un gruppo di nazioni socialmente unite daun’autorità militare.

L’Egitto conseguì tutte queste cose senz’altro metalloche il rame, importato dalle sue miniere del Sinai. L’uni-co ferro che gli Egiziani conoscessero proveniva daimeteoriti ed era chiamato «Metallo degli Dèi»; o era

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uno scarso prodotto secondario delle sabbie d’oro dellaNubia, che i sacerdoti usavano per foggiare un piccoloscalpello che serviva ad aprire le labbra suggellate deimorti, affinchè potessero nutrirsi del cibo lasciato nelletombe a tale scopo.

L’unica bestia da soma originaria dell’Egitto era l’asi-no. La mucca serviva per il latte e la carne e per scopicerimoniali. La ruota era sconosciuta agli Egiziani. Ilcavallo e il carro a ruote non giunsero in Egitto che ver-so il 1800 A. C. – insieme al ferro fuso, e all’arco e allafreccia – con l’invasione degli Ittiti, i re pastori: tremilaanni dopo i primordî della civiltà egiziana. Ma anche ilfrumento e l’orzo su cui posava questa civiltà, anche illegno per costruir navi e suppellettili, anche il bestiame,come il rame, il tornio del vasaio, il lino e il primo telaioda tessere, l’Egitto li importò da altri popoli. Esso è lapiù antica nazione civile, ma non è la terra d’origine deifattori sui quali si basò la sua civiltà; in realtà, non fuche un ambiente, singolarmente favorevole allo svilup-po di molti elementi.

* * *

L’antica terra di Sumer, situata tra l’Eufrate e il Tigri,era una vasta e fertilissima oasi, che nei secoli seguentiandò dal Golfo Persico fin quasi al Mediterraneo. Findal terzo, forse dal quarto millennio A. C., Sumer avevaimparato a regolare le piene dei suoi irruenti fiumi,come pure il sistema per approvvigionarsi di acqua in

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uno scarso prodotto secondario delle sabbie d’oro dellaNubia, che i sacerdoti usavano per foggiare un piccoloscalpello che serviva ad aprire le labbra suggellate deimorti, affinchè potessero nutrirsi del cibo lasciato nelletombe a tale scopo.

L’unica bestia da soma originaria dell’Egitto era l’asi-no. La mucca serviva per il latte e la carne e per scopicerimoniali. La ruota era sconosciuta agli Egiziani. Ilcavallo e il carro a ruote non giunsero in Egitto che ver-so il 1800 A. C. – insieme al ferro fuso, e all’arco e allafreccia – con l’invasione degli Ittiti, i re pastori: tremilaanni dopo i primordî della civiltà egiziana. Ma anche ilfrumento e l’orzo su cui posava questa civiltà, anche illegno per costruir navi e suppellettili, anche il bestiame,come il rame, il tornio del vasaio, il lino e il primo telaioda tessere, l’Egitto li importò da altri popoli. Esso è lapiù antica nazione civile, ma non è la terra d’origine deifattori sui quali si basò la sua civiltà; in realtà, non fuche un ambiente, singolarmente favorevole allo svilup-po di molti elementi.

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L’antica terra di Sumer, situata tra l’Eufrate e il Tigri,era una vasta e fertilissima oasi, che nei secoli seguentiandò dal Golfo Persico fin quasi al Mediterraneo. Findal terzo, forse dal quarto millennio A. C., Sumer avevaimparato a regolare le piene dei suoi irruenti fiumi,come pure il sistema per approvvigionarsi di acqua in

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tempi di siccità e irrigare le sue terre. Là dove oggi nonè che un vasto e sconsolato deserto, si estendevano on-deggianti campi di messi, floridi frutteti e vigneti e uli-veti. Duemila anni prima dell’Egitto, Sumer conoscevatanto il carro a ruote per i trasporti, quanto il carro diguerra, tirati dai buoi e dall’indigeno dzidgetaie, unequino tra l’asino e il cavallo. Sumer ci ha lasciato bas-sorilievi dei suoi carri e aratri, e anche di una compa-gnia di guerrieri muniti d’armi ed elmo, che divenneroin seguito la falange greca, la legione romana e il nostroreggimento. Le antiche tombe di mattoni cotti al sole di-mostrano come Sumer conoscesse l’arco, la cupola e lacolonna che più tardi sarebbero stati vanto dell’architet-tura mediterranea. Ai suoi mercanti dobbiamo la divi-sione dell’ora in sessanta minuti, e del minuto in sessan-ta secondi. I mattoni sui quali con la punta d’una cannas’imprimevano file di segni furono i primi contratticommerciali e le prime cambiali, e i sigilli scolpiti nellegno e impressi sulle balle e sui sacchi delle merci, leprime firme di ditte commerciali. Le mine, i shekel e italenti (dapprima misure di peso) divennero poi moneteconiate, antenate delle nostre lire e sterline e dollari.Uno dei tardi conquistatori semitici di Sumer, Hammu-rabi I (2200 A. C.) raccolse le leggi del Paese in un solocodice che fece scolpire su lastre di diorite, affinchè gliuomini potessero leggerlo e conoscere la Legge, e oggiancora a pochi eruditi potesse essere ricordata la miseri-cordia del Re. È questo uno tra i più antichi codici che siconoscano; ed è la prima volta che agli uomini è dato

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tempi di siccità e irrigare le sue terre. Là dove oggi nonè che un vasto e sconsolato deserto, si estendevano on-deggianti campi di messi, floridi frutteti e vigneti e uli-veti. Duemila anni prima dell’Egitto, Sumer conoscevatanto il carro a ruote per i trasporti, quanto il carro diguerra, tirati dai buoi e dall’indigeno dzidgetaie, unequino tra l’asino e il cavallo. Sumer ci ha lasciato bas-sorilievi dei suoi carri e aratri, e anche di una compa-gnia di guerrieri muniti d’armi ed elmo, che divenneroin seguito la falange greca, la legione romana e il nostroreggimento. Le antiche tombe di mattoni cotti al sole di-mostrano come Sumer conoscesse l’arco, la cupola e lacolonna che più tardi sarebbero stati vanto dell’architet-tura mediterranea. Ai suoi mercanti dobbiamo la divi-sione dell’ora in sessanta minuti, e del minuto in sessan-ta secondi. I mattoni sui quali con la punta d’una cannas’imprimevano file di segni furono i primi contratticommerciali e le prime cambiali, e i sigilli scolpiti nellegno e impressi sulle balle e sui sacchi delle merci, leprime firme di ditte commerciali. Le mine, i shekel e italenti (dapprima misure di peso) divennero poi moneteconiate, antenate delle nostre lire e sterline e dollari.Uno dei tardi conquistatori semitici di Sumer, Hammu-rabi I (2200 A. C.) raccolse le leggi del Paese in un solocodice che fece scolpire su lastre di diorite, affinchè gliuomini potessero leggerlo e conoscere la Legge, e oggiancora a pochi eruditi potesse essere ricordata la miseri-cordia del Re. È questo uno tra i più antichi codici che siconoscano; ed è la prima volta che agli uomini è dato

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leggere le leggi sotto le quali vivono.C’è, nel Museo dell’Università di Pennsylvania, un

busto della Regina Shub-ad, restaurato con grande fe-deltà scientifica e artistica. Sulla massa dei capelli neriposa una ghirlanda di fiori e foglie d’oro; collane di la-pislazzuli e grani d’oro cingono la leggiadra gola. La re-gale signora conosceva l’uso dei cosmetici; e quali ef-fetti sapeva trarne! Così come una devota scienza mo-derna ce l’ha tramandata, essa è un documento seducen-te e oltremodo raffinato di una grande e ricca civiltà; enon c’è dubbio che il suo fascino è di natura assai piùnobile e spirituale che non quello di tutte le stelle degliolimpi cinematografici e teatrali che riempiono le pagi-ne degli illustrati settimanali. Nella tomba di Shub-adfurono scoperti vasi di oro e argento tali da far balzaredi gioia il cuore d’un collezionista, e da destar l’invidiadei più provetti orafi moderni; e teste di vacche, model-late in argento, le quali provano l’alta perizia degli scul-tori sumerici.

Ma altre testimonianze troviamo nella tomba della re-gina – ed a noi forse meno grate. Vivente, ella era statacircondata di tutti gli onori; nè doveva esser sola in mor-te. Qui nella oscura tomba, per migliaia d’anni giacque-ro con lei i corpi delle sue dame e dei favoriti suoi, di-sposti alla testa e ai piedi, come per una cerimonia diCorte; nè manca l’arpista, inerte il braccio che un giornotraeva soavi […]6 sempre di corti e di regine sumeri-

6 Nell’edizione di riferimento c’è una lacuna [Nota per l’edi-

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leggere le leggi sotto le quali vivono.C’è, nel Museo dell’Università di Pennsylvania, un

busto della Regina Shub-ad, restaurato con grande fe-deltà scientifica e artistica. Sulla massa dei capelli neriposa una ghirlanda di fiori e foglie d’oro; collane di la-pislazzuli e grani d’oro cingono la leggiadra gola. La re-gale signora conosceva l’uso dei cosmetici; e quali ef-fetti sapeva trarne! Così come una devota scienza mo-derna ce l’ha tramandata, essa è un documento seducen-te e oltremodo raffinato di una grande e ricca civiltà; enon c’è dubbio che il suo fascino è di natura assai piùnobile e spirituale che non quello di tutte le stelle degliolimpi cinematografici e teatrali che riempiono le pagi-ne degli illustrati settimanali. Nella tomba di Shub-adfurono scoperti vasi di oro e argento tali da far balzaredi gioia il cuore d’un collezionista, e da destar l’invidiadei più provetti orafi moderni; e teste di vacche, model-late in argento, le quali provano l’alta perizia degli scul-tori sumerici.

Ma altre testimonianze troviamo nella tomba della re-gina – ed a noi forse meno grate. Vivente, ella era statacircondata di tutti gli onori; nè doveva esser sola in mor-te. Qui nella oscura tomba, per migliaia d’anni giacque-ro con lei i corpi delle sue dame e dei favoriti suoi, di-sposti alla testa e ai piedi, come per una cerimonia diCorte; nè manca l’arpista, inerte il braccio che un giornotraeva soavi […]6 sempre di corti e di regine sumeri-

6 Nell’edizione di riferimento c’è una lacuna [Nota per l’edi-

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che...Non meno ricca sepoltura avevano i re, allorchè suo-

nava per essi l’ora di congedarsi dalla mondana potenza.Anche ad essi spettavano tutti gli onori cui erano usi invita. Intere compagnie di guardie dalle corazze e daglielmetti di rame, armate di lancia, sembrano attender gliordini della defunta maestà. E accanto ai carri furonorinvenute le ossa dei pazienti bovi – tre per ogni carro –ed entro a questi le ossa dei cocchieri e dei loro garzoni.E nella stessa sepoltura troviamo i corpi di ben novedame, cinte le graziose teste di ghirlande d’oro. Gravescandalo per gli Stati Uniti, a esempio, in cui macchineindustriali e automobili sopprimono ogni anno 30.000operai e 16.000 pedoni che sbarrano la via al progresso.Ma non dobbiamo dimenticare che i re sumerici eranoconsiderati al pari di divinità. Essi garantivano per i rac-colti, regolavano il corso delle acque, moltiplicavano gliarmenti; per voler loro crescevano grano e orzo. Non c’èmortale che non potesse constatarlo; e non c’era chi nonlo credesse, compresi, s’intende, re e regine. Dubitar dicosì ovvie verità significava offendere altre divinità,quelle supreme.

Ai tempi nostri, gli sforzi riuniti di tutti i re della terranon potrebbero provocare una pioggerella di marzo, nèfar crescere una spiga di grano. Ciò è ovvio a tutti gliuomini, compresi i re. In conseguenza, i sacrifici umaninon fanno più parte di nessun funerale regale. Non i re,

zione elettronica Manuzio].

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che...Non meno ricca sepoltura avevano i re, allorchè suo-

nava per essi l’ora di congedarsi dalla mondana potenza.Anche ad essi spettavano tutti gli onori cui erano usi invita. Intere compagnie di guardie dalle corazze e daglielmetti di rame, armate di lancia, sembrano attender gliordini della defunta maestà. E accanto ai carri furonorinvenute le ossa dei pazienti bovi – tre per ogni carro –ed entro a questi le ossa dei cocchieri e dei loro garzoni.E nella stessa sepoltura troviamo i corpi di ben novedame, cinte le graziose teste di ghirlande d’oro. Gravescandalo per gli Stati Uniti, a esempio, in cui macchineindustriali e automobili sopprimono ogni anno 30.000operai e 16.000 pedoni che sbarrano la via al progresso.Ma non dobbiamo dimenticare che i re sumerici eranoconsiderati al pari di divinità. Essi garantivano per i rac-colti, regolavano il corso delle acque, moltiplicavano gliarmenti; per voler loro crescevano grano e orzo. Non c’èmortale che non potesse constatarlo; e non c’era chi nonlo credesse, compresi, s’intende, re e regine. Dubitar dicosì ovvie verità significava offendere altre divinità,quelle supreme.

Ai tempi nostri, gli sforzi riuniti di tutti i re della terranon potrebbero provocare una pioggerella di marzo, nèfar crescere una spiga di grano. Ciò è ovvio a tutti gliuomini, compresi i re. In conseguenza, i sacrifici umaninon fanno più parte di nessun funerale regale. Non i re,

zione elettronica Manuzio].

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nè quelli che rendon loro onore sono mutati; sono muta-ti i tempi.

I nostri scrupoli a proposito di sacrifici umani combi-nati col nostro moderno e non sempre vile disprezzodella vita umana, avrebbero forse stupito i saggi reggito-ri dell’antica Sumer. Ma essi avrebbero addirittura inor-ridito della nostra mancanza di controllo su grandi fiumicome il Mississipi e i suoi affluenti, e il Gran FiumeGiallo della Cina, per non nominarne che alcuni. Come iloro confratelli egiziani avevano controllato le acque delNilo, essi controllavano quelle dell’Eufrate e del Tigri.Non senza verità avrebbero potuto asserire che nessunaciviltà può essere grande nè aver lunga vita, se non ac-quisterà dominio sulle acque prima e più ancora che su-gli uomini.

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nè quelli che rendon loro onore sono mutati; sono muta-ti i tempi.

I nostri scrupoli a proposito di sacrifici umani combi-nati col nostro moderno e non sempre vile disprezzodella vita umana, avrebbero forse stupito i saggi reggito-ri dell’antica Sumer. Ma essi avrebbero addirittura inor-ridito della nostra mancanza di controllo su grandi fiumicome il Mississipi e i suoi affluenti, e il Gran FiumeGiallo della Cina, per non nominarne che alcuni. Come iloro confratelli egiziani avevano controllato le acque delNilo, essi controllavano quelle dell’Eufrate e del Tigri.Non senza verità avrebbero potuto asserire che nessunaciviltà può essere grande nè aver lunga vita, se non ac-quisterà dominio sulle acque prima e più ancora che su-gli uomini.

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X

YUCATAN E PERÙ

LE ASPIRAZIONI DEL NUOVO MONDO

A differenza dell’Asia, tanto ricca di cereali, l’Ameri-ca non diede al mondo che un unico vegetale domestico:il granturco o meliga. Può darsi che ciò fosse dovuto amancanza di specie selvatiche adatte alla coltivazione;ma può anche essere una misura per l’antichitàdell’agricoltura, e quindi dell’uomo, nel mondo nuovo aconfronto di quello antico. Il granturco – pianta estre-mamente utile, del resto – ebbe larga diffusionenell’America pre-columbiana, e più tardi nel mondo in-tero. Ma per ora, ciò che c’interessa sta nel fatto chel’origine del granturco corrisponderebbe alla nascita deipiù grandi centri di civiltà nel Nuovo Mondo.

La tesi universalmente accettata è che granturco e co-tone avessero origine nel Messico Meridionale; antenatodel primo sarebbe un’erba che ha nome teosinto. Di re-cente la teoria è stata posta in dubbio; la patria del gran-turco come del cotone sarebbe invece il Perù. L’alto li-vello raggiunto dal Perù nell’agricoltura, nelle arti, nella

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YUCATAN E PERÙ

LE ASPIRAZIONI DEL NUOVO MONDO

A differenza dell’Asia, tanto ricca di cereali, l’Ameri-ca non diede al mondo che un unico vegetale domestico:il granturco o meliga. Può darsi che ciò fosse dovuto amancanza di specie selvatiche adatte alla coltivazione;ma può anche essere una misura per l’antichitàdell’agricoltura, e quindi dell’uomo, nel mondo nuovo aconfronto di quello antico. Il granturco – pianta estre-mamente utile, del resto – ebbe larga diffusionenell’America pre-columbiana, e più tardi nel mondo in-tero. Ma per ora, ciò che c’interessa sta nel fatto chel’origine del granturco corrisponderebbe alla nascita deipiù grandi centri di civiltà nel Nuovo Mondo.

La tesi universalmente accettata è che granturco e co-tone avessero origine nel Messico Meridionale; antenatodel primo sarebbe un’erba che ha nome teosinto. Di re-cente la teoria è stata posta in dubbio; la patria del gran-turco come del cotone sarebbe invece il Perù. L’alto li-vello raggiunto dal Perù nell’agricoltura, nelle arti, nella

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meccanica e nell’organizzazione sociale impone la piùgrande considerazione; è certo che la civiltà americanatoccò le sue più alte vette nelle valli costiere del Perù,sull’altipiano delle Ande, nella terra dei Maya (Yucatan)e nel Messico Meridionale Se prendiamo le zone cheoggi corrispondono all’Utah – l’antico sud-ovest degliStati Uniti – certe parti del Messico e dell’America Cen-trale, e la costa del Pacifico, troveremo nell’ambito diquest’amplissima area comuni elementi naturali e tecni-ci come il granturco, il cotone, l’uso del tabacco, certimetodi di lavorazione dell’argilla e di decorazione, l’usodella pietra nelle costruzioni, il telaio per la tessitura delcotone; nonchè forti analogie in certi miti cosmici, e unrudimentale principio di commercio interregionale. Trat-tandosi di aree così accessibili, dobbiamo ammettere ladiffusione di idee da punti d’origine centrali. come pureisolati. In certe terre la necessità, l’opportunità, il genio,e forse un maggior isolamento permisero, se non inco-raggiarono, uno sviluppo maggiore in date direzioni. Manoi consideriamo ora una regione generale di civiltà, indue zone delle quali essa toccò un grado paragonabile,entro certi limiti, alla Mesopotamia o alla valle del Nilo.

L’impero, dei Maya nel Yucatan – quella scomparsaciviltà che ora risorge splendida dalla giungla, per meri-to e sotto l’ispirata guida della Fondazione Carnegie –non possedeva animali domestici ad eccezione del tac-chino. Gli unici metalli che conoscesse erano l’oro,l’argento e il rame, e se ne serviva essenzialmente perornamenti. Solo verso la fine della sua storia, dal Perù le

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meccanica e nell’organizzazione sociale impone la piùgrande considerazione; è certo che la civiltà americanatoccò le sue più alte vette nelle valli costiere del Perù,sull’altipiano delle Ande, nella terra dei Maya (Yucatan)e nel Messico Meridionale Se prendiamo le zone cheoggi corrispondono all’Utah – l’antico sud-ovest degliStati Uniti – certe parti del Messico e dell’America Cen-trale, e la costa del Pacifico, troveremo nell’ambito diquest’amplissima area comuni elementi naturali e tecni-ci come il granturco, il cotone, l’uso del tabacco, certimetodi di lavorazione dell’argilla e di decorazione, l’usodella pietra nelle costruzioni, il telaio per la tessitura delcotone; nonchè forti analogie in certi miti cosmici, e unrudimentale principio di commercio interregionale. Trat-tandosi di aree così accessibili, dobbiamo ammettere ladiffusione di idee da punti d’origine centrali. come pureisolati. In certe terre la necessità, l’opportunità, il genio,e forse un maggior isolamento permisero, se non inco-raggiarono, uno sviluppo maggiore in date direzioni. Manoi consideriamo ora una regione generale di civiltà, indue zone delle quali essa toccò un grado paragonabile,entro certi limiti, alla Mesopotamia o alla valle del Nilo.

L’impero, dei Maya nel Yucatan – quella scomparsaciviltà che ora risorge splendida dalla giungla, per meri-to e sotto l’ispirata guida della Fondazione Carnegie –non possedeva animali domestici ad eccezione del tac-chino. Gli unici metalli che conoscesse erano l’oro,l’argento e il rame, e se ne serviva essenzialmente perornamenti. Solo verso la fine della sua storia, dal Perù le

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venne, in piccole quantità, il bronzo. Le sue principalimaterie prime per arnesi e armi erano il silice, il quarzoe l’ossidio. Come in tutte le Americhe la ruota era sco-nosciuta, e non vi fu introdotta che nel XVI secolo dagliEuropei.

Con tutto ciò, i Maya avevano una magnifica architet-tura, se pure mancavano loro l’arco e la cupola. Costrui-rono anche strade lastricate di pietra, che andavano inrettilineo da una città all’altra. Oltre le proprie frontierecommerciavano in cacao, mantelli di cotone, tabacco,lame di ossidio e di silice, rame, oro, piume d’uccelli eschiavi. Nel XIV secolo erano migliori matematici eastronomi più avanzati che non gli Europei di quel tem-po. Possedevano un bellissimo sistema di geroglifici,che ancora non è stato completamente decifrato; fabbri-cavano carta; e il loro vasellame, i loro lavori in oro eargento e alabastro, le loro maschere e figurine di gia-deite li pongono al medesimo livello degli Egiziani e deiSumerici, malgrado il curioso pregiudizio accademicoche ancora si ostina a collocare queste opere in collezio-ni etnologiche piuttosto che d’arte. I tessuti provenientidal limo dei sacri stagni di Chitzen Itza e dalle cavernerivelano una compiuta abilità tecnica; sono forse menobelli e resistenti di quelli del Perù, ma assai superiori aitessuti egiziani anteriori all’era cristiana.

Fatta eccezione per i geroglifici e la carta, non riscon-triamo in questa civiltà fattori tecnici che vadano oltrel’Epoca Neolitica. Eppure, questa accademica misuracade, di fronte al grado culturale cui era improntata tutta

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venne, in piccole quantità, il bronzo. Le sue principalimaterie prime per arnesi e armi erano il silice, il quarzoe l’ossidio. Come in tutte le Americhe la ruota era sco-nosciuta, e non vi fu introdotta che nel XVI secolo dagliEuropei.

Con tutto ciò, i Maya avevano una magnifica architet-tura, se pure mancavano loro l’arco e la cupola. Costrui-rono anche strade lastricate di pietra, che andavano inrettilineo da una città all’altra. Oltre le proprie frontierecommerciavano in cacao, mantelli di cotone, tabacco,lame di ossidio e di silice, rame, oro, piume d’uccelli eschiavi. Nel XIV secolo erano migliori matematici eastronomi più avanzati che non gli Europei di quel tem-po. Possedevano un bellissimo sistema di geroglifici,che ancora non è stato completamente decifrato; fabbri-cavano carta; e il loro vasellame, i loro lavori in oro eargento e alabastro, le loro maschere e figurine di gia-deite li pongono al medesimo livello degli Egiziani e deiSumerici, malgrado il curioso pregiudizio accademicoche ancora si ostina a collocare queste opere in collezio-ni etnologiche piuttosto che d’arte. I tessuti provenientidal limo dei sacri stagni di Chitzen Itza e dalle cavernerivelano una compiuta abilità tecnica; sono forse menobelli e resistenti di quelli del Perù, ma assai superiori aitessuti egiziani anteriori all’era cristiana.

Fatta eccezione per i geroglifici e la carta, non riscon-triamo in questa civiltà fattori tecnici che vadano oltrel’Epoca Neolitica. Eppure, questa accademica misuracade, di fronte al grado culturale cui era improntata tutta

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la vita dei Maya. La loro esistenza si svolgeva in un rit-mo sereno, fecondo e disciplinato; anche a tanta distan-za, ci appare dignitosa, animata da feste sontuose e gaiea un tempo. Avevano una grande letteratura e una gran-de filosofia. Se civiltà significa qualcosa oltre la supe-riorità tecnica delle macchine e della scienza, i Mayaerano un popolo civile, anche se non conoscevano vei-coli a ruote, ferro e acciaio, polvere da sparo, bussola etorchio da stampa.

Sulla civiltà del Perù, e su quelle elevatissime di Pa-racas, Tiahuanaco, Pachamacac, Nazca, Ica, Chan-Chan,Chimo e altre città-stati di cui era composto il Perù –non abbiamo finora date positive; nè siamo troppo sicuricirca i fattori razziali su cui si basavano. Ognuna di que-ste zone culturali ha caratteristiche artistiche separate einconfondibili, e ognuna si distingue per speciali carat-teristiche tecniche. Tutte sono poi legate da una comuneciviltà tecnica, e unite sotto un generale sistema sociale.

Dal Nord, il Perù ebbe indubbiamente il granturco e ilcotone, nonchè miti cosmici e forme d’arte. Abbiamovisto come l’Egitto e Sumer non rifiutassero idee prove-nienti dall’esterno, anzi, le elaborassero e le perfezio-nassero. Per quanto importanti possano essere le ideeoriginali in generale per una civiltà, sta di fatto che que-sta si basa piuttosto sullo sviluppo che non sull’originedelle idee. Nè il loro numero, nè la loro varietà costitui-sce la misura di una civiltà. L’Egitto e l’Europa Neoliti-ca erano press’a poco al medesimo livello, per quantoriguarda le invenzioni; è anzi probabile che l’Europa co-

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la vita dei Maya. La loro esistenza si svolgeva in un rit-mo sereno, fecondo e disciplinato; anche a tanta distan-za, ci appare dignitosa, animata da feste sontuose e gaiea un tempo. Avevano una grande letteratura e una gran-de filosofia. Se civiltà significa qualcosa oltre la supe-riorità tecnica delle macchine e della scienza, i Mayaerano un popolo civile, anche se non conoscevano vei-coli a ruote, ferro e acciaio, polvere da sparo, bussola etorchio da stampa.

Sulla civiltà del Perù, e su quelle elevatissime di Pa-racas, Tiahuanaco, Pachamacac, Nazca, Ica, Chan-Chan,Chimo e altre città-stati di cui era composto il Perù –non abbiamo finora date positive; nè siamo troppo sicuricirca i fattori razziali su cui si basavano. Ognuna di que-ste zone culturali ha caratteristiche artistiche separate einconfondibili, e ognuna si distingue per speciali carat-teristiche tecniche. Tutte sono poi legate da una comuneciviltà tecnica, e unite sotto un generale sistema sociale.

Dal Nord, il Perù ebbe indubbiamente il granturco e ilcotone, nonchè miti cosmici e forme d’arte. Abbiamovisto come l’Egitto e Sumer non rifiutassero idee prove-nienti dall’esterno, anzi, le elaborassero e le perfezio-nassero. Per quanto importanti possano essere le ideeoriginali in generale per una civiltà, sta di fatto che que-sta si basa piuttosto sullo sviluppo che non sull’originedelle idee. Nè il loro numero, nè la loro varietà costitui-sce la misura di una civiltà. L’Egitto e l’Europa Neoliti-ca erano press’a poco al medesimo livello, per quantoriguarda le invenzioni; è anzi probabile che l’Europa co-

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noscesse la ruota, il bronzo e il cavallo prima dell’Egit-to. Ma un raffronto culturale fra le due civiltà è impossi-bile. Oggi, gli Stati Uniti e l’Inghilterra, a esempio, pos-seggono un’immensa varietà di idee meccaniche, unaricchezza infinitamente maggiore, una chimica e una fi-sica più progredite di quelle della Francia Medioevale odella Grecia nell’età di Pericle. Eppure, ci vorrebbe unafede alquanto salda nel nostro moderno «progresso», peranteporre la nostra civiltà alle due dianzi citate.

L’architettura del Perù, i suoi lavori in metalli prezio-si e in ceramica, lo pongono fra le grandi nazioni artisti-che dell’antichità. Nelle arti tessili esso occupa indiscus-samente il primo posto. Alla sua rivale più vicina, laPersia dei Sassanidi, mancano, se non altro, la perfezio-ne, e la varietà di metodi d’espressione. Ma il Perù die-de il maggior contributo alla civiltà con un sistema so-ciale che per millenni riuscì a bandire dalle menti uma-ne il bisogno, la paura del bisogno e financo la memoriao coscienza del bisogno.

La natura, che al Perù aveva fatto dono di fertili val-late e di un perpetuo sole, le aveva negato la pioggia.Uniche sue fonti idriche erano le nevi e i ghiacci deicontrafforti delle Ande, i quali lo separavano dalle umi-de giungle e dalle nubi gravide di pioggia che verso diesse i venti spingono dall’Atlantico. Senza il pazientegenio e l’ingegnosità dell’uomo, il Perù sarebbe rimastouno tra i più sterili deserti della terra.

La sua civiltà, la sua esistenza stessa, dipendevanodal controllo di quei torrenti che allo sgelo delle acque,

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noscesse la ruota, il bronzo e il cavallo prima dell’Egit-to. Ma un raffronto culturale fra le due civiltà è impossi-bile. Oggi, gli Stati Uniti e l’Inghilterra, a esempio, pos-seggono un’immensa varietà di idee meccaniche, unaricchezza infinitamente maggiore, una chimica e una fi-sica più progredite di quelle della Francia Medioevale odella Grecia nell’età di Pericle. Eppure, ci vorrebbe unafede alquanto salda nel nostro moderno «progresso», peranteporre la nostra civiltà alle due dianzi citate.

L’architettura del Perù, i suoi lavori in metalli prezio-si e in ceramica, lo pongono fra le grandi nazioni artisti-che dell’antichità. Nelle arti tessili esso occupa indiscus-samente il primo posto. Alla sua rivale più vicina, laPersia dei Sassanidi, mancano, se non altro, la perfezio-ne, e la varietà di metodi d’espressione. Ma il Perù die-de il maggior contributo alla civiltà con un sistema so-ciale che per millenni riuscì a bandire dalle menti uma-ne il bisogno, la paura del bisogno e financo la memoriao coscienza del bisogno.

La natura, che al Perù aveva fatto dono di fertili val-late e di un perpetuo sole, le aveva negato la pioggia.Uniche sue fonti idriche erano le nevi e i ghiacci deicontrafforti delle Ande, i quali lo separavano dalle umi-de giungle e dalle nubi gravide di pioggia che verso diesse i venti spingono dall’Atlantico. Senza il pazientegenio e l’ingegnosità dell’uomo, il Perù sarebbe rimastouno tra i più sterili deserti della terra.

La sua civiltà, la sua esistenza stessa, dipendevanodal controllo di quei torrenti che allo sgelo delle acque,

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in primavera, dalle cime dei monti si riversavano impe-tuosi e ricchissimi al Pacifico. I Peruviani costruironoimmensi serbatoi in muratura, lunghi acquedotti di pie-tra che per centinaia di chilometri si snodavano tra vallie colline, e tutto un labirinto di dighe. In alcune stagio-ni, in cui lo sgelo era troppo abbondante, si avevanoinondazioni; in altre invece, la scarsità di neve rendevalo sgelo lento. In tal modo le acque venivano immagaz-zinate, per così dire, e l’uomo regolava le fantasie dellanatura, la quale ha sempre bisogno di essere organizzataaffinché basti ai bisogni dell’uomo. Organizzazione nonè che uno degli appellativi del genio.

Oltre ai grandi palazzi per i suoi sovrani e ai templiper gli dèi, i Peruviani costruirono anche vasti depositiper i raccolti del cotone e delle granaglie, delle patate edella lana, per l’oro, l’argento, il rame e lo stagno. Nondimenticavano che gli anni di abbondanza seguonospesso anni di carestia, e si preparavano in tempo, ac-cantonando il superfluo. In questo modo si corazzavanodi una muraglia di abbondanza che nessuna scarsità diprodotti e nessuna carestia potevano sgretolare o di-struggere.

Profitti e speculazioni, pigioni e ipoteche non esiste-vano. Il grano e le patate servivano a nutrire le popola-zioni; lana e cotone a rivestire gli ignudi. La terra nonapparteneva a nessuno, ma a nessuno poteva essere toltol’uso della terra. Quando un uomo o una donna raggiun-geva un’età avanzata, i giovani lavoravano per essi laterra data loro in uso. C’erano soldati per difendere il

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in primavera, dalle cime dei monti si riversavano impe-tuosi e ricchissimi al Pacifico. I Peruviani costruironoimmensi serbatoi in muratura, lunghi acquedotti di pie-tra che per centinaia di chilometri si snodavano tra vallie colline, e tutto un labirinto di dighe. In alcune stagio-ni, in cui lo sgelo era troppo abbondante, si avevanoinondazioni; in altre invece, la scarsità di neve rendevalo sgelo lento. In tal modo le acque venivano immagaz-zinate, per così dire, e l’uomo regolava le fantasie dellanatura, la quale ha sempre bisogno di essere organizzataaffinché basti ai bisogni dell’uomo. Organizzazione nonè che uno degli appellativi del genio.

Oltre ai grandi palazzi per i suoi sovrani e ai templiper gli dèi, i Peruviani costruirono anche vasti depositiper i raccolti del cotone e delle granaglie, delle patate edella lana, per l’oro, l’argento, il rame e lo stagno. Nondimenticavano che gli anni di abbondanza seguonospesso anni di carestia, e si preparavano in tempo, ac-cantonando il superfluo. In questo modo si corazzavanodi una muraglia di abbondanza che nessuna scarsità diprodotti e nessuna carestia potevano sgretolare o di-struggere.

Profitti e speculazioni, pigioni e ipoteche non esiste-vano. Il grano e le patate servivano a nutrire le popola-zioni; lana e cotone a rivestire gli ignudi. La terra nonapparteneva a nessuno, ma a nessuno poteva essere toltol’uso della terra. Quando un uomo o una donna raggiun-geva un’età avanzata, i giovani lavoravano per essi laterra data loro in uso. C’erano soldati per difendere il

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paese, e funzionari per misurare le acque e spartireequamente i terreni da coltivarsi e gli altri lavori, aven-do cura a che nessun cittadino rimanesse ozioso, comepure a che nessuno usasse ingiustizia all’altro. Riescedifficile per noi comprendere i valori sociali, economicie filosofici dei Peruviani. Così pure sarebbe pericolosoapplicare termini correnti nella sociologia moderna a unsistema di vita sorto millenni prima che nascesse qual-siasi moderna corrente o filosofia. I Peruviani non ci la-sciarono nessuna scritta; dobbiamo quindi basarci pertutto ciò che li concerne su tradizioni tramandate dagliSpagnuoli, e su osservazioni fatte da questi. A cui pos-siamo aggiungere le indiscusse testimonianze dei risul-tati di ricerche archeologiche.

La classe dei sacerdoti aveva grande autorità; di fatto,c’era tutta una serie di classi, graduate con discernimen-to. Ai capi, ai nobili e ai sacerdoti spettava il megliod’ogni prodotto, e sempre in proporzione del loro rango.Ma a nessuno era negato partecipare della terra,dell’acqua, delle sementi per i raccolti, del raccolto stes-so, sempre secondo i propri bisogni; ai vecchi e ai fan-ciulli, e a coloro che erano occupati nei pubblici servizi,come l’irrigazione o la custodia dei magazzini, spettavadi diritto una specie di pensione. Nessuno poteva posse-dere la terra; tutti coloro che erano validi e in età utileavevano l’obbligo di coltivarla o di lavorare a opere dipubblica utilità. I capi avevano i loro doveri, non menodei privilegi. C’era, a esempio, la cura delle opere d’irri-gazione; i Peruviani erano certo ottimi ingegneri. Le

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paese, e funzionari per misurare le acque e spartireequamente i terreni da coltivarsi e gli altri lavori, aven-do cura a che nessun cittadino rimanesse ozioso, comepure a che nessuno usasse ingiustizia all’altro. Riescedifficile per noi comprendere i valori sociali, economicie filosofici dei Peruviani. Così pure sarebbe pericolosoapplicare termini correnti nella sociologia moderna a unsistema di vita sorto millenni prima che nascesse qual-siasi moderna corrente o filosofia. I Peruviani non ci la-sciarono nessuna scritta; dobbiamo quindi basarci pertutto ciò che li concerne su tradizioni tramandate dagliSpagnuoli, e su osservazioni fatte da questi. A cui pos-siamo aggiungere le indiscusse testimonianze dei risul-tati di ricerche archeologiche.

La classe dei sacerdoti aveva grande autorità; di fatto,c’era tutta una serie di classi, graduate con discernimen-to. Ai capi, ai nobili e ai sacerdoti spettava il megliod’ogni prodotto, e sempre in proporzione del loro rango.Ma a nessuno era negato partecipare della terra,dell’acqua, delle sementi per i raccolti, del raccolto stes-so, sempre secondo i propri bisogni; ai vecchi e ai fan-ciulli, e a coloro che erano occupati nei pubblici servizi,come l’irrigazione o la custodia dei magazzini, spettavadi diritto una specie di pensione. Nessuno poteva posse-dere la terra; tutti coloro che erano validi e in età utileavevano l’obbligo di coltivarla o di lavorare a opere dipubblica utilità. I capi avevano i loro doveri, non menodei privilegi. C’era, a esempio, la cura delle opere d’irri-gazione; i Peruviani erano certo ottimi ingegneri. Le

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classi dirigenti dovevano altresì conoscere le varie spe-cie di vegetali, e come distribuire i prodotti delle varieregioni, in modo da sopperire ai bisogni di tutti i cittadi-ni; e disciplinare le provviste che servirebbero in tempidi carestia. Ma sembra che per le classi basse, questemansioni d’ordine pratico fossero meno importanti an-cora delle relazioni fra le classi alte e le Divinità. Questeclassi erano i Figli del Sole e della Luna; rappresentava-no il popolo davanti agli Dèi, e tutti quanti sapevanocome gli Dèi gradissero che le cerimonie venisserocompiute da persone degnamente vestite. Affinchè gliDèi fossero benigni verso la nazione, il popolo davaquindi volentieri oro e argento e begli abiti di vigogna aipropri capi. Inoltre, al popolo piacevano le feste, e nonlesinava ai potenti il prezzo di eleganze e di mondanepompe, così come al giorno d’oggi un inglese non rim-piangerebbe le grandi spese sostenute dallo stato perun’incoronazione.

Il nostro concetto dell’oro avrebbe grandemente con-fuso e stupito il popolo peruviano. Perchè tante faticheper estrarre l’oro dalle viscere della terra, o ricavarlo daifiumi, e poi costruire con enormi spese antri sotterraneiin cui rinchiuderlo e occultarlo alla vista degli uomini?E se lo scopo ultimo era quello, perchè allora non la-sciarlo dove era? L’oro era il simbolo della bellezza so-lare: era destinato alla gloria dei sovrani e all’ammira-zione degli uomini. L’argento rappresentava la luna; el’unico suo valore consisteva nell’esser visto.

Acqua, terra, depositi, strade, capi e sacerdoti erano

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classi dirigenti dovevano altresì conoscere le varie spe-cie di vegetali, e come distribuire i prodotti delle varieregioni, in modo da sopperire ai bisogni di tutti i cittadi-ni; e disciplinare le provviste che servirebbero in tempidi carestia. Ma sembra che per le classi basse, questemansioni d’ordine pratico fossero meno importanti an-cora delle relazioni fra le classi alte e le Divinità. Questeclassi erano i Figli del Sole e della Luna; rappresentava-no il popolo davanti agli Dèi, e tutti quanti sapevanocome gli Dèi gradissero che le cerimonie venisserocompiute da persone degnamente vestite. Affinchè gliDèi fossero benigni verso la nazione, il popolo davaquindi volentieri oro e argento e begli abiti di vigogna aipropri capi. Inoltre, al popolo piacevano le feste, e nonlesinava ai potenti il prezzo di eleganze e di mondanepompe, così come al giorno d’oggi un inglese non rim-piangerebbe le grandi spese sostenute dallo stato perun’incoronazione.

Il nostro concetto dell’oro avrebbe grandemente con-fuso e stupito il popolo peruviano. Perchè tante faticheper estrarre l’oro dalle viscere della terra, o ricavarlo daifiumi, e poi costruire con enormi spese antri sotterraneiin cui rinchiuderlo e occultarlo alla vista degli uomini?E se lo scopo ultimo era quello, perchè allora non la-sciarlo dove era? L’oro era il simbolo della bellezza so-lare: era destinato alla gloria dei sovrani e all’ammira-zione degli uomini. L’argento rappresentava la luna; el’unico suo valore consisteva nell’esser visto.

Acqua, terra, depositi, strade, capi e sacerdoti erano

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strettamente collegati in un unico sistema che aveva perscopo il benessere del popolo. Il lupo che rodeva le ossadel mondo in cerca di Éoni, e che ancora erra in Cina ein India, malgrado le civiltà antichissime, non poteva in-taccare il mondo peruviano. «Perchè distruggere un si-stema che va avanti così bene?».

Il Perù non conosceva il ferro, la ruota, il cavallo, ilbove, nè altri elementi di altre civiltà. Non conoscevache una equa e moderata abbondanza, e una bellezzache oggi ancora, dalle mille tombe, ci fa sentire il suofascino. Ignoriamo la data in cui un gruppo d’uominicominciò a operare quel modesto miracolo; ma la datache ne segna la fine è parte della storia europea quantoperuviana. Nell’anno 1532 Francisco Pizarro e centocin-quanta arditi cavalieri spazzavano come un’ondata difiamme quelle terre; e finivano così i sogni che gli uo-mini avevano appreso dalla leggenda del buon Veraco-cha, sorto dalle acque del Lago Titicaca per insegnarloro le arti del telaio, e l’arte assai più bella di vivere inbontà gli uni verso gli altri. In questa leggenda, egli pro-metteva loro di ritornare, sotto l’aspetto di un uomobianco e barbuto che veniva dall’Oriente, per recareun’era di eterna pace e bontà a tutti gli uomini. All’arri-vo degli Spagnuoli, i Peruviani credettero che la pro-messa fosse stata adempiuta, e caddero a ginocchi nellasabbia, in adorazione davanti al dio delle loro rinnovatesperanze. Ma ben presto dovettero disilludersi.

In un’antica tomba di Paracas, nel Perù meridionale, èstato recentemente trovato uno scialle di rara bellezza e

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strettamente collegati in un unico sistema che aveva perscopo il benessere del popolo. Il lupo che rodeva le ossadel mondo in cerca di Éoni, e che ancora erra in Cina ein India, malgrado le civiltà antichissime, non poteva in-taccare il mondo peruviano. «Perchè distruggere un si-stema che va avanti così bene?».

Il Perù non conosceva il ferro, la ruota, il cavallo, ilbove, nè altri elementi di altre civiltà. Non conoscevache una equa e moderata abbondanza, e una bellezzache oggi ancora, dalle mille tombe, ci fa sentire il suofascino. Ignoriamo la data in cui un gruppo d’uominicominciò a operare quel modesto miracolo; ma la datache ne segna la fine è parte della storia europea quantoperuviana. Nell’anno 1532 Francisco Pizarro e centocin-quanta arditi cavalieri spazzavano come un’ondata difiamme quelle terre; e finivano così i sogni che gli uo-mini avevano appreso dalla leggenda del buon Veraco-cha, sorto dalle acque del Lago Titicaca per insegnarloro le arti del telaio, e l’arte assai più bella di vivere inbontà gli uni verso gli altri. In questa leggenda, egli pro-metteva loro di ritornare, sotto l’aspetto di un uomobianco e barbuto che veniva dall’Oriente, per recareun’era di eterna pace e bontà a tutti gli uomini. All’arri-vo degli Spagnuoli, i Peruviani credettero che la pro-messa fosse stata adempiuta, e caddero a ginocchi nellasabbia, in adorazione davanti al dio delle loro rinnovatesperanze. Ma ben presto dovettero disilludersi.

In un’antica tomba di Paracas, nel Perù meridionale, èstato recentemente trovato uno scialle di rara bellezza e

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di altissimo interesse etnologico. Al centro, di broccatodi lana colorata su uno sfondo di cotone, vediamo unmotivo di teste umane stilizzate. Il bordo è un fine lavo-ro a uncinetto, in cui si alternano scene mitologiche chenon hanno per noi alcun senso fuorchè quello di unabellezza perfetta. Questo scialle – uno dei capolavoridell’arte tessile e dei lavori femminili di tutti i tempi –avvolgeva il corpo d’un sacerdote, uomo di mezza età edi statura tutto men che maestosa, ma che all’aspetto do-veva essere un personaggio di grande distinzione e sag-gezza. Con lui erano sepolti i corpi di cinque fanciulli,evidentemente vittime sacrificali. L’uomo, come sivede, ha sempre e ovunque i suoi cattivi momenti.

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di altissimo interesse etnologico. Al centro, di broccatodi lana colorata su uno sfondo di cotone, vediamo unmotivo di teste umane stilizzate. Il bordo è un fine lavo-ro a uncinetto, in cui si alternano scene mitologiche chenon hanno per noi alcun senso fuorchè quello di unabellezza perfetta. Questo scialle – uno dei capolavoridell’arte tessile e dei lavori femminili di tutti i tempi –avvolgeva il corpo d’un sacerdote, uomo di mezza età edi statura tutto men che maestosa, ma che all’aspetto do-veva essere un personaggio di grande distinzione e sag-gezza. Con lui erano sepolti i corpi di cinque fanciulli,evidentemente vittime sacrificali. L’uomo, come sivede, ha sempre e ovunque i suoi cattivi momenti.

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XI

CIVILTÀ AGRICOLE DEGLI ALTIPIANI

Uno dei più antichi documenti scritti è un inno sume-rico, che data dal 4000 A. C., e che si riferisce, a quantopare, ai primitivi abitanti del delta dell’Eufrate, allorchèapparvero i primi conquistatori sumerici. Traduciamo li-beramente dalla versione di Leonard Wooley: «L’umani-tà ai suoi albori non conosceva il pane che nutrisce, nègli abiti che rivestono le membra. Gli uomini cammina-vano con i piedi e con le mani; e mangiavano l’erba conla bocca al pari delle pecore; e bevevano l’acqua deifossi».

Curioso è come tutti i conquistatori, colonizzatori, in-vasori e sovvertitori provino lo strano bisogno di porrein stato d’accusa le loro vittime, quasi a propria discol-pa. Il fatto in questione è che il popolo che i Sumericitrovarono ai confini delle regioni dell’Eufrate era a unlivello assai superiore a quello che insinuerebbe l’inno,se pure la sua civiltà poteva apparire arretrata a confron-to degli stessi Sumerici. Esso costruiva capanne di giun-chi, intonacate di mota seccata al sole; specie di costru-zione di materiale solido, rafforzata da intelaiature di le-

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CIVILTÀ AGRICOLE DEGLI ALTIPIANI

Uno dei più antichi documenti scritti è un inno sume-rico, che data dal 4000 A. C., e che si riferisce, a quantopare, ai primitivi abitanti del delta dell’Eufrate, allorchèapparvero i primi conquistatori sumerici. Traduciamo li-beramente dalla versione di Leonard Wooley: «L’umani-tà ai suoi albori non conosceva il pane che nutrisce, nègli abiti che rivestono le membra. Gli uomini cammina-vano con i piedi e con le mani; e mangiavano l’erba conla bocca al pari delle pecore; e bevevano l’acqua deifossi».

Curioso è come tutti i conquistatori, colonizzatori, in-vasori e sovvertitori provino lo strano bisogno di porrein stato d’accusa le loro vittime, quasi a propria discol-pa. Il fatto in questione è che il popolo che i Sumericitrovarono ai confini delle regioni dell’Eufrate era a unlivello assai superiore a quello che insinuerebbe l’inno,se pure la sua civiltà poteva apparire arretrata a confron-to degli stessi Sumerici. Esso costruiva capanne di giun-chi, intonacate di mota seccata al sole; specie di costru-zione di materiale solido, rafforzata da intelaiature di le-

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gno. Queste case si ergevano su monticelli, lungo le rivedel fiume, in modo da poter fronteggiare le inondazioni.Gli abitanti allevavano pecore, porci, capre e mucche;coltivavano l’orzo, che macinavano con rudimentali ma-cine di pietra; avevano stoviglie dipinte, e navigavanosui fiumi e sui laghi per mezzo di balsas, o zattere fattedi giunchi. I loro arnesi erano per lo più di pietra, maconoscevano anche il rame. E non ci sembra che questaenumerazione contenga alcunchè di troppo «primitivo».

Nel suo libro Origini delle piante coltivate, il prof.Vavilof ci offre alcune persuasive spiegazioni sull’albadella civiltà. Secondo lui, l’origine delle piante coltivateandrebbe ricercata in quei paesi dove si trova il maggiornumero di antenati selvatici di queste piante. Così la bo-tanica potrebbe forse contribuire alla soluzione di pro-blemi che nè la storia nè la preistoria hanno potuto fino-ra risolvere.

Ecco il brano:«Riflettendo al processo di sviluppo dell’agricoltura,

dobbiamo riconoscere che il periodo delle grandi civiltà,le quali univano popolazioni composte di molte tribù, fupreceduto da un altro periodo, in cui tribù separate epiccoli gruppi di popolazioni conducevano un’esistenzaisolata, in regioni montagnose e recluse. La conquistamateriale dei grandi fiumi, quali il Nilo, l’Eufrate, il Ti-gri e altri, richiedeva una ferrea e dispotica organizza-zione che costruisse dighe, regolasse le inondazioni pe-riodiche; in una parola, disciplinasse opere pubblichequali i primitivi agricoltori dell’Africa Settentrionale e

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gno. Queste case si ergevano su monticelli, lungo le rivedel fiume, in modo da poter fronteggiare le inondazioni.Gli abitanti allevavano pecore, porci, capre e mucche;coltivavano l’orzo, che macinavano con rudimentali ma-cine di pietra; avevano stoviglie dipinte, e navigavanosui fiumi e sui laghi per mezzo di balsas, o zattere fattedi giunchi. I loro arnesi erano per lo più di pietra, maconoscevano anche il rame. E non ci sembra che questaenumerazione contenga alcunchè di troppo «primitivo».

Nel suo libro Origini delle piante coltivate, il prof.Vavilof ci offre alcune persuasive spiegazioni sull’albadella civiltà. Secondo lui, l’origine delle piante coltivateandrebbe ricercata in quei paesi dove si trova il maggiornumero di antenati selvatici di queste piante. Così la bo-tanica potrebbe forse contribuire alla soluzione di pro-blemi che nè la storia nè la preistoria hanno potuto fino-ra risolvere.

Ecco il brano:«Riflettendo al processo di sviluppo dell’agricoltura,

dobbiamo riconoscere che il periodo delle grandi civiltà,le quali univano popolazioni composte di molte tribù, fupreceduto da un altro periodo, in cui tribù separate epiccoli gruppi di popolazioni conducevano un’esistenzaisolata, in regioni montagnose e recluse. La conquistamateriale dei grandi fiumi, quali il Nilo, l’Eufrate, il Ti-gri e altri, richiedeva una ferrea e dispotica organizza-zione che costruisse dighe, regolasse le inondazioni pe-riodiche; in una parola, disciplinasse opere pubblichequali i primitivi agricoltori dell’Africa Settentrionale e

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del sud-ovest dell’Asia non potevano neppure sognare.È dunque probabile che le regioni montagnose, essendocentri in cui si trovavano radunati elementi vari, fosserola patria dell’agricoltura primitiva. L’acqua per l’irriga-zione non doveva certo mancare, intanto: era assai faciledeviare torrenti montani e farli defluire nei campi colti-vati. In dati casi, poi, la coltivazione è possibile anchesenza irrigazione, in zone nelle quali le pioggie sono ab-bondanti e frequenti. Nelle regioni agricole dell’AltoBukara si possono osservare diversi stadi primitivi diagricoltura, rimasti invariati durante il corso dei secoli,che illustrano assai bene le diverse fasi.

«La differenziazione delle razze e delle piante colti-vate era indubbiamente favorita dalla variegata compo-sizione etnica delle terre montane del sud-ovestdell’Asia e dell’Africa Settentrionale. Le carte etnogra-fiche del Caucaso, dell’Alto Turkestan, dell’Afganistan,dell’Abissinia, del Bukara e dell’India Settentrionaledànno un’idea della diversità delle culture in queste re-gioni. Esse sono centri non solo della diversità delle col-tivazioni, ma anche della diversità delle razze umane».

Vavilof riconosce cinque, al massimo sei centri prin-cipali di diffusione per i maggiori raccolti del mondo, ri-partiti come segue:

1) SUD-OVEST DELL’ASIA: Frumento e biade, sega-la, semelino, piselli, lenticchie, carrube, ceci, coto-ne asiatico.

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del sud-ovest dell’Asia non potevano neppure sognare.È dunque probabile che le regioni montagnose, essendocentri in cui si trovavano radunati elementi vari, fosserola patria dell’agricoltura primitiva. L’acqua per l’irriga-zione non doveva certo mancare, intanto: era assai faciledeviare torrenti montani e farli defluire nei campi colti-vati. In dati casi, poi, la coltivazione è possibile anchesenza irrigazione, in zone nelle quali le pioggie sono ab-bondanti e frequenti. Nelle regioni agricole dell’AltoBukara si possono osservare diversi stadi primitivi diagricoltura, rimasti invariati durante il corso dei secoli,che illustrano assai bene le diverse fasi.

«La differenziazione delle razze e delle piante colti-vate era indubbiamente favorita dalla variegata compo-sizione etnica delle terre montane del sud-ovestdell’Asia e dell’Africa Settentrionale. Le carte etnogra-fiche del Caucaso, dell’Alto Turkestan, dell’Afganistan,dell’Abissinia, del Bukara e dell’India Settentrionaledànno un’idea della diversità delle culture in queste re-gioni. Esse sono centri non solo della diversità delle col-tivazioni, ma anche della diversità delle razze umane».

Vavilof riconosce cinque, al massimo sei centri prin-cipali di diffusione per i maggiori raccolti del mondo, ri-partiti come segue:

1) SUD-OVEST DELL’ASIA: Frumento e biade, sega-la, semelino, piselli, lenticchie, carrube, ceci, coto-ne asiatico.

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2) SUD-EST DELL’ASIA, REGIONI MONTANEDELLA CINA, GIAPPONE, NEPAL, ECC.: Orzoperlato, avena, miglio, soia. Parecchie crociferecoltivate e una serie di alberi da frutta.

3) BACINO DEL MEDITERRANEO – AFRICA SET-TENTRIONALE (EGITTO, ALGERIA, TUNI-SIA), PALESTINA E SIRIA, GRECIA, SPAGNA,ITALIA, ASIA MINORE (ORIENTALE E SUD-OVEST): Frumento durum (gruppo intero con 28cromosomi), varie specie di avena (avena bizanti-na), lino a semi grossi, fave, veccie, carrube, len-ticchie, bietole (barbabietole da zucchero), moltilegumi e alberi da frutta.

4) AFRICA SETTENTRIONALE, ABISSINIA EADIACENTI REGIONI MONTANE: Orzo col gu-scio, frumento a grano viola, razze originali di pi-selli, razze di orzo speciali e ottenute attraversocoltivazioni, piante endemiche.

5) MESSICO E PERÙ – ADIACENTI REGIONIMONTANE: Patate (bianche), topinamburi, gran-turco, fagioli, tabacco, girasole e cotone america-no.

Continua il Vavilof:«Probabilmente bisognerà considerare a parte un se-

sto centro, quello delle Filippine e isole adiacenti, dovesi trovano diverse specie di piante endemiche, e molte

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2) SUD-EST DELL’ASIA, REGIONI MONTANEDELLA CINA, GIAPPONE, NEPAL, ECC.: Orzoperlato, avena, miglio, soia. Parecchie crociferecoltivate e una serie di alberi da frutta.

3) BACINO DEL MEDITERRANEO – AFRICA SET-TENTRIONALE (EGITTO, ALGERIA, TUNI-SIA), PALESTINA E SIRIA, GRECIA, SPAGNA,ITALIA, ASIA MINORE (ORIENTALE E SUD-OVEST): Frumento durum (gruppo intero con 28cromosomi), varie specie di avena (avena bizanti-na), lino a semi grossi, fave, veccie, carrube, len-ticchie, bietole (barbabietole da zucchero), moltilegumi e alberi da frutta.

4) AFRICA SETTENTRIONALE, ABISSINIA EADIACENTI REGIONI MONTANE: Orzo col gu-scio, frumento a grano viola, razze originali di pi-selli, razze di orzo speciali e ottenute attraversocoltivazioni, piante endemiche.

5) MESSICO E PERÙ – ADIACENTI REGIONIMONTANE: Patate (bianche), topinamburi, gran-turco, fagioli, tabacco, girasole e cotone america-no.

Continua il Vavilof:«Probabilmente bisognerà considerare a parte un se-

sto centro, quello delle Filippine e isole adiacenti, dovesi trovano diverse specie di piante endemiche, e molte

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varietà originali di riso, cocos nocifera ecc. Ma questocentro non è stato ancora sufficientemente studiato».

E ancora:«Le diversità di condizioni d’ambiente, dal deserto

all’oasi, da terre prive di humus alle zone alpine e subal-pine che ne sono assai ricche, hanno favorito l’origine ela concentrazione di piante coltivabili in questi paesi ec-cezionalmente ricchi di vegetazione.

«Sull’intero globo terrestre, queste regioni montanedell’Asia e dell’Africa sono, fino a oggi, le più popola-te; e ancor più lo erano in passato. Metà circa della po-polazione del mondo intero (900.000.000) si concentrain quelle zone, che approssimativamente occupano unventesimo dell’area complessiva del Vecchio e NuovoMondo».

Basandoci sulla brillante sintesi del Vavilof, ne dedu-ciamo che molto tempo prima dell’alba di una civiltà vi-sibile da un punto di vista storico, gruppi di popolazioniconcentrate in una zona di altipiani, col vantaggio di unuguale concentramento di piante, svilupparono civiltàagricole, basate sulla coltivazione dei cereali. La grandeabbondanza dei raccolti che assicuravano loro il cibo fa-vorì lo sviluppo di quelle popolazioni, e in ultimol’espansione oltre i loro confini naturali.

Tale espansione ebbe luogo inizialmente in piccoligruppi, ma ben presto i movimenti assunsero caratteredi organizzazione sociale e militare. La necessità di unaorganizzazione militare è evidentemente un risultato dinecessità agricole. In conseguenza, i popoli destinati a

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varietà originali di riso, cocos nocifera ecc. Ma questocentro non è stato ancora sufficientemente studiato».

E ancora:«Le diversità di condizioni d’ambiente, dal deserto

all’oasi, da terre prive di humus alle zone alpine e subal-pine che ne sono assai ricche, hanno favorito l’origine ela concentrazione di piante coltivabili in questi paesi ec-cezionalmente ricchi di vegetazione.

«Sull’intero globo terrestre, queste regioni montanedell’Asia e dell’Africa sono, fino a oggi, le più popola-te; e ancor più lo erano in passato. Metà circa della po-polazione del mondo intero (900.000.000) si concentrain quelle zone, che approssimativamente occupano unventesimo dell’area complessiva del Vecchio e NuovoMondo».

Basandoci sulla brillante sintesi del Vavilof, ne dedu-ciamo che molto tempo prima dell’alba di una civiltà vi-sibile da un punto di vista storico, gruppi di popolazioniconcentrate in una zona di altipiani, col vantaggio di unuguale concentramento di piante, svilupparono civiltàagricole, basate sulla coltivazione dei cereali. La grandeabbondanza dei raccolti che assicuravano loro il cibo fa-vorì lo sviluppo di quelle popolazioni, e in ultimol’espansione oltre i loro confini naturali.

Tale espansione ebbe luogo inizialmente in piccoligruppi, ma ben presto i movimenti assunsero caratteredi organizzazione sociale e militare. La necessità di unaorganizzazione militare è evidentemente un risultato dinecessità agricole. In conseguenza, i popoli destinati a

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diventare Egiziani, Sumerici, Peruviani e Maya giunseronelle regioni del loro definitivo sviluppo con una civiltàgià per metà compiuta. Natura, portata e durata di que-ste civiltà dipesero dalle condizioni del nuovo ambiente,dal loro genio naturale, dal carattere dell’espansione edalle pressioni esterne cui i popoli andarono soggetti.

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diventare Egiziani, Sumerici, Peruviani e Maya giunseronelle regioni del loro definitivo sviluppo con una civiltàgià per metà compiuta. Natura, portata e durata di que-ste civiltà dipesero dalle condizioni del nuovo ambiente,dal loro genio naturale, dal carattere dell’espansione edalle pressioni esterne cui i popoli andarono soggetti.

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XII

LA CINA E LA PERSIA

Sino al giorno in cui i grandi navigatori del XVI seco-lo non aprirono gli oceani al commercio con l’EstremoOriente, le carovaniere che attraversavano gli altipianiasiatici rimasero le grandi vie della civiltà. Grazie a pre-cisi documenti cinesi, interpretati e chiarificati in segui-to dagli scienziati moderni, abbiamo un vasto quadro diquei fecondi scambi commerciali, dal II secolo A. C.sino alla fine della Mongolia, nel 1300, allorchè la dina-stia dei Ming chiuse la Cina e la Mongolia al commer-cio persiano, del Medio Oriente e dell’Europa.

Per farci un’idea di questo commercio, dobbiamo te-nere presente il fatto che già la Cina conosceva appros-simativamente l’Europa, attraverso i suoi rapporti conGiava e Ceylon, dove i mercanti incontravano gli arditicommercianti Mori venuti d’Arabia. La Cina importavastorace, corna di rinoceronte, avorio africano, lo smaltoper i primi tentativi con la porcellana, e altre materie an-cora. I Cinesi avevano udito parlare della Spagna, e cre-devano che le capre merinos fossero alte due metri; ecosì pure avevano una certa nozione del Mediterraneo e

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LA CINA E LA PERSIA

Sino al giorno in cui i grandi navigatori del XVI seco-lo non aprirono gli oceani al commercio con l’EstremoOriente, le carovaniere che attraversavano gli altipianiasiatici rimasero le grandi vie della civiltà. Grazie a pre-cisi documenti cinesi, interpretati e chiarificati in segui-to dagli scienziati moderni, abbiamo un vasto quadro diquei fecondi scambi commerciali, dal II secolo A. C.sino alla fine della Mongolia, nel 1300, allorchè la dina-stia dei Ming chiuse la Cina e la Mongolia al commer-cio persiano, del Medio Oriente e dell’Europa.

Per farci un’idea di questo commercio, dobbiamo te-nere presente il fatto che già la Cina conosceva appros-simativamente l’Europa, attraverso i suoi rapporti conGiava e Ceylon, dove i mercanti incontravano gli arditicommercianti Mori venuti d’Arabia. La Cina importavastorace, corna di rinoceronte, avorio africano, lo smaltoper i primi tentativi con la porcellana, e altre materie an-cora. I Cinesi avevano udito parlare della Spagna, e cre-devano che le capre merinos fossero alte due metri; ecosì pure avevano una certa nozione del Mediterraneo e

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dell’Atlantico, come delle grandi navi portoghesi, lequali costeggiavano allora l’Africa Occidentale, e piùtardi avrebbero fatto il giro del Globo. Chiamavanol’Arabia «la terra del Sole Occidentale», donde veniva-no «tutte le cose buone». In complesso, la Cina cono-sceva l’Europa e l’Occidente meglio di quanto, per unmillennio ancora, l’Europa non avrebbe conosciuto laCina. Ed era disposta a saperne anche di più. Quando isuoi generali ed esploratori commerciali arrivarono alGolfo Persico, avrebbero voluto proseguire fino aRoma. Ma i Persiani erano accorti uomini d’affari, e nonvolevano rinunciare ai loro vantaggi quali intermediarî.Dissero ai creduli Cinesi che per arrivare a Roma ci vo-levano due o tre anni almeno, e che il viaggio era assaiperiglioso. E siccome ogni buon Cinese desiderava essersepolto entro i confini del Celeste Impero, l’idea di unacosì ardua impresa raffreddò i loro entusiasmi per ulte-riori nozioni geografiche. In realtà, il viaggio non richie-deva più di tre mesi, e da due e più millenni c’erano sta-ti uomini che l’avevano intrapreso.

I rapporti tra la Cina e l’Occidente furono tra i più fe-condi di tutti i contatti culturali; nè tra i due fu la Cina arimetterci. In un periodo, assai remoto, essa ricevettedall’Occidente il carro a ruote con tutte le sue varianti, iltornio del vasaio e il telaio da tessere; e migliorò anchel’aspo per filare la seta dei suoi bachi. Il cavallo con lasella e i finimenti fu un altro dono dell’Occidente, cui asua volta la Cina donò la seta, la carta di stracci, i carat-teri da stampa e la moneta cartacea. Dall’Arabia – o

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dell’Atlantico, come delle grandi navi portoghesi, lequali costeggiavano allora l’Africa Occidentale, e piùtardi avrebbero fatto il giro del Globo. Chiamavanol’Arabia «la terra del Sole Occidentale», donde veniva-no «tutte le cose buone». In complesso, la Cina cono-sceva l’Europa e l’Occidente meglio di quanto, per unmillennio ancora, l’Europa non avrebbe conosciuto laCina. Ed era disposta a saperne anche di più. Quando isuoi generali ed esploratori commerciali arrivarono alGolfo Persico, avrebbero voluto proseguire fino aRoma. Ma i Persiani erano accorti uomini d’affari, e nonvolevano rinunciare ai loro vantaggi quali intermediarî.Dissero ai creduli Cinesi che per arrivare a Roma ci vo-levano due o tre anni almeno, e che il viaggio era assaiperiglioso. E siccome ogni buon Cinese desiderava essersepolto entro i confini del Celeste Impero, l’idea di unacosì ardua impresa raffreddò i loro entusiasmi per ulte-riori nozioni geografiche. In realtà, il viaggio non richie-deva più di tre mesi, e da due e più millenni c’erano sta-ti uomini che l’avevano intrapreso.

I rapporti tra la Cina e l’Occidente furono tra i più fe-condi di tutti i contatti culturali; nè tra i due fu la Cina arimetterci. In un periodo, assai remoto, essa ricevettedall’Occidente il carro a ruote con tutte le sue varianti, iltornio del vasaio e il telaio da tessere; e migliorò anchel’aspo per filare la seta dei suoi bachi. Il cavallo con lasella e i finimenti fu un altro dono dell’Occidente, cui asua volta la Cina donò la seta, la carta di stracci, i carat-teri da stampa e la moneta cartacea. Dall’Arabia – o

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dall’Egitto – la Cina ricevette il vetro e lo smalto, chepiù tardi ricambiò con la porcellana.

L’uso della carta e dei caratteri mobili sembrerebbeuno degli elementi più caratteristici del mondo occiden-tale, eppure questo li deve all’Estremo Oriente. Nel I se-colo della nostra êra un alto dignitario cinese, il marche-se Ts’ai Lun, inventò la carta, o ne diffuse comunquel’invenzione. Dice di lui un documento:

«Nei tempi antichi si scriveva sul legno di bambù, osu pezzi di seta; ma l’uno era troppo pesante, gli altritroppo costosi. Allora Ts’ai Lun pensò di impiegare cor-teccia d’alberi, canapa e stracci. Nel primo anno delladinastia di Yuan-Hsing (105 della nostra êra) egli feceall’Imperatore un rapporto sulla fabbricazione della car-ta e fu altamente lodato per la sua ingegnosità. Da allorain poi, la carta è in uso ovunque, sotto il nome di «cartadel marchese Ts’ai».

Il professor Carter ci ha tracciato una significativageografia della carta. Partendo dalla Cina, come dicem-mo, nel 105, essa arrivava a Turfar, per l’antica via com-merciale, nel 399; a Samarcanda nel 731; a Damasco nel793; in Egitto nel 900; nel Marocco nel 1100; in Spagnanel 1150; a Hirault in Francia nel 1187; a Colonia nel1320; e nel 1494 in Inghilterra. Segue lo stesso itinera-rio della seta, ma a velocità assai più moderata.

Dobbiamo alla Cina il tè, il pesco, l’albicocco e – in-sieme all’India – il riso; al sud-ovest dell’Asia, la cannada zucchero e il modo per ricavarne lo zucchero. AllaCina il mondo deve, se non la bussola, l’idea prima che

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dall’Egitto – la Cina ricevette il vetro e lo smalto, chepiù tardi ricambiò con la porcellana.

L’uso della carta e dei caratteri mobili sembrerebbeuno degli elementi più caratteristici del mondo occiden-tale, eppure questo li deve all’Estremo Oriente. Nel I se-colo della nostra êra un alto dignitario cinese, il marche-se Ts’ai Lun, inventò la carta, o ne diffuse comunquel’invenzione. Dice di lui un documento:

«Nei tempi antichi si scriveva sul legno di bambù, osu pezzi di seta; ma l’uno era troppo pesante, gli altritroppo costosi. Allora Ts’ai Lun pensò di impiegare cor-teccia d’alberi, canapa e stracci. Nel primo anno delladinastia di Yuan-Hsing (105 della nostra êra) egli feceall’Imperatore un rapporto sulla fabbricazione della car-ta e fu altamente lodato per la sua ingegnosità. Da allorain poi, la carta è in uso ovunque, sotto il nome di «cartadel marchese Ts’ai».

Il professor Carter ci ha tracciato una significativageografia della carta. Partendo dalla Cina, come dicem-mo, nel 105, essa arrivava a Turfar, per l’antica via com-merciale, nel 399; a Samarcanda nel 731; a Damasco nel793; in Egitto nel 900; nel Marocco nel 1100; in Spagnanel 1150; a Hirault in Francia nel 1187; a Colonia nel1320; e nel 1494 in Inghilterra. Segue lo stesso itinera-rio della seta, ma a velocità assai più moderata.

Dobbiamo alla Cina il tè, il pesco, l’albicocco e – in-sieme all’India – il riso; al sud-ovest dell’Asia, la cannada zucchero e il modo per ricavarne lo zucchero. AllaCina il mondo deve, se non la bussola, l’idea prima che

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portò all’invenzione della bussola: un ago di ferro ma-gnetico che, conficcato entro una paglia di riso, fluttua-va in una scodella d’acqua e indicava a nord e a sud,permettendo così di rimisurare i terreni dopo le inonda-zioni periodiche del Fiume Giallo.

Un altro dono della Persia alla Cina, anzi al mondointero, fu l’alfalfa, che in persiano significa «foraggioper i cavalli». Quest’ottima qualità di fieno era infatti ilforaggio preferito dai nobili cavalli per cui la Persia an-dava famosa. Troviamo rammemorata quest’erba neiCavalieri di Aristofane (424 A. C.) sotto il nome di«erba medica», o erba che veniva dalla Media7. L’alfal-fa, stando a un testo babilonese del 700 A. C., era notaanche in Assiria; e venne introdotta in Italia nel II seco-lo A. C. Il re Khorasan I, della dinastia dei Sassanidi,era un accorto politico, il quale sapeva ricavar denarotassando i prodotti più utili. Egli impose su un acro dialfalfa, indispensabile per l’allevamento dei cavalli, unatassa sette volte maggiore che su un acro di frumento. InPersia, a quei tempi, gli uomini non valevano quanto icavalli, e perciò il loro cibo era tassato meno di quellodei cavalli.

L’imperatore Wu non era indifferente alla bellezza deicavalli di Persia e Fergana; tra il 140 e l’87 A. C. eglimandò ben dieci spedizioni in Persia per acquistarne. Enel 126 A. C. l’astuto generale Can K’ien ne riportava

7 Erba medica è chiamata l’alfalfa anche in alcune nostre cam-pagne (N. d. Tr.).

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portò all’invenzione della bussola: un ago di ferro ma-gnetico che, conficcato entro una paglia di riso, fluttua-va in una scodella d’acqua e indicava a nord e a sud,permettendo così di rimisurare i terreni dopo le inonda-zioni periodiche del Fiume Giallo.

Un altro dono della Persia alla Cina, anzi al mondointero, fu l’alfalfa, che in persiano significa «foraggioper i cavalli». Quest’ottima qualità di fieno era infatti ilforaggio preferito dai nobili cavalli per cui la Persia an-dava famosa. Troviamo rammemorata quest’erba neiCavalieri di Aristofane (424 A. C.) sotto il nome di«erba medica», o erba che veniva dalla Media7. L’alfal-fa, stando a un testo babilonese del 700 A. C., era notaanche in Assiria; e venne introdotta in Italia nel II seco-lo A. C. Il re Khorasan I, della dinastia dei Sassanidi,era un accorto politico, il quale sapeva ricavar denarotassando i prodotti più utili. Egli impose su un acro dialfalfa, indispensabile per l’allevamento dei cavalli, unatassa sette volte maggiore che su un acro di frumento. InPersia, a quei tempi, gli uomini non valevano quanto icavalli, e perciò il loro cibo era tassato meno di quellodei cavalli.

L’imperatore Wu non era indifferente alla bellezza deicavalli di Persia e Fergana; tra il 140 e l’87 A. C. eglimandò ben dieci spedizioni in Persia per acquistarne. Enel 126 A. C. l’astuto generale Can K’ien ne riportava

7 Erba medica è chiamata l’alfalfa anche in alcune nostre cam-pagne (N. d. Tr.).

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anche il seme dell’alfalfa, argomentando che non si po-tevano avere buoni cavalli senza un buon foraggio.

La vite, l’uva e l’arte di fare il vino sono da contarsitra i più antichi sforzi agricoli dell’uomo. Solo i cerealisono più antichi. La vite e l’uva erano noti agli Egiziani,e anche nella Mesopotamia, nel 4º millennio A. C.; manon provenivano nè dall’uno nè dall’altro Paese. La leg-genda, è noto, attribuisce al patriarca Noè l’«invenzio-ne» del vino; ma questo non era che un incidente relati-vamente recente nella storia della vite, la cui prima pa-tria sarebbe stata l’Armenia. L’onore di averla coltivataper primi fu reclamato anche dagli Indo-Europei.

I Persiani furono i più famosi bevitori di vinonell’antichità, anche dopo che il Corano lo proibì: cometestimoniano i melodiosi canti del vecchio Omar Kha-yam. Gli storici dei tempi di Alessandro guardavano condisdegno alle orgie persiane, ma pare che il gran guer-riero stesso non disprezzasse il vino. Oltrechè per il vinoe per i cavalli, i Persiani erano celebri per le loro cera-miche, per i broccati d’oro e per l’acciaio.

Nel 647 l’Imperatore T’ai Tsun – secondo la Sino-Iranica di Laufer – ebbe in dono un grappolo d’uva dicolor violaceo, lungo circa 75 cm., proveniente dal Yab-gu, contrada del Turkestan; e lo storico Fiiu Yen cosìscriveva: «Nei paesi d’Occidente è in uso il vino; in altritempi, i loro sovrani solevano inviarlo come tributo.T’ai Tsun ne sperimentò gli effetti, tanto benefici quantodannosi. Il vino fatto col succo dell’uva brilla di bei co-lori, è fragrante, ardente, e ha sapor gradevole quanto il

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anche il seme dell’alfalfa, argomentando che non si po-tevano avere buoni cavalli senza un buon foraggio.

La vite, l’uva e l’arte di fare il vino sono da contarsitra i più antichi sforzi agricoli dell’uomo. Solo i cerealisono più antichi. La vite e l’uva erano noti agli Egiziani,e anche nella Mesopotamia, nel 4º millennio A. C.; manon provenivano nè dall’uno nè dall’altro Paese. La leg-genda, è noto, attribuisce al patriarca Noè l’«invenzio-ne» del vino; ma questo non era che un incidente relati-vamente recente nella storia della vite, la cui prima pa-tria sarebbe stata l’Armenia. L’onore di averla coltivataper primi fu reclamato anche dagli Indo-Europei.

I Persiani furono i più famosi bevitori di vinonell’antichità, anche dopo che il Corano lo proibì: cometestimoniano i melodiosi canti del vecchio Omar Kha-yam. Gli storici dei tempi di Alessandro guardavano condisdegno alle orgie persiane, ma pare che il gran guer-riero stesso non disprezzasse il vino. Oltrechè per il vinoe per i cavalli, i Persiani erano celebri per le loro cera-miche, per i broccati d’oro e per l’acciaio.

Nel 647 l’Imperatore T’ai Tsun – secondo la Sino-Iranica di Laufer – ebbe in dono un grappolo d’uva dicolor violaceo, lungo circa 75 cm., proveniente dal Yab-gu, contrada del Turkestan; e lo storico Fiiu Yen cosìscriveva: «Nei paesi d’Occidente è in uso il vino; in altritempi, i loro sovrani solevano inviarlo come tributo.T’ai Tsun ne sperimentò gli effetti, tanto benefici quantodannosi. Il vino fatto col succo dell’uva brilla di bei co-lori, è fragrante, ardente, e ha sapor gradevole quanto il

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più fine olio. L’Imperatore lo fece gustare ai suoi digni-tari, i quali lo conobbero così per la prima volta».

Gli spinaci, tanto apprezzati nella nostra cucina, pro-venivano dal Nepal e furono introdotti in Cina nel VIIsecolo. «Ben cotti, sono un cibo sano e di sapore eccel-lente», scrive un gastronomo dell’epoca.

In complesso, ventiquattro piante coltivabili migraro-no dalla Cina alla Persia, e oltre sessanta alla Cina dallaPersia e dall’Occidente.

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più fine olio. L’Imperatore lo fece gustare ai suoi digni-tari, i quali lo conobbero così per la prima volta».

Gli spinaci, tanto apprezzati nella nostra cucina, pro-venivano dal Nepal e furono introdotti in Cina nel VIIsecolo. «Ben cotti, sono un cibo sano e di sapore eccel-lente», scrive un gastronomo dell’epoca.

In complesso, ventiquattro piante coltivabili migraro-no dalla Cina alla Persia, e oltre sessanta alla Cina dallaPersia e dall’Occidente.

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XIII

INCONTRO FRA L’AMERICA E L’ASIA

Agli albori del XVI secolo si verificò uno tra i piùutili scambi di prodotti naturali e artificiali dell’umanità.Per molti secoli, i vegetali commestibili e industrialid’Asia s’erano divulgati in tutta l’Africa e l’Europa; el’America, specie le regioni limitate a nord dal Messicoe dal Perù a sud, aveva coltivato una serie di pianteignote agli altri continenti. Queste forme di ricchezza,annualmente ricorrenti, sarebbero state scambiate e mol-tiplicate per mezzo di una diffusione in grande stile, lapiù vasta che il mondo avesse mai conosciuto. I due se-coli che seguono sono associati con altri avvenimentistorici, come guerre, invasioni, conquiste e colonizza-zioni. Ma la ricchezza mondiale era destinata ad aumen-tare incomparabilmente, grazie a questo scambio di ve-getali e di animali domestici. Il mondo intero ne appro-fittò e ancora ne approfitta. Il vantaggio è annuo e per-petuo; è una ricchezza di reddito prima ancora che capi-tale.

Incalcolabile portata ebbe il fiume d’oro e d’argentoche si riversò allora in Europa, rivoluzionando tutti i va-

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INCONTRO FRA L’AMERICA E L’ASIA

Agli albori del XVI secolo si verificò uno tra i piùutili scambi di prodotti naturali e artificiali dell’umanità.Per molti secoli, i vegetali commestibili e industrialid’Asia s’erano divulgati in tutta l’Africa e l’Europa; el’America, specie le regioni limitate a nord dal Messicoe dal Perù a sud, aveva coltivato una serie di pianteignote agli altri continenti. Queste forme di ricchezza,annualmente ricorrenti, sarebbero state scambiate e mol-tiplicate per mezzo di una diffusione in grande stile, lapiù vasta che il mondo avesse mai conosciuto. I due se-coli che seguono sono associati con altri avvenimentistorici, come guerre, invasioni, conquiste e colonizza-zioni. Ma la ricchezza mondiale era destinata ad aumen-tare incomparabilmente, grazie a questo scambio di ve-getali e di animali domestici. Il mondo intero ne appro-fittò e ancora ne approfitta. Il vantaggio è annuo e per-petuo; è una ricchezza di reddito prima ancora che capi-tale.

Incalcolabile portata ebbe il fiume d’oro e d’argentoche si riversò allora in Europa, rivoluzionando tutti i va-

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lori e causando un’inflazione dovuta al quadruplice au-mento dell’argento e a quello, minore ma sempre alto,dell’oro. Questi metalli servivano agli stati per coprirele spese di guerra, e per le munizioni che cacciarono, sì,i Turchi da Vienna, ma bagnarono anche i campid’Europa di sangue fratricida. Fecero della Spagna lapiù ricca e potente nazione, per poi soffocarne la gloria.Questo tesoro, venuto per diverse vie dal Messico e dalPerù, formò il capitale liquido per il fecondo commerciocon l’Oriente, aperto già dal genio italico e dall’energiadei portoghesi; ma esso è nulla, a paragone del benesse-re che ne derivò al mondo dai raccolti d’America, o permerito dei vegetali e animali acquistati dall’Europa, laquale a sua volta li aveva ricevuti in tempi più antichidall’Asia Minore e dal Medio ed Estremo Oriente.

Considerando la ricchezza che gli uomini scavaronodalle viscere della terra e quella offerta dall’agricolturae dai suoi prodotti, dobbiamo tener presente chequest’ultima è una forma di ricchezza perenne, che rina-sce di continuo; mentre ogni oncia d’oro, argento o pla-tino, ogni libbra di rame o di stagno, ogni litro di petro-lio, ogni tonnellata di ferro o carbone che gli uominicarpiscono al suolo riduce della medesima misura il ca-pitale-base della civiltà. L’agricoltura e la pastorizia sirinnovano costantemente; amministrata oculatamente escientificamente, dànno un reddito. La ricchezza delleminiere, soggetta a esser trasportata, impoverisce unpaese per arricchire solo temporaneamente un altro. Mauno scambio di piante o di animali non può far altro che

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lori e causando un’inflazione dovuta al quadruplice au-mento dell’argento e a quello, minore ma sempre alto,dell’oro. Questi metalli servivano agli stati per coprirele spese di guerra, e per le munizioni che cacciarono, sì,i Turchi da Vienna, ma bagnarono anche i campid’Europa di sangue fratricida. Fecero della Spagna lapiù ricca e potente nazione, per poi soffocarne la gloria.Questo tesoro, venuto per diverse vie dal Messico e dalPerù, formò il capitale liquido per il fecondo commerciocon l’Oriente, aperto già dal genio italico e dall’energiadei portoghesi; ma esso è nulla, a paragone del benesse-re che ne derivò al mondo dai raccolti d’America, o permerito dei vegetali e animali acquistati dall’Europa, laquale a sua volta li aveva ricevuti in tempi più antichidall’Asia Minore e dal Medio ed Estremo Oriente.

Considerando la ricchezza che gli uomini scavaronodalle viscere della terra e quella offerta dall’agricolturae dai suoi prodotti, dobbiamo tener presente chequest’ultima è una forma di ricchezza perenne, che rina-sce di continuo; mentre ogni oncia d’oro, argento o pla-tino, ogni libbra di rame o di stagno, ogni litro di petro-lio, ogni tonnellata di ferro o carbone che gli uominicarpiscono al suolo riduce della medesima misura il ca-pitale-base della civiltà. L’agricoltura e la pastorizia sirinnovano costantemente; amministrata oculatamente escientificamente, dànno un reddito. La ricchezza delleminiere, soggetta a esser trasportata, impoverisce unpaese per arricchire solo temporaneamente un altro. Mauno scambio di piante o di animali non può far altro che

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arricchire i paesi tra i quali avviene. Quest’osservazionesi riferisce, naturalmente, alla ricchezza, non al profitto;alla società, non all’individuo.

Verso il 1500, la flora del Nuovo Mondo era scono-sciuta al Vecchio. Con qualche eccezione. Sembra plau-sibile che navigatori e colonizzatori polinesi delle isoledel Pacifico toccassero alle coste dell’America Centralee del Sud, riportandone la patata dolce o batata, e la-sciandovi la noce di cocco (cocos nucifera).

L’altra visibile eccezione, il cotone, che risale allapreistoria in entrambe le zone, la Valle dell’Indu, ilMessico e il Perù, e il Sud-est degli Stati Uniti, non èche una confusione in termini botanici. Il cotone delVecchio e quello del Nuovo Mondo sono due specie di-verse, che non si possono neppure incrociare poichè iltipo asiatico ha 13 cromosomi nel seme e il tipo ameri-cano ne ha 12. Il fatto può aver significato per la botani-ca, ma non ne ha per l’economia politica. In ambi i pae-si e, senza alcuna influenza diretta o indiretta della dif-fusione, all’ingegnosità dei tessitori non sfuggì la quali-tà di questo vegetale delicato, dai semi lanuginosi; edessi escogitarono identici metodi meccanici per conver-tirlo in filato e tessuto. Considereremo questo problemain rapporto agli altri problemi, nella storia generale deltessuto.

Vediamo prima ciò che il Vecchio Mondo mandò alNuovo; studieremo poi il contributo di questo al mondoin generale. Citiamo Elmer D. Merrill (Natural History,maggio-giugno 1933).

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arricchire i paesi tra i quali avviene. Quest’osservazionesi riferisce, naturalmente, alla ricchezza, non al profitto;alla società, non all’individuo.

Verso il 1500, la flora del Nuovo Mondo era scono-sciuta al Vecchio. Con qualche eccezione. Sembra plau-sibile che navigatori e colonizzatori polinesi delle isoledel Pacifico toccassero alle coste dell’America Centralee del Sud, riportandone la patata dolce o batata, e la-sciandovi la noce di cocco (cocos nucifera).

L’altra visibile eccezione, il cotone, che risale allapreistoria in entrambe le zone, la Valle dell’Indu, ilMessico e il Perù, e il Sud-est degli Stati Uniti, non èche una confusione in termini botanici. Il cotone delVecchio e quello del Nuovo Mondo sono due specie di-verse, che non si possono neppure incrociare poichè iltipo asiatico ha 13 cromosomi nel seme e il tipo ameri-cano ne ha 12. Il fatto può aver significato per la botani-ca, ma non ne ha per l’economia politica. In ambi i pae-si e, senza alcuna influenza diretta o indiretta della dif-fusione, all’ingegnosità dei tessitori non sfuggì la quali-tà di questo vegetale delicato, dai semi lanuginosi; edessi escogitarono identici metodi meccanici per conver-tirlo in filato e tessuto. Considereremo questo problemain rapporto agli altri problemi, nella storia generale deltessuto.

Vediamo prima ciò che il Vecchio Mondo mandò alNuovo; studieremo poi il contributo di questo al mondoin generale. Citiamo Elmer D. Merrill (Natural History,maggio-giugno 1933).

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«Nell’Eurasia, e particolarmente nell’Asia, si trovavaun numero assai maggiore di vegetali commestibili, ol-tre a quasi tutti i nostri animali addomesticati: bovini,ovini, cavalli, cammelli, bufali, suini, oche, piccioni eanatre in diverse varietà. Tutti i cereali, eccetto il gran-turco, hanno origine nel Vecchio Mondo, compreso ilfrumento, la segala, l’orzo, l’avena, il miglio, il riso, ilsorgo e altri meno importanti. Ai cereali possiamo ag-giungere la saggina; e tra le leguminose ricordiamo larapa, il cavolo, il ravizzone, il cardo, la senapa, il rafa-no, la carota, la cipolla, l’aglio, la scalogna, gli spinacci,la melanzana, la lattuga, l’indivia, la scorzonera, il seda-no, l’asparago, il carciofo, il pisello, la soia, le lentic-chie, il fagiolo in tutte le sue varietà, il taro, la canna dazucchero, il sesamo; tra i frutti: la mela, la pera, la pru-gna, la ciliegia, l’uva, l’albicocca, la pesca, l’oliva, ilfico, la mandorla, la cotogna, il melograno, il popone, ilmellone, il cocomero e nelle regioni tropicali la banana,la noce di cocco, l’arancio, il limone, il mandarino, ilpompelmo, il dattero, il cedro, il mango, il fruttodell’albero del pane, il rambutan, il mangostano e altriancora.

«Tutte le erbe da foraggio, compreso il trifoglio el’alfalfa, sono di origine eurasiatica. Dato che nessunadi esse era nota in America prima del XVI secolo, nes-suna del secondo elenco americano fu nota in Eurasiafin dopo la stessa epoca. Lo scambio effettivo di pianteutili tra i due emisferi data dal principio dell’espansioneeuropea e dell’esplorazione ai primordi del XV secolo».

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«Nell’Eurasia, e particolarmente nell’Asia, si trovavaun numero assai maggiore di vegetali commestibili, ol-tre a quasi tutti i nostri animali addomesticati: bovini,ovini, cavalli, cammelli, bufali, suini, oche, piccioni eanatre in diverse varietà. Tutti i cereali, eccetto il gran-turco, hanno origine nel Vecchio Mondo, compreso ilfrumento, la segala, l’orzo, l’avena, il miglio, il riso, ilsorgo e altri meno importanti. Ai cereali possiamo ag-giungere la saggina; e tra le leguminose ricordiamo larapa, il cavolo, il ravizzone, il cardo, la senapa, il rafa-no, la carota, la cipolla, l’aglio, la scalogna, gli spinacci,la melanzana, la lattuga, l’indivia, la scorzonera, il seda-no, l’asparago, il carciofo, il pisello, la soia, le lentic-chie, il fagiolo in tutte le sue varietà, il taro, la canna dazucchero, il sesamo; tra i frutti: la mela, la pera, la pru-gna, la ciliegia, l’uva, l’albicocca, la pesca, l’oliva, ilfico, la mandorla, la cotogna, il melograno, il popone, ilmellone, il cocomero e nelle regioni tropicali la banana,la noce di cocco, l’arancio, il limone, il mandarino, ilpompelmo, il dattero, il cedro, il mango, il fruttodell’albero del pane, il rambutan, il mangostano e altriancora.

«Tutte le erbe da foraggio, compreso il trifoglio el’alfalfa, sono di origine eurasiatica. Dato che nessunadi esse era nota in America prima del XVI secolo, nes-suna del secondo elenco americano fu nota in Eurasiafin dopo la stessa epoca. Lo scambio effettivo di pianteutili tra i due emisferi data dal principio dell’espansioneeuropea e dell’esplorazione ai primordi del XV secolo».

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A questa già cospicua lista si devono aggiungere quasitutte le piante americane che l’uomo si è asservito. A ri-schio di ripeterci ma per amor di giustizia insistiamo sulfatto che l’America deve altresì all’Eurasia la sua fonda-mentale tecnica e organizzazione sociale, quale l’uso delferro e dell’acciaio, la polvere da sparo, i veicoli a ruote,tutti gli strumenti basati sul principio della ruota, l’ara-tro (signore e padrone dei suoi milioni di acri), la navi-gazione transoceanica; e ancora: il suo linguaggio, lascrittura, le sue religioni e filosofie sociali, e le numero-se invenzioni di tutta l’età della macchina e delle grandiscoperte moderne.

Se grande è il debito dell’Europa verso l’Asia e il Vi-cino Oriente, quello dell’America verso l’Europa Occi-dentale, e indirettamente verso le altre civiltà più anzia-ne, non è certo lieve. Eppure, in questi scambi fonda-mentali, dal principio fino all’ultimo l’Europa non è cheil mediatore. Molte idee tecniche d’origine asiatica essamigliorò e modificò. Migliorò immensamente e sottotutti i rapporti l’allevamento degli animali e la colturadelle piante; ma alla lista di entrambi non aggiunse al-cun esemplare nuovo. Piante e animali e mezzi tecnici, etutti i metalli, i telai, le fornaci, i primi meccanismi e viadicendo, essa li deve agli «arretrati popoli d’Oriente» ilcosidetto fardello dell’uomo bianco delle compiacentifilosofie del secolo XIX.

I contributi agricoli delle Americhe, principalmentedegli altipiani del Messico, della Bolivia e del Perù, nonsono affatto trascurabili. Nel suo studio L’Indiano Ame-

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A questa già cospicua lista si devono aggiungere quasitutte le piante americane che l’uomo si è asservito. A ri-schio di ripeterci ma per amor di giustizia insistiamo sulfatto che l’America deve altresì all’Eurasia la sua fonda-mentale tecnica e organizzazione sociale, quale l’uso delferro e dell’acciaio, la polvere da sparo, i veicoli a ruote,tutti gli strumenti basati sul principio della ruota, l’ara-tro (signore e padrone dei suoi milioni di acri), la navi-gazione transoceanica; e ancora: il suo linguaggio, lascrittura, le sue religioni e filosofie sociali, e le numero-se invenzioni di tutta l’età della macchina e delle grandiscoperte moderne.

Se grande è il debito dell’Europa verso l’Asia e il Vi-cino Oriente, quello dell’America verso l’Europa Occi-dentale, e indirettamente verso le altre civiltà più anzia-ne, non è certo lieve. Eppure, in questi scambi fonda-mentali, dal principio fino all’ultimo l’Europa non è cheil mediatore. Molte idee tecniche d’origine asiatica essamigliorò e modificò. Migliorò immensamente e sottotutti i rapporti l’allevamento degli animali e la colturadelle piante; ma alla lista di entrambi non aggiunse al-cun esemplare nuovo. Piante e animali e mezzi tecnici, etutti i metalli, i telai, le fornaci, i primi meccanismi e viadicendo, essa li deve agli «arretrati popoli d’Oriente» ilcosidetto fardello dell’uomo bianco delle compiacentifilosofie del secolo XIX.

I contributi agricoli delle Americhe, principalmentedegli altipiani del Messico, della Bolivia e del Perù, nonsono affatto trascurabili. Nel suo studio L’Indiano Ame-

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ricano, Clark Wissler ci dà un elenco di trentaquattropiante, coltivate dagli Indiani d’America prima dellascoperta del Nuovo Mondo. Tra esse, sono importanti ilcacao, il fagiolo, il granturco, la coca, il cotone, la pata-ta, il mate, la china, la zucca, il pomodoro e il tabacco.

Di grande utilità per la misura dei valori quantitatividella produzione agricola mondiale è la carta dei raccol-ti mondiali, che si trova nella Economic and SocialGeography di Huntington. In essa, alle zone occupatedalla terra coltivata in tutto il mondo, divisa in migliaquadrate, è stata sovrapposta una carta degli Stati Unitie della parte meridionale del Canadà. Se ogni miglioquadrato di queste ultime terre fosse utilizzabile e adattoper le varie coltivazioni, conterrebbe la produzione agri-cola attuale del mondo intero.

Tutto il granoturco del mondo, coltivato oggigiornoin quasi tutti i paesi, potrebbe contenersi negli Stati delTexas e della Luisiana. La Georgia e le due Caroline po-trebbero contenere tutte le piantagioni di cotonedell’India, dell’Africa e del resto degli Stati Uniti. Glistati a occidente del Mississipi ospiterebbero tutte legranaglie del mondo (escluso il granoturco). Il riso oc-cuperebbe un’area equivalente all’Oregon, alla Califor-nia e parte del Nevada. Per l’avena basterebbero il Nuo-vo Messico e l’Arizona e una piccola parte del Nevada;la verdura e le spezie occuperebbero minor spaziodell’Ohio e del Michigan; e le frutta e i vigneti, il Ken-tuchy e la Virginia Occidentale.

Tutto lo zucchero del mondo potrebbe crescere in uno

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ricano, Clark Wissler ci dà un elenco di trentaquattropiante, coltivate dagli Indiani d’America prima dellascoperta del Nuovo Mondo. Tra esse, sono importanti ilcacao, il fagiolo, il granturco, la coca, il cotone, la pata-ta, il mate, la china, la zucca, il pomodoro e il tabacco.

Di grande utilità per la misura dei valori quantitatividella produzione agricola mondiale è la carta dei raccol-ti mondiali, che si trova nella Economic and SocialGeography di Huntington. In essa, alle zone occupatedalla terra coltivata in tutto il mondo, divisa in migliaquadrate, è stata sovrapposta una carta degli Stati Unitie della parte meridionale del Canadà. Se ogni miglioquadrato di queste ultime terre fosse utilizzabile e adattoper le varie coltivazioni, conterrebbe la produzione agri-cola attuale del mondo intero.

Tutto il granoturco del mondo, coltivato oggigiornoin quasi tutti i paesi, potrebbe contenersi negli Stati delTexas e della Luisiana. La Georgia e le due Caroline po-trebbero contenere tutte le piantagioni di cotonedell’India, dell’Africa e del resto degli Stati Uniti. Glistati a occidente del Mississipi ospiterebbero tutte legranaglie del mondo (escluso il granoturco). Il riso oc-cuperebbe un’area equivalente all’Oregon, alla Califor-nia e parte del Nevada. Per l’avena basterebbero il Nuo-vo Messico e l’Arizona e una piccola parte del Nevada;la verdura e le spezie occuperebbero minor spaziodell’Ohio e del Michigan; e le frutta e i vigneti, il Ken-tuchy e la Virginia Occidentale.

Tutto lo zucchero del mondo potrebbe crescere in uno

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spazio uguale al Maryland, il Delaware e un terzo dellaPennsylvania; il tabacco occuperebbe un quarto appenadella Virginia; un po’ meno gli uliveti del mondo intero;e per i gelsi, senza i quali non è possibile il commerciodella seta, basterebbe il piccolo stato di Rhode Island. Iforaggi del mondo intero, sia le erbe da fieno che i pa-scoli permanenti, troverebbero posto in una zona corri-spondente agli Stati di Washington, Idaho, Montana ealle regioni abitate del Canadà meridionale.

Poichè gli Stati Uniti non rappresentano che un setti-mo della superficie arabile della terra, questa sintesi di-mostra l’incommensurabile valore generico per la socie-tà di terre adatte a coltivazioni d’ogni specie: terre chedovrebbero esser gelosamente custodite contro ogni fat-tore che venisse a diminuirle o limitarne la coltivabilità.20.000 anni sono abbisognati alla società, per arrivare aqueste condizioni. Dell’incuria umana abbiamo esempistorici consimili nell’Asia Occidentale e Minore: untempo i più fertili campi della terra, ora sono abbando-nati a sconvolgimenti e inondazioni e a divoranti siccità.Le terre della Cina e degli Stati Uniti, annualmenteinondate; ci pongono in guardia contro il pericolo ches’avvicina. E se le vaste foreste del Tibet scomparissero,i grandi fiumi dell’India e della Cina cui esse fanno daargine cesserebbero di fecondare quelle grandi piane, ele carestie decimerebbero due delle popolazioni più nu-merose del mondo. Qui l’uomo ha una nobile e perma-nente battaglia da combattere; e la vittoria non può chetornare a gloria dell’umanità intera.

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spazio uguale al Maryland, il Delaware e un terzo dellaPennsylvania; il tabacco occuperebbe un quarto appenadella Virginia; un po’ meno gli uliveti del mondo intero;e per i gelsi, senza i quali non è possibile il commerciodella seta, basterebbe il piccolo stato di Rhode Island. Iforaggi del mondo intero, sia le erbe da fieno che i pa-scoli permanenti, troverebbero posto in una zona corri-spondente agli Stati di Washington, Idaho, Montana ealle regioni abitate del Canadà meridionale.

Poichè gli Stati Uniti non rappresentano che un setti-mo della superficie arabile della terra, questa sintesi di-mostra l’incommensurabile valore generico per la socie-tà di terre adatte a coltivazioni d’ogni specie: terre chedovrebbero esser gelosamente custodite contro ogni fat-tore che venisse a diminuirle o limitarne la coltivabilità.20.000 anni sono abbisognati alla società, per arrivare aqueste condizioni. Dell’incuria umana abbiamo esempistorici consimili nell’Asia Occidentale e Minore: untempo i più fertili campi della terra, ora sono abbando-nati a sconvolgimenti e inondazioni e a divoranti siccità.Le terre della Cina e degli Stati Uniti, annualmenteinondate; ci pongono in guardia contro il pericolo ches’avvicina. E se le vaste foreste del Tibet scomparissero,i grandi fiumi dell’India e della Cina cui esse fanno daargine cesserebbero di fecondare quelle grandi piane, ele carestie decimerebbero due delle popolazioni più nu-merose del mondo. Qui l’uomo ha una nobile e perma-nente battaglia da combattere; e la vittoria non può chetornare a gloria dell’umanità intera.

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INVENZIONE DEL DIAVOLO

L’abbondanza di cose utili quali le biade, i metalli, itessuti, i pazienti animali domestici, il carro a ruote e ilvasellame, che cominciava ad avvertirsi con l’Età Neo-litica, indusse l’uomo a spiegarsi l’esistenza e la persi-stenza del Male. Così egli inventò il Diavolo, e il Dia-volo inventò la Logica. E la Logica creò la Guerra.

C’era la notte e il giorno; il bianco e il nero; il caldoe il freddo; la forza e la debolezza; la malattia e il be-nessere; il dolce e l’amaro; la vecchiaia e la giovinez-za; quindi, ci doveva essere il Bene, così come c’era ilMale. Tutte le cose avevano un termine di paragone.Come si poteva misurare il Bene, se non per mezzo delMale? Come godere la Pace, se non c’era la Guerra?

Tutti, eccettuati pochi ostinati, gradirono e accettaro-no un simile ragionamento. Era o pareva ispirato; nonc’era bisogno di molti fatti per provarlo; era una for-mula – a nessuno spettava, quindi, la responsabilità diaverla pensata per primo.

Una volta inventato, il Diavolo doveva pur badare asè, e provvedersi una progenie. Essendo un filosofo nonmeno che un economista pratico, procedette per via dibuon senso. Che cos’era lui stesso? Un’illusione. Cono-

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INVENZIONE DEL DIAVOLO

L’abbondanza di cose utili quali le biade, i metalli, itessuti, i pazienti animali domestici, il carro a ruote e ilvasellame, che cominciava ad avvertirsi con l’Età Neo-litica, indusse l’uomo a spiegarsi l’esistenza e la persi-stenza del Male. Così egli inventò il Diavolo, e il Dia-volo inventò la Logica. E la Logica creò la Guerra.

C’era la notte e il giorno; il bianco e il nero; il caldoe il freddo; la forza e la debolezza; la malattia e il be-nessere; il dolce e l’amaro; la vecchiaia e la giovinez-za; quindi, ci doveva essere il Bene, così come c’era ilMale. Tutte le cose avevano un termine di paragone.Come si poteva misurare il Bene, se non per mezzo delMale? Come godere la Pace, se non c’era la Guerra?

Tutti, eccettuati pochi ostinati, gradirono e accettaro-no un simile ragionamento. Era o pareva ispirato; nonc’era bisogno di molti fatti per provarlo; era una for-mula – a nessuno spettava, quindi, la responsabilità diaverla pensata per primo.

Una volta inventato, il Diavolo doveva pur badare asè, e provvedersi una progenie. Essendo un filosofo nonmeno che un economista pratico, procedette per via dibuon senso. Che cos’era lui stesso? Un’illusione. Cono-

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sceva dunque il valore delle illusioni.Con profetica soddisfazione, vedeva tutte quelle mani

che scavavano e dissodavano il suolo, e piantavanosemi e radunavano gli armenti sparsi; vedeva moltipli-carsi i granai ben forniti, popolarsi le stalle.

L’uomo guardava ora alla terra, come mai occhioumano l’aveva guardata finora. Era «sua»; lui solol’aveva fatta qual’era, costringendo i deserti a fruttifi-care. E così la Terra divenne la Tribù, e ognuno ne fulieto a modo suo; e che la Terra gradisse l’omaggio de-gli uomini era evidente, a giudicar dalle messi con lequali li ricambiava. Così l’uomo imparò la solidarietàverso la terra, verso certe zone di quella grande super-ficie ch’era «sua».

L’ottimo carattere del Diavolo è stato sempre ricono-sciuto anche da coloro che si professavano suoi deni-gratori. Di sottecchi, egli sorrideva. Non ignorava chequei piccoli pezzi di terra coltivata che divoravano leantiche foreste vergini come tarli che rodessero una pel-liccia, quei pascoli che sempre più si estendevano làdov’erano selvagge lande, fra breve avrebbero toccatoad altri campi, ad altri pascoli, a zone in cui, gli uominis’inchinavano ad altri dèi e parlavano altri linguaggi,ma professavano verso la terra la medesima ricono-scente solidarietà. E ben sapeva ciò che accadrebbe,una volta che queste solidarietà si scontrassero e di-vampassero in un solo grande braciere.

Dopo uno di questi sconvolgimenti, stanchi del ma-cello gli uomini riposarono sulle armi e rifletterono, e

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sceva dunque il valore delle illusioni.Con profetica soddisfazione, vedeva tutte quelle mani

che scavavano e dissodavano il suolo, e piantavanosemi e radunavano gli armenti sparsi; vedeva moltipli-carsi i granai ben forniti, popolarsi le stalle.

L’uomo guardava ora alla terra, come mai occhioumano l’aveva guardata finora. Era «sua»; lui solol’aveva fatta qual’era, costringendo i deserti a fruttifi-care. E così la Terra divenne la Tribù, e ognuno ne fulieto a modo suo; e che la Terra gradisse l’omaggio de-gli uomini era evidente, a giudicar dalle messi con lequali li ricambiava. Così l’uomo imparò la solidarietàverso la terra, verso certe zone di quella grande super-ficie ch’era «sua».

L’ottimo carattere del Diavolo è stato sempre ricono-sciuto anche da coloro che si professavano suoi deni-gratori. Di sottecchi, egli sorrideva. Non ignorava chequei piccoli pezzi di terra coltivata che divoravano leantiche foreste vergini come tarli che rodessero una pel-liccia, quei pascoli che sempre più si estendevano làdov’erano selvagge lande, fra breve avrebbero toccatoad altri campi, ad altri pascoli, a zone in cui, gli uominis’inchinavano ad altri dèi e parlavano altri linguaggi,ma professavano verso la terra la medesima ricono-scente solidarietà. E ben sapeva ciò che accadrebbe,una volta che queste solidarietà si scontrassero e di-vampassero in un solo grande braciere.

Dopo uno di questi sconvolgimenti, stanchi del ma-cello gli uomini riposarono sulle armi e rifletterono, e

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alle loro menti sorsero domande: «A che servono maiquesti?». E indicavano ai Morti. «Fossero una preda dicaccia, ora potremmo mangiarli, e servirci della lorospoglia. E invece, dobbiamo sotterrarli per non sentirneil fetore. Questa non è una messe. Non vediamo qualeutile ne abbiamo ricavato».

«Verissimo», replicò il Diavolo, sempre equanimequando i fatti erano evidenti. «Il vostro entusiasmo,sempre lodevole, questa volta vi ha trascinato un po’troppo lontano. La prossima volta, risparmiatene qual-cuno; vi saranno utili per coltivare i campi e custodiregli armenti che un tempo erano loro e che ora sono vo-stri. E allora le vostre spade non vi avranno fruttatouna buona messe?».

E il Diavolo persuase i bardi a cantare, non delleoneste biade, non dell’aratro fedele, non del bove pa-ziente; ma dei Rossi Mietitori e del Raccolto di Gloria.E dalla terra finora pacifica e sorridente sorsero rossa-stre brume, in cui gli uomini intravidero forme di stranie nuovi desideri. E ancora i bardi cantarono delle fidatespade e dell’ebbrezza che gonfiava i cuori umani,

«Non ti senti adesso ben altrimenti superiore a colo-ro che un tempo si dicevano uomini, ma ora sono assaidiversi?» domandò il Diavolo, mentre i cantori taceva-no a riprender fiato. «Mi sembra che la prova non pote-va essere più chiara. Le Valchirie che segnano chi è de-stinato a cadere hanno scelto quelli, e non te».

«Amara scelta è stata» disse un uomo, che zoppicavaper una gamba ferita. «La giornata è stata faticosa;

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alle loro menti sorsero domande: «A che servono maiquesti?». E indicavano ai Morti. «Fossero una preda dicaccia, ora potremmo mangiarli, e servirci della lorospoglia. E invece, dobbiamo sotterrarli per non sentirneil fetore. Questa non è una messe. Non vediamo qualeutile ne abbiamo ricavato».

«Verissimo», replicò il Diavolo, sempre equanimequando i fatti erano evidenti. «Il vostro entusiasmo,sempre lodevole, questa volta vi ha trascinato un po’troppo lontano. La prossima volta, risparmiatene qual-cuno; vi saranno utili per coltivare i campi e custodiregli armenti che un tempo erano loro e che ora sono vo-stri. E allora le vostre spade non vi avranno fruttatouna buona messe?».

E il Diavolo persuase i bardi a cantare, non delleoneste biade, non dell’aratro fedele, non del bove pa-ziente; ma dei Rossi Mietitori e del Raccolto di Gloria.E dalla terra finora pacifica e sorridente sorsero rossa-stre brume, in cui gli uomini intravidero forme di stranie nuovi desideri. E ancora i bardi cantarono delle fidatespade e dell’ebbrezza che gonfiava i cuori umani,

«Non ti senti adesso ben altrimenti superiore a colo-ro che un tempo si dicevano uomini, ma ora sono assaidiversi?» domandò il Diavolo, mentre i cantori taceva-no a riprender fiato. «Mi sembra che la prova non pote-va essere più chiara. Le Valchirie che segnano chi è de-stinato a cadere hanno scelto quelli, e non te».

«Amara scelta è stata» disse un uomo, che zoppicavaper una gamba ferita. «La giornata è stata faticosa;

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avremmo potuto impiegarla in opere assai più utili».«Hai vinto i tuoi nemici», sogghignò il Diavolo.Che cosa è un nemico?», domandò l’uomo, che udiva

per la prima volta la strana parola.«Un nemico è uno che parla una lingua diversa dalla

tua, e ha iddii diversi dai tuoi; specie poi se non abitatropo lontano, e ha campi e armenti che potrebbero es-sere tuoi, non fosse per la sua tracotanza. Vuoi dunqueperdere i tuoi campi e armenti? Vuoi che i tuoi figli sia-no uccisi? Vuoi vederti costretto a parlare una linguache non è la tua e prosternarti a iddii stranieri?».

«No», rispose l’uomo. «Se fosse andato diverso, essiavrebbero dunque preso i nostri campi e trascinato secoi nostri figli?».

«E allora, ricompensate i valorosi che vi hanno sal-vato», replicò il Diavolo. «Questi campi e questi armen-ti appartengono a quei valorosi, ora; e anche ai sacer-doti dovrete pagare un tributo». Poichè al Diavolo nonera sfuggito che i sacerdoti non avevan guardato dibuon occhio la faccenda. «E non chiacchierare troppo,tu! Una lingua troppo sciolta rivela il traditore».

«Che cos’è un traditore?», domandò un altro uomo.«Un traditore è uno che non odia tutti coloro che

parlano una lingua straniera, e nemmeno i loro campi earmenti», sentenziò il Diavolo.

«Dobbiamo dunque odiare quei campi?», fecel’uomo. «Sembrano così ben situati... E gli armentisono grassi. Io comincio ad affezionarmici».

«Quei campi e quegli armenti sono vostri, d’ora in

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avremmo potuto impiegarla in opere assai più utili».«Hai vinto i tuoi nemici», sogghignò il Diavolo.Che cosa è un nemico?», domandò l’uomo, che udiva

per la prima volta la strana parola.«Un nemico è uno che parla una lingua diversa dalla

tua, e ha iddii diversi dai tuoi; specie poi se non abitatropo lontano, e ha campi e armenti che potrebbero es-sere tuoi, non fosse per la sua tracotanza. Vuoi dunqueperdere i tuoi campi e armenti? Vuoi che i tuoi figli sia-no uccisi? Vuoi vederti costretto a parlare una linguache non è la tua e prosternarti a iddii stranieri?».

«No», rispose l’uomo. «Se fosse andato diverso, essiavrebbero dunque preso i nostri campi e trascinato secoi nostri figli?».

«E allora, ricompensate i valorosi che vi hanno sal-vato», replicò il Diavolo. «Questi campi e questi armen-ti appartengono a quei valorosi, ora; e anche ai sacer-doti dovrete pagare un tributo». Poichè al Diavolo nonera sfuggito che i sacerdoti non avevan guardato dibuon occhio la faccenda. «E non chiacchierare troppo,tu! Una lingua troppo sciolta rivela il traditore».

«Che cos’è un traditore?», domandò un altro uomo.«Un traditore è uno che non odia tutti coloro che

parlano una lingua straniera, e nemmeno i loro campi earmenti», sentenziò il Diavolo.

«Dobbiamo dunque odiare quei campi?», fecel’uomo. «Sembrano così ben situati... E gli armentisono grassi. Io comincio ad affezionarmici».

«Quei campi e quegli armenti sono vostri, d’ora in

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avanti. È dovere vostro amarli, poichè appartengonoagli Uomini d’Onore».

«Che cos’è l’Onore?», interrogò un tale, alto e robu-sto, traendo un aratro fuor da una capanna bruciata.«Io ho frugato dappertutto, ma non ho trovato altro chemi garbasse, se non questo aratro. L’Onore è forse unaratro migliore, un cavallo più veloce o un frumento piùfertile o un bove più forte?».

«L’Onore», disse il Diavolo inchinandosi a colui cheaveva parlato, «non è niente di tutto ciò. Eppure, è tuttoquesto in uno. L’Onore bada a che gli uomini privi dionore procurino tutte queste cose agli uomini d’Onore.L’Onore è una condizione d’Onore, non un genere di la-voro; e riguarda gli utili, non la produzione. Gli uominid’Onore non sudano».

«E come si conquista, questo Onore che mi sembradavvero desiderabile?», domandò quel tale che avevabuoni muscoli.

«Non certo con un aratro», sogghignò il Diavolo.«Venderò quest’aratro, che ora mi sembra inutile, e

comprerò una bella spada di bronzo!», gridò l’uomo.«Così proverai ai tuoi compagni che sei un uomo

d’Onore», disse il Diavolo. «Ma ho sentito che è giuntoin questa valle un fabbro, il quale foggia spade di unmetallo assai migliore, detto ferro. Egli è disposto avendere le sue armi a questa brava gente quaggiù, ma èun uomo d’affari, e le tribù del Nord portano ambra epelliccie e schiavi per scambiarle con lui. E non dimen-ticare anche un arco robusto e un buon cavallo».

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avanti. È dovere vostro amarli, poichè appartengonoagli Uomini d’Onore».

«Che cos’è l’Onore?», interrogò un tale, alto e robu-sto, traendo un aratro fuor da una capanna bruciata.«Io ho frugato dappertutto, ma non ho trovato altro chemi garbasse, se non questo aratro. L’Onore è forse unaratro migliore, un cavallo più veloce o un frumento piùfertile o un bove più forte?».

«L’Onore», disse il Diavolo inchinandosi a colui cheaveva parlato, «non è niente di tutto ciò. Eppure, è tuttoquesto in uno. L’Onore bada a che gli uomini privi dionore procurino tutte queste cose agli uomini d’Onore.L’Onore è una condizione d’Onore, non un genere di la-voro; e riguarda gli utili, non la produzione. Gli uominid’Onore non sudano».

«E come si conquista, questo Onore che mi sembradavvero desiderabile?», domandò quel tale che avevabuoni muscoli.

«Non certo con un aratro», sogghignò il Diavolo.«Venderò quest’aratro, che ora mi sembra inutile, e

comprerò una bella spada di bronzo!», gridò l’uomo.«Così proverai ai tuoi compagni che sei un uomo

d’Onore», disse il Diavolo. «Ma ho sentito che è giuntoin questa valle un fabbro, il quale foggia spade di unmetallo assai migliore, detto ferro. Egli è disposto avendere le sue armi a questa brava gente quaggiù, ma èun uomo d’affari, e le tribù del Nord portano ambra epelliccie e schiavi per scambiarle con lui. E non dimen-ticare anche un arco robusto e un buon cavallo».

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«Vado subito a cercare questo fabbro», disse l’uomodai buoni muscoli, dando un calcio all’aratro. «Evvival’Onore! Vale più dell’aratro».

«Saggio è chi cammina coi tempi», disse il Diavolo.E così il Diavolo rimase soddisfatto. L’affare era in

buone mani; ora, lui poteva riposare sugli allori. Ditempo in tempo, giungevano bensì Voci discordi a di-sturbarlo; ma assai di rado, a dire la verità.

Esperto profeta, il Diavolo sapeva che ogni nuova in-venzione dell’uomo vòlta a recare abbondanza e ric-chezza, a sormontare le difficoltà, avrebbe anche paga-to il suo tributo alla Guerra. Col tempo, le discordi Vocisarebbero diventate echi, i quali si infrangerebbero con-tro le muraglie dei pregiudizi umani, rimbalzandone infrasi contorte e significati alterati; e quegli antichi echiavrebbero soffocato le voci nuove, risonando agli orec-chi degli uomini come tamburi di guerra.

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«Vado subito a cercare questo fabbro», disse l’uomodai buoni muscoli, dando un calcio all’aratro. «Evvival’Onore! Vale più dell’aratro».

«Saggio è chi cammina coi tempi», disse il Diavolo.E così il Diavolo rimase soddisfatto. L’affare era in

buone mani; ora, lui poteva riposare sugli allori. Ditempo in tempo, giungevano bensì Voci discordi a di-sturbarlo; ma assai di rado, a dire la verità.

Esperto profeta, il Diavolo sapeva che ogni nuova in-venzione dell’uomo vòlta a recare abbondanza e ric-chezza, a sormontare le difficoltà, avrebbe anche paga-to il suo tributo alla Guerra. Col tempo, le discordi Vocisarebbero diventate echi, i quali si infrangerebbero con-tro le muraglie dei pregiudizi umani, rimbalzandone infrasi contorte e significati alterati; e quegli antichi echiavrebbero soffocato le voci nuove, risonando agli orec-chi degli uomini come tamburi di guerra.

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XIV

ACCOSTAMENTO VERTICALE ALLA

CIVILTA MECCANICA

Ogni fase della storia sociale, dalla storia d’una tribùprimitiva a quella di un impero, ha un contenutod’invenzioni proprie, ma è anche collegata al passato dainvenzioni che sopravvivono al tempo. Questa condizio-ne di cose è in funzione di forze creative interiori, diadattamenti e di intrusioni. Il fattore tempo ha importan-za relativa, dato che l’invenzione è un processo cumula-tivo.

Ogni società può essere studiata dal punto di vista delsuo contenuto sociale e meccanico, senza alcun riferi-mento al passato. Questo potrebbe definirsi un accosta-mento orizzontale; è il metodo ordinariamente impiega-to dalla storia ortodossa, e anche nell’ordinamento didocumenti artistici ed etnologici, allo scopo di offrire unquadro coerente di date civiltà entro l’ambito di datimomenti storici.

Per esempio, la civiltà tecnica dell’Europa Occidenta-le moderna comporta un abbondante impiego di vari tipi

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XIV

ACCOSTAMENTO VERTICALE ALLA

CIVILTA MECCANICA

Ogni fase della storia sociale, dalla storia d’una tribùprimitiva a quella di un impero, ha un contenutod’invenzioni proprie, ma è anche collegata al passato dainvenzioni che sopravvivono al tempo. Questa condizio-ne di cose è in funzione di forze creative interiori, diadattamenti e di intrusioni. Il fattore tempo ha importan-za relativa, dato che l’invenzione è un processo cumula-tivo.

Ogni società può essere studiata dal punto di vista delsuo contenuto sociale e meccanico, senza alcun riferi-mento al passato. Questo potrebbe definirsi un accosta-mento orizzontale; è il metodo ordinariamente impiega-to dalla storia ortodossa, e anche nell’ordinamento didocumenti artistici ed etnologici, allo scopo di offrire unquadro coerente di date civiltà entro l’ambito di datimomenti storici.

Per esempio, la civiltà tecnica dell’Europa Occidenta-le moderna comporta un abbondante impiego di vari tipi

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di metalli e specialmente di leghe ferrose; di un’enormequantità di forza elettrica e di vapore; di varie forme dimotori a combustione, strumenti di precisione, meccani-smi automatici; di ricerche chimiche e di tutto un colle-gamento fra il laboratorio scientifico e l’industria. Que-sta civiltà è separata, in apparenza almeno, da tutte lepassate età, per un’abbondanza di materie in continuoaumento, e per la grande varietà di mezzo di trasporto edi comunicazioni.

Se però noi ci accostiamo all’epoca moderna da unpunto di vista filologico, di arte e letteratura, di filosofiee religioni, siamo costretti ad abbandonare il metodoorizzontale e a ricercare i fattori basilari culturali se-guendo linee verticali che penetrano profondo attraversovari strati culturali.

Ogni e qualsiasi studio complessivo di un’area oriz-zontale rivelerà le dominanti idee meccaniche, in em-brione nelle precedenti età. Nessuna età, quindi, è mec-canicamente o completamente comprensibile sull’unicabase di una distribuzione orizzontale di idee. Tutte leculture sono scale dai numerosi gradini.

Alcuni fattori culturali della nostra meccanicizzata etàrisalgono ai più vaghi barlumi d’intelligenza dei più lon-tani ominidi constatati, di quelle creature pre-umaneabitanti le giungle dell’Europa Centrale che di centinaiadi millenni precedettero il primo incontro dell’uomo colghiaccio. Da quelle età noi siamo divisi non dai secolisoltanto, ma da fondamentali differenze fisiche e daabissi tecnici apparentemente insormontabili. Eppure

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di metalli e specialmente di leghe ferrose; di un’enormequantità di forza elettrica e di vapore; di varie forme dimotori a combustione, strumenti di precisione, meccani-smi automatici; di ricerche chimiche e di tutto un colle-gamento fra il laboratorio scientifico e l’industria. Que-sta civiltà è separata, in apparenza almeno, da tutte lepassate età, per un’abbondanza di materie in continuoaumento, e per la grande varietà di mezzo di trasporto edi comunicazioni.

Se però noi ci accostiamo all’epoca moderna da unpunto di vista filologico, di arte e letteratura, di filosofiee religioni, siamo costretti ad abbandonare il metodoorizzontale e a ricercare i fattori basilari culturali se-guendo linee verticali che penetrano profondo attraversovari strati culturali.

Ogni e qualsiasi studio complessivo di un’area oriz-zontale rivelerà le dominanti idee meccaniche, in em-brione nelle precedenti età. Nessuna età, quindi, è mec-canicamente o completamente comprensibile sull’unicabase di una distribuzione orizzontale di idee. Tutte leculture sono scale dai numerosi gradini.

Alcuni fattori culturali della nostra meccanicizzata etàrisalgono ai più vaghi barlumi d’intelligenza dei più lon-tani ominidi constatati, di quelle creature pre-umaneabitanti le giungle dell’Europa Centrale che di centinaiadi millenni precedettero il primo incontro dell’uomo colghiaccio. Da quelle età noi siamo divisi non dai secolisoltanto, ma da fondamentali differenze fisiche e daabissi tecnici apparentemente insormontabili. Eppure

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quelle creature conoscevano il principio della pietrascheggiata e i più semplici usi del fuoco; possedevanouna rudimentale organizzazione sociale e forse un lin-guaggio. Noi siamo tuttora nell’età del fuoco. Oggi, ilfuoco serve a innumerevoli usi; e ad altrettanti innume-revoli usi abbiamo applicato la pietra scheggiata, e an-cora siamo alle prese con compromessi tra le forze mec-caniche e quelle sociali; e il linguaggio articolato è an-cora sempre un elemento vitale nello scambio d’idee.

Fra questi remoti periodi di civiltà meccaniche, sisusseguono molti strati o stadi di invenzioni. Dalle radi-ci alle cime, la società è uno sviluppo d’idee in continuodivenire. A trasformazioni fondamentali che occorronoin brevi epoche di intenso genio creativo, seguono mu-tamenti più o meno essenziali d’ordine sociale. La civil-tà materiale è come un fiume che scorre attraverso la so-cietà: a volte sotterraneo, a volte traboccante in improv-vise inondazioni, a volte allargandosi in placidi e pigrilaghi nei quali le idee si accumulano; ma sempre inmoto.

Dalle Epoche Glaciali noi abbiamo ereditato il con-cetto della lama, la lesina e l’ago a cruna, il bottoned’osso o d’avorio e l’idea prima di indumenti cuciti. Quic’incontriamo per la prima volta con l’Arte. L’arpionerisale a quell’età; e così la prima idea di un’esistenzache vada oltre le manifestazioni fisiche di vita.Quest’ultima divinazione porterà l’umanità a un abbiet-to terrore di forze occulte, alla confusione, alla crudeltà,ma anche ad una delle più sublimi concezioni dello spi-

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quelle creature conoscevano il principio della pietrascheggiata e i più semplici usi del fuoco; possedevanouna rudimentale organizzazione sociale e forse un lin-guaggio. Noi siamo tuttora nell’età del fuoco. Oggi, ilfuoco serve a innumerevoli usi; e ad altrettanti innume-revoli usi abbiamo applicato la pietra scheggiata, e an-cora siamo alle prese con compromessi tra le forze mec-caniche e quelle sociali; e il linguaggio articolato è an-cora sempre un elemento vitale nello scambio d’idee.

Fra questi remoti periodi di civiltà meccaniche, sisusseguono molti strati o stadi di invenzioni. Dalle radi-ci alle cime, la società è uno sviluppo d’idee in continuodivenire. A trasformazioni fondamentali che occorronoin brevi epoche di intenso genio creativo, seguono mu-tamenti più o meno essenziali d’ordine sociale. La civil-tà materiale è come un fiume che scorre attraverso la so-cietà: a volte sotterraneo, a volte traboccante in improv-vise inondazioni, a volte allargandosi in placidi e pigrilaghi nei quali le idee si accumulano; ma sempre inmoto.

Dalle Epoche Glaciali noi abbiamo ereditato il con-cetto della lama, la lesina e l’ago a cruna, il bottoned’osso o d’avorio e l’idea prima di indumenti cuciti. Quic’incontriamo per la prima volta con l’Arte. L’arpionerisale a quell’età; e così la prima idea di un’esistenzache vada oltre le manifestazioni fisiche di vita.Quest’ultima divinazione porterà l’umanità a un abbiet-to terrore di forze occulte, alla confusione, alla crudeltà,ma anche ad una delle più sublimi concezioni dello spi-

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rito umano, la quale riflette la grande fonte di ogni forzae pensiero. Per quanto remote siano quelle età, non pos-siamo certo in buona fede negare loro un rapporto verti-cale con le nostre.

Con la grande Epoca Neolitica (frumento, veicoli aruote e guerra) s’inizierà una mondiale distribuzioned’idee che subito pone questo periodo al rango di primaêra moderna. Qui si concentrano in numero stragrandenuove invenzioni e scoperte, con una distribuzioneugualmente imponente d’idee, variate d’intensità a se-conda delle diverse ragioni, ma sempre di caratteremondiale in alcune fasi.

È in Asia Minore e nel bacino del Mediterraneo,nell’Europa Centrale e Settentrionale che gli effetti diquesta epoca ricca d’inventività sono più sensibili. Ognicosa utile: dall’addomesticazione degli animali alla col-tivazione delle piante; dai primi metalli ai veicoli a ruo-te; dal commercio alle fortificazioni e alle guerre, appar-tiene a questa età. Qui noi incontriamo forse per la pri-ma volta l’antenato razziale dell’Europa moderna. Quivediamo stabilirsi la salda base tecnica delle civiltà anti-che e classiche, e l’alba della tecnologia moderna. Moltedi queste preistoriche civiltà non sfruttarono in pieno lagrande messe neolitica di idee tecniche; ma nessuna ol-trepassò i limiti della Neolitica, se di questo termine cisi serve con una razionale larghezza di concetto. L’Egit-to e Sumer, l’Assiria, la Valle dell’Indo e la Cina deiShang sono neolitiche nella loro tecnologia. Cipro, Cre-ta, Micene, la Grecia e la stessa Roma si basavano anco-

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rito umano, la quale riflette la grande fonte di ogni forzae pensiero. Per quanto remote siano quelle età, non pos-siamo certo in buona fede negare loro un rapporto verti-cale con le nostre.

Con la grande Epoca Neolitica (frumento, veicoli aruote e guerra) s’inizierà una mondiale distribuzioned’idee che subito pone questo periodo al rango di primaêra moderna. Qui si concentrano in numero stragrandenuove invenzioni e scoperte, con una distribuzioneugualmente imponente d’idee, variate d’intensità a se-conda delle diverse ragioni, ma sempre di caratteremondiale in alcune fasi.

È in Asia Minore e nel bacino del Mediterraneo,nell’Europa Centrale e Settentrionale che gli effetti diquesta epoca ricca d’inventività sono più sensibili. Ognicosa utile: dall’addomesticazione degli animali alla col-tivazione delle piante; dai primi metalli ai veicoli a ruo-te; dal commercio alle fortificazioni e alle guerre, appar-tiene a questa età. Qui noi incontriamo forse per la pri-ma volta l’antenato razziale dell’Europa moderna. Quivediamo stabilirsi la salda base tecnica delle civiltà anti-che e classiche, e l’alba della tecnologia moderna. Moltedi queste preistoriche civiltà non sfruttarono in pieno lagrande messe neolitica di idee tecniche; ma nessuna ol-trepassò i limiti della Neolitica, se di questo termine cisi serve con una razionale larghezza di concetto. L’Egit-to e Sumer, l’Assiria, la Valle dell’Indo e la Cina deiShang sono neolitiche nella loro tecnologia. Cipro, Cre-ta, Micene, la Grecia e la stessa Roma si basavano anco-

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ra su una tecnica che sarebbe stata facilmente compren-sibile a un uomo neolitico. Costantinopoli, che per 600anni dopo la caduta di Roma visse nella scia d’una gran-de tradizione, non apportò alla civiltà alcuna nuova ideatecnica, sebbene, a onor del vero, fosse un vitale legametra il passato e il presente.

Le età oscure d’Europa che seguirono alla caduta diRoma, sono oscure essenzialmente per la nostra man-canza di percezione. Furono età di incertezza e crudeltàe povertà; ma furono anche età di tenaci e ostinate im-prese. La società, in gruppi relativamente piccoli,s’accentrava intorno a capi militari o a monasteri, com-batteva una dura battaglia contro cupe foreste e grandimaremme e paludi popolate da bestie selvatiche e da an-cor più selvatici uomini. Leggende di giganti e di nani,di demoniaci mostri e di lupi umani, parlano eloquente-mente di questa aspra e lunghissima lotta. La ricompen-sa fu, e ancora è, una delle più fertili zone del mondo:prova dell’indomito coraggio e della perseveranzadell’uomo. E quali furono le sue armi, in queste lotte?La vanga, l’erpice, l’aratro, la fucina; il bove castrato, ilcavallo, la pecora, il veicolo a ruote, il frumento e l’orzoe l’avena; gli alberi da frutta; edifici di pietra e navi avela; il tornio del vasaio e il telaio; e nessuno di questielementi va oltre i limiti tecnici dell’Epoca Neolitica.

Queste civiltà fiorirono nei secoli XII e XIII: grandisecoli, durante i quali l’Europa univa, in un solo e benequilibrato organismo sociale, idiomi, religioni, costumie mondo tecnico; durante i quali si palesava il risultato

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ra su una tecnica che sarebbe stata facilmente compren-sibile a un uomo neolitico. Costantinopoli, che per 600anni dopo la caduta di Roma visse nella scia d’una gran-de tradizione, non apportò alla civiltà alcuna nuova ideatecnica, sebbene, a onor del vero, fosse un vitale legametra il passato e il presente.

Le età oscure d’Europa che seguirono alla caduta diRoma, sono oscure essenzialmente per la nostra man-canza di percezione. Furono età di incertezza e crudeltàe povertà; ma furono anche età di tenaci e ostinate im-prese. La società, in gruppi relativamente piccoli,s’accentrava intorno a capi militari o a monasteri, com-batteva una dura battaglia contro cupe foreste e grandimaremme e paludi popolate da bestie selvatiche e da an-cor più selvatici uomini. Leggende di giganti e di nani,di demoniaci mostri e di lupi umani, parlano eloquente-mente di questa aspra e lunghissima lotta. La ricompen-sa fu, e ancora è, una delle più fertili zone del mondo:prova dell’indomito coraggio e della perseveranzadell’uomo. E quali furono le sue armi, in queste lotte?La vanga, l’erpice, l’aratro, la fucina; il bove castrato, ilcavallo, la pecora, il veicolo a ruote, il frumento e l’orzoe l’avena; gli alberi da frutta; edifici di pietra e navi avela; il tornio del vasaio e il telaio; e nessuno di questielementi va oltre i limiti tecnici dell’Epoca Neolitica.

Queste civiltà fiorirono nei secoli XII e XIII: grandisecoli, durante i quali l’Europa univa, in un solo e benequilibrato organismo sociale, idiomi, religioni, costumie mondo tecnico; durante i quali si palesava il risultato

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visibile di un millennio di civiltà fondata su comuni in-venzioni meccaniche risalenti a molti millenni addietroancora.

Seguire storicamente uno svolgimento tecnico permezzo del metodo orizzontale è impossibile duranteun’epoca simile, o piuttosto un gruppo di epoche tantodiverse nelle caratteristiche esteriori e nelle forme socia-li. Dall’Egitto e anche prima fino all’Europa Medievale,noi abbiamo una sola linea di invenzioni meccaniche,ma vari gradi di civiltà. È dunque evidente che dobbia-mo rinunciare al sistema orizzontale, e applicare quelloverticale ad alcune particolari invenzioni. Abbiamoscelto per la nostra dimostrazione quattro idee antichis-sime, di importanza sempre grande e attuale, e diffusenel mondo intero: il Tessuto, i Trasporti, il Ferro e il Ta-bacco.

L’arte della tessitura è comune al Vecchio Mondo e alNuovo, e in entrambi ha raggiunto fin dai tempi più an-tichi perfezione tecnica, varietà d’impiego di materiale,bellezza e originalità. L’Asia Centrale, la Valledell’Indo, la Cina Orientale e il Perù preistorico furono ipaesi dove fiorì quest’arte prima che in Europa. Ma lafase moderna della produzione industrializzata è il risul-tato di un’evoluzione tecnica di macchine automatichesorte nell’Europa Occidentale, e particolarmente, negliultimi centocinquant’anni, in Inghilterra.

I trasporti furono uno dei più antichi problemidell’umanità; e non c’è paese in cui non esista, sottoqualsiasi forma, il mezzo di trasporto. Fatta eccezione

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visibile di un millennio di civiltà fondata su comuni in-venzioni meccaniche risalenti a molti millenni addietroancora.

Seguire storicamente uno svolgimento tecnico permezzo del metodo orizzontale è impossibile duranteun’epoca simile, o piuttosto un gruppo di epoche tantodiverse nelle caratteristiche esteriori e nelle forme socia-li. Dall’Egitto e anche prima fino all’Europa Medievale,noi abbiamo una sola linea di invenzioni meccaniche,ma vari gradi di civiltà. È dunque evidente che dobbia-mo rinunciare al sistema orizzontale, e applicare quelloverticale ad alcune particolari invenzioni. Abbiamoscelto per la nostra dimostrazione quattro idee antichis-sime, di importanza sempre grande e attuale, e diffusenel mondo intero: il Tessuto, i Trasporti, il Ferro e il Ta-bacco.

L’arte della tessitura è comune al Vecchio Mondo e alNuovo, e in entrambi ha raggiunto fin dai tempi più an-tichi perfezione tecnica, varietà d’impiego di materiale,bellezza e originalità. L’Asia Centrale, la Valledell’Indo, la Cina Orientale e il Perù preistorico furono ipaesi dove fiorì quest’arte prima che in Europa. Ma lafase moderna della produzione industrializzata è il risul-tato di un’evoluzione tecnica di macchine automatichesorte nell’Europa Occidentale, e particolarmente, negliultimi centocinquant’anni, in Inghilterra.

I trasporti furono uno dei più antichi problemidell’umanità; e non c’è paese in cui non esista, sottoqualsiasi forma, il mezzo di trasporto. Fatta eccezione

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per il cane asiatico e per il lama peruviano, nessun ani-male da trasporto appartiene all’emisfero occidentale, enessuna forma di ruote appare al Nuovo Mondo sinoall’avvento dell’Europa. Il veicolo a ruote, il bove, il ca-vallo, il cammello, la renna, l’elefante e altri animali an-cora appartengono all’Asia, e l’imbarcazione a velaall’Egitto; tutte le forme meccaniche di vapore, elettrici-tà, motori a combustione, ferrovie, locomotive ed auto-mobili appartengono alla tecnica europea occidentale edàtano dalla seconda metà del XVIII secolo.

Gli uomini, già abbiamo detto, conobbero il ferro permezzo dei meteoriti, il «Metallo degli Dei»; ma comin-ciarono a fonderlo all’incirca 3000 anni prima dell’êranostra. L’arte di fondere: il ferro giunse in Italia circamille anni A. C., e fino ai secoli XIV e XV pochi furonoi cambiamenti nella tecnica. Ma verso la fine del XV se-colo, sorge in Europa un nuovo tipo di fonderia, cheprelude alla seconda età del ferro; êra in cui il metallodivenne «a buon mercato» e quindi più utile. L’industriadel ferro subì un ristagno verso la fine del XVII secolofino a quando in Inghilterra venne perfezionata la forna-ce a coke. Durante gli ultimi ottant’anni, la produttivitàdel ferro e dell’acciaio è aumentata nel mondo di trentavolte per ogni unità di lavoro.

Abbiamo fissato la nostra attenzione sul tabacco, infi-ne, per provare come spesso, nel commercio mondialela fantasia prevalga sulla ragione. Questa pianta narcoti-ca e l’abitudine di fumare impiegarono, per fare il girodel mondo, poco meno d’un secolo, dal tempo in cui ne

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per il cane asiatico e per il lama peruviano, nessun ani-male da trasporto appartiene all’emisfero occidentale, enessuna forma di ruote appare al Nuovo Mondo sinoall’avvento dell’Europa. Il veicolo a ruote, il bove, il ca-vallo, il cammello, la renna, l’elefante e altri animali an-cora appartengono all’Asia, e l’imbarcazione a velaall’Egitto; tutte le forme meccaniche di vapore, elettrici-tà, motori a combustione, ferrovie, locomotive ed auto-mobili appartengono alla tecnica europea occidentale edàtano dalla seconda metà del XVIII secolo.

Gli uomini, già abbiamo detto, conobbero il ferro permezzo dei meteoriti, il «Metallo degli Dei»; ma comin-ciarono a fonderlo all’incirca 3000 anni prima dell’êranostra. L’arte di fondere: il ferro giunse in Italia circamille anni A. C., e fino ai secoli XIV e XV pochi furonoi cambiamenti nella tecnica. Ma verso la fine del XV se-colo, sorge in Europa un nuovo tipo di fonderia, cheprelude alla seconda età del ferro; êra in cui il metallodivenne «a buon mercato» e quindi più utile. L’industriadel ferro subì un ristagno verso la fine del XVII secolofino a quando in Inghilterra venne perfezionata la forna-ce a coke. Durante gli ultimi ottant’anni, la produttivitàdel ferro e dell’acciaio è aumentata nel mondo di trentavolte per ogni unità di lavoro.

Abbiamo fissato la nostra attenzione sul tabacco, infi-ne, per provare come spesso, nel commercio mondialela fantasia prevalga sulla ragione. Questa pianta narcoti-ca e l’abitudine di fumare impiegarono, per fare il girodel mondo, poco meno d’un secolo, dal tempo in cui ne

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avvenne la scoperta. In cinquant’anni aveva fronteggia-to e vinto la resistenza dei più potenti sovrani; aveva re-cato più utili che non miniere d’oro e d’argento. Il ta-bacco non è mai stato una necessità, eppure il mondoproduce e consuma presentemente cinque bilioni di lib-bre di un vegetale ignoto fuor dei confini dell’Americasino al secolo XVI.

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avvenne la scoperta. In cinquant’anni aveva fronteggia-to e vinto la resistenza dei più potenti sovrani; aveva re-cato più utili che non miniere d’oro e d’argento. Il ta-bacco non è mai stato una necessità, eppure il mondoproduce e consuma presentemente cinque bilioni di lib-bre di un vegetale ignoto fuor dei confini dell’Americasino al secolo XVI.

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IL TESSUTO E LA SUA STORIA SOCIALE

La fase moderna o meccanica del tessuto si contieneampiamente entro lo scorcio dei due ultimi secoli, e par-ticolarmente nell’ultimo. In questo breve tempo le mac-chine e i processi evolutisi specialmente in Inghilterradurante il secolo XVIII e la prima parte del XIX, si sonodiffusi nel mondo intero. Alle invenzioni e ai sistemi in-glesi la Germania, la Francia, gli Stati Uniti in un secon-do tempo e recentemente l’Italia, hanno recato impor-tanti contributi sotto forma di macchine specializzateper la produzione e la lavorazione di vari filati e fibrenaturali e sintetici; le invenzioni essenziali ed il lorosfruttamento industriale restano tuttavia inglesi.

L’êra moderna della produzione meccanica e indu-strializzata dei tessili s’inquadra entro quel gruppo ge-nerale di innovazioni, chiamiamole così, che all’umanitàdiede il primo motore a vapore, la prima locomotiva, ilprimo battello a vapore, la prima meccanizzazione gene-rale di tutte le industrie basilari e i decisivi esperimentiscientifici che avrebbero portato alla scienza e all’indu-stria elettrica moderne. E questo è uno dei capitoli più

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IL TESSUTO E LA SUA STORIA SOCIALE

La fase moderna o meccanica del tessuto si contieneampiamente entro lo scorcio dei due ultimi secoli, e par-ticolarmente nell’ultimo. In questo breve tempo le mac-chine e i processi evolutisi specialmente in Inghilterradurante il secolo XVIII e la prima parte del XIX, si sonodiffusi nel mondo intero. Alle invenzioni e ai sistemi in-glesi la Germania, la Francia, gli Stati Uniti in un secon-do tempo e recentemente l’Italia, hanno recato impor-tanti contributi sotto forma di macchine specializzateper la produzione e la lavorazione di vari filati e fibrenaturali e sintetici; le invenzioni essenziali ed il lorosfruttamento industriale restano tuttavia inglesi.

L’êra moderna della produzione meccanica e indu-strializzata dei tessili s’inquadra entro quel gruppo ge-nerale di innovazioni, chiamiamole così, che all’umanitàdiede il primo motore a vapore, la prima locomotiva, ilprimo battello a vapore, la prima meccanizzazione gene-rale di tutte le industrie basilari e i decisivi esperimentiscientifici che avrebbero portato alla scienza e all’indu-stria elettrica moderne. E questo è uno dei capitoli più

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importanti nella storia dell’umanità, paragonabile sol-tanto all’influsso neolitico in Europa, di cui già trattam-mo in un precedente capitolo. La nostra società si trovatuttora nei primi stadî di quest’êra, la cui portata socialeed economica, ci sembra, non è stata ancora pienamentecompresa, e il cui progresso meccanico ancora non ac-cenna neppure lontanamente ad arrestarsi.

Fino all’affacciarsi di questo curioso fenomeno, di unconcentramento in Inghilterra di invenzioni riguardantile industrie tessili, questa nazione era rimasta singolar-mente arretrata in tutte le industrie, e particolarmentenelle arti tessili. Finora, la sua storia economica è quelladi produttrice di materie prime: stagno, cuoio e pellami,frumento e bestiame. L’Inghilterra inviava le sue lane, isuoi filati, le sue stoffe grezze e non tinte agli abili arti-giani d’Italia, e più tardi dei Paesi Bassi e d’Olanda,donde le ritornavano rifinite e tinte, per riversarsi poinelle grandi correnti del commercio mondiale.

Artigiani tessitori erano venuti in Inghilterra sin daitempi della Conquista (1066). Edoardo III, più tardi,avrebbe incoraggiato gli emigrati industriali; nè altri so-vrani, compresa la grande Elisabetta, sarebbero statimeno lungimiranti di lui. Le brutali vittorie del Ducad’Alba in Olanda (1585) e il tragico sacco di Anversa,grande centro commerciale e industriale, avevano con-dotto in Inghilterra esperti tessitori di fustagni; la parola«cotone» appare allora per la prima volta negli annalidella città industriale di Manchester. La revocadell’Editto di Nantes, rinnovando in Francia gli aspri

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importanti nella storia dell’umanità, paragonabile sol-tanto all’influsso neolitico in Europa, di cui già trattam-mo in un precedente capitolo. La nostra società si trovatuttora nei primi stadî di quest’êra, la cui portata socialeed economica, ci sembra, non è stata ancora pienamentecompresa, e il cui progresso meccanico ancora non ac-cenna neppure lontanamente ad arrestarsi.

Fino all’affacciarsi di questo curioso fenomeno, di unconcentramento in Inghilterra di invenzioni riguardantile industrie tessili, questa nazione era rimasta singolar-mente arretrata in tutte le industrie, e particolarmentenelle arti tessili. Finora, la sua storia economica è quelladi produttrice di materie prime: stagno, cuoio e pellami,frumento e bestiame. L’Inghilterra inviava le sue lane, isuoi filati, le sue stoffe grezze e non tinte agli abili arti-giani d’Italia, e più tardi dei Paesi Bassi e d’Olanda,donde le ritornavano rifinite e tinte, per riversarsi poinelle grandi correnti del commercio mondiale.

Artigiani tessitori erano venuti in Inghilterra sin daitempi della Conquista (1066). Edoardo III, più tardi,avrebbe incoraggiato gli emigrati industriali; nè altri so-vrani, compresa la grande Elisabetta, sarebbero statimeno lungimiranti di lui. Le brutali vittorie del Ducad’Alba in Olanda (1585) e il tragico sacco di Anversa,grande centro commerciale e industriale, avevano con-dotto in Inghilterra esperti tessitori di fustagni; la parola«cotone» appare allora per la prima volta negli annalidella città industriale di Manchester. La revocadell’Editto di Nantes, rinnovando in Francia gli aspri

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conflitti tra Cattolici e Protestanti, procurava all’Inghil-terra migliaia di operai ugonotti, oltre a commercianti ecapitalisti, i quali nella seconda metà del secolo XVIIstabilirono in Inghilterra le basi dell’arte tessile quale èai nostri giorni. Essi introdussero filati leggeri e di fan-tasia, sete di varia specie e metodi già avanzati di stam-pa con blocchi di legno intagliati. Questi che oggi chia-meremmo «tessuti-novità» portarono a grandi cambia-menti, non solo nell’industria e nell’esportazione ingle-se, ma in tutta la foggia del vestire.

Alla revoca dell’Editto di Nantes si suole attribuirel’incremento delle industrie tessili inglesi; ma le mede-sime forze operavano nel medesimo senso in Germania,in Svizzera e in Olanda. Gli effetti di quell’emigrazioneverso l’Inghilterra sono fuori causa; ma qualsiasi altranazione avrebbe potuto essere la scena dello sviluppodei moderni metodi meccanici di produzione industriale.Di fatto la produzione in massa nelle industrie metallur-giche (che è poi il risultato di questi sistemi) apparveprima in Svezia che in Inghilterra; sicchè la teoriadell’emigrazione nel secolo XVII non basterebbe a spie-gare la versatilità meccanica inglese nel XVIII. In quasitutte le altre nazioni europee vi sono esempi di tentativid’invenzione, nel campo delle macchine tessili, assaianteriori a quelle inglesi.

Un grande sconvolgimento nelle arti tessili dell’Euro-pa intera fu portato dal memorando viaggio di Vasco deGama intorno al Capo di Buona Speranza, col successi-vo grande sviluppo nel commercio dei calicò o tele

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conflitti tra Cattolici e Protestanti, procurava all’Inghil-terra migliaia di operai ugonotti, oltre a commercianti ecapitalisti, i quali nella seconda metà del secolo XVIIstabilirono in Inghilterra le basi dell’arte tessile quale èai nostri giorni. Essi introdussero filati leggeri e di fan-tasia, sete di varia specie e metodi già avanzati di stam-pa con blocchi di legno intagliati. Questi che oggi chia-meremmo «tessuti-novità» portarono a grandi cambia-menti, non solo nell’industria e nell’esportazione ingle-se, ma in tutta la foggia del vestire.

Alla revoca dell’Editto di Nantes si suole attribuirel’incremento delle industrie tessili inglesi; ma le mede-sime forze operavano nel medesimo senso in Germania,in Svizzera e in Olanda. Gli effetti di quell’emigrazioneverso l’Inghilterra sono fuori causa; ma qualsiasi altranazione avrebbe potuto essere la scena dello sviluppodei moderni metodi meccanici di produzione industriale.Di fatto la produzione in massa nelle industrie metallur-giche (che è poi il risultato di questi sistemi) apparveprima in Svezia che in Inghilterra; sicchè la teoriadell’emigrazione nel secolo XVII non basterebbe a spie-gare la versatilità meccanica inglese nel XVIII. In quasitutte le altre nazioni europee vi sono esempi di tentativid’invenzione, nel campo delle macchine tessili, assaianteriori a quelle inglesi.

Un grande sconvolgimento nelle arti tessili dell’Euro-pa intera fu portato dal memorando viaggio di Vasco deGama intorno al Capo di Buona Speranza, col successi-vo grande sviluppo nel commercio dei calicò o tele

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d’India, le quali assieme alle spezie e alle sete indiane ecinesi rappresentavano l’aristocrazia del commerciomondiale nei secoli XVI e XVII. Senza dubbiol’influenza di questi prodotti orientali fu profonda; pro-va ne sia che tutte le nazioni (fatta eccezione per la ra-zionale Olanda) promossero editti e leggi che proibiva-no l’importazione dei calicò e delle sete dall’India e dal-la Cina, nella ferma convinzione che quei raffinati pro-dotti avrebbero distrutto o inceppato le vecchie e prova-te industrie della lana, della seta e della tela. Qui ancoratroviamo tutte le nazioni aperte alle medesime influen-ze, e non possiamo asserire che l’introduzione dei coto-ni stampati e delle sete orientali abbia ispirato la mecca-nica inglese soltanto a tentativi di imitare e uguagliarecon metodi industrializzati quegli invidiabili prodotti.Affermare che ciò fosse dovuto alla pertinacia, all’ener-gia e all’ingegnosità degli Inglesi sarebbe forse altret-tanto errato, poichè allora come ora la popolazionedell’Inghilterra era composta di elementi razziali oltre-modo misti e provenienti da tutti i paesi d’Europa. Laverità è, forse, che soltanto in Inghilterra regnava allorauna sufficiente calma politica tale da costituire un’atmo-sfera nella quale potessero sorgere e prosperare nuoveinvenzioni.

C’è una seconda e un po’ meno lusinghiera spiegazio-ne. Sin dalla «Morte Nera» nel XIV secolo, con la con-seguente chiusura dei pascoli destinati agli ovini (per latemporanea mancanza di mano d’opera agricola) e lasvalutazione della piccola proprietà; sin dallo sciogli-

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d’India, le quali assieme alle spezie e alle sete indiane ecinesi rappresentavano l’aristocrazia del commerciomondiale nei secoli XVI e XVII. Senza dubbiol’influenza di questi prodotti orientali fu profonda; pro-va ne sia che tutte le nazioni (fatta eccezione per la ra-zionale Olanda) promossero editti e leggi che proibiva-no l’importazione dei calicò e delle sete dall’India e dal-la Cina, nella ferma convinzione che quei raffinati pro-dotti avrebbero distrutto o inceppato le vecchie e prova-te industrie della lana, della seta e della tela. Qui ancoratroviamo tutte le nazioni aperte alle medesime influen-ze, e non possiamo asserire che l’introduzione dei coto-ni stampati e delle sete orientali abbia ispirato la mecca-nica inglese soltanto a tentativi di imitare e uguagliarecon metodi industrializzati quegli invidiabili prodotti.Affermare che ciò fosse dovuto alla pertinacia, all’ener-gia e all’ingegnosità degli Inglesi sarebbe forse altret-tanto errato, poichè allora come ora la popolazionedell’Inghilterra era composta di elementi razziali oltre-modo misti e provenienti da tutti i paesi d’Europa. Laverità è, forse, che soltanto in Inghilterra regnava allorauna sufficiente calma politica tale da costituire un’atmo-sfera nella quale potessero sorgere e prosperare nuoveinvenzioni.

C’è una seconda e un po’ meno lusinghiera spiegazio-ne. Sin dalla «Morte Nera» nel XIV secolo, con la con-seguente chiusura dei pascoli destinati agli ovini (per latemporanea mancanza di mano d’opera agricola) e lasvalutazione della piccola proprietà; sin dallo sciogli-

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mento dei monasteri per opera di Enrico VIII, col conse-guente acquisto di milioni d’acri di terreni da parte deifavoriti della Regina Elisabetta, l’Inghilterra s’era trova-ta di fronte a un serio problema di disoccupazione. Ciòaveva creato una sovrabbondanza di mano d’opera e uneccesso di popolazione che resero possibile all’Inghil-terra maggior successo che non alla Francia o all’Olan-da nelle sue avventure coloniali del XVII secolo. Questecondizioni crearono altresì una riserva di mano d’opera,non protetta da usanze sociali nè da azioni legali, cheper il suo scarso costo era un costante invito per coloro iquali intravedevano ulteriori iniziative industriali. Que-sto stato di cose doveva tuttavia condurre un’intera clas-se operaia a una tra le più grandi tragedie sociali ed eco-nomiche che il mondo abbia mai conosciuto.

Non dobbiamo credere che l’Inghilterra si sia maimostrata particolarmente cordiale verso quegli emigran-ti, dalla cui maestria sarebbero dipesi un giorno i suoidestini. Il governo inglese incoraggiava bensì i tessitoriche venivano a stabilirsi in Inghilterra, ma soprattuttoperchè essi le avrebbero fruttato buone tasse; in ciò, ve-nivano tosati non meno coscienziosamente delle pecoreinglesi. I primi di questi emigranti furono un gruppo ditessitori fiamminghi, i quali mossero una petizione allaRegina Matilde, al tempo della Conquista, affinchè ve-nisse accordato loro rifugio, onde sfuggire alle oppressi-ve tasse di cui li gravava il loro Duca. Dicono le crona-che che essi vennero cacciati verso il terribile e fosconord della vecchia Inghilterra «come condannati ai lavo-

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mento dei monasteri per opera di Enrico VIII, col conse-guente acquisto di milioni d’acri di terreni da parte deifavoriti della Regina Elisabetta, l’Inghilterra s’era trova-ta di fronte a un serio problema di disoccupazione. Ciòaveva creato una sovrabbondanza di mano d’opera e uneccesso di popolazione che resero possibile all’Inghil-terra maggior successo che non alla Francia o all’Olan-da nelle sue avventure coloniali del XVII secolo. Questecondizioni crearono altresì una riserva di mano d’opera,non protetta da usanze sociali nè da azioni legali, cheper il suo scarso costo era un costante invito per coloro iquali intravedevano ulteriori iniziative industriali. Que-sto stato di cose doveva tuttavia condurre un’intera clas-se operaia a una tra le più grandi tragedie sociali ed eco-nomiche che il mondo abbia mai conosciuto.

Non dobbiamo credere che l’Inghilterra si sia maimostrata particolarmente cordiale verso quegli emigran-ti, dalla cui maestria sarebbero dipesi un giorno i suoidestini. Il governo inglese incoraggiava bensì i tessitoriche venivano a stabilirsi in Inghilterra, ma soprattuttoperchè essi le avrebbero fruttato buone tasse; in ciò, ve-nivano tosati non meno coscienziosamente delle pecoreinglesi. I primi di questi emigranti furono un gruppo ditessitori fiamminghi, i quali mossero una petizione allaRegina Matilde, al tempo della Conquista, affinchè ve-nisse accordato loro rifugio, onde sfuggire alle oppressi-ve tasse di cui li gravava il loro Duca. Dicono le crona-che che essi vennero cacciati verso il terribile e fosconord della vecchia Inghilterra «come condannati ai lavo-

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ri forzati».Le grandi Corporazioni Commerciali da tempo stabi-

lite nelle città inglesi, particolarmente a Londra, tuttededite al commercio di prodotti esteri di lusso, specie ifinissimi tessuti provenienti dall’Italia, fecero il visodell’arme a quei primi tessitori. I quali erano costretti adacquistare le lane e le tinture da quegli stessi mercanti;nè ad altri che a essi potevano vendere i loro prodotti fi-niti. Per legge, nessun follatore o tessitore poteva testi-moniare in tribunale contro un mercante; se un tessitorevoleva diventare mercante o borghese, doveva prima ri-muovere dalla propria casa tutti gli arnesi e strumenti dilavoro. Nessun tessitore poteva vendere i suoi prodottioltre i limiti della città che abitava; gli era vietato tenerein casa più di cinque aune di tessuto alla volta; non po-teva possedere nulla all’infuori dei suoi strumenti di la-voro, che oltrepassasse il valore di un penny. I tessitorivengono descritti, a quei tempi, come una classe perico-losa e radicale, singolarmente soggetta al sospetto dieresia, per cui spesso furono perseguitati.

Nel XIV secolo sorse una curiosa istituzione, notaquale lo Staple, o l’«Emporio». In origine, il termine in-dicava un gruppo di commercianti in derrate soggette auna tassa reale, i quali, per un particolare riguardo, ri-spondevano personalmente al Re della riscossione diqueste tasse. I commercianti dello Staple erano potentipersonaggi, ai loro tempi; ma presto il termine passò adesignare le città, grandi o piccole, in cui era legale lavendita di merci sottoposte ad accise, o tasse reali. In

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ri forzati».Le grandi Corporazioni Commerciali da tempo stabi-

lite nelle città inglesi, particolarmente a Londra, tuttededite al commercio di prodotti esteri di lusso, specie ifinissimi tessuti provenienti dall’Italia, fecero il visodell’arme a quei primi tessitori. I quali erano costretti adacquistare le lane e le tinture da quegli stessi mercanti;nè ad altri che a essi potevano vendere i loro prodotti fi-niti. Per legge, nessun follatore o tessitore poteva testi-moniare in tribunale contro un mercante; se un tessitorevoleva diventare mercante o borghese, doveva prima ri-muovere dalla propria casa tutti gli arnesi e strumenti dilavoro. Nessun tessitore poteva vendere i suoi prodottioltre i limiti della città che abitava; gli era vietato tenerein casa più di cinque aune di tessuto alla volta; non po-teva possedere nulla all’infuori dei suoi strumenti di la-voro, che oltrepassasse il valore di un penny. I tessitorivengono descritti, a quei tempi, come una classe perico-losa e radicale, singolarmente soggetta al sospetto dieresia, per cui spesso furono perseguitati.

Nel XIV secolo sorse una curiosa istituzione, notaquale lo Staple, o l’«Emporio». In origine, il termine in-dicava un gruppo di commercianti in derrate soggette auna tassa reale, i quali, per un particolare riguardo, ri-spondevano personalmente al Re della riscossione diqueste tasse. I commercianti dello Staple erano potentipersonaggi, ai loro tempi; ma presto il termine passò adesignare le città, grandi o piccole, in cui era legale lavendita di merci sottoposte ad accise, o tasse reali. In

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teoria, le località venivano stabilite, per concessione delRe, dai dirigenti stessi degli Staple; in pratica, era il Reche sceglieva le città, e col criterio di aumentare i propriredditi piuttosto che negli interessi del commercio odell’industria. Era un privilegio che le città pagavano inmoneta sonante, nè più nè meno che le balle di lana e dicuoio, o le barre di stagno, o le pezze di stoffa grezza.Lo Staple, vera forma di ricatto, venne esteso in seguitoa merci di prima necessità come il sale e il formaggio, efinanco alle verghe di salice con cui s’intrecciavano leceste.

Tra il 1326 e il 1398, l’istituzione dello Staple ondeg-giò tra le città inglesi e Calais e Bruges, e di là nuova-mente a Newcastle-on-Tyne, a York, a Lancaster, a Nor-wich, Westminster, Canterbury, Exeter e altre localitàancora. Ogni volta che il Re aveva bisogno di denaro, ilprivilegio dello Staple veniva venduto a nuovi e fiducio-si gruppi di mercanti. Nel 1398 nessuno vi faceva piùgran caso, e i mercanti avevano escogitato mezzi peresimersene. Se governi e sovrani avessero mai avuto inloro facoltà di scoraggiare gli uomini del commercio, ilcommercio avrebbe dovuto perire molti secoli primadell’Era Cristiana. Quando nel 1538 i Francesi occupa-rono Calais, lo Staple venne trasferito a Bruges. Le sueazioni, a quel tempo, erano ormai scese di molto.

Una tra le fasi più interessanti dei primordi della sto-ria delle industrie tessili in Inghilterra fu il commerciostabilito con la famosa Arte di Calimala di Firenze. Imercanti fiorentini prendevano le stoffe grezze di lana,

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teoria, le località venivano stabilite, per concessione delRe, dai dirigenti stessi degli Staple; in pratica, era il Reche sceglieva le città, e col criterio di aumentare i propriredditi piuttosto che negli interessi del commercio odell’industria. Era un privilegio che le città pagavano inmoneta sonante, nè più nè meno che le balle di lana e dicuoio, o le barre di stagno, o le pezze di stoffa grezza.Lo Staple, vera forma di ricatto, venne esteso in seguitoa merci di prima necessità come il sale e il formaggio, efinanco alle verghe di salice con cui s’intrecciavano leceste.

Tra il 1326 e il 1398, l’istituzione dello Staple ondeg-giò tra le città inglesi e Calais e Bruges, e di là nuova-mente a Newcastle-on-Tyne, a York, a Lancaster, a Nor-wich, Westminster, Canterbury, Exeter e altre localitàancora. Ogni volta che il Re aveva bisogno di denaro, ilprivilegio dello Staple veniva venduto a nuovi e fiducio-si gruppi di mercanti. Nel 1398 nessuno vi faceva piùgran caso, e i mercanti avevano escogitato mezzi peresimersene. Se governi e sovrani avessero mai avuto inloro facoltà di scoraggiare gli uomini del commercio, ilcommercio avrebbe dovuto perire molti secoli primadell’Era Cristiana. Quando nel 1538 i Francesi occupa-rono Calais, lo Staple venne trasferito a Bruges. Le sueazioni, a quel tempo, erano ormai scese di molto.

Una tra le fasi più interessanti dei primordi della sto-ria delle industrie tessili in Inghilterra fu il commerciostabilito con la famosa Arte di Calimala di Firenze. Imercanti fiorentini prendevano le stoffe grezze di lana,

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filate e tessute in casette e piccoli laboratori inglesi, lerifinivano e le tingevano, e le vendevano al mondo inte-ro. I mercanti dell’Arte di Calimala erano banchieri peril Papa, e quale parte di questo scambio riscuotevano lesue tasse in Inghilterra e sul Continente.

Di quando in quando i Re d’Inghilterra, nell’intentodi incomodare i principi stranieri, proibivano l’esporta-zione delle loro lane. Ciò dava un gran da fare ai con-trabbandieri che infestavano il Canale della Manica e iMari del Nord. Qui assistiamo alle modeste origini dellaMarina inglese. Un contrabbandiere era, prima di tutto,un buon marinaio. Per reprimere il commercio di questigalantuomini, il governo promulgò una legge secondo laquale era illegale tosar le pecore a una distanza minoredi cinque miglia dalle coste inglesi.

Grandi effetti sulle industrie tessili dell’Olanda e del-l’Inghilterra ebbe il già citato sacco di Anversa. Del cru-dele avvenimento storico parla la Britannica di Camden,di data quasi contemporanea, ove Anversa è descrittacome «la più eccellente città, e senza eccezione il piùflorido mercato d’Europa».

Anderson, nella sua «Storia del Commercio Britanni-co», pubblicata nel XVIII secolo, dice:

«Le manifatture laniere (di Anversa) si stabilirono ingran parte a Leyda, dove fioriscono tuttora. L’industriadel lino passò ad Harlem e ad Amsterdam. Un terzo deimercanti e artigiani che lavoravano e commerciavanosete, damaschi e taffetà, oltre a saio, baietta, rascia e cal-ze ecc., emigrò in Inghilterra, dove ancora si avevano

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filate e tessute in casette e piccoli laboratori inglesi, lerifinivano e le tingevano, e le vendevano al mondo inte-ro. I mercanti dell’Arte di Calimala erano banchieri peril Papa, e quale parte di questo scambio riscuotevano lesue tasse in Inghilterra e sul Continente.

Di quando in quando i Re d’Inghilterra, nell’intentodi incomodare i principi stranieri, proibivano l’esporta-zione delle loro lane. Ciò dava un gran da fare ai con-trabbandieri che infestavano il Canale della Manica e iMari del Nord. Qui assistiamo alle modeste origini dellaMarina inglese. Un contrabbandiere era, prima di tutto,un buon marinaio. Per reprimere il commercio di questigalantuomini, il governo promulgò una legge secondo laquale era illegale tosar le pecore a una distanza minoredi cinque miglia dalle coste inglesi.

Grandi effetti sulle industrie tessili dell’Olanda e del-l’Inghilterra ebbe il già citato sacco di Anversa. Del cru-dele avvenimento storico parla la Britannica di Camden,di data quasi contemporanea, ove Anversa è descrittacome «la più eccellente città, e senza eccezione il piùflorido mercato d’Europa».

Anderson, nella sua «Storia del Commercio Britanni-co», pubblicata nel XVIII secolo, dice:

«Le manifatture laniere (di Anversa) si stabilirono ingran parte a Leyda, dove fioriscono tuttora. L’industriadel lino passò ad Harlem e ad Amsterdam. Un terzo deimercanti e artigiani che lavoravano e commerciavanosete, damaschi e taffetà, oltre a saio, baietta, rascia e cal-ze ecc., emigrò in Inghilterra, dove ancora si avevano

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scarse cognizioni di queste lavorazioni. E anche il restodei commercianti di Anversa, specie i Protestanti, si sa-rebbero stabiliti in Inghilterra, ma ivi i mercanti fore-stieri pagavano doppie tasse, ed erano altresì esclusi datutte le compagnie e società commerciali; e così pure glioperai diurnisti forestieri non potevano diventare capilavoranti, nè avere compartecipazioni in alcuna ditta».

Da un interessante esperimento in fatto di monopolîindustriali si potrà arguire lo stato delle industrie tessilibritanniche nella prima parte del XVII secolo. Nel 1608,un editto di Re Giacomo I proibiva le «Avventure Mer-cantili», come pure l’uscita dall’Inghilterra di stoffegrezze; e al tempo stesso conferiva all’Assessore Coc-kayne una patente, o brevetto, che gli dava il dirittoesclusivo di tingere e rifinire stoffe inglesi. Apparente-mente, il piano prometteva discreti vantaggi alla Coronae all’Assessore favorito; senonchè, aveva un neo: nonsarebbe mai riuscito. Gli Olandesi fronteggiarono im-mediatamente la situazione, vietando l’importazionedelle stoffe inglesi tinte e rifinite. Dice il diligente An-derson:

«Così, la confusione regnò nel commercio. A Cockay,ne veniva impedito di vendere le sue stoffe fuor di casasua; a parte che queste erano peggio lavorate e più co-stose di quelle rifinite in Olanda. Grande fu dunquel’indignazione dei lavoranti tessitori contro il nuovoprogetto; il Re fu costretto a concedere l’esportazione diuna certa quantità di tessuti non tinti; e poco dopo, nel1615, dovette annullare la patente di Cockaylte e rin-

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scarse cognizioni di queste lavorazioni. E anche il restodei commercianti di Anversa, specie i Protestanti, si sa-rebbero stabiliti in Inghilterra, ma ivi i mercanti fore-stieri pagavano doppie tasse, ed erano altresì esclusi datutte le compagnie e società commerciali; e così pure glioperai diurnisti forestieri non potevano diventare capilavoranti, nè avere compartecipazioni in alcuna ditta».

Da un interessante esperimento in fatto di monopolîindustriali si potrà arguire lo stato delle industrie tessilibritanniche nella prima parte del XVII secolo. Nel 1608,un editto di Re Giacomo I proibiva le «Avventure Mer-cantili», come pure l’uscita dall’Inghilterra di stoffegrezze; e al tempo stesso conferiva all’Assessore Coc-kayne una patente, o brevetto, che gli dava il dirittoesclusivo di tingere e rifinire stoffe inglesi. Apparente-mente, il piano prometteva discreti vantaggi alla Coronae all’Assessore favorito; senonchè, aveva un neo: nonsarebbe mai riuscito. Gli Olandesi fronteggiarono im-mediatamente la situazione, vietando l’importazionedelle stoffe inglesi tinte e rifinite. Dice il diligente An-derson:

«Così, la confusione regnò nel commercio. A Cockay,ne veniva impedito di vendere le sue stoffe fuor di casasua; a parte che queste erano peggio lavorate e più co-stose di quelle rifinite in Olanda. Grande fu dunquel’indignazione dei lavoranti tessitori contro il nuovoprogetto; il Re fu costretto a concedere l’esportazione diuna certa quantità di tessuti non tinti; e poco dopo, nel1615, dovette annullare la patente di Cockaylte e rin-

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staurare le Avventure Mercantili».Nel corso del XVII secolo, l’industria della seta in In-

ghilterra ebbe grande incremento dagli operai ugonottiimmigrati. Ma ancora c’era molto da fare. I tessitori in-glesi dovevano comperare gli organzini e i filati per gliorditi, dall’Italia. Nel 1719 (nel 1720 avrebbe avuto luo-go il primo memorando panico nella finanza inglese)una nota veniva comunicata all’ingegnoso signore cheaveva ottenuto una certa indispensabile informazione dauna filanda italiana. Ascoltiamo ancora una voltal’Anderson:

«Venne accordato un brevetto a Sir Thomas Lombe,della durata di quindici anni, per la sola ed esclusivaproprietà di quel meraviglioso meccanismo per la torci-tura della seta, introdotto qualche tempo avanti dal di luifratello nelle filande di Derby sul fiume Dewent, in cuifunzionavano tre macchine principali. Questo stupefa-cente e utilissimo congegno contiene 26.568 ruote e97.706 movimenti, che a ogni giro della ruota ad acqua,e cioè due giri al minuto, producono 73.726 yards8 difilo (ordito) di organzino, vale a dire 318.540.960 yardsin un giorno e una notte. La ruota ad acqua fa agire tuttigli altri movimenti, ciascuno dei quali può esser fermatoseparatamente senza esser d’intralcio agli altri.

«Una pompa a motore trasmette aria calda a ogni sin-gola parte del vasto congegno, il quale in tutti i suoipezzi misurerebbe un quarto di miglio in lunghezza. Si

8 Il yard è di m. 0,914 (N. di Tr.)

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staurare le Avventure Mercantili».Nel corso del XVII secolo, l’industria della seta in In-

ghilterra ebbe grande incremento dagli operai ugonottiimmigrati. Ma ancora c’era molto da fare. I tessitori in-glesi dovevano comperare gli organzini e i filati per gliorditi, dall’Italia. Nel 1719 (nel 1720 avrebbe avuto luo-go il primo memorando panico nella finanza inglese)una nota veniva comunicata all’ingegnoso signore cheaveva ottenuto una certa indispensabile informazione dauna filanda italiana. Ascoltiamo ancora una voltal’Anderson:

«Venne accordato un brevetto a Sir Thomas Lombe,della durata di quindici anni, per la sola ed esclusivaproprietà di quel meraviglioso meccanismo per la torci-tura della seta, introdotto qualche tempo avanti dal di luifratello nelle filande di Derby sul fiume Dewent, in cuifunzionavano tre macchine principali. Questo stupefa-cente e utilissimo congegno contiene 26.568 ruote e97.706 movimenti, che a ogni giro della ruota ad acqua,e cioè due giri al minuto, producono 73.726 yards8 difilo (ordito) di organzino, vale a dire 318.540.960 yardsin un giorno e una notte. La ruota ad acqua fa agire tuttigli altri movimenti, ciascuno dei quali può esser fermatoseparatamente senza esser d’intralcio agli altri.

«Una pompa a motore trasmette aria calda a ogni sin-gola parte del vasto congegno, il quale in tutti i suoipezzi misurerebbe un quarto di miglio in lunghezza. Si

8 Il yard è di m. 0,914 (N. di Tr.)

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dice che il signor Lombe, sotto le spoglie di un sempliceoperaio, abbia segretamente disegnato il modellodall’originale, in una filanda nel Piemonte, e sia quindifuggito in Inghilterra. Queste macchine risparmiano allanazione gran parte dei capitali che prima venivano paga-ti in contanti al Piemonte per l’organzino».

Il Parlamento concesse a quella spia industriale unsussidio di 14.000 lire sterline, per la sua fortunata eva-sione alle leggi italiane. Sembra che il Re di Sardegnacercasse di inceppare a sua volta il commercio inglesedella seta, col proibire l’esportazione della seta grezza,che queste macchine avrebbero dovuto lavorare.

Ai tempi nostri, vi fu chi elevò proteste perchè gliAmericani, e più tardi i Giapponesi, s’erano «serviti» dimacchine inglesi per la lavorazione del cotone. Ma nonera una novità: da quando gli uomini cominciarono a in-ventare nuovi arnesi e macchine, ci furono sempre altriuomini pronti a «servirsene». Le idee sono i viaggiatoripiù rapidi del mondo.

Il fatto che abbiamo ricordato prova, in ogni modo,non solo l’iniziativa degli Inglesi nel XVII secolo, maanche l’alta maestria che fin da allora l’Italia aveva rag-giunto nella lavorazione meccanica dei filati di seta; edimostra come le origini dell’industria tessile siano sor-te nel Continente piuttosto che in Inghilterra. È dunqueal Continente europeo che dobbiamo rivolgere la nostraattenzione.

Sono note le scrupolose leggi che nel Medioevo pro-teggevano il popolo, o come diremmo ora, il consuma-

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dice che il signor Lombe, sotto le spoglie di un sempliceoperaio, abbia segretamente disegnato il modellodall’originale, in una filanda nel Piemonte, e sia quindifuggito in Inghilterra. Queste macchine risparmiano allanazione gran parte dei capitali che prima venivano paga-ti in contanti al Piemonte per l’organzino».

Il Parlamento concesse a quella spia industriale unsussidio di 14.000 lire sterline, per la sua fortunata eva-sione alle leggi italiane. Sembra che il Re di Sardegnacercasse di inceppare a sua volta il commercio inglesedella seta, col proibire l’esportazione della seta grezza,che queste macchine avrebbero dovuto lavorare.

Ai tempi nostri, vi fu chi elevò proteste perchè gliAmericani, e più tardi i Giapponesi, s’erano «serviti» dimacchine inglesi per la lavorazione del cotone. Ma nonera una novità: da quando gli uomini cominciarono a in-ventare nuovi arnesi e macchine, ci furono sempre altriuomini pronti a «servirsene». Le idee sono i viaggiatoripiù rapidi del mondo.

Il fatto che abbiamo ricordato prova, in ogni modo,non solo l’iniziativa degli Inglesi nel XVII secolo, maanche l’alta maestria che fin da allora l’Italia aveva rag-giunto nella lavorazione meccanica dei filati di seta; edimostra come le origini dell’industria tessile siano sor-te nel Continente piuttosto che in Inghilterra. È dunqueal Continente europeo che dobbiamo rivolgere la nostraattenzione.

Sono note le scrupolose leggi che nel Medioevo pro-teggevano il popolo, o come diremmo ora, il consuma-

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tore, dalle malizie di mercanti e fabbricanti; e c’è chiancora sospira quei giorni felici nei quali i governi si as-sumevano simili responsabilità. Rendiamo onore a quel-le leggi, in teoria; in pratica, immaginiamo che l’elo-quente predicatore Bertoldo di Ratisbona, nell’anno digrazia 1246, fosse assai meglio informato sul come an-davano le cose in realtà. Non sembra, a dire il vero,ch’egli ne fosse troppo entusiasta:

«Voi tutti che fabbricate vesti, di seta o lana o pellic-cia; scarpe o guanti o cinture: l’uomo non può fare sen-za di voi, l’uomo ha bisogno di vesti, quindi dovete ser-virlo fedelmente; non rubargli la metà della stoffa, nèusare altre astuzie, come il mescolar crine alla lana o ti-rarla affinchè frutti di più, di modo che uno creda diavere un buon panno, e tu, invece, lo avrai ingannatodandogli un cencio di scarsa durata. Per la tua perfidiaoggigiorno non c’è uomo che possa trovare un buoncappello; dalla testa la pioggia gli cola fin sul petto. Ecosì troviamo la frode nelle scarpe, nelle pelli, nelle pel-liccie. Eccoti uno che vende una pelle vecchia per nuo-va; e quanto molteplici siano i tuoi inganni, tu solo losai e il diavolo tuo maestro...

Tu, mercante, devi fidare in Dio affinchè ti aiuti aprocacciarti la vita con onesti guadagni, chè tanto Egli tiha promesso per la divina Sua bocca. Eppure, ad altavoce tu gridi ora quanto ottima sia la tua merce, e qualevantaggio ne avrà il compratore; e dieci e venti e trentavolte nomini Dio e tutti i Suoi Santi invano chè ben tusai come la tua merce non valga cinque scellini! E ciò

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tore, dalle malizie di mercanti e fabbricanti; e c’è chiancora sospira quei giorni felici nei quali i governi si as-sumevano simili responsabilità. Rendiamo onore a quel-le leggi, in teoria; in pratica, immaginiamo che l’elo-quente predicatore Bertoldo di Ratisbona, nell’anno digrazia 1246, fosse assai meglio informato sul come an-davano le cose in realtà. Non sembra, a dire il vero,ch’egli ne fosse troppo entusiasta:

«Voi tutti che fabbricate vesti, di seta o lana o pellic-cia; scarpe o guanti o cinture: l’uomo non può fare sen-za di voi, l’uomo ha bisogno di vesti, quindi dovete ser-virlo fedelmente; non rubargli la metà della stoffa, nèusare altre astuzie, come il mescolar crine alla lana o ti-rarla affinchè frutti di più, di modo che uno creda diavere un buon panno, e tu, invece, lo avrai ingannatodandogli un cencio di scarsa durata. Per la tua perfidiaoggigiorno non c’è uomo che possa trovare un buoncappello; dalla testa la pioggia gli cola fin sul petto. Ecosì troviamo la frode nelle scarpe, nelle pelli, nelle pel-liccie. Eccoti uno che vende una pelle vecchia per nuo-va; e quanto molteplici siano i tuoi inganni, tu solo losai e il diavolo tuo maestro...

Tu, mercante, devi fidare in Dio affinchè ti aiuti aprocacciarti la vita con onesti guadagni, chè tanto Egli tiha promesso per la divina Sua bocca. Eppure, ad altavoce tu gridi ora quanto ottima sia la tua merce, e qualevantaggio ne avrà il compratore; e dieci e venti e trentavolte nomini Dio e tutti i Suoi Santi invano chè ben tusai come la tua merce non valga cinque scellini! E ciò

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che vale cinque scellini, saresti capace di venderlo ma-gari sei pence di più che se tu non fossi stato un bestem-miatore di Nostro Signore. Nessuno meglio di te sa chemenzogna e frode sono gli artigiani che nel tuo negoziohan la mano lesta!».

Le arruffate matasse della storia dell’industria tessilein Europa vanno attraverso le città della Francia delNord, delle Fiandre e d’Olanda, per risalire alle grandirepubbliche italiane; e, sebbene in proporzioni minori,alla Spagna Meridionale, sotto il benefico influsso deiMori. I velluti di Genova, i broccati d’oro e d’argento diVenezia, le finissime lane e sete fiorentine erano tantostimate allora sui mercati europei quanto preziose sononei musei dei nostri tempi. Ma l’Italia non fu ancora lafonte originale; non era che un centro di distribuzione;un luogo di più, dove il commercio ispirò l’industria, el’industria divenne un’arte. Che sia stata l’Italia a inse-gnare all’Europa le arti del telaio e della tintoria, nonc’è dubbio; ma chi fu il maestro dei maestri italiani?Ecco il problema.

Ancora una volta dobbiamo rifarci alla grande città diCostantinopoli, e alle isole del Mediterraneo Orientale;e, indirettamente, al commercio e alle industrie assai piùantiche di Alessandria d’Egitto. L’Italia e Genova eranodiventate gli agenti commerciali di Costantinopoli suimercati europei, e poichè il commercio è il padredell’industria, nell’Alto Medioevo cominciarono a svi-luppare industrie ed arti proprie, basandosi sull’espe-rienza acquistata a Costantinopoli.

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che vale cinque scellini, saresti capace di venderlo ma-gari sei pence di più che se tu non fossi stato un bestem-miatore di Nostro Signore. Nessuno meglio di te sa chemenzogna e frode sono gli artigiani che nel tuo negoziohan la mano lesta!».

Le arruffate matasse della storia dell’industria tessilein Europa vanno attraverso le città della Francia delNord, delle Fiandre e d’Olanda, per risalire alle grandirepubbliche italiane; e, sebbene in proporzioni minori,alla Spagna Meridionale, sotto il benefico influsso deiMori. I velluti di Genova, i broccati d’oro e d’argento diVenezia, le finissime lane e sete fiorentine erano tantostimate allora sui mercati europei quanto preziose sononei musei dei nostri tempi. Ma l’Italia non fu ancora lafonte originale; non era che un centro di distribuzione;un luogo di più, dove il commercio ispirò l’industria, el’industria divenne un’arte. Che sia stata l’Italia a inse-gnare all’Europa le arti del telaio e della tintoria, nonc’è dubbio; ma chi fu il maestro dei maestri italiani?Ecco il problema.

Ancora una volta dobbiamo rifarci alla grande città diCostantinopoli, e alle isole del Mediterraneo Orientale;e, indirettamente, al commercio e alle industrie assai piùantiche di Alessandria d’Egitto. L’Italia e Genova eranodiventate gli agenti commerciali di Costantinopoli suimercati europei, e poichè il commercio è il padredell’industria, nell’Alto Medioevo cominciarono a svi-luppare industrie ed arti proprie, basandosi sull’espe-rienza acquistata a Costantinopoli.

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Soffermiamoci brevemente a considerare la Sicilia,che tra l’Italia e Costantinopoli sta sull’antica via com-merciale. Sin dai tempi di Giustiniano, la Sicilia avevasubìto le dominazioni bizantine, arabe e normanne, e nesapeva qualcosa della signoria d’Austria, degli Angiò edegli Aragona. Sotto Ruggero II il Normanno, nel 1147,tessitori di seta, tintori e contadini erano venuti a stabi-lirsi a Palermo, in seguito alla conquista di Corinto,Tebe e Atene, le quali a quei tempi erano centri delle in-dustrie seriche della Grecia. Un secolo dopo, seguendocom’era naturale le vie della conquista, l’industria dellaseta migrava dalla Sicilia a Lucca, e di là ad altre cittàitaliane, dove, nel XIII secolo si sarebbe poi sviluppata.Le orde Mongole, piombando sulla Persia, avevano ri-dotto a un mucchio di rovine o poco meno quell’anticocentro d’arti tessili. Nel 1204 gli eserciti della QuartaCrociata, dopo avere espugnato le triplici mura della cri-stiana città di Costantinopoli, invece di riscattare il San-to Sepolcro a Gerusalemme dalla signoria dei Turchi,s’erano volti al commercio, trasformando il grande Im-pero di Bisanzio e i floridi mercati di Costantinopoli inaltrettanti monopolî veneziani. Tuttavia, malgrado que-sti vantaggi, solo nel 1440 – tredici anni prima che iTurchi conquistassero Costantinopoli – la coltivazionedel gelso, indispensabile per l’allevamento del bachi, sifece strada in Italia. Prima d’allora, i bachi da seta veni-vano importati dalla Grecia e dal Levante, e nutriti confoglie di gelso parimenti importate dalla Grecia. Ciò fasupporre che a quei tempi l’industria della seta non fos-

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Soffermiamoci brevemente a considerare la Sicilia,che tra l’Italia e Costantinopoli sta sull’antica via com-merciale. Sin dai tempi di Giustiniano, la Sicilia avevasubìto le dominazioni bizantine, arabe e normanne, e nesapeva qualcosa della signoria d’Austria, degli Angiò edegli Aragona. Sotto Ruggero II il Normanno, nel 1147,tessitori di seta, tintori e contadini erano venuti a stabi-lirsi a Palermo, in seguito alla conquista di Corinto,Tebe e Atene, le quali a quei tempi erano centri delle in-dustrie seriche della Grecia. Un secolo dopo, seguendocom’era naturale le vie della conquista, l’industria dellaseta migrava dalla Sicilia a Lucca, e di là ad altre cittàitaliane, dove, nel XIII secolo si sarebbe poi sviluppata.Le orde Mongole, piombando sulla Persia, avevano ri-dotto a un mucchio di rovine o poco meno quell’anticocentro d’arti tessili. Nel 1204 gli eserciti della QuartaCrociata, dopo avere espugnato le triplici mura della cri-stiana città di Costantinopoli, invece di riscattare il San-to Sepolcro a Gerusalemme dalla signoria dei Turchi,s’erano volti al commercio, trasformando il grande Im-pero di Bisanzio e i floridi mercati di Costantinopoli inaltrettanti monopolî veneziani. Tuttavia, malgrado que-sti vantaggi, solo nel 1440 – tredici anni prima che iTurchi conquistassero Costantinopoli – la coltivazionedel gelso, indispensabile per l’allevamento del bachi, sifece strada in Italia. Prima d’allora, i bachi da seta veni-vano importati dalla Grecia e dal Levante, e nutriti confoglie di gelso parimenti importate dalla Grecia. Ciò fasupporre che a quei tempi l’industria della seta non fos-

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se molto estesa, ma prova come le industrie dipendesse-ro allora dalla Grecia e dall’Asia Minore.

A metà del secolo XIII troviamo un avvenimento digrandissima importanza per l’industria della lana a Fi-renze e in seguito in tutta l’Europa. I Frati di San Mi-chele in Alessandria (gli Umiliati) si trasferironodall’antica metropoli alla signora dell’Arno, con tutte leloro cognizioni in fatto di filatura tessitura e tintura del-la lana. Dai vaghi riferimenti che abbiamo, siamo indottia credere che i buoni padri portassero seco una forma unpoco più complessa del telaio orientale, oltre al filatoioindiano e a una profonda conoscenza di tutti gli antichisegreti delle tinture orientali. Curioso è il fatto che sitrovi traccia di follatori a Firenze, circa un secolo avantiquesti avvenimenti. Di un commercio organizzato dellalana a Lucca, si parla in un documento che risale niente-meno che al 10 maggio 846; altri documenti testificanoun’associazione di lavoratori della lana a Firenze nei se-coli X e XI, con follatoi, mangani, tintori e tosatori dipecore. Ma Alessandria possedeva un’industria lanierache risaliva al II secolo; e quella che portò a Firenze nonfu una industria nuova, bensì una completa e perfezio-nata tecnica. Tuttavia, la grande maestra delle industrieitaliane rimase Costantinopoli.

Dal V all’XI secolo, Costantinopoli fu il centro delcommercio mondiale che collegava l’Europa all’Asia,all’Asia Minore, all’Africa e persino alla Russia e allaScandinavia. Era la prima, e certamente la più cosmopo-lita di tutte le metropoli europee del Medioevo; era un

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se molto estesa, ma prova come le industrie dipendesse-ro allora dalla Grecia e dall’Asia Minore.

A metà del secolo XIII troviamo un avvenimento digrandissima importanza per l’industria della lana a Fi-renze e in seguito in tutta l’Europa. I Frati di San Mi-chele in Alessandria (gli Umiliati) si trasferironodall’antica metropoli alla signora dell’Arno, con tutte leloro cognizioni in fatto di filatura tessitura e tintura del-la lana. Dai vaghi riferimenti che abbiamo, siamo indottia credere che i buoni padri portassero seco una forma unpoco più complessa del telaio orientale, oltre al filatoioindiano e a una profonda conoscenza di tutti gli antichisegreti delle tinture orientali. Curioso è il fatto che sitrovi traccia di follatori a Firenze, circa un secolo avantiquesti avvenimenti. Di un commercio organizzato dellalana a Lucca, si parla in un documento che risale niente-meno che al 10 maggio 846; altri documenti testificanoun’associazione di lavoratori della lana a Firenze nei se-coli X e XI, con follatoi, mangani, tintori e tosatori dipecore. Ma Alessandria possedeva un’industria lanierache risaliva al II secolo; e quella che portò a Firenze nonfu una industria nuova, bensì una completa e perfezio-nata tecnica. Tuttavia, la grande maestra delle industrieitaliane rimase Costantinopoli.

Dal V all’XI secolo, Costantinopoli fu il centro delcommercio mondiale che collegava l’Europa all’Asia,all’Asia Minore, all’Africa e persino alla Russia e allaScandinavia. Era la prima, e certamente la più cosmopo-lita di tutte le metropoli europee del Medioevo; era un

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mercato di inaudita floridezza. I prodotti che vi affluiva-no da tutti i punti del mondo abitato ispirarono e favori-rono industrie di lusso, non solo a Costantinopoli manelle altre città del grande Impero Bizantino. Nei secoliIX e X Costantinopoli contava una popolazione di800.000 abitanti; i suoi redditi, a calcolar dalle tariffe,ammontavano a 7.300.000 bisanti, circa 400.000.000 dilire italiane all’anno.

Della fioritura delle arti tessili a Costantinopoli nonabbiamo, per fortuna nostra, soltanto prove scritte. I no-stri musei conservano preziosi documenti che attestanoampiamente la bellezza di quei tessuti e le squisite raffi-natezze della tecnica bizantina nelle sete, nelle lane enelle tele. E sorge ancora una volta la domanda: chi fula maestra di Costantinopoli? E ancora la traccia ci con-duce verso oriente, con una breve sosta in Egitto. Giàfin da quando i Faraoni erano signori del Nilo, gli Egi-ziani avevano commerciato con l’Oriente, la Persia,l’India e le coste d’Africa attraverso il Mar Rosso. Nel Isecolo della nostra êra un navigatore greco, Ippalo, ave-va scoperto il segreto, gelosamente custodito, dei pilotiarabi e indù, i quali approfittavano dei ricorrenti monso-ni per navigare; e subito dopo questa scoperta un ignotoma certo notevole mercante greco scriveva il primo re-soconto commerciale europeo, il Periplo del Mare Eri-treo. In esso si parla di città, di distanze tra varie città,del carattere dei loro governanti, del genere di mercan-zie esitabili, o che i mercanti troveranno più facilmentenei vari mercati. Il resoconto cita sete, cotoni, gomma

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mercato di inaudita floridezza. I prodotti che vi affluiva-no da tutti i punti del mondo abitato ispirarono e favori-rono industrie di lusso, non solo a Costantinopoli manelle altre città del grande Impero Bizantino. Nei secoliIX e X Costantinopoli contava una popolazione di800.000 abitanti; i suoi redditi, a calcolar dalle tariffe,ammontavano a 7.300.000 bisanti, circa 400.000.000 dilire italiane all’anno.

Della fioritura delle arti tessili a Costantinopoli nonabbiamo, per fortuna nostra, soltanto prove scritte. I no-stri musei conservano preziosi documenti che attestanoampiamente la bellezza di quei tessuti e le squisite raffi-natezze della tecnica bizantina nelle sete, nelle lane enelle tele. E sorge ancora una volta la domanda: chi fula maestra di Costantinopoli? E ancora la traccia ci con-duce verso oriente, con una breve sosta in Egitto. Giàfin da quando i Faraoni erano signori del Nilo, gli Egi-ziani avevano commerciato con l’Oriente, la Persia,l’India e le coste d’Africa attraverso il Mar Rosso. Nel Isecolo della nostra êra un navigatore greco, Ippalo, ave-va scoperto il segreto, gelosamente custodito, dei pilotiarabi e indù, i quali approfittavano dei ricorrenti monso-ni per navigare; e subito dopo questa scoperta un ignotoma certo notevole mercante greco scriveva il primo re-soconto commerciale europeo, il Periplo del Mare Eri-treo. In esso si parla di città, di distanze tra varie città,del carattere dei loro governanti, del genere di mercan-zie esitabili, o che i mercanti troveranno più facilmentenei vari mercati. Il resoconto cita sete, cotoni, gomma

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aromatica, vetri, denti d’elefante e spezie: in altre paro-le, quegli stessi prodotti per cui Costantinopoli sarebbeandata famosa cinque secoli dopo, eran già noti nei portiintorno al Mar Rosso.

Citeremo un altro documento, a comprovare l’antichi-tà del commercio al quale Costantinopoli e le città ita-liane avrebbero dovuto la grandezza e la ricchezza loro.Il nostro documento è nientemeno che l’Apocalisse:

«E i Re della terra la rimpiangeranno e lamenteranno,allorchè vedranno il fumo delle sue case in fiamme, e imercanti piangeranno, chè nessuno comprerà più le loromercanzie. Oro e argento e pietre preziose e perle e linie porpore, e sete e legni odorosi e vasi d’avorio d’ognispecie... aromi e unguenti e incenso e vino e olio e fiordi farina... e pecore e carri e schiavi e le anime degli uo-mini... Ahimè, ahimè, la grande città in cui ricchi eranotutti coloro che avevano navi in mare... poichè i tuoimercanti erano i potenti della terra».

È noto come sotto il nome di Babilonia si celi Roma ela sua potenza; ma gli eventi non diedero affatto ragionea quei cupi prognostici. Roma fu ricostruita su più vastascala, e i mercanti fecero ottimi affari; ma il loro com-mercio si basò sempre su prodotti delle coste d’Africa,delle isole dell’Oceano Indiano e dell’Estremo Oriente.

Se vogliamo ricercare a ogni costo l’originedell’industria tessile, non soltanto l’Europa e il mondoclassico dovremo abbandonare, ma anche la Bibbia, e ri-farci, insieme all’antropologo e allo studioso della prei-storia, all’Estremo e al Vicino Oriente. Una parola anco-

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aromatica, vetri, denti d’elefante e spezie: in altre paro-le, quegli stessi prodotti per cui Costantinopoli sarebbeandata famosa cinque secoli dopo, eran già noti nei portiintorno al Mar Rosso.

Citeremo un altro documento, a comprovare l’antichi-tà del commercio al quale Costantinopoli e le città ita-liane avrebbero dovuto la grandezza e la ricchezza loro.Il nostro documento è nientemeno che l’Apocalisse:

«E i Re della terra la rimpiangeranno e lamenteranno,allorchè vedranno il fumo delle sue case in fiamme, e imercanti piangeranno, chè nessuno comprerà più le loromercanzie. Oro e argento e pietre preziose e perle e linie porpore, e sete e legni odorosi e vasi d’avorio d’ognispecie... aromi e unguenti e incenso e vino e olio e fiordi farina... e pecore e carri e schiavi e le anime degli uo-mini... Ahimè, ahimè, la grande città in cui ricchi eranotutti coloro che avevano navi in mare... poichè i tuoimercanti erano i potenti della terra».

È noto come sotto il nome di Babilonia si celi Roma ela sua potenza; ma gli eventi non diedero affatto ragionea quei cupi prognostici. Roma fu ricostruita su più vastascala, e i mercanti fecero ottimi affari; ma il loro com-mercio si basò sempre su prodotti delle coste d’Africa,delle isole dell’Oceano Indiano e dell’Estremo Oriente.

Se vogliamo ricercare a ogni costo l’originedell’industria tessile, non soltanto l’Europa e il mondoclassico dovremo abbandonare, ma anche la Bibbia, e ri-farci, insieme all’antropologo e allo studioso della prei-storia, all’Estremo e al Vicino Oriente. Una parola anco-

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ra, a comprovare questa necessità. Le tinture usate inItalia, a Bisanzio e ad Alessandria erano più antiche diqueste città. Prima fra queste tinture è la porpora,l’essenza distillata dal murex, un mollusco del Mediter-raneo, noto ai Cretesi almeno 2000 anni A. C., e primaancora dell’Asia Minore. Esiste un poema egiziano, da-tato 1400 A. C., in cui un verso si riferisce, non troppoelegantemente, a quei sistemi di tintura: «Le mani deitintori sanno di pesce putrido».

Da questa sostanza si ottenevano le famose porpore diTiro, simbolo di potenza presso quasi tutti i popolidell’antichità. Ma il rosso si estraeva più comunementeda una pianta ugualmente antica, la robbia, nota in com-mercio per quell’uso fin verso la fine del XIX secolo, eche per i mercati della Gran Bretagna veniva coltivatanell’America del Nord.

Il celebre scarlatto che risalta nei tessuti copti e chedivenne poi il colore dei cardinali, veniva estratto da unminuscolo insetto disseccato, d’origine persiana e notonel Medioevo sotto il nome di kermes. I Romani, scam-biando quelle macchioline per bacche, le chiamaronococconum; e fino alla fine del secolo XIX gli Inglesiconservarono il nome di Persian Berries o bacche per-siane. Ma i tintori del Medioevo tradussero il persianokermes o vermiciattolo nel latino vermiculata, donde de-rivò il francese vermillon, e il nostro vermiglio, a desi-gnare il colore omonimo.

Dell’indaco troviamo notizia per la prima volta inErodoto (450 A. C. ), ma era molto più antico. La sua

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ra, a comprovare questa necessità. Le tinture usate inItalia, a Bisanzio e ad Alessandria erano più antiche diqueste città. Prima fra queste tinture è la porpora,l’essenza distillata dal murex, un mollusco del Mediter-raneo, noto ai Cretesi almeno 2000 anni A. C., e primaancora dell’Asia Minore. Esiste un poema egiziano, da-tato 1400 A. C., in cui un verso si riferisce, non troppoelegantemente, a quei sistemi di tintura: «Le mani deitintori sanno di pesce putrido».

Da questa sostanza si ottenevano le famose porpore diTiro, simbolo di potenza presso quasi tutti i popolidell’antichità. Ma il rosso si estraeva più comunementeda una pianta ugualmente antica, la robbia, nota in com-mercio per quell’uso fin verso la fine del XIX secolo, eche per i mercati della Gran Bretagna veniva coltivatanell’America del Nord.

Il celebre scarlatto che risalta nei tessuti copti e chedivenne poi il colore dei cardinali, veniva estratto da unminuscolo insetto disseccato, d’origine persiana e notonel Medioevo sotto il nome di kermes. I Romani, scam-biando quelle macchioline per bacche, le chiamaronococconum; e fino alla fine del secolo XIX gli Inglesiconservarono il nome di Persian Berries o bacche per-siane. Ma i tintori del Medioevo tradussero il persianokermes o vermiciattolo nel latino vermiculata, donde de-rivò il francese vermillon, e il nostro vermiglio, a desi-gnare il colore omonimo.

Dell’indaco troviamo notizia per la prima volta inErodoto (450 A. C. ), ma era molto più antico. La sua

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pianta si trova sparsa in tutto il mondo; e fino a tempirecenti non è stata sostituita da un prodotto chimicoequivalente.

Nel Nuovo Mondo, in tempi esclusi da ogni possibilecontatto col Vecchio, gli Aztechi, i Maya e i Peruvianiusavano una varietà di murice per ricavarne il color del-la porpora; e ancora la impiegano gli indigeni del Yuca-tan.

La famosa cocciniglia del Messico è un insetto chevive sulle foglie del cactus. Fu importato in Africa e nelVicino Oriente nel XII secolo e sostituì, a quanto pare,l’antico kermes. Prima delle guerre napoleoniche, unalibbra di cocciniglie valeva circa quattro scellini; eranoassai quotate sul mercato di Nuova York, dove nel 1877,a esempio, ne venne importato oltre un milione di lib-bre.

Queste tinture naturali e altre ancora di natura consi-mile sono antichissime nel Vecchio e nel Nuovo Mondo,e sopravvissero fino all’invenzione delle tinture sinteti-che, che cominciò nel 1856 con l’indantrene di Perkins,estratto dal catrame minerale. Ma nessuna delle antichetinture naturali è d’origine europea. Di fatto, l’Europanon produsse nemmeno fibre tessili naturali; non contri-buì con alcuna idea fondamentale o originale al macchi-nario dell’industria tessile, nè ai processi di tintura, distampa o di rifinitura.

A questa asserzione dobbiamo fare tuttavia due ecce-zioni importanti. Nell’ultima decade del XV secolo, onella prima del XVI, quell’universale genio della mec-

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pianta si trova sparsa in tutto il mondo; e fino a tempirecenti non è stata sostituita da un prodotto chimicoequivalente.

Nel Nuovo Mondo, in tempi esclusi da ogni possibilecontatto col Vecchio, gli Aztechi, i Maya e i Peruvianiusavano una varietà di murice per ricavarne il color del-la porpora; e ancora la impiegano gli indigeni del Yuca-tan.

La famosa cocciniglia del Messico è un insetto chevive sulle foglie del cactus. Fu importato in Africa e nelVicino Oriente nel XII secolo e sostituì, a quanto pare,l’antico kermes. Prima delle guerre napoleoniche, unalibbra di cocciniglie valeva circa quattro scellini; eranoassai quotate sul mercato di Nuova York, dove nel 1877,a esempio, ne venne importato oltre un milione di lib-bre.

Queste tinture naturali e altre ancora di natura consi-mile sono antichissime nel Vecchio e nel Nuovo Mondo,e sopravvissero fino all’invenzione delle tinture sinteti-che, che cominciò nel 1856 con l’indantrene di Perkins,estratto dal catrame minerale. Ma nessuna delle antichetinture naturali è d’origine europea. Di fatto, l’Europanon produsse nemmeno fibre tessili naturali; non contri-buì con alcuna idea fondamentale o originale al macchi-nario dell’industria tessile, nè ai processi di tintura, distampa o di rifinitura.

A questa asserzione dobbiamo fare tuttavia due ecce-zioni importanti. Nell’ultima decade del XV secolo, onella prima del XVI, quell’universale genio della mec-

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canica che era Leonardo da Vinci aveva disegnato ilprogetto di un congegno noto sotto il nome di fuso adalette; il quale, cinquant’anni dopo la sua morte, venivariprodotto nel cosidetto «telaio di Lipsia» per opera diun modesto falegname tedesco. È noto il piccolo conge-gno di legno e fil di ferro, il quale in sè non è che un no-tevole sviluppo e miglioramento del vecchio filatoiotanto caro al cuore degli amatori d’antiche suppellettili.È il medesimo congegno ancora, che più tardi vieneadottato come principale caratteristica della filatricemeccanica di Arkwright; ed è sopravvissuto in gran par-te nelle filande meccaniche dei nostri tempi. Il conge-gno Leonardesco era un’invenzione assolutamente ori-ginale; esso rappresentava il primo passo sulla via diun’industria tessile standardizzata e moderna.

Le altre macchine per filare nate in Inghilterra nelXVIII secolo, la spinning-jenny9 nota in Italia sotto ilnome di «giannetta» di Edmund Hargreaves e il cosidet-to «mulo» di Crompton, derivano indubbiamente dal fi-latoio indiano, e non contengono il fuso meccanico delcongegno di Leonardo. I due inventori o innovatori nonfecero, in fondo, altro che applicarvi un motore, renden-do il movimento automatico. Anche qui, tuttavia, è ne-cessaria una piccola eccezione. Nel 1734, agli alboridella Rivoluzione Industriale, John Kay, un tessitore diBury, aggiungeva all’antico telaio orientale ciò che oggiè noto come la «navetta volante». Era un congegno di

9 Letteralmente: Jenny – la – filatrice. (N. d. Tr.).

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canica che era Leonardo da Vinci aveva disegnato ilprogetto di un congegno noto sotto il nome di fuso adalette; il quale, cinquant’anni dopo la sua morte, venivariprodotto nel cosidetto «telaio di Lipsia» per opera diun modesto falegname tedesco. È noto il piccolo conge-gno di legno e fil di ferro, il quale in sè non è che un no-tevole sviluppo e miglioramento del vecchio filatoiotanto caro al cuore degli amatori d’antiche suppellettili.È il medesimo congegno ancora, che più tardi vieneadottato come principale caratteristica della filatricemeccanica di Arkwright; ed è sopravvissuto in gran par-te nelle filande meccaniche dei nostri tempi. Il conge-gno Leonardesco era un’invenzione assolutamente ori-ginale; esso rappresentava il primo passo sulla via diun’industria tessile standardizzata e moderna.

Le altre macchine per filare nate in Inghilterra nelXVIII secolo, la spinning-jenny9 nota in Italia sotto ilnome di «giannetta» di Edmund Hargreaves e il cosidet-to «mulo» di Crompton, derivano indubbiamente dal fi-latoio indiano, e non contengono il fuso meccanico delcongegno di Leonardo. I due inventori o innovatori nonfecero, in fondo, altro che applicarvi un motore, renden-do il movimento automatico. Anche qui, tuttavia, è ne-cessaria una piccola eccezione. Nel 1734, agli alboridella Rivoluzione Industriale, John Kay, un tessitore diBury, aggiungeva all’antico telaio orientale ciò che oggiè noto come la «navetta volante». Era un congegno di

9 Letteralmente: Jenny – la – filatrice. (N. d. Tr.).

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corde e di tacchetti e blocchi mobili di legno, il qualepermetteva a un solo operaio di far passare la navetta at-traverso l’intera larghezza della trama, senza bisogno diun aiutante che la accogliesse e rimandasse. La produtti-vità di un telaio veniva così quadruplicata. In migliaia dianni era il primo importante miglioramento del telaio.Per tutta ricompensa, Kay fu espulso dall’Inghilterra da-gli scandalizzati tessitori, i quali vedevano svalutata lamano d’opera; e morì poi in carcere a Parigi.

Nella storia del tessuto, considerata da un punto di vi-sta mondiale, le ingegnose invenzioni inglesi del XVIIIsecolo non sono che incidenti, modificazioni e sviluppidi antiche idee, nati dalle condizioni sociali, e indiretta-mente dovuti all’importazione di tessuti di cotone e diseta durante i secoli XVI e XVII.

Innovazioni, ripetiamo, che non comportano alcunprincipio nuovo, nè nella filatura, nè nella tessitura etintura; e neppure nella decorazione. Gli antichi principîdi torcere e allungare masse di fibra in modo da ottenereil filato; di intrecciare una serie di fili disposti tra barreparallele con una seconda serie di fili, rimangono inva-riati. Nessun materiale nuovo viene impiegato: lino, co-tone, seta, lana, canapa restano le fibre principali. Anco-ra sono in uso le stesse tinture che ai tempi antichi: levecchie materie prime dell’Asia e del Nuovo Mondo sitrovano citate nei manuali tecnici di tintoria della finedel secolo XIX fino a parecchio tempo dopo l’esperi-mento di Perkins col catrame minerale e i suoi derivati.Fra i materiali esotici sono ricordati il murice dei Fenici

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corde e di tacchetti e blocchi mobili di legno, il qualepermetteva a un solo operaio di far passare la navetta at-traverso l’intera larghezza della trama, senza bisogno diun aiutante che la accogliesse e rimandasse. La produtti-vità di un telaio veniva così quadruplicata. In migliaia dianni era il primo importante miglioramento del telaio.Per tutta ricompensa, Kay fu espulso dall’Inghilterra da-gli scandalizzati tessitori, i quali vedevano svalutata lamano d’opera; e morì poi in carcere a Parigi.

Nella storia del tessuto, considerata da un punto di vi-sta mondiale, le ingegnose invenzioni inglesi del XVIIIsecolo non sono che incidenti, modificazioni e sviluppidi antiche idee, nati dalle condizioni sociali, e indiretta-mente dovuti all’importazione di tessuti di cotone e diseta durante i secoli XVI e XVII.

Innovazioni, ripetiamo, che non comportano alcunprincipio nuovo, nè nella filatura, nè nella tessitura etintura; e neppure nella decorazione. Gli antichi principîdi torcere e allungare masse di fibra in modo da ottenereil filato; di intrecciare una serie di fili disposti tra barreparallele con una seconda serie di fili, rimangono inva-riati. Nessun materiale nuovo viene impiegato: lino, co-tone, seta, lana, canapa restano le fibre principali. Anco-ra sono in uso le stesse tinture che ai tempi antichi: levecchie materie prime dell’Asia e del Nuovo Mondo sitrovano citate nei manuali tecnici di tintoria della finedel secolo XIX fino a parecchio tempo dopo l’esperi-mento di Perkins col catrame minerale e i suoi derivati.Fra i materiali esotici sono ricordati il murice dei Fenici

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(porpora), la robbia (rosso vegetale) dell’America delNord, il kermes (vermiglio dell’Asia Minore), la cocci-niglia del Messico, i legni dell’America del Sud, assaiusati per le stampe dei cotoni, e altri ancora.

Invenzioni vere e proprie sorgono nell’ultimo quartodel secolo XVIII, quando i nuovi congegni meccanici e inuovi sistemi per applicare gli antichi principî vengonocollegati praticamente, mossi prima ad acqua e poi a va-pore, e filatoio e telai diventano più o meno automatici.La fabbrica moderna: ecco la grande rivoluzione indu-striale ed economica di quel periodo; ma mentre anchela fabbrica per la produzione in massa con una suddivi-sione della mano d’opera ha i suoi riscontri nel passato,è questa la prima volta che una combinazione di forzamotrice artificiale, di lavoro e specializzazione di manod’opera assurge a una posizione dominante nella produ-zione di certi tipi di tessuti standardizzati.

La navetta volante di Kay fu il primo apportodell’ingegnosità occidentale al telaio orientale. Già neabbiamo descritto i vantaggi; aumentando la produttivi-tà, riduceva il costo della mano d’opera e il prezzo deltessuto, che era unicamente in funzione dei guadagnidell’artigiano. Ma rivoluzionò l’equilibrio meccanico trala produzione e le provviste di filati e la capacitàdell’operaio di trasformare il filato in tessuto; e creòcosì la «necessità» per una maggior produzione dei fila-ti, o un aumento di produttività nei metodi meccanici.

La tessitura era diventata, entro certi limiti, un lavoroprofessionale o a cottimo. C’erano anche gruppi di tessi-

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(porpora), la robbia (rosso vegetale) dell’America delNord, il kermes (vermiglio dell’Asia Minore), la cocci-niglia del Messico, i legni dell’America del Sud, assaiusati per le stampe dei cotoni, e altri ancora.

Invenzioni vere e proprie sorgono nell’ultimo quartodel secolo XVIII, quando i nuovi congegni meccanici e inuovi sistemi per applicare gli antichi principî vengonocollegati praticamente, mossi prima ad acqua e poi a va-pore, e filatoio e telai diventano più o meno automatici.La fabbrica moderna: ecco la grande rivoluzione indu-striale ed economica di quel periodo; ma mentre anchela fabbrica per la produzione in massa con una suddivi-sione della mano d’opera ha i suoi riscontri nel passato,è questa la prima volta che una combinazione di forzamotrice artificiale, di lavoro e specializzazione di manod’opera assurge a una posizione dominante nella produ-zione di certi tipi di tessuti standardizzati.

La navetta volante di Kay fu il primo apportodell’ingegnosità occidentale al telaio orientale. Già neabbiamo descritto i vantaggi; aumentando la produttivi-tà, riduceva il costo della mano d’opera e il prezzo deltessuto, che era unicamente in funzione dei guadagnidell’artigiano. Ma rivoluzionò l’equilibrio meccanico trala produzione e le provviste di filati e la capacitàdell’operaio di trasformare il filato in tessuto; e creòcosì la «necessità» per una maggior produzione dei fila-ti, o un aumento di produttività nei metodi meccanici.

La tessitura era diventata, entro certi limiti, un lavoroprofessionale o a cottimo. C’erano anche gruppi di tessi-

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tori che lavoravano per datori di lavoro, i quali provve-devano il filato, pagavano i salari, facevano follare e tin-gere le stoffe e le vendevano poi sui mercati. Natural-mente c’erano sempre artigiani indipendenti, intere fa-miglie che acquistavano i filati e li lavoravano e vende-vano le stoffe allo stato grezzo ai tintori, ai follatori o ainegozianti all’ingrosso.

Ma la tessitura rimaneva un’industria accessoria dellefamiglie. Si calcolava che in Inghilterra il 25% dellerendite in contanti dei contadini provenisse dagli artigia-ni filatori, i quali impiegano il filatoio indiano, oppure ilfilatoio al quale era stato adattato il fuso ad alette diLeonardo da Vinci. Per molti secoli c’era stato uno stret-to rapporto fra la quantità di filato che questi mezzi po-tevano produrre, e la capacità dei telai di trasformarequesti filati in tessuto. Dal XVI secolo in poi s’era vistoun progressivo aumento nei filati di seta e cotone, im-portati dall’Oriente per essere tessuti in Occidente; maun certo equilibrio si era raggiunto.

Non appena l’invenzione di Kay fu adottata dallamaggioranza dei tessitori, si verificò lo squilibrio fra laproduzione, o provvista dei filati, e la capacità di lavo-rarli, e gli artigiani che lavoravano indipendentemente,si trovarono di fronte alla scarsità e all’aumento di costodelle materie prime. Questa lunga generazione fu un pe-riodo di temporanea prosperità per gli artigiani che lavo-ravano in casa. Sorgevano ovunque grandi lamentele sulcosto dei filati, sulla difficoltà di procurarsene sufficien-ti; spesso i tessitori dovevano cedere una discreta parte

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tori che lavoravano per datori di lavoro, i quali provve-devano il filato, pagavano i salari, facevano follare e tin-gere le stoffe e le vendevano poi sui mercati. Natural-mente c’erano sempre artigiani indipendenti, intere fa-miglie che acquistavano i filati e li lavoravano e vende-vano le stoffe allo stato grezzo ai tintori, ai follatori o ainegozianti all’ingrosso.

Ma la tessitura rimaneva un’industria accessoria dellefamiglie. Si calcolava che in Inghilterra il 25% dellerendite in contanti dei contadini provenisse dagli artigia-ni filatori, i quali impiegano il filatoio indiano, oppure ilfilatoio al quale era stato adattato il fuso ad alette diLeonardo da Vinci. Per molti secoli c’era stato uno stret-to rapporto fra la quantità di filato che questi mezzi po-tevano produrre, e la capacità dei telai di trasformarequesti filati in tessuto. Dal XVI secolo in poi s’era vistoun progressivo aumento nei filati di seta e cotone, im-portati dall’Oriente per essere tessuti in Occidente; maun certo equilibrio si era raggiunto.

Non appena l’invenzione di Kay fu adottata dallamaggioranza dei tessitori, si verificò lo squilibrio fra laproduzione, o provvista dei filati, e la capacità di lavo-rarli, e gli artigiani che lavoravano indipendentemente,si trovarono di fronte alla scarsità e all’aumento di costodelle materie prime. Questa lunga generazione fu un pe-riodo di temporanea prosperità per gli artigiani che lavo-ravano in casa. Sorgevano ovunque grandi lamentele sulcosto dei filati, sulla difficoltà di procurarsene sufficien-ti; spesso i tessitori dovevano cedere una discreta parte

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dei loro proventi ai filatori, e avevano poi il loro da farea raccogliere, a incettare, per così dire, i filati nelle fat-torie e case rurali delle campagne. Questo stato di cosegiustifica i sistemi di filatura. Ma sta di fatto che la si-tuazione creò una condizione economica singolarmentefavorevole a invenzioni che aumentassero la produttivitàdegli artigiani. Le invenzioni nuove, si sa, fanno il lorocammino malgrado ogni opposizione sociale. È un fattosignificativo che dopo l’invenzione di Kay (1734) non siveda nessuna novità nel campo della tessitura, finoall’anno 1785, quando il Reverendo Edmund Cartwrightinventò il telaio meccanico: invenzione che non fu di al-cuna utilità pratica fino a che Radcliffe e Ross (1803-4)non trovarono il modo di impregnare i fili che formava-no l’ordito con una miscela di amido tale da renderli ab-bastanza robusti per sopportare la tensione che dava loroil motore. Il telaio meccanico non diventò un fattore del-la vita economica inglese fin dopo la metà del secoloXIX e non apparve in America che nel 1813, allorchèun unico telaio meccanico, imitato da un modello ingle-se, fu impiantato a Waltham nel Massachusetts. Nel1820 si contavano in Gran Bretagna 14.000 telai mecca-nici e 55.000 telai a mano.

Ma tra queste due date (1734-1885) corrono le inven-zioni di tutte le macchine che sono ora essenzialinell’industria tessile moderna. La prima di queste inven-zioni contemplava l’uso di due o tre serie di rulli che gi-ravano a diversi gradi di velocità, distendendo masse difibra in modo da dare al filo la prima torcitura. Il brevet-

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dei loro proventi ai filatori, e avevano poi il loro da farea raccogliere, a incettare, per così dire, i filati nelle fat-torie e case rurali delle campagne. Questo stato di cosegiustifica i sistemi di filatura. Ma sta di fatto che la si-tuazione creò una condizione economica singolarmentefavorevole a invenzioni che aumentassero la produttivitàdegli artigiani. Le invenzioni nuove, si sa, fanno il lorocammino malgrado ogni opposizione sociale. È un fattosignificativo che dopo l’invenzione di Kay (1734) non siveda nessuna novità nel campo della tessitura, finoall’anno 1785, quando il Reverendo Edmund Cartwrightinventò il telaio meccanico: invenzione che non fu di al-cuna utilità pratica fino a che Radcliffe e Ross (1803-4)non trovarono il modo di impregnare i fili che formava-no l’ordito con una miscela di amido tale da renderli ab-bastanza robusti per sopportare la tensione che dava loroil motore. Il telaio meccanico non diventò un fattore del-la vita economica inglese fin dopo la metà del secoloXIX e non apparve in America che nel 1813, allorchèun unico telaio meccanico, imitato da un modello ingle-se, fu impiantato a Waltham nel Massachusetts. Nel1820 si contavano in Gran Bretagna 14.000 telai mecca-nici e 55.000 telai a mano.

Ma tra queste due date (1734-1885) corrono le inven-zioni di tutte le macchine che sono ora essenzialinell’industria tessile moderna. La prima di queste inven-zioni contemplava l’uso di due o tre serie di rulli che gi-ravano a diversi gradi di velocità, distendendo masse difibra in modo da dare al filo la prima torcitura. Il brevet-

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to per la filatura a rulli fu concesso a Louis Paul nel1738; ma l’invenzione è generalmente attribuita a JohnWyatt. La seconda invenzione (attribuita a Louis Paul)era il cardo circolare, con cui si preparavano le fibre allafilatura, disponendole parallele e ripulendole poi da ma-terie estranee. Queste due invenzioni avrebbero eviden-temente risparmiato agli artigiani un grande lavoro dipreparazione, lasciando loro più tempo per la filatura ela tessitura propriamente dette.

Nel 1767 James Hargreaves, un tessitore di Blackbur-ne, costruiva la prima macchina per filare a fusi multi-pli. La famosa giannetta offriva a un singolo operaio lapossibilità di produrre dapprima 24, e in seguito 72 filialla volta. È il primo esempio di produzione in serie nel-le industrie tessili. Gli artigiani non protestarono controla filatrice a 24 fusi; essa parve loro un ordigno utile ecasalingo; ma si affrettarono poi a fare in pezzi tutte lefilatrici con 72 fusi, ogni volta che ne capitava loro unaa tiro.

Questa macchina arrivò in America già nel 1775: ven’è un disegno sul prospetto di una manifattura di pannoa Filadelfia, dove si fabbricavano stoffe per la vicina Ri-voluzione Americana. Serviva a dare la prima torcituraai filati, che venivano poi distribuiti ai lavoranti a cotti-mo in casa propria. Un’altra macchina simile esisteva aBeverly nel Massachusetts; si sa che fu vista e ammiratadal generale Washington e da Hamilton nel 1788.

Queste tre prime invenzioni – il rullo multiplo (1738),il cardo circolare 1748) e la giannetta (1768) – accreb-

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to per la filatura a rulli fu concesso a Louis Paul nel1738; ma l’invenzione è generalmente attribuita a JohnWyatt. La seconda invenzione (attribuita a Louis Paul)era il cardo circolare, con cui si preparavano le fibre allafilatura, disponendole parallele e ripulendole poi da ma-terie estranee. Queste due invenzioni avrebbero eviden-temente risparmiato agli artigiani un grande lavoro dipreparazione, lasciando loro più tempo per la filatura ela tessitura propriamente dette.

Nel 1767 James Hargreaves, un tessitore di Blackbur-ne, costruiva la prima macchina per filare a fusi multi-pli. La famosa giannetta offriva a un singolo operaio lapossibilità di produrre dapprima 24, e in seguito 72 filialla volta. È il primo esempio di produzione in serie nel-le industrie tessili. Gli artigiani non protestarono controla filatrice a 24 fusi; essa parve loro un ordigno utile ecasalingo; ma si affrettarono poi a fare in pezzi tutte lefilatrici con 72 fusi, ogni volta che ne capitava loro unaa tiro.

Questa macchina arrivò in America già nel 1775: ven’è un disegno sul prospetto di una manifattura di pannoa Filadelfia, dove si fabbricavano stoffe per la vicina Ri-voluzione Americana. Serviva a dare la prima torcituraai filati, che venivano poi distribuiti ai lavoranti a cotti-mo in casa propria. Un’altra macchina simile esisteva aBeverly nel Massachusetts; si sa che fu vista e ammiratadal generale Washington e da Hamilton nel 1788.

Queste tre prime invenzioni – il rullo multiplo (1738),il cardo circolare 1748) e la giannetta (1768) – accreb-

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bero la produzione dei filati; di conseguenza, verso il1770 la classe degli operai tessitori era diventata assaifiorente; e nel Midland, la parte centrale dell’Inghilterra,non c’era casetta rurale in cui non ci si sforzasse di farposto a uno e più telai a mano con la navetta volante diKay. Ma a quell’epoca i commercianti che già sindaca-vano la produzione e la vendita dei tessuti, volgevanotutte le loro energie e i loro capitali al commercio dei fi-lati. Allorchè scoprirono che questa produzione era trop-po alta per il fabbisogno dei tessitori, non trovarono dimeglio che venderne l’eccedenza ai tessitori del Conti-nente, i quali percepivano allora salari inferiori a quelliinglesi.

Il più eminente inventore di quel periodo, il prototipodel moderno industrialista, fu Richard Arkwright, unbarbiere girovago del Midland, il quale aveva vòlto lasua attenzione alle macchine tessili. Il suo famoso «tela-io ad acqua» fu la prima macchina in grado di produrrecon metodi meccanici un filato di cotone resistente ab-bastanza da poter essere impiegato per l’ordito. Però, inultima analisi, la Corte Suprema gli negava il brevetto, equesta decisione (1785) fu più che giustificata dalle con-seguenti indagini. La «invenzione» di Arkwright nonera una macchina ma un sistema. Arkwright ricevevapoi il primo brevetto per il suo telaio ad acqua nel 1769,ma solo nel 1774 fondava, con l’aiuto di un socio, Jede-diah Strutt, la prima fabbrica, preparata e attrezzata perintrodurre nel mondo la fase moderna dei tessili prodottida macchinario automatico. La fabbrica di Arkwright e

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bero la produzione dei filati; di conseguenza, verso il1770 la classe degli operai tessitori era diventata assaifiorente; e nel Midland, la parte centrale dell’Inghilterra,non c’era casetta rurale in cui non ci si sforzasse di farposto a uno e più telai a mano con la navetta volante diKay. Ma a quell’epoca i commercianti che già sindaca-vano la produzione e la vendita dei tessuti, volgevanotutte le loro energie e i loro capitali al commercio dei fi-lati. Allorchè scoprirono che questa produzione era trop-po alta per il fabbisogno dei tessitori, non trovarono dimeglio che venderne l’eccedenza ai tessitori del Conti-nente, i quali percepivano allora salari inferiori a quelliinglesi.

Il più eminente inventore di quel periodo, il prototipodel moderno industrialista, fu Richard Arkwright, unbarbiere girovago del Midland, il quale aveva vòlto lasua attenzione alle macchine tessili. Il suo famoso «tela-io ad acqua» fu la prima macchina in grado di produrrecon metodi meccanici un filato di cotone resistente ab-bastanza da poter essere impiegato per l’ordito. Però, inultima analisi, la Corte Suprema gli negava il brevetto, equesta decisione (1785) fu più che giustificata dalle con-seguenti indagini. La «invenzione» di Arkwright nonera una macchina ma un sistema. Arkwright ricevevapoi il primo brevetto per il suo telaio ad acqua nel 1769,ma solo nel 1774 fondava, con l’aiuto di un socio, Jede-diah Strutt, la prima fabbrica, preparata e attrezzata perintrodurre nel mondo la fase moderna dei tessili prodottida macchinario automatico. La fabbrica di Arkwright e

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Strutt produceva filati di cotone per tessuti grossolani.Subito Arkwright si trovò alle prese con difficoltàd’ordine legale; sin dal principio del XVIII secolo, le in-dustrie tessili inglesi s’erano opposte all’importazione disete e calicò dall’Oriente; e una legge passata al Parla-mento nel 1720 proibiva l’uso nella Gran Bretagna diogni e qualsiasi indumento di calicò stampato o dipinto,sotto pena di una multa di cinque lire sterline; comepure di calicò stampati o tinti per uso di coperte da letto,seggiole, cuscini, cortine, tappeti o altri usi domestici,sotto pena di una multa di venti lire sterline. Ma RichardArkwright e il suo socio erano uomini d’affari, e cono-scevano i sistemi d’approccio con i comitati parlamenta-ri. E con un novello atto, Giorgio III rimuoveva le limi-tazioni che impedivano lo sviluppo di una nuova indu-stria. E così la manifattura dei tessuti di cotoni a buonmercato, accessibili a tutti, si fece strada in Inghilterra, edi là in tutto il mondo.

Nella sua «Storia della manifattura dei cotoni in GranBretagna» (1844), una tra le opere più intelligenti sultema, Edward Baines dice: «Al principio del regno diGiorgio III (1760) non erano certo più di 40.000 le per-sone viventi grazie all’industria cotoniera; le macchineinventate rendevano possibile a un sol uomo di compie-re il lavoro di due o trecento uomini alla volta; e qualisono i risultati? Che ora, l’industria sovviene a 150.000anime, all’incirca trentasette volte quanto nei tempi pas-sati!».

Nel 1760, l’Inghilterra importava tre milioni di libbre

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Strutt produceva filati di cotone per tessuti grossolani.Subito Arkwright si trovò alle prese con difficoltàd’ordine legale; sin dal principio del XVIII secolo, le in-dustrie tessili inglesi s’erano opposte all’importazione disete e calicò dall’Oriente; e una legge passata al Parla-mento nel 1720 proibiva l’uso nella Gran Bretagna diogni e qualsiasi indumento di calicò stampato o dipinto,sotto pena di una multa di cinque lire sterline; comepure di calicò stampati o tinti per uso di coperte da letto,seggiole, cuscini, cortine, tappeti o altri usi domestici,sotto pena di una multa di venti lire sterline. Ma RichardArkwright e il suo socio erano uomini d’affari, e cono-scevano i sistemi d’approccio con i comitati parlamenta-ri. E con un novello atto, Giorgio III rimuoveva le limi-tazioni che impedivano lo sviluppo di una nuova indu-stria. E così la manifattura dei tessuti di cotoni a buonmercato, accessibili a tutti, si fece strada in Inghilterra, edi là in tutto il mondo.

Nella sua «Storia della manifattura dei cotoni in GranBretagna» (1844), una tra le opere più intelligenti sultema, Edward Baines dice: «Al principio del regno diGiorgio III (1760) non erano certo più di 40.000 le per-sone viventi grazie all’industria cotoniera; le macchineinventate rendevano possibile a un sol uomo di compie-re il lavoro di due o trecento uomini alla volta; e qualisono i risultati? Che ora, l’industria sovviene a 150.000anime, all’incirca trentasette volte quanto nei tempi pas-sati!».

Nel 1760, l’Inghilterra importava tre milioni di libbre

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di cotone; nel 1833 ne importava oltre trecento milionidi libbre. Oggi l’importazione del cotone in Inghilterrasi calcola a bilioni di libbre.

La fabbricazione dei filati di cotone più fini cominciòcon la macchina di Samuel Crompton, detta il «mulo»,che veniva perfezionata nel 1779. Prima, essi venivanoimportati dall’India. Quei filati furono subito usati nellafabbricazione dei tessuti di cotone di peso leggero, co-nosciuti allora come «mussoline» e «cambric» o percal-li.

Nel 1775 l’invenzione della macchina a cilindro perla stampa dei cotoni rendeva possibile all’Inghilterral’esportazione, non solo in tutta Europa ma anche in In-dia, di stoffe stampate; fu uno degli avvenimenti più no-tevoli nello sviluppo dell’esportazione di cotoni a buonmercato.

È incredibile come il progresso di queste macchine –le quali non solo ebbero un potente influsso sulla produ-zione mondiale dei tessili, ma mutarono addirittura lacarta geografica delle materie prime e accrebbero inmodo non mai sperato la ricchezza mondiale passassequasi inosservato negli studi degli scrittori politici oeconomisti inglesi di quel tempo. Nella «Storia dellaricchezza» di Adam Smith, uscita un anno appena dopoch’era sorta la prima fabbrica di Arkwrigth (1775) tro-viamo appena un breve paragrafo sulle manifatture co-toniere. Già abbiamo detto della legislazione che dovet-te essere revocata prima che gli sforzi di Arkwright po-tessero trovare via libera. Tutto quel periodo della storia

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di cotone; nel 1833 ne importava oltre trecento milionidi libbre. Oggi l’importazione del cotone in Inghilterrasi calcola a bilioni di libbre.

La fabbricazione dei filati di cotone più fini cominciòcon la macchina di Samuel Crompton, detta il «mulo»,che veniva perfezionata nel 1779. Prima, essi venivanoimportati dall’India. Quei filati furono subito usati nellafabbricazione dei tessuti di cotone di peso leggero, co-nosciuti allora come «mussoline» e «cambric» o percal-li.

Nel 1775 l’invenzione della macchina a cilindro perla stampa dei cotoni rendeva possibile all’Inghilterral’esportazione, non solo in tutta Europa ma anche in In-dia, di stoffe stampate; fu uno degli avvenimenti più no-tevoli nello sviluppo dell’esportazione di cotoni a buonmercato.

È incredibile come il progresso di queste macchine –le quali non solo ebbero un potente influsso sulla produ-zione mondiale dei tessili, ma mutarono addirittura lacarta geografica delle materie prime e accrebbero inmodo non mai sperato la ricchezza mondiale passassequasi inosservato negli studi degli scrittori politici oeconomisti inglesi di quel tempo. Nella «Storia dellaricchezza» di Adam Smith, uscita un anno appena dopoch’era sorta la prima fabbrica di Arkwrigth (1775) tro-viamo appena un breve paragrafo sulle manifatture co-toniere. Già abbiamo detto della legislazione che dovet-te essere revocata prima che gli sforzi di Arkwright po-tessero trovare via libera. Tutto quel periodo della storia

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è pieno di documenti di disordini e tumulti nei quali lemacchine finivano quasi sempre in pezzi; fino a che nonsi adottarono misure legali per cui qualsiasi danno inflit-to al macchinario tessile era considerato delitto e punito,in certi casi, financo con la morte. È un periodo oscuratoda inconcepibili crudeltà e inettitudini, sparso di provedella cecità che affligge a volte gli uomini allorchè sor-gono all’orizzonte invenzioni nuove e destinate a rivolu-zionare la società. Questo scorcio di secolo, così ricco dievoluzioni industriali e meccaniche, meriterebbe la piùseria attenzione da parte degli studiosi; i quadri che neabbiamo, se pure abbondano di dettagli, lasciano ancoraa desiderare quanto a lucidità e chiarezza di visione.Ma, come già abbiamo accennato, non è che una fasenella storia universale del tessuto. Per le basi del suosviluppo dobbiamo ora abbandonare lo storico, il politi-co e l’economista per associarci all’antropologo eall’archeologo.

Le più antiche fibre vegetali filate dall’uomo che siconoscano sono steli di varie piante ed erbe, in maggio-ranza graminacee, e corteccie di alcuni alberi, dalle qua-li si ricava la parte fibrosa con vari procedimenti, comela macerazione, o passando e ripassando la massa su unaspecie di cardo, in modo da liberarla dalle parti non fi-brose. Tecnicamente, il processo, in uso oggi ancora sot-to forme più progredite, è noto sotto il termine di stiglia-tura. La canapa, la juta, la fibra di cocco, e primo fra tut-ti il lino sono piante che dànno questo genere di fila-mento; nella moderna industria autarchica, numerosi

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è pieno di documenti di disordini e tumulti nei quali lemacchine finivano quasi sempre in pezzi; fino a che nonsi adottarono misure legali per cui qualsiasi danno inflit-to al macchinario tessile era considerato delitto e punito,in certi casi, financo con la morte. È un periodo oscuratoda inconcepibili crudeltà e inettitudini, sparso di provedella cecità che affligge a volte gli uomini allorchè sor-gono all’orizzonte invenzioni nuove e destinate a rivolu-zionare la società. Questo scorcio di secolo, così ricco dievoluzioni industriali e meccaniche, meriterebbe la piùseria attenzione da parte degli studiosi; i quadri che neabbiamo, se pure abbondano di dettagli, lasciano ancoraa desiderare quanto a lucidità e chiarezza di visione.Ma, come già abbiamo accennato, non è che una fasenella storia universale del tessuto. Per le basi del suosviluppo dobbiamo ora abbandonare lo storico, il politi-co e l’economista per associarci all’antropologo eall’archeologo.

Le più antiche fibre vegetali filate dall’uomo che siconoscano sono steli di varie piante ed erbe, in maggio-ranza graminacee, e corteccie di alcuni alberi, dalle qua-li si ricava la parte fibrosa con vari procedimenti, comela macerazione, o passando e ripassando la massa su unaspecie di cardo, in modo da liberarla dalle parti non fi-brose. Tecnicamente, il processo, in uso oggi ancora sot-to forme più progredite, è noto sotto il termine di stiglia-tura. La canapa, la juta, la fibra di cocco, e primo fra tut-ti il lino sono piante che dànno questo genere di fila-mento; nella moderna industria autarchica, numerosi

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sono i vegetali che di continuo si vanno aggiungendoalla lista delle fibre utili nell’industria tessile10.

Sulla faccia della terra, non c’è tribù per quanto bassone sia il livello culturale, che non sappia fabbricare otti-me e resistenti funi e stuoie per i più svariati usi. Poichèle materie prime occorrenti sono universali, e dato cheappartengono al regno vegetale, si trovano facilmente aportata di mano. Non fa meraviglia, quindi, che questogenere di fibra sia più antico, storicamente come etnolo-gicamente, della lana, della seta e del cotone che richie-dono una cultura più complicata e accurata.

I più antichi tessuti di cui si abbia traccia, rinvenutientro tombe, appartengono all’Egitto predinastico, e alleculture susseguenti alle grandi epoche della civiltà egi-ziana. Per quanto è possibile constatare, dato lo stato deiframmenti che gli studiosi hanno a loro disposizione,essi sono di lino; l’epoca presumibile si aggira attornoall’8000 A. C. C’è anche traccia di un telaio a mano, e itessuti rivelano diverse varietà di tessitura semplice.Dato che la stessa epoca include aghi a cruna, d’osso edi rame, vasi dipinti, frumento e orzo, bovini e ovini do-mestici, forme di comunità organizzate e usanze funebrirituali, sarebbe esagerato qualificarla di primitiva nelvero senso della parola. Di più, nessuno di questi fattoriculturali, allo stato primitivo, è originario della valle delNilo; si tratta, quindi, di intrusioni di epoche anteriori e

10 Fra le più recenti ricordiamo la ramia, di recente introdottacon successo nella nostra industria tessile (N. d. Tr.).

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sono i vegetali che di continuo si vanno aggiungendoalla lista delle fibre utili nell’industria tessile10.

Sulla faccia della terra, non c’è tribù per quanto bassone sia il livello culturale, che non sappia fabbricare otti-me e resistenti funi e stuoie per i più svariati usi. Poichèle materie prime occorrenti sono universali, e dato cheappartengono al regno vegetale, si trovano facilmente aportata di mano. Non fa meraviglia, quindi, che questogenere di fibra sia più antico, storicamente come etnolo-gicamente, della lana, della seta e del cotone che richie-dono una cultura più complicata e accurata.

I più antichi tessuti di cui si abbia traccia, rinvenutientro tombe, appartengono all’Egitto predinastico, e alleculture susseguenti alle grandi epoche della civiltà egi-ziana. Per quanto è possibile constatare, dato lo stato deiframmenti che gli studiosi hanno a loro disposizione,essi sono di lino; l’epoca presumibile si aggira attornoall’8000 A. C. C’è anche traccia di un telaio a mano, e itessuti rivelano diverse varietà di tessitura semplice.Dato che la stessa epoca include aghi a cruna, d’osso edi rame, vasi dipinti, frumento e orzo, bovini e ovini do-mestici, forme di comunità organizzate e usanze funebrirituali, sarebbe esagerato qualificarla di primitiva nelvero senso della parola. Di più, nessuno di questi fattoriculturali, allo stato primitivo, è originario della valle delNilo; si tratta, quindi, di intrusioni di epoche anteriori e

10 Fra le più recenti ricordiamo la ramia, di recente introdottacon successo nella nostra industria tessile (N. d. Tr.).

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meno progredite.In nessuna tomba egiziana furono rinvenuti filati o

tessuti di lana. Può darsi che ciò debba attribuirsi a ra-gioni cerimoniali. L’assenza d’ogni motivo ornamentalenelle tele fa pensare all’assenza di colore. Il lino, anchecoi sistemi moderni, è difficile a tingersi. Indubbiamen-te, gli Egiziani dovevano indulgere al loro amor del co-lore in occasioni più mondane. Solo con le invasionigreche ed asiatiche vediamo apparire nelle tombe egi-ziane tessuti colorati, e in tal caso gli elementi di colore,con rare eccezioni, sono di lana o di seta.

Un esempio quasi altrettanto antico di lino fu trovatotra la melma dei Laghi Svizzeri. Un’estate insolitamenteasciutta, verso la metà del secolo XIX, rivelò i resti diun villaggio costruito sulle palafitte, il quale, strato sustrato, dai tempi dei Romani all’ultima Età del Ferro ri-saliva alla più pura Epoca Neolitica. Nel villaggio prei-storico nei pressi di Robenhausen (5000 A. C.) furonorinvenuti frammenti di tessuti, di lino, di fabbricazionealquanto elaborata; e lenze e reti da pesca, corde d’arcoe un rudimentale tipo di telaio che in tutto il mondo èassociato con la tessitura di lino o di ruvide lane. Nellostesso luogo si trovarono anche ossa di pecora in quanti-tà; ma qui come in Egitto, non c’è traccia di tessuti dilana.

I più antichi esempi di tessuti di lana rinvenuti in Eu-ropa sono alcuni indumenti maschili e femminili seppel-liti entro tronchi cavi di quercia nelle maremme dellaScandinavia e appartenenti alla prima Età del Bronzo

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meno progredite.In nessuna tomba egiziana furono rinvenuti filati o

tessuti di lana. Può darsi che ciò debba attribuirsi a ra-gioni cerimoniali. L’assenza d’ogni motivo ornamentalenelle tele fa pensare all’assenza di colore. Il lino, anchecoi sistemi moderni, è difficile a tingersi. Indubbiamen-te, gli Egiziani dovevano indulgere al loro amor del co-lore in occasioni più mondane. Solo con le invasionigreche ed asiatiche vediamo apparire nelle tombe egi-ziane tessuti colorati, e in tal caso gli elementi di colore,con rare eccezioni, sono di lana o di seta.

Un esempio quasi altrettanto antico di lino fu trovatotra la melma dei Laghi Svizzeri. Un’estate insolitamenteasciutta, verso la metà del secolo XIX, rivelò i resti diun villaggio costruito sulle palafitte, il quale, strato sustrato, dai tempi dei Romani all’ultima Età del Ferro ri-saliva alla più pura Epoca Neolitica. Nel villaggio prei-storico nei pressi di Robenhausen (5000 A. C.) furonorinvenuti frammenti di tessuti, di lino, di fabbricazionealquanto elaborata; e lenze e reti da pesca, corde d’arcoe un rudimentale tipo di telaio che in tutto il mondo èassociato con la tessitura di lino o di ruvide lane. Nellostesso luogo si trovarono anche ossa di pecora in quanti-tà; ma qui come in Egitto, non c’è traccia di tessuti dilana.

I più antichi esempi di tessuti di lana rinvenuti in Eu-ropa sono alcuni indumenti maschili e femminili seppel-liti entro tronchi cavi di quercia nelle maremme dellaScandinavia e appartenenti alla prima Età del Bronzo

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(2000 A. C.). Il dottor Mac Curdy asserisce che tali tes-suti sono affini a quelli usati oggi ancora dai contadinidelle Isole della Scozia; in altre parole, sarebbero unaforma antichissima di tweed11. Le pecore che al giornod’oggi pascolano su quelle aspre isole sarebbero discen-denti di pecore neolitiche.

Poichè le culture neolitiche e dell’Età del Bronzo pro-cedono sempre dall’Oriente all’Occidente, è evidenteche neanche questi primi campioni di tessili ebbero ori-gine entro i limiti geografici dell’Europa.

Anche la lana ha un ambiente più antico fuori d’Euro-pa. In Tepe Gawra, o il Gran Poggio, in Asia, all’undi-cesimo livello di venti città sepolte, costruite in mattonicotti al sole, si sono scoperte traccie della presenza dipecore: sigilli con teste di ariete, i quali farebbero pen-sare che vi fossero proprietari di greggi, che commer-ciassero in ovini, e forse anche in lana. Un’altra testimo-nianza ancor più convincente ci è data da una pentolacoperta, contenente le ossa del più venerando stufato dimontone che l’umanità conservi. A proposito di questascoperta, Jonathan Johnson dice: «Nel sesto millennioA. C., orde migratorie provenienti dall’Oriente spazza-rono l’India, la Persia e la Mesopotamia; è probabile chenon fossero le prime, nè erano destinate a rimanere leultime. Ma tanto poco sappiamo dei primi movimentidell’uomo in Mesopotamia, che ignoriamo se vi fosse

11 Stoffa di lana, eccezionalmente resistente, che oggi ancorain Scozia viene fabbricata dagli artigiani in casa o in piccoli opifi-ci (N. d. Tr.).

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(2000 A. C.). Il dottor Mac Curdy asserisce che tali tes-suti sono affini a quelli usati oggi ancora dai contadinidelle Isole della Scozia; in altre parole, sarebbero unaforma antichissima di tweed11. Le pecore che al giornod’oggi pascolano su quelle aspre isole sarebbero discen-denti di pecore neolitiche.

Poichè le culture neolitiche e dell’Età del Bronzo pro-cedono sempre dall’Oriente all’Occidente, è evidenteche neanche questi primi campioni di tessili ebbero ori-gine entro i limiti geografici dell’Europa.

Anche la lana ha un ambiente più antico fuori d’Euro-pa. In Tepe Gawra, o il Gran Poggio, in Asia, all’undi-cesimo livello di venti città sepolte, costruite in mattonicotti al sole, si sono scoperte traccie della presenza dipecore: sigilli con teste di ariete, i quali farebbero pen-sare che vi fossero proprietari di greggi, che commer-ciassero in ovini, e forse anche in lana. Un’altra testimo-nianza ancor più convincente ci è data da una pentolacoperta, contenente le ossa del più venerando stufato dimontone che l’umanità conservi. A proposito di questascoperta, Jonathan Johnson dice: «Nel sesto millennioA. C., orde migratorie provenienti dall’Oriente spazza-rono l’India, la Persia e la Mesopotamia; è probabile chenon fossero le prime, nè erano destinate a rimanere leultime. Ma tanto poco sappiamo dei primi movimentidell’uomo in Mesopotamia, che ignoriamo se vi fosse

11 Stoffa di lana, eccezionalmente resistente, che oggi ancorain Scozia viene fabbricata dagli artigiani in casa o in piccoli opifi-ci (N. d. Tr.).

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un’altra razza a ricever l’urto di quell’orda; poichè i re-sti trovati giacciono più profondo di tutti gli altri restiumani identificabili».

Questi popoli, che per i bei vasi dipinti che produce-vano sono detti appunto «Popoli delle Terrecotte Dipin-te», vivevano in città organizzate, erano pastori e conta-dini e lasciarono documenti della loro cultura a Susa(Persia), a Ninive, Ur e Babilonia, nel Belucistan, nellaRussia Meridionale e nella Mesopotamia Settentrionale.Quando avremo penetrato più a fondo questa civiltà tan-to ampiamente diffusa, giungeremo forse alle originidella storia della lana. Dovrebbe esser questa la regionein cui è logico ricercar le origini della razza di pecore dacui derivarono gran parte delle razze moderne: una raz-za nota sotto il nome di argali, oriunda dell’Asia Cen-trale, e non lontano dal Gran Poggio.

La data del sigillo a testa d’ariete e dello stufato dimontone risale al 4000 A. C., o trenta secoli prima dellacaduta di Troia, o seimila anni prima dell’epoca nostra.

I più antichi campioni di cotone provenivano, fino apochi anni fa, da tombe preistoriche dell’America. Chiscrive queste pagine possiede nella propria collezioneprivata un frammento di grembiule cerimoniale trovatoa Grand Gulch nell’Utah, la cui data approssimativa do-vrebbe essere di parecchi secoli avanti l’era cristiana. Ilsuolo umido delle tombe indiane e i guasti recati dalleformiche bianche distrussero ogni documento primitivodel genere in Asia; tanto che ogni autorità si è basatasempre su testimonianze letterarie e sulla ferma convin-

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un’altra razza a ricever l’urto di quell’orda; poichè i re-sti trovati giacciono più profondo di tutti gli altri restiumani identificabili».

Questi popoli, che per i bei vasi dipinti che produce-vano sono detti appunto «Popoli delle Terrecotte Dipin-te», vivevano in città organizzate, erano pastori e conta-dini e lasciarono documenti della loro cultura a Susa(Persia), a Ninive, Ur e Babilonia, nel Belucistan, nellaRussia Meridionale e nella Mesopotamia Settentrionale.Quando avremo penetrato più a fondo questa civiltà tan-to ampiamente diffusa, giungeremo forse alle originidella storia della lana. Dovrebbe esser questa la regionein cui è logico ricercar le origini della razza di pecore dacui derivarono gran parte delle razze moderne: una raz-za nota sotto il nome di argali, oriunda dell’Asia Cen-trale, e non lontano dal Gran Poggio.

La data del sigillo a testa d’ariete e dello stufato dimontone risale al 4000 A. C., o trenta secoli prima dellacaduta di Troia, o seimila anni prima dell’epoca nostra.

I più antichi campioni di cotone provenivano, fino apochi anni fa, da tombe preistoriche dell’America. Chiscrive queste pagine possiede nella propria collezioneprivata un frammento di grembiule cerimoniale trovatoa Grand Gulch nell’Utah, la cui data approssimativa do-vrebbe essere di parecchi secoli avanti l’era cristiana. Ilsuolo umido delle tombe indiane e i guasti recati dalleformiche bianche distrussero ogni documento primitivodel genere in Asia; tanto che ogni autorità si è basatasempre su testimonianze letterarie e sulla ferma convin-

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zione che l’umanità fosse più antica in Asia che non nelNuovo Mondo. In tempi recenti, questa convinzione èstata confermata ancora dalla scoperta di un vasod’argento nelle rovine di Majendo-daro, una città nellavalle dell’Indo che fu abbandonata verso l’anno 3000 A.C. Attaccato al manico del vaso, miracolosamente pre-servato dall’ossidamento del metallo, fu trovato un pre-zioso frammento di tessuto di cotone, della grandezza di7.50 mm, per 2.50 mm. all’incirca. È quanto i secoli cihanno lasciato della borsa che avvolgeva il recipiente.Oltre a ciò, nel medesimo luogo, in mezzo a frantumi diterracotta vennero rinvenuti due pezzettini di filo di co-tone, lunghi anche questi pochi millimetri ciascuno. Te-stimonianza parsimoniosa, ma sufficiente a stabilire lapresenza del cotone nella valle dell’Indo tremila anni A.C.

La città di Majendo-daro possedeva un serbatoiod’acqua e un sistema di scolo, se non proprio di fogna-tura. Gli abitanti dovevano essere buoni agricoltori, al-trimenti non avrebbero coltivato il cotone. Altri docu-menti del loro stato culturale abbiamo nella conoscenzaindubbia di animali domestici, di veicoli a ruote e dellalavorazione dell’argento. Nel Vecchio Mondo, l’argentoallo stato puro è raro; viene estratto dagli ossidi, e dopoil ferro è l’ultimo metallo a esser fuso dall’uomo.

Uno dei misteri più grandi della preistoria è la presen-za del cotone nell’Asia, come nell’America antica. Nes-suna altra pianta coltivata dall’una come dall’altra vi sitrova prima del XVI secolo. Il cotone e la lavorazione

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zione che l’umanità fosse più antica in Asia che non nelNuovo Mondo. In tempi recenti, questa convinzione èstata confermata ancora dalla scoperta di un vasod’argento nelle rovine di Majendo-daro, una città nellavalle dell’Indo che fu abbandonata verso l’anno 3000 A.C. Attaccato al manico del vaso, miracolosamente pre-servato dall’ossidamento del metallo, fu trovato un pre-zioso frammento di tessuto di cotone, della grandezza di7.50 mm, per 2.50 mm. all’incirca. È quanto i secoli cihanno lasciato della borsa che avvolgeva il recipiente.Oltre a ciò, nel medesimo luogo, in mezzo a frantumi diterracotta vennero rinvenuti due pezzettini di filo di co-tone, lunghi anche questi pochi millimetri ciascuno. Te-stimonianza parsimoniosa, ma sufficiente a stabilire lapresenza del cotone nella valle dell’Indo tremila anni A.C.

La città di Majendo-daro possedeva un serbatoiod’acqua e un sistema di scolo, se non proprio di fogna-tura. Gli abitanti dovevano essere buoni agricoltori, al-trimenti non avrebbero coltivato il cotone. Altri docu-menti del loro stato culturale abbiamo nella conoscenzaindubbia di animali domestici, di veicoli a ruote e dellalavorazione dell’argento. Nel Vecchio Mondo, l’argentoallo stato puro è raro; viene estratto dagli ossidi, e dopoil ferro è l’ultimo metallo a esser fuso dall’uomo.

Uno dei misteri più grandi della preistoria è la presen-za del cotone nell’Asia, come nell’America antica. Nes-suna altra pianta coltivata dall’una come dall’altra vi sitrova prima del XVI secolo. Il cotone e la lavorazione

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del cotone in filato e tessuto con metodi e tecnica quasiidentici, fanno innegabilmente supporre continuati con-tatti culturali in un’epoca indefinita del passato. Tutte leapparenze erano e ancora sono contro una simile ipotesi,eccettuato il contatto che può esservi stato fra la Siberiae l’Alaska. Ma per ovvie ragioni, la coltivazione del co-tone in quelle regioni artiche era fuori causa. Eppure,Asia e Perù hanno in comune il cotone e i sistemi di col-tivazione e lavorazione. L’enigma è chiarito in parte dalfatto che si tratta di due varietà diverse della medesimapianta, sebbene entrambe abbiano il nome di gossypium.Già osservammo come le cellule seminali del tipo asiati-co abbiano 13 cromosomi, e 26 le cellule del tipo ameri-cano. Ibridi fertili di questa pianta sono impossibili. Inapparenza, ciò esclude che l’uno dei due tipi possa esse-re derivato dall’altro. L’enigma resta dunque per ora in-solito, e al pari di tanti altri, è alla mercè di ulteriori sco-perte. Ma se non altro, la presenza del cotone in duecontinenti separati ha cessato di avere l’importanza diprima: per quel che riguarda la cultura umana e il campodell’invenzione, si tratta di due materie diverse. La solu-zione del problema saetta dunque ai botanici, non agliantropologi.

Alcune delucidazioni tecniche sulle affinità di filaturae tessitura tra l’Asia e l’America potranno disperderequalche altro dubbio circa misteriose migrazioni preisto-riche attraverso il Pacifico e l’Isola di Mu. Il filamentodel cotone differisce dalle primitive fibre e lane per lasua brevità (i cotoni primitivi non vanno oltre i 2.50 cm.

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del cotone in filato e tessuto con metodi e tecnica quasiidentici, fanno innegabilmente supporre continuati con-tatti culturali in un’epoca indefinita del passato. Tutte leapparenze erano e ancora sono contro una simile ipotesi,eccettuato il contatto che può esservi stato fra la Siberiae l’Alaska. Ma per ovvie ragioni, la coltivazione del co-tone in quelle regioni artiche era fuori causa. Eppure,Asia e Perù hanno in comune il cotone e i sistemi di col-tivazione e lavorazione. L’enigma è chiarito in parte dalfatto che si tratta di due varietà diverse della medesimapianta, sebbene entrambe abbiano il nome di gossypium.Già osservammo come le cellule seminali del tipo asiati-co abbiano 13 cromosomi, e 26 le cellule del tipo ameri-cano. Ibridi fertili di questa pianta sono impossibili. Inapparenza, ciò esclude che l’uno dei due tipi possa esse-re derivato dall’altro. L’enigma resta dunque per ora in-solito, e al pari di tanti altri, è alla mercè di ulteriori sco-perte. Ma se non altro, la presenza del cotone in duecontinenti separati ha cessato di avere l’importanza diprima: per quel che riguarda la cultura umana e il campodell’invenzione, si tratta di due materie diverse. La solu-zione del problema saetta dunque ai botanici, non agliantropologi.

Alcune delucidazioni tecniche sulle affinità di filaturae tessitura tra l’Asia e l’America potranno disperderequalche altro dubbio circa misteriose migrazioni preisto-riche attraverso il Pacifico e l’Isola di Mu. Il filamentodel cotone differisce dalle primitive fibre e lane per lasua brevità (i cotoni primitivi non vanno oltre i 2.50 cm.

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di lunghezza), per il diametro più sottile, ed è anche as-sai meno resistente.

Tanto in India come nel Perù, gli antichissimi tecnicirisolvevano nel medesimo modo il problema della fila-tura del cotone. Il problema consisteva nel modo con cuiregolare le oscillazioni del fuso. In ambedue i paesi, lasoluzione si trovò fermando la punta del fuso su una su-perficie liscia per moderare le oscillazioni, e quindi levibrazioni, e facendo roteare la testa del fuso con le ditad’una mano, mentre l’altra mano torceva e tirava il filo.Nel Nuovo Mondo, questo sistema non mutò fino aitempi moderni, e unitamente al telaio a due sbarre è ca-ratteristico di tutti i paesi dove cresce il cotone. Mal’India era in contatto diretto con regioni e popoli chepossedevano il carro a ruote; è evidente che, col tempo,la ruota si trasformò nella ruota del filatoio. La faccendariposò per qualche millennio, sino a che giunse Leonar-do da Vinci col suo fuso ad alette, che, come abbiamodetto, fu riprodotto prima dall’artigiano di Lipsia e in-corporato poi nel telaio meccanico di Arkwright. In altreparole, c’è una perfetta sequenza tecnica dal tempo (for-se tremila anni e più A. C.) in cui il filatore della valledell’Indo torceva tra le dita la delicata fibra, ai grandiopifici d’oggi, in cui milioni di fusi girando 10.000 vol-te al minuto producono bilioni di libbre di filato per i fa-melici telai del mondo.

Nell’India come nel Nuovo Mondo, i più antichi telaiconstano semplicemente di due sbarre parallele, tra lequali sono tesi i fili dell’ordito. A questo primitivo con-

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di lunghezza), per il diametro più sottile, ed è anche as-sai meno resistente.

Tanto in India come nel Perù, gli antichissimi tecnicirisolvevano nel medesimo modo il problema della fila-tura del cotone. Il problema consisteva nel modo con cuiregolare le oscillazioni del fuso. In ambedue i paesi, lasoluzione si trovò fermando la punta del fuso su una su-perficie liscia per moderare le oscillazioni, e quindi levibrazioni, e facendo roteare la testa del fuso con le ditad’una mano, mentre l’altra mano torceva e tirava il filo.Nel Nuovo Mondo, questo sistema non mutò fino aitempi moderni, e unitamente al telaio a due sbarre è ca-ratteristico di tutti i paesi dove cresce il cotone. Mal’India era in contatto diretto con regioni e popoli chepossedevano il carro a ruote; è evidente che, col tempo,la ruota si trasformò nella ruota del filatoio. La faccendariposò per qualche millennio, sino a che giunse Leonar-do da Vinci col suo fuso ad alette, che, come abbiamodetto, fu riprodotto prima dall’artigiano di Lipsia e in-corporato poi nel telaio meccanico di Arkwright. In altreparole, c’è una perfetta sequenza tecnica dal tempo (for-se tremila anni e più A. C.) in cui il filatore della valledell’Indo torceva tra le dita la delicata fibra, ai grandiopifici d’oggi, in cui milioni di fusi girando 10.000 vol-te al minuto producono bilioni di libbre di filato per i fa-melici telai del mondo.

Nell’India come nel Nuovo Mondo, i più antichi telaiconstano semplicemente di due sbarre parallele, tra lequali sono tesi i fili dell’ordito. A questo primitivo con-

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gegno, il Perù aggiunse una leggera bacchetta, alla qualeerano attaccati alterni fili dell’ordito, per facilitare ilpassaggio dei fili della trama. A questo perfezionamen-to, l’India aggiunse ancora la calcola, che permetteva altessitore di muovere le fila della trama coi piedi; e laPersia e l’Europa contribuirono con ingegnosi congegni.

Ricorderemo, nel 1806, l’invenzione del telaio pertessere stoffe a disegni, dovuta a Jean Marie Jacquard.Nelle grandi fabbriche moderne, grazie a un’invenzioneamericana, il Telaio Draper, perfezionato dall’ingleseNorthrop, un solo operaio può controllare 100 telai; ep-pure, nel suo movimento essenziale, è sempre ancora ilmedesimo congegno della valle dell’Indo e delle ormaisepolte città peruviane.

H. G. Creel, nella sua autorevole opera La nascitadella Cina, colloca la seta nel periodo di Shang (1400A. C.); e dalla presenza in quei luoghi di aghi a cruna edi delicati ornamenti e bottoni intagliati e scolpiti, dedu-ce che i Cinesi portassero già a quei tempi abiti tagliati ecuciti e provvisti di lunghe maniche. È questa la più re-mota data su cui ci si possa scientificamente fondare, ri-guardo alla seta; le testimonianze cinesi più antiche ap-partengono in gran parte al regno dei miti. Nel periododi Shang c’erano in Cina città fortificate, una forma discrittura in parte ancora decifrabile; si conosceva il tor-nio del vasaio, si allevavano bovini e ovini, cavalli emaiali; si coltivava frumento e miglio, e dai grani fer-mentati da quest’ultimo si ricavava una specie di birra.C’è anche qualche probabilità che si coltivassero il riso

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gegno, il Perù aggiunse una leggera bacchetta, alla qualeerano attaccati alterni fili dell’ordito, per facilitare ilpassaggio dei fili della trama. A questo perfezionamen-to, l’India aggiunse ancora la calcola, che permetteva altessitore di muovere le fila della trama coi piedi; e laPersia e l’Europa contribuirono con ingegnosi congegni.

Ricorderemo, nel 1806, l’invenzione del telaio pertessere stoffe a disegni, dovuta a Jean Marie Jacquard.Nelle grandi fabbriche moderne, grazie a un’invenzioneamericana, il Telaio Draper, perfezionato dall’ingleseNorthrop, un solo operaio può controllare 100 telai; ep-pure, nel suo movimento essenziale, è sempre ancora ilmedesimo congegno della valle dell’Indo e delle ormaisepolte città peruviane.

H. G. Creel, nella sua autorevole opera La nascitadella Cina, colloca la seta nel periodo di Shang (1400A. C.); e dalla presenza in quei luoghi di aghi a cruna edi delicati ornamenti e bottoni intagliati e scolpiti, dedu-ce che i Cinesi portassero già a quei tempi abiti tagliati ecuciti e provvisti di lunghe maniche. È questa la più re-mota data su cui ci si possa scientificamente fondare, ri-guardo alla seta; le testimonianze cinesi più antiche ap-partengono in gran parte al regno dei miti. Nel periododi Shang c’erano in Cina città fortificate, una forma discrittura in parte ancora decifrabile; si conosceva il tor-nio del vasaio, si allevavano bovini e ovini, cavalli emaiali; si coltivava frumento e miglio, e dai grani fer-mentati da quest’ultimo si ricavava una specie di birra.C’è anche qualche probabilità che si coltivassero il riso

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e una varietà di canapa; e doveva esserci un rudimentalesistema d’irrigazione. Entro tombe appena di poco po-steriori al periodo di Shang, furono trovate delle giadesulle quali sono scolpiti bachi da seta; e un’iscrizione suun vaso di bronzo del IX o X secolo A. C. ricorda che laseta era in uso come un mezzo di scambio nel commer-cio degli schiavi. In complesso, a giudicare dai docu-menti, il periodo di Shang deve considerarsi come unantico tipo di civiltà piuttosto che uno stadio avanzato dicultura. I Cinesi di quel tempo si servivano di piccoleconchiglie per moneta corrente; avevano una classe diri-gente, indovini, mercanti ambulanti di droghe e com-mercianti; e carri di guerra che usavano contro i popolioccidentali per conquistare schiavi che adibivano al la-voro dei campi, alla custodia degli armenti, e anche aqualche eventuale sacrificio agli dèi.

La data che riguarda la seta nel periodo di Shang nonva affatto considerata la data d’origine della seta; ma,come per il lino, la lana e il cotone, è la più antica di cuidisponiamo circa la sua apparizione. Esiste, tuttavia, unaforma di seta più antica di quella ricavata dal bozzolocoltivato. Quando, attraverso i deserti dell’Asia, i mer-canti cinesi giunsero in Persia, circa il II secolo primadell’era nostra, rilevarono il fatto che quei barbari occi-dentali non coltivavano la seta, ma sfruttavano la fibraserica ricavata dai bozzoli della falena selvatica: il tus-sah, che produce oggi ancora il bel tessuto noto sotto ilnome di tussor. Difficile sarebbe stabilire la data d’origi-ne del tussah; certamente più antico del cotone, potreb-

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e una varietà di canapa; e doveva esserci un rudimentalesistema d’irrigazione. Entro tombe appena di poco po-steriori al periodo di Shang, furono trovate delle giadesulle quali sono scolpiti bachi da seta; e un’iscrizione suun vaso di bronzo del IX o X secolo A. C. ricorda che laseta era in uso come un mezzo di scambio nel commer-cio degli schiavi. In complesso, a giudicare dai docu-menti, il periodo di Shang deve considerarsi come unantico tipo di civiltà piuttosto che uno stadio avanzato dicultura. I Cinesi di quel tempo si servivano di piccoleconchiglie per moneta corrente; avevano una classe diri-gente, indovini, mercanti ambulanti di droghe e com-mercianti; e carri di guerra che usavano contro i popolioccidentali per conquistare schiavi che adibivano al la-voro dei campi, alla custodia degli armenti, e anche aqualche eventuale sacrificio agli dèi.

La data che riguarda la seta nel periodo di Shang nonva affatto considerata la data d’origine della seta; ma,come per il lino, la lana e il cotone, è la più antica di cuidisponiamo circa la sua apparizione. Esiste, tuttavia, unaforma di seta più antica di quella ricavata dal bozzolocoltivato. Quando, attraverso i deserti dell’Asia, i mer-canti cinesi giunsero in Persia, circa il II secolo primadell’era nostra, rilevarono il fatto che quei barbari occi-dentali non coltivavano la seta, ma sfruttavano la fibraserica ricavata dai bozzoli della falena selvatica: il tus-sah, che produce oggi ancora il bel tessuto noto sotto ilnome di tussor. Difficile sarebbe stabilire la data d’origi-ne del tussah; certamente più antico del cotone, potreb-

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be essere anteriore anche alla lana.Il commercio organizzato della seta da bozzolo colti-

vata tra la Cina, l’Asia Centrale e in ultimo le coste delMediterraneo, principia con la dinastia degli Han,all’incirca il II secolo A. C.; e gran parte del merito perquesto grande movimento spetta all’energico ImperatoreWu-ti. Come già osservammo in un precedente capitolo,fu durante questa dinastia che la Cina ricevette dall’Ara-bia e dall’Egitto lo smalto, e iniziò nel campo della ce-ramica quei primi tentativi che avrebbero condotto poialla porcellana. Fino allora la Cina aveva mantenuto in-diretti legami commerciali con l’Arabia attraverso ilporto di Ceylon; ma ora stabilì di ricercare una via perterra, piuttosto che sottostare alle pretese dei vari inter-mediari che controllavano i porti dell’Oceano Indiano,del Mar Rosso e del Golfo Persico. Una carovaniera cheattraverso il bacino di Tarim e gli sconfinati deserti pe-netrasse fin nel cuore dell’Asia era una impresa da sgo-mentare. Dopo duemila anni, quell’itinerario è ancoravivo; ancora le rovine di antiche città e le ossa di cam-melli e talora anche d’uomini segnano ad altri uominiquel cammino di merci preziose, utili e belle.

Quei sentieri di cui spesso era appena visibile la trac-cia, che si snodavano per migliaia di chilometri attraver-so le steppe asiatiche, ebbero per la civiltà la stessa im-portanza che diciassette secoli più tardi avrebbe avuto lavia all’India compiuta per mare da Vasco de Gama. Giàabbiamo accennato ai grandi e fecondi scambi d’idee edi ricchezze tra la Cina e la Persia, tra l’Era Cristiana e

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be essere anteriore anche alla lana.Il commercio organizzato della seta da bozzolo colti-

vata tra la Cina, l’Asia Centrale e in ultimo le coste delMediterraneo, principia con la dinastia degli Han,all’incirca il II secolo A. C.; e gran parte del merito perquesto grande movimento spetta all’energico ImperatoreWu-ti. Come già osservammo in un precedente capitolo,fu durante questa dinastia che la Cina ricevette dall’Ara-bia e dall’Egitto lo smalto, e iniziò nel campo della ce-ramica quei primi tentativi che avrebbero condotto poialla porcellana. Fino allora la Cina aveva mantenuto in-diretti legami commerciali con l’Arabia attraverso ilporto di Ceylon; ma ora stabilì di ricercare una via perterra, piuttosto che sottostare alle pretese dei vari inter-mediari che controllavano i porti dell’Oceano Indiano,del Mar Rosso e del Golfo Persico. Una carovaniera cheattraverso il bacino di Tarim e gli sconfinati deserti pe-netrasse fin nel cuore dell’Asia era una impresa da sgo-mentare. Dopo duemila anni, quell’itinerario è ancoravivo; ancora le rovine di antiche città e le ossa di cam-melli e talora anche d’uomini segnano ad altri uominiquel cammino di merci preziose, utili e belle.

Quei sentieri di cui spesso era appena visibile la trac-cia, che si snodavano per migliaia di chilometri attraver-so le steppe asiatiche, ebbero per la civiltà la stessa im-portanza che diciassette secoli più tardi avrebbe avuto lavia all’India compiuta per mare da Vasco de Gama. Giàabbiamo accennato ai grandi e fecondi scambi d’idee edi ricchezze tra la Cina e la Persia, tra l’Era Cristiana e

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il XIII secolo. All’Oriente classico quei primi contatticommerciali diedero termini quali «vestimenti serici»,«seres», ecc., che col tempo divennero le parole «seta»,e anche «serge» (l’italiana «saia»), una qualità di ruvidalana ora caduta in disuso o quasi; e il «denims», nomeapplicato, non si sa perchè, a un rozzo tessuto di cotone,che originariamente era «serge-de-nimes», tessuto dilana e canapa fabbricato a Nîmes in Francia, imitantesenza dubbio un più antico tessuto di seta.

La memorabile spedizione di Sir Aurel Stein (1913-16) alle rovine delle città di Lou-Lan e Turfan, e la spe-dizione Kozlov alle tombe Scite presso il Lago Baikal(1924) ci hanno rivelato qualche particolare sull’anticaseta cinese, e anche sull’itinerario della carovaniera giàaccennata. Fra i tessuti rinvenuti vi sono garze di setatecnicamente simili a certi tessuti di lana e di cotone delPerù. È curioso come due popoli così lontani potesseroavere raggiunto tecniche simili. Citeremo un altro esem-pio ancora di come una stessa tecnica possa diffondersinel tempo e nello spazio. Fra i documenti che il Kozlovriportò dal Lago Baikal si trova una seta trapunta e rica-mata, la quale riproduce un mitico felino alato, forseuna tigre siberiana, che assale una renna. I nomadi Scitiche s’aggiravano per l’Asia, predoni e talora soldatimercenari, venendo a contatto con le carovane, quindicon i Cinesi e con antiche forme di civiltà dell’Asia Mi-nore, acquisivano così non solo forme tangibili di ric-chezza, ma anche idee e sistemi di lavorazione, e forseanche gli individui capaci di eseguirli. Il disegno di cui

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il XIII secolo. All’Oriente classico quei primi contatticommerciali diedero termini quali «vestimenti serici»,«seres», ecc., che col tempo divennero le parole «seta»,e anche «serge» (l’italiana «saia»), una qualità di ruvidalana ora caduta in disuso o quasi; e il «denims», nomeapplicato, non si sa perchè, a un rozzo tessuto di cotone,che originariamente era «serge-de-nimes», tessuto dilana e canapa fabbricato a Nîmes in Francia, imitantesenza dubbio un più antico tessuto di seta.

La memorabile spedizione di Sir Aurel Stein (1913-16) alle rovine delle città di Lou-Lan e Turfan, e la spe-dizione Kozlov alle tombe Scite presso il Lago Baikal(1924) ci hanno rivelato qualche particolare sull’anticaseta cinese, e anche sull’itinerario della carovaniera giàaccennata. Fra i tessuti rinvenuti vi sono garze di setatecnicamente simili a certi tessuti di lana e di cotone delPerù. È curioso come due popoli così lontani potesseroavere raggiunto tecniche simili. Citeremo un altro esem-pio ancora di come una stessa tecnica possa diffondersinel tempo e nello spazio. Fra i documenti che il Kozlovriportò dal Lago Baikal si trova una seta trapunta e rica-mata, la quale riproduce un mitico felino alato, forseuna tigre siberiana, che assale una renna. I nomadi Scitiche s’aggiravano per l’Asia, predoni e talora soldatimercenari, venendo a contatto con le carovane, quindicon i Cinesi e con antiche forme di civiltà dell’Asia Mi-nore, acquisivano così non solo forme tangibili di ric-chezza, ma anche idee e sistemi di lavorazione, e forseanche gli individui capaci di eseguirli. Il disegno di cui

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abbiamo detto superava certo la portata della loro imma-ginazione. È stato riconnesso dagli archeologhi modernicol famoso motivo del Leone e del Toro dei tempi diShalmenser, che risale all’epoca Caldea, cioè al 3000 A.C. Era, questo, un disegno simbolico che raffigurava lafesta sacrificale dell’equinozio di primavera a Mitra, ilDio del Sole: la stagione in cui i tributi dei popoli noma-di arrivavano alla capitale assira. Gli Sciti, dimentichidel leone e del toro dei Caldei e dell’equinozio di prima-vera, riprodussero semplicemente il disegno sostituen-dovi gli animali che eran loro famigliari.

Si sogliono spesso qualificare «broccati» gli antichitessuti cinesi decorati. A parer nostro, si trattava di lavo-ri di ricamo, eseguiti senza dubbio al telaio; ma era conl’ago piuttosto che con il rocchetto che veniva inseritol’elemento decorativo. Anche nei complicati tessuti pe-ruviani l’ago doveva avere parte importante; e gli stessierrori vennero commessi nel descriverli. Sempre secon-do il nostro parere, il telaio per le stoffe a disegni èd’invenzione persiana, e si basa sul primitivo telaio peril cotone, modificato secondo le necessità di colori emotivi per i tessuti di seta.

I broccati d’oro della Persia, probabilmente lavorati atelaio, erano ben noti al tempo di Serse e sono ricordatidagli storici di Alessandro il Grande. Broccati persianivennero inviati in tributo o in dono all’Imperatore Wu,nel 520 A. C. È significativo che gli esploratori cinesidel II secolo A. C. li descrivessero come lavori ad ago,valutandoli evidentemente negli stessi termini della tec-

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abbiamo detto superava certo la portata della loro imma-ginazione. È stato riconnesso dagli archeologhi modernicol famoso motivo del Leone e del Toro dei tempi diShalmenser, che risale all’epoca Caldea, cioè al 3000 A.C. Era, questo, un disegno simbolico che raffigurava lafesta sacrificale dell’equinozio di primavera a Mitra, ilDio del Sole: la stagione in cui i tributi dei popoli noma-di arrivavano alla capitale assira. Gli Sciti, dimentichidel leone e del toro dei Caldei e dell’equinozio di prima-vera, riprodussero semplicemente il disegno sostituen-dovi gli animali che eran loro famigliari.

Si sogliono spesso qualificare «broccati» gli antichitessuti cinesi decorati. A parer nostro, si trattava di lavo-ri di ricamo, eseguiti senza dubbio al telaio; ma era conl’ago piuttosto che con il rocchetto che veniva inseritol’elemento decorativo. Anche nei complicati tessuti pe-ruviani l’ago doveva avere parte importante; e gli stessierrori vennero commessi nel descriverli. Sempre secon-do il nostro parere, il telaio per le stoffe a disegni èd’invenzione persiana, e si basa sul primitivo telaio peril cotone, modificato secondo le necessità di colori emotivi per i tessuti di seta.

I broccati d’oro della Persia, probabilmente lavorati atelaio, erano ben noti al tempo di Serse e sono ricordatidagli storici di Alessandro il Grande. Broccati persianivennero inviati in tributo o in dono all’Imperatore Wu,nel 520 A. C. È significativo che gli esploratori cinesidel II secolo A. C. li descrivessero come lavori ad ago,valutandoli evidentemente negli stessi termini della tec-

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nica che era loro nota. Ciò prova maggiormente come, aquei tempi, il telaio per stoffe a disegni non fosse ancoranoto in Cina.

La Persia e il Medio Oriente ammiravano assai più laseta bianca, fine e lucida e di grande effetto come sfon-do ai colori, che non i disegni dei broccati cinesi. Ai Ci-nesi constava che i «barbari occidentali» conoscevano laseta del tussah, o falena selvaggia, ma non la varietàcoltivata. Questa seta più antica aveva – e ha tuttora – latonalità dell’avorio, dovuta all’acido tannico presentenelle foglie di cui si nutrono i bachi della falena selvag-gia.

È evidente la relazione tra la seta e la lana, nel MedioOriente e nell’Egitto. Le tinture in uso in Oriente per lalana vennero applicate con successo alla seta, essendoentrambe fibre di sostanza animale. Per contro, i colori ele tinture di Cina diedero, apparentemente, risultati pocosoddisfacenti applicati alle sete tessute in Occidente confilati cinesi.

Nella storia non solo della seta ma anche della lana ein conseguenza del telaio nel Medio Oriente, c’è una la-cuna che solo pazienti ricerche in quelle regioni varran-no a colmare. Le incessanti guerre, e particolarmentel’invasione mongolica del XIII secolo, hanno probabil-mente distrutto ogni anello di congiunzione fra le tombedell’Asia Centrale e i sepolcri della valle del Nilo. I no-stri attuali documenti dell’ultima parte di questa storiaprovengono in gran parte dall’Egitto, dove la seta erauna recente importazione asiatica, e dai preziosi tessuti

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nica che era loro nota. Ciò prova maggiormente come, aquei tempi, il telaio per stoffe a disegni non fosse ancoranoto in Cina.

La Persia e il Medio Oriente ammiravano assai più laseta bianca, fine e lucida e di grande effetto come sfon-do ai colori, che non i disegni dei broccati cinesi. Ai Ci-nesi constava che i «barbari occidentali» conoscevano laseta del tussah, o falena selvaggia, ma non la varietàcoltivata. Questa seta più antica aveva – e ha tuttora – latonalità dell’avorio, dovuta all’acido tannico presentenelle foglie di cui si nutrono i bachi della falena selvag-gia.

È evidente la relazione tra la seta e la lana, nel MedioOriente e nell’Egitto. Le tinture in uso in Oriente per lalana vennero applicate con successo alla seta, essendoentrambe fibre di sostanza animale. Per contro, i colori ele tinture di Cina diedero, apparentemente, risultati pocosoddisfacenti applicati alle sete tessute in Occidente confilati cinesi.

Nella storia non solo della seta ma anche della lana ein conseguenza del telaio nel Medio Oriente, c’è una la-cuna che solo pazienti ricerche in quelle regioni varran-no a colmare. Le incessanti guerre, e particolarmentel’invasione mongolica del XIII secolo, hanno probabil-mente distrutto ogni anello di congiunzione fra le tombedell’Asia Centrale e i sepolcri della valle del Nilo. I no-stri attuali documenti dell’ultima parte di questa storiaprovengono in gran parte dall’Egitto, dove la seta erauna recente importazione asiatica, e dai preziosi tessuti

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che avvolgevano i reliquarî, fortunatamente e perfetta-mente conservati nelle cattedrali di Europa.

In Egitto, le più antiche sete vennero rinvenute nelletombe di Antinoe, città fondata dall’Imperatore Adrianonel 122 A. C. Sono strette fascie, che evidentemente ve-nivano cucite come guarnizioni su indumenti di tela; erisalgono ai secoli III e IV della nostra era. È curiosoche su quelle striscie si trovino riprodotti motivi che fu-rono ritrovati su vasi greci del V secolo A. C., ma appli-cati a tessuti di lana. Più tardi appaiono anche motivipersiani; e con le conquiste arabe dei secoli VI e VII,una nuova specie di telaio, una maggior compiutezzatecnica e diffusione dell’uso della seta. A quell’epoca, itelai di Alessandria fornivano il mondo mediterraneo di«tessuti di lusso». In seguito, come già abbiamo accen-nato, queste arti e industrie si trasferirono a Costantino-poli, e di là alla Sicilia, all’Italia e a tutta l’Europa.

Un episodio ancora ci par degno di esser ricordato,nella lunga storia della seta. L’industria avviata a Spital-fields presso Londra dagli Ugonotti sul finire del XVIIsecolo, aveva bisogno di materia prima. Era, e ancora è,tra i principi essenziali dell’amministrazione coloniale,che le colonie dovessero rifornire la madre-patria di ma-terie prime, ricevendo in cambio prodotti finiti dalle in-dustrie nazionali. In base a questo principio, nel XVIIIsecolo il Governo Britannico incoraggiava costantemen-te la cultura della seta nella Georgia e nelle Caroline, al-lora fedeli colonie sue. Gli sforzi non andarono perduti;e malgrado le molte difficoltà, verso la metà di quel se-

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che avvolgevano i reliquarî, fortunatamente e perfetta-mente conservati nelle cattedrali di Europa.

In Egitto, le più antiche sete vennero rinvenute nelletombe di Antinoe, città fondata dall’Imperatore Adrianonel 122 A. C. Sono strette fascie, che evidentemente ve-nivano cucite come guarnizioni su indumenti di tela; erisalgono ai secoli III e IV della nostra era. È curiosoche su quelle striscie si trovino riprodotti motivi che fu-rono ritrovati su vasi greci del V secolo A. C., ma appli-cati a tessuti di lana. Più tardi appaiono anche motivipersiani; e con le conquiste arabe dei secoli VI e VII,una nuova specie di telaio, una maggior compiutezzatecnica e diffusione dell’uso della seta. A quell’epoca, itelai di Alessandria fornivano il mondo mediterraneo di«tessuti di lusso». In seguito, come già abbiamo accen-nato, queste arti e industrie si trasferirono a Costantino-poli, e di là alla Sicilia, all’Italia e a tutta l’Europa.

Un episodio ancora ci par degno di esser ricordato,nella lunga storia della seta. L’industria avviata a Spital-fields presso Londra dagli Ugonotti sul finire del XVIIsecolo, aveva bisogno di materia prima. Era, e ancora è,tra i principi essenziali dell’amministrazione coloniale,che le colonie dovessero rifornire la madre-patria di ma-terie prime, ricevendo in cambio prodotti finiti dalle in-dustrie nazionali. In base a questo principio, nel XVIIIsecolo il Governo Britannico incoraggiava costantemen-te la cultura della seta nella Georgia e nelle Caroline, al-lora fedeli colonie sue. Gli sforzi non andarono perduti;e malgrado le molte difficoltà, verso la metà di quel se-

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colo un carico annuo di 10.000 libbre di bozzoli e di fi-lati di seta partiva per l’Inghilterra. Nel primo quarto delsecolo XIX vi fu un rifiorire di questa industria e dellacoltivazione del gelso nella Nuova Inghilterra, e negliStati di Nuova York e di Pennsylvania.

Ma di tutte le importanti materie prime tessili, la setaè rimasta la più fedele ai suoi paesi d’origine. Il Giappo-ne la importò dalla Cina fin dal V secolo; in tempi re-centi, paesi produttori di tessuti di seta come gli StatiUniti e l’Inghilterra, hanno dato la preferenza agli ottimifilati giapponesi, prodotti da un’attrezzatura meccanicaoltremodo perfezionata. La Cina, l’Indo-Cina e il Siamproducono tuttora seta; e resti di antiche industrie sonorimasti in Persia e nell’Asia Minore. L’Italia è tra i paesiproduttori di seta. La produzione della seta richiede unapopolazione eminentemente agricola, una grande abilitàmeccanica e una cura assidua e costante. Perciò è rima-sta essenzialmente entro i limiti dei paesi d’origine,mentre il cotone, la lana e il lino hanno emigrato per tut-ta la superficie terrestre, tanto che gli attuali centri diproduzione di tessuti e filati hanno poco o nulla a chefare con i centri originari della materia prima.

Nessuna fase nell’industria del cotone, se non di tuttele industrie tessili, è importante quanto l’arte della stam-pa sui tessuti. La prima realizzazione moderna in questocampo è la macchina inventata dallo scozzese ThomasBell nel 1775, capace di stampare un motivo continuatoper mezzo di rulli di rame incisi. A sfondo di questocongegno, in apparenza così logico, stanno dieci e più

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colo un carico annuo di 10.000 libbre di bozzoli e di fi-lati di seta partiva per l’Inghilterra. Nel primo quarto delsecolo XIX vi fu un rifiorire di questa industria e dellacoltivazione del gelso nella Nuova Inghilterra, e negliStati di Nuova York e di Pennsylvania.

Ma di tutte le importanti materie prime tessili, la setaè rimasta la più fedele ai suoi paesi d’origine. Il Giappo-ne la importò dalla Cina fin dal V secolo; in tempi re-centi, paesi produttori di tessuti di seta come gli StatiUniti e l’Inghilterra, hanno dato la preferenza agli ottimifilati giapponesi, prodotti da un’attrezzatura meccanicaoltremodo perfezionata. La Cina, l’Indo-Cina e il Siamproducono tuttora seta; e resti di antiche industrie sonorimasti in Persia e nell’Asia Minore. L’Italia è tra i paesiproduttori di seta. La produzione della seta richiede unapopolazione eminentemente agricola, una grande abilitàmeccanica e una cura assidua e costante. Perciò è rima-sta essenzialmente entro i limiti dei paesi d’origine,mentre il cotone, la lana e il lino hanno emigrato per tut-ta la superficie terrestre, tanto che gli attuali centri diproduzione di tessuti e filati hanno poco o nulla a chefare con i centri originari della materia prima.

Nessuna fase nell’industria del cotone, se non di tuttele industrie tessili, è importante quanto l’arte della stam-pa sui tessuti. La prima realizzazione moderna in questocampo è la macchina inventata dallo scozzese ThomasBell nel 1775, capace di stampare un motivo continuatoper mezzo di rulli di rame incisi. A sfondo di questocongegno, in apparenza così logico, stanno dieci e più

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secoli di tentativi, in gran parte per merito dell’Oriente.Il primo esempio di stampa su tessuto che abbiamo vie-ne dalla Cina, ed è stretto parente della stampa su cartaper mezzo di blocchi di legno scolpiti. Il professor Car-ter scrive in proposito:

«Durante questa età dell’oro del genio cinese (712-756) nei monasteri buddisti della Cina si perfezionavanovari sistemi per la riproduzione dei testi sacri: attivitàche raggiunge il suo culmine con la stampa per mezzodi blocchi di legno. Questi sistemi si possono studiaresulle scoperte fatte a Tun-Huang e a Turfan, i due luoghisulle frontiere della Cina dove meglio che altrove furo-no conservati i primitivi testi manoscritti del Buddismo.Qui vennero rinvenuti stampiglie, resti di sandracca, tes-suti impressi, sigilli e una grande quantità di figurine diBudda stampate a mano, tutti elementi che portavano di-rettamente all’arte della stampa».

I più antichi tessuti stampati esistenti si trovano nelmuseo di Nara in Giappone, e risalgono al 734. E dalGiappone provengono ugualmente i più antichi docu-menti di una produzione in massa. La pia ImperatriceShotoku (774) ordinava la stampa di un milione di amu-leti buddistici per esser distribuiti nei vari santuari e mo-nasteri, allo scopo di scongiurare un’epidemia di vaiuo-lo. Ancora ne esistono oggigiorno alcuni. Non sappiamoquanto efficace fosse il provvedimento, poichè l’Impe-ratrice stessa morì di vaiuolo prima che gli amuleti fos-sero confezionati e distribuiti.

Fra i più antichi e famosi metodi di stampa sui tessuti

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secoli di tentativi, in gran parte per merito dell’Oriente.Il primo esempio di stampa su tessuto che abbiamo vie-ne dalla Cina, ed è stretto parente della stampa su cartaper mezzo di blocchi di legno scolpiti. Il professor Car-ter scrive in proposito:

«Durante questa età dell’oro del genio cinese (712-756) nei monasteri buddisti della Cina si perfezionavanovari sistemi per la riproduzione dei testi sacri: attivitàche raggiunge il suo culmine con la stampa per mezzodi blocchi di legno. Questi sistemi si possono studiaresulle scoperte fatte a Tun-Huang e a Turfan, i due luoghisulle frontiere della Cina dove meglio che altrove furo-no conservati i primitivi testi manoscritti del Buddismo.Qui vennero rinvenuti stampiglie, resti di sandracca, tes-suti impressi, sigilli e una grande quantità di figurine diBudda stampate a mano, tutti elementi che portavano di-rettamente all’arte della stampa».

I più antichi tessuti stampati esistenti si trovano nelmuseo di Nara in Giappone, e risalgono al 734. E dalGiappone provengono ugualmente i più antichi docu-menti di una produzione in massa. La pia ImperatriceShotoku (774) ordinava la stampa di un milione di amu-leti buddistici per esser distribuiti nei vari santuari e mo-nasteri, allo scopo di scongiurare un’epidemia di vaiuo-lo. Ancora ne esistono oggigiorno alcuni. Non sappiamoquanto efficace fosse il provvedimento, poichè l’Impe-ratrice stessa morì di vaiuolo prima che gli amuleti fos-sero confezionati e distribuiti.

Fra i più antichi e famosi metodi di stampa sui tessuti

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va ricordato il batik giavanese, che consiste nel ricoprireil disegno da riprodursi con la cera, immergendo quindiil tessuto in un bagno di colore e rimuovendo poi la ceracol calore. Altre tecniche del genere fiorirono in India;tutte queste arti risalgono nella notte dei secoli, e alcuniprocedimenti sono applicati tanto al tessuto, quanto alfilato ancora da tessere. L’arte di stampare per mezzo diblocchi di legno giunse a Samarcanda dalla Cina versola fine dell’VIII secolo; in India i Maomettani la appli-carono subito alle stoffe piuttosto che ai libri. Essi ave-vano già il loro «Libro» – il Corano – e non desiderava-no alcuna novità cinese per riprodurli. Assieme ad altripiù antichi sistemi di pittura e stampa su stoffe per mez-zo di mordenti, la «novità» passò dunque dall’Indiaall’Egitto, e di là nei monasteri europei. Già abbiamoaccennato all’emigrazione degli artigiani ugonotti in In-ghilterra; e sul finir del XVIII secolo seguiva l’invenzio-ne del cilindro meccanico di Thomas Bell.

Come tutte le altre macchine tessili, quella per lastampa dei tessuti ebbe enorme sviluppo durante il seco-lo scorso, ma il principio è rimasto essenzialmente inva-riato, poichè si basa ancora sempre sull’impressione didisegni per mezzo di rulli incisi. Attualmente la produ-zione di tessuti stampati, sete, cotoni, lane e fibre sinte-tiche, si calcola a metraggi di bilioni. Inutile dire che imezzi tecnici hanno progredito, con questa enorme pro-duzione, assai più che non il livello artistico dei disegni,dei colori e della qualità in genere dell’industria.L’altezza di questo livello artistico è da ricercarsi tuttora

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va ricordato il batik giavanese, che consiste nel ricoprireil disegno da riprodursi con la cera, immergendo quindiil tessuto in un bagno di colore e rimuovendo poi la ceracol calore. Altre tecniche del genere fiorirono in India;tutte queste arti risalgono nella notte dei secoli, e alcuniprocedimenti sono applicati tanto al tessuto, quanto alfilato ancora da tessere. L’arte di stampare per mezzo diblocchi di legno giunse a Samarcanda dalla Cina versola fine dell’VIII secolo; in India i Maomettani la appli-carono subito alle stoffe piuttosto che ai libri. Essi ave-vano già il loro «Libro» – il Corano – e non desiderava-no alcuna novità cinese per riprodurli. Assieme ad altripiù antichi sistemi di pittura e stampa su stoffe per mez-zo di mordenti, la «novità» passò dunque dall’Indiaall’Egitto, e di là nei monasteri europei. Già abbiamoaccennato all’emigrazione degli artigiani ugonotti in In-ghilterra; e sul finir del XVIII secolo seguiva l’invenzio-ne del cilindro meccanico di Thomas Bell.

Come tutte le altre macchine tessili, quella per lastampa dei tessuti ebbe enorme sviluppo durante il seco-lo scorso, ma il principio è rimasto essenzialmente inva-riato, poichè si basa ancora sempre sull’impressione didisegni per mezzo di rulli incisi. Attualmente la produ-zione di tessuti stampati, sete, cotoni, lane e fibre sinte-tiche, si calcola a metraggi di bilioni. Inutile dire che imezzi tecnici hanno progredito, con questa enorme pro-duzione, assai più che non il livello artistico dei disegni,dei colori e della qualità in genere dell’industria.L’altezza di questo livello artistico è da ricercarsi tuttora

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nel passato; e nelle presenti condizioni, non ci sembrache l’avvenire riserbi grandi promesse.

La storia del tessuto nel Vecchio Mondo è parte dellamovimentata storia di tre continenti: Asia, Africa ed Eu-ropa. In nessun punto di questa immensa area, la storiaappare completa; le fila di ogni paziente indagine, diogni nuova invenzione, storica o archeologica, si dira-mano da un popolo. all’altro a enormi distanze di tempoe di spazio. Ci troviamo alle prese con un complesso diinvenzioni e scoperte e ricerche, le quali si fondono conmovimenti razziali, culture regionali, guerre, invasioni emigrazioni di popoli. I documenti attinenti sono sepoltiin antiche tombe, tra la polvere di città rovinate e obliatee negli enigmi di antiche lingue, alcune delle quali tutto-ra indecifrabili per i filologi moderni. E in ultimo dob-biamo ammettere che vi sono ancora molte lacune, che idati sono incompleti e che le conclusioni possono esseretratte solo a mo’ di ipotesi. È una storia che implica te-stimonianze di molti popoli, di cui storia e costumi nonsono che vagamente noti, e sei millenni, a far poco, diciviltà.

C’è, nel mondo intero, una sola regione dove la storiadel tessuto e gli sforzi creativi di un singolo gruppo raz-ziale in un’area geografica conosciuta appaiono comple-ti per un lunghissimo periodo di tempo. Nel Perù, a oc-cidente dei contrafforti delle Ande, lungo la costa delPacifico, una tra le più grandi arti tessili – e certamentela più completa è stata conservata all’uomo. Il Perù nonebbe contatti con uomini di razze diverse, nè linguaggio

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nel passato; e nelle presenti condizioni, non ci sembrache l’avvenire riserbi grandi promesse.

La storia del tessuto nel Vecchio Mondo è parte dellamovimentata storia di tre continenti: Asia, Africa ed Eu-ropa. In nessun punto di questa immensa area, la storiaappare completa; le fila di ogni paziente indagine, diogni nuova invenzione, storica o archeologica, si dira-mano da un popolo. all’altro a enormi distanze di tempoe di spazio. Ci troviamo alle prese con un complesso diinvenzioni e scoperte e ricerche, le quali si fondono conmovimenti razziali, culture regionali, guerre, invasioni emigrazioni di popoli. I documenti attinenti sono sepoltiin antiche tombe, tra la polvere di città rovinate e obliatee negli enigmi di antiche lingue, alcune delle quali tutto-ra indecifrabili per i filologi moderni. E in ultimo dob-biamo ammettere che vi sono ancora molte lacune, che idati sono incompleti e che le conclusioni possono esseretratte solo a mo’ di ipotesi. È una storia che implica te-stimonianze di molti popoli, di cui storia e costumi nonsono che vagamente noti, e sei millenni, a far poco, diciviltà.

C’è, nel mondo intero, una sola regione dove la storiadel tessuto e gli sforzi creativi di un singolo gruppo raz-ziale in un’area geografica conosciuta appaiono comple-ti per un lunghissimo periodo di tempo. Nel Perù, a oc-cidente dei contrafforti delle Ande, lungo la costa delPacifico, una tra le più grandi arti tessili – e certamentela più completa è stata conservata all’uomo. Il Perù nonebbe contatti con uomini di razze diverse, nè linguaggio

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Page 219: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

scritto per la confusione degli eruditi; la sua testimo-nianza consiste in documenti miracolosamente conser-vati da eccezionali condizioni di ambiente.

Nella grande quantità di tessuti trovati (e che ancorasi vanno trovando) in quelle sepolture durate gli ultimicinquant’anni, si possono riscontrare tutte le tecniche ditessitura e di decorazione note in altre regioni del mon-do, insieme ad altre tecniche non ancora constatate al-trove.

La materia base delle arti tessili peruviane appare ilcotone, che sia in natura che nei filati e tessuti è sparsoper tutte le Americhe, fino alle piane degli Stati del Sud-est. Molte regioni delle Americhe sono assai progreditein altre arti, come in ceramica, architettura e scultura inpietra; ma soltanto nel Perù riscontriamo questa sor-prendente e insuperata eccellenza nelle arti tessili. Èl’unico paese del Nuovo Mondo in cui troviamo i cam-mellidi: il lama, la vigogna e l’alpaca. Ora, sono questele uniche fibre animali in America suscettibili di unatintura più raffinata, e che prendano il colore con la stes-sa facilità delle lane dell’Asia Centrale e delle sete cine-si; e non potevano quindi non eccitare la fantasia di unpopolo artisticamente sensibile, offrendogli la possibili-tà di esperimenti negati ad altri centri tessili del NuovoMondo.

Le grandi industrie tessili moderne hanno coperto ilmondo di piantagioni di cotone e accresciuta la produ-zione della seta e del lino, ma non hanno creato una solanuova fibra naturale tale da rivaleggiar con le antiche,

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scritto per la confusione degli eruditi; la sua testimo-nianza consiste in documenti miracolosamente conser-vati da eccezionali condizioni di ambiente.

Nella grande quantità di tessuti trovati (e che ancorasi vanno trovando) in quelle sepolture durate gli ultimicinquant’anni, si possono riscontrare tutte le tecniche ditessitura e di decorazione note in altre regioni del mon-do, insieme ad altre tecniche non ancora constatate al-trove.

La materia base delle arti tessili peruviane appare ilcotone, che sia in natura che nei filati e tessuti è sparsoper tutte le Americhe, fino alle piane degli Stati del Sud-est. Molte regioni delle Americhe sono assai progreditein altre arti, come in ceramica, architettura e scultura inpietra; ma soltanto nel Perù riscontriamo questa sor-prendente e insuperata eccellenza nelle arti tessili. Èl’unico paese del Nuovo Mondo in cui troviamo i cam-mellidi: il lama, la vigogna e l’alpaca. Ora, sono questele uniche fibre animali in America suscettibili di unatintura più raffinata, e che prendano il colore con la stes-sa facilità delle lane dell’Asia Centrale e delle sete cine-si; e non potevano quindi non eccitare la fantasia di unpopolo artisticamente sensibile, offrendogli la possibili-tà di esperimenti negati ad altri centri tessili del NuovoMondo.

Le grandi industrie tessili moderne hanno coperto ilmondo di piantagioni di cotone e accresciuta la produ-zione della seta e del lino, ma non hanno creato una solanuova fibra naturale tale da rivaleggiar con le antiche,

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sulle quali si basa tuttora l’industria tessile. Le modernefibre sintetiche, sviluppate attraverso ricerche chimichedalla cellulosa, cominciano ora appena a dar risultati de-gni di nota, sia nell’industria che per il consumatore. Ri-corderemo la lana artificiale ricavata dal latte – il lanital– ottenuto in seguito agli esperimenti di Antonio Ferretti(1935). Un’altra fibra artificiale è ricavato dal più anticoprodotto sintetico dell’uomo, il vetro.

Da un secolo appena sono incominciate le ricercheper la produzione di tinture sintetiche ottenute dal catra-me minerale; ma la grande storia del colore sta ancoranelle tinture antiche. Gli ingegneri moderni hanno tra-sformato le macchine del XVIII secolo in prodigi di ve-locità, precisione e produttività. Lo ammettiamo e cosìpure riconosciamo che si tratta di grandi conquiste cul-turali, e che lo sviluppo raggiunto in sì breve tempo hadel miracoloso. Ma ciò non toglie che tutta questa indu-stria si trovi ancora allo stato di esperimento, in un pe-riodo di evoluzione. I principî fondamentali di filatura etessitura, i vari tipi di tessuti, i mirabili concetti di colo-ri, motivi e creazioni, appartengono alla storia antica deltessuto. Al passato dobbiamo tutto ciò che conosciamoin questo campo; ma ancora esso non ha esaurito i suoiinsegnamenti. Si calcola che al giorno di oggi, 14 milio-ni di operai siano impiegati nelle varie industrie tessilidi tutto il mondo. Poche sono le nazioni moderne chenon abbiano un’industria tessile bene organizzata, politi-camente e socialmente sostenuta. Al tempo stesso, unaparte considerevole di questi lavoratori impiega ancora

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sulle quali si basa tuttora l’industria tessile. Le modernefibre sintetiche, sviluppate attraverso ricerche chimichedalla cellulosa, cominciano ora appena a dar risultati de-gni di nota, sia nell’industria che per il consumatore. Ri-corderemo la lana artificiale ricavata dal latte – il lanital– ottenuto in seguito agli esperimenti di Antonio Ferretti(1935). Un’altra fibra artificiale è ricavato dal più anticoprodotto sintetico dell’uomo, il vetro.

Da un secolo appena sono incominciate le ricercheper la produzione di tinture sintetiche ottenute dal catra-me minerale; ma la grande storia del colore sta ancoranelle tinture antiche. Gli ingegneri moderni hanno tra-sformato le macchine del XVIII secolo in prodigi di ve-locità, precisione e produttività. Lo ammettiamo e cosìpure riconosciamo che si tratta di grandi conquiste cul-turali, e che lo sviluppo raggiunto in sì breve tempo hadel miracoloso. Ma ciò non toglie che tutta questa indu-stria si trovi ancora allo stato di esperimento, in un pe-riodo di evoluzione. I principî fondamentali di filatura etessitura, i vari tipi di tessuti, i mirabili concetti di colo-ri, motivi e creazioni, appartengono alla storia antica deltessuto. Al passato dobbiamo tutto ciò che conosciamoin questo campo; ma ancora esso non ha esaurito i suoiinsegnamenti. Si calcola che al giorno di oggi, 14 milio-ni di operai siano impiegati nelle varie industrie tessilidi tutto il mondo. Poche sono le nazioni moderne chenon abbiano un’industria tessile bene organizzata, politi-camente e socialmente sostenuta. Al tempo stesso, unaparte considerevole di questi lavoratori impiega ancora

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un macchinario e sistemi che risalgono a date più anti-che che non quelle di qualsiasi altra industria.

L’India, la Cina, le isole dell’Oceano Indiano, certipaesi dell’America Centrale, il Messico e il Perù hannoun’industria tessile fiorente, che si basa su sistemitutt’altro che industriali. In questo gruppo dobbiamo in-cludere quel tragico residuo di artigiani che nel MedioOriente, in Grecia e in alcune regioni dell’Africa sonorimasti fedeli alla produzione manuale dei tappeti; che,come da secoli, seguitano a crear meraviglie d’arte e diperfezione tecnica, pur essendo disorganizzati e sfruttatidalle più corrotte forme di commercialismo.

Concludendo: tutto ciò prova come nel campodell’industria tessile, il mondo non abbia affatto rinun-ciato a quei mezzi e principî dai quali è partita in tempiantichissimi. Vi sono alcuni paesi, in tutto il mondo, incui gruppi di coraggiosi, e anche avveduti artigiani, han-no di proposito rinunciato ad accettare mezzi meccanicimoderni, e seguitano a produrre tessuti bellissimi e tec-nicamente perfetti, esprimendo le antiche tradizioni, erinunciando a competere con il resto del mondo indu-strializzato per la quantità e per il basso costo. Citeremotra queste nazioni, in Europa, l’Italia, con le bellissimelane del Casentino, i tessuti d’arte abruzzesi, con la fio-rente industria dei tappeti di Sardegna, che sempre più sivanno diffondendo. I paesi Scandinavi hanno grande-mente sviluppato, dopo la guerra mondiale, l’artigianatotessile, e producono magnifiche stoffe lavorate secondole vecchie tradizioni. La stessa Inghilterra, nazione in-

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un macchinario e sistemi che risalgono a date più anti-che che non quelle di qualsiasi altra industria.

L’India, la Cina, le isole dell’Oceano Indiano, certipaesi dell’America Centrale, il Messico e il Perù hannoun’industria tessile fiorente, che si basa su sistemitutt’altro che industriali. In questo gruppo dobbiamo in-cludere quel tragico residuo di artigiani che nel MedioOriente, in Grecia e in alcune regioni dell’Africa sonorimasti fedeli alla produzione manuale dei tappeti; che,come da secoli, seguitano a crear meraviglie d’arte e diperfezione tecnica, pur essendo disorganizzati e sfruttatidalle più corrotte forme di commercialismo.

Concludendo: tutto ciò prova come nel campodell’industria tessile, il mondo non abbia affatto rinun-ciato a quei mezzi e principî dai quali è partita in tempiantichissimi. Vi sono alcuni paesi, in tutto il mondo, incui gruppi di coraggiosi, e anche avveduti artigiani, han-no di proposito rinunciato ad accettare mezzi meccanicimoderni, e seguitano a produrre tessuti bellissimi e tec-nicamente perfetti, esprimendo le antiche tradizioni, erinunciando a competere con il resto del mondo indu-strializzato per la quantità e per il basso costo. Citeremotra queste nazioni, in Europa, l’Italia, con le bellissimelane del Casentino, i tessuti d’arte abruzzesi, con la fio-rente industria dei tappeti di Sardegna, che sempre più sivanno diffondendo. I paesi Scandinavi hanno grande-mente sviluppato, dopo la guerra mondiale, l’artigianatotessile, e producono magnifiche stoffe lavorate secondole vecchie tradizioni. La stessa Inghilterra, nazione in-

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dustriale per eccellenza, vanta i suoi vecchi e resistentitweed scozzesi, che sono tra le stoffe per abbigliamentopiù celebri del mondo intero.

Il fatto è che la moderna industria meccanizzata offrel’apparenza di molti vantaggi e di grande sicurezza; mail popolo sente che essa è un complesso di elementialeatorî, e che anche la più vasta e potente organizzazio-ne può dall’oggi al domani scomparire senza lasciartraccia. Se gli opifici di qualcuna delle grandi nazioniproduttrici di tessili – Inghilterra, Stati Uniti, Giapponeo Boemia – cessassero di funzionare, il vuoto sarebbeimmediatamente colmato da un aumento di produzionein qualche altro paese. Ma se questi umili telai, di cui legenerazioni si tramandano i piccoli segreti, venissero atacere, resterebbero muti per sempre, poichè nessunosorgerebbe a raccogliere l’immenso valore della tradi-zione; e il mondo perderebbe una delle sue ultime trac-cie di bellezza e di nobiltà.

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dustriale per eccellenza, vanta i suoi vecchi e resistentitweed scozzesi, che sono tra le stoffe per abbigliamentopiù celebri del mondo intero.

Il fatto è che la moderna industria meccanizzata offrel’apparenza di molti vantaggi e di grande sicurezza; mail popolo sente che essa è un complesso di elementialeatorî, e che anche la più vasta e potente organizzazio-ne può dall’oggi al domani scomparire senza lasciartraccia. Se gli opifici di qualcuna delle grandi nazioniproduttrici di tessili – Inghilterra, Stati Uniti, Giapponeo Boemia – cessassero di funzionare, il vuoto sarebbeimmediatamente colmato da un aumento di produzionein qualche altro paese. Ma se questi umili telai, di cui legenerazioni si tramandano i piccoli segreti, venissero atacere, resterebbero muti per sempre, poichè nessunosorgerebbe a raccogliere l’immenso valore della tradi-zione; e il mondo perderebbe una delle sue ultime trac-cie di bellezza e di nobiltà.

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Page 223: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

XVI

IL TABACCO: LA FOGLIA DEL DESTINO

Avanti il primo viaggio di Cristoforo Colombo, nes-suno in tutto il mondo abitato aveva mai udito parlare diuna pianta, contenente sostanze narcotiche, che si chia-mava tabacco. Ma mentre in Europa persisteva l’impres-sione generale che non un nuovo continente avesse sco-perto Colombo, ma una parte degli imperi del GranKhan; molto tempo prima che Shakespeare scrivesse isuoi drammi, molto tempo prima della sconfittadell’Armada spagnuola, il tabacco si faceva strada, nonsolo come medicina, ma anche come un’abitudine chediremo sociale, e attraverso gli sconfinati oceani pene-trava per sempre nella consuetudine e nei cuori degliuomini. In quello stesso secolo XVI, il commercio tran-soceanico introduceva in Europa quattro nuovi narcoti-ci: il caffè, il tè, il cacao e il tabacco. Dei quattro, èquest’ultimo che ha la storia più notevole.

La prima allusione letteraria al tabacco è scritta in lin-gua spagnuola; la troviamo nel racconto delle impresecolumbiane redatto da Novarette, e reca la data del 6 no-vembre 1492: venticinque giorni dopo che il marinaio in

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IL TABACCO: LA FOGLIA DEL DESTINO

Avanti il primo viaggio di Cristoforo Colombo, nes-suno in tutto il mondo abitato aveva mai udito parlare diuna pianta, contenente sostanze narcotiche, che si chia-mava tabacco. Ma mentre in Europa persisteva l’impres-sione generale che non un nuovo continente avesse sco-perto Colombo, ma una parte degli imperi del GranKhan; molto tempo prima che Shakespeare scrivesse isuoi drammi, molto tempo prima della sconfittadell’Armada spagnuola, il tabacco si faceva strada, nonsolo come medicina, ma anche come un’abitudine chediremo sociale, e attraverso gli sconfinati oceani pene-trava per sempre nella consuetudine e nei cuori degliuomini. In quello stesso secolo XVI, il commercio tran-soceanico introduceva in Europa quattro nuovi narcoti-ci: il caffè, il tè, il cacao e il tabacco. Dei quattro, èquest’ultimo che ha la storia più notevole.

La prima allusione letteraria al tabacco è scritta in lin-gua spagnuola; la troviamo nel racconto delle impresecolumbiane redatto da Novarette, e reca la data del 6 no-vembre 1492: venticinque giorni dopo che il marinaio in

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vedetta aveva lanciato il fatidico grido di «Terra!Terra!» dall’albero di gabbia della Pinta. Così dice il te-sto:

«Ieri notte due uomini (mandati in ricognizionenell’interno del paese) tornarono e narrarono comeavessero camminato per dodici leghe, fino a un villag-gio di una cinquantina di case. Per istrada, i due cristianiincontrarono molta gente che ritornava alle loro dimore.Uomini e donne tenevano in mano fiaccole accese, ederbe che sono usi a bruciare entro i loro bruciaprofumi,aspirandone il fumo».

Il buon vescovo Las Casas considera poi retrospetti-vamente il medesimo incidente, sorpreso piuttosto chescandalizzato:

«Quei due cristiani avevano incontrato sul loro cam-mino molta gente che ritornava ai proprî villaggi; e gliuomini portavano fiaccole accese ed erbe che usano ar-dere nei loro bruciaprofumi; e si tratta di erbe secche,avviluppate in una certa foglia ugualmente secca, a mo’di quelle cartucce arrotolate che i fanciulli fabbricanoper la Festa di Pasqua dello Spirito Santo; e ne accendo-no un capo, e per l’altro suggono o inalano quel fumoche ristora il corpo, e quasi lo intossica, tanto che piùnon sentono la fatica. Queste cartucce, o come dir si vo-glia, essi chiamano tabacco.

«Nell’isola di Hispaniola ho conosciuto uomini bian-chi, i quali si erano accostumati a quell’erba, ed essendorimproverati (poichè è un vizio) replicarono che non po-tevano farne a meno. Ignoro quale sia il gusto o il bene-

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vedetta aveva lanciato il fatidico grido di «Terra!Terra!» dall’albero di gabbia della Pinta. Così dice il te-sto:

«Ieri notte due uomini (mandati in ricognizionenell’interno del paese) tornarono e narrarono comeavessero camminato per dodici leghe, fino a un villag-gio di una cinquantina di case. Per istrada, i due cristianiincontrarono molta gente che ritornava alle loro dimore.Uomini e donne tenevano in mano fiaccole accese, ederbe che sono usi a bruciare entro i loro bruciaprofumi,aspirandone il fumo».

Il buon vescovo Las Casas considera poi retrospetti-vamente il medesimo incidente, sorpreso piuttosto chescandalizzato:

«Quei due cristiani avevano incontrato sul loro cam-mino molta gente che ritornava ai proprî villaggi; e gliuomini portavano fiaccole accese ed erbe che usano ar-dere nei loro bruciaprofumi; e si tratta di erbe secche,avviluppate in una certa foglia ugualmente secca, a mo’di quelle cartucce arrotolate che i fanciulli fabbricanoper la Festa di Pasqua dello Spirito Santo; e ne accendo-no un capo, e per l’altro suggono o inalano quel fumoche ristora il corpo, e quasi lo intossica, tanto che piùnon sentono la fatica. Queste cartucce, o come dir si vo-glia, essi chiamano tabacco.

«Nell’isola di Hispaniola ho conosciuto uomini bian-chi, i quali si erano accostumati a quell’erba, ed essendorimproverati (poichè è un vizio) replicarono che non po-tevano farne a meno. Ignoro quale sia il gusto o il bene-

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ficio che in essa possono trovare».Qui abbiamo, forse, l’origine dei nostri sigari. Chi

avrebbe mai detto allora che il loro uso e consumo sa-rebbe diventato tanto comune, e che quel nuovo «vizio»avrebbe costituito un giorno una delle più laute preben-de per i governi?

Ma l’antichità del tabacco, in America, è confermatada’ altri elementi ancora. Nei resti di città dell’epocaculturale dei cosidetti «intrecciatori di panieri» – di mol-to anteriori ai più antichi «abitatori delle roccie» del Co-lorado e dell’Arizona – sono state trovate delle pipe. Ciòsignifica che il tabacco era più antico del cotone, inquelle regioni una data approssimativa dovrebbe risalirealmeno al principio dell’Era Cristiana. Bellissime pipecerimoniali di pietra, in cui sono scolpiti simboli anima-leschi, furono rinvenute della valle del Mississipi, assie-me a più modeste pipe d’uso.

Nella carta di distribuzione geografica del tabacco edelle foglie di coca di Clark Wissler, il primo appare as-sai più diffuso del granoturco: per tutta l’America delSud, eccetto l’estrema punta meridionale, mentrenell’America del Nord la coltivazione e l’uso del tabac-co da fumo arrivano fino alla punta meridionale dellaBaja di Hudson, e il tabacco da masticare si espandelungo le coste dell’Alaska fin quasi allo stretto di Be-ring. Quasi ovunque il tabacco veniva fumato nella pipatubolare o a cannello, o sotto forma di sigarette o sigari.Ma nel Perù, in Bolivia, nell’istmo di Panama e terretropicali adiacenti, il dolce e narcotico tabacco s’incon-

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ficio che in essa possono trovare».Qui abbiamo, forse, l’origine dei nostri sigari. Chi

avrebbe mai detto allora che il loro uso e consumo sa-rebbe diventato tanto comune, e che quel nuovo «vizio»avrebbe costituito un giorno una delle più laute preben-de per i governi?

Ma l’antichità del tabacco, in America, è confermatada’ altri elementi ancora. Nei resti di città dell’epocaculturale dei cosidetti «intrecciatori di panieri» – di mol-to anteriori ai più antichi «abitatori delle roccie» del Co-lorado e dell’Arizona – sono state trovate delle pipe. Ciòsignifica che il tabacco era più antico del cotone, inquelle regioni una data approssimativa dovrebbe risalirealmeno al principio dell’Era Cristiana. Bellissime pipecerimoniali di pietra, in cui sono scolpiti simboli anima-leschi, furono rinvenute della valle del Mississipi, assie-me a più modeste pipe d’uso.

Nella carta di distribuzione geografica del tabacco edelle foglie di coca di Clark Wissler, il primo appare as-sai più diffuso del granoturco: per tutta l’America delSud, eccetto l’estrema punta meridionale, mentrenell’America del Nord la coltivazione e l’uso del tabac-co da fumo arrivano fino alla punta meridionale dellaBaja di Hudson, e il tabacco da masticare si espandelungo le coste dell’Alaska fin quasi allo stretto di Be-ring. Quasi ovunque il tabacco veniva fumato nella pipatubolare o a cannello, o sotto forma di sigarette o sigari.Ma nel Perù, in Bolivia, nell’istmo di Panama e terretropicali adiacenti, il dolce e narcotico tabacco s’incon-

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trò con la coca, di effetto più violento; e i masticatori dicoca presero l’abitudine di masticare anche il tabacco.Nelle regioni dell’alto Rio delle Amazzoni e lungo lecoste settentrionali dell’America del Sud era in uso an-che il tabacco da fiuto, abitudine derivata dal cohoba,fortissimo stupefacente ricavato del pipta-derma peri-grina. La masticazione dei tabacco è diffusa lungo lecoste occidentali dell’America del Nord, assieme allapipa; entrambe vi sono penetrate probabilmente dalMessico.

La pipa a cannello e la sigaretta (tabacco arrotolatoentro foglie di granturco) erano diffuse ugualmentenell’America Centrale, nel Messico e nell’Occidentedell’America del Nord. La piccola pipa di argilla o dicanna è un’evidente modificazione della sigaretta. GliIndiani delle Indie Orientali e di parte del bacino del Riodelle Amazzoni e dell’Orinoco fumavano sigari, in talu-ne regioni così enormi che venivano sorretti da una spe-cie di cavalletto a forma di «U» infisso nel terreno.

Ci siamo intrattenuti sui diversi modi indigeni di gu-stare il tabacco, poichè a turno essi agirono fortemente esino ai nostri tempi sugli usi europei. Gli Inglesi fuma-vano la pipa, fin dai tempi più antichi, avendolo appresodagli Indiani con cui venivano a contatto; così come iPortoghesi e gli Spagnuoli fumavano sigari e sigaretteavendo conosciuto il tabacco sotto tale forma, e i Fran-cesi imitarono i Portoghesi, dai quali lo ebbero.

Il tabacco non ha mai sostituito, nel Perù e nella Boli-via, l’abitudine di masticar foglie di coca.

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trò con la coca, di effetto più violento; e i masticatori dicoca presero l’abitudine di masticare anche il tabacco.Nelle regioni dell’alto Rio delle Amazzoni e lungo lecoste settentrionali dell’America del Sud era in uso an-che il tabacco da fiuto, abitudine derivata dal cohoba,fortissimo stupefacente ricavato del pipta-derma peri-grina. La masticazione dei tabacco è diffusa lungo lecoste occidentali dell’America del Nord, assieme allapipa; entrambe vi sono penetrate probabilmente dalMessico.

La pipa a cannello e la sigaretta (tabacco arrotolatoentro foglie di granturco) erano diffuse ugualmentenell’America Centrale, nel Messico e nell’Occidentedell’America del Nord. La piccola pipa di argilla o dicanna è un’evidente modificazione della sigaretta. GliIndiani delle Indie Orientali e di parte del bacino del Riodelle Amazzoni e dell’Orinoco fumavano sigari, in talu-ne regioni così enormi che venivano sorretti da una spe-cie di cavalletto a forma di «U» infisso nel terreno.

Ci siamo intrattenuti sui diversi modi indigeni di gu-stare il tabacco, poichè a turno essi agirono fortemente esino ai nostri tempi sugli usi europei. Gli Inglesi fuma-vano la pipa, fin dai tempi più antichi, avendolo appresodagli Indiani con cui venivano a contatto; così come iPortoghesi e gli Spagnuoli fumavano sigari e sigaretteavendo conosciuto il tabacco sotto tale forma, e i Fran-cesi imitarono i Portoghesi, dai quali lo ebbero.

Il tabacco non ha mai sostituito, nel Perù e nella Boli-via, l’abitudine di masticar foglie di coca.

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L’oppio non venne mai fumato in Cina primadell’introduzione del tabacco. Laufer crede che la famo-sa pipa da oppio fosse copiata dalla pipa da tabacco, im-portata dalle Isole Filippine nella prima decade del XVIIsecolo. Fu pure constatato come gli Olandesi introdu-cessero una combinazione di oppio e tabacco a Giava,allo scopo di stordire gli indigeni e renderli così inoffen-sivi.

Sulle prime, i medici europei furono unanimi nel ri-conoscere al tabacco grandi virtù terapeutiche. Un medi-co del XVII secolo scrive: «Queste foglie, seccateall’ombra e compresse, usate in polvere o intere, sonoefficaci per i mali di capo, di denti, di stomaco, contro iltetano, la tosse, l’asma, i calcoli renali, il mal di cuore, ireumatismi, le ferite delle freccie avvelenate, il carbon-chio, i polipi e il mal sottile». Quali effetti avesse il ta-bacco sull’organismo umano si ignorava allora, ma pocoimportava. Se i medici si fossero soffermati su bazzeco-le simili, gli speziali si sarebbero trovati a mal partito. Iltabacco era una novità, e faceva parlar di sè; l’odore e ilsapore non erano precisamente gradevoli; era costoso edifficile a ottenersi; e che di più si potrebbe pretendereda un rimedio nuovo?

Quel terrore della flotta spagnola, vecchio lupo dimare e gran cacciatore di schiavi che era Sir John Haw-kins, navigando lungo le coste della Florida nel 1565 ca-pitò alla colonia degli Ugonotti. «Gli indigeni» egli scri-ve «hanno un’erba secca, che bruciano entro una piccolacoppa di terracotta provvista d’un cannello attraverso il

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L’oppio non venne mai fumato in Cina primadell’introduzione del tabacco. Laufer crede che la famo-sa pipa da oppio fosse copiata dalla pipa da tabacco, im-portata dalle Isole Filippine nella prima decade del XVIIsecolo. Fu pure constatato come gli Olandesi introdu-cessero una combinazione di oppio e tabacco a Giava,allo scopo di stordire gli indigeni e renderli così inoffen-sivi.

Sulle prime, i medici europei furono unanimi nel ri-conoscere al tabacco grandi virtù terapeutiche. Un medi-co del XVII secolo scrive: «Queste foglie, seccateall’ombra e compresse, usate in polvere o intere, sonoefficaci per i mali di capo, di denti, di stomaco, contro iltetano, la tosse, l’asma, i calcoli renali, il mal di cuore, ireumatismi, le ferite delle freccie avvelenate, il carbon-chio, i polipi e il mal sottile». Quali effetti avesse il ta-bacco sull’organismo umano si ignorava allora, ma pocoimportava. Se i medici si fossero soffermati su bazzeco-le simili, gli speziali si sarebbero trovati a mal partito. Iltabacco era una novità, e faceva parlar di sè; l’odore e ilsapore non erano precisamente gradevoli; era costoso edifficile a ottenersi; e che di più si potrebbe pretendereda un rimedio nuovo?

Quel terrore della flotta spagnola, vecchio lupo dimare e gran cacciatore di schiavi che era Sir John Haw-kins, navigando lungo le coste della Florida nel 1565 ca-pitò alla colonia degli Ugonotti. «Gli indigeni» egli scri-ve «hanno un’erba secca, che bruciano entro una piccolacoppa di terracotta provvista d’un cannello attraverso il

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quale suggono il fumo; il quale fumo appaga la fame, sìche campano per quattro o cinque giorni senza mangiarenè bere. I Francesi se ne servono per il medesimo sco-po...».

Il dottor Berthold Laufer, al quale dobbiamo esseregrati per il chiaro modo con cui ci ha svelato molti ro-mantici miti rivestiti di apparenze storiche, ci provacome Sir Walter Raleigh non sia stato il primo, bontàsua, a introdurre il tabacco in Inghilterra. Re Giacomo I(che lo condannò a morte per una disgraziata specula-zione sulle terre ispano-americane) fra l’altro accusò SirWalter di aver introdotto in patria quella «vile erba». MaSua Maestà la sbagliava sul tabacco, quanto sui divinidiritti del re. Il povero Sir Walter conosceva soltanto lapianta nordamericana, il tabacum rustica, non il grazio-so tabacum nicotina, dono al mondo delle Indie Occi-dentali o dell’America del Sud.

Nella sua Cronologia Inglese (1593) William Harri-son descrive un’«erba indiana» e i suoi effetti; e apparechiaramente come si tratti qui del tabacum nicotina, ilquale all’epoca cui egli si riferisce (1573) era stato im-portato in Inghilterra dal Portogallo come erba medici-nale. La stessa erba giunse nella Virginia dall’Isola diTrinidad solo nel 1610, per sostituirvi il tabacum rusti-ca. In altri termini, la foglia per cui la Virginia dovevaandar famosa era coltivata in Inghilterra e in Francia giàda trentasette anni. Fu detta tabacum nicotina da JeanNicot, ambasciatore di Francia in Portogallo, che neportò i semi in patria.

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quale suggono il fumo; il quale fumo appaga la fame, sìche campano per quattro o cinque giorni senza mangiarenè bere. I Francesi se ne servono per il medesimo sco-po...».

Il dottor Berthold Laufer, al quale dobbiamo esseregrati per il chiaro modo con cui ci ha svelato molti ro-mantici miti rivestiti di apparenze storiche, ci provacome Sir Walter Raleigh non sia stato il primo, bontàsua, a introdurre il tabacco in Inghilterra. Re Giacomo I(che lo condannò a morte per una disgraziata specula-zione sulle terre ispano-americane) fra l’altro accusò SirWalter di aver introdotto in patria quella «vile erba». MaSua Maestà la sbagliava sul tabacco, quanto sui divinidiritti del re. Il povero Sir Walter conosceva soltanto lapianta nordamericana, il tabacum rustica, non il grazio-so tabacum nicotina, dono al mondo delle Indie Occi-dentali o dell’America del Sud.

Nella sua Cronologia Inglese (1593) William Harri-son descrive un’«erba indiana» e i suoi effetti; e apparechiaramente come si tratti qui del tabacum nicotina, ilquale all’epoca cui egli si riferisce (1573) era stato im-portato in Inghilterra dal Portogallo come erba medici-nale. La stessa erba giunse nella Virginia dall’Isola diTrinidad solo nel 1610, per sostituirvi il tabacum rusti-ca. In altri termini, la foglia per cui la Virginia dovevaandar famosa era coltivata in Inghilterra e in Francia giàda trentasette anni. Fu detta tabacum nicotina da JeanNicot, ambasciatore di Francia in Portogallo, che neportò i semi in patria.

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Laufer è d’opinione che siano stati Francis Drake12 e isuoi marinai a introdurre in Inghilterra l’abitudine di fu-mare. Ma è certo che vi contribuì anche Ralph Lanes, uncolonizzatore che ritornò dalla Virginia nel 1587. Inogni modo è palese che, dato il gran fiorire d’impresemarinare a quell’epoca, il tabacco possa esser giunto inInghilterra per altre e ignote vie simili a queste.

William Camden, storiografo della Regina Elisabetta,nel 1615 scrive:

«E questi uomini che per primi ritornarono furono iprimi a recare in Inghilterra una pianta detta tabacco onicotina di cui avevano appreso l’uso degli Indiani. Daallora in poi, grande è stata la richiesta, e il prezzo è an-dato crescendo; e in breve tempo ognuno, chi per vizio,chi per amor della salute, con insaziabile avidità sugge ilpuzzolente fumo da un cannello di terra e torna a esalar-lo dalle nari; e le botteghe di tabacco son diventati fre-quenti quanto le taverne e gli Inglesi sono tanto entusia-sti di questa pianta, che i loro corpi appaiono degeneratiquanto quelli dei barbari, e allo stesso modo di questiessi pensano di potersi curare».

Anche Re Giacomo I, che Enrico di Navarra disse «ilpiù savio pazzo di tutta la Cristianità», aveva la sua dadire riguardo al tabacco; e si scaglia contro la nuova«corruzione» con parole apocalittiche, specificando chenon fu già introdotta in Inghilterra «nè da un re, nè daun grande conquistatore, nè da un sapiente dottore in

12 Famoso navigatore inglese (1541-1595) (N. d. r.).

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Laufer è d’opinione che siano stati Francis Drake12 e isuoi marinai a introdurre in Inghilterra l’abitudine di fu-mare. Ma è certo che vi contribuì anche Ralph Lanes, uncolonizzatore che ritornò dalla Virginia nel 1587. Inogni modo è palese che, dato il gran fiorire d’impresemarinare a quell’epoca, il tabacco possa esser giunto inInghilterra per altre e ignote vie simili a queste.

William Camden, storiografo della Regina Elisabetta,nel 1615 scrive:

«E questi uomini che per primi ritornarono furono iprimi a recare in Inghilterra una pianta detta tabacco onicotina di cui avevano appreso l’uso degli Indiani. Daallora in poi, grande è stata la richiesta, e il prezzo è an-dato crescendo; e in breve tempo ognuno, chi per vizio,chi per amor della salute, con insaziabile avidità sugge ilpuzzolente fumo da un cannello di terra e torna a esalar-lo dalle nari; e le botteghe di tabacco son diventati fre-quenti quanto le taverne e gli Inglesi sono tanto entusia-sti di questa pianta, che i loro corpi appaiono degeneratiquanto quelli dei barbari, e allo stesso modo di questiessi pensano di potersi curare».

Anche Re Giacomo I, che Enrico di Navarra disse «ilpiù savio pazzo di tutta la Cristianità», aveva la sua dadire riguardo al tabacco; e si scaglia contro la nuova«corruzione» con parole apocalittiche, specificando chenon fu già introdotta in Inghilterra «nè da un re, nè daun grande conquistatore, nè da un sapiente dottore in

12 Famoso navigatore inglese (1541-1595) (N. d. r.).

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medicina»; bensì da due o tre selvaggi, i quali, poverac-ci loro, morirono, mentre il «vile e barbaro costume ètuttora vivo».

Il mattino del 29 ottobre 1618 Sir Walter Raleigh(stando al resoconto del Decano di Westminster) primadi salire al patibolo «mangiò di buon appetito e prese ta-bacco». E un altro testimone conferma ch’egli «fumòuna pipa di tabacco prima di salire al patibolo, cosa chescandalizzò alcune donne presenti, ma che senza dubbioservì non poco a rinfrancarlo e dargli animo».

Re Giacomo avversava forse l’uso del tabacco, manon si peritò di aumentare la modesta tassa imposta dal-la Regina Elisabetta – due scellini alla libbra – a seiscellini e dieci pence. Proibì poi l’importazione delle fo-glie di tabacco dalla Spagna e del Portogallo, con proba-bile letizia dei contrabbandieri. In un ulteriore sfogo di-chiara che è «un uso odioso alla vista, ripugnanteall’odorato, dannoso al cervello, pericoloso ai polmoni,e il cui nero e irritante fumo assomiglia agli orrendi va-pori dello Stige».

Nel 1660, egli appare tuttavia raddolcito. «Alcuniprendono il tabacco come medicina; e più d’unonest’uomo ha la sua pipa e l’acciarino in tasca».

Col tempo, infatti, si andava diffondendo l’uso del ta-bacco da naso come medicina o preventivo, benchè infondo fosse una quistione di voga, venuta con altreusanze francesi sotto il regno della Regina Anna. Si dif-fusero così le belle e preziose tabacchiere che oggi an-cora formano la gioia dei collezionisti.

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medicina»; bensì da due o tre selvaggi, i quali, poverac-ci loro, morirono, mentre il «vile e barbaro costume ètuttora vivo».

Il mattino del 29 ottobre 1618 Sir Walter Raleigh(stando al resoconto del Decano di Westminster) primadi salire al patibolo «mangiò di buon appetito e prese ta-bacco». E un altro testimone conferma ch’egli «fumòuna pipa di tabacco prima di salire al patibolo, cosa chescandalizzò alcune donne presenti, ma che senza dubbioservì non poco a rinfrancarlo e dargli animo».

Re Giacomo avversava forse l’uso del tabacco, manon si peritò di aumentare la modesta tassa imposta dal-la Regina Elisabetta – due scellini alla libbra – a seiscellini e dieci pence. Proibì poi l’importazione delle fo-glie di tabacco dalla Spagna e del Portogallo, con proba-bile letizia dei contrabbandieri. In un ulteriore sfogo di-chiara che è «un uso odioso alla vista, ripugnanteall’odorato, dannoso al cervello, pericoloso ai polmoni,e il cui nero e irritante fumo assomiglia agli orrendi va-pori dello Stige».

Nel 1660, egli appare tuttavia raddolcito. «Alcuniprendono il tabacco come medicina; e più d’unonest’uomo ha la sua pipa e l’acciarino in tasca».

Col tempo, infatti, si andava diffondendo l’uso del ta-bacco da naso come medicina o preventivo, benchè infondo fosse una quistione di voga, venuta con altreusanze francesi sotto il regno della Regina Anna. Si dif-fusero così le belle e preziose tabacchiere che oggi an-cora formano la gioia dei collezionisti.

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Secondo Laufer, il primo accenno al tabacco in Asiaappare nel diario del Capitano Richard Cocks, agentebritannico al Giappone tra il 1613 e il 1621. «GonoscoDono, venuto alla Casa Inglese, tra altro mi disse che ilRe (cioè, il Dairnyo dell’Irado) gli aveva ordinato dibruciare tutto il tabacco, e di non tollerare che alcuno sene inebriasse sulle sue terre, tale essendo il voleredell’Imperatore; onde egli aveva stabilito di farne incen-diare quel giorno stesso quattro picul, e di far sradicaretutte le piante esistenti. È strano come quest’erba, cheda dieci anni appena è in uso, istupidisca uomini, donnee fanciulli che la fumano».

William Adams, marinaio inglese che avendo fattonaufragio sulle coste del Giappone vi si era stabilito,nota nel suo giornale di bordo (1615): «Comperate aKyoto quattro pipe da tabaka».

Introdotto nel 1605 in Giappone dai Portoghesi, colti-vato dapprima nelle campagne intorno a Nagasaki, il ta-bacco si diffuse rapidamente malgrado tutte le leggi av-verse; ed era ugualmente stimato per le sue virtù medi-cinali.

La Cina ricevette il tabacco dalle Filippine, dove erastato introdotto dagli Spagnoli. Nel 1620 era noto nellaprovincia di Tu-Kien; e il medico Chang-Kiai-pin scrivecome, essendo gli eserciti cinesi entrati nella regione diYim-Nan, quasi tutti i soldati soccombettero alla mala-ria, a eccezione di un battaglione; e alla domanda comemai vi fossero scampati, quegli uomini risposero con-cordi che era in virtù del tabacco. Per tale ragione l’uso

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Secondo Laufer, il primo accenno al tabacco in Asiaappare nel diario del Capitano Richard Cocks, agentebritannico al Giappone tra il 1613 e il 1621. «GonoscoDono, venuto alla Casa Inglese, tra altro mi disse che ilRe (cioè, il Dairnyo dell’Irado) gli aveva ordinato dibruciare tutto il tabacco, e di non tollerare che alcuno sene inebriasse sulle sue terre, tale essendo il voleredell’Imperatore; onde egli aveva stabilito di farne incen-diare quel giorno stesso quattro picul, e di far sradicaretutte le piante esistenti. È strano come quest’erba, cheda dieci anni appena è in uso, istupidisca uomini, donnee fanciulli che la fumano».

William Adams, marinaio inglese che avendo fattonaufragio sulle coste del Giappone vi si era stabilito,nota nel suo giornale di bordo (1615): «Comperate aKyoto quattro pipe da tabaka».

Introdotto nel 1605 in Giappone dai Portoghesi, colti-vato dapprima nelle campagne intorno a Nagasaki, il ta-bacco si diffuse rapidamente malgrado tutte le leggi av-verse; ed era ugualmente stimato per le sue virtù medi-cinali.

La Cina ricevette il tabacco dalle Filippine, dove erastato introdotto dagli Spagnoli. Nel 1620 era noto nellaprovincia di Tu-Kien; e il medico Chang-Kiai-pin scrivecome, essendo gli eserciti cinesi entrati nella regione diYim-Nan, quasi tutti i soldati soccombettero alla mala-ria, a eccezione di un battaglione; e alla domanda comemai vi fossero scampati, quegli uomini risposero con-cordi che era in virtù del tabacco. Per tale ragione l’uso

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non tardò a propagarsi in tutto il paese, presso vecchi egiovani.

Ma nel 1683, un editto imperiale minacciava la deca-pitazione a chiunque commerciasse in tabacco. Un de-creto anteriore asserisce che fumare tabacco è un crimi-ne assai più grave che la trascuranza nell’eserciziodell’arco; e l’Imperatore stesso, rattristato, accusa i si-gnori e i principi di «fumare in privato, se non in pubbli-co».

Asad Bey, un mercante di Kazwin, descrive un vanotentativo di corrompere il grande Imperatore Akba, nel1605. Egli avrebbe inviato tabacco e pipe ad alcuni no-bili; tutti senza eccezione gradirono il dono, e così,dall’uno all’altro l’uso si propagò. Ma quando egli offrìuna pipa al sovrano, dopo che questo ebbe aspirato leprime boccate il medico di corte gli proibì di continuare.Invano Asad invocò l’autorità di medici europei. L’Ara-bo asserì che giudicava inopportuno adottare un uso dicui ancora non si conoscevano gli effetti. Asad stessoammise che costui era un saggio medico; e noi non pos-siamo disapprovarlo.

Nel 1617, l’Imperatore Jahangir proibiva con un de-creto il tabacco, avendone constatato i deleteri effetti sumolte persone. Un uguale editto aveva promulgato suofratello Shah Abbas, Re di Persia, vietando il tabacconell’Iran. Ma i più erano ormai dediti al fumo al puntoda non poterne ormai fare a meno.

Non sappiamo con precisione quando e da chi l’Afri-ca ricevesse per prima il tabacco. L’Africa è vasta, e i

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non tardò a propagarsi in tutto il paese, presso vecchi egiovani.

Ma nel 1683, un editto imperiale minacciava la deca-pitazione a chiunque commerciasse in tabacco. Un de-creto anteriore asserisce che fumare tabacco è un crimi-ne assai più grave che la trascuranza nell’eserciziodell’arco; e l’Imperatore stesso, rattristato, accusa i si-gnori e i principi di «fumare in privato, se non in pubbli-co».

Asad Bey, un mercante di Kazwin, descrive un vanotentativo di corrompere il grande Imperatore Akba, nel1605. Egli avrebbe inviato tabacco e pipe ad alcuni no-bili; tutti senza eccezione gradirono il dono, e così,dall’uno all’altro l’uso si propagò. Ma quando egli offrìuna pipa al sovrano, dopo che questo ebbe aspirato leprime boccate il medico di corte gli proibì di continuare.Invano Asad invocò l’autorità di medici europei. L’Ara-bo asserì che giudicava inopportuno adottare un uso dicui ancora non si conoscevano gli effetti. Asad stessoammise che costui era un saggio medico; e noi non pos-siamo disapprovarlo.

Nel 1617, l’Imperatore Jahangir proibiva con un de-creto il tabacco, avendone constatato i deleteri effetti sumolte persone. Un uguale editto aveva promulgato suofratello Shah Abbas, Re di Persia, vietando il tabacconell’Iran. Ma i più erano ormai dediti al fumo al puntoda non poterne ormai fare a meno.

Non sappiamo con precisione quando e da chi l’Afri-ca ricevesse per prima il tabacco. L’Africa è vasta, e i

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mercanti di schiavi non erano troppo diligenti nei lororapporti. In ogni modo, sembra che il tabacco fosse sco-nosciuto agli Africani prima dell’inizio del commerciodegli schiavi tra Africa e America. Esso fa parte della li-sta degli ottanta vegetali introdotti dall’America in Asiatra il XVI e il XVII secolo: lista che include, fra altrepiante, il granoturco, la manioca, la patata dolce e il cac-tus, utile per la produzione della cocciniglia. Inutile direche il tabacco fu incondizionatamente gradito dai negridell’Africa. I Portoghesi e gli Olandesi se ne servivanoin commercio: un cordone di tabacco, ad esempio, dellalunghezza di un toro, veniva scambiato col toro stesso,con grande vantaggio dei buoni coloni olandesi di CapeTown, per i quali il bestiame valeva assai più del tabac-co.

Furono i mercanti cinesi a introdurre il tabacco in Si-beria; e i viaggiatori russi, ai primordî del secolo XIX,ne importarono l’uso nell’Alaska, dove gli abili arteficiesquimesi non tardarono a scolpire bellissime pipe dipietra e di avorio, vere e proprie opere d’arte.

Al giorno d’oggi, il raccolto della foglia di tabacco,nel mondo intero, si aggira sui cinque bilioni di libbreall’anno, di cui poco meno di un terzo spettano agli StatiUniti. L’India e la Cina competono con gli Stati Unitinella quantità, ma il tabacco americano, di cui la Virgi-nia è la prima produttrice, è rimasto insuperabile inquanto alla qualità.

La forma più popolare e diffusa sotto cui si gusta oggiil tabacco è indubbiamente la sigaretta. Fino al principio

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mercanti di schiavi non erano troppo diligenti nei lororapporti. In ogni modo, sembra che il tabacco fosse sco-nosciuto agli Africani prima dell’inizio del commerciodegli schiavi tra Africa e America. Esso fa parte della li-sta degli ottanta vegetali introdotti dall’America in Asiatra il XVI e il XVII secolo: lista che include, fra altrepiante, il granoturco, la manioca, la patata dolce e il cac-tus, utile per la produzione della cocciniglia. Inutile direche il tabacco fu incondizionatamente gradito dai negridell’Africa. I Portoghesi e gli Olandesi se ne servivanoin commercio: un cordone di tabacco, ad esempio, dellalunghezza di un toro, veniva scambiato col toro stesso,con grande vantaggio dei buoni coloni olandesi di CapeTown, per i quali il bestiame valeva assai più del tabac-co.

Furono i mercanti cinesi a introdurre il tabacco in Si-beria; e i viaggiatori russi, ai primordî del secolo XIX,ne importarono l’uso nell’Alaska, dove gli abili arteficiesquimesi non tardarono a scolpire bellissime pipe dipietra e di avorio, vere e proprie opere d’arte.

Al giorno d’oggi, il raccolto della foglia di tabacco,nel mondo intero, si aggira sui cinque bilioni di libbreall’anno, di cui poco meno di un terzo spettano agli StatiUniti. L’India e la Cina competono con gli Stati Unitinella quantità, ma il tabacco americano, di cui la Virgi-nia è la prima produttrice, è rimasto insuperabile inquanto alla qualità.

La forma più popolare e diffusa sotto cui si gusta oggiil tabacco è indubbiamente la sigaretta. Fino al principio

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del nostro secolo ancora, gli uomini di una certa classefumavano sigari; il popolo si atteneva alla pipa; comuneera l’uso del tabacco da fiuto e da masticare. La sigaret-ta era considerata, quasi, una effeminatezza per gli uo-mini, e di pessimo gusto fra le signore della buona so-cietà. Ma tempi e costumi sono mutati. Stando alle stati-stiche, nell’anno 1936, nei soli Stati Uniti si è consuma-ta la strabiliante cifra di 151.000.000.000 di sigarette. Ilconsumo delle sigarette è andato notevolmente aumen-tando in tutti i Paesi, dalla Guerra Mondiale in poi, e laragione è dovuta a cause abbastanza ovvie. Anzitutto, ilfatto che la produzione della sigaretta ha raggiunto laperfezione o quasi, sia come qualità che per la grandevarietà di tipi che si offrono al consumatore. Malgradole forti tasse in quasi tutti i Paesi, la sigaretta è sempreancora meno costosa del sigaro e della pipa; è più ma-neggiabile e pratica. All’enorme consumo che se ne faha contribuito anche la diffusione sempre maggioredell’abitudine di fumare fra le donne. Il tabacco da fiu-to, un tempo sinonimo di galanterie settecentesche, è an-cora in auge in quasi tutti i Paesi, mentre il tabacco damasticare, sebbene non del tutto scomparso, tende sem-pre più a relegarsi nelle campagne.

Abbiamo visto come in poco più di trecento anni il ta-bacco e il suo uso e consumo, sia come necessità checome medicina e come merce e come vizio, abbia fattoil giro del Globo intero, ritornando all’emisfero che perprimo lo aveva dato al mondo. Nè l’ira e la petulanza dire e imperatori, nè le lontananze, nè il peso delle gabel-

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del nostro secolo ancora, gli uomini di una certa classefumavano sigari; il popolo si atteneva alla pipa; comuneera l’uso del tabacco da fiuto e da masticare. La sigaret-ta era considerata, quasi, una effeminatezza per gli uo-mini, e di pessimo gusto fra le signore della buona so-cietà. Ma tempi e costumi sono mutati. Stando alle stati-stiche, nell’anno 1936, nei soli Stati Uniti si è consuma-ta la strabiliante cifra di 151.000.000.000 di sigarette. Ilconsumo delle sigarette è andato notevolmente aumen-tando in tutti i Paesi, dalla Guerra Mondiale in poi, e laragione è dovuta a cause abbastanza ovvie. Anzitutto, ilfatto che la produzione della sigaretta ha raggiunto laperfezione o quasi, sia come qualità che per la grandevarietà di tipi che si offrono al consumatore. Malgradole forti tasse in quasi tutti i Paesi, la sigaretta è sempreancora meno costosa del sigaro e della pipa; è più ma-neggiabile e pratica. All’enorme consumo che se ne faha contribuito anche la diffusione sempre maggioredell’abitudine di fumare fra le donne. Il tabacco da fiu-to, un tempo sinonimo di galanterie settecentesche, è an-cora in auge in quasi tutti i Paesi, mentre il tabacco damasticare, sebbene non del tutto scomparso, tende sem-pre più a relegarsi nelle campagne.

Abbiamo visto come in poco più di trecento anni il ta-bacco e il suo uso e consumo, sia come necessità checome medicina e come merce e come vizio, abbia fattoil giro del Globo intero, ritornando all’emisfero che perprimo lo aveva dato al mondo. Nè l’ira e la petulanza dire e imperatori, nè le lontananze, nè il peso delle gabel-

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le, nè l’opinione dei medici hanno potuto impedirne oanche soltanto ritardarne il progresso. Quale eloquentecommento alla forza del capriccio, contrapposta alla ne-cessità del commercio creato dall’uomo!

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le, nè l’opinione dei medici hanno potuto impedirne oanche soltanto ritardarne il progresso. Quale eloquentecommento alla forza del capriccio, contrapposta alla ne-cessità del commercio creato dall’uomo!

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XVII

IL FERRO

Il primo ferro che l’uomo conobbe cadde dal cielo,quasi un proiettile di cui si compiacessero gli Dei, sianel loro più o meno giusto corruccio, come per ammoni-re di tempo in tempo l’umanità nei suoi errori. Fortuna-tamente per la pace degli archeologi, il ferro dei meteo-riti si trova misto del 5 al 10 per cento con il nichelio. Ilferro puro, in natura, non si trova che in una maniera aOvifah, in Groenlandia, e ciò era in ogni modo fuor del-la portata e dell’immaginazione dei primitivi metallurgi-ci asiatici, nelle loro ricerche per un metallo da sostitui-re, nella lega del bronzo, al rame e allo stagno che di-ventavano scarsi. Tutto il ferro che contiene traccie dinichelio è di origine meteorica; e quello che ne è esenteè fuso dall’uomo.

In uno studio sulla primitiva fusione del ferronell’Egitto (Antiquity, giugno 1937) il professor Quiringgetta nuova luce su questo magico ferro delle epochepredinastiche:

«Le sabbie del Nilo, specie le sabbie aurifere dellaNubia, contengono grani di magnetite di alto peso speci-

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XVII

IL FERRO

Il primo ferro che l’uomo conobbe cadde dal cielo,quasi un proiettile di cui si compiacessero gli Dei, sianel loro più o meno giusto corruccio, come per ammoni-re di tempo in tempo l’umanità nei suoi errori. Fortuna-tamente per la pace degli archeologi, il ferro dei meteo-riti si trova misto del 5 al 10 per cento con il nichelio. Ilferro puro, in natura, non si trova che in una maniera aOvifah, in Groenlandia, e ciò era in ogni modo fuor del-la portata e dell’immaginazione dei primitivi metallurgi-ci asiatici, nelle loro ricerche per un metallo da sostitui-re, nella lega del bronzo, al rame e allo stagno che di-ventavano scarsi. Tutto il ferro che contiene traccie dinichelio è di origine meteorica; e quello che ne è esenteè fuso dall’uomo.

In uno studio sulla primitiva fusione del ferronell’Egitto (Antiquity, giugno 1937) il professor Quiringgetta nuova luce su questo magico ferro delle epochepredinastiche:

«Le sabbie del Nilo, specie le sabbie aurifere dellaNubia, contengono grani di magnetite di alto peso speci-

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fico; la percentuale di ferro arriva sino al 65%. Le ricer-che del professor Muhlers in Abissinia e nella Nubiameridionale (1929-31) hanno dimostrato che metà delresiduo ottenuto dal lavaggio consiste in grani di ma-gnetite... Quando, verso la fine del periodo predinastico,si cominciò a fondere l’oro in Egitto, i fonditori potero-no usare tanto i fogli più fini, quanto le particelle più pe-santi. I cercatori d’oro nubiani inviarono quindi le lorosabbie in Egitto per la selezione. Dalla fusione dell’orofino e dei grani di magnetite nel crogiuolo, a un’atmo-sfera riducente ottenuta con una combustione di fieno ditrifoglio e paglia, sopra l’oro liquido si formavaun’abbondante scoria, e in fondo un denso sedimento diferro. Quest’ultimo era pronto per essere lavorato. Que-sta constatazione varrebbe a spiegare le particolari con-dizioni dell’industria del ferro in Egitto, cioè la scarsez-za della produzione, il suo lento progredire e l’alto valo-re attribuito al metallo, lavorato assieme all’oro e usatoper oggetti d’ornamento e monili, collane, anelli, ecc.».

È naturale che l’uomo primitivo abbia confuso la fol-gore col tuono, professando per ambedue grande rispet-to. Che cos’erano mai le sue piccole armi, la lancia, illaccio, l’arco e l’ascia, a paragone di quelle celesti arti-glierie? In seguito, allorchè l’uomo inventò cannoni epolvere da sparo, riconobbe che se le sue armi mancava-no un poco di drammaticità, erano tuttavia assai più ma-neggiabili, e preferibili per molti lati pratici. Ai tempinostri, poi, gli scienziati hanno ricreato anche la folgore,e l’uomo, diventato una specie di semidio, ha perduto

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fico; la percentuale di ferro arriva sino al 65%. Le ricer-che del professor Muhlers in Abissinia e nella Nubiameridionale (1929-31) hanno dimostrato che metà delresiduo ottenuto dal lavaggio consiste in grani di ma-gnetite... Quando, verso la fine del periodo predinastico,si cominciò a fondere l’oro in Egitto, i fonditori potero-no usare tanto i fogli più fini, quanto le particelle più pe-santi. I cercatori d’oro nubiani inviarono quindi le lorosabbie in Egitto per la selezione. Dalla fusione dell’orofino e dei grani di magnetite nel crogiuolo, a un’atmo-sfera riducente ottenuta con una combustione di fieno ditrifoglio e paglia, sopra l’oro liquido si formavaun’abbondante scoria, e in fondo un denso sedimento diferro. Quest’ultimo era pronto per essere lavorato. Que-sta constatazione varrebbe a spiegare le particolari con-dizioni dell’industria del ferro in Egitto, cioè la scarsez-za della produzione, il suo lento progredire e l’alto valo-re attribuito al metallo, lavorato assieme all’oro e usatoper oggetti d’ornamento e monili, collane, anelli, ecc.».

È naturale che l’uomo primitivo abbia confuso la fol-gore col tuono, professando per ambedue grande rispet-to. Che cos’erano mai le sue piccole armi, la lancia, illaccio, l’arco e l’ascia, a paragone di quelle celesti arti-glierie? In seguito, allorchè l’uomo inventò cannoni epolvere da sparo, riconobbe che se le sue armi mancava-no un poco di drammaticità, erano tuttavia assai più ma-neggiabili, e preferibili per molti lati pratici. Ai tempinostri, poi, gli scienziati hanno ricreato anche la folgore,e l’uomo, diventato una specie di semidio, ha perduto

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alquanto il rispetto per le varie divinità che una volta loterrorizzavano con quei tuoni che non sempre colpivanonel segno.

Fino a tempi relativamente recenti, tuttavia, le meteo-re predicevano grandi avvenimenti: guerre, carestie, na-scite e morti di re e vittorie e sconfitte; e non c’è popoloprimitivo che oggi ancora non le tenga in gran conside-razione. Nel Museo di Storia Naturale di Nuova York sene vedono alcune, trovate in Groenlandia, del peso diparecchi quintali. Nel Museo Britannico di Londra c’èuna collezione di 289 meteore, cadute tra il 1815 e il1914. Maometto stesso aveva timore di distruggere lafamosa Kaaba, la «pietra nera» della Mecca, che oggiancora è considerata sacra da milioni di figli del Profeta,e che appunto è una meteora.

Nella tomba di Iersah in Egitto (3000 A. C.) furonotrovati monili di ferro contenenti nichelio, quindi di ori-gine meteorica. Ma il manico di un pugnale di bronzo,rinvenuto a Tel Asmar in Mesopotamia, contiene ferrosenza traccia di nichelio; c’è quindi ragione di credereche sia stato ferro fuso dagli uomini, e non di origine ce-leste. Questo importante documento risalirebbe al 2800A. C.

Già nel 2300 A. C. su una tavoletta della Cappadociail ferro è detto barziali o metallo degli Dei; e migliaiad’anni più tardi, quando la fusione del ferro era diventa-ta una industria assai diffusa, prima di procedere allapurificazione del ferro col fuoco gli uomini purificavanose stessi con pratiche magiche. Molti sono i miti europei

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alquanto il rispetto per le varie divinità che una volta loterrorizzavano con quei tuoni che non sempre colpivanonel segno.

Fino a tempi relativamente recenti, tuttavia, le meteo-re predicevano grandi avvenimenti: guerre, carestie, na-scite e morti di re e vittorie e sconfitte; e non c’è popoloprimitivo che oggi ancora non le tenga in gran conside-razione. Nel Museo di Storia Naturale di Nuova York sene vedono alcune, trovate in Groenlandia, del peso diparecchi quintali. Nel Museo Britannico di Londra c’èuna collezione di 289 meteore, cadute tra il 1815 e il1914. Maometto stesso aveva timore di distruggere lafamosa Kaaba, la «pietra nera» della Mecca, che oggiancora è considerata sacra da milioni di figli del Profeta,e che appunto è una meteora.

Nella tomba di Iersah in Egitto (3000 A. C.) furonotrovati monili di ferro contenenti nichelio, quindi di ori-gine meteorica. Ma il manico di un pugnale di bronzo,rinvenuto a Tel Asmar in Mesopotamia, contiene ferrosenza traccia di nichelio; c’è quindi ragione di credereche sia stato ferro fuso dagli uomini, e non di origine ce-leste. Questo importante documento risalirebbe al 2800A. C.

Già nel 2300 A. C. su una tavoletta della Cappadociail ferro è detto barziali o metallo degli Dei; e migliaiad’anni più tardi, quando la fusione del ferro era diventa-ta una industria assai diffusa, prima di procedere allapurificazione del ferro col fuoco gli uomini purificavanose stessi con pratiche magiche. Molti sono i miti europei

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connessi al ferro: alle spade degli eroi, da Sigfrido a ReArturo e relativi cavalieri, erano attribuite virtù magi-che.

I sacerdoti egiziani rivelano nella sepoltura dei mortie in tutti i procedimenti funebri uno spirito non soltantofilosofico, ma anche coscienzioso e altamente pratico. Ache pro’ riempire una tomba di provviste alimentari, seil defunto aveva le mascelle serrate? E quale sostanzaera più potente a dischiuderle della bia, il metallo cele-ste, l’arma di Seth, Dio della Tempesta? Nelle antichetombe lungo il Nilo, in epoche nelle quali per armi e ar-nesi si usava solamente il rame (non ancora il bronzo),furono trovati piccoli strumenti a forma di scalpello, cheevidentemente dovevano servire a dischiudere quellemascelle serrate dell’Angelo Nero della Morte.

Partington, nella sua Storia della Chimica Organica,dice una parola definitiva riguardo al ferro e a molte al-tre questioni ancora: «La regione di nord-ovest del Re-gno degli Ittiti fu la culla di tutto uno sviluppo tecnicodel ferro; secondo la tradizione ebraica e greca, là si sa-rebbero compiuti i primi esperimenti per la lavorazionedi questo metallo».

Un piccolo blocco di ferro che risale, approssimativa-mente, al 2000 A. C., fu trovato a Creta; difficile stabili-re se si tratti di ferro fuso o meteorico. Hammurabi(2200 A. C.) parla di un oggetto che è un elmo, o piùprobabilmente una coppa di ferro. Frequentemente siparla di ferro nella Bibbia. Per esempio, il nome Barzi-lai – l’amico di Davide – significa «cuore di ferro».

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connessi al ferro: alle spade degli eroi, da Sigfrido a ReArturo e relativi cavalieri, erano attribuite virtù magi-che.

I sacerdoti egiziani rivelano nella sepoltura dei mortie in tutti i procedimenti funebri uno spirito non soltantofilosofico, ma anche coscienzioso e altamente pratico. Ache pro’ riempire una tomba di provviste alimentari, seil defunto aveva le mascelle serrate? E quale sostanzaera più potente a dischiuderle della bia, il metallo cele-ste, l’arma di Seth, Dio della Tempesta? Nelle antichetombe lungo il Nilo, in epoche nelle quali per armi e ar-nesi si usava solamente il rame (non ancora il bronzo),furono trovati piccoli strumenti a forma di scalpello, cheevidentemente dovevano servire a dischiudere quellemascelle serrate dell’Angelo Nero della Morte.

Partington, nella sua Storia della Chimica Organica,dice una parola definitiva riguardo al ferro e a molte al-tre questioni ancora: «La regione di nord-ovest del Re-gno degli Ittiti fu la culla di tutto uno sviluppo tecnicodel ferro; secondo la tradizione ebraica e greca, là si sa-rebbero compiuti i primi esperimenti per la lavorazionedi questo metallo».

Un piccolo blocco di ferro che risale, approssimativa-mente, al 2000 A. C., fu trovato a Creta; difficile stabili-re se si tratti di ferro fuso o meteorico. Hammurabi(2200 A. C.) parla di un oggetto che è un elmo, o piùprobabilmente una coppa di ferro. Frequentemente siparla di ferro nella Bibbia. Per esempio, il nome Barzi-lai – l’amico di Davide – significa «cuore di ferro».

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«E Iddio cacciò gli abitanti delle montagne, ma nonpotè cacciare gli abitanti delle pianure, perchè avevanocarri di ferro». (Giudizio, 1-19). E nelle Cronache siparla di «erpici di ferro» usati come strumenti guerre-schi da Davide contro i Caldei.

L’Egitto fu lento nell’adottare il ferro, il quale rimaseassai raro fino al periodo degli ultimi Re. Nella tombadel bellicoso Thetmose (1501-1447 A. C.) si trovaronosette oggetti di ferro, di cui sei ornamentati d’oro: provache il ferro era allora un metallo raro e prezioso. A ri-cordo della sua diciassettesima campagna, il guerrieroricevette dai Keptun (Asia Minore) vasi e coppe di fer-ro. Nella tomba di Tutankamen (1350 A. C.) fu trovatoun bellissimo pugnale di ferro, dal fodero d’oro squisita-mente sbalzato, che è ora nel museo del Cairo. Uno tra ipiù antichi documenti concernenti l’industria delle mu-nizioni è un messaggio di Hattuset dall’Asia Minore, alsuo radioso e onnipossente sovrano Ramsete II. Questosi era trovato alle prese con certi rozzi barbari semitici, iquali sembra fossero muniti di armi e carri guerreschi diferro, e sapessero servirsene. Scrive l’allibito vicerè allasconvolta maestà: «Quanto al ferro che mi mandaste achiedere, non ve n’è nei miei depositi a Kizwatus, e fon-derne in questo momento non sarebbe facile, ma già hodato ordini affinchè si provvedesse. Non appena saràpronto ve lo invierò. Per ora, non posso mandarvi cheun pugnale». (1225 A. C.).

Fra il 1300 e il 1200 A. C., il ferro si diffuse nella Pa-lestina meridionale, dove troviamo troni, altari, statue di

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«E Iddio cacciò gli abitanti delle montagne, ma nonpotè cacciare gli abitanti delle pianure, perchè avevanocarri di ferro». (Giudizio, 1-19). E nelle Cronache siparla di «erpici di ferro» usati come strumenti guerre-schi da Davide contro i Caldei.

L’Egitto fu lento nell’adottare il ferro, il quale rimaseassai raro fino al periodo degli ultimi Re. Nella tombadel bellicoso Thetmose (1501-1447 A. C.) si trovaronosette oggetti di ferro, di cui sei ornamentati d’oro: provache il ferro era allora un metallo raro e prezioso. A ri-cordo della sua diciassettesima campagna, il guerrieroricevette dai Keptun (Asia Minore) vasi e coppe di fer-ro. Nella tomba di Tutankamen (1350 A. C.) fu trovatoun bellissimo pugnale di ferro, dal fodero d’oro squisita-mente sbalzato, che è ora nel museo del Cairo. Uno tra ipiù antichi documenti concernenti l’industria delle mu-nizioni è un messaggio di Hattuset dall’Asia Minore, alsuo radioso e onnipossente sovrano Ramsete II. Questosi era trovato alle prese con certi rozzi barbari semitici, iquali sembra fossero muniti di armi e carri guerreschi diferro, e sapessero servirsene. Scrive l’allibito vicerè allasconvolta maestà: «Quanto al ferro che mi mandaste achiedere, non ve n’è nei miei depositi a Kizwatus, e fon-derne in questo momento non sarebbe facile, ma già hodato ordini affinchè si provvedesse. Non appena saràpronto ve lo invierò. Per ora, non posso mandarvi cheun pugnale». (1225 A. C.).

Fra il 1300 e il 1200 A. C., il ferro si diffuse nella Pa-lestina meridionale, dove troviamo troni, altari, statue di

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Page 241: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

una curiosa trilogia composta di uomo, donna e toro, eanche lancie e ascie, pugnali e coltelli per usi guerre-schi; e falci, punteruoli, ganci, un piccone pesante seilibbre, vanghe, due aratri e una quantità di chiodi. Aquell’epoca, dalla magia il ferro era entrato a far partedell’industria, dell’agricoltura e della guerra. Nella Pale-stina Settentrionale furono trovate due fornaci, e mucchidi scorie e di ferro allo stato grezzo, che risalgono al1175 e al 1110 A. C.

I re assiri solevano scorticar vivi i nemici catturati, oimpalarli davanti alle mura della città assediata. Tiglet-pilesar III (745-727 A. C.), Sargon II (722-705 A. C.) eSennacherib (704-682 A. C.) incatenavano i loro prigio-nieri; e le catene erano di ferro. Nelle fondamenta diKorsabad vennero rinvenute vanghe, zappe, martelli,aratri, bulloni usati per le barche che navigavanosull’Eufrate, per il peso complessivo di 150 tonnellate; ecatene e chiodi di ferro, armature e armi si trovarono frale rovine di Ninive. Il ferro aveva quasi raggiunto laproduzione in massa.

Sin dal 1500 A. C. l’Asia Minore e la Siria esportava-no oggetti di ferro, pugnali, lame di spade e anche moni-li e amuleti. Nella Grecia, vediamo in commercio anellie bracciali di ferro all’incirca sul finir della Prima EpocaMinoica (Creta, 1500 A. C.). Spade di ferro erano in usoattorno al 1200 A. C., ma le spade di bronzo non scom-parvero interamente che più tardi.

Esisteva in Assiria una legge, la quale proibiva agliebrei di lavorare il ferro. Essi erano dunque costretti a

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una curiosa trilogia composta di uomo, donna e toro, eanche lancie e ascie, pugnali e coltelli per usi guerre-schi; e falci, punteruoli, ganci, un piccone pesante seilibbre, vanghe, due aratri e una quantità di chiodi. Aquell’epoca, dalla magia il ferro era entrato a far partedell’industria, dell’agricoltura e della guerra. Nella Pale-stina Settentrionale furono trovate due fornaci, e mucchidi scorie e di ferro allo stato grezzo, che risalgono al1175 e al 1110 A. C.

I re assiri solevano scorticar vivi i nemici catturati, oimpalarli davanti alle mura della città assediata. Tiglet-pilesar III (745-727 A. C.), Sargon II (722-705 A. C.) eSennacherib (704-682 A. C.) incatenavano i loro prigio-nieri; e le catene erano di ferro. Nelle fondamenta diKorsabad vennero rinvenute vanghe, zappe, martelli,aratri, bulloni usati per le barche che navigavanosull’Eufrate, per il peso complessivo di 150 tonnellate; ecatene e chiodi di ferro, armature e armi si trovarono frale rovine di Ninive. Il ferro aveva quasi raggiunto laproduzione in massa.

Sin dal 1500 A. C. l’Asia Minore e la Siria esportava-no oggetti di ferro, pugnali, lame di spade e anche moni-li e amuleti. Nella Grecia, vediamo in commercio anellie bracciali di ferro all’incirca sul finir della Prima EpocaMinoica (Creta, 1500 A. C.). Spade di ferro erano in usoattorno al 1200 A. C., ma le spade di bronzo non scom-parvero interamente che più tardi.

Esisteva in Assiria una legge, la quale proibiva agliebrei di lavorare il ferro. Essi erano dunque costretti a

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ricorrere agli indigeni, ogni volta che dovevano anchesoltanto riparare i loro arnesi agricoli e ciò non li inco-raggiava certo all’uso di armi di ferro. Verso il 1100 A.C. i lingotti di ferro, di forma ovale e bucati a un’estre-mità per comodità di trasporto, erano una forma ricono-sciuta e accettata di denaro, e verso il 1200 A. C. comin-ciarono ad apparire in Europa. Ne sono stati trovati ne-gli scavi di La Tène, il luogo da cui prese nome la se-conda Età del Ferro.

In Europa, la prima Età del Ferro si sviluppò in Italia,e data dal 1000 A. C., ma i centri più famosi sono LaTène e Hallstatt nel Salisburghese. L’Epoca di Hallstattsi equipara a Dipylon (Atene) e ai periodi arcaici in Gre-cia; l’Epoca di La Tène precede di poco il periodo clas-sico dell’arte greca. La prima Età del Ferro in Britannia,detta in seguito Età Celtica, corrisponde a La Tène sulcontinente.

È chiaro che le migrazioni dei popoli e le civiltà chein quegli antichi tempi si diffusero per l’Europa, prove-nivano da un’unica regione orientale, e da un livello cul-turale unico e relativamente alto; e il ferro fu il metalloimportante nelle ultime ondate d’invasioni.

Il ferro non soppiantò subito il bronzo; era troppo co-stoso, e per certi scopi meno pratico del bronzo, il qualeaveva una tecnica ormai saldamente stabilita. Le tombedi Hallstatt contenevano 3574 oggetti di bronzo, 593 diferro, 270 di ambra, 73 di vetro e 64 d’oro. Vetro e am-bra fanno pensare a un commercio con l’Egitto e colBaltico. Il periodo si propagò per l’Europa Centrale, e

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ricorrere agli indigeni, ogni volta che dovevano anchesoltanto riparare i loro arnesi agricoli e ciò non li inco-raggiava certo all’uso di armi di ferro. Verso il 1100 A.C. i lingotti di ferro, di forma ovale e bucati a un’estre-mità per comodità di trasporto, erano una forma ricono-sciuta e accettata di denaro, e verso il 1200 A. C. comin-ciarono ad apparire in Europa. Ne sono stati trovati ne-gli scavi di La Tène, il luogo da cui prese nome la se-conda Età del Ferro.

In Europa, la prima Età del Ferro si sviluppò in Italia,e data dal 1000 A. C., ma i centri più famosi sono LaTène e Hallstatt nel Salisburghese. L’Epoca di Hallstattsi equipara a Dipylon (Atene) e ai periodi arcaici in Gre-cia; l’Epoca di La Tène precede di poco il periodo clas-sico dell’arte greca. La prima Età del Ferro in Britannia,detta in seguito Età Celtica, corrisponde a La Tène sulcontinente.

È chiaro che le migrazioni dei popoli e le civiltà chein quegli antichi tempi si diffusero per l’Europa, prove-nivano da un’unica regione orientale, e da un livello cul-turale unico e relativamente alto; e il ferro fu il metalloimportante nelle ultime ondate d’invasioni.

Il ferro non soppiantò subito il bronzo; era troppo co-stoso, e per certi scopi meno pratico del bronzo, il qualeaveva una tecnica ormai saldamente stabilita. Le tombedi Hallstatt contenevano 3574 oggetti di bronzo, 593 diferro, 270 di ambra, 73 di vetro e 64 d’oro. Vetro e am-bra fanno pensare a un commercio con l’Egitto e colBaltico. Il periodo si propagò per l’Europa Centrale, e

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oltre i Pirenei per la Penisola Iberica. Il centro, o piutto-sto il luogo-tipo, era situato attorno a una preistorica mi-niera di sale vicino ad Hallstatt, dove in tempi antichic’era un fiorente commercio di sale e grandi importazio-ni d’opere d’arte, specie di bellissimi vasi di bronzo mo-dellati e sbalzati.

La cittadina di La Tène si trova sulla punta orientaledel Lago di Neuchàtel. Nel 1881 le acque del lago, ab-bassatesi in seguito a lavori idraulici, rivelarono i restidi una grande, potente civiltà. L’epoca fu divisa in 3 pe-riodi:

La Tène I: 500-300 A. C.La Tène II: 300-100 A. C.La Tène III: 100 A. C. sino all’Era Cristiana.

Fra gli arnesi di ferro di quest’epoca troviamo falci eroncole, cesoie e falcetti da potare, forbici (simili aquelle in uso oggi per tosare le pecore), rasoi dall’aspet-to alquanto truce, e utensili da pesca e per la navigazio-ne, quali ami, uncini, ecc. L’incudine e il martello pocodifferiscono da quelli dei nostri giorni. Vediamo anchebellissime armature, scudi ed elmetti di bronzo sbalzato.Le case erano rettangolari, costruite in parte di legno, inparte di calce e mattoni. Molte di queste cose si trovanoanche nel primo periodo di Hallstatt, ma non con tantaprofusione di eleganza e di forme. Viene in uso inquest’epoca l’aratro dal vomero rivestito di ferro; e pial-le, razzi di ruote e tenaglie da maniscalco fanno pensarealla costruzione di carri. Abbiamo persino serrature e

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oltre i Pirenei per la Penisola Iberica. Il centro, o piutto-sto il luogo-tipo, era situato attorno a una preistorica mi-niera di sale vicino ad Hallstatt, dove in tempi antichic’era un fiorente commercio di sale e grandi importazio-ni d’opere d’arte, specie di bellissimi vasi di bronzo mo-dellati e sbalzati.

La cittadina di La Tène si trova sulla punta orientaledel Lago di Neuchàtel. Nel 1881 le acque del lago, ab-bassatesi in seguito a lavori idraulici, rivelarono i restidi una grande, potente civiltà. L’epoca fu divisa in 3 pe-riodi:

La Tène I: 500-300 A. C.La Tène II: 300-100 A. C.La Tène III: 100 A. C. sino all’Era Cristiana.

Fra gli arnesi di ferro di quest’epoca troviamo falci eroncole, cesoie e falcetti da potare, forbici (simili aquelle in uso oggi per tosare le pecore), rasoi dall’aspet-to alquanto truce, e utensili da pesca e per la navigazio-ne, quali ami, uncini, ecc. L’incudine e il martello pocodifferiscono da quelli dei nostri giorni. Vediamo anchebellissime armature, scudi ed elmetti di bronzo sbalzato.Le case erano rettangolari, costruite in parte di legno, inparte di calce e mattoni. Molte di queste cose si trovanoanche nel primo periodo di Hallstatt, ma non con tantaprofusione di eleganza e di forme. Viene in uso inquest’epoca l’aratro dal vomero rivestito di ferro; e pial-le, razzi di ruote e tenaglie da maniscalco fanno pensarealla costruzione di carri. Abbiamo persino serrature e

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chiavi di ferro.La fornace era di tipo assai primitivo, fatta di rozzi

mattoni e ricoperta di terra, press’a poco come la forna-ce per il bronzo, ma un po’ più grande. Per ottenere unmiglior tiraggio, indispensabile alla lavorazione del fer-ro, di solito veniva situata in alto, o in cima a una colli-na. Si nutriva a carbone di legna e a legno; il manticeera ancora sconosciuto.

E qui il ferro riposa, fino agli ultimi secoli del Me-dioevo.

La storia del ferro non consiste unicamente nel movi-mento di questo metallo dall’Occidente all’Oriente. C’èin Asia tutta una ricca e interessante storia del ferro; e lanozione che i Cinesi già avevano dell’ago magnetico eradestinata ad avere immensa influenza sul commercio esulla navigazione mondiale. È questo un tema che anco-ra aspetta di essere studiato e investigato a fondo. Unasola nota, nella Sino-Iranica di Laufer, offre una base al-meno per la curiosità dei razionalisti: «Il ferro (Pin t’ie)è ricordato quale un prodotto della Persia dei Sassanidi.Un autore cinese dice che il ferro è prodotto dai barbarioccidentali e che la sua superficie è variegata comequella dei semi di sesamo. Sulle spade, e su altri arnesidi questo metallo puliti con polvere d’oro, questi motividiventano visibili. Il prezzo di questo metallo è più altodi quello dell’argento».

Fu Alessandro il Macedone a introdurre a Damasco lalavorazione dell’acciaio; la città divenne tosto famosaper le sue armi e le sue lame taglienti e flessibili. I Mori

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chiavi di ferro.La fornace era di tipo assai primitivo, fatta di rozzi

mattoni e ricoperta di terra, press’a poco come la forna-ce per il bronzo, ma un po’ più grande. Per ottenere unmiglior tiraggio, indispensabile alla lavorazione del fer-ro, di solito veniva situata in alto, o in cima a una colli-na. Si nutriva a carbone di legna e a legno; il manticeera ancora sconosciuto.

E qui il ferro riposa, fino agli ultimi secoli del Me-dioevo.

La storia del ferro non consiste unicamente nel movi-mento di questo metallo dall’Occidente all’Oriente. C’èin Asia tutta una ricca e interessante storia del ferro; e lanozione che i Cinesi già avevano dell’ago magnetico eradestinata ad avere immensa influenza sul commercio esulla navigazione mondiale. È questo un tema che anco-ra aspetta di essere studiato e investigato a fondo. Unasola nota, nella Sino-Iranica di Laufer, offre una base al-meno per la curiosità dei razionalisti: «Il ferro (Pin t’ie)è ricordato quale un prodotto della Persia dei Sassanidi.Un autore cinese dice che il ferro è prodotto dai barbarioccidentali e che la sua superficie è variegata comequella dei semi di sesamo. Sulle spade, e su altri arnesidi questo metallo puliti con polvere d’oro, questi motividiventano visibili. Il prezzo di questo metallo è più altodi quello dell’argento».

Fu Alessandro il Macedone a introdurre a Damasco lalavorazione dell’acciaio; la città divenne tosto famosaper le sue armi e le sue lame taglienti e flessibili. I Mori

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portarono in seguito quest’arte in Spagna; e altrettantocelebri per la loro eleganza e bontà divennero le lame diToledo.

I Vichinghi e i loro discendenti in Inghilterra e inFrancia conoscevano il ferro, ed erano abili fabbri in tut-ti i rami di quest’arte. La lavorazione dei metalli hagrande antichità nelle regioni intorno al Mar Nero, don-de derivano e mossero le prime civiltà Scandinave. Ènaturale che in queste civiltà il ferro rappresentasse unfattore vitale, anche se tardo. Nelle tombe dei paesi nor-dici troviamo, come in tutte le altre, spade, teste di frec-ce, punte di lance, cesoie, elmi, falci, catene di ancore,tenaglie e chiodi. Le collezioni si rassomigliano tutte,sia in La Tène che nelle più antiche città dell’Asia Mi-nore.

Ai tempi di Carlo Magno, il ferro era un metallo raroe costoso e usato principalmente per armi e corazze. Ilfabbro era un artigiano che godeva di grande considera-zione; e dopo di lui veniva l’armaiuolo. In uno dei ca-stelli del gran re non si trovavano, a quanto pare, chedue ascie, due vanghe, due succhielli, un’accetta e unaratro. Nel IX secolo il ferro costava all’incirca cin-quanta volte quanto alla fine del XIX. Mille anni, e par-ticolarmente gli ultimi duecento, hanno enormementemodificato il costo di molte cose, compreso il ferro. Se-condo Boissonade, pochi furono i cambiamenti nellatecnica del ferro fino al XII secolo. Allora soltanto ve-diamo modificarsi la forma della fornace, e si cominciaa usare la turbina ad acqua per i pesanti martelli; in ulti-

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portarono in seguito quest’arte in Spagna; e altrettantocelebri per la loro eleganza e bontà divennero le lame diToledo.

I Vichinghi e i loro discendenti in Inghilterra e inFrancia conoscevano il ferro, ed erano abili fabbri in tut-ti i rami di quest’arte. La lavorazione dei metalli hagrande antichità nelle regioni intorno al Mar Nero, don-de derivano e mossero le prime civiltà Scandinave. Ènaturale che in queste civiltà il ferro rappresentasse unfattore vitale, anche se tardo. Nelle tombe dei paesi nor-dici troviamo, come in tutte le altre, spade, teste di frec-ce, punte di lance, cesoie, elmi, falci, catene di ancore,tenaglie e chiodi. Le collezioni si rassomigliano tutte,sia in La Tène che nelle più antiche città dell’Asia Mi-nore.

Ai tempi di Carlo Magno, il ferro era un metallo raroe costoso e usato principalmente per armi e corazze. Ilfabbro era un artigiano che godeva di grande considera-zione; e dopo di lui veniva l’armaiuolo. In uno dei ca-stelli del gran re non si trovavano, a quanto pare, chedue ascie, due vanghe, due succhielli, un’accetta e unaratro. Nel IX secolo il ferro costava all’incirca cin-quanta volte quanto alla fine del XIX. Mille anni, e par-ticolarmente gli ultimi duecento, hanno enormementemodificato il costo di molte cose, compreso il ferro. Se-condo Boissonade, pochi furono i cambiamenti nellatecnica del ferro fino al XII secolo. Allora soltanto ve-diamo modificarsi la forma della fornace, e si cominciaa usare la turbina ad acqua per i pesanti martelli; in ulti-

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mo viene introdotto il mantice. Di grande significato è ilrapporto fra queste date e le ultime Crociate; aquell’epoca, a Costantinopoli e in Siria la lavorazionedel ferro e dell’acciaio si trovava a uno stadio assai piùinoltrato che in Europa, e i Crociati avranno certo impa-rato molte cose.

Nel Libro del Catasto (1086 D. C.) di Guglielmo ilConquistatore, troviamo elencati 5000 mulini ad acquain Inghilterra; la maggior parte serviva indubbiamenteper il grano, ma non è escluso che alcuni fossero anchefucine. Nel XIII secolo, nei pressi di Ypres c’erano 120mulini a vento in molti dei quali si lavorava il ferro.Stando a documenti di quei tempi, «una corazza valevail prezzo di 6 buoi e 12 vacche; una spada 7 vacche, eun po’ più di un cavallo».

Parlando dell’Impero di Bisanzio, Boissonade dice:«Antichi artefici, minatori e metallurgici, sfruttarono fi-loni di ferro, rame e piombo in Asia Minore e nell’Euro-pa Occidentale... C’erano officine in cui si fabbricavanoarmi, archi e freccie, lancie e corazze di grande bellezza:a Tessalonica, a Nicopoli, ad Atene, nell’Epiro,nell’Eubes».

Thorold Rogers, nella sua opera Sei secoli di salarinel mondo, riferendosi ai registri del maniero di Holy-well, Oxford (XIII secolo) dice:

Relativamente, il ferro era considerevolmente più co-stoso del piombo, e quasi quanto il rame, lo stagno el’ottone. Sia che fosse di origine straniera o inglese, ve-niva acquistato in barre del peso di circa 400 libbre.

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mo viene introdotto il mantice. Di grande significato è ilrapporto fra queste date e le ultime Crociate; aquell’epoca, a Costantinopoli e in Siria la lavorazionedel ferro e dell’acciaio si trovava a uno stadio assai piùinoltrato che in Europa, e i Crociati avranno certo impa-rato molte cose.

Nel Libro del Catasto (1086 D. C.) di Guglielmo ilConquistatore, troviamo elencati 5000 mulini ad acquain Inghilterra; la maggior parte serviva indubbiamenteper il grano, ma non è escluso che alcuni fossero anchefucine. Nel XIII secolo, nei pressi di Ypres c’erano 120mulini a vento in molti dei quali si lavorava il ferro.Stando a documenti di quei tempi, «una corazza valevail prezzo di 6 buoi e 12 vacche; una spada 7 vacche, eun po’ più di un cavallo».

Parlando dell’Impero di Bisanzio, Boissonade dice:«Antichi artefici, minatori e metallurgici, sfruttarono fi-loni di ferro, rame e piombo in Asia Minore e nell’Euro-pa Occidentale... C’erano officine in cui si fabbricavanoarmi, archi e freccie, lancie e corazze di grande bellezza:a Tessalonica, a Nicopoli, ad Atene, nell’Epiro,nell’Eubes».

Thorold Rogers, nella sua opera Sei secoli di salarinel mondo, riferendosi ai registri del maniero di Holy-well, Oxford (XIII secolo) dice:

Relativamente, il ferro era considerevolmente più co-stoso del piombo, e quasi quanto il rame, lo stagno el’ottone. Sia che fosse di origine straniera o inglese, ve-niva acquistato in barre del peso di circa 400 libbre.

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Queste si trovavano di solito nelle grandi fiere ed eranogelosamente custodite dagli uscieri. Venivano poi man-date dal fabbro del luogo per dividerle in pesi minori; eil fabbro era pagato a peso di ferro. L’acciaio impiegatoper rivestire gli arnesi di ferro era quattro volte più carodel ferro... L’alto costo del ferro spiega il fatto che aquei tempi le ruote dei carri non fossero circondate dallalamina che le proteggeva; esse venivano intagliate entrola circonferenza di un tronco d’albero...».

Sheffield, città famosa sin dal Medioevo per la fabbri-cazione dei coltelli e temperini, riceveva il ferro dallaSvezia; ma l’acciaio fine, per gli strumenti chirurgici,giunse dalla Francia fino al secolo XVIII. Le lancetteper i salassi, in grande uso allora, sono ricordate comedi provenienza francese fino all’alba della RivoluzioneIndustriale.

Tra l’XI e il XIII sec. il contatto col vicino Orientedurante le Crociate portò a un lavorio e a un fermento divita grandi in tutti i campi, e anche nelle industrie. Chal-condyle, ambasciatore dell’imperatore Emanuele di Co-stantinopoli, nel 1400 veniva in Europa, allo scopo diottenere danaro e uomini per la difesa contro i Turchi,che già minacciavano le mura della città. Egli ci dà uncolorito resoconto di ciò che vide:

«Gli abitanti della Germania eccellono nelle arti mec-caniche, e si vantano di invenzioni di cannoni e polvereda sparo. Duecento città e più della Germania sono go-vernate e rette da leggi proprie. In Francia sorgono mol-te fiorenti città, fra cui Parigi primeggia per lusso e ric-

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Queste si trovavano di solito nelle grandi fiere ed eranogelosamente custodite dagli uscieri. Venivano poi man-date dal fabbro del luogo per dividerle in pesi minori; eil fabbro era pagato a peso di ferro. L’acciaio impiegatoper rivestire gli arnesi di ferro era quattro volte più carodel ferro... L’alto costo del ferro spiega il fatto che aquei tempi le ruote dei carri non fossero circondate dallalamina che le proteggeva; esse venivano intagliate entrola circonferenza di un tronco d’albero...».

Sheffield, città famosa sin dal Medioevo per la fabbri-cazione dei coltelli e temperini, riceveva il ferro dallaSvezia; ma l’acciaio fine, per gli strumenti chirurgici,giunse dalla Francia fino al secolo XVIII. Le lancetteper i salassi, in grande uso allora, sono ricordate comedi provenienza francese fino all’alba della RivoluzioneIndustriale.

Tra l’XI e il XIII sec. il contatto col vicino Orientedurante le Crociate portò a un lavorio e a un fermento divita grandi in tutti i campi, e anche nelle industrie. Chal-condyle, ambasciatore dell’imperatore Emanuele di Co-stantinopoli, nel 1400 veniva in Europa, allo scopo diottenere danaro e uomini per la difesa contro i Turchi,che già minacciavano le mura della città. Egli ci dà uncolorito resoconto di ciò che vide:

«Gli abitanti della Germania eccellono nelle arti mec-caniche, e si vantano di invenzioni di cannoni e polvereda sparo. Duecento città e più della Germania sono go-vernate e rette da leggi proprie. In Francia sorgono mol-te fiorenti città, fra cui Parigi primeggia per lusso e ric-

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Page 248: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

chezza. Le Fiandre sono un’opulenta provincia; i suoiporti sono frequentati dai mercanti del Mediterraneo e dialtri mari. La Britannia, detta anche Inghilterra, brulicadi città e villaggi.

Non vi cresce la vite, e scarsi sono gli alberi da frutta,ma abbonda di biade, miele, e soprattutto di lana di cuigli abitanti tessono grandi quantità di stoffe».

Fino a quell’epoca, l’Europa non aveva fatto grandiprogressi nella lavorazione del ferro, nè essi erano pos-sibili fino a che la legna e il carbone di legna erano i solicombustibili usati nelle fornaci; e fino a che la civiltàmeccanica si trovava a un livello relativamente basso. Ilcarbone fossile veniva impiegato solo in piccole quanti-tà, per la lavorazione del ferro; lo zolfo ch’esso svilupparendeva il ferro troppo friabile. Le fornaci erano ancoraassai primitive, benchè l’aumento dei mulini ad acqua ea vento faccia pensare al mantice, conosciuto in Egitto enella Siria e usato dai fabbri africani indigeni, che neavevano certo imparato l’uso dagli Egiziani. Le piccolefucine si moltiplicavano intanto nell’Europa Centrale,dovunque si trovassero minerale grezzo, legna e acqua,e si cominciava persino a esportare il ferro in piccolequantità. Milano, Pavia e Venezia in Italia; la Biscaglia,Toledo e Valencia in Spagna; il Delfinato, la Linguado-ca, la Lorena in Francia; la Stiria in Germania, e moltialtri luoghi ancora erano famosi a quei tempi per le loroindustrie del ferro e dell’acciaio. Nessun dubbio che larichiesta del ferro aumentasse quanto quella per i tessili;così la tecnica della produzione migliorava a poco a

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chezza. Le Fiandre sono un’opulenta provincia; i suoiporti sono frequentati dai mercanti del Mediterraneo e dialtri mari. La Britannia, detta anche Inghilterra, brulicadi città e villaggi.

Non vi cresce la vite, e scarsi sono gli alberi da frutta,ma abbonda di biade, miele, e soprattutto di lana di cuigli abitanti tessono grandi quantità di stoffe».

Fino a quell’epoca, l’Europa non aveva fatto grandiprogressi nella lavorazione del ferro, nè essi erano pos-sibili fino a che la legna e il carbone di legna erano i solicombustibili usati nelle fornaci; e fino a che la civiltàmeccanica si trovava a un livello relativamente basso. Ilcarbone fossile veniva impiegato solo in piccole quanti-tà, per la lavorazione del ferro; lo zolfo ch’esso svilupparendeva il ferro troppo friabile. Le fornaci erano ancoraassai primitive, benchè l’aumento dei mulini ad acqua ea vento faccia pensare al mantice, conosciuto in Egitto enella Siria e usato dai fabbri africani indigeni, che neavevano certo imparato l’uso dagli Egiziani. Le piccolefucine si moltiplicavano intanto nell’Europa Centrale,dovunque si trovassero minerale grezzo, legna e acqua,e si cominciava persino a esportare il ferro in piccolequantità. Milano, Pavia e Venezia in Italia; la Biscaglia,Toledo e Valencia in Spagna; il Delfinato, la Linguado-ca, la Lorena in Francia; la Stiria in Germania, e moltialtri luoghi ancora erano famosi a quei tempi per le loroindustrie del ferro e dell’acciaio. Nessun dubbio che larichiesta del ferro aumentasse quanto quella per i tessili;così la tecnica della produzione migliorava a poco a

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poco, perchè le piccole officine principiavano a riunirsisotto una primitiva forma di amministrazione capitalisti-ca. Tutto ciò fa pensare a una specie di congiuntura, chedoveva trovare la sua espressione definitiva in nuove in-venzioni.

Durante i 28 anni del regno di Edoardo III (1312-39)l’esportazione del ferro, sia di origine nazionale che im-portato, era proibita sotto pena di confisca o di una mul-ta pari al doppio del valore. Il prezzo del ferro crescevarapidamente, e molti di coloro che ne possedevano era-no sospettati di ciò che oggi diremmo incettamento. Difatto, la richiesta sorpassava la produzione; l’uomo ave-va trovato un nuovo uso per il ferro: la fusione dei can-noni. Donde, dato che tutti i governi si affrettavano aprovvedersi di cannoni, l’alto prezzo del metallo. Neisecoli XVI e XVII la richiesta del ferro per i cannoni, learmi e le costruzioni navali, aumentò tanto che l’Inghil-terra (e così, probabilmente, molte altre nazioni) sac-cheggiò le sue foreste, e permise financo la libera im-portazione di ferro grezzo e di legna per il carbonedell’Irlanda, distruggendo così le bellissime selve diquesta terra, che tanto utili sarebbero state per le navi.Al principio del XVIII secolo, l’Inghilterra permettevaalle sue colonie della Nuova Inghilterra l’importazionedi ferro grezzo, ma proibì i laminatoi e le fucine chefunzionassero a turbine. Il ferro veniva importato dallaSvezia, dalla Spagna, e più tardi dalla Russia, ma mal-grado tutti questi espedienti, già prima del XVII secolol’industria cominciò a languire per mancanza di combu-

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poco, perchè le piccole officine principiavano a riunirsisotto una primitiva forma di amministrazione capitalisti-ca. Tutto ciò fa pensare a una specie di congiuntura, chedoveva trovare la sua espressione definitiva in nuove in-venzioni.

Durante i 28 anni del regno di Edoardo III (1312-39)l’esportazione del ferro, sia di origine nazionale che im-portato, era proibita sotto pena di confisca o di una mul-ta pari al doppio del valore. Il prezzo del ferro crescevarapidamente, e molti di coloro che ne possedevano era-no sospettati di ciò che oggi diremmo incettamento. Difatto, la richiesta sorpassava la produzione; l’uomo ave-va trovato un nuovo uso per il ferro: la fusione dei can-noni. Donde, dato che tutti i governi si affrettavano aprovvedersi di cannoni, l’alto prezzo del metallo. Neisecoli XVI e XVII la richiesta del ferro per i cannoni, learmi e le costruzioni navali, aumentò tanto che l’Inghil-terra (e così, probabilmente, molte altre nazioni) sac-cheggiò le sue foreste, e permise financo la libera im-portazione di ferro grezzo e di legna per il carbonedell’Irlanda, distruggendo così le bellissime selve diquesta terra, che tanto utili sarebbero state per le navi.Al principio del XVIII secolo, l’Inghilterra permettevaalle sue colonie della Nuova Inghilterra l’importazionedi ferro grezzo, ma proibì i laminatoi e le fucine chefunzionassero a turbine. Il ferro veniva importato dallaSvezia, dalla Spagna, e più tardi dalla Russia, ma mal-grado tutti questi espedienti, già prima del XVII secolol’industria cominciò a languire per mancanza di combu-

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stibile: legna, o carbone di legna, che come già abbiamodetto, allora era giudicato indispensabile per la lavora-zione del ferro.

Dud Dudley nacque nel 1599 nel Worcestershire emorì nel 1684. Ottantacinque anni di vita sono lunghi;ma non furono lunghi abbastanza per convincere unamassa stupida ed egoista che il coke (il carbone fossile ominerale) era un combustibile migliore e più a buonmercato per fondere il ferro. Dud Dudley era l’undicesi-mo dei figli illegittimi di Lord Dudley e di una stessamadre, la quale nel Libro di Araldica del 1663 è desi-gnata dallo stesso Dudley quale «Elisabetta, figlia diWilliam Tomielson, di Dudley, concubina di Lord Dud-ley».

Non pago di questi onori famigliari, Dud Dudley in-ventò un procedimento che permetteva l’uso del coke, enon più del carbone di legna, per fondere il ferro grezzo.Nel 1620, suo padre prese il brevetto per questa inven-zione. Sembra che già prima d’allora un certo SimonSturtevant avesse preso un brevetto consimile in Germa-nia, per un sistema che non si rivelò pratico; e forseDudley non lo ignorava.

Nel 1621, una grande inondazione distruggeva la pri-ma fornace di Dudley con soddisfazione di tutti gli as-sertori del carbone di legna, i quali si affrettarono ad as-serire che il ferro di Dudley, ottenuto col coke, era infe-riore a quello ottenuto col carbone di legna. Intanto,questo andava sempre più scarseggiando. Eppure, nes-suno fuorchè Dudley si persuadeva ad adoperare il coke.

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stibile: legna, o carbone di legna, che come già abbiamodetto, allora era giudicato indispensabile per la lavora-zione del ferro.

Dud Dudley nacque nel 1599 nel Worcestershire emorì nel 1684. Ottantacinque anni di vita sono lunghi;ma non furono lunghi abbastanza per convincere unamassa stupida ed egoista che il coke (il carbone fossile ominerale) era un combustibile migliore e più a buonmercato per fondere il ferro. Dud Dudley era l’undicesi-mo dei figli illegittimi di Lord Dudley e di una stessamadre, la quale nel Libro di Araldica del 1663 è desi-gnata dallo stesso Dudley quale «Elisabetta, figlia diWilliam Tomielson, di Dudley, concubina di Lord Dud-ley».

Non pago di questi onori famigliari, Dud Dudley in-ventò un procedimento che permetteva l’uso del coke, enon più del carbone di legna, per fondere il ferro grezzo.Nel 1620, suo padre prese il brevetto per questa inven-zione. Sembra che già prima d’allora un certo SimonSturtevant avesse preso un brevetto consimile in Germa-nia, per un sistema che non si rivelò pratico; e forseDudley non lo ignorava.

Nel 1621, una grande inondazione distruggeva la pri-ma fornace di Dudley con soddisfazione di tutti gli as-sertori del carbone di legna, i quali si affrettarono ad as-serire che il ferro di Dudley, ottenuto col coke, era infe-riore a quello ottenuto col carbone di legna. Intanto,questo andava sempre più scarseggiando. Eppure, nes-suno fuorchè Dudley si persuadeva ad adoperare il coke.

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Sotto il regno di Giacomo I (il nemico del tabacco) imonopoli, fuorchè quelli di Sua Maestà, erano diventatiimpopolari. Così i proprietari delle fornaci rivolsero alParlamento una petizione per far dichiarare il brevetto diDudley un monopolio e quindi abolirlo. In parte vi riu-scirono: il brevetto fu ridotto a un periodo di quattordicianni. I proprietari di fornaci iniziarono quindi controDudley una serie di persecuzioni che gli causarono graviimbarazzi finanziari. Egli perdette una fornace a Card-ley e si trasferì a Himley; e fu costretto a vendere il suoferro ai competitori, al prezzo fissato da questi, perchènon possedeva capitali per costruire una ferriera, in cuilavorare il suo materiale. Come arrivasse a mettere inpiedi altre fornaci rimase un mistero; ma sta di fatto chepoco dopo era proprietario di una fornace tutta in pietra,larga 27 piedi quadrati, con un immenso mantice; laquale produceva sette tonnellate di ferro alla settimana,una quantità enorme e più di quanto ogni singola offici-na avesse mai prodotto fino allora. La cosa era seria:sette tonnellate di ferro alla settimana, nell’Inghilterranel XVII secolo, rappresentavano una «superproduzio-ne». Gli uomini d’affari non potevano ormai fidare sulleinondazioni, nè ricorrere al Parlamento contro le idee diDudley; era tempo di agire più energicamente. Così so-billarono una folla, la quale distrusse l’officina e sabotòil gran mantice di cuoio facendolo a pezzi. Alcuni pro-cessi fecero il resto: Dud Dudley, quarto figlio di un no-bile Lord, venne rinchiuso nella prigione per debiti e gliassertori del carbone di legna ebbero qualche anno di re-

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Sotto il regno di Giacomo I (il nemico del tabacco) imonopoli, fuorchè quelli di Sua Maestà, erano diventatiimpopolari. Così i proprietari delle fornaci rivolsero alParlamento una petizione per far dichiarare il brevetto diDudley un monopolio e quindi abolirlo. In parte vi riu-scirono: il brevetto fu ridotto a un periodo di quattordicianni. I proprietari di fornaci iniziarono quindi controDudley una serie di persecuzioni che gli causarono graviimbarazzi finanziari. Egli perdette una fornace a Card-ley e si trasferì a Himley; e fu costretto a vendere il suoferro ai competitori, al prezzo fissato da questi, perchènon possedeva capitali per costruire una ferriera, in cuilavorare il suo materiale. Come arrivasse a mettere inpiedi altre fornaci rimase un mistero; ma sta di fatto chepoco dopo era proprietario di una fornace tutta in pietra,larga 27 piedi quadrati, con un immenso mantice; laquale produceva sette tonnellate di ferro alla settimana,una quantità enorme e più di quanto ogni singola offici-na avesse mai prodotto fino allora. La cosa era seria:sette tonnellate di ferro alla settimana, nell’Inghilterranel XVII secolo, rappresentavano una «superproduzio-ne». Gli uomini d’affari non potevano ormai fidare sulleinondazioni, nè ricorrere al Parlamento contro le idee diDudley; era tempo di agire più energicamente. Così so-billarono una folla, la quale distrusse l’officina e sabotòil gran mantice di cuoio facendolo a pezzi. Alcuni pro-cessi fecero il resto: Dud Dudley, quarto figlio di un no-bile Lord, venne rinchiuso nella prigione per debiti e gliassertori del carbone di legna ebbero qualche anno di re-

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spiro.Ma Carlo I graziò Dudley; e questo, formata una so-

cietà con Sir Giorgio Horsey, David Ramsey e RalphFaulke, riprese a produrre ferro sempre più a buon mer-cato. Ma ancora una volta la fortuna assistè i suoi nemi-ci. Venne la rivoluzione in cui Re Carlo perdette la testa,cosa di relativa importanza. Ma l’Inghilterra perdette ilsuo primo ispirato produttore di ferro, e ciò era impor-tante. Egli divenne colonnello dei Dragoni e poi genera-le di artiglieria a servizio del Principe Maurizio, per ilquale fuse anche alcuni piccoli cannoni. Nel 1660 i tem-pi tornarono a mutare, col buon Carlo II sul tronod’Inghilterra. Ad esso Dudley ricorse per un nuovo bre-vetto che gli permettesse di fondere il ferro col coke. Alche il grazioso sovrano replicò concedendo la patente alsuo amico colonnello Rogers, il quale non era in gradodi fondere il ferro nè col coke nè con altri sistemi.

Poco prima delle alterne vicende dello sfortunatoDudley, nelle fornaci tedesche era stato sperimentato unnuovo tipo di tiraggio, parente senza alcun dubbio deltipo catalano ancor più antico. Per mezzo di un mulino avento, l’acqua veniva sollevata e cadeva entro una va-sca, dalla quale un condotto conduceva ad uno spazio si-tuato sotto il fuoco della fornace. Dalla parte opposta,per un altro foro un poco più basso usciva l’acqua, il cuilivello non arrivava mai al foro che immetteva al con-dotto; ma la pressione dell’acqua spingeva una costantecorrente d’aria sotto il fuoco, creando così una tempera-tura più alta per la fusione del metallo.

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spiro.Ma Carlo I graziò Dudley; e questo, formata una so-

cietà con Sir Giorgio Horsey, David Ramsey e RalphFaulke, riprese a produrre ferro sempre più a buon mer-cato. Ma ancora una volta la fortuna assistè i suoi nemi-ci. Venne la rivoluzione in cui Re Carlo perdette la testa,cosa di relativa importanza. Ma l’Inghilterra perdette ilsuo primo ispirato produttore di ferro, e ciò era impor-tante. Egli divenne colonnello dei Dragoni e poi genera-le di artiglieria a servizio del Principe Maurizio, per ilquale fuse anche alcuni piccoli cannoni. Nel 1660 i tem-pi tornarono a mutare, col buon Carlo II sul tronod’Inghilterra. Ad esso Dudley ricorse per un nuovo bre-vetto che gli permettesse di fondere il ferro col coke. Alche il grazioso sovrano replicò concedendo la patente alsuo amico colonnello Rogers, il quale non era in gradodi fondere il ferro nè col coke nè con altri sistemi.

Poco prima delle alterne vicende dello sfortunatoDudley, nelle fornaci tedesche era stato sperimentato unnuovo tipo di tiraggio, parente senza alcun dubbio deltipo catalano ancor più antico. Per mezzo di un mulino avento, l’acqua veniva sollevata e cadeva entro una va-sca, dalla quale un condotto conduceva ad uno spazio si-tuato sotto il fuoco della fornace. Dalla parte opposta,per un altro foro un poco più basso usciva l’acqua, il cuilivello non arrivava mai al foro che immetteva al con-dotto; ma la pressione dell’acqua spingeva una costantecorrente d’aria sotto il fuoco, creando così una tempera-tura più alta per la fusione del metallo.

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I due avvenimenti più importanti che occorsero tra ilXIV e il XVIII secolo furono questo «tiraggio ad acqua»che abbiamo or ora descritto e la costruzione in Norve-gia di altiforni in pietra e mattoni, di un’altezza che rag-giungeva spesso i dieci metri, alimentati a carbone di le-gna. Gli effetti, piuttosto che nella novità, si rivelaronoin una maggiore intensità di produzione.

Un fatto è certo: dal XIV secolo in poi vediamo sor-gere una maggiore richiesta di ferro. La guerra può averdeterminato in parte tale necessità; ma commercio e in-dustrie competevano con la guerra per la loro parte dimetallo. Questa età sembra veramente segnare il princi-pio dei grandi armamenti e della costruzione di navi. Ilferro era una fonte di cospicui guadagni. La richiesta ri-maneva costantemente superiore ai ristretti metodi diproduzione tuttora adeguati a una civiltà statica. L’avve-nire dell’industria stava tutto nella direzione, nell’orga-nizzazione industriale e in una intensificazione produtti-va. Qui assistiamo per la prima volta a un controllocommerciale proveniente dall’estero e motivato dalle ri-chieste del mercato: in altre parole, nasce la moderna ef-ficienza. Il prodotto viene esitato fuor del paese di pro-duzione; i profitti non sono di uso immediato. Nasce lacompetizione e quindi lo sforzo per pareggiare o ridurrele spese di produzione.

Da un po’ di tempo a questa parte la comoda teoriadel «genio» quale spiegazione per un’invenzione, ha su-bìto qualche colpo. C’è una tendenza generale a studiarel’ambiente, i contributi recati da certe condizioni stori-

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I due avvenimenti più importanti che occorsero tra ilXIV e il XVIII secolo furono questo «tiraggio ad acqua»che abbiamo or ora descritto e la costruzione in Norve-gia di altiforni in pietra e mattoni, di un’altezza che rag-giungeva spesso i dieci metri, alimentati a carbone di le-gna. Gli effetti, piuttosto che nella novità, si rivelaronoin una maggiore intensità di produzione.

Un fatto è certo: dal XIV secolo in poi vediamo sor-gere una maggiore richiesta di ferro. La guerra può averdeterminato in parte tale necessità; ma commercio e in-dustrie competevano con la guerra per la loro parte dimetallo. Questa età sembra veramente segnare il princi-pio dei grandi armamenti e della costruzione di navi. Ilferro era una fonte di cospicui guadagni. La richiesta ri-maneva costantemente superiore ai ristretti metodi diproduzione tuttora adeguati a una civiltà statica. L’avve-nire dell’industria stava tutto nella direzione, nell’orga-nizzazione industriale e in una intensificazione produtti-va. Qui assistiamo per la prima volta a un controllocommerciale proveniente dall’estero e motivato dalle ri-chieste del mercato: in altre parole, nasce la moderna ef-ficienza. Il prodotto viene esitato fuor del paese di pro-duzione; i profitti non sono di uso immediato. Nasce lacompetizione e quindi lo sforzo per pareggiare o ridurrele spese di produzione.

Da un po’ di tempo a questa parte la comoda teoriadel «genio» quale spiegazione per un’invenzione, ha su-bìto qualche colpo. C’è una tendenza generale a studiarel’ambiente, i contributi recati da certe condizioni stori-

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che, invece di spiegare certe complesse invenzioni sullasola base di un inesplicabile scoppio di virtuosità intel-lettuale. L’inventore è raramente il genitore; più comu-nemente egli è l’individuo il quale sa utilizzare felice-mente le idee altrui. Tale era Abramo Darby, l’uomo chesalvò l’industria del ferro in Inghilterra e il suo posto alsole. In origine, egli era una specie di calderaioall’ingrosso, il quale, prosperando i suoi affari, necessi-tava di un combustibile più a buon mercato del carbonedi legna per fondere il suo ferro. L’Inghilterra, scorag-giando i tentativi di Dudley, aveva ripudiato il coke e ungenio. Essa accettò il coke per l’intromissione di unuomo pratico, un uomo d’affari, il quale cercava di ri-solvere un problema industriale di ordinaria amministra-zione.

Nel suo Viaggio in Inghilterra, Daniel Defoe, parlan-do delle vaste foreste del suo Paese, trova risibile l’ideache esso venga mai a mancare di carbone o di legname,poco importa quanto ferro si fonda o quante grandiosenavi si costruiscano. Daniel non aveva alcuna idea di of-fendere l’alta borghesia inglese, così insinuando chel’Inghilterra potesse mai venire a mancar di qualcosa. Ilmondo camminava avanti, e non indietro. Ma anche og-gigiorno c’è chi ride all’idea che il mondo possa maitrovarsi a corto di petrolio, carbone o ferro.

Ma nel 1676, intanto, si faceva un gran parlare dellemolte miniere che si andavano chiudendo nel Sussex,nel Kent, nel Surrey e altrove, perchè il ferro venivaall’Inghilterra da altri paesi che avevano maggior ab-

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che, invece di spiegare certe complesse invenzioni sullasola base di un inesplicabile scoppio di virtuosità intel-lettuale. L’inventore è raramente il genitore; più comu-nemente egli è l’individuo il quale sa utilizzare felice-mente le idee altrui. Tale era Abramo Darby, l’uomo chesalvò l’industria del ferro in Inghilterra e il suo posto alsole. In origine, egli era una specie di calderaioall’ingrosso, il quale, prosperando i suoi affari, necessi-tava di un combustibile più a buon mercato del carbonedi legna per fondere il suo ferro. L’Inghilterra, scorag-giando i tentativi di Dudley, aveva ripudiato il coke e ungenio. Essa accettò il coke per l’intromissione di unuomo pratico, un uomo d’affari, il quale cercava di ri-solvere un problema industriale di ordinaria amministra-zione.

Nel suo Viaggio in Inghilterra, Daniel Defoe, parlan-do delle vaste foreste del suo Paese, trova risibile l’ideache esso venga mai a mancare di carbone o di legname,poco importa quanto ferro si fonda o quante grandiosenavi si costruiscano. Daniel non aveva alcuna idea di of-fendere l’alta borghesia inglese, così insinuando chel’Inghilterra potesse mai venire a mancar di qualcosa. Ilmondo camminava avanti, e non indietro. Ma anche og-gigiorno c’è chi ride all’idea che il mondo possa maitrovarsi a corto di petrolio, carbone o ferro.

Ma nel 1676, intanto, si faceva un gran parlare dellemolte miniere che si andavano chiudendo nel Sussex,nel Kent, nel Surrey e altrove, perchè il ferro venivaall’Inghilterra da altri paesi che avevano maggior ab-

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bondanza di carbone di legna e di foreste per produrlo.Che cosa avrebbe fatto l’Inghilterra in caso di guerra?Tra il 1720 e il 1730, nella Foresta di Dean non erano ri-maste in attività che dieci fornaci. Verso la metà delXVIII secolo le fornaci inglesi producevano appena17.000 tonnellate di ferro e ne importavano dall’esterocirca 50.000.

Nel 1700 Darby, quacquero per vocazione e contadi-no per forza di circostanze, cominciò a fabbricare pento-le di ferro servendosi dei vecchi sistemi col carbone alegna. Sembra che sulle prime le sue pentole fossero diqualità assai più scadente di quelle importate dal Conti-nente. Il saggio uomo si recò dunque in Olanda, donderitornò con buone cognizioni tecniche e anche con alcu-ni ottimi operai dell’illuminato paese delle dighe. Nel1708 gli veniva concesso un brevetto, nel quale si fa ungran parlare di pentole di ferro, ma non di coke. Vi si at-testa come l’onesto Abramo Darby, della città di Bristol,avesse trovato e perfezionato un sistema per fonderepentole e altri recipienti di ferro entro forme di sabbia,senza marna o argilla, con gran vantaggio economico,anche perchè egli era così in grado di procurare un pro-dotto a buon mercato e alla portata di tutte le borse, an-che le più modeste, del Regno Unito.

Gli affari prosperavano, ma il carbone di legna erasempre caro e diventava più e più scarso. Altri fonditoribrontolavano e si lamentavano di concorrenza estera. Iconsumatori di ferro brontolavano ancor più forte sulcosto del ferro inglese fuso con carbone di legna. Ma

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bondanza di carbone di legna e di foreste per produrlo.Che cosa avrebbe fatto l’Inghilterra in caso di guerra?Tra il 1720 e il 1730, nella Foresta di Dean non erano ri-maste in attività che dieci fornaci. Verso la metà delXVIII secolo le fornaci inglesi producevano appena17.000 tonnellate di ferro e ne importavano dall’esterocirca 50.000.

Nel 1700 Darby, quacquero per vocazione e contadi-no per forza di circostanze, cominciò a fabbricare pento-le di ferro servendosi dei vecchi sistemi col carbone alegna. Sembra che sulle prime le sue pentole fossero diqualità assai più scadente di quelle importate dal Conti-nente. Il saggio uomo si recò dunque in Olanda, donderitornò con buone cognizioni tecniche e anche con alcu-ni ottimi operai dell’illuminato paese delle dighe. Nel1708 gli veniva concesso un brevetto, nel quale si fa ungran parlare di pentole di ferro, ma non di coke. Vi si at-testa come l’onesto Abramo Darby, della città di Bristol,avesse trovato e perfezionato un sistema per fonderepentole e altri recipienti di ferro entro forme di sabbia,senza marna o argilla, con gran vantaggio economico,anche perchè egli era così in grado di procurare un pro-dotto a buon mercato e alla portata di tutte le borse, an-che le più modeste, del Regno Unito.

Gli affari prosperavano, ma il carbone di legna erasempre caro e diventava più e più scarso. Altri fonditoribrontolavano e si lamentavano di concorrenza estera. Iconsumatori di ferro brontolavano ancor più forte sulcosto del ferro inglese fuso con carbone di legna. Ma

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Darby sapeva il fatto suo. Non c’è dubbio che egli aves-se studiato assai bene i tentativi di Dudley con il coke.Oltre a essere uomo intelligente, egli disponeva di capi-tali; e tra il 1730 e il 1735 perfezionò una fornace acoke. L’origine dei guai di Dudley non era il coke, ma itempi e gli uomini avversi. Darby, industriale avvedutoed energico, seppe tener testa ai guai, o evitarli; e gettòle basi di un’industria fiorente e redditizia.

Per la sua fornace a coke, egli aveva bisogno di unmaggior tiraggio e di una temperatura più alta in propor-zione di ogni libbra di combustibile. Fece dunque fun-zionare grandi mantici per mezzo di una turbina ad ac-qua. Il suo intento non era già di «salvare le industriebritanniche», ma di produrre ferro a miglior mercato, af-finchè le sue pentole gli fruttassero danaro sonante; e viriuscì. Nel 1754, inaugurava la sua prima fornace nuovae più grande, la quale era in grado di produrre da 22 a23 tonnellate di ferro la settimana (il povero Dudley eraarrivato a sette!) che venivano esitate con ottimo profit-to.

Con questi profitti, in seguito egli metteva in efficien-za ben sette fornaci. Fu uomo d’affari capace, energico,onesto e avveduto; di quella razza che fa progredire ilmondo, e più tardi fonda borse di studio e acquista col-lezioni d’arte e si atteggia a mecenate.

Per dare un’idea di ciò che lo sviluppo della fornace acoke significava per la produzione metallurgicadell’Inghilterra e del mondo intero, trascriviamo qui latabella di Watkin, la quale comprende un periodo di 85

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Darby sapeva il fatto suo. Non c’è dubbio che egli aves-se studiato assai bene i tentativi di Dudley con il coke.Oltre a essere uomo intelligente, egli disponeva di capi-tali; e tra il 1730 e il 1735 perfezionò una fornace acoke. L’origine dei guai di Dudley non era il coke, ma itempi e gli uomini avversi. Darby, industriale avvedutoed energico, seppe tener testa ai guai, o evitarli; e gettòle basi di un’industria fiorente e redditizia.

Per la sua fornace a coke, egli aveva bisogno di unmaggior tiraggio e di una temperatura più alta in propor-zione di ogni libbra di combustibile. Fece dunque fun-zionare grandi mantici per mezzo di una turbina ad ac-qua. Il suo intento non era già di «salvare le industriebritanniche», ma di produrre ferro a miglior mercato, af-finchè le sue pentole gli fruttassero danaro sonante; e viriuscì. Nel 1754, inaugurava la sua prima fornace nuovae più grande, la quale era in grado di produrre da 22 a23 tonnellate di ferro la settimana (il povero Dudley eraarrivato a sette!) che venivano esitate con ottimo profit-to.

Con questi profitti, in seguito egli metteva in efficien-za ben sette fornaci. Fu uomo d’affari capace, energico,onesto e avveduto; di quella razza che fa progredire ilmondo, e più tardi fonda borse di studio e acquista col-lezioni d’arte e si atteggia a mecenate.

Per dare un’idea di ciò che lo sviluppo della fornace acoke significava per la produzione metallurgicadell’Inghilterra e del mondo intero, trascriviamo qui latabella di Watkin, la quale comprende un periodo di 85

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anni, cioè, dal 1740 al 1825.ANNI TONNELLATE

1740. Ferro prodotto con carbonedi legna 59 17.350

1788. Ferro prodotto con carbonedi legna

24 13.100

Carbon fossile 53 48.8001796. Carbon fossile 121 124.879

Carbone a legna 01802. Coke (carbon fossile) 168 170.0001806. Coke (carbon fossile) 227 250.0001825. Coke (carbon fossile) 305 600.000

Recentemente abbiamo potuto esaminare la Enciclo-pedia delle Arti Industriali, pubblicata a cura di CharlesTomlinson nel 1852, in cui è descritta l’esposizione del1851 al Palazzo di Cristallo, all’epoca nella quale la Ri-voluzione Industriale sembrava toccare il culminedell’ascesa. L’introduzione contiene un interessante edelegante studio sull’opera industriale di tutte le nazioni,quale appare dalla Grande Esposizione. Ricorderemoche il Palazzo di Cristallo – distrutto recentemente da ungrande incendio – fu il primo edificio nel quale travi diferro e vetro trovassero l’uso rispondente ai dettami del-la moderna edilizia.

Dai commenti che si leggono nei volumi dell’Enci-

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anni, cioè, dal 1740 al 1825.ANNI TONNELLATE

1740. Ferro prodotto con carbonedi legna 59 17.350

1788. Ferro prodotto con carbonedi legna

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Carbon fossile 53 48.8001796. Carbon fossile 121 124.879

Carbone a legna 01802. Coke (carbon fossile) 168 170.0001806. Coke (carbon fossile) 227 250.0001825. Coke (carbon fossile) 305 600.000

Recentemente abbiamo potuto esaminare la Enciclo-pedia delle Arti Industriali, pubblicata a cura di CharlesTomlinson nel 1852, in cui è descritta l’esposizione del1851 al Palazzo di Cristallo, all’epoca nella quale la Ri-voluzione Industriale sembrava toccare il culminedell’ascesa. L’introduzione contiene un interessante edelegante studio sull’opera industriale di tutte le nazioni,quale appare dalla Grande Esposizione. Ricorderemoche il Palazzo di Cristallo – distrutto recentemente da ungrande incendio – fu il primo edificio nel quale travi diferro e vetro trovassero l’uso rispondente ai dettami del-la moderna edilizia.

Dai commenti che si leggono nei volumi dell’Enci-

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clopedia si potrà, entro certi limiti, dedurre quali passiabbia fatto l’elettricità, dalla pubblicazione dell’opera edall’Esposizione del Palazzo di Cristallo in poi. Dicias-sette anni prima, Michele Faraday aveva compiuto isuoi definitivi esperimenti sulle correnti indotte, i qualiprovavano che elettricità e magnetismo sono una mede-sima forza. Dietro a questo strano garzone tipografo, ilquale, non contento di rilegare manuali di scienza, sidava anche la briga di leggerli, si estendevano genera-zioni di esperimenti con l’elettricità, in Italia, in Francia,in Germania, fin su ai Greci. Eppure, ecco il commentosull’elettricità, in quest’opera pubblicata nel 1852:

«L’applicazione di parafulmini a edifici come a navi,nell’intento di proteggerli dai disastrosi effetti dei tem-porali, è ragione sufficiente perchè in un’opera sulleArti Industriali trovi posto un paragrafo sui principî diquesta bellissima scienza, tanto da porre il lettore in gra-do di apprezzare questo mezzo protettivo...».

Segue quindi una «dissertazione» sul telegrafo, da unpunto di vista alquanto britannico; poche parolesull’elettro-metallurgia e sulle macchine elettro-magne-tiche, ed è tutto. L’Enciclopedia è assai più esauriente inmerito alla fabbricazione delle candele steariche, chenon sull’elettricità. Eppure, si calcola che, fino a oggi, isoli brevetti per le invenzioni e applicazioni di Edisonabbiano reso un giro di denaro che s’aggira attorno aicento bilioni di lire; applicazioni e invenzioni che risal-gono agli esperimenti di ben altri grandi, quali Galvani,Volta, Faraday; esperimenti che avrebbero potuto trovar

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clopedia si potrà, entro certi limiti, dedurre quali passiabbia fatto l’elettricità, dalla pubblicazione dell’opera edall’Esposizione del Palazzo di Cristallo in poi. Dicias-sette anni prima, Michele Faraday aveva compiuto isuoi definitivi esperimenti sulle correnti indotte, i qualiprovavano che elettricità e magnetismo sono una mede-sima forza. Dietro a questo strano garzone tipografo, ilquale, non contento di rilegare manuali di scienza, sidava anche la briga di leggerli, si estendevano genera-zioni di esperimenti con l’elettricità, in Italia, in Francia,in Germania, fin su ai Greci. Eppure, ecco il commentosull’elettricità, in quest’opera pubblicata nel 1852:

«L’applicazione di parafulmini a edifici come a navi,nell’intento di proteggerli dai disastrosi effetti dei tem-porali, è ragione sufficiente perchè in un’opera sulleArti Industriali trovi posto un paragrafo sui principî diquesta bellissima scienza, tanto da porre il lettore in gra-do di apprezzare questo mezzo protettivo...».

Segue quindi una «dissertazione» sul telegrafo, da unpunto di vista alquanto britannico; poche parolesull’elettro-metallurgia e sulle macchine elettro-magne-tiche, ed è tutto. L’Enciclopedia è assai più esauriente inmerito alla fabbricazione delle candele steariche, chenon sull’elettricità. Eppure, si calcola che, fino a oggi, isoli brevetti per le invenzioni e applicazioni di Edisonabbiano reso un giro di denaro che s’aggira attorno aicento bilioni di lire; applicazioni e invenzioni che risal-gono agli esperimenti di ben altri grandi, quali Galvani,Volta, Faraday; esperimenti che avrebbero potuto trovar

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posto su un modesto tavolo di laboratorio, e la cui teoriaoccuperebbe poche pagine della misura di quelle che inostri lettori stanno leggendo ora.

L’esposizione del Palazzo di Cristallo nel 1852 glori-fica la seconda e ultima Età del Ferro. L’edificio eragrandioso, geniale, e precorreva di molto i tempi. Di fat-to, poche sono le opere che nella nostra moderna edili-zia potrebbero starvi a confronto; da pochi anni soltantosi cominciava a usare il vetro quale parte preponderantedell’edificio. A maggior ragione stupiva tanta audacia inun’epoca di navi e ponti e macchine di ferro, in cuil’acciaio non entrava che in minima parte, ed era ancoraconsiderato, quasi, un metallo di lusso.

Eppure, anche all’acciaio puro, essenziale alle nostrerapide e potenti macchine, l’Enciclopedia rende onore.Il molibdeno e l’iridio, il cromio e il nichelio erano notiallora agli scienziati, ma non ancora introdotti nelle in-dustrie: «La durezza dell’acciaio aumenta grandementequando esso è fuso insieme a piccole quantità di platino,di rodio d’argento o di iridio; ma queste leghe non sonoancora state sperimentate per usi industriali».

L’immensa importanza dell’impiego del coke nellafusione del ferro sarà confermata da alcune statistiche.Nel 1825, le fornaci inglesi a coke producevano 600.000tonnellate di carbone. Nel 1851 la produzione avevaraggiunto 2.500.000 tonnellate, ma solo 18.000 tonnel-late d’acciaio, ottenuto in gran parte con ferro svedese; einvece di importare tre terzi del suo fabbisogno, come inpassato, l’Inghilterra esportava la metà circa della sua

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posto su un modesto tavolo di laboratorio, e la cui teoriaoccuperebbe poche pagine della misura di quelle che inostri lettori stanno leggendo ora.

L’esposizione del Palazzo di Cristallo nel 1852 glori-fica la seconda e ultima Età del Ferro. L’edificio eragrandioso, geniale, e precorreva di molto i tempi. Di fat-to, poche sono le opere che nella nostra moderna edili-zia potrebbero starvi a confronto; da pochi anni soltantosi cominciava a usare il vetro quale parte preponderantedell’edificio. A maggior ragione stupiva tanta audacia inun’epoca di navi e ponti e macchine di ferro, in cuil’acciaio non entrava che in minima parte, ed era ancoraconsiderato, quasi, un metallo di lusso.

Eppure, anche all’acciaio puro, essenziale alle nostrerapide e potenti macchine, l’Enciclopedia rende onore.Il molibdeno e l’iridio, il cromio e il nichelio erano notiallora agli scienziati, ma non ancora introdotti nelle in-dustrie: «La durezza dell’acciaio aumenta grandementequando esso è fuso insieme a piccole quantità di platino,di rodio d’argento o di iridio; ma queste leghe non sonoancora state sperimentate per usi industriali».

L’immensa importanza dell’impiego del coke nellafusione del ferro sarà confermata da alcune statistiche.Nel 1825, le fornaci inglesi a coke producevano 600.000tonnellate di carbone. Nel 1851 la produzione avevaraggiunto 2.500.000 tonnellate, ma solo 18.000 tonnel-late d’acciaio, ottenuto in gran parte con ferro svedese; einvece di importare tre terzi del suo fabbisogno, come inpassato, l’Inghilterra esportava la metà circa della sua

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produzione. Oltre a ciò, esportava i prodotti del ferro;lastre di stagno, chincaglierie, coltellerie e macchinario,per un valore annuo di 10.424.139 lire sterline. Restava-no inoltre da considerare le sue navi, e le reti ferroviarieche cominciavano a estendersi. Il quacquero AbramoDarby, nel fare il proprio interesse, non aveva certo fattotorto alla madre-patria.

Ma la seconda Età del Ferro non durò a lungo.All’Esposizione del Palazzo di Cristallo, Henry Besse-mer esponeva un torchio brevettato per la canna da zuc-chero. Nella citata Enciclopedia se ne trova un disegno,così qualificato: «No. 2095 – Torchio per canna da zuc-chero di Bessemer». Gli venne assegnato un diploma.Benchè modificato e perfezionato, è ancora in uso. Manessuno avrebbe immaginato allora che questo abile di-segnatore meccanico sarebbe stato l’uomo il qualeavrebbe pòsto fine all’Età del Ferro per instaurare l’Etàdell’Acciaio, e portare la Rivoluzione Industriale al suosecondo culmine di meccanica perfezione.

Il signore dell’Età dell’Acciaio nacque in un piccolovillaggio dell’Hertfordshire, figlio di un fabbricante dicatene d’oro e di punzoni d’acciaio. Sembra che Besse-mer (più tardi Sir Henry) sia stato sin da principio unuomo ingegnoso; ecco che subito egli fa rilevare al go-verno inglese un difetto nella stampa delle marche dabollo che rendeva relativamente facile la contraffazione;e suggerisce un mezzo per correggere il difetto. Da ciòegli passò a creare una macchina per la stampa su vellu-to; invenzione lodevole senza dubbio, ma che recò un

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produzione. Oltre a ciò, esportava i prodotti del ferro;lastre di stagno, chincaglierie, coltellerie e macchinario,per un valore annuo di 10.424.139 lire sterline. Restava-no inoltre da considerare le sue navi, e le reti ferroviarieche cominciavano a estendersi. Il quacquero AbramoDarby, nel fare il proprio interesse, non aveva certo fattotorto alla madre-patria.

Ma la seconda Età del Ferro non durò a lungo.All’Esposizione del Palazzo di Cristallo, Henry Besse-mer esponeva un torchio brevettato per la canna da zuc-chero. Nella citata Enciclopedia se ne trova un disegno,così qualificato: «No. 2095 – Torchio per canna da zuc-chero di Bessemer». Gli venne assegnato un diploma.Benchè modificato e perfezionato, è ancora in uso. Manessuno avrebbe immaginato allora che questo abile di-segnatore meccanico sarebbe stato l’uomo il qualeavrebbe pòsto fine all’Età del Ferro per instaurare l’Etàdell’Acciaio, e portare la Rivoluzione Industriale al suosecondo culmine di meccanica perfezione.

Il signore dell’Età dell’Acciaio nacque in un piccolovillaggio dell’Hertfordshire, figlio di un fabbricante dicatene d’oro e di punzoni d’acciaio. Sembra che Besse-mer (più tardi Sir Henry) sia stato sin da principio unuomo ingegnoso; ecco che subito egli fa rilevare al go-verno inglese un difetto nella stampa delle marche dabollo che rendeva relativamente facile la contraffazione;e suggerisce un mezzo per correggere il difetto. Da ciòegli passò a creare una macchina per la stampa su vellu-to; invenzione lodevole senza dubbio, ma che recò un

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notevole e inutile contributo al cattivo gusto dell’epoca.L’attenzione di Bessemer venne quindi attratta dal fattoche la polvere di bronzo valeva quasi il suo peso in oro.Dopo un esame microscopico del prodotto, e alcuniesperimenti, egli riusciva a perfezionare una macchinaper ottenere la polvere di bronzo. La sua esperienza deimetalli preziosi e della fabbricazione dei punzoni, impa-rata nel laboratorio paterno, gli dava un concetto del va-lore della precisione nelle macchine. Egli era convintoche l’età della forza bruta era tramontata e che stava persorgere quella dell’esattezza, dell’equilibrio e dell’eco-nomia di energia in tutti i campi. Da tempi immemora-bili gli artigiani di Norimberga avevano prodotto la pol-vere di bronzo con gli stessi sistemi con cui gli orafid’Egitto avevano pestato e ridotto in polvere fogli d’oroper i sarcofaghi dei Faraoni. Ancora quel procedimentosi soleva chiamare un mistero. Ma il vero mistero eraBessemer. Tanto scarsa era la sua fiducia nel valore deibrevetti, ch’egli decise di mantenere segreti i propri si-stemi. Ciò significava che nessuno fuorchè lui e suo ge-nero dovevano avere accesso alla macchina. Egli feceaccurati disegni delle parti, deliberatamente mescolò glischizzi e li inviò con minute istruzioni a diverse offici-ne. Nessuna di queste riuscì a cavare da quei disegni al-cun senso utile. La macchina era situata in una stanzapriva di finestre, separata per mezzo d’una parete dallasala dove si trovava il motore. Per un piccolo spiraglio,il prodotto si riversava poi nei carrelli ch’erano lì pronti.Insomma, era una officina come non se n’erano mai vi-

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notevole e inutile contributo al cattivo gusto dell’epoca.L’attenzione di Bessemer venne quindi attratta dal fattoche la polvere di bronzo valeva quasi il suo peso in oro.Dopo un esame microscopico del prodotto, e alcuniesperimenti, egli riusciva a perfezionare una macchinaper ottenere la polvere di bronzo. La sua esperienza deimetalli preziosi e della fabbricazione dei punzoni, impa-rata nel laboratorio paterno, gli dava un concetto del va-lore della precisione nelle macchine. Egli era convintoche l’età della forza bruta era tramontata e che stava persorgere quella dell’esattezza, dell’equilibrio e dell’eco-nomia di energia in tutti i campi. Da tempi immemora-bili gli artigiani di Norimberga avevano prodotto la pol-vere di bronzo con gli stessi sistemi con cui gli orafid’Egitto avevano pestato e ridotto in polvere fogli d’oroper i sarcofaghi dei Faraoni. Ancora quel procedimentosi soleva chiamare un mistero. Ma il vero mistero eraBessemer. Tanto scarsa era la sua fiducia nel valore deibrevetti, ch’egli decise di mantenere segreti i propri si-stemi. Ciò significava che nessuno fuorchè lui e suo ge-nero dovevano avere accesso alla macchina. Egli feceaccurati disegni delle parti, deliberatamente mescolò glischizzi e li inviò con minute istruzioni a diverse offici-ne. Nessuna di queste riuscì a cavare da quei disegni al-cun senso utile. La macchina era situata in una stanzapriva di finestre, separata per mezzo d’una parete dallasala dove si trovava il motore. Per un piccolo spiraglio,il prodotto si riversava poi nei carrelli ch’erano lì pronti.Insomma, era una officina come non se n’erano mai vi-

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ste al mondo.Bessemer, ora, era in grado di vendere il suo prodotto

per una lira sterlina all’oncia, mentre a lui veniva a co-stare all’incirca uno scellino. I Tedeschi, i quali non po-tevano sostenere la concorrenza, cercarono di venire aun accomodamento con lui. Avendo egli rifiutato, tenta-rono di corrompere un operaio che vendesse loro i se-greti di quel tal «mistero»; dopo molte trattative vi riu-scirono, ma a un prezzo esorbitante. Trionfanti se ne ri-tornarono in patria; ma le informazioni pagate a pesod’oro si rivelarono inutili. Il fatto era che l’astuto Besse-mer aveva prevenuto le mene degli altri, e che il «tradi-tore» era uno dei suoi più leali collaboratori.

Bessemer fu, se non il primo, tra i primi inventori acreare un laboratorio moderno con operai specializzati;una delle sue invenzioni lo portò per necessità di cosealla grande invenzione del convertitore d’acciaio. Egliaveva fabbricato un proiettile rigato, destinato, secondolui, a un cannone dalla canna liscia. Il Ministero dellaGuerra glielo rifiutò; e poi, non spettava a un ingegnerecivile suggerire idee nuove al Ministero della Guerra. IFrancesi furono più espliciti, se non meno definitivi: icannoni di ghisa non erano robusti abbastanza per unproiettile simile; e l’acciaio era troppo costoso per i can-noni. E così come Darby s’era servito del coke per pro-durre il ferro a buon mercato, Bessemer fu costretto atrovare un sistema per produrre un acciaio di poco co-sto.

Nell’agosto del 1856, davanti a un pubblico di scien-

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ste al mondo.Bessemer, ora, era in grado di vendere il suo prodotto

per una lira sterlina all’oncia, mentre a lui veniva a co-stare all’incirca uno scellino. I Tedeschi, i quali non po-tevano sostenere la concorrenza, cercarono di venire aun accomodamento con lui. Avendo egli rifiutato, tenta-rono di corrompere un operaio che vendesse loro i se-greti di quel tal «mistero»; dopo molte trattative vi riu-scirono, ma a un prezzo esorbitante. Trionfanti se ne ri-tornarono in patria; ma le informazioni pagate a pesod’oro si rivelarono inutili. Il fatto era che l’astuto Besse-mer aveva prevenuto le mene degli altri, e che il «tradi-tore» era uno dei suoi più leali collaboratori.

Bessemer fu, se non il primo, tra i primi inventori acreare un laboratorio moderno con operai specializzati;una delle sue invenzioni lo portò per necessità di cosealla grande invenzione del convertitore d’acciaio. Egliaveva fabbricato un proiettile rigato, destinato, secondolui, a un cannone dalla canna liscia. Il Ministero dellaGuerra glielo rifiutò; e poi, non spettava a un ingegnerecivile suggerire idee nuove al Ministero della Guerra. IFrancesi furono più espliciti, se non meno definitivi: icannoni di ghisa non erano robusti abbastanza per unproiettile simile; e l’acciaio era troppo costoso per i can-noni. E così come Darby s’era servito del coke per pro-durre il ferro a buon mercato, Bessemer fu costretto atrovare un sistema per produrre un acciaio di poco co-sto.

Nell’agosto del 1856, davanti a un pubblico di scien-

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ziati e di capitani dell’industria, Bessemer immettevacorrenti d’aria, prodotte artificialmente, entro caldaie diferro grezzo in bollore. Se ne sollevò un’alta colonna discintille; poi, dopo un istante di calma, una nuova esplo-sione, un nuovo vulcano. Quelle scintille erano provoca-te dalla combustione di silice, carbonii e altre impurità acontatto con l’ossigeno; e si lasciavano dietro un ferroabbastanza puro per la fabbricazione dell’acciaio.

I convertitori vennero acquistati con entusiasmo. Eragiunta l’età dell’oro, per il ferro! Col sussidio del suotorchio per la canna da zucchero, della polvere di bron-zo e di un proiettile scanalato, Bessemer aveva diminui-to di tre quarti il costo dell’acciaio; e come per incantofaceva sorgere una novella epoca di macchine, conge-gni, strumenti e velocità. Il suo nome era sulle bocche ditutti.

Tanto entusiasmo si raffreddò tuttavia un poco, allor-chè alcuni acquirenti sperimentarono il convertitore conferro contenente fosforo. Esso si rivelò inefficace; e adaccrescer le amarezze, cominciò a spargersi la voce cheBessemer e i suoi amici si fossero assicurati conun’opzione tutto il ferro non contenente fosforo in In-ghilterra e in Ispagna; col risultato che il ferro grezzoadatto ai convertitori di Bessemer valeva ora due voltequello contenente fosforo; ed essendo il procedimentomeno costoso, ciò significava la chiusura di molte for-naci che impiegavano procedimenti diversi.

Ma, mentre fervevano queste controversie, un giova-ne chimico ispirato, P. G. Gilchrist, in società con un

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ziati e di capitani dell’industria, Bessemer immettevacorrenti d’aria, prodotte artificialmente, entro caldaie diferro grezzo in bollore. Se ne sollevò un’alta colonna discintille; poi, dopo un istante di calma, una nuova esplo-sione, un nuovo vulcano. Quelle scintille erano provoca-te dalla combustione di silice, carbonii e altre impurità acontatto con l’ossigeno; e si lasciavano dietro un ferroabbastanza puro per la fabbricazione dell’acciaio.

I convertitori vennero acquistati con entusiasmo. Eragiunta l’età dell’oro, per il ferro! Col sussidio del suotorchio per la canna da zucchero, della polvere di bron-zo e di un proiettile scanalato, Bessemer aveva diminui-to di tre quarti il costo dell’acciaio; e come per incantofaceva sorgere una novella epoca di macchine, conge-gni, strumenti e velocità. Il suo nome era sulle bocche ditutti.

Tanto entusiasmo si raffreddò tuttavia un poco, allor-chè alcuni acquirenti sperimentarono il convertitore conferro contenente fosforo. Esso si rivelò inefficace; e adaccrescer le amarezze, cominciò a spargersi la voce cheBessemer e i suoi amici si fossero assicurati conun’opzione tutto il ferro non contenente fosforo in In-ghilterra e in Ispagna; col risultato che il ferro grezzoadatto ai convertitori di Bessemer valeva ora due voltequello contenente fosforo; ed essendo il procedimentomeno costoso, ciò significava la chiusura di molte for-naci che impiegavano procedimenti diversi.

Ma, mentre fervevano queste controversie, un giova-ne chimico ispirato, P. G. Gilchrist, in società con un

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suo cugino di mente più pratica, certo Thomas, si diedealla soluzione del problema, con ricerche di laboratorioed esperimenti da un punto di vista tutto moderno. Nel1881 essi offrivano la dimostrazione pratica di una for-nace in grado di trattare ferro contenente fosforo. Ilprincipio venne subito accettato dai metallurgici diFrancia, Prussia, Belgio, Inghilterra e Stati Uniti; e con-ferì valore enorme alle miniere della Lorena, che il con-vertitore di Bessemer aveva poco meno che valutato.

Molte furono in seguito le modificazioni e i migliora-menti apportati ai processi metallurgici; grande sviluppopresero le leghe ferrose; ci fu lavoro per ingegneri e in-ventori; ma la fornace moderna, e i metodi di produzio-ne del ferro e dell’acciaio, risalgono tutti ai sistemi diBessemer e di Gilchrist.

L’Età dell’Acciaio era sorta. Diamo ora un brevesguardo alle statistiche della produzione del ferro edell’acciaio nel mondo, durante l’anno 1935. Le cifresono in tonnellate.

FERRO ACCIAIOStati Uniti 21.373.000 34.093.000Gran Bretagna 6.426.000 9.842.000Germania 5.267.000 7.586.000Francia 3.631.000 3.239.000Belgio 3.012.000 2.979.000Canadà 655.000 917.000Alsazia-Lorena 2.067.000 2.926.000

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suo cugino di mente più pratica, certo Thomas, si diedealla soluzione del problema, con ricerche di laboratorioed esperimenti da un punto di vista tutto moderno. Nel1881 essi offrivano la dimostrazione pratica di una for-nace in grado di trattare ferro contenente fosforo. Ilprincipio venne subito accettato dai metallurgici diFrancia, Prussia, Belgio, Inghilterra e Stati Uniti; e con-ferì valore enorme alle miniere della Lorena, che il con-vertitore di Bessemer aveva poco meno che valutato.

Molte furono in seguito le modificazioni e i migliora-menti apportati ai processi metallurgici; grande sviluppopresero le leghe ferrose; ci fu lavoro per ingegneri e in-ventori; ma la fornace moderna, e i metodi di produzio-ne del ferro e dell’acciaio, risalgono tutti ai sistemi diBessemer e di Gilchrist.

L’Età dell’Acciaio era sorta. Diamo ora un brevesguardo alle statistiche della produzione del ferro edell’acciaio nel mondo, durante l’anno 1935. Le cifresono in tonnellate.

FERRO ACCIAIOStati Uniti 21.373.000 34.093.000Gran Bretagna 6.426.000 9.842.000Germania 5.267.000 7.586.000Francia 3.631.000 3.239.000Belgio 3.012.000 2.979.000Canadà 655.000 917.000Alsazia-Lorena 2.067.000 2.926.000

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42.431.000 61.571.000Fra le altre nazioni produttrici figurano il Giappone,

con 1.930.000 tonn. di ferro grezzo e 4.500.000 tonn.d’acciaio; l’Italia con 551.000 tonn. di ferro grezzo,663.000 tonn. d’acciaio in verghe, 2.128.000 tonn.d’acciaio laminato. Nel 1930 la Russia ha prodotto4.909.240 tonn. di ferro grezzo e leghe ferrose; e12.310.040 tonn. di ferro nel 1936.

A titolo di curiosità: non c’è che un punto in cui lestatistiche del 1851 eccedono quelle del 1935; ed è ilnumero degli operai impiegati.

Il mondo, intanto, cammina; dall’ultima Età del Ferroalla prima Età dell’Acciaio, è passato nella presente etàdelle leghe ferrose; e sta per entrare nell’età delle leghesintetiche, le quali prenderanno il posto del ferro edell’acciaio. E tutto ciò ha durato appena lo spaziod’una vita umana...

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42.431.000 61.571.000Fra le altre nazioni produttrici figurano il Giappone,

con 1.930.000 tonn. di ferro grezzo e 4.500.000 tonn.d’acciaio; l’Italia con 551.000 tonn. di ferro grezzo,663.000 tonn. d’acciaio in verghe, 2.128.000 tonn.d’acciaio laminato. Nel 1930 la Russia ha prodotto4.909.240 tonn. di ferro grezzo e leghe ferrose; e12.310.040 tonn. di ferro nel 1936.

A titolo di curiosità: non c’è che un punto in cui lestatistiche del 1851 eccedono quelle del 1935; ed è ilnumero degli operai impiegati.

Il mondo, intanto, cammina; dall’ultima Età del Ferroalla prima Età dell’Acciaio, è passato nella presente etàdelle leghe ferrose; e sta per entrare nell’età delle leghesintetiche, le quali prenderanno il posto del ferro edell’acciaio. E tutto ciò ha durato appena lo spaziod’una vita umana...

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XVIII

I TRASPORTI

Quando Giorgio Stephenson, nel 1830, insisteva af-finchè la locomotiva a vapore fosse la sola forza motriceimpiegata dalla Società Ferroviaria di Londra e Liver-pool, egli aveva fatto per i trasporti, per la ricchezza e ilbenessere dell’umanità più di quanto qualsiasi altroavesse mai compiuto da 10.000 anni a quella parte, o daquando gli uomini primitivi avevano attaccato il primobove a un carro a due ruote. Egli non rivendicò mai perse l’invenzione della locomotiva; gli uomini avevanousato le rotaie da un secolo e più prima ch’egli nascesse.Egli non fu il primo a far marciare una locomotiva sullerotaie; ma fu il primo a comprendere i rapporti tra laforza motrice d’una locomotiva, la pendenza della stra-da e le rotaie; ed ebbe il genio pratico di rendere fecon-da questa combinazione d’idee, per tutti gli uomini e pertutti i tempi. Egli è il padre del mezzo di trasporto mo-derno. Dietro al suo «Razzo», la prima locomotiva a va-pore, in grado di trasportare su rotaie un treno di merci epasseggeri, c’erano sessant’anni di esperimenti di altriuomini con veicoli a vapore, rotaie e altro, compresa

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XVIII

I TRASPORTI

Quando Giorgio Stephenson, nel 1830, insisteva af-finchè la locomotiva a vapore fosse la sola forza motriceimpiegata dalla Società Ferroviaria di Londra e Liver-pool, egli aveva fatto per i trasporti, per la ricchezza e ilbenessere dell’umanità più di quanto qualsiasi altroavesse mai compiuto da 10.000 anni a quella parte, o daquando gli uomini primitivi avevano attaccato il primobove a un carro a due ruote. Egli non rivendicò mai perse l’invenzione della locomotiva; gli uomini avevanousato le rotaie da un secolo e più prima ch’egli nascesse.Egli non fu il primo a far marciare una locomotiva sullerotaie; ma fu il primo a comprendere i rapporti tra laforza motrice d’una locomotiva, la pendenza della stra-da e le rotaie; ed ebbe il genio pratico di rendere fecon-da questa combinazione d’idee, per tutti gli uomini e pertutti i tempi. Egli è il padre del mezzo di trasporto mo-derno. Dietro al suo «Razzo», la prima locomotiva a va-pore, in grado di trasportare su rotaie un treno di merci epasseggeri, c’erano sessant’anni di esperimenti di altriuomini con veicoli a vapore, rotaie e altro, compresa

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un’aumentata produzione di ferro e acciaio, di macchinee strumenti di precisione.

Nel 1769, la carrozza a vapore di Giuseppe Cugnot, ilprimo veicolo mosso da un motore, aveva percorsoqualche miglio; ma le strade francesi non erano adatte alveicolo, nè alla mente dell’inventore era sorta l’idea del-le rotaie, che avrebbero grandemente facilitato l’uso diquesto veicolo. Le due generazioni che dividono Cugnotda Stephenson abbracciano sui trasporti più idee nuoveche non i millenni che separano il veicolo a motore dalprimo uso degli animali domestici per trainare un veico-lo a ruote. Ma di fatto, tecnicamente questi due periodisono separati soltanto dal metodo con cui era prodotta laforza motrice. Il passaggio dalla forza umana e animalealla forza meccanica non fu che un incidente in una solavasta fase di storia dei trasporti. Tanto l’animale da tiroquanto il motore a vapore appartengono all’era dellaruota. Tutte le macchine moderne, tutti i mezzi di tra-sporto risalgono al medesimo punto di partenza, a queltempo remoto in cui l’uomo trasformò un tronco d’albe-ro rozzamente mozzato in una solida ruota provvista diraggi e di un asse, risolvendo così un altro problema diattrito e di risparmio di energia.

Dietro l’invenzione della ruota nella sua forma piùsemplice si estendono i secoli nei quali un uomo era co-stretto a risolvere il problema dei trasporti senza questageniale idea. Questo primitivo problema deve essersi af-facciato alla mente dell’uomo fin dalla prima rudimen-tale organizzazione sociale, e da quelle caccie in gruppo

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un’aumentata produzione di ferro e acciaio, di macchinee strumenti di precisione.

Nel 1769, la carrozza a vapore di Giuseppe Cugnot, ilprimo veicolo mosso da un motore, aveva percorsoqualche miglio; ma le strade francesi non erano adatte alveicolo, nè alla mente dell’inventore era sorta l’idea del-le rotaie, che avrebbero grandemente facilitato l’uso diquesto veicolo. Le due generazioni che dividono Cugnotda Stephenson abbracciano sui trasporti più idee nuoveche non i millenni che separano il veicolo a motore dalprimo uso degli animali domestici per trainare un veico-lo a ruote. Ma di fatto, tecnicamente questi due periodisono separati soltanto dal metodo con cui era prodotta laforza motrice. Il passaggio dalla forza umana e animalealla forza meccanica non fu che un incidente in una solavasta fase di storia dei trasporti. Tanto l’animale da tiroquanto il motore a vapore appartengono all’era dellaruota. Tutte le macchine moderne, tutti i mezzi di tra-sporto risalgono al medesimo punto di partenza, a queltempo remoto in cui l’uomo trasformò un tronco d’albe-ro rozzamente mozzato in una solida ruota provvista diraggi e di un asse, risolvendo così un altro problema diattrito e di risparmio di energia.

Dietro l’invenzione della ruota nella sua forma piùsemplice si estendono i secoli nei quali un uomo era co-stretto a risolvere il problema dei trasporti senza questageniale idea. Questo primitivo problema deve essersi af-facciato alla mente dell’uomo fin dalla prima rudimen-tale organizzazione sociale, e da quelle caccie in gruppo

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di cui già abbiamo detto in precedenti capitoli. I grandianimali ch’egli colpiva con la sua lancia, o coglieva intrappola, erano spesso difficili a rimuoversi e a traspor-tarsi fin là dov’erano le caverne dell’uomo. Forsel’uomo li avrà divisi a pezzi con il suo coltello di pietra;ma il problema veniva così a essere modificato e non ri-solto. Carni e ossa, pelliccia e avorio dovevano in ognimodo essere trasportati al sicuro. Si suppone che l’uomoabbia collocato il suo carico su una specie di traino fattodi rami d’alberi intrecciati allo scopo. Se così è, questoprimo veicolo è una scoperta, piuttosto che un’invenzio-ne. I rami d’albero proteggevano anche il corpo dellapreda dal contatto con la superficie del suolo; e quil’uomo imparò per primo a ridurre l’attrito. Inoltre, irami d’albero offrivano una presa più ferma che non lacarcassa inerte; e parecchie braccia robuste potevano ti-rare con le loro forze riunite, là dove un solo paio dibraccia non bastavano nemmeno ad alzare il peso. Cosìl’esperienza insegnò all’uomo che trascinare un peso erapiù facile che non trasportarlo, a forza di braccia o dispalle. Attraverso anni di evoluzione, il piede umano siadattò al peso dell’uomo a stazione eretta; ma il traspor-to di carichi sotto varie condizioni di terreno e di distan-za rendeva necessario, o almeno conveniente un rinfor-zo al suo piede.

Così fu che la calzatura divenne un elemento indi-spensabile nei trasporti. I tipi di calzatura variarono se-condo la natura del cammino, secondo il carattere e ilpeso del carico, le materie prime disponibili e, come

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di cui già abbiamo detto in precedenti capitoli. I grandianimali ch’egli colpiva con la sua lancia, o coglieva intrappola, erano spesso difficili a rimuoversi e a traspor-tarsi fin là dov’erano le caverne dell’uomo. Forsel’uomo li avrà divisi a pezzi con il suo coltello di pietra;ma il problema veniva così a essere modificato e non ri-solto. Carni e ossa, pelliccia e avorio dovevano in ognimodo essere trasportati al sicuro. Si suppone che l’uomoabbia collocato il suo carico su una specie di traino fattodi rami d’alberi intrecciati allo scopo. Se così è, questoprimo veicolo è una scoperta, piuttosto che un’invenzio-ne. I rami d’albero proteggevano anche il corpo dellapreda dal contatto con la superficie del suolo; e quil’uomo imparò per primo a ridurre l’attrito. Inoltre, irami d’albero offrivano una presa più ferma che non lacarcassa inerte; e parecchie braccia robuste potevano ti-rare con le loro forze riunite, là dove un solo paio dibraccia non bastavano nemmeno ad alzare il peso. Cosìl’esperienza insegnò all’uomo che trascinare un peso erapiù facile che non trasportarlo, a forza di braccia o dispalle. Attraverso anni di evoluzione, il piede umano siadattò al peso dell’uomo a stazione eretta; ma il traspor-to di carichi sotto varie condizioni di terreno e di distan-za rendeva necessario, o almeno conveniente un rinfor-zo al suo piede.

Così fu che la calzatura divenne un elemento indi-spensabile nei trasporti. I tipi di calzatura variarono se-condo la natura del cammino, secondo il carattere e ilpeso del carico, le materie prime disponibili e, come

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sempre, secondo il genio dell’uomo. Moccassini, gam-bali, sandali di fibre vegetali e di cuoio intrecciato, sti-vali di pelliccia e scarpe provviste di suola sono i risul-tati di queste necessità e condizioni. Fra le tribù Siberia-ne e gli Esquimesi, calzature di pelliccia e stivali di pelliimpermeabili con suole di cuoio raggiunsero un altogrado di perfezione tecnica e di praticità. I sandali diraffia e altre fibre vegetali, dell’antico Giappone, delleisole di Samoa, della Nuova Zelanda e degli Indianid’America sono perfettamente adatti per gli aspri sentie-ri montani. L’antico sandalo di cuoio dei Peruviani edella Bolivia ricorda quello dei Greci e degli Egiziani.Gli zoccoli di legno in uso in quasi tutte le regioni mon-tane d’Europa rappresentano, nel tipo di calzatura deinostri antenati, l’importanza di una materia prima acces-sibile.

La racchetta da neve, lo sci e la scarpa da ghiaccioirta di rampini di osso (nella sua forma più primitiva)sono tutte calzature originarie del Vecchio, Mondo. Laracchetta da neve venne introdotto nell’America delNord fin da tempi remoti, mentre lo sci non vi giunseche in tempi recenti.

Il primo di tutti gli animali da soma fu l’uomo stesso.Il cesto, lo zaino, la rete e altri mezzi, portati sia permezzo di corde o striscie di cuoio o altri finimenti delgenere appaiono sotto l’una o l’altra forma in tutte leparti del mondo. Ma il giogo che poggia sulle spalle ri-mane confinato fra i popoli caucasici. Apparentementeappartiene alla stessa civiltà che inventò la castrazione

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sempre, secondo il genio dell’uomo. Moccassini, gam-bali, sandali di fibre vegetali e di cuoio intrecciato, sti-vali di pelliccia e scarpe provviste di suola sono i risul-tati di queste necessità e condizioni. Fra le tribù Siberia-ne e gli Esquimesi, calzature di pelliccia e stivali di pelliimpermeabili con suole di cuoio raggiunsero un altogrado di perfezione tecnica e di praticità. I sandali diraffia e altre fibre vegetali, dell’antico Giappone, delleisole di Samoa, della Nuova Zelanda e degli Indianid’America sono perfettamente adatti per gli aspri sentie-ri montani. L’antico sandalo di cuoio dei Peruviani edella Bolivia ricorda quello dei Greci e degli Egiziani.Gli zoccoli di legno in uso in quasi tutte le regioni mon-tane d’Europa rappresentano, nel tipo di calzatura deinostri antenati, l’importanza di una materia prima acces-sibile.

La racchetta da neve, lo sci e la scarpa da ghiaccioirta di rampini di osso (nella sua forma più primitiva)sono tutte calzature originarie del Vecchio, Mondo. Laracchetta da neve venne introdotto nell’America delNord fin da tempi remoti, mentre lo sci non vi giunseche in tempi recenti.

Il primo di tutti gli animali da soma fu l’uomo stesso.Il cesto, lo zaino, la rete e altri mezzi, portati sia permezzo di corde o striscie di cuoio o altri finimenti delgenere appaiono sotto l’una o l’altra forma in tutte leparti del mondo. Ma il giogo che poggia sulle spalle ri-mane confinato fra i popoli caucasici. Apparentementeappartiene alla stessa civiltà che inventò la castrazione

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del toro e il veicolo a ruote. Esso lascia libere le mani epermette di equilibrare il peso. Sembra che vi sia un cer-to rapporto tra il giogo umano e il giogo bovino, cosìcome le cinghie adatte alle spalle sono nel loro principiosimili alle bardature da cani in uso nelle terre artiche:quasi che in queste zone l’uomo abbia trasferito i suoistessi finimenti agli animali da lui addomesticati.

La stanga da trasporto che permette di bilanciare ipesi e spesso sopporta elaborati recipienti, è caratteristi-ca dell’India, della Cina, del Giappone e delle Isole del-la Polinesia e della Malesia. Il principio, anche qui, èl’equilibrio dei pesi; tanto che spesso gli indigeni lo ot-tengono con l’aggiunta di pietre.

Ceste, reti, borse di cuoio, sacche e otri erano in usocon grande varietà in tutto il Nuovo Mondo. Ogni terrao tribù aveva il proprio tipo, sempre con l’uso di barda-ture per la testa e le spalle. Molti di questi mezzi per iltrasporto di carichi sono oltremodo ingegnosi. Unbell’esempio è la rete dei Papago, composta di una spe-cie di telaio di bacchette, le quali si estendono in mododa poggiare a terra e sollevare così il portatore dalla fati-ca quando è seduto.

La lettiga, in forme più o meno elaborate, sospesa astanghe che poggiano sulle spalle dei portatori, fu il pri-mo veicolo per il trasporto dell’uomo. Lo vediamo intempi remoti nell’India, nel Siam, nella Cina e nelle iso-le del Pacifico; antichissima è certamente nel Perù enell’Impero dei Maya, a giudicare dalle figure che ve-diamo su vasi, tessuti e bassorilievi; era anche nota fra

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del toro e il veicolo a ruote. Esso lascia libere le mani epermette di equilibrare il peso. Sembra che vi sia un cer-to rapporto tra il giogo umano e il giogo bovino, cosìcome le cinghie adatte alle spalle sono nel loro principiosimili alle bardature da cani in uso nelle terre artiche:quasi che in queste zone l’uomo abbia trasferito i suoistessi finimenti agli animali da lui addomesticati.

La stanga da trasporto che permette di bilanciare ipesi e spesso sopporta elaborati recipienti, è caratteristi-ca dell’India, della Cina, del Giappone e delle Isole del-la Polinesia e della Malesia. Il principio, anche qui, èl’equilibrio dei pesi; tanto che spesso gli indigeni lo ot-tengono con l’aggiunta di pietre.

Ceste, reti, borse di cuoio, sacche e otri erano in usocon grande varietà in tutto il Nuovo Mondo. Ogni terrao tribù aveva il proprio tipo, sempre con l’uso di barda-ture per la testa e le spalle. Molti di questi mezzi per iltrasporto di carichi sono oltremodo ingegnosi. Unbell’esempio è la rete dei Papago, composta di una spe-cie di telaio di bacchette, le quali si estendono in mododa poggiare a terra e sollevare così il portatore dalla fati-ca quando è seduto.

La lettiga, in forme più o meno elaborate, sospesa astanghe che poggiano sulle spalle dei portatori, fu il pri-mo veicolo per il trasporto dell’uomo. Lo vediamo intempi remoti nell’India, nel Siam, nella Cina e nelle iso-le del Pacifico; antichissima è certamente nel Perù enell’Impero dei Maya, a giudicare dalle figure che ve-diamo su vasi, tessuti e bassorilievi; era anche nota fra

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alcune tribù della bassa valle del Mississipi. La lettigapresuppone naturalmente una forma di civiltà relativa-mente progredita. Sarà necessitato un certo tempo perpersuadere la maggioranza degli uomini a far da bestieda soma, e a creare nella mente di pochi eletti la convin-zione che erano destinati e prescelti a essere portati. Èquesto uno dei più curiosi, tra tutti i fenomeni sociali:che all’uomo si può insegnare l’orgoglio in una occupa-zione servile. L’usanza sopravvisse fin nel XVII secoloin tutta l’Europa; le portantine di Venezia e di Londraerano famose, e ancora le vediamo nei musei. Ci fu untempo in cui regolamenti comunali stabilirono a Londratariffe e licenze per questi veicoli, esattamente come perle nostre vetture pubbliche.

Il semplice ramo d’albero come mezzo di trasportoebbe un interessante discendente in un altro mezzo, usa-to in varie parti del mondo e noto nelle Americhe sottoil nome di travois; il quale consiste in due stanghe lega-te assieme a un capo separate al centro da sbarre trasver-sali, in modo da formare un prolungato triangolo. L’api-ce poggia sulle spalle del portatore; i capi delle duestanghe, alla base del triangolo, toccano terra. Le sbarretrasversali formano una piattaforma su cui viene collo-cato il carico. Varie forme di questo travois sopravvivo-no ancora nelle campagne inglesi e irlandesi, e vengonotirate da cavalli e da buoi, specie per il trasporto di cari-chi su per salite aspre e terreni accidentati. Vi sono an-che parecchie forme di transizione fra il travois e il vei-colo a ruote; e presso i Tagal, abitanti dell’isola di Lu-

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alcune tribù della bassa valle del Mississipi. La lettigapresuppone naturalmente una forma di civiltà relativa-mente progredita. Sarà necessitato un certo tempo perpersuadere la maggioranza degli uomini a far da bestieda soma, e a creare nella mente di pochi eletti la convin-zione che erano destinati e prescelti a essere portati. Èquesto uno dei più curiosi, tra tutti i fenomeni sociali:che all’uomo si può insegnare l’orgoglio in una occupa-zione servile. L’usanza sopravvisse fin nel XVII secoloin tutta l’Europa; le portantine di Venezia e di Londraerano famose, e ancora le vediamo nei musei. Ci fu untempo in cui regolamenti comunali stabilirono a Londratariffe e licenze per questi veicoli, esattamente come perle nostre vetture pubbliche.

Il semplice ramo d’albero come mezzo di trasportoebbe un interessante discendente in un altro mezzo, usa-to in varie parti del mondo e noto nelle Americhe sottoil nome di travois; il quale consiste in due stanghe lega-te assieme a un capo separate al centro da sbarre trasver-sali, in modo da formare un prolungato triangolo. L’api-ce poggia sulle spalle del portatore; i capi delle duestanghe, alla base del triangolo, toccano terra. Le sbarretrasversali formano una piattaforma su cui viene collo-cato il carico. Varie forme di questo travois sopravvivo-no ancora nelle campagne inglesi e irlandesi, e vengonotirate da cavalli e da buoi, specie per il trasporto di cari-chi su per salite aspre e terreni accidentati. Vi sono an-che parecchie forme di transizione fra il travois e il vei-colo a ruote; e presso i Tagal, abitanti dell’isola di Lu-

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zon, è in uso ancora una forma di veicolo che sta tra iltravois e la slitta. I pattini si estendono anteriormente, esono connessi al giogo dell’animale da tiro. Altri tipi dislitta, in uso nell’isola di Luzon, ricordano quelle degliEsquimesi. Abbiamo rievocato questa forma di veicolo,perchè ci sembra stabilire il fatto che la slitta non sia,necessariamente, di origine nordica, ma connessa invecein un unico complesso inventivo col travois. Tuttavia,siamo propensi a credere che il travois sia stato ispiratoda particolari condizioni di terreno. La ruota e il carro,invece, sono un’invenzione prettamente continentale.Grandi invenzioni, di natura primitiva, non si verificanomai su un’isola; l’uomo ha bisogno di vasti spazi entro iquali svolgere le sue idee e selezionarle. E nemmenocrediamo che il travois sia stato l’antenato della slitta; lesue stanghe sono bensì simili ai pattini, eppure il para-gone sembra un poco forzato. Sempre a parer nostro, iltravois è una di quelle invenzioni destinate a non avereevoluzione tecnica. Considerarlo il prototipo del pattinosarebbe altrettanto fantastico quanto considerarlo il pre-cursore delle molle metalliche, con la cui funzione lesue stanghe hanno una certa analogia.

Un antenato assai più probabile della slitta, ragionan-do a fil di logica, ci sembra lo sci. Se l’uomo trovavaconveniente e pratico servirsi di quei lunghi legni perviaggiare sopra la neve, perchè non servirsene anche percollocarvi sopra un peso? Unire gli sci per mezzo disbarre trasversali, e costruirvi sopra un piano per sop-portare il carico, non richiede un grande sforzo d’imma-

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zon, è in uso ancora una forma di veicolo che sta tra iltravois e la slitta. I pattini si estendono anteriormente, esono connessi al giogo dell’animale da tiro. Altri tipi dislitta, in uso nell’isola di Luzon, ricordano quelle degliEsquimesi. Abbiamo rievocato questa forma di veicolo,perchè ci sembra stabilire il fatto che la slitta non sia,necessariamente, di origine nordica, ma connessa invecein un unico complesso inventivo col travois. Tuttavia,siamo propensi a credere che il travois sia stato ispiratoda particolari condizioni di terreno. La ruota e il carro,invece, sono un’invenzione prettamente continentale.Grandi invenzioni, di natura primitiva, non si verificanomai su un’isola; l’uomo ha bisogno di vasti spazi entro iquali svolgere le sue idee e selezionarle. E nemmenocrediamo che il travois sia stato l’antenato della slitta; lesue stanghe sono bensì simili ai pattini, eppure il para-gone sembra un poco forzato. Sempre a parer nostro, iltravois è una di quelle invenzioni destinate a non avereevoluzione tecnica. Considerarlo il prototipo del pattinosarebbe altrettanto fantastico quanto considerarlo il pre-cursore delle molle metalliche, con la cui funzione lesue stanghe hanno una certa analogia.

Un antenato assai più probabile della slitta, ragionan-do a fil di logica, ci sembra lo sci. Se l’uomo trovavaconveniente e pratico servirsi di quei lunghi legni perviaggiare sopra la neve, perchè non servirsene anche percollocarvi sopra un peso? Unire gli sci per mezzo disbarre trasversali, e costruirvi sopra un piano per sop-portare il carico, non richiede un grande sforzo d’imma-

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ginazione. Nordenskiold ricorda un’antichissima stampagiapponese, in cui un Ainu su due larghi sci si fa tirareda una renna sul fiume Amur gelato, per mezzo di unacorda passata al collo dell’animale.

Un oscuro quanto rozzo disegno su un pezzo d’ossodi renna, scoperto in Europa, sembra suggerire l’ideache i cacciatori di renne dell’Epoca Maddaleniana cono-scessero la slitta. In tal caso questa sarebbe un veneran-do veicolo; e non c’è nulla che provi il contrario.Un’invenzione simile non era inferiore alla loro abilità,nè abbiamo ragione di porne in dubbio la necessità. Undisegno recentemente scoperto su una roccia in Norve-gia ci mostra un mitologico coniglio sugli sci; e ci provaquindi che anche gli sci sono antichissimi. Tanto la slittaquanto gli sci risalgono apparentemente all’Epoca Gla-ciale.

Mentre la slitta sembra associarsi nella nostra fantasiacon ghiacci e nevi, è certo che era assai diffusa e di anti-chissima origine anche nei paesi tropicali. In Egitto e inAssiria essa precede l’uso delle ruote, e per il trasportodi grandi carichi persiste molto tempo dopo che il veico-lo a ruote era in uso per altri scopi. Non c’è ragione per-chè un’idea tanto pratica e utile debba essere stata ab-bandonata allorchè i ghiacci si ritirarono. La slitta mo-derna non disparve dai nostri paesi, nelle strade inverna-li, fino a quando l’automobile e lo spazzaneve non la re-sero praticamente inutile. Ma là dove è profonda, il pat-tino è ancora sempre più utile e pratico che non la ruota.

Il bove fu il primo animale adibito al trasporto di cari-

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ginazione. Nordenskiold ricorda un’antichissima stampagiapponese, in cui un Ainu su due larghi sci si fa tirareda una renna sul fiume Amur gelato, per mezzo di unacorda passata al collo dell’animale.

Un oscuro quanto rozzo disegno su un pezzo d’ossodi renna, scoperto in Europa, sembra suggerire l’ideache i cacciatori di renne dell’Epoca Maddaleniana cono-scessero la slitta. In tal caso questa sarebbe un veneran-do veicolo; e non c’è nulla che provi il contrario.Un’invenzione simile non era inferiore alla loro abilità,nè abbiamo ragione di porne in dubbio la necessità. Undisegno recentemente scoperto su una roccia in Norve-gia ci mostra un mitologico coniglio sugli sci; e ci provaquindi che anche gli sci sono antichissimi. Tanto la slittaquanto gli sci risalgono apparentemente all’Epoca Gla-ciale.

Mentre la slitta sembra associarsi nella nostra fantasiacon ghiacci e nevi, è certo che era assai diffusa e di anti-chissima origine anche nei paesi tropicali. In Egitto e inAssiria essa precede l’uso delle ruote, e per il trasportodi grandi carichi persiste molto tempo dopo che il veico-lo a ruote era in uso per altri scopi. Non c’è ragione per-chè un’idea tanto pratica e utile debba essere stata ab-bandonata allorchè i ghiacci si ritirarono. La slitta mo-derna non disparve dai nostri paesi, nelle strade inverna-li, fino a quando l’automobile e lo spazzaneve non la re-sero praticamente inutile. Ma là dove è profonda, il pat-tino è ancora sempre più utile e pratico che non la ruota.

Il bove fu il primo animale adibito al trasporto di cari-

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chi pesanti, e i suoi finimenti furono i primi a esser mi-gliorati e perfezionati. Ma in tempi antichi, i finimentidi tutti gli animali da tiro erano ben lontani dalla perfe-zione e dalla praticità raggiunte nei nostri tempi. Duran-te i molti secoli in cui gli uomini si servivano del caval-lo, questo non rendeva che una piccola parte della suaforza muscolare, per l’imperfezione dei finimenti, e per-chè nei primi tempi gli zoccoli non si ferravano. Perquesta ragione l’uomo rimase a lungo l’animale da tiropreferito. In primo luogo non veniva a costar caro: unafortunata incursione in un’altra tribù o una spedizionemilitare fruttavano molti schiavi. Era facile a nutrirsi; difatto, lo si poteva costringere a procacciarsi il cibo dasè. Non c’era bisogno, per farlo lavorare, che di un sor-vegliante con una buona frusta. I bassorilievi assiri edegiziani sono eloquenti in proposito.

Rimane dubbio se gli Egiziani si servissero di rulliper le loro slitte, o traini. Probabilmente fidavano assaipiù sulla forza dell’uomo. Ma recenti scoperte di pezzidi legno rozzamente arrotondati e logorati dall’uso han-no dato agli egittologi ragione di credere che si trattassedi veri e propri rulli adattati a traini, quantunque le lorodimensioni lascino un certo dubbio in proposito. Rulli diquel diametro dovevano affondare nel terreno fangosodelle rive del Nilo. A parte ciò, non si hanno rappresen-tazioni pittoriche dell’uso di rulli in Egitto.

Recenti fotografie fatte nell’isola di Malta dall’alto diun aeroplano hanno rivelato certe scanalature sulla su-perficie del terreno, invisibili fuorchè dall’alto; e gli an-

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chi pesanti, e i suoi finimenti furono i primi a esser mi-gliorati e perfezionati. Ma in tempi antichi, i finimentidi tutti gli animali da tiro erano ben lontani dalla perfe-zione e dalla praticità raggiunte nei nostri tempi. Duran-te i molti secoli in cui gli uomini si servivano del caval-lo, questo non rendeva che una piccola parte della suaforza muscolare, per l’imperfezione dei finimenti, e per-chè nei primi tempi gli zoccoli non si ferravano. Perquesta ragione l’uomo rimase a lungo l’animale da tiropreferito. In primo luogo non veniva a costar caro: unafortunata incursione in un’altra tribù o una spedizionemilitare fruttavano molti schiavi. Era facile a nutrirsi; difatto, lo si poteva costringere a procacciarsi il cibo dasè. Non c’era bisogno, per farlo lavorare, che di un sor-vegliante con una buona frusta. I bassorilievi assiri edegiziani sono eloquenti in proposito.

Rimane dubbio se gli Egiziani si servissero di rulliper le loro slitte, o traini. Probabilmente fidavano assaipiù sulla forza dell’uomo. Ma recenti scoperte di pezzidi legno rozzamente arrotondati e logorati dall’uso han-no dato agli egittologi ragione di credere che si trattassedi veri e propri rulli adattati a traini, quantunque le lorodimensioni lascino un certo dubbio in proposito. Rulli diquel diametro dovevano affondare nel terreno fangosodelle rive del Nilo. A parte ciò, non si hanno rappresen-tazioni pittoriche dell’uso di rulli in Egitto.

Recenti fotografie fatte nell’isola di Malta dall’alto diun aeroplano hanno rivelato certe scanalature sulla su-perficie del terreno, invisibili fuorchè dall’alto; e gli an-

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tropologi moderni mostrano di credere che questi stranisegni siano solchi scavati dal lungo passaggio di trainitirati dall’uomo, per il trasporto di grandi blocchi di pie-tra destinati alla costruzione delle grandi tombe neoliti-che. Tracce o documenti riguardo all’uso di rulli non fu-rono tuttavia mai trovati a Malta.

Noi siamo convinti che il rullo, il tronco d’albero cuiè serbata la sagoma rotonda, sia l’antenato tecnico dellaruota. Ma in Asia Minore la ruota non è certamente de-rivata dall’uso del rullo. Abbiamo prove chiare e con-vincenti che in questa antica area, il carro a ruote arri-vasse in una forma relativamente avanzata e già associa-ta col bue e col cavallo. Le antiche tombe di Asia ed’Europa, ove noi potessimo interpretare definitivamen-te i loro metodi tecnici di costruzione, potrebbero diremolte cose del traino e della ruota. Entrambi furono de-stinati dapprima ad esser tirati dall’uomo. In seguito,l’uomo inventò l’animale da tiro per sollevarsidall’immane fatica.

Fino a tempi relativamente moderni, il cavallo era ap-prezzato più per la sua rapidità che per la robustezza.Tanto il cavallo da sella che da tiro servivano in guerrapiuttosto che in commercio o nell’industria. Il primoanimale da tiro veramente utile fu il bove, e i suoi fini-menti furono perfezionati prima di quelli del cavallo odi altri animali. Il professor Abbot Payser Usher, nellasua Storia delle Invenzioni Meccaniche, che dovrebbeessere meglio conosciuta e divulgata, dice:

«La portata dell’antichità, riguardo allo sforzo mu-

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tropologi moderni mostrano di credere che questi stranisegni siano solchi scavati dal lungo passaggio di trainitirati dall’uomo, per il trasporto di grandi blocchi di pie-tra destinati alla costruzione delle grandi tombe neoliti-che. Tracce o documenti riguardo all’uso di rulli non fu-rono tuttavia mai trovati a Malta.

Noi siamo convinti che il rullo, il tronco d’albero cuiè serbata la sagoma rotonda, sia l’antenato tecnico dellaruota. Ma in Asia Minore la ruota non è certamente de-rivata dall’uso del rullo. Abbiamo prove chiare e con-vincenti che in questa antica area, il carro a ruote arri-vasse in una forma relativamente avanzata e già associa-ta col bue e col cavallo. Le antiche tombe di Asia ed’Europa, ove noi potessimo interpretare definitivamen-te i loro metodi tecnici di costruzione, potrebbero diremolte cose del traino e della ruota. Entrambi furono de-stinati dapprima ad esser tirati dall’uomo. In seguito,l’uomo inventò l’animale da tiro per sollevarsidall’immane fatica.

Fino a tempi relativamente moderni, il cavallo era ap-prezzato più per la sua rapidità che per la robustezza.Tanto il cavallo da sella che da tiro servivano in guerrapiuttosto che in commercio o nell’industria. Il primoanimale da tiro veramente utile fu il bove, e i suoi fini-menti furono perfezionati prima di quelli del cavallo odi altri animali. Il professor Abbot Payser Usher, nellasua Storia delle Invenzioni Meccaniche, che dovrebbeessere meglio conosciuta e divulgata, dice:

«La portata dell’antichità, riguardo allo sforzo mu-

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scolare umano, è stata recentemente chiarificata daglistudi di Lefebvre des Noettes, dai quali appare che i me-todi per preparare gli animali al lavoro erano insuffi-cienti, particolarmente per i cavalli e i muli: la bardaturaera mal disegnata e gli zoccoli insufficientemente pro-tetti. Queste manchevolezze diminuivano l’efficienza eil rendimento dell’animale; abbiamo una quantità di do-cumenti scritti i quali indicano specificamente come leaspettative degli antichi fossero molto inferiori alla me-dia moderna di un quotidiano rendimento dell’animaleda tiro».

Stando al Codice di Teodosio, il rendimento deglianimali doveva essere, in paragone ai nostri veicoli mo-derni, la metà circa del peso del carico. Questo partico-larmente per quanto riguarda il cavallo. La bardatura an-tica poneva il collare troppo alto sul collo, rischiando distrozzare l’animale quando adoprava tutta la sua forza.

Quando i Romani aumentarono la lunghezza delleloro strade, pavimentate di duri massi di selce, l’assenzadi protezione agli zoccoli degli animali diventò un pro-blema sempre più urgente nei trasporti. Si crede ora cheil ferro da cavallo sia assai più recente di quanto non ap-parve finora: probabilmente esso risale alla fine dellapotenza romana in Occidente, o all’incirca al VI secolo.Gli antichi ignoravano inoltre l’arte di bardare in modoutile più di una coppia di animali. C’erano bensì carri aquattro cavalli; e un disegno egiziano ci mostra persinotre coppie di buoi; ma sono esempi estremamente rari, enon sembra che fossero molto usati. Per i carichi pesanti

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scolare umano, è stata recentemente chiarificata daglistudi di Lefebvre des Noettes, dai quali appare che i me-todi per preparare gli animali al lavoro erano insuffi-cienti, particolarmente per i cavalli e i muli: la bardaturaera mal disegnata e gli zoccoli insufficientemente pro-tetti. Queste manchevolezze diminuivano l’efficienza eil rendimento dell’animale; abbiamo una quantità di do-cumenti scritti i quali indicano specificamente come leaspettative degli antichi fossero molto inferiori alla me-dia moderna di un quotidiano rendimento dell’animaleda tiro».

Stando al Codice di Teodosio, il rendimento deglianimali doveva essere, in paragone ai nostri veicoli mo-derni, la metà circa del peso del carico. Questo partico-larmente per quanto riguarda il cavallo. La bardatura an-tica poneva il collare troppo alto sul collo, rischiando distrozzare l’animale quando adoprava tutta la sua forza.

Quando i Romani aumentarono la lunghezza delleloro strade, pavimentate di duri massi di selce, l’assenzadi protezione agli zoccoli degli animali diventò un pro-blema sempre più urgente nei trasporti. Si crede ora cheil ferro da cavallo sia assai più recente di quanto non ap-parve finora: probabilmente esso risale alla fine dellapotenza romana in Occidente, o all’incirca al VI secolo.Gli antichi ignoravano inoltre l’arte di bardare in modoutile più di una coppia di animali. C’erano bensì carri aquattro cavalli; e un disegno egiziano ci mostra persinotre coppie di buoi; ma sono esempi estremamente rari, enon sembra che fossero molto usati. Per i carichi pesanti

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e lenti a muoversi il traino era preferito ai veicoli a ruo-te; specie nei terreni sabbiosi o fangosi necessitaronoanni per perfezionare la ruota cerchiata di metallo, perrenderla adatta ai grandi carichi e darvi il giusto equili-brio e forza di trazione. La ruota serviva per la velocità,per i carichi leggeri e per i viaggi lunghi e continuati.Anche oggi, come già abbiamo detto, per certi scopi al-cune popolazioni preferiscono la slitta e il Traino.

Concludendo: dall’Egitto a Sumer, dalla Grecia aRoma, lo schiavo umano resta la fondamentale forzamotrice nell’industria e nei trasporti pesanti.

Pochi sono i cambiamenti nei metodi di trasporto perterra, nei secoli che vanno dalla caduta di Roma alXVIII secolo, (circa 1300 anni); di fatto, possiamo direa ragion veduta che non erano avvenuti cambiamentifondamentali da quando il cavallo era stato aggiunto albove, cioè, almeno 3800 anni prima del XVIII secolo. Icambiamenti, se mai, riguardano particolari come l’alle-vamento degli animali, miglioramenti nella bardatura,zoccoli ferrati, aumento nell’uso del ferro, perfeziona-mento nei veicoli e nelle strade. Fino ai nostri tempi,tuttavia, niente nella nostra tecnica di costruzione dellestrade può essere paragonato alla ben distribuita e mira-bilmente organizzata rete di strade che univa Romaall’Eufrate e al Rodano, il Reno al Deserto Libico; lestrade lastricate di pietra su cui marciavano le invincibililegioni e fluivano incessanti i tributi e le correnti com-merciali. Carri grandi e piccoli progredirono lentamente,cavalli e buoi si fecero più robusti e rapidi, e le bardatu-

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e lenti a muoversi il traino era preferito ai veicoli a ruo-te; specie nei terreni sabbiosi o fangosi necessitaronoanni per perfezionare la ruota cerchiata di metallo, perrenderla adatta ai grandi carichi e darvi il giusto equili-brio e forza di trazione. La ruota serviva per la velocità,per i carichi leggeri e per i viaggi lunghi e continuati.Anche oggi, come già abbiamo detto, per certi scopi al-cune popolazioni preferiscono la slitta e il Traino.

Concludendo: dall’Egitto a Sumer, dalla Grecia aRoma, lo schiavo umano resta la fondamentale forzamotrice nell’industria e nei trasporti pesanti.

Pochi sono i cambiamenti nei metodi di trasporto perterra, nei secoli che vanno dalla caduta di Roma alXVIII secolo, (circa 1300 anni); di fatto, possiamo direa ragion veduta che non erano avvenuti cambiamentifondamentali da quando il cavallo era stato aggiunto albove, cioè, almeno 3800 anni prima del XVIII secolo. Icambiamenti, se mai, riguardano particolari come l’alle-vamento degli animali, miglioramenti nella bardatura,zoccoli ferrati, aumento nell’uso del ferro, perfeziona-mento nei veicoli e nelle strade. Fino ai nostri tempi,tuttavia, niente nella nostra tecnica di costruzione dellestrade può essere paragonato alla ben distribuita e mira-bilmente organizzata rete di strade che univa Romaall’Eufrate e al Rodano, il Reno al Deserto Libico; lestrade lastricate di pietra su cui marciavano le invincibililegioni e fluivano incessanti i tributi e le correnti com-merciali. Carri grandi e piccoli progredirono lentamente,cavalli e buoi si fecero più robusti e rapidi, e le bardatu-

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re più pratiche; la trasformazione, tuttavia, era nei parti-colari ma non mai nei principî.

Fin dai tempi di Cesare, la Britannia andava famosaper i suoi cavalli e i leggeri e veloci carri che servivanoin guerra; ma non per le sue strade. Roma le servìd’esempio per due secoli, ma quando le legioni se nepartirono, le belle strade caddero in decadenza e scom-parvero in gran parte sotto gli acquitrini che invadevanoil paese. Qualche modello ancora rimase, a ispirare Met-calfe, Telfor e Macadam; e più tardi ancora gli ingegneriche crearono le nostre autostrade di cemento e acciaio.Ma fino alla metà del XVIII secolo, in piena Rivoluzio-ne Industriale, con un commercio transoceanico già av-viato, le strade d’Inghilterra erano non soltanto cattive,ma peggiori di quelle del Continente, e le strade degliStati Uniti erano al di sotto di ogni critica. Tutte le stra-de conducevano forse a Roma; ma non tutte le stradepossedevano, nè forse ancora posseggono, la robustezzae l’immortalità delle strade romane.

Alle soglie del secolo XIX la gente viaggiava ancoracome i buoni pellegrini e romei del XIII: i forti e ricchia cavallo o in carrozza, i vecchi e gli infermi in lettiga, ipoveri in carretta o a piedi; e i savi e prudenti se ne sta-vano a casa. I cavalli da posta costavano un tanto al mi-glio a seconda dei paesi: soldati armati cavalcavano afianco delle berline per proteggere i viaggiatori e la po-sta dai briganti; e i viaggiatori che avevano la testa sulcollo non si mettevano in viaggio senza un paio di buo-ne pistole. I viaggi e la guerra erano considerati appros-

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re più pratiche; la trasformazione, tuttavia, era nei parti-colari ma non mai nei principî.

Fin dai tempi di Cesare, la Britannia andava famosaper i suoi cavalli e i leggeri e veloci carri che servivanoin guerra; ma non per le sue strade. Roma le servìd’esempio per due secoli, ma quando le legioni se nepartirono, le belle strade caddero in decadenza e scom-parvero in gran parte sotto gli acquitrini che invadevanoil paese. Qualche modello ancora rimase, a ispirare Met-calfe, Telfor e Macadam; e più tardi ancora gli ingegneriche crearono le nostre autostrade di cemento e acciaio.Ma fino alla metà del XVIII secolo, in piena Rivoluzio-ne Industriale, con un commercio transoceanico già av-viato, le strade d’Inghilterra erano non soltanto cattive,ma peggiori di quelle del Continente, e le strade degliStati Uniti erano al di sotto di ogni critica. Tutte le stra-de conducevano forse a Roma; ma non tutte le stradepossedevano, nè forse ancora posseggono, la robustezzae l’immortalità delle strade romane.

Alle soglie del secolo XIX la gente viaggiava ancoracome i buoni pellegrini e romei del XIII: i forti e ricchia cavallo o in carrozza, i vecchi e gli infermi in lettiga, ipoveri in carretta o a piedi; e i savi e prudenti se ne sta-vano a casa. I cavalli da posta costavano un tanto al mi-glio a seconda dei paesi: soldati armati cavalcavano afianco delle berline per proteggere i viaggiatori e la po-sta dai briganti; e i viaggiatori che avevano la testa sulcollo non si mettevano in viaggio senza un paio di buo-ne pistole. I viaggi e la guerra erano considerati appros-

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simativamente alla stessa stregua, quanto al rischio. Ep-pure, malgrado tante difficoltà, le carrozze da postaviaggiavano a una media di otto miglia l’ora, compresele fermate; tutto ben sommato, una velocità considere-vole e non disprezzabile. Daniele Defoe, che nel XVIIsecolo scriveva il suo Viaggio attraverso l’Inghilterra eil Paese di Galles, più o meno prudentemente viaggiavaa cavallo. Egli descrive un attivo traffico commerciale,molta prosperità e strade orribili; e parla di una dama diqualità che andava in chiesa nella sua berlina trascinatada tre coppie di buoi, pronipoti forse di quelli che untempo avevano tirato i carri sumerici. Ciò prova la buo-na volontà della signora, ma è anche un eloquente com-mento sulle condizioni del traffico e dei trasporti. Per lemerci – ferro, carbone, argilla, frumento, ecc. – c’eranograndi carri, tirati da tre o quattro coppie di cavalli, conruote grandissime e robuste. Il costo era immenso, la ve-locità di circa due miglia l’ora, e gran parte del tempoandava perduto a togliere i veicoli dal fango in cui spes-so rimanevano arenati.

Prima della metà del XVII secolo a Londra il trafficocittadino era diventato un problema grave. Le carrozzepubbliche erano state introdotte dal Continente nel1625. Sembra che in un primo periodo, non vi fossero intutta Londra che venticinque di questi lussuosi sebbeneutili veicoli. Graig, nella sua Storia del Commercio Bri-tannico, dice: «Dieci anni dopo, Re Carlo I dichiaravache il gran numero di vetture a Londra e nei sobborghi,di cui i cittadini facevano un generale e promiscuo uso,

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simativamente alla stessa stregua, quanto al rischio. Ep-pure, malgrado tante difficoltà, le carrozze da postaviaggiavano a una media di otto miglia l’ora, compresele fermate; tutto ben sommato, una velocità considere-vole e non disprezzabile. Daniele Defoe, che nel XVIIsecolo scriveva il suo Viaggio attraverso l’Inghilterra eil Paese di Galles, più o meno prudentemente viaggiavaa cavallo. Egli descrive un attivo traffico commerciale,molta prosperità e strade orribili; e parla di una dama diqualità che andava in chiesa nella sua berlina trascinatada tre coppie di buoi, pronipoti forse di quelli che untempo avevano tirato i carri sumerici. Ciò prova la buo-na volontà della signora, ma è anche un eloquente com-mento sulle condizioni del traffico e dei trasporti. Per lemerci – ferro, carbone, argilla, frumento, ecc. – c’eranograndi carri, tirati da tre o quattro coppie di cavalli, conruote grandissime e robuste. Il costo era immenso, la ve-locità di circa due miglia l’ora, e gran parte del tempoandava perduto a togliere i veicoli dal fango in cui spes-so rimanevano arenati.

Prima della metà del XVII secolo a Londra il trafficocittadino era diventato un problema grave. Le carrozzepubbliche erano state introdotte dal Continente nel1625. Sembra che in un primo periodo, non vi fossero intutta Londra che venticinque di questi lussuosi sebbeneutili veicoli. Graig, nella sua Storia del Commercio Bri-tannico, dice: «Dieci anni dopo, Re Carlo I dichiaravache il gran numero di vetture a Londra e nei sobborghi,di cui i cittadini facevano un generale e promiscuo uso,

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era un grande disturbo non solo per le Loro Maestà, lanobiltà e altre persone altolocate, nel loro passaggio perle strade, ma che le strade stesse erano tanto ingombre edanneggiate, che la viabilità e il transito diventavanosempre più difficili e pericolosi; inoltre, il fieno e la bia-da raggiungevano prezzi esorbitanti». Nel 1634 venivainstaurato un servizio di portantine che non alleviò certoil traffico cittadino; e Re Carlo tentò anche di instaurareun servizio postale a cavallo, che avrebbe dovuto andaree venire dalla Scozia in sei giorni. Ma tanto progressonon fu raggiunto che nel 1649. Il viaggiatore inglese Ar-thur, che nel 1768 compiva un giro di ricognizione nelsuo Paese, si scaglia contro il cattivo stato delle strade:mal tenute, strette, piene di buche e affollate dai carridei contadini e da trasporto; e Birnie, parlando dei tra-sporti del XVIII secolo, constata che in Inghilterra il tra-sporto di un quarto di frumento (circa mezzo quintale) èdi venti scellini per cento miglia di strada, e il prezzodel trasporto del carbone dalle miniere di Worsley aManchester (undici miglia) è tale da raddoppiarne ilprezzo.

La seconda metà del XVIII secolo vedeva finalmentesorgere l’auspicata alba di un miglioramento nelle straded’Europa. Nel 1747, Luigi XV creava in Francia un cor-po di ingegneri specializzati per la costruzione dellestrade, e ordinava che tutti i contadini dovessero daretrenta giorni all’anno di lavoro per questo scopo.L’oltraggiosa e ingiusta fatica era nota sotto il nome dicorvée, e fu causa di amare lamentele durante la Rivolu-

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era un grande disturbo non solo per le Loro Maestà, lanobiltà e altre persone altolocate, nel loro passaggio perle strade, ma che le strade stesse erano tanto ingombre edanneggiate, che la viabilità e il transito diventavanosempre più difficili e pericolosi; inoltre, il fieno e la bia-da raggiungevano prezzi esorbitanti». Nel 1634 venivainstaurato un servizio di portantine che non alleviò certoil traffico cittadino; e Re Carlo tentò anche di instaurareun servizio postale a cavallo, che avrebbe dovuto andaree venire dalla Scozia in sei giorni. Ma tanto progressonon fu raggiunto che nel 1649. Il viaggiatore inglese Ar-thur, che nel 1768 compiva un giro di ricognizione nelsuo Paese, si scaglia contro il cattivo stato delle strade:mal tenute, strette, piene di buche e affollate dai carridei contadini e da trasporto; e Birnie, parlando dei tra-sporti del XVIII secolo, constata che in Inghilterra il tra-sporto di un quarto di frumento (circa mezzo quintale) èdi venti scellini per cento miglia di strada, e il prezzodel trasporto del carbone dalle miniere di Worsley aManchester (undici miglia) è tale da raddoppiarne ilprezzo.

La seconda metà del XVIII secolo vedeva finalmentesorgere l’auspicata alba di un miglioramento nelle straded’Europa. Nel 1747, Luigi XV creava in Francia un cor-po di ingegneri specializzati per la costruzione dellestrade, e ordinava che tutti i contadini dovessero daretrenta giorni all’anno di lavoro per questo scopo.L’oltraggiosa e ingiusta fatica era nota sotto il nome dicorvée, e fu causa di amare lamentele durante la Rivolu-

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zione. Ma sullo scorcio del XVIII secolo la Francia po-teva vantare 25.000 miglia di belle e solide strade cheformavano l’invidia dell’Europa. La tirannia le avevafruttato almeno qualcosa di utile. Fino al XVII secolo inInghilterra le strade erano a cura delle parrocchie; il chesignificava che erano a cura di nessuno.

Poi, venne promulgato un editto per cui le strade era-no soggette a un pedaggio; ma la prima barriera di pe-daggio non veniva eretta che sotto il regno di Carlo II. Iviaggiatori e la popolazione in genere non gradironopunto l’istituzione; spesso distruggevano i cancelli e in-sorgevano contro i gabellieri. Verso la fine del XVII se-colo i crimini e le infrazioni del genere erano puniti fi-nanco con la morte. L’Inghilterra mantenne tuttavial’imposta di pedaggio fino al secolo XX, quando le tassesulle automobili resero inutile questa misura.

Nessuna storia dei trasporti, per quanto breve, puòfare a meno di ricordare i canali e l’importanza che eb-bero e ancora hanno nelle comunicazioni. Nei tempimoderni, gli Olandesi e gli Italiani sono stati maestri inquesto campo; i canali, non soltanto come mezzo d’irri-gazione ma come vie di comunicazione, erano in uso findal Medioevo. In Inghilterra, l’età dell’oro dei canalicorrisponde appunto all’ascesa delle sue industrie, nellaseconda metà del XVIII secolo. Il primo grande canalefu aperto tra le miniere di Worsley e Manchester, nel1781; poco dopo, l’Inghilterra era coperta da una interarete di canali. La manìa si propagò alle colonie inglesiin America, e ispirò il sogno di Washington di un canale

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zione. Ma sullo scorcio del XVIII secolo la Francia po-teva vantare 25.000 miglia di belle e solide strade cheformavano l’invidia dell’Europa. La tirannia le avevafruttato almeno qualcosa di utile. Fino al XVII secolo inInghilterra le strade erano a cura delle parrocchie; il chesignificava che erano a cura di nessuno.

Poi, venne promulgato un editto per cui le strade era-no soggette a un pedaggio; ma la prima barriera di pe-daggio non veniva eretta che sotto il regno di Carlo II. Iviaggiatori e la popolazione in genere non gradironopunto l’istituzione; spesso distruggevano i cancelli e in-sorgevano contro i gabellieri. Verso la fine del XVII se-colo i crimini e le infrazioni del genere erano puniti fi-nanco con la morte. L’Inghilterra mantenne tuttavial’imposta di pedaggio fino al secolo XX, quando le tassesulle automobili resero inutile questa misura.

Nessuna storia dei trasporti, per quanto breve, puòfare a meno di ricordare i canali e l’importanza che eb-bero e ancora hanno nelle comunicazioni. Nei tempimoderni, gli Olandesi e gli Italiani sono stati maestri inquesto campo; i canali, non soltanto come mezzo d’irri-gazione ma come vie di comunicazione, erano in uso findal Medioevo. In Inghilterra, l’età dell’oro dei canalicorrisponde appunto all’ascesa delle sue industrie, nellaseconda metà del XVIII secolo. Il primo grande canalefu aperto tra le miniere di Worsley e Manchester, nel1781; poco dopo, l’Inghilterra era coperta da una interarete di canali. La manìa si propagò alle colonie inglesiin America, e ispirò il sogno di Washington di un canale

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tra il Potomac e l’Ohio; cominciato nel 1812, il grandeCanale Erie veniva ultimato solo nel 1852, ma faceva diNuova York il grande porto delle regioni del West, allo-ra in pieno sviluppo.

I Romani conoscevano e usavano il carbone di New-castle, che riscaldava le loro dimore negli umidi invernibritannici. Ma il carbone cominciò solo verso il XIII se-colo a diventare elemento importante nella vita sociale enelle industrie britanniche. Dice Craik, nella sua Storiadel Commercio Britannico, che fin dal 1253, in un docu-mento era nominata a Londra una Sea Coal Lane (lette-ralmente Vicolo del Carbon Fossile), situata tra Skinnere Farrington Street. Nello statuto della Corporazionedella città di Berwick sul Tweed erano stabiliti regola-menti per la vendita del carbone; e da un incidente cherisale al 1306, citato da Maitland nella sua Storia diLondra, sembra che fosse usato per scopi industriali. Ilcarbon fossile era adoperato nei sobborghi londinesi dabirrai, tintori e altri artigiani che necessitavano di unfuoco ben nutrito. Nobiltà e alta borghesia se ne lamen-tarono col Re, asserendo che quei fuochi appestavanol’aria con fitte nuvole che minacciavano la salute deicittadini; e fu perciò promulgato un editto che interdice-va l’uso di quel combustibile. Siccome pochi o nessunovi fece caso, il Re nominò una Commissione che sco-prisse i contravventori, passibili di multa, e stabilì che incaso di recidiva fossero puniti con la distruzione delleloro caldaie o fornaci.

Malgrado i regali proclami, troviamo tuttavia cenno

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tra il Potomac e l’Ohio; cominciato nel 1812, il grandeCanale Erie veniva ultimato solo nel 1852, ma faceva diNuova York il grande porto delle regioni del West, allo-ra in pieno sviluppo.

I Romani conoscevano e usavano il carbone di New-castle, che riscaldava le loro dimore negli umidi invernibritannici. Ma il carbone cominciò solo verso il XIII se-colo a diventare elemento importante nella vita sociale enelle industrie britanniche. Dice Craik, nella sua Storiadel Commercio Britannico, che fin dal 1253, in un docu-mento era nominata a Londra una Sea Coal Lane (lette-ralmente Vicolo del Carbon Fossile), situata tra Skinnere Farrington Street. Nello statuto della Corporazionedella città di Berwick sul Tweed erano stabiliti regola-menti per la vendita del carbone; e da un incidente cherisale al 1306, citato da Maitland nella sua Storia diLondra, sembra che fosse usato per scopi industriali. Ilcarbon fossile era adoperato nei sobborghi londinesi dabirrai, tintori e altri artigiani che necessitavano di unfuoco ben nutrito. Nobiltà e alta borghesia se ne lamen-tarono col Re, asserendo che quei fuochi appestavanol’aria con fitte nuvole che minacciavano la salute deicittadini; e fu perciò promulgato un editto che interdice-va l’uso di quel combustibile. Siccome pochi o nessunovi fece caso, il Re nominò una Commissione che sco-prisse i contravventori, passibili di multa, e stabilì che incaso di recidiva fossero puniti con la distruzione delleloro caldaie o fornaci.

Malgrado i regali proclami, troviamo tuttavia cenno

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Page 283: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

di un commercio di carbone tra Newcastle e la Francianel 1325; e di pochi anni dopo datano i primi contratti dicessione di miniere nei paraggi della stessa città. A queitempi il carbon fossile, come la legna e il carbone di le-gna, serviva a riscaldare fornaci e fucine; e poco o nullaaveva a che fare con la forza motrice. Ciò avverrà solopiù tardi, quando, da elegante e divertente problemascientifico, il vapore diventerà il servo fedeledell’uomo. Distogliamoci ora, per un momento, dallastoria dei mezzi di trasporto, per tracciarne una, se purbreve, del vapore, la prima «forza motrice» creatadall’uomo.

Già accennammo come i primi studî, o osservazioni,sul vapore acqueo sorgessero in Alessandria d’Egitto,nel II secolo della nostra era, mentre ancora Roma erasignora del mondo; e ciò per opera di alcuni scienziati, ometafisici come venivano detti allora, i quali peraltronon avevano alcuna idea che quella forza si potesse ap-plicare a un uso pratico. Erone e Ctesibo non riuscironoad altro che a far sgorgare vino e acqua, e a far apriremisteriosamente le porte dei templi e volgere le teste de-gli idoli. Ma già le pagane eleganze cominciavano asentire la «concorrenza» di elementi tuttora vaghi e nonmeglio definiti; in altre parole, del Cristianesimo chebatteva alle porte. Al Paganesimo necessitava l’aiutodella scienza. E gli scienziati corrisposero generosamen-te alle sue aspettative, con un congegno detto «aerofi-lo», nel quale alcuni secoli più tardi si sarebbe riscontra-ta l’idea prima della turbina a vapore.

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di un commercio di carbone tra Newcastle e la Francianel 1325; e di pochi anni dopo datano i primi contratti dicessione di miniere nei paraggi della stessa città. A queitempi il carbon fossile, come la legna e il carbone di le-gna, serviva a riscaldare fornaci e fucine; e poco o nullaaveva a che fare con la forza motrice. Ciò avverrà solopiù tardi, quando, da elegante e divertente problemascientifico, il vapore diventerà il servo fedeledell’uomo. Distogliamoci ora, per un momento, dallastoria dei mezzi di trasporto, per tracciarne una, se purbreve, del vapore, la prima «forza motrice» creatadall’uomo.

Già accennammo come i primi studî, o osservazioni,sul vapore acqueo sorgessero in Alessandria d’Egitto,nel II secolo della nostra era, mentre ancora Roma erasignora del mondo; e ciò per opera di alcuni scienziati, ometafisici come venivano detti allora, i quali peraltronon avevano alcuna idea che quella forza si potesse ap-plicare a un uso pratico. Erone e Ctesibo non riuscironoad altro che a far sgorgare vino e acqua, e a far apriremisteriosamente le porte dei templi e volgere le teste de-gli idoli. Ma già le pagane eleganze cominciavano asentire la «concorrenza» di elementi tuttora vaghi e nonmeglio definiti; in altre parole, del Cristianesimo chebatteva alle porte. Al Paganesimo necessitava l’aiutodella scienza. E gli scienziati corrisposero generosamen-te alle sue aspettative, con un congegno detto «aerofi-lo», nel quale alcuni secoli più tardi si sarebbe riscontra-ta l’idea prima della turbina a vapore.

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Page 284: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

Se il germe di un’idea ha la sua importanza, noi dob-biamo quel gigante che è il vapore alle sofisticheriescientifiche d’un tempio pagano di due secoli fa. Se imetafisici di Alessandria avessero intuito la forza cheavevano creato, applicandola ai congegni meccanici aloro noti, avrebbero forse mutato il corso intero dellastoria. Un po’ più di ferro, pochi schiavi di meno, unanecessità un poco più sentita di un motore artificiale, ela cosa sarebbe stata fatta. Era destino invece che l’ideasonnecchiasse per un altro millennio e più.

Nove anni dopo che la caduta di Costantinopoli avevascosso il mondo, un umile frate tedesco, una vera mentescientifica, attraversava le Alpi per recarsi a impararel’arabo dai dotti uomini che il Turco conquistatore ave-va cacciato dalle antiche dimore sull’Ellesponto, sedi disapienza e tradizione. Nulla e nessuno tremò, questavolta, se non forse il fraticello. Eppure, il suo viaggiocostituiva un grande evento. Era suo ardente desideriotradurre un giorno i frammenti della Pneumatica di Ero-ne, tramandati finora in un difficile arabo. Con la dovutamodestia egli assolse il suo compito e se ne andò conDio. Nel 1575, finalmente, la sua opera veniva pubbli-cata, nel linguaggio scientifico del tempo, cioè in buonlatino ecclesiastico; e venne letta con profitto e interes-se.

Seguono quindi, brillanti e vitali esperimenti, dovutiin massima parte al genio italiano: dopo i primi studi delPorta e del Cardano, nel 1629 Giovanni Branca da S.Angelo in Lizzola (1571-1650), per primo applica a un

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Se il germe di un’idea ha la sua importanza, noi dob-biamo quel gigante che è il vapore alle sofisticheriescientifiche d’un tempio pagano di due secoli fa. Se imetafisici di Alessandria avessero intuito la forza cheavevano creato, applicandola ai congegni meccanici aloro noti, avrebbero forse mutato il corso intero dellastoria. Un po’ più di ferro, pochi schiavi di meno, unanecessità un poco più sentita di un motore artificiale, ela cosa sarebbe stata fatta. Era destino invece che l’ideasonnecchiasse per un altro millennio e più.

Nove anni dopo che la caduta di Costantinopoli avevascosso il mondo, un umile frate tedesco, una vera mentescientifica, attraversava le Alpi per recarsi a impararel’arabo dai dotti uomini che il Turco conquistatore ave-va cacciato dalle antiche dimore sull’Ellesponto, sedi disapienza e tradizione. Nulla e nessuno tremò, questavolta, se non forse il fraticello. Eppure, il suo viaggiocostituiva un grande evento. Era suo ardente desideriotradurre un giorno i frammenti della Pneumatica di Ero-ne, tramandati finora in un difficile arabo. Con la dovutamodestia egli assolse il suo compito e se ne andò conDio. Nel 1575, finalmente, la sua opera veniva pubbli-cata, nel linguaggio scientifico del tempo, cioè in buonlatino ecclesiastico; e venne letta con profitto e interes-se.

Seguono quindi, brillanti e vitali esperimenti, dovutiin massima parte al genio italiano: dopo i primi studi delPorta e del Cardano, nel 1629 Giovanni Branca da S.Angelo in Lizzola (1571-1650), per primo applica a un

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congegno meccanico la forza espansiva del vapore,aprendo così le vie alla meccanica moderna. Nel 1650,anno della morte del Branca, il tedesco Otto von Gueric-ke inventa la macchina pneumatica, cui segue, a distan-za relativamente breve, la famosa valvola del franceseDenis Papin (1682); e l’opera scientifica di Salomone deCaus, il quale per primo provò, su basi sperimentali, cheil vapore era qualcosa di più che non soltanto acqua ri-scaldata e portata al bollore per mezzo del calore.

Il mondo volgeva a intenti pratici. I commercianti, lecui sorti erano in ascesa, contendevano con la nobiltà indecadenza, per privilegi e posizioni eminenti. I re gareg-giavano con i re; cattolici e protestanti andavano a garaa convertirsi vicendevolmente; e navi munite di cannonidi ferro solcavano gli oceani, alla conquista di potenza edi colonie. Nessuno fece gran caso alla nascita di quelgigante: il Vapore. A quale pro’ gli uomini pratici avreb-bero dovuto preoccuparsi o occuparsi del vapore che dasecoli aveva emanato l’acqua bollente?

Edoardo Somerset, noto più tardi come il pazzo contedi Worcester, è il primo inventore inglese nella modernastoria del vapore. Egli aveva uno spirito scientifico, ave-va viaggiato molto nel Continente; doveva essergli notoil trattato di de Caus e altre opere ancora. Ma era soprat-tutto un uomo geniale ed energico. Cominciò i suoiesperimenti nel 1628 a Raglan Castle con una pompa avapore, e nel 1643 stava costruendo una fontana a vapo-re a Daux Hall, quando il Parlamento gli confiscò leproprietà a causa delle sue simpatie realistiche. Raglan

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congegno meccanico la forza espansiva del vapore,aprendo così le vie alla meccanica moderna. Nel 1650,anno della morte del Branca, il tedesco Otto von Gueric-ke inventa la macchina pneumatica, cui segue, a distan-za relativamente breve, la famosa valvola del franceseDenis Papin (1682); e l’opera scientifica di Salomone deCaus, il quale per primo provò, su basi sperimentali, cheil vapore era qualcosa di più che non soltanto acqua ri-scaldata e portata al bollore per mezzo del calore.

Il mondo volgeva a intenti pratici. I commercianti, lecui sorti erano in ascesa, contendevano con la nobiltà indecadenza, per privilegi e posizioni eminenti. I re gareg-giavano con i re; cattolici e protestanti andavano a garaa convertirsi vicendevolmente; e navi munite di cannonidi ferro solcavano gli oceani, alla conquista di potenza edi colonie. Nessuno fece gran caso alla nascita di quelgigante: il Vapore. A quale pro’ gli uomini pratici avreb-bero dovuto preoccuparsi o occuparsi del vapore che dasecoli aveva emanato l’acqua bollente?

Edoardo Somerset, noto più tardi come il pazzo contedi Worcester, è il primo inventore inglese nella modernastoria del vapore. Egli aveva uno spirito scientifico, ave-va viaggiato molto nel Continente; doveva essergli notoil trattato di de Caus e altre opere ancora. Ma era soprat-tutto un uomo geniale ed energico. Cominciò i suoiesperimenti nel 1628 a Raglan Castle con una pompa avapore, e nel 1643 stava costruendo una fontana a vapo-re a Daux Hall, quando il Parlamento gli confiscò leproprietà a causa delle sue simpatie realistiche. Raglan

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Castle, assediato dalle forze parlamentari, capitolavadopo dieci settimane d’assedio, il 19 agosto 1646. Arre-stato, Worcester venne esiliato; ritornava tuttavia dopoalcuni anni in patria, ma questa volta fu rinchiuso nellaTorre di Londra, a esempio per tutti i sovvertitori. Men-tre era in prigione, egli scrisse a memoria (la memoriadi un vecchio duramente colpito dalla vita) una descri-zione di tutte le sue invenzioni. Questi suoi appunti han-no tuttavia un certo carattere pensoso e ardente a untempo, come di una gloria spenta: «...un secolo di espe-rimenti e schizzi come questi che io rievoco e cercai diperfezionare (le mie memorie antecedenti essendo anda-te perdute) ora, nell’anno di grazia 1655, dietro istanzadi un potente amico mi sforzai di descrivere, onde,all’occasione, io possa servirmene...».

Nel 1663, «giustizia» veniva resa all’ormai decrepitoconte; e gli veniva anche concesso un brevetto di novan-tanove anni per il suo motore. Intanto il suo esperimentocol diritto divino dei re e con le forze del ParlamentoPuritano gli era costato 40.000 lire sterline. Ma ben dipiù dovevano costare all’Inghilterra. Guerra, prigione,esilio e anni avevano spezzato questo singolare intellet-to. Egli si provò ancora a costruire una nuova pompa,ma dopo il 1670 non si udì più parlare di lui. Tuttavial’idea non poteva essere soffocata nè da un re indegno,nè dai Puritani, che invano cercarono di far funzionarela pompa a vapore di Thomas Savery, alla quale nel1698 veniva concesso un brevetto per trentacinque anni.La macchina è descritta in un opuscolo del 1702, intito-

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Castle, assediato dalle forze parlamentari, capitolavadopo dieci settimane d’assedio, il 19 agosto 1646. Arre-stato, Worcester venne esiliato; ritornava tuttavia dopoalcuni anni in patria, ma questa volta fu rinchiuso nellaTorre di Londra, a esempio per tutti i sovvertitori. Men-tre era in prigione, egli scrisse a memoria (la memoriadi un vecchio duramente colpito dalla vita) una descri-zione di tutte le sue invenzioni. Questi suoi appunti han-no tuttavia un certo carattere pensoso e ardente a untempo, come di una gloria spenta: «...un secolo di espe-rimenti e schizzi come questi che io rievoco e cercai diperfezionare (le mie memorie antecedenti essendo anda-te perdute) ora, nell’anno di grazia 1655, dietro istanzadi un potente amico mi sforzai di descrivere, onde,all’occasione, io possa servirmene...».

Nel 1663, «giustizia» veniva resa all’ormai decrepitoconte; e gli veniva anche concesso un brevetto di novan-tanove anni per il suo motore. Intanto il suo esperimentocol diritto divino dei re e con le forze del ParlamentoPuritano gli era costato 40.000 lire sterline. Ma ben dipiù dovevano costare all’Inghilterra. Guerra, prigione,esilio e anni avevano spezzato questo singolare intellet-to. Egli si provò ancora a costruire una nuova pompa,ma dopo il 1670 non si udì più parlare di lui. Tuttavial’idea non poteva essere soffocata nè da un re indegno,nè dai Puritani, che invano cercarono di far funzionarela pompa a vapore di Thomas Savery, alla quale nel1698 veniva concesso un brevetto per trentacinque anni.La macchina è descritta in un opuscolo del 1702, intito-

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lato L’amico del Minatore. Tra il 1717 e il 1719 Saveryentrò in società con Thomas Newcomen, e con l’aiuto diun meccanico d’ingegno, John Smeaton, i due costrui-vano una pompa a vapore per le miniere, che durante ol-tre settant’anni fu regolarmente impiegata per l’uso cuiera destinata.

Rivendicare ad altri l’idea prima del motore, a vapo-re, non significa detrarre a Giacomo Watt nulla del suomerito. Egli non «inventò» la macchina a vapore, più diquanto Edison o Marconi non abbiano inventato l’elet-tricità. Come tanti altri, perfezionò la macchina comel’aveva trovata e, ciò che più conta, la rese pratica ed ef-ficace. Egli non era nè più nè meno di un giovaned’ingegno, il quale avrebbe anche potuto diventare unottimo scienziato e insegnante; oppure rinchiudersi inun laboratorio e compiere esperimenti vita natural du-rante. Senonchè fu tanto avveduto da entrare negli affa-ri; divenne un uomo ricco per i suoi tempi, e utile allasua generazione.

Il padre di Watt, scozzese, era un brav’uomo, cheaveva fatto il carpentiere, e per evoluzione e forza dicose era stato volta a volta imprenditore di pompe fune-bri, ufficiale giudiziario, commerciante e appaltatore, efornitore di navi. Con un genitore simile, la vita nonavrebbe dovuto essere tediosa; tuttavia, a diciassetteanni il giovine Watt ne aveva abbastanza. Andò a Gla-sgow, e s’ingaggiò come apprendista presso un maestromeccanico assai abile, il quale si dedicava tuttavia inparticolar modo alla fabbricazione di arnesi da pesca.

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lato L’amico del Minatore. Tra il 1717 e il 1719 Saveryentrò in società con Thomas Newcomen, e con l’aiuto diun meccanico d’ingegno, John Smeaton, i due costrui-vano una pompa a vapore per le miniere, che durante ol-tre settant’anni fu regolarmente impiegata per l’uso cuiera destinata.

Rivendicare ad altri l’idea prima del motore, a vapo-re, non significa detrarre a Giacomo Watt nulla del suomerito. Egli non «inventò» la macchina a vapore, più diquanto Edison o Marconi non abbiano inventato l’elet-tricità. Come tanti altri, perfezionò la macchina comel’aveva trovata e, ciò che più conta, la rese pratica ed ef-ficace. Egli non era nè più nè meno di un giovaned’ingegno, il quale avrebbe anche potuto diventare unottimo scienziato e insegnante; oppure rinchiudersi inun laboratorio e compiere esperimenti vita natural du-rante. Senonchè fu tanto avveduto da entrare negli affa-ri; divenne un uomo ricco per i suoi tempi, e utile allasua generazione.

Il padre di Watt, scozzese, era un brav’uomo, cheaveva fatto il carpentiere, e per evoluzione e forza dicose era stato volta a volta imprenditore di pompe fune-bri, ufficiale giudiziario, commerciante e appaltatore, efornitore di navi. Con un genitore simile, la vita nonavrebbe dovuto essere tediosa; tuttavia, a diciassetteanni il giovine Watt ne aveva abbastanza. Andò a Gla-sgow, e s’ingaggiò come apprendista presso un maestromeccanico assai abile, il quale si dedicava tuttavia inparticolar modo alla fabbricazione di arnesi da pesca.

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Non soddisfatto, Watt andò a Londra, e là corruppe (conventi sterline) un altro mastro meccanico, affinchè gliinsegnasse in un anno ciò che avrebbe dovuto impararenel corso di sette. Dopo di che, ritornò a Glasgow conl’idea di metter su bottega. Ma la Corporazione dei Fab-bri non permetteva di esercitare la propria arte a nessu-no che non avesse compiuto i sette anni di iniziato, ameno che non fosse figlio di un borghese della città diGlasgow. Così le restrizioni medievali, sopravvissute inpiena Rivoluzione Industriale, gettarono il giovane mec-canico tra le accademiche braccia dell’università di Gla-sgow, e in associazione coi dottori Dick e Black, i qualiallora appunto volgevano la mente a considerazioniscientifiche sul vapore, alla teoria del calor latente, ebene conoscevano la letteratura riguardo a precedentiesperimenti in quel campo. E così il giovane, con la giu-sta esperienza al giusto momento, si trovò nell’ambienteadatto. Il destino ha i suoi momenti di generosità.

Il grande momento di Watt venne allorchè egli si tro-vò a dover riparare una pompa di Savery-Newcomen,che faceva parte del gabinetto di fisica all’università.Quand’ebbe finito, la sua educazione era completa. Nonsolo conosceva alla perfezione il motore, ma aveva im-parato come economizzare il vapore. Le modificazioni ei miglioramenti ch’egli apportava al congegno ponevanole basi per il macchinario moderno, e per l’economianell’uso del vapore e per il risparmio di calore. Il moto-re a vapore di Watt ebbe una profonda influenza su tuttala vita industriale del suo tempo e anche sulla nostra.

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Non soddisfatto, Watt andò a Londra, e là corruppe (conventi sterline) un altro mastro meccanico, affinchè gliinsegnasse in un anno ciò che avrebbe dovuto impararenel corso di sette. Dopo di che, ritornò a Glasgow conl’idea di metter su bottega. Ma la Corporazione dei Fab-bri non permetteva di esercitare la propria arte a nessu-no che non avesse compiuto i sette anni di iniziato, ameno che non fosse figlio di un borghese della città diGlasgow. Così le restrizioni medievali, sopravvissute inpiena Rivoluzione Industriale, gettarono il giovane mec-canico tra le accademiche braccia dell’università di Gla-sgow, e in associazione coi dottori Dick e Black, i qualiallora appunto volgevano la mente a considerazioniscientifiche sul vapore, alla teoria del calor latente, ebene conoscevano la letteratura riguardo a precedentiesperimenti in quel campo. E così il giovane, con la giu-sta esperienza al giusto momento, si trovò nell’ambienteadatto. Il destino ha i suoi momenti di generosità.

Il grande momento di Watt venne allorchè egli si tro-vò a dover riparare una pompa di Savery-Newcomen,che faceva parte del gabinetto di fisica all’università.Quand’ebbe finito, la sua educazione era completa. Nonsolo conosceva alla perfezione il motore, ma aveva im-parato come economizzare il vapore. Le modificazioni ei miglioramenti ch’egli apportava al congegno ponevanole basi per il macchinario moderno, e per l’economianell’uso del vapore e per il risparmio di calore. Il moto-re a vapore di Watt ebbe una profonda influenza su tuttala vita industriale del suo tempo e anche sulla nostra.

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Oltre a ciò, la sua epoca gli deve una pompa a vaporeper togliere l’acqua dalle miniere, più pratica, più poten-te ed economica, senza la quale il carbone ingleseavrebbe avuto assai meno valore; e un motore per solle-vare l’acqua che metteva in moto le turbine nelle offici-ne metallurgiche, e per porre in opera i mantici dellefornaci.

Nel 1785 Bolton e Watt costruivano per le officineRobinson di Papplewich, nel Nottinghamshire, il primomotore a vapore da applicarsi al macchinario di un coto-nificio. I motori fissi di Watt, con catene perpetue, eranoimpiegati per il trasporto dei secchi di carbone fuor daipozzi minerari, e dei carrelli del carbone su rotaie, quan-do la pendenza era troppo forte per i cavalli. Egli eraconvinto che i motori a vapore potessero esser usati persollevare grandi pesi, fino a che il motore stesso rimane-va fisso. Quando i suoi brevetti (che andavano dal 1769al 1800 e comprendevano tutti i motori in cui il vaporesi condensava in un recipiente separato) spirarono, eglisi ritirò con un grandissimo patrimonio; ma continuò ausare tutta la sua grande e meritata influenza contro tut-te le idee moderne, quali erano i veicoli a vapore o loco-motive.

Fin dal XVII secolo si era manifestata sempre più ur-gente la necessità di mezzi di trasporto terrestri più rapi-di ed economici. Intanto la navigazione si era andataperfezionando, con grande incremento del commerciomondiale, e quindi della ricchezza; ma tutti questi van-taggi e miglioramenti presupponevano ed esigevano tra-

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Oltre a ciò, la sua epoca gli deve una pompa a vaporeper togliere l’acqua dalle miniere, più pratica, più poten-te ed economica, senza la quale il carbone ingleseavrebbe avuto assai meno valore; e un motore per solle-vare l’acqua che metteva in moto le turbine nelle offici-ne metallurgiche, e per porre in opera i mantici dellefornaci.

Nel 1785 Bolton e Watt costruivano per le officineRobinson di Papplewich, nel Nottinghamshire, il primomotore a vapore da applicarsi al macchinario di un coto-nificio. I motori fissi di Watt, con catene perpetue, eranoimpiegati per il trasporto dei secchi di carbone fuor daipozzi minerari, e dei carrelli del carbone su rotaie, quan-do la pendenza era troppo forte per i cavalli. Egli eraconvinto che i motori a vapore potessero esser usati persollevare grandi pesi, fino a che il motore stesso rimane-va fisso. Quando i suoi brevetti (che andavano dal 1769al 1800 e comprendevano tutti i motori in cui il vaporesi condensava in un recipiente separato) spirarono, eglisi ritirò con un grandissimo patrimonio; ma continuò ausare tutta la sua grande e meritata influenza contro tut-te le idee moderne, quali erano i veicoli a vapore o loco-motive.

Fin dal XVII secolo si era manifestata sempre più ur-gente la necessità di mezzi di trasporto terrestri più rapi-di ed economici. Intanto la navigazione si era andataperfezionando, con grande incremento del commerciomondiale, e quindi della ricchezza; ma tutti questi van-taggi e miglioramenti presupponevano ed esigevano tra-

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sporti per via d’acqua, navi e porti. I trasporti per via diterra erano rimasti allo stato di prima, inadeguati alleesigenze dell’industria e del commercio. In tutta Europale industrie metallurgiche e tessili, erano cresciute tantoda supplire alle interne esigenze create dalla nuova ric-chezza mondiale. Ma per esportare le merci, le quali incambio dell’oro e dell’argento ispano-americano servi-vano a mantenere nel commercio orientale una certacompensazione, erano indispensabili grandi navi. I mo-tori di Savery e Watt, la fornace a coke di Darby e ilmacchinario tessile non facevano che complicare il pro-blema dei trasporti per via di terra. Era necessario benaltro che carri, cavalli e buoi; ci voleva qualcosa di me-glio che non le strade di quei tempi; qualcosa di piùesteso che non le brevi vie ferrate che andavano dai cor-si d’acqua alle miniere. I trasporti erano un problemache non riguardava unicamente la produzione del carbo-ne. Questo stato di cose condusse bensì a un certo mi-glioramento nella costruzione delle strade, specie inFrancia, e a una rinascita del canale come via di comu-nicazione sul Continente, in Inghilterra e più tardi negliStati Uniti. Ma era la grande età della navigazione tran-soceanica; e alla navigazione gli uomini si volsero dap-prima per una soluzione del loro problema, cioè mezzidi trasporto terrestre a buon mercato. L’ingegnositàumana non ha limiti: si videro, a quell’epoca, tentatividi veicoli a vela, in Olanda e nel Paese di Galles. Si videperfino un mostruoso carro a vela, con un albero altodieci e più metri, navigar per le strette vie di Parigi.

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sporti per via d’acqua, navi e porti. I trasporti per via diterra erano rimasti allo stato di prima, inadeguati alleesigenze dell’industria e del commercio. In tutta Europale industrie metallurgiche e tessili, erano cresciute tantoda supplire alle interne esigenze create dalla nuova ric-chezza mondiale. Ma per esportare le merci, le quali incambio dell’oro e dell’argento ispano-americano servi-vano a mantenere nel commercio orientale una certacompensazione, erano indispensabili grandi navi. I mo-tori di Savery e Watt, la fornace a coke di Darby e ilmacchinario tessile non facevano che complicare il pro-blema dei trasporti per via di terra. Era necessario benaltro che carri, cavalli e buoi; ci voleva qualcosa di me-glio che non le strade di quei tempi; qualcosa di piùesteso che non le brevi vie ferrate che andavano dai cor-si d’acqua alle miniere. I trasporti erano un problemache non riguardava unicamente la produzione del carbo-ne. Questo stato di cose condusse bensì a un certo mi-glioramento nella costruzione delle strade, specie inFrancia, e a una rinascita del canale come via di comu-nicazione sul Continente, in Inghilterra e più tardi negliStati Uniti. Ma era la grande età della navigazione tran-soceanica; e alla navigazione gli uomini si volsero dap-prima per una soluzione del loro problema, cioè mezzidi trasporto terrestre a buon mercato. L’ingegnositàumana non ha limiti: si videro, a quell’epoca, tentatividi veicoli a vela, in Olanda e nel Paese di Galles. Si videperfino un mostruoso carro a vela, con un albero altodieci e più metri, navigar per le strette vie di Parigi.

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L’idea non è affatto impossibile, nè da disdegnarsi com-pletamente. Può ben darsi che, col tempo, carbone ecombustibili liquidi diventino troppo costosi, o si esauri-scano le immense provviste di cui finora le viscere dellaterra sono rimaste prodighe. E in tutto il vasto mondo visono zone piane e vaste, che in un’epoca di là da venireassisteranno forse a questa navigazione a vela.

Ma verso la fine del XVII secolo, la mente degli uo-mini si era vòlta al vapore. La grande novità che appari-va all’orizzonte scientifico cominciava a essere conside-rata non più soltanto come una curiosità, ma comel’avvenire di ogni progresso industriale e meccanico,come la soluzione d’ogni problema in quel senso. Comegià abbiamo accennato, grandi furono le conquiste inquel campo dell’Italia, della Germania e della Francia;senonchè è forse all’Inghilterra che il mondo devel’attuazione pratica del risultato di queste ricerche econquiste.

Nel 1670 Sir Isacco Newton aveva tracciato una teo-ria di un veicolo a vapore, mosso da un congegno chenella descrizione rassomigliava stranamente a quellatale turbina «aerofila» già descritta da Erone di Alessan-dria. Ciò rende onore alla cultura classica di Newton;ma una teoria, per quanto celebre l’autore e brillante insè, non è una macchina. Come i disegni della macchinaper volare di Leonardo da Vinci, il progetto era interes-sante, ma al pari dell’idea del grande italiano, destinataa restare un’idea. Solo nella seconda metà del XVIII se-colo un veicolo mosso dal vapore doveva fare la sua pri-

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L’idea non è affatto impossibile, nè da disdegnarsi com-pletamente. Può ben darsi che, col tempo, carbone ecombustibili liquidi diventino troppo costosi, o si esauri-scano le immense provviste di cui finora le viscere dellaterra sono rimaste prodighe. E in tutto il vasto mondo visono zone piane e vaste, che in un’epoca di là da venireassisteranno forse a questa navigazione a vela.

Ma verso la fine del XVII secolo, la mente degli uo-mini si era vòlta al vapore. La grande novità che appari-va all’orizzonte scientifico cominciava a essere conside-rata non più soltanto come una curiosità, ma comel’avvenire di ogni progresso industriale e meccanico,come la soluzione d’ogni problema in quel senso. Comegià abbiamo accennato, grandi furono le conquiste inquel campo dell’Italia, della Germania e della Francia;senonchè è forse all’Inghilterra che il mondo devel’attuazione pratica del risultato di queste ricerche econquiste.

Nel 1670 Sir Isacco Newton aveva tracciato una teo-ria di un veicolo a vapore, mosso da un congegno chenella descrizione rassomigliava stranamente a quellatale turbina «aerofila» già descritta da Erone di Alessan-dria. Ciò rende onore alla cultura classica di Newton;ma una teoria, per quanto celebre l’autore e brillante insè, non è una macchina. Come i disegni della macchinaper volare di Leonardo da Vinci, il progetto era interes-sante, ma al pari dell’idea del grande italiano, destinataa restare un’idea. Solo nella seconda metà del XVIII se-colo un veicolo mosso dal vapore doveva fare la sua pri-

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ma apparizione nella storia della tecnica. Nel 1769, ilveicolo a motore di Nicola Giuseppe Cugnot apparivasoffiando, traballando e strepitando, per le vie di Parigiche a tanti spettacoli avevano già assistito; non solo ap-pariva, ma si muoveva anche. Nulla di più strano aveva-no mai visto i buoni borghesi parigini; i quali ignorava-no certo che il mostro che si trovavano di fronte divide-va l’epoca dei trasporti per mezzo dell’uomo e dei vei-coli trainati da animali, da un’epoca di trasporti permezzo di veicoli mossi da una forza generata dall’acquariscaldata a mezzo del calore, nonchè da altre forze mo-trici di cui l’uomo si sarebbe servito successivamente.Tale evento era una svolta della storia, un episodio deidestini umani. Il «mostro» compiè due brevi tragitti; du-rante il primo demolì un muro dell’Arsenale; durante ilsecondo, si rovesciò e uccise un cittadino, vittima inno-cente del progresso e della propria curiosità. Il «mostro»di Cugnot venne trascinato – a trazione animale, questavolta – nell’Arsenale, dove è rimasto, esposto all’ammi-razione degli uomini di buona volontà. È degno di notail fatto che questo primo tentativo di veicolo mosso daforza motrice era munito di un volante che permettevadi regolarne la direzione, e di un cambio di velocità; era,insomma, un passo assai più vicino alla nostra automo-bile che non i tentativi seguiti poi nel medesimo senso.

Scarse furono le speranze riserbate all’idea di Cugnot.L’Assemblea Rivoluzionaria delegò il banchiere Rolanda ispezionare il veicolo. Il suo rapporto fu favorevole,ma non condusse a nulla di positivo. Poco dopo, il ban-

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ma apparizione nella storia della tecnica. Nel 1769, ilveicolo a motore di Nicola Giuseppe Cugnot apparivasoffiando, traballando e strepitando, per le vie di Parigiche a tanti spettacoli avevano già assistito; non solo ap-pariva, ma si muoveva anche. Nulla di più strano aveva-no mai visto i buoni borghesi parigini; i quali ignorava-no certo che il mostro che si trovavano di fronte divide-va l’epoca dei trasporti per mezzo dell’uomo e dei vei-coli trainati da animali, da un’epoca di trasporti permezzo di veicoli mossi da una forza generata dall’acquariscaldata a mezzo del calore, nonchè da altre forze mo-trici di cui l’uomo si sarebbe servito successivamente.Tale evento era una svolta della storia, un episodio deidestini umani. Il «mostro» compiè due brevi tragitti; du-rante il primo demolì un muro dell’Arsenale; durante ilsecondo, si rovesciò e uccise un cittadino, vittima inno-cente del progresso e della propria curiosità. Il «mostro»di Cugnot venne trascinato – a trazione animale, questavolta – nell’Arsenale, dove è rimasto, esposto all’ammi-razione degli uomini di buona volontà. È degno di notail fatto che questo primo tentativo di veicolo mosso daforza motrice era munito di un volante che permettevadi regolarne la direzione, e di un cambio di velocità; era,insomma, un passo assai più vicino alla nostra automo-bile che non i tentativi seguiti poi nel medesimo senso.

Scarse furono le speranze riserbate all’idea di Cugnot.L’Assemblea Rivoluzionaria delegò il banchiere Rolanda ispezionare il veicolo. Il suo rapporto fu favorevole,ma non condusse a nulla di positivo. Poco dopo, il ban-

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chiere andava alla ghigliottina assieme a molti compa-gni suoi della Gironda; in carretta, e non in un veicolo amotore. Qualche tempo dopo, un famoso Maestro di Ar-tiglierie considerava il motore come un eventuale mezzoper trasportar cannoni. Ma Napoleone era tutto vòlto, inquel momento, ai suoi piani per la campagna d’Egitto, ea sogni di conquista dell’Oriente. Alla macchina di Cu-gnot egli riconobbe bensì un certo merito, ma non avevatempo per esperimenti. Se i cannoni napoleonici fosserostati trainati da un motore per la melma della piana diWaterloo, oggi sarebbero forse i Francesi e non gli In-glesi a celebrare il 18 giugno quale anniversario d’unagrande vittoria.

A Cugnot venne assegnata una pensione di 300 fran-chi annui, fino a che la Rivoluzione abolì pensioni e pri-vilegi in favore di un nuovo ordine di cose. Ricompensapiù che modesta, per una grande idea!

Nel medesimo anno, a un negoziante di telerie ingle-se, Francis Moore, veniva concesso un brevetto per unveicolo a motore. Ciò scombussolò un amico di Watt,certo dottor Small, il quale si affrettò a scrivergli, inco-raggiandolo a dare al mondo l’invenzione, da tempopromessa, di un «focoso veicolo». Al che Watt rispon-deva: «Se il pannaiuolo Moore non usa il mio motore,non può far camminare la sua carrozza. Se lo usa, sapròben io fermarlo».

L’anno prima che a Watt venisse concesso il brevetto,il dottor Small gli raccomandava un certo Richard Lo-well Edgeworth, come un «giovane gentiluomo a mezzi,

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chiere andava alla ghigliottina assieme a molti compa-gni suoi della Gironda; in carretta, e non in un veicolo amotore. Qualche tempo dopo, un famoso Maestro di Ar-tiglierie considerava il motore come un eventuale mezzoper trasportar cannoni. Ma Napoleone era tutto vòlto, inquel momento, ai suoi piani per la campagna d’Egitto, ea sogni di conquista dell’Oriente. Alla macchina di Cu-gnot egli riconobbe bensì un certo merito, ma non avevatempo per esperimenti. Se i cannoni napoleonici fosserostati trainati da un motore per la melma della piana diWaterloo, oggi sarebbero forse i Francesi e non gli In-glesi a celebrare il 18 giugno quale anniversario d’unagrande vittoria.

A Cugnot venne assegnata una pensione di 300 fran-chi annui, fino a che la Rivoluzione abolì pensioni e pri-vilegi in favore di un nuovo ordine di cose. Ricompensapiù che modesta, per una grande idea!

Nel medesimo anno, a un negoziante di telerie ingle-se, Francis Moore, veniva concesso un brevetto per unveicolo a motore. Ciò scombussolò un amico di Watt,certo dottor Small, il quale si affrettò a scrivergli, inco-raggiandolo a dare al mondo l’invenzione, da tempopromessa, di un «focoso veicolo». Al che Watt rispon-deva: «Se il pannaiuolo Moore non usa il mio motore,non può far camminare la sua carrozza. Se lo usa, sapròben io fermarlo».

L’anno prima che a Watt venisse concesso il brevetto,il dottor Small gli raccomandava un certo Richard Lo-well Edgeworth, come un «giovane gentiluomo a mezzi,

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spirito infaticabile e appassionato per la meccanica, ilquale è ben deciso a far camminare i veicoli col vaporacqueo».

Sembra che Watt sapesse persuadere il giovane a de-dicarsi ad altri interessi ancora, poichè quello stessoanno, Edgeworth riceveva una medaglia d’oro dalla So-cietà delle Arti, per una memoria sulle strade ferrate.Egli proponeva la costruzione di quattro strade elevatefuori di Londra: due per carri da trasporto che procedes-sero lentamente; due per carrozze di posta e vetture pri-vate. Nel 1812 rinnovava il progetto, aggiungendovimotori fissi, della specie costruita dai suoi amici, Watt eBolton. Si dice che a questi piani abbia lavorato per ol-tre quarant’anni, disegnando un cento e più modelli. Puòdarsi che le moderne autostrade, che evitano il trafficoautomobilistico a città e campagne, debbano ricollegarsiall’idea di Edgeworth.

Watt aveva un assistente, William Murdock, uno diquegli spiriti raramente geniali che sanno sfruttare leidee meccaniche, e che tanto hanno contribuito al benes-sere degli uomini in genere e ai profitti altrui. Che unuomo simile perdesse il suo tempo dietro a «focosi vei-coli» doveva esser certo un profondo dispiacere perWatt. Pare tuttavia che malgrado la disapprovazione delmaestro, Murdock arrivasse al punto da costruire unmodello; e Watt scriveva al suo socio Bolton: «A propo-sito, sarebbe mio vivo desiderio che William facessecome noi, cioè, badasse ai suoi affari e lasciasse che Sy-mington e Sadler sprecassero tempo e quattrini per dar

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spirito infaticabile e appassionato per la meccanica, ilquale è ben deciso a far camminare i veicoli col vaporacqueo».

Sembra che Watt sapesse persuadere il giovane a de-dicarsi ad altri interessi ancora, poichè quello stessoanno, Edgeworth riceveva una medaglia d’oro dalla So-cietà delle Arti, per una memoria sulle strade ferrate.Egli proponeva la costruzione di quattro strade elevatefuori di Londra: due per carri da trasporto che procedes-sero lentamente; due per carrozze di posta e vetture pri-vate. Nel 1812 rinnovava il progetto, aggiungendovimotori fissi, della specie costruita dai suoi amici, Watt eBolton. Si dice che a questi piani abbia lavorato per ol-tre quarant’anni, disegnando un cento e più modelli. Puòdarsi che le moderne autostrade, che evitano il trafficoautomobilistico a città e campagne, debbano ricollegarsiall’idea di Edgeworth.

Watt aveva un assistente, William Murdock, uno diquegli spiriti raramente geniali che sanno sfruttare leidee meccaniche, e che tanto hanno contribuito al benes-sere degli uomini in genere e ai profitti altrui. Che unuomo simile perdesse il suo tempo dietro a «focosi vei-coli» doveva esser certo un profondo dispiacere perWatt. Pare tuttavia che malgrado la disapprovazione delmaestro, Murdock arrivasse al punto da costruire unmodello; e Watt scriveva al suo socio Bolton: «A propo-sito, sarebbe mio vivo desiderio che William facessecome noi, cioè, badasse ai suoi affari e lasciasse che Sy-mington e Sadler sprecassero tempo e quattrini per dar

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la caccia alle ombre». Quando poi, nel 1786, Symingtone Sadler tentarono un veicolo a vapore, Watt interruppela loro caccia alle ombre con un realistico ordine delTribunale. Sembra che fosse Symington a costruire, dueanni dopo, un motore per una barca; e nel 1802 lo appli-cava alla famosa Charlotte Dundas, una barca che ri-morchiava le chiatte da carbone per il Duca di Brid-gewater. Sua Grazia si fece un dovere di ordinare diversidi quei motori, ma essendo egli morto prima che venis-sero consegnati, i suoi eredi si affrettarono a disdirel’ordinazione, non solo, ma disarmarono anche la Char-lotte Dundas.

Richard Trevithick, discepolo di William Murdock,era un «cacciatore di ombre», in conseguenza. Nel 1803egli costruiva un veicolo a vapore che suscitava la mera-viglia dei londinesi e lo esibiva su un binario circolare,per il modesto prezzo di uno scellino, compreso un giroper gli spettatori più coraggiosi. Tra questi, fortunata-mente per i posteri, si trovò un uomo di scienza, SirHumphrey Davy, il quale sarebbe stato il maestro di Fa-raday, il padre della moderna elettricità; egli commental’esperimento con le seguenti parole: «Dobbiamo spera-re che presto le strade inglesi siano infestate dai draghidel capitano Trevithick: un fatidico nome, in verità!».

Per poco che le strade d’Inghilterra a quei tempi fos-sero state migliori, all’altezza, diciamo, delle antichestrade romane, il desiderio dello scienziato avrebbe po-tuto essere esaudito. Il capitano Trevithick, come giàCugnot prima di lui, ebbe seguaci non indegni; così ci

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la caccia alle ombre». Quando poi, nel 1786, Symingtone Sadler tentarono un veicolo a vapore, Watt interruppela loro caccia alle ombre con un realistico ordine delTribunale. Sembra che fosse Symington a costruire, dueanni dopo, un motore per una barca; e nel 1802 lo appli-cava alla famosa Charlotte Dundas, una barca che ri-morchiava le chiatte da carbone per il Duca di Brid-gewater. Sua Grazia si fece un dovere di ordinare diversidi quei motori, ma essendo egli morto prima che venis-sero consegnati, i suoi eredi si affrettarono a disdirel’ordinazione, non solo, ma disarmarono anche la Char-lotte Dundas.

Richard Trevithick, discepolo di William Murdock,era un «cacciatore di ombre», in conseguenza. Nel 1803egli costruiva un veicolo a vapore che suscitava la mera-viglia dei londinesi e lo esibiva su un binario circolare,per il modesto prezzo di uno scellino, compreso un giroper gli spettatori più coraggiosi. Tra questi, fortunata-mente per i posteri, si trovò un uomo di scienza, SirHumphrey Davy, il quale sarebbe stato il maestro di Fa-raday, il padre della moderna elettricità; egli commental’esperimento con le seguenti parole: «Dobbiamo spera-re che presto le strade inglesi siano infestate dai draghidel capitano Trevithick: un fatidico nome, in verità!».

Per poco che le strade d’Inghilterra a quei tempi fos-sero state migliori, all’altezza, diciamo, delle antichestrade romane, il desiderio dello scienziato avrebbe po-tuto essere esaudito. Il capitano Trevithick, come giàCugnot prima di lui, ebbe seguaci non indegni; così ci

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prova Walter Hancock nel suo «Racconto di dodici annidi esperimenti coi veicoli a vapore: 1824-1836. – Dimo-strazione della praticità e dei vantaggi dell’uso di dettiVeicoli sulle Strade Maestre; con Disegni e Descrizionidei diversi Veicoli costruiti dall’Autore, la sua caldaiapatentata, e altre invenzioni».

Abbiamo sotto gli occhi quest’opera (pubblicatanell’anno 1838 da John Weale di High Holborn) mentrescriviamo per i nostri forse increduli lettori... È un’operaottima nel suo genere, lucida e succinta; e non mancapunto di veridicità. Nella prefazione, l’inventore osser-va:

«L’autore di queste pagine offenderebbe ogni verità,ove si subordinasse ad alcuno degli inventori di veicolia vapore precedentemente apparsi; egli cominciò assaiprima, con una sola e forse fallita eccezione, quella diCugnot, ed è andato assai più lontano di tutti gli altri;egli fu il primo a costruire e a far camminare un veicolòa nolo su una pubblica via, e rimane tuttora l’unica per-sona che si sia avventurata su un veicolo a vapore per leaffollate vie della Metropoli nell’ora di maggior traffico.

L’attenzione dell’autore di questa narrazione si volseal tema della locomozione a vapore sulle pubbliche vie,per aver egli inventato nel 1824 un motore a vapore chegli è sembrato singolarmente adatto allo scopo, e nellacostruzione del quale le sostanze metalliche non entranoche in quantità limitata, anzi sono completamente assen-ti dalle parti essenziali; e invece di ferro o rame è usatauna sostanza assai più leggera e resistente al tempo stes-

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prova Walter Hancock nel suo «Racconto di dodici annidi esperimenti coi veicoli a vapore: 1824-1836. – Dimo-strazione della praticità e dei vantaggi dell’uso di dettiVeicoli sulle Strade Maestre; con Disegni e Descrizionidei diversi Veicoli costruiti dall’Autore, la sua caldaiapatentata, e altre invenzioni».

Abbiamo sotto gli occhi quest’opera (pubblicatanell’anno 1838 da John Weale di High Holborn) mentrescriviamo per i nostri forse increduli lettori... È un’operaottima nel suo genere, lucida e succinta; e non mancapunto di veridicità. Nella prefazione, l’inventore osser-va:

«L’autore di queste pagine offenderebbe ogni verità,ove si subordinasse ad alcuno degli inventori di veicolia vapore precedentemente apparsi; egli cominciò assaiprima, con una sola e forse fallita eccezione, quella diCugnot, ed è andato assai più lontano di tutti gli altri;egli fu il primo a costruire e a far camminare un veicolòa nolo su una pubblica via, e rimane tuttora l’unica per-sona che si sia avventurata su un veicolo a vapore per leaffollate vie della Metropoli nell’ora di maggior traffico.

L’attenzione dell’autore di questa narrazione si volseal tema della locomozione a vapore sulle pubbliche vie,per aver egli inventato nel 1824 un motore a vapore chegli è sembrato singolarmente adatto allo scopo, e nellacostruzione del quale le sostanze metalliche non entranoche in quantità limitata, anzi sono completamente assen-ti dalle parti essenziali; e invece di ferro o rame è usatauna sostanza assai più leggera e resistente al tempo stes-

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so...».L’opera descrive le varie parti del congegno, e illustra

altresì con chiari disegni una caldaia tubolare che preve-niva il pericolo dell’esplosione. Altri accurati disegni dimacchine vi sono; e la prova suprema della veridicità ebuona fede dell’inventore ci è data dalla descrizione dicome il pubblico del XIX secolo accogliesse le «vetturea vapore»; atteggiamento in tutto e per tutto simile aquello che al principio del nostro secolo avrebbe susci-tato la prima apparizione dell’automobile:

«Tutti avevano udito parlare di un progetto per viag-giare a mezzo del vapore – dice Hancock – ma moltimanifestavano la medesima incredulità con cui noiascoltiamo favole di viaggi attraverso l’aere. L’autorefu il primo a offrire, a chiunque volesse constatarlo dipersona, una dimostrazione oculare della praticità delprogetto; a esibire alla luce del giorno e sulla pubblicavia una vettura mossa a vapore. Sebbene l’evidente pro-va non potesse essere contestata, non poco umiliante eralo scetticismo dei più. Alcuni ammettevano bensì che lavettura camminasse, ma manifestavano la loro decisaconvinzione che mai avesse a essere un mezzo pratico econtinuato di locomozione. Altri deprezzavano il valordella prova, esageravano le manchevolezze ed esultava-no a ogni incidentale fermata. Se poi qualche parte delmacchinario richiedeva una riparazione, circostanza na-turalmente frequente in un primo esperimento, l’inven-tore si trovava alle prese con la malvagità degli uomini.Prezzi esorbitanti gli venivano richiesti per i più trascu-

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so...».L’opera descrive le varie parti del congegno, e illustra

altresì con chiari disegni una caldaia tubolare che preve-niva il pericolo dell’esplosione. Altri accurati disegni dimacchine vi sono; e la prova suprema della veridicità ebuona fede dell’inventore ci è data dalla descrizione dicome il pubblico del XIX secolo accogliesse le «vetturea vapore»; atteggiamento in tutto e per tutto simile aquello che al principio del nostro secolo avrebbe susci-tato la prima apparizione dell’automobile:

«Tutti avevano udito parlare di un progetto per viag-giare a mezzo del vapore – dice Hancock – ma moltimanifestavano la medesima incredulità con cui noiascoltiamo favole di viaggi attraverso l’aere. L’autorefu il primo a offrire, a chiunque volesse constatarlo dipersona, una dimostrazione oculare della praticità delprogetto; a esibire alla luce del giorno e sulla pubblicavia una vettura mossa a vapore. Sebbene l’evidente pro-va non potesse essere contestata, non poco umiliante eralo scetticismo dei più. Alcuni ammettevano bensì che lavettura camminasse, ma manifestavano la loro decisaconvinzione che mai avesse a essere un mezzo pratico econtinuato di locomozione. Altri deprezzavano il valordella prova, esageravano le manchevolezze ed esultava-no a ogni incidentale fermata. Se poi qualche parte delmacchinario richiedeva una riparazione, circostanza na-turalmente frequente in un primo esperimento, l’inven-tore si trovava alle prese con la malvagità degli uomini.Prezzi esorbitanti gli venivano richiesti per i più trascu-

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rabili servizi...».E di questo passo il malcapitato inventore seguita a

descrivere le vessazioni di cui fu oggetto; le grida di de-risione con le quali il suo veicolo veniva accolto, el’ostruzionismo da parte degli altri veicoli, di carri e car-rozze e passanti a piedi e a cavallo, che talvolta giunge-vano a impedirgli letteralmente – per pura malignità espirito di contrarietà – di circolare liberamente. Egli ri-conosce che, tutto ben sommato, le sue prime gite eranolungi dall’essere piacevoli, e spesso anche perigliose eardue. Tante difficoltà non impedirono che Hancock fos-se il primo a istituire a Londra un regolare servizio diomnibus.

Un colorito articolo pubblicato in The IllustratedLondon News – «Antenati dell’Automobile» – ricordavari interessanti esperimenti di veicoli a motore, con il-lustrazioni tolte dalla bella collezione di Andouin Doll-fus. Vediamo così il «Protée» di Charles Dietz, che nel1834 rimorchiò una berlina da posta per i Champs-Ely-sées; l’alquanto dubbia ma elegante carrozza a vapore diW. H. James, con caldaia tubolare che andava a carbonedi legna e a coke, risalente al 1828; e uno schizzo dellanuova vettura a vapore di Gurney, che il 12 agosto 1829,ad Hounslow, ebbe l’onore di trasportare la ingombrantepersona del Duca di Wellington e di altri gentiluomini diqualità. E c’è, infine, una convincente stampa a coloridel celebre trio «Era», «Infant» e «Autopsy» di WalterHancock, che tra gli anni 1823-1834 disimpegnarono unpiù o meno regolare servizio pubblico tra Moorsfield e

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rabili servizi...».E di questo passo il malcapitato inventore seguita a

descrivere le vessazioni di cui fu oggetto; le grida di de-risione con le quali il suo veicolo veniva accolto, el’ostruzionismo da parte degli altri veicoli, di carri e car-rozze e passanti a piedi e a cavallo, che talvolta giunge-vano a impedirgli letteralmente – per pura malignità espirito di contrarietà – di circolare liberamente. Egli ri-conosce che, tutto ben sommato, le sue prime gite eranolungi dall’essere piacevoli, e spesso anche perigliose eardue. Tante difficoltà non impedirono che Hancock fos-se il primo a istituire a Londra un regolare servizio diomnibus.

Un colorito articolo pubblicato in The IllustratedLondon News – «Antenati dell’Automobile» – ricordavari interessanti esperimenti di veicoli a motore, con il-lustrazioni tolte dalla bella collezione di Andouin Doll-fus. Vediamo così il «Protée» di Charles Dietz, che nel1834 rimorchiò una berlina da posta per i Champs-Ely-sées; l’alquanto dubbia ma elegante carrozza a vapore diW. H. James, con caldaia tubolare che andava a carbonedi legna e a coke, risalente al 1828; e uno schizzo dellanuova vettura a vapore di Gurney, che il 12 agosto 1829,ad Hounslow, ebbe l’onore di trasportare la ingombrantepersona del Duca di Wellington e di altri gentiluomini diqualità. E c’è, infine, una convincente stampa a coloridel celebre trio «Era», «Infant» e «Autopsy» di WalterHancock, che tra gli anni 1823-1834 disimpegnarono unpiù o meno regolare servizio pubblico tra Moorsfield e

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Paddington nella città di Londra.I veicoli a vapore scomparvero dalle pubbliche strade

di Londra, in seguito a una combinazione di circostanze.Le strade erano in cattivo stato; e dal 1830 in poi la con-correnza delle ferrovie cominciò a farsi sentire; e i pro-prietari di carri e carrozze e veicoli d’ogni specie a tra-zione animale, e le compagnie che possedevano i dirittidi pedaggio sulle strade, gli albergatori e persino i mer-canti di fieno e foraggio – poco meno che tutti, insom-ma – parvero contrari all’innovazione. Tuttavia, malgra-do le opposizioni, i contrasti e le difficoltà di naturameccanica inevitabili in ogni nuova macchina, il primopasso era fatto: la moderna automobile non manca, aquanto pare, di degni e onesti antenati. L’acqua e il fuo-co sono eterni, più di quanto non lo sia la benzina; echissà che un giorno il vapore non torni ad essere la for-za motrice sulla strada.

In ogni modo, la soluzione dei grandi problemi di tra-sporto per terra non poteva trovarsi in una sola inven-zione, per quanto brillante, ma in un complesso di in-venzioni separate, e infine nell’associazione di stradeferrate, o a rotaie, e di locomotive a vapore: per compor-re, insomma, quella che è la nostra moderna Ferrovia.

La storia della Ferrovia è connessa alla storia del car-bone, sin dai tempi più antichi. I Romani avevanoestratto il carbone dalle miniere della Britannia, quandoquesta era una delle più lontane provincie occidentalidell’impero. Il carbone fu trasportato in ceste sulle cur-ve spalle degli schiavi, per mezzo di cavalli e muli da

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Paddington nella città di Londra.I veicoli a vapore scomparvero dalle pubbliche strade

di Londra, in seguito a una combinazione di circostanze.Le strade erano in cattivo stato; e dal 1830 in poi la con-correnza delle ferrovie cominciò a farsi sentire; e i pro-prietari di carri e carrozze e veicoli d’ogni specie a tra-zione animale, e le compagnie che possedevano i dirittidi pedaggio sulle strade, gli albergatori e persino i mer-canti di fieno e foraggio – poco meno che tutti, insom-ma – parvero contrari all’innovazione. Tuttavia, malgra-do le opposizioni, i contrasti e le difficoltà di naturameccanica inevitabili in ogni nuova macchina, il primopasso era fatto: la moderna automobile non manca, aquanto pare, di degni e onesti antenati. L’acqua e il fuo-co sono eterni, più di quanto non lo sia la benzina; echissà che un giorno il vapore non torni ad essere la for-za motrice sulla strada.

In ogni modo, la soluzione dei grandi problemi di tra-sporto per terra non poteva trovarsi in una sola inven-zione, per quanto brillante, ma in un complesso di in-venzioni separate, e infine nell’associazione di stradeferrate, o a rotaie, e di locomotive a vapore: per compor-re, insomma, quella che è la nostra moderna Ferrovia.

La storia della Ferrovia è connessa alla storia del car-bone, sin dai tempi più antichi. I Romani avevanoestratto il carbone dalle miniere della Britannia, quandoquesta era una delle più lontane provincie occidentalidell’impero. Il carbone fu trasportato in ceste sulle cur-ve spalle degli schiavi, per mezzo di cavalli e muli da

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soma; poi per mezzo di carri a due ruote, tirati da cavallie da buoi; per mezzo di carri a quattro ruote; su strademaestre e strade a rotaie entro carrelli, e in ultimo entrovagoni ferroviari.

Un certo signor Beaumont, di dubbia identità, riven-dica l’invenzione delle rotaie di legno nelle regioni car-bonifere intorno a Newcastle, sul principio del XVII se-colo, e lamenta di averci rimesso 30.000 lire sterline e diessersene tornato a casa sua a cavallo. Ma Roger North– fratello di un Lord Cancelliere – descrive una strada arotaie, vista a Newcastle nel 1672, sotto il regno di Car-lo II. Il trasporto del carbone avveniva dalla miniera alfiume per mezzo di carri, i quali erano avviati su rotaiedi legno a rettilineo; con questo sistema, un solo cavalloera in grado di tirare da otto a nove tonnellate alla volta.Ma già allora, secondo il North, i proprietari di minierelevavano alte lamentele per i forti diritti imposti dai pro-prietari dei terreni su cui passavano le rotaie. La società,come si vede, non ristava neanche in questo casodall’imporre le sue tasse sul «progresso».

In un secondo tempo, le rotaie di legno furono rivesti-te d’un foglio di ferro; le ruote erano concave, e le rotaieconvesse, stando ai documenti dell’epoca, «agivanocome puleggie». Ma già nel 1738 appaiono le rotaie diferro; e nel 1767 le Coalbrookdale Iron Works nel Sh-ropshire ne fondevano cinque o sei tonnellate. Nel 1776,un ingegnoso ma sconsigliato John Curr disegnava e co-struiva per le miniere del Duca di Norfolk presso Shef-field una «strada ferrata» con rotaie di ferro rialzate. Gli

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soma; poi per mezzo di carri a due ruote, tirati da cavallie da buoi; per mezzo di carri a quattro ruote; su strademaestre e strade a rotaie entro carrelli, e in ultimo entrovagoni ferroviari.

Un certo signor Beaumont, di dubbia identità, riven-dica l’invenzione delle rotaie di legno nelle regioni car-bonifere intorno a Newcastle, sul principio del XVII se-colo, e lamenta di averci rimesso 30.000 lire sterline e diessersene tornato a casa sua a cavallo. Ma Roger North– fratello di un Lord Cancelliere – descrive una strada arotaie, vista a Newcastle nel 1672, sotto il regno di Car-lo II. Il trasporto del carbone avveniva dalla miniera alfiume per mezzo di carri, i quali erano avviati su rotaiedi legno a rettilineo; con questo sistema, un solo cavalloera in grado di tirare da otto a nove tonnellate alla volta.Ma già allora, secondo il North, i proprietari di minierelevavano alte lamentele per i forti diritti imposti dai pro-prietari dei terreni su cui passavano le rotaie. La società,come si vede, non ristava neanche in questo casodall’imporre le sue tasse sul «progresso».

In un secondo tempo, le rotaie di legno furono rivesti-te d’un foglio di ferro; le ruote erano concave, e le rotaieconvesse, stando ai documenti dell’epoca, «agivanocome puleggie». Ma già nel 1738 appaiono le rotaie diferro; e nel 1767 le Coalbrookdale Iron Works nel Sh-ropshire ne fondevano cinque o sei tonnellate. Nel 1776,un ingegnoso ma sconsigliato John Curr disegnava e co-struiva per le miniere del Duca di Norfolk presso Shef-field una «strada ferrata» con rotaie di ferro rialzate. Gli

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operai si opposero recisamente all’idea. Se rendeva piùfacili i trasporti, avrebbe causato disoccupazione e ridot-to i salari. Così «sabotarono» la strada ferrata, e perpoco non minacciarono di impiccare il malcapitato in-ventore, a incoraggiamento della sua virtù. Tuttavia,un’idea che in sè era pratica doveva seguire, bene omale, il proprio corso. Nel 1789, William Jessop co-struiva un’altra strada a rotaie, questa volta non con ro-taie ma con ruote rialzate; qui appare per la prima voltail sistema moderno che impedisce al veicolo di scivolaree uscire dalle rotaie, ovvero deragliare.

Numerosi episodi, incidenti e tentativi potremo anco-ra citare, a confermare l’importanza delle rotaie nel pro-blema generale dei trasporti. Se ci siamo soffermati suquesto particolare, è perchè sembra sussista ancora unamentalità che si ostina a credere che le strade ferrate sia-no state o saranno soppiantate dagli autocarri a benzinao dall’aeroplano come mezzi di trasporto più economici.La strada munita di rotaie d’acciaio è ancora sempre ilmezzo di trasporto più pratico ed economico; e il suoavvento segna nella società un mutamento altrettantogrande, quanto quello che millenni fa dovette crearel’apparizione del veicolo a ruote tirato da animali addo-mesticati.

La prima età eroica dei veicoli a vapore sta tra il 1769e il 1830. Appena 61 anni separano il «mostro» a vaporedi Cugnot dalla completa moderna ferrovia di GiorgioStephenson. Questo breve lasso di tempo brulica addirit-tura di geniali invenzioni, molte delle quali note solo in

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operai si opposero recisamente all’idea. Se rendeva piùfacili i trasporti, avrebbe causato disoccupazione e ridot-to i salari. Così «sabotarono» la strada ferrata, e perpoco non minacciarono di impiccare il malcapitato in-ventore, a incoraggiamento della sua virtù. Tuttavia,un’idea che in sè era pratica doveva seguire, bene omale, il proprio corso. Nel 1789, William Jessop co-struiva un’altra strada a rotaie, questa volta non con ro-taie ma con ruote rialzate; qui appare per la prima voltail sistema moderno che impedisce al veicolo di scivolaree uscire dalle rotaie, ovvero deragliare.

Numerosi episodi, incidenti e tentativi potremo anco-ra citare, a confermare l’importanza delle rotaie nel pro-blema generale dei trasporti. Se ci siamo soffermati suquesto particolare, è perchè sembra sussista ancora unamentalità che si ostina a credere che le strade ferrate sia-no state o saranno soppiantate dagli autocarri a benzinao dall’aeroplano come mezzi di trasporto più economici.La strada munita di rotaie d’acciaio è ancora sempre ilmezzo di trasporto più pratico ed economico; e il suoavvento segna nella società un mutamento altrettantogrande, quanto quello che millenni fa dovette crearel’apparizione del veicolo a ruote tirato da animali addo-mesticati.

La prima età eroica dei veicoli a vapore sta tra il 1769e il 1830. Appena 61 anni separano il «mostro» a vaporedi Cugnot dalla completa moderna ferrovia di GiorgioStephenson. Questo breve lasso di tempo brulica addirit-tura di geniali invenzioni, molte delle quali note solo in

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parte, mentre altre sono sfuggite alla notorietà, e non sa-ranno forse mai nemmeno segnalate all’attenzione deiposteri. In così breve spazio di tempo, ci dovrebbe puressere una sequenza d’idee facile a rintracciarsi; nonpuò essere una storia sconnessa, se non per la natura in-completa dei dati di cui disponiamo. Giorgio Stephen-son stesso riassunse il concetto con chiarezza e mode-stia, quando, già alle soglie della fama, disse: «La loco-motiva a vapore non fu l’invenzione di un singolouomo, ma di un’intera nazione d’ingegneri meccanici».Proveniva da cervelli e mani d’una razza di uomini pra-tici e tenaci: quegli stessi che, alcune generazioni dopo,avrebbero costruito la moderna automobile. Stephensonsarebbe stato certo l’ultimo a mostrarsi scettico versol’ultimo modello di William Murdock – del 1789 – overso Walter Hancock e gli altri costruttori di veicoli avapore.

Potrebbe ben darsi che lo stesso Stephenson avessepreso l’idea della sua locomotiva dalla macchina di Tre-vithick: che questa corresse sulle rotaie nel 1803, ce lotestimonia Sir Humphrey Davy, il quale compie un viag-gio a bordo del «Drago delle Strade». E così non c’è ra-gione di negare alla locomotiva di Blenkensop (1811) ilposto che merita nella storia della locomotiva a vapore.L’inventore ce ne lasciò una lucida descrizione. Basatain parte sui piani di Trevithick, aveva due cilindri inveced’uno solo, ruote dentate che s’incastravano in rotaieugualmente dentate, allo scopo di aumentare la trazione;pesava 5 tonnellate, consumava 63 libbre e 50 galloni

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parte, mentre altre sono sfuggite alla notorietà, e non sa-ranno forse mai nemmeno segnalate all’attenzione deiposteri. In così breve spazio di tempo, ci dovrebbe puressere una sequenza d’idee facile a rintracciarsi; nonpuò essere una storia sconnessa, se non per la natura in-completa dei dati di cui disponiamo. Giorgio Stephen-son stesso riassunse il concetto con chiarezza e mode-stia, quando, già alle soglie della fama, disse: «La loco-motiva a vapore non fu l’invenzione di un singolouomo, ma di un’intera nazione d’ingegneri meccanici».Proveniva da cervelli e mani d’una razza di uomini pra-tici e tenaci: quegli stessi che, alcune generazioni dopo,avrebbero costruito la moderna automobile. Stephensonsarebbe stato certo l’ultimo a mostrarsi scettico versol’ultimo modello di William Murdock – del 1789 – overso Walter Hancock e gli altri costruttori di veicoli avapore.

Potrebbe ben darsi che lo stesso Stephenson avessepreso l’idea della sua locomotiva dalla macchina di Tre-vithick: che questa corresse sulle rotaie nel 1803, ce lotestimonia Sir Humphrey Davy, il quale compie un viag-gio a bordo del «Drago delle Strade». E così non c’è ra-gione di negare alla locomotiva di Blenkensop (1811) ilposto che merita nella storia della locomotiva a vapore.L’inventore ce ne lasciò una lucida descrizione. Basatain parte sui piani di Trevithick, aveva due cilindri inveced’uno solo, ruote dentate che s’incastravano in rotaieugualmente dentate, allo scopo di aumentare la trazione;pesava 5 tonnellate, consumava 63 libbre e 50 galloni

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d’acqua all’ora ed era in grado di tirare 27 vagoni dicarbone, del peso di 93 tonnellate, alla media velocità ditre miglia e mezzo all’ora in piano. Con un carico piùleggero, raggiungeva la velocità di dieci miglia all’ora.Compieva il lavoro di sedici cavalli; il suo costo era di400 lire sterline. Prestò un servizio continuato pervent’anni, trasportando carbone dalle miniere. Fu un fat-to meccanico, e non un mito.

Nel 1812, in parte per merito proprio, in parte in se-guito alla morte – dovuta a un accidente – del «VecchioCree» Stephenson prendeva il posto di lui, come inge-gnere capo ad High Pit Colliery13, con uno stipendio di100 sterline l’anno. Si cominciava a parlare di lui; e coni direttori, la sua parola contava. Per prima cosa, egli liindusse ad acquistare un modello del motore di Blen-kensop. Poi, fece ciò che da anni faceva coi motori: losmontò, e vi apportò alcune modificazioni. Sapeva or-mai che le ruote lisce avevano sufficiente forza di tra-zione; abolì dunque le ruote dentate e più lente. Modifi-cò anche il congegno di Trevithick, per poter usareugualmente coke e carbone di legna; e tra questi e altrimutamenti di minor conto, ottenne una macchina chefunzionava meglio. Più tardi, disse: «Ho costruito» (enon disse «inventato») «la mia prima macchina alla mi-niera di Killineworth, e col denaro di Lord Ravenswor-th. Dissi allora ai miei amici che non c’erano limiti allavelocità di un motore simile».

13 Letteralmente: la Miniera del Pozzo alto (N. d. Tr.).

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d’acqua all’ora ed era in grado di tirare 27 vagoni dicarbone, del peso di 93 tonnellate, alla media velocità ditre miglia e mezzo all’ora in piano. Con un carico piùleggero, raggiungeva la velocità di dieci miglia all’ora.Compieva il lavoro di sedici cavalli; il suo costo era di400 lire sterline. Prestò un servizio continuato pervent’anni, trasportando carbone dalle miniere. Fu un fat-to meccanico, e non un mito.

Nel 1812, in parte per merito proprio, in parte in se-guito alla morte – dovuta a un accidente – del «VecchioCree» Stephenson prendeva il posto di lui, come inge-gnere capo ad High Pit Colliery13, con uno stipendio di100 sterline l’anno. Si cominciava a parlare di lui; e coni direttori, la sua parola contava. Per prima cosa, egli liindusse ad acquistare un modello del motore di Blen-kensop. Poi, fece ciò che da anni faceva coi motori: losmontò, e vi apportò alcune modificazioni. Sapeva or-mai che le ruote lisce avevano sufficiente forza di tra-zione; abolì dunque le ruote dentate e più lente. Modifi-cò anche il congegno di Trevithick, per poter usareugualmente coke e carbone di legna; e tra questi e altrimutamenti di minor conto, ottenne una macchina chefunzionava meglio. Più tardi, disse: «Ho costruito» (enon disse «inventato») «la mia prima macchina alla mi-niera di Killineworth, e col denaro di Lord Ravenswor-th. Dissi allora ai miei amici che non c’erano limiti allavelocità di un motore simile».

13 Letteralmente: la Miniera del Pozzo alto (N. d. Tr.).

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Non c’è ragione di dubitare che Stephenson fosse or-mai preparato al suo grande compito. Egli intuiva la par-te che la locomotiva avrebbe assunto nella storia dellaciviltà: perciò egli patrocinava il vapore, e non i cavalli,e nemmeno il motore fisso. Più tardi, suo figlio disse de-gli studi paterni sulle strade ferrate, sulle rotaie e sullapendenza delle strade. Stephenson aveva la visione delgiusto rapporto fra tutti questi elementi, compresa la lo-comotiva. Egli aveva concepito l’idea della ferrovia mo-derna, la quale avrebbe operato nei trasporti il più gran-de cambiamento dall’Epoca Neolitica, da quando unignoto genio aveva oppresso di un gioco le robuste spal-le di un paziente bove, attaccandolo poi a un carro a dueruote, onde trasportare la ricchezza per i rudimentalisentieri del mondo.

Ma se Giorgio era pronto, se nel suo ingegnoso cer-vello c’era la visione, e nel suo cuore impavido il corag-gio di risparmiare al mondo tante opprimenti fatiche, lasua epoca non era ancora pronta. Anche oggi, quando ilmondo intero è unito da una immensa rete di rotaie, ladata «1815» evoca alla mente il nome di Waterloo, enon quello di Stephenson. Wellington e Napoleone, casostrano, erano nati entrambi nel 1769, lo stesso anno incui Watt prendeva il suo primo brevetto per un motore avapore, Arkwight il primo brevetto per il suo famoso«telaio ad acqua» e il veicolo a vapore di Cughot com-pieva i due brevi memorabili viaggi nelle vie di Parigi.Col tempo, Napoleone saliva al trono, e nell’anno in cuiStephenson veniva nominato ingegnere capo alla minie-

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Non c’è ragione di dubitare che Stephenson fosse or-mai preparato al suo grande compito. Egli intuiva la par-te che la locomotiva avrebbe assunto nella storia dellaciviltà: perciò egli patrocinava il vapore, e non i cavalli,e nemmeno il motore fisso. Più tardi, suo figlio disse de-gli studi paterni sulle strade ferrate, sulle rotaie e sullapendenza delle strade. Stephenson aveva la visione delgiusto rapporto fra tutti questi elementi, compresa la lo-comotiva. Egli aveva concepito l’idea della ferrovia mo-derna, la quale avrebbe operato nei trasporti il più gran-de cambiamento dall’Epoca Neolitica, da quando unignoto genio aveva oppresso di un gioco le robuste spal-le di un paziente bove, attaccandolo poi a un carro a dueruote, onde trasportare la ricchezza per i rudimentalisentieri del mondo.

Ma se Giorgio era pronto, se nel suo ingegnoso cer-vello c’era la visione, e nel suo cuore impavido il corag-gio di risparmiare al mondo tante opprimenti fatiche, lasua epoca non era ancora pronta. Anche oggi, quando ilmondo intero è unito da una immensa rete di rotaie, ladata «1815» evoca alla mente il nome di Waterloo, enon quello di Stephenson. Wellington e Napoleone, casostrano, erano nati entrambi nel 1769, lo stesso anno incui Watt prendeva il suo primo brevetto per un motore avapore, Arkwight il primo brevetto per il suo famoso«telaio ad acqua» e il veicolo a vapore di Cughot com-pieva i due brevi memorabili viaggi nelle vie di Parigi.Col tempo, Napoleone saliva al trono, e nell’anno in cuiStephenson veniva nominato ingegnere capo alla minie-

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ra di High Pit, errava per le nevose piane di Russia, e ri-posava poi nell’isola d’Elba, mentre l’Europa traeva unlungo respiro. Ma nel 1815 (l’anno in cui Stephenson«costruiva» il suo primo motore) il Côrso ritornava nelContinente, per quello spazio di cento giorni che avreb-bero avuto fine con la lunga e penosa giornata di giugnoa Waterloo. La grande battaglia fu combattuta, vinta eperduta con fucili a piastra, e le piastre che vinsero laguerra venivano da Brandon in Inghilterra, dove sin daitempi neolitici si scavava silice. Quelle piastre di siliceerano essenziali per i fucili; quindi aumentarono di prez-zo: un migliaio veniva a costare due lire sterline, e poi-chè un bravo selciaiolo riusciva a produrne tremila algiorno, veniva a guadagnare 30 sterline la settimana,quando Stephenson non ne guadagnava che due. I valoricontemporanei necessitano spesso di una revisione allume della storia. La guerra ebbe tuttavia un effetto sa-lutare: fece crescere il prezzo dei cavalli e dei foraggi,portando così gli uomini d’affari a riflettere sul vapore esulle strade ferrate, spianando in questo modo la via alprimo grande costruttore moderno di ferrovie.

I grandi amori di Madre Necessità destano l’interessedell’umanità intera; non così i suoi occasionali amoretti.Questo sarebbe un altro modo di constatare che l’«in-venzione» si compone di un infinito numero di inven-zioni secondarie, in apparenza sconnesse, ma che in de-finitiva si associano in un complesso coerente e chiaro atutti. C’è una gloria, la quale si riflette su ogni grandeconquista, ma tanto più lascia nell’ombra lenti passi esi-

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ra di High Pit, errava per le nevose piane di Russia, e ri-posava poi nell’isola d’Elba, mentre l’Europa traeva unlungo respiro. Ma nel 1815 (l’anno in cui Stephenson«costruiva» il suo primo motore) il Côrso ritornava nelContinente, per quello spazio di cento giorni che avreb-bero avuto fine con la lunga e penosa giornata di giugnoa Waterloo. La grande battaglia fu combattuta, vinta eperduta con fucili a piastra, e le piastre che vinsero laguerra venivano da Brandon in Inghilterra, dove sin daitempi neolitici si scavava silice. Quelle piastre di siliceerano essenziali per i fucili; quindi aumentarono di prez-zo: un migliaio veniva a costare due lire sterline, e poi-chè un bravo selciaiolo riusciva a produrne tremila algiorno, veniva a guadagnare 30 sterline la settimana,quando Stephenson non ne guadagnava che due. I valoricontemporanei necessitano spesso di una revisione allume della storia. La guerra ebbe tuttavia un effetto sa-lutare: fece crescere il prezzo dei cavalli e dei foraggi,portando così gli uomini d’affari a riflettere sul vapore esulle strade ferrate, spianando in questo modo la via alprimo grande costruttore moderno di ferrovie.

I grandi amori di Madre Necessità destano l’interessedell’umanità intera; non così i suoi occasionali amoretti.Questo sarebbe un altro modo di constatare che l’«in-venzione» si compone di un infinito numero di inven-zioni secondarie, in apparenza sconnesse, ma che in de-finitiva si associano in un complesso coerente e chiaro atutti. C’è una gloria, la quale si riflette su ogni grandeconquista, ma tanto più lascia nell’ombra lenti passi esi-

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tanti lungo i sentieri che conducono a nuove altezze diperfezione tecnica. Eppure anche coloro i quali sepperoattendere, o altro non fecero che aggiungere olio allelampade, servirono l’Idea e vi collaborarono. L’inven-zione, meccanica o sociale, è nel migliore dei casi unprocesso elaborato e spesso invisibile. Un po’ piùd’introspezione, un esame un po’ più acuto dei dati difatto (in gran parte, purtroppo, perduti o sepolti) potreb-be portare al riconoscimento dell’opera degli uominioscuri e obliati e delle loro idee sommerse. Ma lo spazionon ci consente di abbandonarci troppo a riflessionid’ordine morale e filosofico. Ci fu un tempo, come sap-piamo, in cui l’uomo portava da sè il proprio fardello efaceva da bestia da soma. Ci fu, probabilmente, un’epo-ca di transizione, tra questa lunga e faticosa êra e il pri-mo bue bardato e attaccato a un traino, e il primo caval-lo domato e il carro a due ruote. C’è una sequenza tra ilsentiero segnato dal passo dell’uomo, la strada vera epropria, e la via maestra lastricata di blocchi di pietra. Ecosì c’è un’altra e più coerente sequenza tra le prime ro-taie di legno e la strada ferrata, tra il veicolo a vapore ela locomotiva che corre su rotaie. Alla fine di quest’ulti-mo complesso di molte idee c’è il concetto, e poi il fattocompiuto, della ferrovia moderna: la più grande conqui-sta dell’uomo nei trasporti terrestri di tempo e di spazio.A quest’opera contribuirono molti uomini, ma chi laconcepì fu uno solo.

Di tutti gli spettacoli visibili agli occhi degli uominiin Inghilterra sul finire del XVIII secolo, quello di un

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tanti lungo i sentieri che conducono a nuove altezze diperfezione tecnica. Eppure anche coloro i quali sepperoattendere, o altro non fecero che aggiungere olio allelampade, servirono l’Idea e vi collaborarono. L’inven-zione, meccanica o sociale, è nel migliore dei casi unprocesso elaborato e spesso invisibile. Un po’ piùd’introspezione, un esame un po’ più acuto dei dati difatto (in gran parte, purtroppo, perduti o sepolti) potreb-be portare al riconoscimento dell’opera degli uominioscuri e obliati e delle loro idee sommerse. Ma lo spazionon ci consente di abbandonarci troppo a riflessionid’ordine morale e filosofico. Ci fu un tempo, come sap-piamo, in cui l’uomo portava da sè il proprio fardello efaceva da bestia da soma. Ci fu, probabilmente, un’epo-ca di transizione, tra questa lunga e faticosa êra e il pri-mo bue bardato e attaccato a un traino, e il primo caval-lo domato e il carro a due ruote. C’è una sequenza tra ilsentiero segnato dal passo dell’uomo, la strada vera epropria, e la via maestra lastricata di blocchi di pietra. Ecosì c’è un’altra e più coerente sequenza tra le prime ro-taie di legno e la strada ferrata, tra il veicolo a vapore ela locomotiva che corre su rotaie. Alla fine di quest’ulti-mo complesso di molte idee c’è il concetto, e poi il fattocompiuto, della ferrovia moderna: la più grande conqui-sta dell’uomo nei trasporti terrestri di tempo e di spazio.A quest’opera contribuirono molti uomini, ma chi laconcepì fu uno solo.

Di tutti gli spettacoli visibili agli occhi degli uominiin Inghilterra sul finire del XVIII secolo, quello di un

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Page 307: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

fanciullo scalzo che spingeva le sue mucche al pascololungo le rotaie di una miniera di carbone, sarebbe parsocerto il meno importante e degno di nota; e la miniera diNewcastleon-Tyne, lo sfondo meno ispirante e dramma-tico. Ma quel fanciullo era Giorgio Stephenson, il qualesu quella via lungo la miniera aveva un convegno conMadre Necessità, e si preparava per la sua futura e allo-ra insospettata avventura. Per i suoi modesti servigi egliriceveva due pence al giorno; non, s’intende, dalla com-pagnia delle miniere, ma da una certa vedova Ainslie,proprietaria delle mucche. Giorgio non era che un dentedi più nella gran ruota di quel caotico e intricato sistemache traeva carbone dalle buie e umide profondità dellamartoriata terra, e lo portava alla luce del giorno, ondesoddisfare alle urgenti e sempre più incalzanti necessitàdell’Inghilterra per combustibile e potenza. Egli era unodei tanti gnomi che servivano i Signori dell’Oro Nero.Non c’era, in tutta Inghilterra, un cucciolo di cane dacaccia cui la società tributasse meno cure e sollecitudinidi lui; eppure non c’era forse, in tutta Inghilterra o intutto il mondo, vita più preziosa della sua.

Una parte di quella via lungo la miniera era stata untempo strada romana, e di là erano passate le legioni,quando la Britannia era la più lontana provincia occi-dentale. Qui i vagoncini che trasportavano il carboneprogredivano un po’ meglio quando il tempo era umido.Se questo fatto sfuggì allo spirito d’osservazione delfanciullo, alla sua vivace intelligenza, è certo l’unicofatto attinente a strade, strati di terreno, pendenze o tra-

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fanciullo scalzo che spingeva le sue mucche al pascololungo le rotaie di una miniera di carbone, sarebbe parsocerto il meno importante e degno di nota; e la miniera diNewcastleon-Tyne, lo sfondo meno ispirante e dramma-tico. Ma quel fanciullo era Giorgio Stephenson, il qualesu quella via lungo la miniera aveva un convegno conMadre Necessità, e si preparava per la sua futura e allo-ra insospettata avventura. Per i suoi modesti servigi egliriceveva due pence al giorno; non, s’intende, dalla com-pagnia delle miniere, ma da una certa vedova Ainslie,proprietaria delle mucche. Giorgio non era che un dentedi più nella gran ruota di quel caotico e intricato sistemache traeva carbone dalle buie e umide profondità dellamartoriata terra, e lo portava alla luce del giorno, ondesoddisfare alle urgenti e sempre più incalzanti necessitàdell’Inghilterra per combustibile e potenza. Egli era unodei tanti gnomi che servivano i Signori dell’Oro Nero.Non c’era, in tutta Inghilterra, un cucciolo di cane dacaccia cui la società tributasse meno cure e sollecitudinidi lui; eppure non c’era forse, in tutta Inghilterra o intutto il mondo, vita più preziosa della sua.

Una parte di quella via lungo la miniera era stata untempo strada romana, e di là erano passate le legioni,quando la Britannia era la più lontana provincia occi-dentale. Qui i vagoncini che trasportavano il carboneprogredivano un po’ meglio quando il tempo era umido.Se questo fatto sfuggì allo spirito d’osservazione delfanciullo, alla sua vivace intelligenza, è certo l’unicofatto attinente a strade, strati di terreno, pendenze o tra-

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sporti che lo abbia poi eluso negli anni che seguirono.Giorgio era figlio di un umile contadino scozzese, di-

ventato in seguito minatore, il quale s’era trovato incondizioni migliori, a servizio di un nobile caduto poi inrovina. Un compagno di sventura, che lo aveva cono-sciuto in altri tempi, ci ha lasciato una breve ma elo-quente descrizione della famiglia. Sembra che «Geor-die» e suo padre fossero ottimi individui, sebbene un po’bizzarri, come spesso accade agli Scozzesi. La madre,Mabel, era di salute cagionevole, e, sembra, alquantovolubile. Era un’onesta famiglia, ma non troppo favoritadalla sorte. Il padre non guadagnò mai più di dodiciscellini il giorno in vita sua, e non mandò mai a scuolanessuno dei suoi sei rampolli.

Giorgio lavorò dapprima nelle fattorie dei dintorni;s’impiegò poi alla miniera; a quindici anni era aiutantedel padre, ma a diciotto era già macchinista, e guada-gnava anche lui i suoi dodici scellini la settimana: unabuona paga, se si pensa che allora i tessitori non ne gua-dagnavano che cinque, e in condizioni sempre aleatorie.

A quell’epoca, Giorgio non sapeva nè leggere nè scri-vere. A spese proprie (sei scellini la settimana) e ruban-do le ore al sonno, imparò tanto a leggere quanto a scri-vere. Nel 1797 lo troviamo già allievo di matematicapresso un Andrew Cowens, alle medesime condizioni.Evidentemente Giorgio aveva cominciato a sospettareche nei libri si potesse imparare qualcosa sulle macchi-ne; ed era ben deciso a non rinunciarvi.

Al principio del XIX secolo, le classi alte in Inghilter-

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sporti che lo abbia poi eluso negli anni che seguirono.Giorgio era figlio di un umile contadino scozzese, di-

ventato in seguito minatore, il quale s’era trovato incondizioni migliori, a servizio di un nobile caduto poi inrovina. Un compagno di sventura, che lo aveva cono-sciuto in altri tempi, ci ha lasciato una breve ma elo-quente descrizione della famiglia. Sembra che «Geor-die» e suo padre fossero ottimi individui, sebbene un po’bizzarri, come spesso accade agli Scozzesi. La madre,Mabel, era di salute cagionevole, e, sembra, alquantovolubile. Era un’onesta famiglia, ma non troppo favoritadalla sorte. Il padre non guadagnò mai più di dodiciscellini il giorno in vita sua, e non mandò mai a scuolanessuno dei suoi sei rampolli.

Giorgio lavorò dapprima nelle fattorie dei dintorni;s’impiegò poi alla miniera; a quindici anni era aiutantedel padre, ma a diciotto era già macchinista, e guada-gnava anche lui i suoi dodici scellini la settimana: unabuona paga, se si pensa che allora i tessitori non ne gua-dagnavano che cinque, e in condizioni sempre aleatorie.

A quell’epoca, Giorgio non sapeva nè leggere nè scri-vere. A spese proprie (sei scellini la settimana) e ruban-do le ore al sonno, imparò tanto a leggere quanto a scri-vere. Nel 1797 lo troviamo già allievo di matematicapresso un Andrew Cowens, alle medesime condizioni.Evidentemente Giorgio aveva cominciato a sospettareche nei libri si potesse imparare qualcosa sulle macchi-ne; ed era ben deciso a non rinunciarvi.

Al principio del XIX secolo, le classi alte in Inghilter-

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ra non erano disposte a troppe tenerezze verso le classibasse. Analfabetismo, lunghe giornate di lavoro e salaribassi erano i baluardi dei privilegi britannici: malgrado iventi della Manica portassero dalla Francia rivoluziona-ria correnti di pensiero, da cui i lavoratori dovevano tut-tavia esser protetti, forse pur loro malgrado.

Nel 1801 troviamo Stephenson adibito al funziona-mento di un motore fisso a vapore, che traeva fuor dallaminiera le ceste di carbone, o serviva anche per un pri-mitivo ascensore annesso ai pozzi: in entrambi i casi, unlavoro di responsabilità, per cui Giorgio era pagato inragione di una sterlina la settimana. Per accrescere i suoiproventi, e provvedere all’educazione del figlio (nelfrattempo si era creata una famiglia) e per i propri espe-rimenti, imparò in seguito a fare il sarto e il calzolaio.Ecco che dall’oscurità delle correnti della storia esce uncerto William Coe, il quale, nel 1856, ricorda di avercomperato da Stephenson un paio di scarpe per settescellini e sei pence, e asserisce che erano «buone scar-pe». Stephenson accomodava anche orologi e «racco-glieva» monete d’oro che vendeva agli ebrei, al prezzodi ventisei scellini d’argento per una sovrana d’oro. Pre-stava anche piccole somme ai compagni di lavoro, a uninteresse ragionevole.

Se la sua educazione accademica, la sua cultura gene-rale erano un po’ magre, la sua istruzione tecnica e mec-canica erano ottime. Egli studiava col miglior maestroche avrebbe potuto trovare: se stesso; e nel miglior labo-ratorio: le rimesse delle macchine adibite alla miniera.

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ra non erano disposte a troppe tenerezze verso le classibasse. Analfabetismo, lunghe giornate di lavoro e salaribassi erano i baluardi dei privilegi britannici: malgrado iventi della Manica portassero dalla Francia rivoluziona-ria correnti di pensiero, da cui i lavoratori dovevano tut-tavia esser protetti, forse pur loro malgrado.

Nel 1801 troviamo Stephenson adibito al funziona-mento di un motore fisso a vapore, che traeva fuor dallaminiera le ceste di carbone, o serviva anche per un pri-mitivo ascensore annesso ai pozzi: in entrambi i casi, unlavoro di responsabilità, per cui Giorgio era pagato inragione di una sterlina la settimana. Per accrescere i suoiproventi, e provvedere all’educazione del figlio (nelfrattempo si era creata una famiglia) e per i propri espe-rimenti, imparò in seguito a fare il sarto e il calzolaio.Ecco che dall’oscurità delle correnti della storia esce uncerto William Coe, il quale, nel 1856, ricorda di avercomperato da Stephenson un paio di scarpe per settescellini e sei pence, e asserisce che erano «buone scar-pe». Stephenson accomodava anche orologi e «racco-glieva» monete d’oro che vendeva agli ebrei, al prezzodi ventisei scellini d’argento per una sovrana d’oro. Pre-stava anche piccole somme ai compagni di lavoro, a uninteresse ragionevole.

Se la sua educazione accademica, la sua cultura gene-rale erano un po’ magre, la sua istruzione tecnica e mec-canica erano ottime. Egli studiava col miglior maestroche avrebbe potuto trovare: se stesso; e nel miglior labo-ratorio: le rimesse delle macchine adibite alla miniera.

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Si sa che di notte puliva le macchine, imparava a cono-scerne pregi e difetti e sognava del loro avvenire. Granparte della storia delle ferrovie e delle locomotive do-vette imprimersi a caratteri invisibili ma indelebili nellasua memoria, in quelle notturne sedute nelle tenebroserimesse, quando tutt’intorno le miniere tacevano. Eglipossedeva un’infinita capacità di lavoro e di osservazio-ne ed era senza pietà verso se stesso.

Nel 1808, insieme a due soci, prese in appalto tre mo-tori, per venti scellini la settimana. Un vecchio docu-mento testimonia che nel 1810 ricevette un premio didieci sterline per aver riparato una vecchia pompa a va-pore e avere liberato dall’acqua la miniera di High Pit.Venne poi l’incidente già ricordato del motore di Blen-kensop; e nel 1815 Giorgio era pronto per Madre Neces-sità. Il modo con cui questa allestisce la scena perl’incontro tra opportunità e genio torna sempre da capoa riempirci d’ammirazione. Nel 1808, un gruppo diquacqueri di Manchester s’era grandemente scandaliz-zato del costo per il trasporto del carbone a mezzo dicarri sulla strada maestra fra Stockton e Darlington. Essiricorsero in Parlamento per il privilegio di costruire uncanale; ma due anni dopo chiedevano di modificare quelprivilegio, includendovi il progetto di una strada a rotaieper veicoli a trazione animale. Le guerre in continente el’incerta situazione in Inghilterra rimandarono di annoin anno l’attuazione dei due progetti. Ma nel 1819 ilproblema veniva nuovamente posto sul tavolo sottol’abile guida di Edward Pease. A casa sua si presentaro-

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Si sa che di notte puliva le macchine, imparava a cono-scerne pregi e difetti e sognava del loro avvenire. Granparte della storia delle ferrovie e delle locomotive do-vette imprimersi a caratteri invisibili ma indelebili nellasua memoria, in quelle notturne sedute nelle tenebroserimesse, quando tutt’intorno le miniere tacevano. Eglipossedeva un’infinita capacità di lavoro e di osservazio-ne ed era senza pietà verso se stesso.

Nel 1808, insieme a due soci, prese in appalto tre mo-tori, per venti scellini la settimana. Un vecchio docu-mento testimonia che nel 1810 ricevette un premio didieci sterline per aver riparato una vecchia pompa a va-pore e avere liberato dall’acqua la miniera di High Pit.Venne poi l’incidente già ricordato del motore di Blen-kensop; e nel 1815 Giorgio era pronto per Madre Neces-sità. Il modo con cui questa allestisce la scena perl’incontro tra opportunità e genio torna sempre da capoa riempirci d’ammirazione. Nel 1808, un gruppo diquacqueri di Manchester s’era grandemente scandaliz-zato del costo per il trasporto del carbone a mezzo dicarri sulla strada maestra fra Stockton e Darlington. Essiricorsero in Parlamento per il privilegio di costruire uncanale; ma due anni dopo chiedevano di modificare quelprivilegio, includendovi il progetto di una strada a rotaieper veicoli a trazione animale. Le guerre in continente el’incerta situazione in Inghilterra rimandarono di annoin anno l’attuazione dei due progetti. Ma nel 1819 ilproblema veniva nuovamente posto sul tavolo sottol’abile guida di Edward Pease. A casa sua si presentaro-

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no un giorno due uomini rozzamente vestiti, uno deiquali parlava l’aspro dialetto del Nord e disse di essereun macchinista di Killingsworth. Ecco che cosa era Ste-phenson – un macchinista. Pease li ascoltò, e rimase al-quanto impressionato da ciò che quel macchinista seppedirgli a proposito di piani inclinati, ma un poco allarma-to da certe sue osservazioni a proposito delle locomotivea vapore.

Già da quattro anni Stephenson aveva fatto funziona-re con successo e profitto una locomotiva a vapore. MaPease aveva i suoi dubbi e la considerava un’innovazio-ne pericolosa. L’incredulo venne invitato a vederla econstatare di persona; ne ritornò sempre più impressio-nato dall’evidente buon senso del macchinista, ma tutto-ra dubitoso riguardo alle locomotive.

Egli scrisse poco dopo a Giorgio Stephenson, offren-dogli un contratto per costruire la strada. E qui, un grot-tesco incidente per poco non sconfisse Necessità e lesue mire. La lettera era indirizzata a un «Giorgio Ste-phenson, Esq.». E nessuno, alla miniera, sapeva di ungentiluomo di quel nome. Ma il portalettere era unuomo diligente, e trovò finalmente un vecchio minatorecui consegnare la lettera. «Ah...» aveva detto costui.«Volete dire "Georgie", il macchinista!». Per un pelo, iltitolo di «esquire» aveva tratto in inganno quella bravagente.

Madre Necessità respirò sollevata, sorrise e si accinsea far ciò che da lungo tempo l’esperienza le aveva inse-gnato: aspettare con pazienza il momento opportuno.

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no un giorno due uomini rozzamente vestiti, uno deiquali parlava l’aspro dialetto del Nord e disse di essereun macchinista di Killingsworth. Ecco che cosa era Ste-phenson – un macchinista. Pease li ascoltò, e rimase al-quanto impressionato da ciò che quel macchinista seppedirgli a proposito di piani inclinati, ma un poco allarma-to da certe sue osservazioni a proposito delle locomotivea vapore.

Già da quattro anni Stephenson aveva fatto funziona-re con successo e profitto una locomotiva a vapore. MaPease aveva i suoi dubbi e la considerava un’innovazio-ne pericolosa. L’incredulo venne invitato a vederla econstatare di persona; ne ritornò sempre più impressio-nato dall’evidente buon senso del macchinista, ma tutto-ra dubitoso riguardo alle locomotive.

Egli scrisse poco dopo a Giorgio Stephenson, offren-dogli un contratto per costruire la strada. E qui, un grot-tesco incidente per poco non sconfisse Necessità e lesue mire. La lettera era indirizzata a un «Giorgio Ste-phenson, Esq.». E nessuno, alla miniera, sapeva di ungentiluomo di quel nome. Ma il portalettere era unuomo diligente, e trovò finalmente un vecchio minatorecui consegnare la lettera. «Ah...» aveva detto costui.«Volete dire "Georgie", il macchinista!». Per un pelo, iltitolo di «esquire» aveva tratto in inganno quella bravagente.

Madre Necessità respirò sollevata, sorrise e si accinsea far ciò che da lungo tempo l’esperienza le aveva inse-gnato: aspettare con pazienza il momento opportuno.

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Secondo il primo progetto, la ferrovia doveva attra-versare un pezzo di accidentata campagna dove le fem-mine volpi allevavano i piccini, ai quali era riserbatauna parte importante nel gran dramma che appassionaogni cuore britannico: la caccia alla volpe. Per nulla almondo il Duca di Cleveland avrebbe voluto mandar giùun affronto simile, sia pur dal Parlamento, su richiesta diun consesso di mercanti di carbone quacqueri, che maiin vita loro avevano cacciato la volpe. Stephenson di-spose allora per una via più breve e più piana, che nonavrebbe punto disturbato le madri volpi. E così, malgra-do i suoi alti principi, il nobile Duca consentì a lasciarsiespropriare e non ebbe poi a lamentarsi troppo del risul-tato.

Nel 1821 il privilegio – che aveva subìto un ulterioreindugio per il «lutto di Corte» seguìto alla morte diGiorgio IV veniva finalmente concesso e i lavori inco-minciarono. Il progetto includeva una strada ferrata par-zialmente graduata, con l’impiego di cavalli per i trattiin piano e di motori fissi per le salite. L’idea di una lo-comotiva non viveva, per il momento, che nella mentedi Giorgio Stephenson, come prova una lettera di Ed-ward Pease, il quale si considera l’autore del progetto.La ferrovia doveva aprirsi poi al pubblico per il prezzodi quattro pence il miglio; per il carbone, il costo del tra-sporto sarebbe stato di mezzo pence la tonnellata perogni miglio.

Pease dice, fra altro, nella sua lettera: «Le ferroviesono giunte ormai a un punto, che possono considerarsi

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Secondo il primo progetto, la ferrovia doveva attra-versare un pezzo di accidentata campagna dove le fem-mine volpi allevavano i piccini, ai quali era riserbatauna parte importante nel gran dramma che appassionaogni cuore britannico: la caccia alla volpe. Per nulla almondo il Duca di Cleveland avrebbe voluto mandar giùun affronto simile, sia pur dal Parlamento, su richiesta diun consesso di mercanti di carbone quacqueri, che maiin vita loro avevano cacciato la volpe. Stephenson di-spose allora per una via più breve e più piana, che nonavrebbe punto disturbato le madri volpi. E così, malgra-do i suoi alti principi, il nobile Duca consentì a lasciarsiespropriare e non ebbe poi a lamentarsi troppo del risul-tato.

Nel 1821 il privilegio – che aveva subìto un ulterioreindugio per il «lutto di Corte» seguìto alla morte diGiorgio IV veniva finalmente concesso e i lavori inco-minciarono. Il progetto includeva una strada ferrata par-zialmente graduata, con l’impiego di cavalli per i trattiin piano e di motori fissi per le salite. L’idea di una lo-comotiva non viveva, per il momento, che nella mentedi Giorgio Stephenson, come prova una lettera di Ed-ward Pease, il quale si considera l’autore del progetto.La ferrovia doveva aprirsi poi al pubblico per il prezzodi quattro pence il miglio; per il carbone, il costo del tra-sporto sarebbe stato di mezzo pence la tonnellata perogni miglio.

Pease dice, fra altro, nella sua lettera: «Le ferroviesono giunte ormai a un punto, che possono considerarsi

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di poco inferiori ai canali...». E ancora: «Il sistema dellerotaie di ferro fuso si trova tuttora in fascie. Non si tar-derà a constatare che esso costituisce un immenso pro-gresso sulle pubbliche strade e sulle rotaie di legno».

Tutto giustissimo; solo che di tutto si parla, meno chedi locomotive a vapore...

La «Stockton and Darlington Railway» fu inauguratail 27 settembre 1825; Stephenson era riuscito a collocaresulle rotaie, assieme ai cavalli e ai motori fissi, una lo-comotiva a vapore, alla quale era attaccato un convogliodi vagoni. Egli la guidava in persona; e con immensostupore di tutti, arrivò a conseguire una velocità di dodi-ci miglia e mezzo (circa 22 km.) all’ora. Fu, insomma,un successo: la compagnia fece quattrini, dato che laferrovia trasportava carbone, merci e anche passeggericon celerità, discreta comodità e regolarità, e grandeeconomia. Ora sì che sarebbe stato giusto indirizzareuna lettera a «Giorgio Stephenson, Esq.», anche se altrigentiluomini di più antico lignaggio arricciassero il nasodi fronte a tanta presunzione.

Uno tra i più urgenti problemi del tempo era la grandee sempre crescente congestione e confusione del trafficofra Manchester, città industriale, dove le manifatture dicotone erano in rapido aumento, e il porto di Liverpool.A tal punto era giunta la situazione, che spesso le merciimpiegavano maggior tempo nel trasporto da Manche-ster alle navi transatlantiche, che non per attraversarel’Oceano ed esser distribuite al commercio americano.In altri tempi, molte fabbriche s’erano chiuse a Manche-

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di poco inferiori ai canali...». E ancora: «Il sistema dellerotaie di ferro fuso si trova tuttora in fascie. Non si tar-derà a constatare che esso costituisce un immenso pro-gresso sulle pubbliche strade e sulle rotaie di legno».

Tutto giustissimo; solo che di tutto si parla, meno chedi locomotive a vapore...

La «Stockton and Darlington Railway» fu inauguratail 27 settembre 1825; Stephenson era riuscito a collocaresulle rotaie, assieme ai cavalli e ai motori fissi, una lo-comotiva a vapore, alla quale era attaccato un convogliodi vagoni. Egli la guidava in persona; e con immensostupore di tutti, arrivò a conseguire una velocità di dodi-ci miglia e mezzo (circa 22 km.) all’ora. Fu, insomma,un successo: la compagnia fece quattrini, dato che laferrovia trasportava carbone, merci e anche passeggericon celerità, discreta comodità e regolarità, e grandeeconomia. Ora sì che sarebbe stato giusto indirizzareuna lettera a «Giorgio Stephenson, Esq.», anche se altrigentiluomini di più antico lignaggio arricciassero il nasodi fronte a tanta presunzione.

Uno tra i più urgenti problemi del tempo era la grandee sempre crescente congestione e confusione del trafficofra Manchester, città industriale, dove le manifatture dicotone erano in rapido aumento, e il porto di Liverpool.A tal punto era giunta la situazione, che spesso le merciimpiegavano maggior tempo nel trasporto da Manche-ster alle navi transatlantiche, che non per attraversarel’Oceano ed esser distribuite al commercio americano.In altri tempi, molte fabbriche s’erano chiuse a Manche-

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ster per scarsità di cotone americano, mentre sui moli diLiverpool si ammassavano alte le balle dell’umile maprezioso filato. Manchester aveva bisogno di cotone e dicarbone; Liverpool necessitava di mezzi di trasporto, ele strade maestre, i canali, i carri a cavalli non erano piùsufficienti. Le invenzioni di Arkwright, di Crompton, diCartwright e Watt insorgevano urgenti contro una tecni-ca dei trasporti inadeguata ai tempi, e Stephenson eral’uomo che avrebbe risolto il problema.

E così, prima ancora che l’impresa Stockton e Dar-lington completasse la ferrovia, lo troviamo ad accarez-zar la beata illusione di poter ottenere in Parlamentoaiuto e sussidio per una nuova eppure già provata e col-laudata idea. Se mai ci fu uomo che in quelle età di mol-ti sciupii sciupasse tempo ed energia, è proprio GiorgioStephenson alle prese col Parlamento inglese. Gli citaro-no frasi in latino e in greco; gli opposero ragioni di pa-reti di pietra alte sessanta piedi, di pantani senza fondo;sfoderarono cavilli d’interessi investiti in canali e pe-daggi; tutto fecero, meno che aiutarlo. Ma sebbene fa-cessero il possibile, con tutta la pletora del loro saperenon riuscirono a spaventare quel cuore impavido.

Agli armatori di Liverpool e agli industriali di Man-chester non erano del tutto ignoti i miracoli della mecca-nica. Ad essi si rivolse Stephenson, e con maggior suc-cesso. Di buon grado acconsentirono ad arrivare fin làdove erano andati Stockton e Darlington, e anche unpoco più lontano. Con le locomotive a vapore si eranogià riconciliati, quel tanto almeno da provare di essere

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ster per scarsità di cotone americano, mentre sui moli diLiverpool si ammassavano alte le balle dell’umile maprezioso filato. Manchester aveva bisogno di cotone e dicarbone; Liverpool necessitava di mezzi di trasporto, ele strade maestre, i canali, i carri a cavalli non erano piùsufficienti. Le invenzioni di Arkwright, di Crompton, diCartwright e Watt insorgevano urgenti contro una tecni-ca dei trasporti inadeguata ai tempi, e Stephenson eral’uomo che avrebbe risolto il problema.

E così, prima ancora che l’impresa Stockton e Dar-lington completasse la ferrovia, lo troviamo ad accarez-zar la beata illusione di poter ottenere in Parlamentoaiuto e sussidio per una nuova eppure già provata e col-laudata idea. Se mai ci fu uomo che in quelle età di mol-ti sciupii sciupasse tempo ed energia, è proprio GiorgioStephenson alle prese col Parlamento inglese. Gli citaro-no frasi in latino e in greco; gli opposero ragioni di pa-reti di pietra alte sessanta piedi, di pantani senza fondo;sfoderarono cavilli d’interessi investiti in canali e pe-daggi; tutto fecero, meno che aiutarlo. Ma sebbene fa-cessero il possibile, con tutta la pletora del loro saperenon riuscirono a spaventare quel cuore impavido.

Agli armatori di Liverpool e agli industriali di Man-chester non erano del tutto ignoti i miracoli della mecca-nica. Ad essi si rivolse Stephenson, e con maggior suc-cesso. Di buon grado acconsentirono ad arrivare fin làdove erano andati Stockton e Darlington, e anche unpoco più lontano. Con le locomotive a vapore si eranogià riconciliati, quel tanto almeno da provare di essere

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uomini di larghe vedute quanto pratici. Ma essi patroci-navano anche trasporti a mezzo di carri a cavalli, e mo-tori fissi; e non si peritarono di spendere danaro sonantein costruzioni di viadotti, e per abbattere roccie o pro-sciugare paludi. Ma a questo punto Stephenson si dimo-strò più fermo di quelle rocce. Egli era passatodall’esperimento all’esperienza, e da questa alla convin-zione. Egli voleva la locomotiva a vapore, non comeforza sussidiaria, ma come fonte unica di forza. Tennesodo; ottenne capitali a sua disposizione, e nel dicembredel 1826 veniva dato il primo colpo di zappa agli osta-coli, e il progetto della ferrovia tra Manchester e Liver-pool era in via d’esecuzione. Quando venne posta sultappeto la questione delle locomotive, Stephenson in-dusse i suoi direttori a offrire un premio per la migliorlocomotiva; premio che fu poi lui a vincere, nel 1829,col suo famoso «Razzo».

L’êra Stephensoniana e la nascita della moderna fer-rovia ricorrono tra il 1815, anno in cui l’inventore rico-struì il motore di Blenkensop, e il 15 settembre 1830,giorno in cui in pompa magna fu inaugurata la linea fer-roviaria tra Liverpool e Manchester.

Erano stati quindici anni burrascosi per l’Inghilterra,tra i più foschi che la nazione avesse mai conosciuto. Leguerre con la Francia erano bensì terminate con la vitto-ria inglese; ma quale disastro per le industrie e il com-mercio) Il prezzo del rame era caduto da 180 a 80 sterli-ne la tonnellata; il ferro da 20 a 8 sterline la tonnellata, ealtre materie in proporzione. L’Inghilterra aveva impre-

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uomini di larghe vedute quanto pratici. Ma essi patroci-navano anche trasporti a mezzo di carri a cavalli, e mo-tori fissi; e non si peritarono di spendere danaro sonantein costruzioni di viadotti, e per abbattere roccie o pro-sciugare paludi. Ma a questo punto Stephenson si dimo-strò più fermo di quelle rocce. Egli era passatodall’esperimento all’esperienza, e da questa alla convin-zione. Egli voleva la locomotiva a vapore, non comeforza sussidiaria, ma come fonte unica di forza. Tennesodo; ottenne capitali a sua disposizione, e nel dicembredel 1826 veniva dato il primo colpo di zappa agli osta-coli, e il progetto della ferrovia tra Manchester e Liver-pool era in via d’esecuzione. Quando venne posta sultappeto la questione delle locomotive, Stephenson in-dusse i suoi direttori a offrire un premio per la migliorlocomotiva; premio che fu poi lui a vincere, nel 1829,col suo famoso «Razzo».

L’êra Stephensoniana e la nascita della moderna fer-rovia ricorrono tra il 1815, anno in cui l’inventore rico-struì il motore di Blenkensop, e il 15 settembre 1830,giorno in cui in pompa magna fu inaugurata la linea fer-roviaria tra Liverpool e Manchester.

Erano stati quindici anni burrascosi per l’Inghilterra,tra i più foschi che la nazione avesse mai conosciuto. Leguerre con la Francia erano bensì terminate con la vitto-ria inglese; ma quale disastro per le industrie e il com-mercio) Il prezzo del rame era caduto da 180 a 80 sterli-ne la tonnellata; il ferro da 20 a 8 sterline la tonnellata, ealtre materie in proporzione. L’Inghilterra aveva impre-

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stato 100.000.000 di sterline l’anno ai suoi alleati, checon quel denaro avevano comperato merci da essa.L’Inghilterra, ora, non solo aveva una sovrabbondanzadi materie prime; i suoi magazzini ridondavano anche dimerci ch’essa sperava di vendere sui mercati del mondointero non appena fosse ritornata la pace. E ora i suoiconsumatori si trovavano a terra, ed essa non era più ingrado di prestar loro capitali per gli acquisti. Il suo mi-glior cliente era stato davvero la guerra, come avevapredetto Robert Owen. Inoltre, mezzo milione di «eroi»che avevano salvato il mondo dalla tirannia francese edalla democrazia, come per incanto si erano trasformatiin mezzo milione di uomini irosi, che a gran voce recla-mavano posti che non esistevano; e lottavano per con-quistare posti occupati dalle donne, dai bambini e dallemacchine. Era un periodo di amare e futili irrequietezzesociali; un tempo di cupidigie, incomprensioni e terrori.C’erano anche riformatori coraggiosi: Francis Place,Lord Ashley, Robert Owen, Wilberforce e Howard e al-tri – animose voci in un vasto deserto, che miravano asalvare la patria. Si parlava di nazionalizzazione dellaterra, di revoca di leggi contro le coalizioni, di utopie in-dustriali, di riforma delle elezioni e delle carceri; diemancipazione di schiavi negri in lontane colonie, manon di schiavi industriali che parlavano inglese, nellefabbriche e nelle officine del Yorkshire; delle giornate di10 ore; del lavoro dei fanciulli; dell’adozione di «leggisul grano» che avrebbero salvato il contadino, ma affa-mate le città e fatto diminuire i salari provocando

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stato 100.000.000 di sterline l’anno ai suoi alleati, checon quel denaro avevano comperato merci da essa.L’Inghilterra, ora, non solo aveva una sovrabbondanzadi materie prime; i suoi magazzini ridondavano anche dimerci ch’essa sperava di vendere sui mercati del mondointero non appena fosse ritornata la pace. E ora i suoiconsumatori si trovavano a terra, ed essa non era più ingrado di prestar loro capitali per gli acquisti. Il suo mi-glior cliente era stato davvero la guerra, come avevapredetto Robert Owen. Inoltre, mezzo milione di «eroi»che avevano salvato il mondo dalla tirannia francese edalla democrazia, come per incanto si erano trasformatiin mezzo milione di uomini irosi, che a gran voce recla-mavano posti che non esistevano; e lottavano per con-quistare posti occupati dalle donne, dai bambini e dallemacchine. Era un periodo di amare e futili irrequietezzesociali; un tempo di cupidigie, incomprensioni e terrori.C’erano anche riformatori coraggiosi: Francis Place,Lord Ashley, Robert Owen, Wilberforce e Howard e al-tri – animose voci in un vasto deserto, che miravano asalvare la patria. Si parlava di nazionalizzazione dellaterra, di revoca di leggi contro le coalizioni, di utopie in-dustriali, di riforma delle elezioni e delle carceri; diemancipazione di schiavi negri in lontane colonie, manon di schiavi industriali che parlavano inglese, nellefabbriche e nelle officine del Yorkshire; delle giornate di10 ore; del lavoro dei fanciulli; dell’adozione di «leggisul grano» che avrebbero salvato il contadino, ma affa-mate le città e fatto diminuire i salari provocando

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l’aumento del costo dei viveri.I molti paralleli tra il 1815 e il 1830, e il 1918 e il

1933 non dovrebbero sfuggire alle menti riflessive.Questo era il tempo di Stephenson; questo l’ambiente

nel quale egli avrebbe operato i suoi miracoli.Nel 1888, Charles Francis Adams cita nella sua opera

«Ferrovie» certe lettere della celebre attrice FrancesKemble, figlia dell’ancor più celebre attore John Kem-ble, donna dall’immaginazione fervida e dalla penna fa-cile. Trovandosi a Liverpool in quei giorni, essa conob-be Giorgio Stephenson, l’uomo, non il mito; e compì ac-canto a lui un viaggio di prova prima della grande gior-nata. Egli le parlò della natura delle locomotive, di via-dotti, di rocce infrante, di paludi colmate a forza digiunchi intrecciati e di argilla; le disse delle difficoltàcon cui s’era cercato di intralciargli la via in Parlamen-to. Scrivendo a un amico, così, essa descriveva Stephen-son:

«Può avere dai cinquanta ai cinquantacinque anni; hail volto fine sebbene travagliato dalle pene, conun’espressione profondamente riflessiva. Il modocom’egli spiega le sue idee è certo singolare e assai ori-ginale, saliente, e convincente; e sebbene abbia un ac-cento fortemente settentrionale, nel suo modo di parlarenon rivela la minima volgarità».

La descrizione dell’inaugurazione della Ferrovia nonè priva d’interesse. L’avvenimento del giorno non era laferrovia, non la locomotiva di Stephenson e le gallerie, iponti e i viadotti, bensì l’intervento del Duca di Wel-

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l’aumento del costo dei viveri.I molti paralleli tra il 1815 e il 1830, e il 1918 e il

1933 non dovrebbero sfuggire alle menti riflessive.Questo era il tempo di Stephenson; questo l’ambiente

nel quale egli avrebbe operato i suoi miracoli.Nel 1888, Charles Francis Adams cita nella sua opera

«Ferrovie» certe lettere della celebre attrice FrancesKemble, figlia dell’ancor più celebre attore John Kem-ble, donna dall’immaginazione fervida e dalla penna fa-cile. Trovandosi a Liverpool in quei giorni, essa conob-be Giorgio Stephenson, l’uomo, non il mito; e compì ac-canto a lui un viaggio di prova prima della grande gior-nata. Egli le parlò della natura delle locomotive, di via-dotti, di rocce infrante, di paludi colmate a forza digiunchi intrecciati e di argilla; le disse delle difficoltàcon cui s’era cercato di intralciargli la via in Parlamen-to. Scrivendo a un amico, così, essa descriveva Stephen-son:

«Può avere dai cinquanta ai cinquantacinque anni; hail volto fine sebbene travagliato dalle pene, conun’espressione profondamente riflessiva. Il modocom’egli spiega le sue idee è certo singolare e assai ori-ginale, saliente, e convincente; e sebbene abbia un ac-cento fortemente settentrionale, nel suo modo di parlarenon rivela la minima volgarità».

La descrizione dell’inaugurazione della Ferrovia nonè priva d’interesse. L’avvenimento del giorno non era laferrovia, non la locomotiva di Stephenson e le gallerie, iponti e i viadotti, bensì l’intervento del Duca di Wel-

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lington, primo ministro d’Inghilterra e veterano di Wa-terloo. Il 15 settembre 1830 egli giunse infatti a Liver-pool, e per breve ora fu visibile agli occhi dei semplicimortali. I cannoni sparavano a salve; le bande suonava-no gli inni nazionali; c’erano parecchi reggimenti, e glialberghi della città erano pieni fino all’inverosimile. Erapronto un elegante vagone per il Duca e la nobiltà, com-presi il Marchese e la Marchesa di Salisbury, Lord eLady Wilton e un subisso di altri notevoli personaggi. Idirettori avrebbero viaggiato in un vagone assai menoelegante, ma agganciato subito dopo quello del Duca.Un certo signor Huskisson, impaziente di stringere lamano del Duca, si precipitò dinanzi alla locomotiva, enon essendo più giovane e prestante perdette l’equilibrioe finì sotto le ruote. Grande fu la confusione che seguì;Stephenson, dimentico degli onori, caricò il malcapitatosu una locomotiva e lo trasportò al più vicino ospedale,alla velocità di 35 miglia all’ora: massima velocità finoallora raggiunta dall’uomo. L’incidente parve gettare sututta la cerimonia un’ombra, che neppure la presenzadel Duca e di tanta nobiltà valse a dissipare. Wellingtonstabilì di ritornare subito a Liverpool, senonchè il Pode-stà di Manchester lo consigliò a proseguire il viaggio, ascanso di provocare disordini fra la folla in attesa aManchester. Il convoglio arrivò finalmente, tra applausie congratulazioni; ma non si poterono tuttavia evitare fi-schi e urli e imprecazioni; e Wellington si trovò sbatac-chiato qua e là e fatto anche bersaglio a qualche sassolanciato da operai disoccupati. Ci furono grida di «ab-

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lington, primo ministro d’Inghilterra e veterano di Wa-terloo. Il 15 settembre 1830 egli giunse infatti a Liver-pool, e per breve ora fu visibile agli occhi dei semplicimortali. I cannoni sparavano a salve; le bande suonava-no gli inni nazionali; c’erano parecchi reggimenti, e glialberghi della città erano pieni fino all’inverosimile. Erapronto un elegante vagone per il Duca e la nobiltà, com-presi il Marchese e la Marchesa di Salisbury, Lord eLady Wilton e un subisso di altri notevoli personaggi. Idirettori avrebbero viaggiato in un vagone assai menoelegante, ma agganciato subito dopo quello del Duca.Un certo signor Huskisson, impaziente di stringere lamano del Duca, si precipitò dinanzi alla locomotiva, enon essendo più giovane e prestante perdette l’equilibrioe finì sotto le ruote. Grande fu la confusione che seguì;Stephenson, dimentico degli onori, caricò il malcapitatosu una locomotiva e lo trasportò al più vicino ospedale,alla velocità di 35 miglia all’ora: massima velocità finoallora raggiunta dall’uomo. L’incidente parve gettare sututta la cerimonia un’ombra, che neppure la presenzadel Duca e di tanta nobiltà valse a dissipare. Wellingtonstabilì di ritornare subito a Liverpool, senonchè il Pode-stà di Manchester lo consigliò a proseguire il viaggio, ascanso di provocare disordini fra la folla in attesa aManchester. Il convoglio arrivò finalmente, tra applausie congratulazioni; ma non si poterono tuttavia evitare fi-schi e urli e imprecazioni; e Wellington si trovò sbatac-chiato qua e là e fatto anche bersaglio a qualche sassolanciato da operai disoccupati. Ci furono grida di «ab-

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basso la legge sul grano» e «vogliamo il suffragio uni-versale» e altre ancora, che ai giornali del tempo parve-ro poco patriottiche. Il Duca di Wellington non era unbambinello, ma probabilmente dovette trovare che ave-va còrso minor pericolo a Waterloo che non a Manche-ster.

Il grande avvenimento ebbe termine, finalmente,dopo molte agitazioni, meraviglie da parte di tutti o qua-si e stanchezza generale. I dimostranti non avevano piùfiato; il Duca s’era congedato, dopo una cena e un rice-vimento offerti in uno dei grandi depositi della città; egli invitati di Liverpool erano ripartiti, a notte alta, lastrada essendo illuminata per mezzo di fuochi di benga-la.

Le azioni della Compagnia salirono del doppio e for-se più. Otto o nove locomotive erano in efficienza; e ol-tre 800.000 sterline investite in rotaie, locomotive e va-rio materiale.

Nessuna invenzione specifica originale risale diretta-mente a Stephenson. Persino la paternità della lampadadi sicurezza per i minatori gli viene contestata da Davy.Ma ogni meccanismo che passò per le sue mani ne uscìmigliorato, ogni idea ch’egli assorbì e modificò vennepòsta nei giusti rapporti verso altre invenzioni e idee. Lasua invenzione fu una sintesi di tutte le altre invenzioniattinenti a strade ferrate, rotaie, pendenze e locomotive avapore. Egli non apparteneva a un’êra; egli fu un’Era.

Dal 1830 in poi, la costruzione delle ferrovie passònelle mani di uomini d’affari e della finanza; i quali, è

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basso la legge sul grano» e «vogliamo il suffragio uni-versale» e altre ancora, che ai giornali del tempo parve-ro poco patriottiche. Il Duca di Wellington non era unbambinello, ma probabilmente dovette trovare che ave-va còrso minor pericolo a Waterloo che non a Manche-ster.

Il grande avvenimento ebbe termine, finalmente,dopo molte agitazioni, meraviglie da parte di tutti o qua-si e stanchezza generale. I dimostranti non avevano piùfiato; il Duca s’era congedato, dopo una cena e un rice-vimento offerti in uno dei grandi depositi della città; egli invitati di Liverpool erano ripartiti, a notte alta, lastrada essendo illuminata per mezzo di fuochi di benga-la.

Le azioni della Compagnia salirono del doppio e for-se più. Otto o nove locomotive erano in efficienza; e ol-tre 800.000 sterline investite in rotaie, locomotive e va-rio materiale.

Nessuna invenzione specifica originale risale diretta-mente a Stephenson. Persino la paternità della lampadadi sicurezza per i minatori gli viene contestata da Davy.Ma ogni meccanismo che passò per le sue mani ne uscìmigliorato, ogni idea ch’egli assorbì e modificò vennepòsta nei giusti rapporti verso altre invenzioni e idee. Lasua invenzione fu una sintesi di tutte le altre invenzioniattinenti a strade ferrate, rotaie, pendenze e locomotive avapore. Egli non apparteneva a un’êra; egli fu un’Era.

Dal 1830 in poi, la costruzione delle ferrovie passònelle mani di uomini d’affari e della finanza; i quali, è

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risaputo, cooperano sempre a costruire «il paese» quan-do c’è da far danari. C’è una sottile distinzione, tra il farcose utili e il far danari per mezzo di cose utili.

Diamo ora un rapido sguardo d’assieme alle ferroviedi Europa, diciotto anni circa dopo la costruzione dellaferrovia tra Manchester e Liverpool. Nel 1843, il RegnoUnito aveva costruito 2000 miglia di ferrovie; le qualitra il 1848 e il 1849 erano aumentate a 6000, e tra il1850 e il 1855 a 8200, la Francia 3000 e la Germania7600. Tooke osserva:

«La costruzione di queste 40.000 miglia di ferrovia,in Europa e in America, aveva enormemente modificatoogni anteriore concetto di misura di tempo e distanza.Ogni miglio di strada ferrata aveva contribuito a unireun nuovo o antico campo di produzione con una più va-sta cerchia di consumatori; e diminuiva o aboliva spere-quazioni di prezzo o ineguaglianze di distribuzioni. Colsussidio del telegrafo, interi stati hanno acquistato oggi,per scopi commerciali, la concentrazione di una singolacittà».

Una scorsa, per quanto rapida e sommaria, della sto-ria dei trasporti entro l’ambito della storia della civiltàmondiale, ci sembrerebbe incompleta, se non accennas-simo anche alla navigazione a vapore, e all’incalcolabileportata ch’essa ebbe, oltre che sul commercio, sui costu-mi degli uomini, riflettendosi particolarmente sulla poli-tica mondiale.

È voce generale che la Charlotte Dundas sia stata laprima imbarcazione mossa da un motore a vapore. Gran

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risaputo, cooperano sempre a costruire «il paese» quan-do c’è da far danari. C’è una sottile distinzione, tra il farcose utili e il far danari per mezzo di cose utili.

Diamo ora un rapido sguardo d’assieme alle ferroviedi Europa, diciotto anni circa dopo la costruzione dellaferrovia tra Manchester e Liverpool. Nel 1843, il RegnoUnito aveva costruito 2000 miglia di ferrovie; le qualitra il 1848 e il 1849 erano aumentate a 6000, e tra il1850 e il 1855 a 8200, la Francia 3000 e la Germania7600. Tooke osserva:

«La costruzione di queste 40.000 miglia di ferrovia,in Europa e in America, aveva enormemente modificatoogni anteriore concetto di misura di tempo e distanza.Ogni miglio di strada ferrata aveva contribuito a unireun nuovo o antico campo di produzione con una più va-sta cerchia di consumatori; e diminuiva o aboliva spere-quazioni di prezzo o ineguaglianze di distribuzioni. Colsussidio del telegrafo, interi stati hanno acquistato oggi,per scopi commerciali, la concentrazione di una singolacittà».

Una scorsa, per quanto rapida e sommaria, della sto-ria dei trasporti entro l’ambito della storia della civiltàmondiale, ci sembrerebbe incompleta, se non accennas-simo anche alla navigazione a vapore, e all’incalcolabileportata ch’essa ebbe, oltre che sul commercio, sui costu-mi degli uomini, riflettendosi particolarmente sulla poli-tica mondiale.

È voce generale che la Charlotte Dundas sia stata laprima imbarcazione mossa da un motore a vapore. Gran

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parte dei motori a vapore «inventati» in America si ba-sano su modelli inglesi, e il più delle volte non furonoche adattamenti. Un’eccezione rappresenta tuttavia ilcaso di John Fitch; il tragico caso di un onest’uomo, allacui memoria vogliamo rendere giustizia. S. Dunbar, nel-la sua eccellente Storia dei viaggi in America, ricorda icinque esperimenti che il Fitch compì fra il 1758 e il1759, alla presenza di testimoni degni di fede. Ma iltempo e l’ambiente erano contro di lui. Egli morì poi,amaro e disilluso, alle lontane frontiere del Kentucky, inseguito a una dose troppo forte di oppio, ingerita, dicesi,con intenzione. Il mondo non può negargli il suo postotra coloro che contribuirono al progresso del motore avapore.

La storia della navigazione a vapore è strettamenteconnessa con la storia degli Stati Uniti. La difficoltà del-le vie di terra, lunghissime, accidentate e spesso malfi-de; il commercio che si andava sviluppando fra zonelontanissime, e il trasporto di grandi quantità di merci;mentre d’altra parte i grandi fiumi offrivano vie di ac-cesso più rapide e sicure: erano questi elementi che im-ponevano il problema, e al tempo stesso spingevano arisolverlo. Dopo l’Acquisto della Luisiana era necessa-rio, per la vita del commercio e delle nascenti industrieamericane, trovare mezzi di navigazione capaci di risali-re le correnti dei grandi fiumi. Nel 1806, Roberto Fultonaveva stabilito la navigazione fluviale sul tranquilloestuario del fiume Hudson, con il sussidio di un macchi-nario costruito in Inghilterra. A John Stevens (i cui espe-

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parte dei motori a vapore «inventati» in America si ba-sano su modelli inglesi, e il più delle volte non furonoche adattamenti. Un’eccezione rappresenta tuttavia ilcaso di John Fitch; il tragico caso di un onest’uomo, allacui memoria vogliamo rendere giustizia. S. Dunbar, nel-la sua eccellente Storia dei viaggi in America, ricorda icinque esperimenti che il Fitch compì fra il 1758 e il1759, alla presenza di testimoni degni di fede. Ma iltempo e l’ambiente erano contro di lui. Egli morì poi,amaro e disilluso, alle lontane frontiere del Kentucky, inseguito a una dose troppo forte di oppio, ingerita, dicesi,con intenzione. Il mondo non può negargli il suo postotra coloro che contribuirono al progresso del motore avapore.

La storia della navigazione a vapore è strettamenteconnessa con la storia degli Stati Uniti. La difficoltà del-le vie di terra, lunghissime, accidentate e spesso malfi-de; il commercio che si andava sviluppando fra zonelontanissime, e il trasporto di grandi quantità di merci;mentre d’altra parte i grandi fiumi offrivano vie di ac-cesso più rapide e sicure: erano questi elementi che im-ponevano il problema, e al tempo stesso spingevano arisolverlo. Dopo l’Acquisto della Luisiana era necessa-rio, per la vita del commercio e delle nascenti industrieamericane, trovare mezzi di navigazione capaci di risali-re le correnti dei grandi fiumi. Nel 1806, Roberto Fultonaveva stabilito la navigazione fluviale sul tranquilloestuario del fiume Hudson, con il sussidio di un macchi-nario costruito in Inghilterra. A John Stevens (i cui espe-

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rimenti vanno dal 1791 al 1805, e che ebbe un brevettoper una caldaia tubolare) si attribuisce l’invenzione delmotore a propulsione o elica. Sono tutti tentativi dalpunto di vista meccanico, ma ancora lontani da un im-mediato effetto sul commercio. Nel 1812 Fulton costrui-va a Pittsburgh la Nuova Orleans, un battello che com-binava il motore con l’attrezzatura a vela, e chenell’ottobre di quell’anno compieva il viaggio fino aLouisville nel Kentucky; e naufragava poi nel 1814 in-cagliandosi in una secca. Nel 1813 la Cometa, costruitaugualmente a Pittsburgh da D. French con gli stessiprincipi, arrivava fino alla Nuova Orléans, dove il moto-re, rimosso, veniva adibito a un cotonificio. Il problemadi risalire i grandi fiumi non era ancora risolto; fino ache, nel 1815, il valido Entreprise compieva il viaggiodalla Nuova Orléans a Cincinnati – risalendo la corrente– in ventotto giorni. Giova ricordare che battelli del me-desimo tipo e tonnellaggio solcano oggi ancora le acquedel Mississipi, dell’Ohio e del Missouri.

Se Fulton e tutti gli altri costruttori americani s’eranoampiamente serviti di modelli inglesi, il primo basti-mento a vapore ad attraversare l’Atlantico – il primotransatlantico, se non nella forma, almeno nell’idea – fuesclusivamente americano. Nel London Times del 30giugno 1819 troviamo questa semplice nota: «Il battelloa vapore Savannah è recentemente arrivato a Liverpooldall’America; è la prima nave del genere che abbia at-traversato l’oceano Atlantico. Esso fu inseguito perun’intera giornata lungo le coste irlandesi dal cutter del-

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rimenti vanno dal 1791 al 1805, e che ebbe un brevettoper una caldaia tubolare) si attribuisce l’invenzione delmotore a propulsione o elica. Sono tutti tentativi dalpunto di vista meccanico, ma ancora lontani da un im-mediato effetto sul commercio. Nel 1812 Fulton costrui-va a Pittsburgh la Nuova Orleans, un battello che com-binava il motore con l’attrezzatura a vela, e chenell’ottobre di quell’anno compieva il viaggio fino aLouisville nel Kentucky; e naufragava poi nel 1814 in-cagliandosi in una secca. Nel 1813 la Cometa, costruitaugualmente a Pittsburgh da D. French con gli stessiprincipi, arrivava fino alla Nuova Orléans, dove il moto-re, rimosso, veniva adibito a un cotonificio. Il problemadi risalire i grandi fiumi non era ancora risolto; fino ache, nel 1815, il valido Entreprise compieva il viaggiodalla Nuova Orléans a Cincinnati – risalendo la corrente– in ventotto giorni. Giova ricordare che battelli del me-desimo tipo e tonnellaggio solcano oggi ancora le acquedel Mississipi, dell’Ohio e del Missouri.

Se Fulton e tutti gli altri costruttori americani s’eranoampiamente serviti di modelli inglesi, il primo basti-mento a vapore ad attraversare l’Atlantico – il primotransatlantico, se non nella forma, almeno nell’idea – fuesclusivamente americano. Nel London Times del 30giugno 1819 troviamo questa semplice nota: «Il battelloa vapore Savannah è recentemente arrivato a Liverpooldall’America; è la prima nave del genere che abbia at-traversato l’oceano Atlantico. Esso fu inseguito perun’intera giornata lungo le coste irlandesi dal cutter del-

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la dogana Kite, che lo aveva scambiato per una nave daguerra».

Il Savannah aveva impiegato quattordici giorni a va-pore e otto a vela per la traversata; ed entrò nel porto diLiverpool a vele serrate e soffiando vigorosamentefumo. Partì poi per la Svezia, dove il Re si offrì di ac-quistarlo per una somma pari a circa 2 milioni in canapae ferro. Bene o male ritornò in patria, dove, liberato dalmotore, ritornò alla primitiva attrezzatura a vela per cuiera stato originariamente costruito. Pochi anni dopo,naufragava sulle coste di Long Island; e non poche furo-no le accuse che gli esperti gli rivolsero. Sembra che lesue macchine fossero ben lungi dall’essere perfette:consumavano troppo carbone, e non c’era spazio per ilcarico. Venti anni ancora dovevano passare, prima che ilmotore a vapore fosse sufficientemente sviluppato perrendere praticamente possibile la navigazione transocea-nica; e quando giunse il momento, gli Inglesi furono iprimi ad approfittarne. Si tratti della Charlotte Dundas,del Savannah o di altri esperimenti: la navigazione a va-pore rimane comunque una tra le più importanti conqui-ste della tecnica. Dopo di che, le comunicazioni transo-ceaniche fecero rapidi progressi. Il 23 aprile 1837, duenavi a vapore costruite in Inghilterra, il Sirio e il GreatWestern, entravano nel porto di Nuova York. Nel 1847veniva stabilito un servizio regolare, per iniziativa ame-ricana, tra Nuova York e Brema; seguiva la Collins Linecon Liverpool, nel 1850; la Garrison Line col Brasile; laPacific Mail Line con la Cina, nel 1865.

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la dogana Kite, che lo aveva scambiato per una nave daguerra».

Il Savannah aveva impiegato quattordici giorni a va-pore e otto a vela per la traversata; ed entrò nel porto diLiverpool a vele serrate e soffiando vigorosamentefumo. Partì poi per la Svezia, dove il Re si offrì di ac-quistarlo per una somma pari a circa 2 milioni in canapae ferro. Bene o male ritornò in patria, dove, liberato dalmotore, ritornò alla primitiva attrezzatura a vela per cuiera stato originariamente costruito. Pochi anni dopo,naufragava sulle coste di Long Island; e non poche furo-no le accuse che gli esperti gli rivolsero. Sembra che lesue macchine fossero ben lungi dall’essere perfette:consumavano troppo carbone, e non c’era spazio per ilcarico. Venti anni ancora dovevano passare, prima che ilmotore a vapore fosse sufficientemente sviluppato perrendere praticamente possibile la navigazione transocea-nica; e quando giunse il momento, gli Inglesi furono iprimi ad approfittarne. Si tratti della Charlotte Dundas,del Savannah o di altri esperimenti: la navigazione a va-pore rimane comunque una tra le più importanti conqui-ste della tecnica. Dopo di che, le comunicazioni transo-ceaniche fecero rapidi progressi. Il 23 aprile 1837, duenavi a vapore costruite in Inghilterra, il Sirio e il GreatWestern, entravano nel porto di Nuova York. Nel 1847veniva stabilito un servizio regolare, per iniziativa ame-ricana, tra Nuova York e Brema; seguiva la Collins Linecon Liverpool, nel 1850; la Garrison Line col Brasile; laPacific Mail Line con la Cina, nel 1865.

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L’anno 1869 era destinato a rimanere memorabilenella storia mondiale dei trasporti. Sino dal viaggio diVasco de Gama sul finir del XV secolo, la via per maredall’Europa Occidentale alle Indie era stata quella chegirava attorno al Capo Horn. C’erano anche due vie perterra: una carovaniera che attraverso l’Asia arrivava alMar Caspio, e un’altra che dal Golfo Persico, odall’Oceano Indiano, toccando il Mar Rosso arrivavaalle sponde del Mediterraneo. Ma erano entrambe lun-ghe, faticose, irte di pericoli e costose, ed esposte a ognigrado e genere di tributi e interferenze politiche.

E poi, in meno di un anno, veniva aperto al traffico ilCanale di Suez, abbreviando così il viaggio alle Indie di5000 miglia di mare, e riducendolo da sei o sette mesi a120 giorni. Nel corso del medesimo anno, si completavala prima ferrovia transcontinentale attraverso gli StatiUniti, la quale univa l’Atlantico al Pacifico. Il viaggioda Londra all’Estremo Oriente era così ridotto a 40 gior-ni, e la questione dei trasporti nordamericani entrava afar parte della storia dei trasporti mondiali e della navi-gazione oceanica.

Come sempre, il mondo aveva atteso l’uomo del mo-mento; e in questo caso era Ferdinando de Lesseps, ilcostruttore del Canale di Suez: destinato a molte traver-sie, non solo con le sabbie africane, ma anche conl’egoismo degli uomini.

Già cinquemila anni avanti, i Faraoni avevano scava-to tra il Nilo e il Mar Rosso canali sui quali navigavanocon le loro imbarcazioni leggere, dalle vele quadrate, e

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L’anno 1869 era destinato a rimanere memorabilenella storia mondiale dei trasporti. Sino dal viaggio diVasco de Gama sul finir del XV secolo, la via per maredall’Europa Occidentale alle Indie era stata quella chegirava attorno al Capo Horn. C’erano anche due vie perterra: una carovaniera che attraverso l’Asia arrivava alMar Caspio, e un’altra che dal Golfo Persico, odall’Oceano Indiano, toccando il Mar Rosso arrivavaalle sponde del Mediterraneo. Ma erano entrambe lun-ghe, faticose, irte di pericoli e costose, ed esposte a ognigrado e genere di tributi e interferenze politiche.

E poi, in meno di un anno, veniva aperto al traffico ilCanale di Suez, abbreviando così il viaggio alle Indie di5000 miglia di mare, e riducendolo da sei o sette mesi a120 giorni. Nel corso del medesimo anno, si completavala prima ferrovia transcontinentale attraverso gli StatiUniti, la quale univa l’Atlantico al Pacifico. Il viaggioda Londra all’Estremo Oriente era così ridotto a 40 gior-ni, e la questione dei trasporti nordamericani entrava afar parte della storia dei trasporti mondiali e della navi-gazione oceanica.

Come sempre, il mondo aveva atteso l’uomo del mo-mento; e in questo caso era Ferdinando de Lesseps, ilcostruttore del Canale di Suez: destinato a molte traver-sie, non solo con le sabbie africane, ma anche conl’egoismo degli uomini.

Già cinquemila anni avanti, i Faraoni avevano scava-to tra il Nilo e il Mar Rosso canali sui quali navigavanocon le loro imbarcazioni leggere, dalle vele quadrate, e

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tornavano cariche di storace, gomma e mirra, di polvered’oro, d’avorio e schiavi, affinchè nè in vita nè in mortei dominatori del Nilo mancassero di comodità e di bel-lezza.

Nel 1799, Napoleone considerava con interesse spe-culativo quella lingua di terra che separava due mondi.Egli mandò i suoi ingegneri a studiare la cosa. Ma gliArabi, secondo il solito, mossero obbiezioni: cammelli ecavalli non avevano bisogno di canali. Nè gli ingegneripossono lavorare con la necessaria calma e prender leloro misure, quando debbono guardarsi al tempo stessoda imboscate e tranelli.

Gli ingegneri di Napoleone ritornarono dunque, e ste-sero un rapporto in cui asserirono che il Mar Rosso eradi 36 gradi più alto del Mediterraneo; quindi, un canaletra i due mari sarebbe stato impossibile. Questo erroreserbò le sabbie egiziane inviolate per mezzo secolo. DeLesseps considerò la cosa da un altro punto di vista: egliconosceva gli Egiziani e l’Egitto, essendo stato compa-gno di giochi di Said Pascià, il quale per grazia di Allah,nel 1854 era diventato sovrano d’Egitto e vicerè dellaSublime Porta a Costantinopoli. Nel novembre del me-desimo anno, Lesseps firmava un contratto d’affitto perle durata di novantanove anni, per la terra su cui si do-veva costruire il canale. Il governo egiziano avrebbe ri-cevuto il 15% di tutti i profitti netti; il 75% sarebbe an-dato agli azionisti, e il rimanente 10% ai costruttori. Lenavi di tutte le nazioni sarebbero state ammesse su basieguali. A quanto sembra, non rimaneva dunque che sca-

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tornavano cariche di storace, gomma e mirra, di polvered’oro, d’avorio e schiavi, affinchè nè in vita nè in mortei dominatori del Nilo mancassero di comodità e di bel-lezza.

Nel 1799, Napoleone considerava con interesse spe-culativo quella lingua di terra che separava due mondi.Egli mandò i suoi ingegneri a studiare la cosa. Ma gliArabi, secondo il solito, mossero obbiezioni: cammelli ecavalli non avevano bisogno di canali. Nè gli ingegneripossono lavorare con la necessaria calma e prender leloro misure, quando debbono guardarsi al tempo stessoda imboscate e tranelli.

Gli ingegneri di Napoleone ritornarono dunque, e ste-sero un rapporto in cui asserirono che il Mar Rosso eradi 36 gradi più alto del Mediterraneo; quindi, un canaletra i due mari sarebbe stato impossibile. Questo erroreserbò le sabbie egiziane inviolate per mezzo secolo. DeLesseps considerò la cosa da un altro punto di vista: egliconosceva gli Egiziani e l’Egitto, essendo stato compa-gno di giochi di Said Pascià, il quale per grazia di Allah,nel 1854 era diventato sovrano d’Egitto e vicerè dellaSublime Porta a Costantinopoli. Nel novembre del me-desimo anno, Lesseps firmava un contratto d’affitto perle durata di novantanove anni, per la terra su cui si do-veva costruire il canale. Il governo egiziano avrebbe ri-cevuto il 15% di tutti i profitti netti; il 75% sarebbe an-dato agli azionisti, e il rimanente 10% ai costruttori. Lenavi di tutte le nazioni sarebbero state ammesse su basieguali. A quanto sembra, non rimaneva dunque che sca-

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vare poche miglia di acri di terra, e il viaggio alle Indiesarebbe stato ridotto di 5000 miglia di tempestosi ocea-ni. Ma la sabbia era l’ultima ruota del carro. Seguì unodei più sordidi esempi della diplomazia affaristica bri-tannica cui il mondo abbia mai assistito. Nessuna nazio-ne avrebbe avuto dal canale maggiori vantaggidell’Inghilterra; tuttavia, Lord Palmerston scriveva a DeLesseps: «Debbo dirvi con tutta franchezza che ciò chenoi temiamo di perdere è la nostra preminenza maritti-ma e commerciale, poichè questo canale porrà le altrenazioni al nostro stesso livello». Venne posto in operaogni espediente; si minacciò una guerra; si iniziòun’attiva propaganda, fino a che anche la chiara mentedi Lesseps esitò di fronte al caos che regnava, e il suocuore intrepido tremò. C’è un’ironia singolarmenteamara nel fatto che sia stato il ricco figlio di Georgie,l’artefice delle macchine, che con i suoi sogni aveva do-nato al mondo le strade ferrate, a ostacolare così capar-biamente i sogni dell’ingegnere francese. Ma sta di fattoche proprio allora egli aveva in mano un contratto di55.000 lire sterline, per costruire una ferrovia in Egitto;e al tempo stesso era membro della commissione cheavrebbe dovuto pronunciarsi in merito al canale. Cosìegli decretò che il canale sarebbe stato poco pratico, perla ragione che il Mar Rosso e il Mediterraneo erano almedesimo livello!

Palmerston scagliò un’ultima freccia al progetto conqueste parole: «È questo uno dei tanti progetti che ten-dono a ingannare i capitalisti inglesi per poi spogliarli.

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vare poche miglia di acri di terra, e il viaggio alle Indiesarebbe stato ridotto di 5000 miglia di tempestosi ocea-ni. Ma la sabbia era l’ultima ruota del carro. Seguì unodei più sordidi esempi della diplomazia affaristica bri-tannica cui il mondo abbia mai assistito. Nessuna nazio-ne avrebbe avuto dal canale maggiori vantaggidell’Inghilterra; tuttavia, Lord Palmerston scriveva a DeLesseps: «Debbo dirvi con tutta franchezza che ciò chenoi temiamo di perdere è la nostra preminenza maritti-ma e commerciale, poichè questo canale porrà le altrenazioni al nostro stesso livello». Venne posto in operaogni espediente; si minacciò una guerra; si iniziòun’attiva propaganda, fino a che anche la chiara mentedi Lesseps esitò di fronte al caos che regnava, e il suocuore intrepido tremò. C’è un’ironia singolarmenteamara nel fatto che sia stato il ricco figlio di Georgie,l’artefice delle macchine, che con i suoi sogni aveva do-nato al mondo le strade ferrate, a ostacolare così capar-biamente i sogni dell’ingegnere francese. Ma sta di fattoche proprio allora egli aveva in mano un contratto di55.000 lire sterline, per costruire una ferrovia in Egitto;e al tempo stesso era membro della commissione cheavrebbe dovuto pronunciarsi in merito al canale. Cosìegli decretò che il canale sarebbe stato poco pratico, perla ragione che il Mar Rosso e il Mediterraneo erano almedesimo livello!

Palmerston scagliò un’ultima freccia al progetto conqueste parole: «È questo uno dei tanti progetti che ten-dono a ingannare i capitalisti inglesi per poi spogliarli.

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L’idea, se non sbaglio, fu già lanciata quindici anni fa inconcorrenza alla ferrovia da Alessandria al Cairo attra-verso l’Istmo di Suez, la quale, essendo infinitamentepiù pratica e probabilmente più vantaggiosa, era destina-ta a vincere».

Ma era destino che la bilancia dovesse pendere dallaparte di Ferdinando de Lesseps. L’impresa venne finan-ziata, il canale fu compiuto e aperto al traffico il 17 no-vembre 1869, con solenni festeggiamenti e alla presenzadi sovrani e grandi personalità.

È noto tuttavia che prima dell’apertura del canale, ilPrimo Ministro Disraeli, sussidiato dalla casa Roth-schild, in segreto aveva comperato per l’Inghilterra 400milioni di azioni del canale di Suez. Nell’anno 1870, su486 navi che vi passavano, il 75% battevano bandierabritannica; come pure inglese era il 65% del grosso ton-nellaggio.

Abbiamo scelto l’episodio del canale di Suez, per di-mostrare come i trasporti e le comunicazioni siano, piùd’ogni altro fenomeno sociale e industriale, connessiall’economia, alla politica e a urgenti e sempre attualiproblemi che fin dai tempi più antichi sono essenzialiper l’umanità. Con le più moderne e recenti invenzioni,non vi sono limiti al progresso in questo campo e si puòben dire, con una frase ormai vecchia, che l’uomo mo-derno ha abolito le distanze.

Le grandi invenzioni – che rappresentano quasi sem-pre una grande idea – hanno contribuito, in ogni tempoe circostanza, ad aumentare la ricchezza mondiale e ad

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L’idea, se non sbaglio, fu già lanciata quindici anni fa inconcorrenza alla ferrovia da Alessandria al Cairo attra-verso l’Istmo di Suez, la quale, essendo infinitamentepiù pratica e probabilmente più vantaggiosa, era destina-ta a vincere».

Ma era destino che la bilancia dovesse pendere dallaparte di Ferdinando de Lesseps. L’impresa venne finan-ziata, il canale fu compiuto e aperto al traffico il 17 no-vembre 1869, con solenni festeggiamenti e alla presenzadi sovrani e grandi personalità.

È noto tuttavia che prima dell’apertura del canale, ilPrimo Ministro Disraeli, sussidiato dalla casa Roth-schild, in segreto aveva comperato per l’Inghilterra 400milioni di azioni del canale di Suez. Nell’anno 1870, su486 navi che vi passavano, il 75% battevano bandierabritannica; come pure inglese era il 65% del grosso ton-nellaggio.

Abbiamo scelto l’episodio del canale di Suez, per di-mostrare come i trasporti e le comunicazioni siano, piùd’ogni altro fenomeno sociale e industriale, connessiall’economia, alla politica e a urgenti e sempre attualiproblemi che fin dai tempi più antichi sono essenzialiper l’umanità. Con le più moderne e recenti invenzioni,non vi sono limiti al progresso in questo campo e si puòben dire, con una frase ormai vecchia, che l’uomo mo-derno ha abolito le distanze.

Le grandi invenzioni – che rappresentano quasi sem-pre una grande idea – hanno contribuito, in ogni tempoe circostanza, ad aumentare la ricchezza mondiale e ad

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accrescere il benessere umano, malgrado gli sforzi degliuomini politici e d’affari per scompigliarne l’equa distri-buzione. Ma la colpa di ciò non va certo data agli inven-tori, i quali furono sempre, in tutti i tempi, i grandi be-nefattori dell’umanità.

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accrescere il benessere umano, malgrado gli sforzi degliuomini politici e d’affari per scompigliarne l’equa distri-buzione. Ma la colpa di ciò non va certo data agli inven-tori, i quali furono sempre, in tutti i tempi, i grandi be-nefattori dell’umanità.

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XIX

L’EUROPA CONQUISTA L’ORIENTE

Nessun periodo della storia europea è meglio noto,più completamente documentato e più drammaticodell’Epoca delle Grandi Scoperte, del commercio tran-soceanico e della colonizzazione mondiale. Secondo glistorici ortodossi, quest’epoca principia nell’ultima deca-de del XV secolo, col memorando viaggio di CristoforoColombo a Occidente, e quello di Vasco de Gama aOriente. Per millenni il tempestoso Atlantico aveva co-stituito un’insormontabile barriera ai movimenti versooccidente di quella civiltà che l’Europa andava evolven-do. All’improvviso, come per miracolo, quella barrieracadde; e per un secolo o quasi, il Portogallo controllònon solo le vie occidentali degli oceani verso l’Oriente,ma anche tutto il commercio marittimo del mondo occi-dentale, mentre la Spagna conquistava e colonizzava ilNuovo Mondo. Tra le due, l’avventura portoghese cisembra la più notevole, poichè ci dimostra come una po-tenza relativamente debole e limitata, qual’era quellaeuropea, dominasse completamente i destini marinaridell’Oriente, dove navigazione e commercio erano infi-

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XIX

L’EUROPA CONQUISTA L’ORIENTE

Nessun periodo della storia europea è meglio noto,più completamente documentato e più drammaticodell’Epoca delle Grandi Scoperte, del commercio tran-soceanico e della colonizzazione mondiale. Secondo glistorici ortodossi, quest’epoca principia nell’ultima deca-de del XV secolo, col memorando viaggio di CristoforoColombo a Occidente, e quello di Vasco de Gama aOriente. Per millenni il tempestoso Atlantico aveva co-stituito un’insormontabile barriera ai movimenti versooccidente di quella civiltà che l’Europa andava evolven-do. All’improvviso, come per miracolo, quella barrieracadde; e per un secolo o quasi, il Portogallo controllònon solo le vie occidentali degli oceani verso l’Oriente,ma anche tutto il commercio marittimo del mondo occi-dentale, mentre la Spagna conquistava e colonizzava ilNuovo Mondo. Tra le due, l’avventura portoghese cisembra la più notevole, poichè ci dimostra come una po-tenza relativamente debole e limitata, qual’era quellaeuropea, dominasse completamente i destini marinaridell’Oriente, dove navigazione e commercio erano infi-

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nitamente più antichi. Col tramontare della potenza spa-gnuola e portoghese, l’Olanda, l’Inghilterra e la Franciasorgevano all’orizzonte e toglievano alla Spagna e alPortogallo gran parte delle loro conquiste. Ma dal viag-gio di Vasco de Gama sino ai tempi nostri, nessuna na-zione orientale ha riconquistato la propria supremaziasui mari; nessuna razza indigena asiatica ha sfidato fino-ra la potenza occidentale – con un’unica debita eccezio-ne, che è quella del Giappone. Ma dobbiamo subito pre-mettere che per tutto quanto concerne il mondo dellatecnica, il Giappone ha seguìto e adottato una mentalitàassai più occidentale che non orientale.

È ovvio come questo fenomeno non sia spiegabile senon sulla base di una superiorità tecnica, entro certi li-miti, dell’Occidente sull’Oriente. Le invenzioni chemaggiormente influenzarono questo stato di cose sonola bussola, le grandi navi transatlantiche, un maggioruso del ferro, raggiungibile solo con un materiale a mi-nor costo; la polvere da sparo e il cannone e, in seguito,le armi da fuoco portatili. Fu, dal principio sino allafine, una questione di tecnica.

Dietro ai secoli XV e XVI si distende un lungo perio-do, nel quale l’Europa gradatamente si espandeva e apoco a poco perfezionava queste invenzioni.

Già fin dal X secolo i missionari cristiani avevano co-minciato ad avventurarsi oltre i limiti un tempo fissatidall’Impero Romano, e ad esplorare le regioni a norddell’Europa. La conversione al Cristianesimo dell’Euro-pa settentrionale e l’inizio di rapporti commerciali con

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nitamente più antichi. Col tramontare della potenza spa-gnuola e portoghese, l’Olanda, l’Inghilterra e la Franciasorgevano all’orizzonte e toglievano alla Spagna e alPortogallo gran parte delle loro conquiste. Ma dal viag-gio di Vasco de Gama sino ai tempi nostri, nessuna na-zione orientale ha riconquistato la propria supremaziasui mari; nessuna razza indigena asiatica ha sfidato fino-ra la potenza occidentale – con un’unica debita eccezio-ne, che è quella del Giappone. Ma dobbiamo subito pre-mettere che per tutto quanto concerne il mondo dellatecnica, il Giappone ha seguìto e adottato una mentalitàassai più occidentale che non orientale.

È ovvio come questo fenomeno non sia spiegabile senon sulla base di una superiorità tecnica, entro certi li-miti, dell’Occidente sull’Oriente. Le invenzioni chemaggiormente influenzarono questo stato di cose sonola bussola, le grandi navi transatlantiche, un maggioruso del ferro, raggiungibile solo con un materiale a mi-nor costo; la polvere da sparo e il cannone e, in seguito,le armi da fuoco portatili. Fu, dal principio sino allafine, una questione di tecnica.

Dietro ai secoli XV e XVI si distende un lungo perio-do, nel quale l’Europa gradatamente si espandeva e apoco a poco perfezionava queste invenzioni.

Già fin dal X secolo i missionari cristiani avevano co-minciato ad avventurarsi oltre i limiti un tempo fissatidall’Impero Romano, e ad esplorare le regioni a norddell’Europa. La conversione al Cristianesimo dell’Euro-pa settentrionale e l’inizio di rapporti commerciali con

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queste nazioni pagane fanno parte di tale movimento diesplorazione. Le avventure piratesche dei Vichinghi, cheebbero profonda influenza sulla storia di Francia ed’Inghilterra, i lunghi viaggi in Oriente di Padre Rubru-squis, di Padre Caprini e di Marco Polo ed altri, fannougualmente parte dell’Epoca delle Grandi Scoperte.L’incremento del commercio tra le città germaniche e iporti del Baltico, da cui nacque col tempo la Lega An-seatica, è uno dei fattori vitali nello sviluppo della navi-gazione oceanica e fu, col tempo, fattore altrettanto es-senziale nelle grandi scoperte per opera dell’Europa Oc-cidentale.

Dopo l’ascesa della potenza maomettana, il Mediter-raneo separava il mondo cristiano europeo dalla potenzadei Mori in Asia Minore e lungo le coste africane; e finverso la fine del XV secolo, anche la parte meridionaledella Spagna andò inclusa in questa suddivisione. Ci fuun momento in cui parve che l’Europa intera dovesseinchinarsi di fronte ai Mori, ai Turchi, ai Pagani. Co-stantinopoli e più tardi Genova e Venezia lottarono inva-no per mantenere la loro supremazia in quelle antichissi-me acque. Ma già fin dal XII secolo la parte orientaledel Mediterraneo e le coste africane erano, più o meno,dominate dai corsari mori. A queste condizioni avevanograndemente contribuito le costanti guerre tra Venezia eGenova per il dominio commerciale delle vie terrestriall’Oriente. Quasi si sarebbe detto che l’Europa andassedi proposito verso la distruzione.

Non si toglie nulla ai navigatori e ai costruttori navali

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queste nazioni pagane fanno parte di tale movimento diesplorazione. Le avventure piratesche dei Vichinghi, cheebbero profonda influenza sulla storia di Francia ed’Inghilterra, i lunghi viaggi in Oriente di Padre Rubru-squis, di Padre Caprini e di Marco Polo ed altri, fannougualmente parte dell’Epoca delle Grandi Scoperte.L’incremento del commercio tra le città germaniche e iporti del Baltico, da cui nacque col tempo la Lega An-seatica, è uno dei fattori vitali nello sviluppo della navi-gazione oceanica e fu, col tempo, fattore altrettanto es-senziale nelle grandi scoperte per opera dell’Europa Oc-cidentale.

Dopo l’ascesa della potenza maomettana, il Mediter-raneo separava il mondo cristiano europeo dalla potenzadei Mori in Asia Minore e lungo le coste africane; e finverso la fine del XV secolo, anche la parte meridionaledella Spagna andò inclusa in questa suddivisione. Ci fuun momento in cui parve che l’Europa intera dovesseinchinarsi di fronte ai Mori, ai Turchi, ai Pagani. Co-stantinopoli e più tardi Genova e Venezia lottarono inva-no per mantenere la loro supremazia in quelle antichissi-me acque. Ma già fin dal XII secolo la parte orientaledel Mediterraneo e le coste africane erano, più o meno,dominate dai corsari mori. A queste condizioni avevanograndemente contribuito le costanti guerre tra Venezia eGenova per il dominio commerciale delle vie terrestriall’Oriente. Quasi si sarebbe detto che l’Europa andassedi proposito verso la distruzione.

Non si toglie nulla ai navigatori e ai costruttori navali

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della Lega Anseatica, affermando che la primitiva storiadella moderna nave transatlantica fu italiana d’ispirazio-ne e largamente portoghese d’origine; che la scena diquesta evoluzione nautica europea si svolse lungo la co-sta atlantica d’Africa e fra le isole dell’Atlantico meri-dionale; infine, che gran parte di questa storia va con-nessa al commercio con le popolazioni negre del Sene-gal e al commercio degli schiavi negri.

Quella regione era nota agli Arabi, sin da remoti tem-pi, sotto il nome di Gilad Ghana, o Terra di Ricchezza;era accessibile per mezzo delle carovaniere che attraver-savano il periglioso deserto del Sahara. Gilad Ghana ap-pare segnato su una carta che il geografo maomettanoEdrisi tracciò per Ruggero II, il normanno re di Sicilia,nel 1150. Esistono vaghi documenti che nel XIII e nelXIV secolo, mercanti genovesi arrivassero fino alle Iso-le Canarie e costeggiassero l’Africa; forse il loro scopoera la razzìa di schiavi.

Il nome arabo di Gilad Ghana fu corrotto in seguitonella forma latina di «Geniroe», e applicato alle fiere tri-bù berbere che vivevano lungo la costa saharianadell’Atlantico. Più tardi si mutò ancora in «Guinea», epassò a denominare l’intera costa occidentale d’Africasulla quale si praticava la tratta degli schiavi. In seguitoancora, il nome passò a designare le coste settentrionalidell’America del Sud, là dov’è oggi la Nuova Guinea, oGuinea Olandese, Francese e Inglese. Una moneta co-niata sul finir del XIX secolo dai negrieri inglesi con oroafricano, era detta «ghinea», e valeva uno scellino più

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della Lega Anseatica, affermando che la primitiva storiadella moderna nave transatlantica fu italiana d’ispirazio-ne e largamente portoghese d’origine; che la scena diquesta evoluzione nautica europea si svolse lungo la co-sta atlantica d’Africa e fra le isole dell’Atlantico meri-dionale; infine, che gran parte di questa storia va con-nessa al commercio con le popolazioni negre del Sene-gal e al commercio degli schiavi negri.

Quella regione era nota agli Arabi, sin da remoti tem-pi, sotto il nome di Gilad Ghana, o Terra di Ricchezza;era accessibile per mezzo delle carovaniere che attraver-savano il periglioso deserto del Sahara. Gilad Ghana ap-pare segnato su una carta che il geografo maomettanoEdrisi tracciò per Ruggero II, il normanno re di Sicilia,nel 1150. Esistono vaghi documenti che nel XIII e nelXIV secolo, mercanti genovesi arrivassero fino alle Iso-le Canarie e costeggiassero l’Africa; forse il loro scopoera la razzìa di schiavi.

Il nome arabo di Gilad Ghana fu corrotto in seguitonella forma latina di «Geniroe», e applicato alle fiere tri-bù berbere che vivevano lungo la costa saharianadell’Atlantico. Più tardi si mutò ancora in «Guinea», epassò a denominare l’intera costa occidentale d’Africasulla quale si praticava la tratta degli schiavi. In seguitoancora, il nome passò a designare le coste settentrionalidell’America del Sud, là dov’è oggi la Nuova Guinea, oGuinea Olandese, Francese e Inglese. Una moneta co-niata sul finir del XIX secolo dai negrieri inglesi con oroafricano, era detta «ghinea», e valeva uno scellino più

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della lira sterlina. Poi, per un curioso rigiro filologico, iltermine venne applicato ai vigorosi e infaticabili emi-granti italiani, che sulla fine del XIX secolo e al princi-pio del XX, tanta ricchezza apportarono alla vita indu-striale degli Stati Uniti.

La conquista della città di Ceuta sulle coste africane,presso Gibilterra, avvenuta per parte dei Portoghesi nel1415, segnò l’inizio dell’Epoca delle Grandi Scoperte. IlPrincipe Enrico di Portogallo, noto in seguito quale «ilNavigatore», ebbe una parte in questa fortunata opera-zione militare; e scorse nella città conquistata, segni diricchezza dovuta al commercio con le regioni attornoalle bocche del fiume Senegal. Non gli sfuggì che lastrada che attraverso il Sahara percorrevano le carovanedei Mori, era assai vicina all’impresa portoghese. Ma ilPortogallo era troppo povero d’uomini e di denari pertentare l’avventura. Sembra tutta, via che il principe nonignorasse come già una volta un Genovese fosse giuntoa quelle regioni per via di mare; e così egli concepìl’idea di una navigazione atlantica, di un «Grande Por-togallo» e dello sviluppo del commercio degli schiavi.Altre e più fantasiose idee egli aveva. Propose una Cro-ciata; avrebbe voluto unire le forze del suo paese con lamisteriosa nazione cristiana, l’Abissinia. Come altri delsuo tempo, supponeva che il Senegal nascesse dalle sor-genti stesse del Nilo; che fosse possibile risalire il primodei due fiumi e unirsi all’Abissinia, cristiana, e attaccaresul fianco l’Egitto maomettano. Che egli abbia mai cre-duto praticamente all’attuazione di un tale progetto, re-

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della lira sterlina. Poi, per un curioso rigiro filologico, iltermine venne applicato ai vigorosi e infaticabili emi-granti italiani, che sulla fine del XIX secolo e al princi-pio del XX, tanta ricchezza apportarono alla vita indu-striale degli Stati Uniti.

La conquista della città di Ceuta sulle coste africane,presso Gibilterra, avvenuta per parte dei Portoghesi nel1415, segnò l’inizio dell’Epoca delle Grandi Scoperte. IlPrincipe Enrico di Portogallo, noto in seguito quale «ilNavigatore», ebbe una parte in questa fortunata opera-zione militare; e scorse nella città conquistata, segni diricchezza dovuta al commercio con le regioni attornoalle bocche del fiume Senegal. Non gli sfuggì che lastrada che attraverso il Sahara percorrevano le carovanedei Mori, era assai vicina all’impresa portoghese. Ma ilPortogallo era troppo povero d’uomini e di denari pertentare l’avventura. Sembra tutta, via che il principe nonignorasse come già una volta un Genovese fosse giuntoa quelle regioni per via di mare; e così egli concepìl’idea di una navigazione atlantica, di un «Grande Por-togallo» e dello sviluppo del commercio degli schiavi.Altre e più fantasiose idee egli aveva. Propose una Cro-ciata; avrebbe voluto unire le forze del suo paese con lamisteriosa nazione cristiana, l’Abissinia. Come altri delsuo tempo, supponeva che il Senegal nascesse dalle sor-genti stesse del Nilo; che fosse possibile risalire il primodei due fiumi e unirsi all’Abissinia, cristiana, e attaccaresul fianco l’Egitto maomettano. Che egli abbia mai cre-duto praticamente all’attuazione di un tale progetto, re-

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sta tuttavia da dubitarsi.Il commercio sui mari e la navigazione mercantile

erano infinitamente più antichi nel Mar Rosso, nel Gol-fo Persico, nell’Oceano Indiano e lungo le coste orienta-li dell’Africa, che non in Europa o sulle coste atlantichedell’Africa. Ci sono testimonianze di viaggi, compiutida mercanti egiziani, in Arabia e nell’Africa Orientale,che risalgono poco meno che al 3000 A. C. Scambicommerciali esistevano fin da tempi antichissimi tral’India, la Persia, l’Arabia, l’Egitto e l’Africa Orientale.Già nel VI secolo Cosma Indicopleute attesta come lanavigazione mondiale fosse confinata tra quattro punti:il Mar Rosso, il Golfo Persico, l’Oceano Indiano e ilMar della Cina. Egli nutriva altresì la comune teoria,che la terra fosse piana; e rimbecca coloro che la pensa-vano diverso: prova che già allora doveva esserci in Eu-ropa chi sospettava la verità.

Le imbarcazioni di quelle acque orientali hanno unacuriosa e significativa attinenza con quelle che un temporisalivano il vecchio Nilo. La corrente del fiume proce-de verso nord, ma i venti soffiano in preponderanza ver-so il sud. Gli Egiziani avevano studiato una barca ugua-le ai due capi, a carena piatta, con un timone che si pote-va trasportare ugualmente a un capo e all’altro, eun’unica larga vela, che a piacimento si poteva ammai-nare. Un’imbarcazione di quel tipo poteva essere affida-ta al vento o alla corrente, o spinta avanti a furia diremi; e se il vento era propizio, era facile servirsi dellavela. Era comoda a tirarsi sulle sabbie della riva, quando

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sta tuttavia da dubitarsi.Il commercio sui mari e la navigazione mercantile

erano infinitamente più antichi nel Mar Rosso, nel Gol-fo Persico, nell’Oceano Indiano e lungo le coste orienta-li dell’Africa, che non in Europa o sulle coste atlantichedell’Africa. Ci sono testimonianze di viaggi, compiutida mercanti egiziani, in Arabia e nell’Africa Orientale,che risalgono poco meno che al 3000 A. C. Scambicommerciali esistevano fin da tempi antichissimi tral’India, la Persia, l’Arabia, l’Egitto e l’Africa Orientale.Già nel VI secolo Cosma Indicopleute attesta come lanavigazione mondiale fosse confinata tra quattro punti:il Mar Rosso, il Golfo Persico, l’Oceano Indiano e ilMar della Cina. Egli nutriva altresì la comune teoria,che la terra fosse piana; e rimbecca coloro che la pensa-vano diverso: prova che già allora doveva esserci in Eu-ropa chi sospettava la verità.

Le imbarcazioni di quelle acque orientali hanno unacuriosa e significativa attinenza con quelle che un temporisalivano il vecchio Nilo. La corrente del fiume proce-de verso nord, ma i venti soffiano in preponderanza ver-so il sud. Gli Egiziani avevano studiato una barca ugua-le ai due capi, a carena piatta, con un timone che si pote-va trasportare ugualmente a un capo e all’altro, eun’unica larga vela, che a piacimento si poteva ammai-nare. Un’imbarcazione di quel tipo poteva essere affida-ta al vento o alla corrente, o spinta avanti a furia diremi; e se il vento era propizio, era facile servirsi dellavela. Era comoda a tirarsi sulle sabbie della riva, quando

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il commercio lo esigeva o per evitar le tempeste. Conqualche modificazione, le prime imbarcazioni mediter-ranee e nel Mar Rosso seguono quel modello. All’Egittosi ispirano ugualmente le popolazioni lungo le costedell’Oceano Indiano, e lungo le coste dell’Africa finoall’altezza di Mozambico, per quasi tutto il Pacifico; maper aumentare la stabilità col mare grosso, alcune popo-lazioni cominciarono ad aggiungervi l’alberatura. Imonsoni dell’Oceano Indiano e dei Mari della Cina sof-fiano per parecchi mesi in una direzione, quindi mutanonella direzione opposta. Navigazione e tipi d’imbarca-zioni, in quelle acque, s’intonavano quindi alle singola-rità dei venti. In altre parole: come sempre, gli uominiimparavano a valersi di un fenomeno naturale. Le im-barcazioni erano attrezzate per navigare sul vento piut-tosto che secondo il vento; erano, naturalmente, imbar-cazioni adatte unicamente ai mari ove soffiassero i mon-soni. Inoltre, erano rivestite di legno di teck, che le pro-teggeva dal tarlo dei vermi che infestavano le acque tro-picali. Il ferro, come sappiamo, era conosciuto in Orien-te fin da tempi antichissimi, ma la vite non fu nota cheparecchio tempo dopo l’avvento dell’Era Cristiana; epiantar chiodi nel durissimo legno di teck era un’arduafatica. Perciò le tavole delle imbarcazioni orientali eranoconnesse assieme e calafate per mezzo di fibra di palma.Quando dall’Occidente vennero cannoni e polvere dasparo, quelle imbarcazioni si rivelarono piattaforme tut-to men che adatte ai cannoni.

Abbiamo un resoconto commerciale, scritto in greco,

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il commercio lo esigeva o per evitar le tempeste. Conqualche modificazione, le prime imbarcazioni mediter-ranee e nel Mar Rosso seguono quel modello. All’Egittosi ispirano ugualmente le popolazioni lungo le costedell’Oceano Indiano, e lungo le coste dell’Africa finoall’altezza di Mozambico, per quasi tutto il Pacifico; maper aumentare la stabilità col mare grosso, alcune popo-lazioni cominciarono ad aggiungervi l’alberatura. Imonsoni dell’Oceano Indiano e dei Mari della Cina sof-fiano per parecchi mesi in una direzione, quindi mutanonella direzione opposta. Navigazione e tipi d’imbarca-zioni, in quelle acque, s’intonavano quindi alle singola-rità dei venti. In altre parole: come sempre, gli uominiimparavano a valersi di un fenomeno naturale. Le im-barcazioni erano attrezzate per navigare sul vento piut-tosto che secondo il vento; erano, naturalmente, imbar-cazioni adatte unicamente ai mari ove soffiassero i mon-soni. Inoltre, erano rivestite di legno di teck, che le pro-teggeva dal tarlo dei vermi che infestavano le acque tro-picali. Il ferro, come sappiamo, era conosciuto in Orien-te fin da tempi antichissimi, ma la vite non fu nota cheparecchio tempo dopo l’avvento dell’Era Cristiana; epiantar chiodi nel durissimo legno di teck era un’arduafatica. Perciò le tavole delle imbarcazioni orientali eranoconnesse assieme e calafate per mezzo di fibra di palma.Quando dall’Occidente vennero cannoni e polvere dasparo, quelle imbarcazioni si rivelarono piattaforme tut-to men che adatte ai cannoni.

Abbiamo un resoconto commerciale, scritto in greco,

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che risale al I secolo dell’Era Cristiana – Il Periplo delMare Eritreo – il quale unisce in un complesso mercan-tile l’Africa, l’India e l’Asia Minore. Esso ci dà la di-stanza fra i diversi porti, e si dilunga sul carattere dellepopolazioni e dei loro capi e sul genere di merci di cuipiù o meno «tratta» ognuno di questi porti. È un raccon-to oltremodo pratico, ragionevole e senza eccessivi volidi fantasia: da esso ci appare chiaro ed evidente come,per decine di secoli prima che l’Europa Occidentale siespandesse nella navigazione a scopi commerciali, navi-gazione e commercio fossero fatti compiuti da Mozam-bico a Ormudz nell’Arabia, dall’Arabia a Calcutta, daCalcutta a Giava e da Giava alla Cina.

Già nel II secolo A. C., esploratori cinesi erano giuntial Golfo Persico e conoscevano l’Arabia quale la «Terradel sole d’Occidente, il luogo donde vengono tutte lecose buone»; in realtà, la confondevano con la RomaImperiale. Già dicemmo come i Persiani punto intenzio-nati a perdere la loro posizione di intermediarî fra laCina e il mondo mediterraneo, spargessero voci terrori-stiche sui perigli della navigazione nel Golfo Persico enel Mar Rosso; tanto che i Cinesi non si azzardarono al-lora a compiere il viaggio. Ma più tardi da documentiappare come i Cinesi conoscessero l’Arabia; dagli Arabiavevano imparato le differenze che correvano tra la Spa-gna e il Portogallo, e sapevano anche che quest’ultimoera limitato a occidente da uno sconfinato oceano, sulquale nessun navigante s’era mai avventurato. Non cisembra affatto da respingere l’idea che il mondo

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che risale al I secolo dell’Era Cristiana – Il Periplo delMare Eritreo – il quale unisce in un complesso mercan-tile l’Africa, l’India e l’Asia Minore. Esso ci dà la di-stanza fra i diversi porti, e si dilunga sul carattere dellepopolazioni e dei loro capi e sul genere di merci di cuipiù o meno «tratta» ognuno di questi porti. È un raccon-to oltremodo pratico, ragionevole e senza eccessivi volidi fantasia: da esso ci appare chiaro ed evidente come,per decine di secoli prima che l’Europa Occidentale siespandesse nella navigazione a scopi commerciali, navi-gazione e commercio fossero fatti compiuti da Mozam-bico a Ormudz nell’Arabia, dall’Arabia a Calcutta, daCalcutta a Giava e da Giava alla Cina.

Già nel II secolo A. C., esploratori cinesi erano giuntial Golfo Persico e conoscevano l’Arabia quale la «Terradel sole d’Occidente, il luogo donde vengono tutte lecose buone»; in realtà, la confondevano con la RomaImperiale. Già dicemmo come i Persiani punto intenzio-nati a perdere la loro posizione di intermediarî fra laCina e il mondo mediterraneo, spargessero voci terrori-stiche sui perigli della navigazione nel Golfo Persico enel Mar Rosso; tanto che i Cinesi non si azzardarono al-lora a compiere il viaggio. Ma più tardi da documentiappare come i Cinesi conoscessero l’Arabia; dagli Arabiavevano imparato le differenze che correvano tra la Spa-gna e il Portogallo, e sapevano anche che quest’ultimoera limitato a occidente da uno sconfinato oceano, sulquale nessun navigante s’era mai avventurato. Non cisembra affatto da respingere l’idea che il mondo

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dell’Estremo Oriente ne sapesse sull’Occidente assai piùche non questo dell’Estremo Oriente.

Ancora una volta dobbiamo insistere sulle affinità trale navi di tutti i paesi a oriente dell’Africa, e le anticheimbarcazioni del Nilo. Erano tutte costruite per affronta-re i monsoni; nessuna era quindi adatta per la navigazio-ne nell’Atlantico. Come proveremo più tardi, anche lenavi mediterranee si dovettero modificare, per le condi-zioni atmosferiche dell’Atlantico.

È cosa stabilita ormai che nel XV secolo e molto tem-po prima, ci fossero nell’Europa Occidentale, e partico-larmente in Italia, uomini eruditi i quali sapevano che ilmondo era una sfera, e che all’Oriente si poteva arrivarenavigando tanto da levante come da ponente. La cartageografica di Pomponio Mela (circa 50 D. C.) ci offreun’idea sorprendentemente chiara del Mar Rosso, deimari d’Arabia e di Persia e dell’Oceano Indiano; unacosta alquanto nuda della Cina, e un’Africa monca, mapur sempre un’Africa, circondata da acque che conduce-vano direttamente all’Oriente. C’è persino campoall’ipotesi che il Cartaginese Amilcare circumnavigassel’Africa, dietro istigazione di un Faraone. Un confrontotra la carta di Mela e quella Catalana del 1375 provacome quei concetti sopravvivessero assai avanti nell’Etàdelle Grandi Scoperte. Ma erano concetti che riguarda-vano l’Oriente, e non la costa orientale o atlanticad’Africa.

Fin da quando il degno mercante e navigatore grecoIppalo aveva scoperto il segreto, gelosamente custodito

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dell’Estremo Oriente ne sapesse sull’Occidente assai piùche non questo dell’Estremo Oriente.

Ancora una volta dobbiamo insistere sulle affinità trale navi di tutti i paesi a oriente dell’Africa, e le anticheimbarcazioni del Nilo. Erano tutte costruite per affronta-re i monsoni; nessuna era quindi adatta per la navigazio-ne nell’Atlantico. Come proveremo più tardi, anche lenavi mediterranee si dovettero modificare, per le condi-zioni atmosferiche dell’Atlantico.

È cosa stabilita ormai che nel XV secolo e molto tem-po prima, ci fossero nell’Europa Occidentale, e partico-larmente in Italia, uomini eruditi i quali sapevano che ilmondo era una sfera, e che all’Oriente si poteva arrivarenavigando tanto da levante come da ponente. La cartageografica di Pomponio Mela (circa 50 D. C.) ci offreun’idea sorprendentemente chiara del Mar Rosso, deimari d’Arabia e di Persia e dell’Oceano Indiano; unacosta alquanto nuda della Cina, e un’Africa monca, mapur sempre un’Africa, circondata da acque che conduce-vano direttamente all’Oriente. C’è persino campoall’ipotesi che il Cartaginese Amilcare circumnavigassel’Africa, dietro istigazione di un Faraone. Un confrontotra la carta di Mela e quella Catalana del 1375 provacome quei concetti sopravvivessero assai avanti nell’Etàdelle Grandi Scoperte. Ma erano concetti che riguarda-vano l’Oriente, e non la costa orientale o atlanticad’Africa.

Fin da quando il degno mercante e navigatore grecoIppalo aveva scoperto il segreto, gelosamente custodito

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dagli Arabi e dagli Indù, di navigare verso Oriente conun monsone, e verso Occidente col monsone susseguen-te, il commercio orientale aveva sentito il bisogno dinavi più grandi e capaci. Pliny stima che il commerciotra Roma e l’Oriente comportasse un movimento di cir-ca 450.000.000 lire. Prova che il commercio di lusso trail Mediterraneo e l’Africa, l’Arabia, l’India e la Cinadoveva essere oltremodo fiorente. Gran parte dei pro-dotti erano di origine orientale, o dell’Africa orientale.All’Oriente Roma non mandava nulla fuorchè l’argento.Anche in quei tempi, regnavano stretti rapporti tra Arabie Indù; rapporti che consistevano in un monopolio di se-greti commerciali e nautici, che agli estranei sarebbestato assai difficile infrangere.

Tante cognizioni sembrano riassumersi nella letterache il fisico Paolo Toscanelli, fiorentino, rivolgeva aCristoforo Colombo in risposta a una prima lettera delGenovese, indirizzatagli nell’anno 1474, cioè diciottoanni prima che le tre fragili caravelle avventurassero leloro profetiche prore per l’Atlantico occidentale. Tosca-nelli non si diede neppure la briga di scrivere una nuovalettera, ma inviò a Colombo la copia d’una che già ave-va scritto a un amico in Portogallo sul medesimo tema:

«Paolo il fisico, a Cristoforo Colombo, salute! Com-prendo il vostro grande e nobile desiderio di recarvi inquei paesi dove crescono le spezie. In risposta alla vo-stra lettera vi invio dunque la copia d’una che alcunigiorni or sono scrissi a un mio amico, un gentiluomo alseguito della Graziosa Sua Maestà il Re del Portogallo,

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dagli Arabi e dagli Indù, di navigare verso Oriente conun monsone, e verso Occidente col monsone susseguen-te, il commercio orientale aveva sentito il bisogno dinavi più grandi e capaci. Pliny stima che il commerciotra Roma e l’Oriente comportasse un movimento di cir-ca 450.000.000 lire. Prova che il commercio di lusso trail Mediterraneo e l’Africa, l’Arabia, l’India e la Cinadoveva essere oltremodo fiorente. Gran parte dei pro-dotti erano di origine orientale, o dell’Africa orientale.All’Oriente Roma non mandava nulla fuorchè l’argento.Anche in quei tempi, regnavano stretti rapporti tra Arabie Indù; rapporti che consistevano in un monopolio di se-greti commerciali e nautici, che agli estranei sarebbestato assai difficile infrangere.

Tante cognizioni sembrano riassumersi nella letterache il fisico Paolo Toscanelli, fiorentino, rivolgeva aCristoforo Colombo in risposta a una prima lettera delGenovese, indirizzatagli nell’anno 1474, cioè diciottoanni prima che le tre fragili caravelle avventurassero leloro profetiche prore per l’Atlantico occidentale. Tosca-nelli non si diede neppure la briga di scrivere una nuovalettera, ma inviò a Colombo la copia d’una che già ave-va scritto a un amico in Portogallo sul medesimo tema:

«Paolo il fisico, a Cristoforo Colombo, salute! Com-prendo il vostro grande e nobile desiderio di recarvi inquei paesi dove crescono le spezie. In risposta alla vo-stra lettera vi invio dunque la copia d’una che alcunigiorni or sono scrissi a un mio amico, un gentiluomo alseguito della Graziosa Sua Maestà il Re del Portogallo,

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a replica di una lettera ch’egli mi scrisse per ordine diSua Maestà: e vi mando una carta di navigazione similea quella che inviai a lui; con che avrò soddisfatto le vo-stre richieste. Ecco la copia della mia lettera:

«“Paolo il fisico, a Fernando Martinez, Canonico aLisbona, salute! Fui assai lieto di udire dell’intimità edel favore che godete presso il vostro nobilissimo e illu-stre sovrano. Già avevo discorso con voi di una stradapiù breve ai luoghi ove crescono le spezie, per via dimare, che non quella che voi seguite attraverso la Gui-nea. La Graziosa Sua Maestà desidererebbe ora da mequalche documento, o spiegazione visibile, di modo cheanche una persona di scarsa istruzione fosse in grado dicomprendere la rotta. Sebbene io sia convinto che ciòpossa esser provato dalla forma sferica della terra, tutta-via, onde chiarificare la quistione ho deciso di dimostra-re questa rotta per mezzo di una carta di navigazione.Invio quindi a Sua Maestà una carta ch’io stesso ho di-segnato, e sulla quale sono marcate le coste e le isoledalle quali dovrete incominciare a dirigere la rotta versooccidente, e i luoghi dove arriverete, e quanto distantedal Polo o dall’Equatore dovrete tenervi, e quante mi-glia dovrete percorrere prima di giungere in quei luoghiove abbondano ogni sorta di spezie e gemme: e non vistupite già ch’io chiami «Occidente» i luoghi ove cre-scono le spezie quando comunemente son dettiOriente...”».

Cortese se pure lievemente seccato, il fisico Paolo se-guita a dire del grande commercio nel porto cinese di

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a replica di una lettera ch’egli mi scrisse per ordine diSua Maestà: e vi mando una carta di navigazione similea quella che inviai a lui; con che avrò soddisfatto le vo-stre richieste. Ecco la copia della mia lettera:

«“Paolo il fisico, a Fernando Martinez, Canonico aLisbona, salute! Fui assai lieto di udire dell’intimità edel favore che godete presso il vostro nobilissimo e illu-stre sovrano. Già avevo discorso con voi di una stradapiù breve ai luoghi ove crescono le spezie, per via dimare, che non quella che voi seguite attraverso la Gui-nea. La Graziosa Sua Maestà desidererebbe ora da mequalche documento, o spiegazione visibile, di modo cheanche una persona di scarsa istruzione fosse in grado dicomprendere la rotta. Sebbene io sia convinto che ciòpossa esser provato dalla forma sferica della terra, tutta-via, onde chiarificare la quistione ho deciso di dimostra-re questa rotta per mezzo di una carta di navigazione.Invio quindi a Sua Maestà una carta ch’io stesso ho di-segnato, e sulla quale sono marcate le coste e le isoledalle quali dovrete incominciare a dirigere la rotta versooccidente, e i luoghi dove arriverete, e quanto distantedal Polo o dall’Equatore dovrete tenervi, e quante mi-glia dovrete percorrere prima di giungere in quei luoghiove abbondano ogni sorta di spezie e gemme: e non vistupite già ch’io chiami «Occidente» i luoghi ove cre-scono le spezie quando comunemente son dettiOriente...”».

Cortese se pure lievemente seccato, il fisico Paolo se-guita a dire del grande commercio nel porto cinese di

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Zaiton o Canton (da cui è derivata la parola satin) e del-le centinaia di navi cariche di pepe e di altre spezie. Par-la anche dei dotti uomini d’Oriente, dal Gran Khan, del-la città di Catay e d’altro ancora.

In una seconda lettera, Toscanelli dice: «Ciò che vidico voi non potrete comprenderlo se non avendone fat-to l’esperimento, e non certo senza le copiose e preciseinformazioni quali io le ebbi da eminenti e dotti uominii quali da quei luoghi vennero alla Corte Romana, e damercanti che per molti anni commerciarono da quelleparti».

Diciotto anni avanti il primo viaggio di Colombo,ventitre anni prima del viaggio di Vasco de Gama nonc’era, a quanto pare, dubbio circa la possibilità di unavia di mare verso l’Oriente; i dubbi, se mai, concerneva-no la praticità e l’utilità di un tale viaggio.

La lettera di Toscanelli al Canonico di Lisbona è unaprova che gli stessi fatti, i quali occupavano la mente diColombo e portarono più tardi alla scoperta delle dueAmeriche, già da tempo dovevano essere oggetto di cu-riosità nel Portogallo. Ciò era naturale: la pressionemaomettana sugli antichi itinerari commerciali era di-ventata troppo onerosa. I Portoghesi, giunti assai lonta-no sulle coste d’Africa, erano venuti a contatto coi com-mercianti arabi, ne conoscevano i raffinati prodotti, es’erano trovati a un tiro di sasso, per così dire, dal famo-so Capo. In Portogallo gli uomini d’una certa colturascientifica non potevano rimanere indifferenti di fronte aquesti fatti. E nel 1481, Juan II inviava Diego de Azam-

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Zaiton o Canton (da cui è derivata la parola satin) e del-le centinaia di navi cariche di pepe e di altre spezie. Par-la anche dei dotti uomini d’Oriente, dal Gran Khan, del-la città di Catay e d’altro ancora.

In una seconda lettera, Toscanelli dice: «Ciò che vidico voi non potrete comprenderlo se non avendone fat-to l’esperimento, e non certo senza le copiose e preciseinformazioni quali io le ebbi da eminenti e dotti uominii quali da quei luoghi vennero alla Corte Romana, e damercanti che per molti anni commerciarono da quelleparti».

Diciotto anni avanti il primo viaggio di Colombo,ventitre anni prima del viaggio di Vasco de Gama nonc’era, a quanto pare, dubbio circa la possibilità di unavia di mare verso l’Oriente; i dubbi, se mai, concerneva-no la praticità e l’utilità di un tale viaggio.

La lettera di Toscanelli al Canonico di Lisbona è unaprova che gli stessi fatti, i quali occupavano la mente diColombo e portarono più tardi alla scoperta delle dueAmeriche, già da tempo dovevano essere oggetto di cu-riosità nel Portogallo. Ciò era naturale: la pressionemaomettana sugli antichi itinerari commerciali era di-ventata troppo onerosa. I Portoghesi, giunti assai lonta-no sulle coste d’Africa, erano venuti a contatto coi com-mercianti arabi, ne conoscevano i raffinati prodotti, es’erano trovati a un tiro di sasso, per così dire, dal famo-so Capo. In Portogallo gli uomini d’una certa colturascientifica non potevano rimanere indifferenti di fronte aquesti fatti. E nel 1481, Juan II inviava Diego de Azam-

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bujo con 500 soldati e 100 operai a La Mina, a costruir-vi un forte; nel 1484 egli si attribuiva il titolo di «Signo-re della Guinea»; nel 1487 Bartolomeo Diaz doppiava iltempestoso Capo, cui sarebbe stato dato in seguito il fa-tidico nome di Capo di Buona Speranza.

Colombo era, in parte almeno, allievo di navigatoriportoghesi, oltre che genero di Perestrelo, uno dei capi-tani del Principe Enrico. Per un certo tempo aveva vis-suto a Porto Santo, la prima delle Isole Madera riscoper-te dai Portoghesi. Nè dobbiamo dimenticare che nel1487 Pedro de Covilhan e Alfonso de Paiva compieronoun memorabile viaggio per terra, e che il primo giunseveramente a Ceylon, a Calicut e a Goa. Ciò prova cheper parte del Portogallo esisteva un ben definito e prati-co interesse nel commercio orientale. Naturalmente,nessun scienziato europeo avrebbe potuto neppur so-spettare, a quei tempi, l’esistenza dei due immensi con-tinenti che Colombo doveva incontrare, andando alla ri-cerca di una via alle Indie. Inoltre, Toscanelli avevacommesso un errore di parecchie migliaia di miglia nel-la circonferenza della terra, cosa che avrebbe non pococontribuito a confondere il Genovese. Ma le cognizioniche i Portoghesi avevano dei mari orientali erano straor-dinariamente precise, come avrebbe dimostrato il viag-gio di Vasco de Gama.

Prima della sua morte, nel 1463, il Principe Enricos’era dato con fortuna al commercio degli schiavi. Tal-volta le sue navi riportavano fino a mille schiavi l’anno.Così egli poneva le basi di quel brutale traffico in cui

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bujo con 500 soldati e 100 operai a La Mina, a costruir-vi un forte; nel 1484 egli si attribuiva il titolo di «Signo-re della Guinea»; nel 1487 Bartolomeo Diaz doppiava iltempestoso Capo, cui sarebbe stato dato in seguito il fa-tidico nome di Capo di Buona Speranza.

Colombo era, in parte almeno, allievo di navigatoriportoghesi, oltre che genero di Perestrelo, uno dei capi-tani del Principe Enrico. Per un certo tempo aveva vis-suto a Porto Santo, la prima delle Isole Madera riscoper-te dai Portoghesi. Nè dobbiamo dimenticare che nel1487 Pedro de Covilhan e Alfonso de Paiva compieronoun memorabile viaggio per terra, e che il primo giunseveramente a Ceylon, a Calicut e a Goa. Ciò prova cheper parte del Portogallo esisteva un ben definito e prati-co interesse nel commercio orientale. Naturalmente,nessun scienziato europeo avrebbe potuto neppur so-spettare, a quei tempi, l’esistenza dei due immensi con-tinenti che Colombo doveva incontrare, andando alla ri-cerca di una via alle Indie. Inoltre, Toscanelli avevacommesso un errore di parecchie migliaia di miglia nel-la circonferenza della terra, cosa che avrebbe non pococontribuito a confondere il Genovese. Ma le cognizioniche i Portoghesi avevano dei mari orientali erano straor-dinariamente precise, come avrebbe dimostrato il viag-gio di Vasco de Gama.

Prima della sua morte, nel 1463, il Principe Enricos’era dato con fortuna al commercio degli schiavi. Tal-volta le sue navi riportavano fino a mille schiavi l’anno.Così egli poneva le basi di quel brutale traffico in cui

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più tardi avrebbero avuto parte gli Inglesi, gli Olandesi,i Francesi, gli Spagnuoli e gli Americani, e che avrebbe-ro macchiato l’Atlantico dei neri corpi di coloro chesolo nelle onde del mare potevano trovare la libertà. In-direttamente, quel traffico poneva tuttavia le basi dellacoltivazione dello zucchero e del cotone nel NuovoMondo; ma in ultimo avrebbe bagnato di sangue fratri-cida i campi degli Stati Uniti, e sollevato tanto colà chenell’America Latina non lievi problemi razziali.L’influenza del commercio degli schiavi negli Stati Uni-ti potrà esser giudicata dalle recenti statistiche. Vi sonoattualmente negli Stati Uniti circa 13.000.000 di cittadi-ni bianchi di nazionalità straniere; 5.000.000 di ebrei350.000 indiani, discendenti dei primitivi abitanti; e 12milioni di negri, discendenti degli schiavi africani.

L’attività del Principe Enrico non passò inosservata inquei tempi, che pure non erano propensi a grandi delica-tezze. Sapere che vi sono, in tutti i tempi, uomini corag-giosi abbastanza da insorgere contro un’ingiustizia so-ciale, è cosa che rende la fede nella generosità ultimadella natura umana. Nel 1441, i vascelli del Principe En-rico ritornavano al Porto di Lagos con un carico dischiavi, rapiti alle Isole Canarie, un tempo chiamate «LeFortunate». Non erano negri; erano un popolo primitivo,la cui sola colpa era di non possedere armi pari a quelledei Portoghesi. In sella sul suo gran destriero bianco, ilPrincipe Enrico era intensamente assorto nella scelta delquinto che gli spettava di quello sciagurato bottino uma-no. Presente era anche il cronista, Azurara, il quale così

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più tardi avrebbero avuto parte gli Inglesi, gli Olandesi,i Francesi, gli Spagnuoli e gli Americani, e che avrebbe-ro macchiato l’Atlantico dei neri corpi di coloro chesolo nelle onde del mare potevano trovare la libertà. In-direttamente, quel traffico poneva tuttavia le basi dellacoltivazione dello zucchero e del cotone nel NuovoMondo; ma in ultimo avrebbe bagnato di sangue fratri-cida i campi degli Stati Uniti, e sollevato tanto colà chenell’America Latina non lievi problemi razziali.L’influenza del commercio degli schiavi negli Stati Uni-ti potrà esser giudicata dalle recenti statistiche. Vi sonoattualmente negli Stati Uniti circa 13.000.000 di cittadi-ni bianchi di nazionalità straniere; 5.000.000 di ebrei350.000 indiani, discendenti dei primitivi abitanti; e 12milioni di negri, discendenti degli schiavi africani.

L’attività del Principe Enrico non passò inosservata inquei tempi, che pure non erano propensi a grandi delica-tezze. Sapere che vi sono, in tutti i tempi, uomini corag-giosi abbastanza da insorgere contro un’ingiustizia so-ciale, è cosa che rende la fede nella generosità ultimadella natura umana. Nel 1441, i vascelli del Principe En-rico ritornavano al Porto di Lagos con un carico dischiavi, rapiti alle Isole Canarie, un tempo chiamate «LeFortunate». Non erano negri; erano un popolo primitivo,la cui sola colpa era di non possedere armi pari a quelledei Portoghesi. In sella sul suo gran destriero bianco, ilPrincipe Enrico era intensamente assorto nella scelta delquinto che gli spettava di quello sciagurato bottino uma-no. Presente era anche il cronista, Azurara, il quale così

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scrisse: «Oh Padre Nostro Celeste, – Io imploro Te, chele mie lagrime non condannino la mia coscienza, poichènon le sue leggi ma la nostra comune umanità la costrin-ge a piangere le pietose sofferenze di questa gente. Segli animali, con i loro bestiali sentimenti, riconosconoper naturale istinto i patimenti dei loro simili, che rima-ne alla mia natura, la quale ha dinanzi agli occhi questomisero spettacolo, a ricordarle che anch’io, meschino,discendo dai figli di Adamo?».

Parole animose in tutti i tempi, e di fronte a ogni in-giustizia: ma doppiamente animose in quel tempo. Ono-re sia dunque reso al buon vecchio Azurara, perquell’animo che lega l’uomo agli angeli, e dà alla fratel-lanza umana senso e speranza altissimi. Egli proseguequindi a descrivere il distacco tra i membri delle diversefamiglie, e le violenze usate alle madri che invano tenta-vano di proteggere i loro figli.

Che cosa avevano a che fare le cupidigie del regaleprincipe, il suo monopolio di carne umana, le sue ambi-zioni, con una via per mare alle Indie? Nulla. Egli eraun uomo d’affari, e la tratta degli schiavi era un affareottimo. Cacciatore di «avorio nero», le sue idee imperia-listiche non venivano che in seconda linea. La Crociatach’egli si proponeva non era che un pretesto per salvarefino all’ultimo il rispetto di se stesso. Con ciò, distrug-gere il mito che circonda il nome di Enrico il Navigatorenon è affatto essenziale per il nostro intento. È interes-sante constatare che nel suo testamento egli lasciò minu-te disposizioni per le sue fattorie di schiavi, e per le pre-

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scrisse: «Oh Padre Nostro Celeste, – Io imploro Te, chele mie lagrime non condannino la mia coscienza, poichènon le sue leggi ma la nostra comune umanità la costrin-ge a piangere le pietose sofferenze di questa gente. Segli animali, con i loro bestiali sentimenti, riconosconoper naturale istinto i patimenti dei loro simili, che rima-ne alla mia natura, la quale ha dinanzi agli occhi questomisero spettacolo, a ricordarle che anch’io, meschino,discendo dai figli di Adamo?».

Parole animose in tutti i tempi, e di fronte a ogni in-giustizia: ma doppiamente animose in quel tempo. Ono-re sia dunque reso al buon vecchio Azurara, perquell’animo che lega l’uomo agli angeli, e dà alla fratel-lanza umana senso e speranza altissimi. Egli proseguequindi a descrivere il distacco tra i membri delle diversefamiglie, e le violenze usate alle madri che invano tenta-vano di proteggere i loro figli.

Che cosa avevano a che fare le cupidigie del regaleprincipe, il suo monopolio di carne umana, le sue ambi-zioni, con una via per mare alle Indie? Nulla. Egli eraun uomo d’affari, e la tratta degli schiavi era un affareottimo. Cacciatore di «avorio nero», le sue idee imperia-listiche non venivano che in seconda linea. La Crociatach’egli si proponeva non era che un pretesto per salvarefino all’ultimo il rispetto di se stesso. Con ciò, distrug-gere il mito che circonda il nome di Enrico il Navigatorenon è affatto essenziale per il nostro intento. È interes-sante constatare che nel suo testamento egli lasciò minu-te disposizioni per le sue fattorie di schiavi, e per le pre-

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bende delle chiese da lui fondate nelle isole dell’Atlanti-co e lungo le coste dell’Africa; ma non il più piccolo ac-cenno a un monopolio di una via per mare, che girandoattorno al Capo di Buona Speranza arrivasse all’Oriente.A quell’epoca – il 1463 – i suoi navigatori non avevanoraggiunto che Sierra Leone, dove la linea della costaafricana volgeva bruscamente a levante per formar la ri-stretta parte meridionale del Continente Nero. Per giun-gere a quel punto, quei navigatori avevano impiegatoquasi mezzo secolo. Non si può davvero chiamarlo ungrande esploratore; nè un grande scienziato; nè un gran-de geografo. Fu un uomo pratico, energico, venale, vòl-to soprattutto ai proprî interessi: il primo mercanteall’ingrosso dei tempi moderni.

Che indirettamente egli abbia grandemente contribui-to alla futura ricchezza e potenza dell’Europa Occiden-tale, è un altro conto. Nei quarantotto anni che vannodalla conquista di Ceuta alla sua morte, e nei trentatreanni tra questa morte e il famoso viaggio di Vasco deGama, grandi progressi aveva fatto la scienza nauticaportoghese, grazie appunto a questi innumerevoli viaggimarittimi. Era sorta la necessità di evolvere e perfezio-nare navi e strumenti di navigazione, onde potersi av-venturare per gli aperti oceani, fuor di vista della terra,in venti variabili e forti correnti, e lungo coste dove iporti erano scarsi e piccoli, e costrette quindi le navi atenere a lungo il mare. Prima dei viaggi tentati dai Por-toghesi tra il 1418 e il 1497, non s’era mai vista una na-vigazione su così larga scala; mai navi avevano solcato

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bende delle chiese da lui fondate nelle isole dell’Atlanti-co e lungo le coste dell’Africa; ma non il più piccolo ac-cenno a un monopolio di una via per mare, che girandoattorno al Capo di Buona Speranza arrivasse all’Oriente.A quell’epoca – il 1463 – i suoi navigatori non avevanoraggiunto che Sierra Leone, dove la linea della costaafricana volgeva bruscamente a levante per formar la ri-stretta parte meridionale del Continente Nero. Per giun-gere a quel punto, quei navigatori avevano impiegatoquasi mezzo secolo. Non si può davvero chiamarlo ungrande esploratore; nè un grande scienziato; nè un gran-de geografo. Fu un uomo pratico, energico, venale, vòl-to soprattutto ai proprî interessi: il primo mercanteall’ingrosso dei tempi moderni.

Che indirettamente egli abbia grandemente contribui-to alla futura ricchezza e potenza dell’Europa Occiden-tale, è un altro conto. Nei quarantotto anni che vannodalla conquista di Ceuta alla sua morte, e nei trentatreanni tra questa morte e il famoso viaggio di Vasco deGama, grandi progressi aveva fatto la scienza nauticaportoghese, grazie appunto a questi innumerevoli viaggimarittimi. Era sorta la necessità di evolvere e perfezio-nare navi e strumenti di navigazione, onde potersi av-venturare per gli aperti oceani, fuor di vista della terra,in venti variabili e forti correnti, e lungo coste dove iporti erano scarsi e piccoli, e costrette quindi le navi atenere a lungo il mare. Prima dei viaggi tentati dai Por-toghesi tra il 1418 e il 1497, non s’era mai vista una na-vigazione su così larga scala; mai navi avevano solcato

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gli oceani, come quelle che l’energia portoghese e la pe-rizia italiana avevano creato in quel periodo, per ovviarealle necessità del commercio degli schiavi lungo le costeoccidentali d’Africa. Senza questo progresso nelle navie negli strumenti, i viaggi di Vasco de Gama, di Colom-bo e dei grandi navigatori che seguirono sarebbero statiimpossibili, tanto materialmente quanto da un punto divista tecnico.

Da un punto di vista politico o sociale, il XV secolonon sembra uno sfondo fortunato e nemmeno logico perla grande avventura, quale era la conquista europea delmondo per la via degli oceani. Fu un secolo in cui la si-gnoria delle corporazioni, in seno alle città chiuse tra leproprie mura, si risolse in una serie di sanguinose conte-se interne tra artigiani e mercanti, per quasi tutta l’Euro-pa Centrale e l’Italia; di guerre di contadini che dilania-rono la Francia e l’Inghilterra; di aspre lotte tra i baronifeudatari che difendevano i loro privilegi, e i commer-cianti che cominciavano a prosperare; e poteri regali ocentralizzati di fronte a un nuovo ordine di cose restava-no un anacronismo. Fu anche il secolo della MorteNera, o peste bubbonica, recata dai parassiti che alber-gavano nelle viscere dei topi asiatici portati dalle naviprovenienti dal Levante; piaga che decimò l’Europa diquasi metà della sua popolazione. Fu il periodo delleamare guerre tra Cattolici e Protestanti, e di accaniti edeleteri contrasti tra le nazioni, per l’espansione dellaloro forza. E a voler ricordare tutti i mali che travaglia-rono l’Europa nel XV secolo, andremmo ben più lonta-

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gli oceani, come quelle che l’energia portoghese e la pe-rizia italiana avevano creato in quel periodo, per ovviarealle necessità del commercio degli schiavi lungo le costeoccidentali d’Africa. Senza questo progresso nelle navie negli strumenti, i viaggi di Vasco de Gama, di Colom-bo e dei grandi navigatori che seguirono sarebbero statiimpossibili, tanto materialmente quanto da un punto divista tecnico.

Da un punto di vista politico o sociale, il XV secolonon sembra uno sfondo fortunato e nemmeno logico perla grande avventura, quale era la conquista europea delmondo per la via degli oceani. Fu un secolo in cui la si-gnoria delle corporazioni, in seno alle città chiuse tra leproprie mura, si risolse in una serie di sanguinose conte-se interne tra artigiani e mercanti, per quasi tutta l’Euro-pa Centrale e l’Italia; di guerre di contadini che dilania-rono la Francia e l’Inghilterra; di aspre lotte tra i baronifeudatari che difendevano i loro privilegi, e i commer-cianti che cominciavano a prosperare; e poteri regali ocentralizzati di fronte a un nuovo ordine di cose restava-no un anacronismo. Fu anche il secolo della MorteNera, o peste bubbonica, recata dai parassiti che alber-gavano nelle viscere dei topi asiatici portati dalle naviprovenienti dal Levante; piaga che decimò l’Europa diquasi metà della sua popolazione. Fu il periodo delleamare guerre tra Cattolici e Protestanti, e di accaniti edeleteri contrasti tra le nazioni, per l’espansione dellaloro forza. E a voler ricordare tutti i mali che travaglia-rono l’Europa nel XV secolo, andremmo ben più lonta-

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no ancora.Nel 1452, Costantinopoli cadeva dinanzi ai ripetuti

attacchi dei Turchi nomadi; le sue antiche mura, per tan-to tempo baluardo all’Europa contro l’Oriente, crollava-no sotto il fuoco dei cannoni inventati, fusi e manovratidai Franchi assoldati da Maometto II. L’Europa era mi-nacciata dalle terribili schiere dei soldati del Profeta, imigliori su tutta la faccia della terra a quei tempi; i Bal-cani venivano invasi; nè quell’ondata d’invasioni avreb-be cessato fino al XVII secolo, quando l’ultimo esercitoturco sarebbe stato sconfitto alle porte di Vienna, sottola provvida e sapiente guida di Eugenio di Savoia.

Enea Silvio Piccolomini, Vescovo di Siena, scrivendonel 1452 a Papa Nicola V, prorompe in fiere e non in-giuste lamentele:

«Maometto si trova frammezzo a noi; le sciabole deiTurchi ondeggiano sopra il nostro capo; il Mar Nero èchiuso alle nostre navi; il nemico tiene la Valacchia,donde passerà in Ungheria e in Germania. E la discordiae l’inimicizia regnano fra noi! I Re di Francia ed’Inghilterra sono in guerra; i principi di Germania si le-vano in arme gli uni contro gli altri; la Spagna è rara-mente in pace; l’Italia non riposa un attimo dai conflitticon le signorie straniere. Quanto meglio sarebbe invecevolgere le armi contro gl’inimici della nostra fede! Avoi, Santo Padre, spetta unire i Re e i Principi, ed esor-tarli a radunarsi onde consigliarsi per amor della salvez-za del mondo cristiano».

L’ora del redde rationem non trovò un’Europa unita

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no ancora.Nel 1452, Costantinopoli cadeva dinanzi ai ripetuti

attacchi dei Turchi nomadi; le sue antiche mura, per tan-to tempo baluardo all’Europa contro l’Oriente, crollava-no sotto il fuoco dei cannoni inventati, fusi e manovratidai Franchi assoldati da Maometto II. L’Europa era mi-nacciata dalle terribili schiere dei soldati del Profeta, imigliori su tutta la faccia della terra a quei tempi; i Bal-cani venivano invasi; nè quell’ondata d’invasioni avreb-be cessato fino al XVII secolo, quando l’ultimo esercitoturco sarebbe stato sconfitto alle porte di Vienna, sottola provvida e sapiente guida di Eugenio di Savoia.

Enea Silvio Piccolomini, Vescovo di Siena, scrivendonel 1452 a Papa Nicola V, prorompe in fiere e non in-giuste lamentele:

«Maometto si trova frammezzo a noi; le sciabole deiTurchi ondeggiano sopra il nostro capo; il Mar Nero èchiuso alle nostre navi; il nemico tiene la Valacchia,donde passerà in Ungheria e in Germania. E la discordiae l’inimicizia regnano fra noi! I Re di Francia ed’Inghilterra sono in guerra; i principi di Germania si le-vano in arme gli uni contro gli altri; la Spagna è rara-mente in pace; l’Italia non riposa un attimo dai conflitticon le signorie straniere. Quanto meglio sarebbe invecevolgere le armi contro gl’inimici della nostra fede! Avoi, Santo Padre, spetta unire i Re e i Principi, ed esor-tarli a radunarsi onde consigliarsi per amor della salvez-za del mondo cristiano».

L’ora del redde rationem non trovò un’Europa unita

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di fronte al comune pericolo. Il piccolo Portogallo sop-portò in pieno le conseguenze dell’avventura. Nel XIIIsecolo la sua popolazione era di 3.000.000 di abitanti;nel XV, questi erano scesi a 2.000.000. Le guerre controi Mori, cui si alternavano le guerre contro la Spagna, leribellioni intere e il brigantaggio, avevano spopolato lecampagne; branchi di famelici lupi saccheggiavanod’inverno le vie delle città.

Una certa giustificazione per il commercio schiavisti-co del Principe Enrico si potrebbe trovare nel grande bi-sogno di mano d’opera – e quindi di schiavi – per colti-vare i deserti campi del Portogallo. Cosicchè nel 1474,come traspare dalla lettera del Toscanelli, cominciava arisvegliarsi un certo interesse per una via marittima alleIndie. Una certa importanza ebbero i viaggi per terra,compiuti nel 1487 in Oriente da Pedro de Covilhan e daAlfonso de Paiva. Questi morì al Cairo, ma l’altro giun-se fino a Calicut, e al ritorno diede un esatto rendicontodelle sue esperienze; le quali, con altre informazioni, sa-rebbero state assai utili all’accorto Vasco de Gama. Die-ci anni passarono tuttavia tra il viaggio del Diaz e quellodi Vasco de Gama, una decade in cui il Portogallo sipreparò in segreto. Evidentemente non aveva alcunafretta di tentare l’avventura che avrebbe mutato il corsointero della storia.

Il Portogallo non fece gran caso alle prime scoperte diColombo nelle isole dei Caraibi. Con le sue esplorazionis’era già conquistate le Canarie, le Madera e le Isole delCapo Verde. L’esperienza gli aveva insegnato che dalle

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di fronte al comune pericolo. Il piccolo Portogallo sop-portò in pieno le conseguenze dell’avventura. Nel XIIIsecolo la sua popolazione era di 3.000.000 di abitanti;nel XV, questi erano scesi a 2.000.000. Le guerre controi Mori, cui si alternavano le guerre contro la Spagna, leribellioni intere e il brigantaggio, avevano spopolato lecampagne; branchi di famelici lupi saccheggiavanod’inverno le vie delle città.

Una certa giustificazione per il commercio schiavisti-co del Principe Enrico si potrebbe trovare nel grande bi-sogno di mano d’opera – e quindi di schiavi – per colti-vare i deserti campi del Portogallo. Cosicchè nel 1474,come traspare dalla lettera del Toscanelli, cominciava arisvegliarsi un certo interesse per una via marittima alleIndie. Una certa importanza ebbero i viaggi per terra,compiuti nel 1487 in Oriente da Pedro de Covilhan e daAlfonso de Paiva. Questi morì al Cairo, ma l’altro giun-se fino a Calicut, e al ritorno diede un esatto rendicontodelle sue esperienze; le quali, con altre informazioni, sa-rebbero state assai utili all’accorto Vasco de Gama. Die-ci anni passarono tuttavia tra il viaggio del Diaz e quellodi Vasco de Gama, una decade in cui il Portogallo sipreparò in segreto. Evidentemente non aveva alcunafretta di tentare l’avventura che avrebbe mutato il corsointero della storia.

Il Portogallo non fece gran caso alle prime scoperte diColombo nelle isole dei Caraibi. Con le sue esplorazionis’era già conquistate le Canarie, le Madera e le Isole delCapo Verde. L’esperienza gli aveva insegnato che dalle

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isole non c’era molto da guadagnare. Quando tuttaviaColombo si trovò sul limite di una zona di terra, di tuttoun continente che si credeva fosse l’Asia, il Portogallonon mise tempo in mezzo. Era venuto il momento di la-sciar da parte cose trascurabili quali il commercio deglischiavi, e di pensare ad affari di maggior sostanza, fa-cendo uso dell’esperienza acquistata.

Nel 1495 Don Manoel il Fortunato succedeva al tronodel Portogallo; e per il primo deliberato tentativo di arri-vare alle Indie, egli confermava la scelta del suo prede-cessore, e cioè il giovane Vasco de Gama. Era una sag-gia scelta. Dietro al Gama si estendevano generazioni diesperienza marittima nell’Atlantico; e l’uomo stesso erapari al suo compito: uno dei migliori navigatori che maiavessero calcato ponte di nave. Non c’è dubbio che ilsuo viaggio resta quale una delle più grandi impresedell’uomo contro i mari, e dimostra chiaramente la posi-zione del Portogallo.

Vasco de Gama andò prima alle Isole del Capo Verde,dove sbarcò, caricò viveri, legna e acqua, quindi percor-se tremilasettecentosettanta miglia in novantatrè giorni,sottovento, fino alle coste meridionali dell’Africa. Lasua rotta descriveva quasi un semicerchio, a poco menodi duecento miglia dall’allora ignota costa dell’Americadel Sud.

Egli lasciò le Isole del Capo Verde il 3 agosto, tornò aveder terra il 4 o l’8 novembre, si ancorò nella Baia diSant’Elena nella Terra degli Ottentotti, dove rimase ottogiorni a carenare le navi e ad imbarcare nuovamente le-

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isole non c’era molto da guadagnare. Quando tuttaviaColombo si trovò sul limite di una zona di terra, di tuttoun continente che si credeva fosse l’Asia, il Portogallonon mise tempo in mezzo. Era venuto il momento di la-sciar da parte cose trascurabili quali il commercio deglischiavi, e di pensare ad affari di maggior sostanza, fa-cendo uso dell’esperienza acquistata.

Nel 1495 Don Manoel il Fortunato succedeva al tronodel Portogallo; e per il primo deliberato tentativo di arri-vare alle Indie, egli confermava la scelta del suo prede-cessore, e cioè il giovane Vasco de Gama. Era una sag-gia scelta. Dietro al Gama si estendevano generazioni diesperienza marittima nell’Atlantico; e l’uomo stesso erapari al suo compito: uno dei migliori navigatori che maiavessero calcato ponte di nave. Non c’è dubbio che ilsuo viaggio resta quale una delle più grandi impresedell’uomo contro i mari, e dimostra chiaramente la posi-zione del Portogallo.

Vasco de Gama andò prima alle Isole del Capo Verde,dove sbarcò, caricò viveri, legna e acqua, quindi percor-se tremilasettecentosettanta miglia in novantatrè giorni,sottovento, fino alle coste meridionali dell’Africa. Lasua rotta descriveva quasi un semicerchio, a poco menodi duecento miglia dall’allora ignota costa dell’Americadel Sud.

Egli lasciò le Isole del Capo Verde il 3 agosto, tornò aveder terra il 4 o l’8 novembre, si ancorò nella Baia diSant’Elena nella Terra degli Ottentotti, dove rimase ottogiorni a carenare le navi e ad imbarcare nuovamente le-

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gna e acqua. Doppiò il Capo di Buona Speranza il 22novembre, e il 25 andò ad ancorarsi nella Baia di Mos-sel, dove rimase tredici giorni per alcune riparazioni eper dar riposo all’equipaggio. Il 16 novembre passava lebocche del fiume detto del «Gran Pesce» e si trovava fi-nalmente in acque non mai solcate da alcuna nave euro-pea. Ma non gli mancava già la conoscenza di quelle ac-que, nè dei porti di quei mari ignoti. Evidentemente ave-va ricevuto «buone informazioni»; non si aggirava allacieca per l’oceano, nella speranza di imbattersi per casoin un continente. Sapeva benissimo dove andava. Ilgiorno di Natale entrò in una baia, alla quale diede il lo-gico e pio nome di Porto Natal. Di là fece vela per ilporto di Mozambico, del quale già aveva avuto notiziadai suoi informatori nei porti del Mar Rosso. Qui imbar-cò un pilota maomettano, il quale lo condusse sano esalvo al porto di Mombasa e di là a Malindi, dove im-barcò un pilota indù, il quale lo guidò direttamente alporto di Calcutta, dove giungeva il 20 maggio, diecimesi e dodici giorni dopo aver lasciato Lisbona.

Vasco de Gama sapeva che Calcutta era il principalecentro dell’India per le spezie e il cinnamo che arrivavadalle Molucche. Qui, da tempo immemorabile, Arabi eIndù e Italiani e Spagnoli reietti avevano commerciatocon l’Europa attraverso il Mar Rosso e il Nilo, il GolfoPersico e l’Eufrate e per mezzo delle carovane che per ideserti arabi giungevano ai porti occidentali del Medi-terraneo. Tanto l’una via che l’altra comportavano one-rose tariffe; se queste si potevano evitare, le spezie in-

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gna e acqua. Doppiò il Capo di Buona Speranza il 22novembre, e il 25 andò ad ancorarsi nella Baia di Mos-sel, dove rimase tredici giorni per alcune riparazioni eper dar riposo all’equipaggio. Il 16 novembre passava lebocche del fiume detto del «Gran Pesce» e si trovava fi-nalmente in acque non mai solcate da alcuna nave euro-pea. Ma non gli mancava già la conoscenza di quelle ac-que, nè dei porti di quei mari ignoti. Evidentemente ave-va ricevuto «buone informazioni»; non si aggirava allacieca per l’oceano, nella speranza di imbattersi per casoin un continente. Sapeva benissimo dove andava. Ilgiorno di Natale entrò in una baia, alla quale diede il lo-gico e pio nome di Porto Natal. Di là fece vela per ilporto di Mozambico, del quale già aveva avuto notiziadai suoi informatori nei porti del Mar Rosso. Qui imbar-cò un pilota maomettano, il quale lo condusse sano esalvo al porto di Mombasa e di là a Malindi, dove im-barcò un pilota indù, il quale lo guidò direttamente alporto di Calcutta, dove giungeva il 20 maggio, diecimesi e dodici giorni dopo aver lasciato Lisbona.

Vasco de Gama sapeva che Calcutta era il principalecentro dell’India per le spezie e il cinnamo che arrivavadalle Molucche. Qui, da tempo immemorabile, Arabi eIndù e Italiani e Spagnoli reietti avevano commerciatocon l’Europa attraverso il Mar Rosso e il Nilo, il GolfoPersico e l’Eufrate e per mezzo delle carovane che per ideserti arabi giungevano ai porti occidentali del Medi-terraneo. Tanto l’una via che l’altra comportavano one-rose tariffe; se queste si potevano evitare, le spezie in-

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diane sarebbero arrivate in Europa a un quarto del loroprezzo attuale. E questo sapevano anche gli avveduticommercianti in quei porti, non meno di Vasco deGama. Egli aspirava a un ricco premio, il più ricco delmondo intero in quel momento; per quel premio avevapòsto in gioco la sua vita. Era chiaro che non mirava auna piccola parte di commercio orientale, strappata perforza, ma a un controllo quasi completo di quel com-mercio.

E. P. Payne, nel suo lucido e ammirevole libro L’epo-ca delle Grandi Scoperte, dice:

«L’arrivo dei Portoghesi non fu completamente ina-spettato. La loro intenzione di penetrare nell’Oceano In-diano era ben nota; e al suo arrivo, Vasco de Gama ad-dusse come pretesto di andare in cerca di alcune navidella sua squadra che s’erano perdute. Essendo sbarcatoper informarsene, richiese il permesso di commerciare,che gli venne concesso. Nel frattempo i residenti mao-mettani brigavano col principe indigeno, il «Samori» o«Zamorin», sperando di infliggere ai Portoghesi un col-po mancino, mentre questi erano ai primordi appenadella loro impresa; denunciandoli come una banda di pi-rati, riuscirono a indurre il Samori a trattenere Vasco deGama e alcuni dei suoi compagni come prigionieri. Permiracolo de Gama ne riportò salva la vita; si venne fi-nalmente a un accordo; e dopo avere imbarcato un ab-bondante carico di pepe, cinnamo, zenzero, chiodi di ga-rofano e noce moscata, oltre a rubini e altre pietre pre-ziose, il 29 agosto 1498 il Portoghese iniziava il viaggio

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diane sarebbero arrivate in Europa a un quarto del loroprezzo attuale. E questo sapevano anche gli avveduticommercianti in quei porti, non meno di Vasco deGama. Egli aspirava a un ricco premio, il più ricco delmondo intero in quel momento; per quel premio avevapòsto in gioco la sua vita. Era chiaro che non mirava auna piccola parte di commercio orientale, strappata perforza, ma a un controllo quasi completo di quel com-mercio.

E. P. Payne, nel suo lucido e ammirevole libro L’epo-ca delle Grandi Scoperte, dice:

«L’arrivo dei Portoghesi non fu completamente ina-spettato. La loro intenzione di penetrare nell’Oceano In-diano era ben nota; e al suo arrivo, Vasco de Gama ad-dusse come pretesto di andare in cerca di alcune navidella sua squadra che s’erano perdute. Essendo sbarcatoper informarsene, richiese il permesso di commerciare,che gli venne concesso. Nel frattempo i residenti mao-mettani brigavano col principe indigeno, il «Samori» o«Zamorin», sperando di infliggere ai Portoghesi un col-po mancino, mentre questi erano ai primordi appenadella loro impresa; denunciandoli come una banda di pi-rati, riuscirono a indurre il Samori a trattenere Vasco deGama e alcuni dei suoi compagni come prigionieri. Permiracolo de Gama ne riportò salva la vita; si venne fi-nalmente a un accordo; e dopo avere imbarcato un ab-bondante carico di pepe, cinnamo, zenzero, chiodi di ga-rofano e noce moscata, oltre a rubini e altre pietre pre-ziose, il 29 agosto 1498 il Portoghese iniziava il viaggio

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di ritorno, e nel settembre del 1499 faceva finalmente ilsuo ingresso trionfale in Lisbona. Oltre alle mercanzie,egli riportava precise informazioni sulle costedell’India, fino a Bengala, Ceylon, Malucca, Pegu e Su-matra».

Un uomo intrepido, straordinariamente abile, uno spi-rito pratico; soprattutto un uomo all’altezza della situa-zione. Il Samori di Calcutta aveva commesso un erroreche avrebbe rimpianto per tutta la vita: la morte di unVasco de Gama avrebbe garantito ai mari dell’Orienteun altro secolo di pace.

La seconda spedizione portoghese, che salpava da Li-sbona nell’anno 1500 al capace comando di Pedro Alva-rez Cabral, era nè più nè meno che una vera flotta di va-scelli da guerra, i più potenti che mai avessero solcato imari Orientali. Cabral attaccò e catturò una grande navedei Mori davanti a Calcutta, e la offrì in dono al Samori.I Mori gli resero la pariglia distruggendo un posto por-toghese, deposito di merci, e massacrando gli abitanti.Cabral, per nulla scomposto, attaccò e colò a picco diecinavi More, e bombardò la città. Joao de Nueva, giuntoda Lisbona con quattro navi prima del ritorno di Cabral,venuto a sapere che il Samori era mal disposto verso iPortoghesi, entrò nella rada di Calcutta e distrusse laflotta. Giunse quindi l’invincibile Vasco de Gama conventi navi. Fu deciso di cacciare i Mori da Calcutta aqualsiasi prezzo; e dopo un’altra guerra che durò cinquemesi, Duerte Pacheo sconfiggeva finalmente il Samori.Dopo di che i Mori, disperati, inviarono un’ambasciata

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di ritorno, e nel settembre del 1499 faceva finalmente ilsuo ingresso trionfale in Lisbona. Oltre alle mercanzie,egli riportava precise informazioni sulle costedell’India, fino a Bengala, Ceylon, Malucca, Pegu e Su-matra».

Un uomo intrepido, straordinariamente abile, uno spi-rito pratico; soprattutto un uomo all’altezza della situa-zione. Il Samori di Calcutta aveva commesso un erroreche avrebbe rimpianto per tutta la vita: la morte di unVasco de Gama avrebbe garantito ai mari dell’Orienteun altro secolo di pace.

La seconda spedizione portoghese, che salpava da Li-sbona nell’anno 1500 al capace comando di Pedro Alva-rez Cabral, era nè più nè meno che una vera flotta di va-scelli da guerra, i più potenti che mai avessero solcato imari Orientali. Cabral attaccò e catturò una grande navedei Mori davanti a Calcutta, e la offrì in dono al Samori.I Mori gli resero la pariglia distruggendo un posto por-toghese, deposito di merci, e massacrando gli abitanti.Cabral, per nulla scomposto, attaccò e colò a picco diecinavi More, e bombardò la città. Joao de Nueva, giuntoda Lisbona con quattro navi prima del ritorno di Cabral,venuto a sapere che il Samori era mal disposto verso iPortoghesi, entrò nella rada di Calcutta e distrusse laflotta. Giunse quindi l’invincibile Vasco de Gama conventi navi. Fu deciso di cacciare i Mori da Calcutta aqualsiasi prezzo; e dopo un’altra guerra che durò cinquemesi, Duerte Pacheo sconfiggeva finalmente il Samori.Dopo di che i Mori, disperati, inviarono un’ambasciata

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al Gran Sultano d’Egitto, chiedendo cannoni e Franchiper manovrarli, dato che quelle terribili armi erano igno-te ancora in India, e che con la potenza di essi i Porto-ghesi l’avrebbero conquistata tutta. Il Sultano mandò unmessaggio al Papa, minacciando di distruggere i LuoghiSanti di Gerusalemme ove i Portoghesi persistessero ainvadere l’India. Ma tutto si limitò a uno scambio di pa-role. Il resto della storia, tra il 1509 e il 1515, appartieneal grande Alfonso de Albuquerque, il quale conquistòCalcutta nel 1520. Nel giugno del 1515 egli attaccò esaccheggiò Malucca, vi eresse una fortezza, vi stabilìuna zecca, fece costruire una chiesa dedicata alla Vergi-ne Maria; dopo di che il Portogallo ebbe in mano ilcommercio delle spezie. C’è una certa ammirevole unitàd’azione e d’energia, negli uomini che servirono il Por-togallo in quel tempo. Essi lavorarono assai bene e rapi-damente, e senza scrupoli; sapevano ciò che volevano econoscevano la portata delle loro armi. Prima della suamorte, che avvenne nel 1515, Albuquerque aveva spaz-zato i mari orientali dalle navi dei Mori. Egli aveva per-sino contemplato l’idea di scavare un canale dal Nilo alMar Rosso, che avrebbe affamato l’Egitto, e di marciaresulla Mecca e di saccheggiare il Sepolcro del Profeta.Inviò cospicui doni al Papa, fra i quali un elefante india-no che s’inchinò tre volte di fronte al Seggio Papale,con grande edificazione di tutta la Cristianità.

Nel 1570 il Portogallo aveva acquisito un completomonopolio del commercio con l’Oriente. Ma inquell’anno la Spagna vinceva il vicino minore, e comin-

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al Gran Sultano d’Egitto, chiedendo cannoni e Franchiper manovrarli, dato che quelle terribili armi erano igno-te ancora in India, e che con la potenza di essi i Porto-ghesi l’avrebbero conquistata tutta. Il Sultano mandò unmessaggio al Papa, minacciando di distruggere i LuoghiSanti di Gerusalemme ove i Portoghesi persistessero ainvadere l’India. Ma tutto si limitò a uno scambio di pa-role. Il resto della storia, tra il 1509 e il 1515, appartieneal grande Alfonso de Albuquerque, il quale conquistòCalcutta nel 1520. Nel giugno del 1515 egli attaccò esaccheggiò Malucca, vi eresse una fortezza, vi stabilìuna zecca, fece costruire una chiesa dedicata alla Vergi-ne Maria; dopo di che il Portogallo ebbe in mano ilcommercio delle spezie. C’è una certa ammirevole unitàd’azione e d’energia, negli uomini che servirono il Por-togallo in quel tempo. Essi lavorarono assai bene e rapi-damente, e senza scrupoli; sapevano ciò che volevano econoscevano la portata delle loro armi. Prima della suamorte, che avvenne nel 1515, Albuquerque aveva spaz-zato i mari orientali dalle navi dei Mori. Egli aveva per-sino contemplato l’idea di scavare un canale dal Nilo alMar Rosso, che avrebbe affamato l’Egitto, e di marciaresulla Mecca e di saccheggiare il Sepolcro del Profeta.Inviò cospicui doni al Papa, fra i quali un elefante india-no che s’inchinò tre volte di fronte al Seggio Papale,con grande edificazione di tutta la Cristianità.

Nel 1570 il Portogallo aveva acquisito un completomonopolio del commercio con l’Oriente. Ma inquell’anno la Spagna vinceva il vicino minore, e comin-

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ciava a spartire con esso quel commercio. Già la Spagnaaveva iniziato un traffico di galeoni con le sue colonieamericane, dal porto di Nombre de Dios, e pochi annidopo stabiliva anche una via per mare tra Panama e leIsole Filippine. Tanto le navi spagnuole che quelle por-toghesi s’erano sviluppate; erano ora grandi vascellimercantili, robusti, sicuri e capaci di trasformarsi in ec-cellenti e inespugnabili fortezze, quando erano ancoratiin ostili porti forestieri. Ma non erano di gran lunga cosìmaneggiabili come le navi Olandesi e Britanniche, lequali finora non avevano avuto occasione di sacrificarenè velocità nè cannoni per far posto alle mercanzie, alletruppe, ai mercanti e ai funzionari che continuamenteviaggiavano tra i porti europei e le colonie. Dall’epocadel primo viaggio di Hawkins, tra l’Africa e le IsoleSpagnole nel mare dei Caraibi (1537) negrieri, pirati ebucanieri olandesi, francesi e inglesi avevano infestato imari del Nuovo Mondo. Ma la rotta del Capo di BuonaSperanza era stata rispettata da tutte le nazioni Europee,grazie alla Bolla papale che la limitava al Portogallo, maassai più per il timore della potenza nautica spagnola eportoghese14.

La lunga esperienza nei mari occidentali diminuì unpoco quel timore; e la sconfitta della Grande Armadanel 1588 lo dissipò completamente. L’Olanda e l’Inghil-terra si convinsero che le loro navi tenevano meglio il

14 Cfr. in argomento due opere di grande interesse: Storia deiFilibustieri di E. Sternbeck e I grandi corsari di Arrigo Fugassa,edite entrambe da Corbaccio. (N. d. E.).

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ciava a spartire con esso quel commercio. Già la Spagnaaveva iniziato un traffico di galeoni con le sue colonieamericane, dal porto di Nombre de Dios, e pochi annidopo stabiliva anche una via per mare tra Panama e leIsole Filippine. Tanto le navi spagnuole che quelle por-toghesi s’erano sviluppate; erano ora grandi vascellimercantili, robusti, sicuri e capaci di trasformarsi in ec-cellenti e inespugnabili fortezze, quando erano ancoratiin ostili porti forestieri. Ma non erano di gran lunga cosìmaneggiabili come le navi Olandesi e Britanniche, lequali finora non avevano avuto occasione di sacrificarenè velocità nè cannoni per far posto alle mercanzie, alletruppe, ai mercanti e ai funzionari che continuamenteviaggiavano tra i porti europei e le colonie. Dall’epocadel primo viaggio di Hawkins, tra l’Africa e le IsoleSpagnole nel mare dei Caraibi (1537) negrieri, pirati ebucanieri olandesi, francesi e inglesi avevano infestato imari del Nuovo Mondo. Ma la rotta del Capo di BuonaSperanza era stata rispettata da tutte le nazioni Europee,grazie alla Bolla papale che la limitava al Portogallo, maassai più per il timore della potenza nautica spagnola eportoghese14.

La lunga esperienza nei mari occidentali diminuì unpoco quel timore; e la sconfitta della Grande Armadanel 1588 lo dissipò completamente. L’Olanda e l’Inghil-terra si convinsero che le loro navi tenevano meglio il

14 Cfr. in argomento due opere di grande interesse: Storia deiFilibustieri di E. Sternbeck e I grandi corsari di Arrigo Fugassa,edite entrambe da Corbaccio. (N. d. E.).

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mare e in combattimento valevano assai più dei pesantigaleoni e delle caracche portoghesi e spagnuole. Nel1587, l’anno prima della disfatta dell’Armada, FrancisDrake catturava la caracca portoghese San Filippo, equattro anni dopo, nel 1592, una flottiglia di corsari in-glesi catturava la Madre de Dios, proveniente dalle In-die con un ricco carico; e portava la gran nave fin nelporto di Londra, dove la sua mole fu grandemente am-mirata e studiata con ogni cura dagli esperti. Dalla ric-chezza del carico, gli Inglesi furono indotti a iniziareanch’essi il commercio con l’Oriente, tanto più che lerecenti esperienze li avevano convinti che le loro pauredella potenza navale spagnuola erano infondate. Modifi-cando le proprie navi per renderle adatte ai grandi cari-chi, Portogallo e Spagna avevano perduto la loro forzamilitare; e il commercio marittimo dipendeva alloracome ora da un’adeguata potenza marittima.

La storia primitiva di una delle vitali invenzionidell’Epoca delle Grandi Scoperte, la bussola, è in certomodo oscura. La sua forma ultima è dovuta alle evolu-zioni dei matematici mediterranei; ma sta di fatto che iCinesi furono il primo popolo a far uso del ferro magne-tico. Vi sono leggendari resoconti, secondo i quali eser-citi nemici sperduti nella nebbia vennero individuati permezzo dell’ago magnetico. Una forma più pratica diquell’idea era in uso nei campi lungo il Fiume Giallo,per ristabilire i confini dopo le inondazioni: come abbia-mo già detto, un ago magnetico, conficcato in una pa-glia di riso, fluttuando in una coppa d’acqua segnava il

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mare e in combattimento valevano assai più dei pesantigaleoni e delle caracche portoghesi e spagnuole. Nel1587, l’anno prima della disfatta dell’Armada, FrancisDrake catturava la caracca portoghese San Filippo, equattro anni dopo, nel 1592, una flottiglia di corsari in-glesi catturava la Madre de Dios, proveniente dalle In-die con un ricco carico; e portava la gran nave fin nelporto di Londra, dove la sua mole fu grandemente am-mirata e studiata con ogni cura dagli esperti. Dalla ric-chezza del carico, gli Inglesi furono indotti a iniziareanch’essi il commercio con l’Oriente, tanto più che lerecenti esperienze li avevano convinti che le loro pauredella potenza navale spagnuola erano infondate. Modifi-cando le proprie navi per renderle adatte ai grandi cari-chi, Portogallo e Spagna avevano perduto la loro forzamilitare; e il commercio marittimo dipendeva alloracome ora da un’adeguata potenza marittima.

La storia primitiva di una delle vitali invenzionidell’Epoca delle Grandi Scoperte, la bussola, è in certomodo oscura. La sua forma ultima è dovuta alle evolu-zioni dei matematici mediterranei; ma sta di fatto che iCinesi furono il primo popolo a far uso del ferro magne-tico. Vi sono leggendari resoconti, secondo i quali eser-citi nemici sperduti nella nebbia vennero individuati permezzo dell’ago magnetico. Una forma più pratica diquell’idea era in uso nei campi lungo il Fiume Giallo,per ristabilire i confini dopo le inondazioni: come abbia-mo già detto, un ago magnetico, conficcato in una pa-glia di riso, fluttuando in una coppa d’acqua segnava il

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Nord e il Sud. Si crede che le giunche cinesi usasserouno strumento simile nei loro viaggi ai porti di Giavadurante i monsoni. I navigatori arabi, navigando dallaCina a Ceylon, verso il IX o X secolo portarono l’ideanel Mediterraneo dove i Normanni, gli Italiani e i Cata-lani la perfezionarono. Tra l’XI e il XII secolo una bus-sola in cui l’ago girava su un pernio, e con i punti cardi-nali segnati su una carta di forma circolare, era diventatad’uso comune nella navigazione europea, e dal Mediter-raneo si diffuse fino all’estremo Nord, alle navi germa-niche e scandinave. I Portoghesi seppero di questa in-venzione contemporaneamente a ogni altra nazione chenavigasse nell’Atlantico; ai tempi di Vasco de Gama,per essi era entrata ormai nell’uso comune.

Ci resta ora a dire della forza che rendeva quelle navioccidentali, dirette dalla bussola, invincibili in Oriente;cioè, della combinazione di polvere da sparo e cannoni.Qui, i documenti sono abbastanza chiari. Il salnitro eravenuto dalla Cina fin dal XIII secolo: era noto quale la«neve cinese», e i razzi che i Cinesi fabbricavano perspaventare gli spiriti maligni erano le «freccie cinesi».Può darsi che il salnitro si usasse anche nelle bombe in-cendiarie; ma nessun popolo conosceva certo la polvereda sparo prima di quel tempo, non essendovi indizi ri-guardo al salnitro, essenziale per la sua fabbricazione.Naturale può essere stata la confusione letteraria nata trail cosidetto «fuoco greco» lanciato in abbondanza in tut-to il Medioevo a mezzo delle catapulte durante i com-battimenti, e la polvere da sparo vera e propria. C’è un

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Nord e il Sud. Si crede che le giunche cinesi usasserouno strumento simile nei loro viaggi ai porti di Giavadurante i monsoni. I navigatori arabi, navigando dallaCina a Ceylon, verso il IX o X secolo portarono l’ideanel Mediterraneo dove i Normanni, gli Italiani e i Cata-lani la perfezionarono. Tra l’XI e il XII secolo una bus-sola in cui l’ago girava su un pernio, e con i punti cardi-nali segnati su una carta di forma circolare, era diventatad’uso comune nella navigazione europea, e dal Mediter-raneo si diffuse fino all’estremo Nord, alle navi germa-niche e scandinave. I Portoghesi seppero di questa in-venzione contemporaneamente a ogni altra nazione chenavigasse nell’Atlantico; ai tempi di Vasco de Gama,per essi era entrata ormai nell’uso comune.

Ci resta ora a dire della forza che rendeva quelle navioccidentali, dirette dalla bussola, invincibili in Oriente;cioè, della combinazione di polvere da sparo e cannoni.Qui, i documenti sono abbastanza chiari. Il salnitro eravenuto dalla Cina fin dal XIII secolo: era noto quale la«neve cinese», e i razzi che i Cinesi fabbricavano perspaventare gli spiriti maligni erano le «freccie cinesi».Può darsi che il salnitro si usasse anche nelle bombe in-cendiarie; ma nessun popolo conosceva certo la polvereda sparo prima di quel tempo, non essendovi indizi ri-guardo al salnitro, essenziale per la sua fabbricazione.Naturale può essere stata la confusione letteraria nata trail cosidetto «fuoco greco» lanciato in abbondanza in tut-to il Medioevo a mezzo delle catapulte durante i com-battimenti, e la polvere da sparo vera e propria. C’è un

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resoconto di un imperatore della Mongolia, il quale nelXIII secolo avrebbe inviato in Persia i suoi emissari, allaricerca d’uomini che sapessero fabbricare catapulte emanovrarle, per gettar «bombe incendiarie» su una cittàribelle. Ciò può aver dato origine a qualche confusione.Il fuoco greco era noto a Costantinopoli sin da tempimolto antichi; c’è ragione di credere che fosse originariodell’Assiria, in un’epoca pre-cristiana. Fino a che la pol-vere da sparo non fu specificamente nota, tutte le descri-zioni di usi di bombe incendiarie hanno una certa analo-gia con una esplosione di polvere da sparo.

Ruggero Bacon, quell’infaticabile spirito curioso delXIII secolo, udendo parlare del salnitro decise di esperi-mentarne gli effetti, e per poco non ci rimise la vita. In-fine ottenne dall’unione del salnitro, zolfo e carbone dilegna, una polvere nera, della quale egli stesso dice:«Questa polvere, scagliata dal bronzo, può causare ful-mini e tuoni più formidabili che non quelli prodotti dallanatura. Una piccola quantità è sufficiente a produrre unaterribile esplosione, con gran sfolgorar di luce. Il feno-meno potrebbe moltiplicarsi fino a distruggere una cittào un esercito».

Ma una volta prodotto il miracolo, con autentica in-differenza scientifica il Bacon ne abbandonò lo sviluppoad altri.

Negli Annali della città di Gand del 1313 troviamoquesta breve nota: «In quest’anno, per opera di un mo-naco è stato introdotto in Germania l’uso dei cannoni».Ci sembra che il laconico resoconto dell’importante in-

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resoconto di un imperatore della Mongolia, il quale nelXIII secolo avrebbe inviato in Persia i suoi emissari, allaricerca d’uomini che sapessero fabbricare catapulte emanovrarle, per gettar «bombe incendiarie» su una cittàribelle. Ciò può aver dato origine a qualche confusione.Il fuoco greco era noto a Costantinopoli sin da tempimolto antichi; c’è ragione di credere che fosse originariodell’Assiria, in un’epoca pre-cristiana. Fino a che la pol-vere da sparo non fu specificamente nota, tutte le descri-zioni di usi di bombe incendiarie hanno una certa analo-gia con una esplosione di polvere da sparo.

Ruggero Bacon, quell’infaticabile spirito curioso delXIII secolo, udendo parlare del salnitro decise di esperi-mentarne gli effetti, e per poco non ci rimise la vita. In-fine ottenne dall’unione del salnitro, zolfo e carbone dilegna, una polvere nera, della quale egli stesso dice:«Questa polvere, scagliata dal bronzo, può causare ful-mini e tuoni più formidabili che non quelli prodotti dallanatura. Una piccola quantità è sufficiente a produrre unaterribile esplosione, con gran sfolgorar di luce. Il feno-meno potrebbe moltiplicarsi fino a distruggere una cittào un esercito».

Ma una volta prodotto il miracolo, con autentica in-differenza scientifica il Bacon ne abbandonò lo sviluppoad altri.

Negli Annali della città di Gand del 1313 troviamoquesta breve nota: «In quest’anno, per opera di un mo-naco è stato introdotto in Germania l’uso dei cannoni».Ci sembra che il laconico resoconto dell’importante in-

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novazione si riferisca al Monaco Bertoldo Schwarz, ilquale, alla ricerca del famoso oro artificiale che nell’altoMedioevo formò l’ossessione degli alchimisti, manipolòinvece una miscela che risultò polvere da sparo. Il fattoche spesso in quei tempi il Diavolo veniva rappresentatosotto le spoglie di monaco, trasse a credere che la nuovainvenzione con tutti i suoi effetti visibili e materiali fos-se opera infernale.

Già l’anno seguente, il 1314, troviamo testimonianzadi una spedizione di cannoni e di polvere in Inghilterra;e così ha principio il moderno traffico delle munizioni.

L’uso dei cannoni dovette aumentare la richiesta delferro. Nel 1323 si costruiva nella Lorena una vasta for-nace, con divisioni di lavoro, mossa da una turbina. Nel1388 la lavorazione del ferro faceva parte delle trentatreArti Maggiori di Liegi nel Belgio; e anche in Ispagna ein Italia, l’industria del ferro era oltremodo attiva.

L’uso della potente arma da fuoco si propagò congrande rapidità, nel turbolento XIV secolo. Negli archividi Aquisgrana, Tournay, Cambrai, Rouen, Parigi ed altrecittà, si trovano resoconti di acquisti di cannoni e bom-barde; e sembra che i prezzi del salnitro e della polvereraggiungessero talora la somma sorprendente di 30 scel-lini la libbra; una cifra che, stando a Thorold Roger, sidovrebbe decuplicare per raggiungere l’equivalente inmoneta moderna: il quale dovrebbe essere di circa 900lire italiane.

La prima illustrazione di un cannone, o almeno la piùantica, è un chiaro documento che si trova nel Christ

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novazione si riferisca al Monaco Bertoldo Schwarz, ilquale, alla ricerca del famoso oro artificiale che nell’altoMedioevo formò l’ossessione degli alchimisti, manipolòinvece una miscela che risultò polvere da sparo. Il fattoche spesso in quei tempi il Diavolo veniva rappresentatosotto le spoglie di monaco, trasse a credere che la nuovainvenzione con tutti i suoi effetti visibili e materiali fos-se opera infernale.

Già l’anno seguente, il 1314, troviamo testimonianzadi una spedizione di cannoni e di polvere in Inghilterra;e così ha principio il moderno traffico delle munizioni.

L’uso dei cannoni dovette aumentare la richiesta delferro. Nel 1323 si costruiva nella Lorena una vasta for-nace, con divisioni di lavoro, mossa da una turbina. Nel1388 la lavorazione del ferro faceva parte delle trentatreArti Maggiori di Liegi nel Belgio; e anche in Ispagna ein Italia, l’industria del ferro era oltremodo attiva.

L’uso della potente arma da fuoco si propagò congrande rapidità, nel turbolento XIV secolo. Negli archividi Aquisgrana, Tournay, Cambrai, Rouen, Parigi ed altrecittà, si trovano resoconti di acquisti di cannoni e bom-barde; e sembra che i prezzi del salnitro e della polvereraggiungessero talora la somma sorprendente di 30 scel-lini la libbra; una cifra che, stando a Thorold Roger, sidovrebbe decuplicare per raggiungere l’equivalente inmoneta moderna: il quale dovrebbe essere di circa 900lire italiane.

La prima illustrazione di un cannone, o almeno la piùantica, è un chiaro documento che si trova nel Christ

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College di Oxford e che risale al 1326. Un guerriero ri-vestito dell’armatura spara un curioso congegno a formadi vaso, per mezzo di un’esca di ferro arroventata, appli-cata alla bocca del congegno. Il proiettile della stranaarma consisteva in una palla tonda, alla quale era fissatauna freccia con una grossa testa triangolare. La nuovaarma non era ancora tanto progredita da evolvere il suoproiettile; il disegno dimostra poi come venisse usataper infrangere la serratura della cancellata di un castello.

Le bombarde si trovano già in uso nella battaglia diGrecy (1346). Sembra che nei suoi scritti Froissart abbiacercato di diminuirne l’importanza, poichè i cavalieri e ivalidi arcieri inglesi non gradivano troppo l’idea che tut-to il merito della loro vittoria sui Francesi andasse attri-buito a quei grotteschi strumenti, i quali stavano per mi-nacciare le arti belliche e l’importanza dei guerrieri ar-mati a cavallo.

Anche il Petrarca, in uno dei suoi dialoghi (1356) re-darguisce un soldato che aveva parlato di balestre, mo-strandosi stupito che costui non conoscesse quegli stru-menti che con gran fragore scaricavano palle di metallo;e aggiunge come, oggetto ancora pochi anni addietro distupore e ammirazione, ora stiano diventando comuni alpari di qualsiasi altra specie di armi.

Un messaggio dell’Imperatore di Costantinopoli, chenel 1400 ricerca in Europa aiuto contro i Turchi, parla dicannoni e polvere da sparo come di invenzioni tedesche.Non ci sono testimonianze contro il fatto che tanto gliuni quanto gli altri avessero origine nell’Europa occi-

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College di Oxford e che risale al 1326. Un guerriero ri-vestito dell’armatura spara un curioso congegno a formadi vaso, per mezzo di un’esca di ferro arroventata, appli-cata alla bocca del congegno. Il proiettile della stranaarma consisteva in una palla tonda, alla quale era fissatauna freccia con una grossa testa triangolare. La nuovaarma non era ancora tanto progredita da evolvere il suoproiettile; il disegno dimostra poi come venisse usataper infrangere la serratura della cancellata di un castello.

Le bombarde si trovano già in uso nella battaglia diGrecy (1346). Sembra che nei suoi scritti Froissart abbiacercato di diminuirne l’importanza, poichè i cavalieri e ivalidi arcieri inglesi non gradivano troppo l’idea che tut-to il merito della loro vittoria sui Francesi andasse attri-buito a quei grotteschi strumenti, i quali stavano per mi-nacciare le arti belliche e l’importanza dei guerrieri ar-mati a cavallo.

Anche il Petrarca, in uno dei suoi dialoghi (1356) re-darguisce un soldato che aveva parlato di balestre, mo-strandosi stupito che costui non conoscesse quegli stru-menti che con gran fragore scaricavano palle di metallo;e aggiunge come, oggetto ancora pochi anni addietro distupore e ammirazione, ora stiano diventando comuni alpari di qualsiasi altra specie di armi.

Un messaggio dell’Imperatore di Costantinopoli, chenel 1400 ricerca in Europa aiuto contro i Turchi, parla dicannoni e polvere da sparo come di invenzioni tedesche.Non ci sono testimonianze contro il fatto che tanto gliuni quanto gli altri avessero origine nell’Europa occi-

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dentale. Due o tre secoli di prove e di esperienze ci sa-rebbero voluti tuttavia, prima che l’uomo imparasse ildominio e l’uso di queste armi, tanto utili quanto mici-diali.

Il Giappone è l’unica nazione dell’Estremo Orienteche sfuggì alla signoria marinara dell’Europa Occiden-tale. Non fu mai conquistato; non fu mai neppure invasoin modo permanente. Sin da tempi relativamente anti-chi, il Giappone schiuse le sue porte alla tecnologia oc-cidentale. Quando nel 1615 il pilota inglese Adams nau-fragò sulle sue coste trovò sugli spalti del Palazzo delShogun, i cannoni portoghesi. Durante l’ultimo secolo, especie gli ultimi cinquanta anni, il Giappone ha abbon-dantemente acquisito elementi della civiltà europea, par-ticolarmente degli Stati Uniti. Per sopravvivere comepopoli, per mantenere il proprio posto come nazione,doveva collocare la propria tecnologia sul medesimopiano dei suoi rivali, e a un livello molto superiore dellasua vicina assai più vasta, la Cina. Criticare questa ener-gia nel Giappone significa criticare tutta l’efficacia e laforza della distribuzione d’idee meccaniche, di inven-zioni e scoperte di cui si compone la civiltà europea. IlGiappone ha seguito e adottato la tecnica di una razzache non è la sua. Resta da rimpiangere che fino a oggi ilsuo livello sociale sia rimasto assai inferiore a quellod’Europa e degli Stati Uniti. Ciò si deve in gran parteall’ambiente sociale conservativo del Giappone, ma nonmeno alla sua mancanza di vantaggi naturali entro i pro-pri confini. Le circostanze costrinsero sempre il Giappo-

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dentale. Due o tre secoli di prove e di esperienze ci sa-rebbero voluti tuttavia, prima che l’uomo imparasse ildominio e l’uso di queste armi, tanto utili quanto mici-diali.

Il Giappone è l’unica nazione dell’Estremo Orienteche sfuggì alla signoria marinara dell’Europa Occiden-tale. Non fu mai conquistato; non fu mai neppure invasoin modo permanente. Sin da tempi relativamente anti-chi, il Giappone schiuse le sue porte alla tecnologia oc-cidentale. Quando nel 1615 il pilota inglese Adams nau-fragò sulle sue coste trovò sugli spalti del Palazzo delShogun, i cannoni portoghesi. Durante l’ultimo secolo, especie gli ultimi cinquanta anni, il Giappone ha abbon-dantemente acquisito elementi della civiltà europea, par-ticolarmente degli Stati Uniti. Per sopravvivere comepopoli, per mantenere il proprio posto come nazione,doveva collocare la propria tecnologia sul medesimopiano dei suoi rivali, e a un livello molto superiore dellasua vicina assai più vasta, la Cina. Criticare questa ener-gia nel Giappone significa criticare tutta l’efficacia e laforza della distribuzione d’idee meccaniche, di inven-zioni e scoperte di cui si compone la civiltà europea. IlGiappone ha seguito e adottato la tecnica di una razzache non è la sua. Resta da rimpiangere che fino a oggi ilsuo livello sociale sia rimasto assai inferiore a quellod’Europa e degli Stati Uniti. Ciò si deve in gran parteall’ambiente sociale conservativo del Giappone, ma nonmeno alla sua mancanza di vantaggi naturali entro i pro-pri confini. Le circostanze costrinsero sempre il Giappo-

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ne a uscir da questi confini per provvedersi di materieprime. Come l’Inghilterra, ha bisogno di mercati stra-nieri per espandere la propria forza commerciale; ecome l’Inghilterra dovette sempre combattere per procu-rarsi e materie prime e mercati commerciali. Nè gli ri-mane altra via d’uscita, fino a quando nel mondo pre-varrà un sistema politico artificiale, in contrasto con larealtà di fatti economici e tecnici. Nel suo sforzo perconseguire materie prime e conquistarsi i mercati, perforza di circostanze il Giappone è stato costretto a edu-care una vasta popolazione secondo moderni metodimeccanici, per la guerra moderna e la manifattura dellemunizioni. Esso si trova pericolosamente vicino aquell’area dell’Asia che per secoli ha minacciato l’esi-stenza stessa dell’Europa e dalla quale l’Europa si è sal-vata solo per virtù delle sue invenzioni tecniche edell’innata energia della sua razza.

Nel Nuovo Mondo, le conquiste territoriali europeenel XVI secolo e in quelli che seguirono furono comple-te e definitive. Sia che guardiamo alle brillanti e spietateconquiste spagnuole nel Perù, nel Messico e altrove,come ai movimenti più lenti ma ugualmente inesorabilidegli Inglesi, dei Francesi e degli Olandesi contro le tri-bù nomadi dell’America del Nord, la risposta è invaria-bile: le tecnologie più primitive dovettero cadere difronte a una civiltà tecnica più avanzata. La conquistanon è dovuta unicamente a una potenza militare, sebbe-ne questa abbia avuto una parte importante. Ma una par-te ugualmente vitale in questa grande tragedia ebbero

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ne a uscir da questi confini per provvedersi di materieprime. Come l’Inghilterra, ha bisogno di mercati stra-nieri per espandere la propria forza commerciale; ecome l’Inghilterra dovette sempre combattere per procu-rarsi e materie prime e mercati commerciali. Nè gli ri-mane altra via d’uscita, fino a quando nel mondo pre-varrà un sistema politico artificiale, in contrasto con larealtà di fatti economici e tecnici. Nel suo sforzo perconseguire materie prime e conquistarsi i mercati, perforza di circostanze il Giappone è stato costretto a edu-care una vasta popolazione secondo moderni metodimeccanici, per la guerra moderna e la manifattura dellemunizioni. Esso si trova pericolosamente vicino aquell’area dell’Asia che per secoli ha minacciato l’esi-stenza stessa dell’Europa e dalla quale l’Europa si è sal-vata solo per virtù delle sue invenzioni tecniche edell’innata energia della sua razza.

Nel Nuovo Mondo, le conquiste territoriali europeenel XVI secolo e in quelli che seguirono furono comple-te e definitive. Sia che guardiamo alle brillanti e spietateconquiste spagnuole nel Perù, nel Messico e altrove,come ai movimenti più lenti ma ugualmente inesorabilidegli Inglesi, dei Francesi e degli Olandesi contro le tri-bù nomadi dell’America del Nord, la risposta è invaria-bile: le tecnologie più primitive dovettero cadere difronte a una civiltà tecnica più avanzata. La conquistanon è dovuta unicamente a una potenza militare, sebbe-ne questa abbia avuto una parte importante. Ma una par-te ugualmente vitale in questa grande tragedia ebbero

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l’introduzione degli animali domestici, il cavallo, i vei-coli a ruote, il ferro e l’acciaio, il concetto della proprie-tà immobiliare, i metodi europei di agricoltura e com-mercio, e il concetto e l’uso del denaro. La locomotiva, imotori d’ogni specie, la navigazione a vapore, l’elettri-cità completarono in seguito la conquista.

I Padri Pellegrini d’America furono fortunati nellacircostanza che la popolazione indigena delle coste dellaNuova Inghilterra fosse stata da poco decimata daun’epidemia: forse il vaiolo contratto dai pescatori ba-schi, che da tempo conoscevano i Banchi di Terranova. IPadri Pellegrini occuparono i campi deserti, e dagli In-diani impararono a coltivare il granoturco, e a fertilizza-re il terreno per mezzo dei pesci di cui abbondavano ifiumi e le insenature delle coste. Gli Indiani a loro voltaimpararono che la zappa e l’aratro di ferro li avrebberoaiutati a conseguire un raccolto tre o quattro volte piùabbondante di quello che era possibile coi loro rozzi ar-nesi, quindi, non esitarono a scambiare il granoturco conarnesi agricoli di ferro. Col tempo, i Padri Pellegriniscoprirono che gli Indiani si servivano delle conchiglieche raccoglievano sulle spiagge per farne collane cui at-tribuivano un potere magico, i cosidetti wampum; e ave-vano stabilito una specie di scambio con gli Indiani chevivevano nell’interno del paese, dove non si trovavanoconchiglie. Quelle collane, che servivano a un tempo diornamento, disegno di rango e potenza di talismano,erano oltremodo importanti in tutti i rapporti da tribù atribù. I Pellegrini interpretarono ciò come un vero e pro-

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l’introduzione degli animali domestici, il cavallo, i vei-coli a ruote, il ferro e l’acciaio, il concetto della proprie-tà immobiliare, i metodi europei di agricoltura e com-mercio, e il concetto e l’uso del denaro. La locomotiva, imotori d’ogni specie, la navigazione a vapore, l’elettri-cità completarono in seguito la conquista.

I Padri Pellegrini d’America furono fortunati nellacircostanza che la popolazione indigena delle coste dellaNuova Inghilterra fosse stata da poco decimata daun’epidemia: forse il vaiolo contratto dai pescatori ba-schi, che da tempo conoscevano i Banchi di Terranova. IPadri Pellegrini occuparono i campi deserti, e dagli In-diani impararono a coltivare il granoturco, e a fertilizza-re il terreno per mezzo dei pesci di cui abbondavano ifiumi e le insenature delle coste. Gli Indiani a loro voltaimpararono che la zappa e l’aratro di ferro li avrebberoaiutati a conseguire un raccolto tre o quattro volte piùabbondante di quello che era possibile coi loro rozzi ar-nesi, quindi, non esitarono a scambiare il granoturco conarnesi agricoli di ferro. Col tempo, i Padri Pellegriniscoprirono che gli Indiani si servivano delle conchiglieche raccoglievano sulle spiagge per farne collane cui at-tribuivano un potere magico, i cosidetti wampum; e ave-vano stabilito una specie di scambio con gli Indiani chevivevano nell’interno del paese, dove non si trovavanoconchiglie. Quelle collane, che servivano a un tempo diornamento, disegno di rango e potenza di talismano,erano oltremodo importanti in tutti i rapporti da tribù atribù. I Pellegrini interpretarono ciò come un vero e pro-

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prio valore monetario nel senso europeo; e con arnesi diferro e stoffe inglesi di lana comperarono i wampum da-gli Indiani delle coste e li accumularono per scopi com-merciali. Quell’incetta era una idea che riusciva nuovaagli Indiani; in ogni modo, accrebbe il prezzo dei tali-smani. I Pellegrini comperavano i wampum presso gliestuari dei fiumi, e li commerciavano nell’interno delpaese con pelli di castoro e altri animali che a loro voltain Inghilterra convertivano in danaro, acquistando conesso gli arnesi di ferro, le stoffe e altre merci indispensa-bili per il vantaggioso scambio. Col tempo, tuttavia, lepelli di castoro si fecero scarse, o il prezzo cadde suimercati di Londra; e gli Indiani soffrirono di una «de-pressione» che non arrivavano a spiegarsi. I wampum ri-masero una moneta corrente nelle colonie, fino a che ilcommercio con le isole spagnole non vi sostituì le mo-nete d’argento, e fino a che le macchine che li imitavanonon fecero perdere ai wampum il loro valore. Ma essi ri-masero in uso lungo le coste dell’Atlantico fino al 1700.

La proprietà terriera individuale, il commercio orga-nizzato, il denaro, l’aratro, il ferro, la costruzione distrade, l’addomesticazione degli armenti, le navi chesolcavano gli oceani, contribuirono forse a decimare gliIndiani quanto atti brutali e più evidenti di oppressionemilitare e l’uso delle armi da fuoco. I loro costumi, leloro leggi e abitudini s’erano da troppo tempo aggiratiattorno a una civiltà neolitica lenta e puramente materia-le; ed essi non sopportarono nemmeno la pacifica pene-trazione di avanzate idee meccaniche compiuta dai Pa-

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prio valore monetario nel senso europeo; e con arnesi diferro e stoffe inglesi di lana comperarono i wampum da-gli Indiani delle coste e li accumularono per scopi com-merciali. Quell’incetta era una idea che riusciva nuovaagli Indiani; in ogni modo, accrebbe il prezzo dei tali-smani. I Pellegrini comperavano i wampum presso gliestuari dei fiumi, e li commerciavano nell’interno delpaese con pelli di castoro e altri animali che a loro voltain Inghilterra convertivano in danaro, acquistando conesso gli arnesi di ferro, le stoffe e altre merci indispensa-bili per il vantaggioso scambio. Col tempo, tuttavia, lepelli di castoro si fecero scarse, o il prezzo cadde suimercati di Londra; e gli Indiani soffrirono di una «de-pressione» che non arrivavano a spiegarsi. I wampum ri-masero una moneta corrente nelle colonie, fino a che ilcommercio con le isole spagnole non vi sostituì le mo-nete d’argento, e fino a che le macchine che li imitavanonon fecero perdere ai wampum il loro valore. Ma essi ri-masero in uso lungo le coste dell’Atlantico fino al 1700.

La proprietà terriera individuale, il commercio orga-nizzato, il denaro, l’aratro, il ferro, la costruzione distrade, l’addomesticazione degli armenti, le navi chesolcavano gli oceani, contribuirono forse a decimare gliIndiani quanto atti brutali e più evidenti di oppressionemilitare e l’uso delle armi da fuoco. I loro costumi, leloro leggi e abitudini s’erano da troppo tempo aggiratiattorno a una civiltà neolitica lenta e puramente materia-le; ed essi non sopportarono nemmeno la pacifica pene-trazione di avanzate idee meccaniche compiuta dai Pa-

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dri Pellegrini. Un altro esempio, forse ancor più proban-te, si trova nella storia degli Esquimesi. Gli Esquimesinon avevano mai avuto guerre vere e proprie, nè tra loronè con l’uomo bianco. Da secoli immemorabili essi vi-vevano lungo 5000 miglia di coste artiche; tutta la lorociviltà si basava su rudimentali invenzioni, che appar-tengono a un periodo indefinito tra l’Epoca Magdalenia-na e la Neolitica. Allorchè, nel XIX secolo, giunsero icacciatori di balene e i Russi, sulle prime quell’avventoparve una benedizione agli Esquimesi, i quali erano ingrado di scambiare pelliccie, olio e spermaceti di balenae carne di caribù contro arnesi di ferro, zucchero, stoffe,rum, tabacco e fiammiferi, con quegli individui incredi-bilmente generosi che ogni anno giungevano ai nordicilidi sulle loro grandi navi. Gli Esquimesi impararono apreferire il cibo, le vesti, gli arnesi e le armi dell’uomobianco. Il commercio con i cacciatori di balene trasfor-mò tutto il loro piccolo mondo tecnico; e quando questise ne partivano, le loro visite, col tempo, divennero piùrare, gli Esquimesi non potevano più ottenere i prodottidi cui necessitavano, ma avevano quasi dimenticato illoro primitivo costume di vita. Nè potevano restaurarel’equilibrio della natura con i prodotti delle loro caccie.che con gli scopi commerciali dell’uomo bianco aveva-no subito grandi danni. Il Canadà e l’Alaska dovetterointervenire per salvare dalla fame questo popolo, chepure una volta aveva bastato a se stesso. Con tutta laloro ingegnosità e le tradizioni di una civiltà che bene omale apparteneva loro, essi non avevano saputo sfuggire

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dri Pellegrini. Un altro esempio, forse ancor più proban-te, si trova nella storia degli Esquimesi. Gli Esquimesinon avevano mai avuto guerre vere e proprie, nè tra loronè con l’uomo bianco. Da secoli immemorabili essi vi-vevano lungo 5000 miglia di coste artiche; tutta la lorociviltà si basava su rudimentali invenzioni, che appar-tengono a un periodo indefinito tra l’Epoca Magdalenia-na e la Neolitica. Allorchè, nel XIX secolo, giunsero icacciatori di balene e i Russi, sulle prime quell’avventoparve una benedizione agli Esquimesi, i quali erano ingrado di scambiare pelliccie, olio e spermaceti di balenae carne di caribù contro arnesi di ferro, zucchero, stoffe,rum, tabacco e fiammiferi, con quegli individui incredi-bilmente generosi che ogni anno giungevano ai nordicilidi sulle loro grandi navi. Gli Esquimesi impararono apreferire il cibo, le vesti, gli arnesi e le armi dell’uomobianco. Il commercio con i cacciatori di balene trasfor-mò tutto il loro piccolo mondo tecnico; e quando questise ne partivano, le loro visite, col tempo, divennero piùrare, gli Esquimesi non potevano più ottenere i prodottidi cui necessitavano, ma avevano quasi dimenticato illoro primitivo costume di vita. Nè potevano restaurarel’equilibrio della natura con i prodotti delle loro caccie.che con gli scopi commerciali dell’uomo bianco aveva-no subito grandi danni. Il Canadà e l’Alaska dovetterointervenire per salvare dalla fame questo popolo, chepure una volta aveva bastato a se stesso. Con tutta laloro ingegnosità e le tradizioni di una civiltà che bene omale apparteneva loro, essi non avevano saputo sfuggire

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ai tragici risultati del contatto con una civiltà meccanicache andava oltre la loro portata e la loro capacità socia-le.

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ai tragici risultati del contatto con una civiltà meccanicache andava oltre la loro portata e la loro capacità socia-le.

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GUERRA O CIVILTÀ?

Nessun paese del mondo come gli Stati Uniti d’Ame-rica offre una così brillante illustrazione degli effetti del-le moderne invenzioni meccaniche.

Grandi passi ha fatto il Giappone, durante gli ultimicinquant’anni, ma il suo progresso meccanico si è trova-to sempre frenato da un tenace sistema sociale e dallanecessità politica di creare un’immensa macchina diguerra, per la ragione, già ricordata nel precedente capi-tolo, che i mercati commerciali giapponesi sono assailontani dal suo controllo sociale ed economico. La Rus-sia è tuttora un esperimento, e una generazione è un pe-riodo troppo breve per stimarne spassionatamente gli ef-fetti sociali.

Ma l’ascesa degli Stati Uniti, avvenuta nello spazio dipoco più di un secolo, costituisce uno degli spettacolipiù sorprendenti, nella lunghissima storia della diffusio-ne delle idee meccaniche. Quando nel XVI secolo i pri-mi Europei approdarono al Nuovo Mondo, questo si tro-vava, per quanto riguarda l’invenzione meccanica, aiprimitivi stadi della tecnica neolitica. Come già abbiamo

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GUERRA O CIVILTÀ?

Nessun paese del mondo come gli Stati Uniti d’Ame-rica offre una così brillante illustrazione degli effetti del-le moderne invenzioni meccaniche.

Grandi passi ha fatto il Giappone, durante gli ultimicinquant’anni, ma il suo progresso meccanico si è trova-to sempre frenato da un tenace sistema sociale e dallanecessità politica di creare un’immensa macchina diguerra, per la ragione, già ricordata nel precedente capi-tolo, che i mercati commerciali giapponesi sono assailontani dal suo controllo sociale ed economico. La Rus-sia è tuttora un esperimento, e una generazione è un pe-riodo troppo breve per stimarne spassionatamente gli ef-fetti sociali.

Ma l’ascesa degli Stati Uniti, avvenuta nello spazio dipoco più di un secolo, costituisce uno degli spettacolipiù sorprendenti, nella lunghissima storia della diffusio-ne delle idee meccaniche. Quando nel XVI secolo i pri-mi Europei approdarono al Nuovo Mondo, questo si tro-vava, per quanto riguarda l’invenzione meccanica, aiprimitivi stadi della tecnica neolitica. Come già abbiamo

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spiegato, la ruota e l’animale da tiro non esistevano; ilbronzo stesso era sconosciuto fuor del Perù e del Messi-co; in tutta l’America preistorica non c’è traccia di ferrofuso. Per tre secoli le tredici colonie inglesi che si sareb-bero unite un giorno sotto una comune bandiera visseroprecariamente, vòlte le spalle allo sconfinato continenteche si estendeva, inesplorato ancora, verso occidente,vòlto lo sguardo e il pensiero alla terra natia. Provvede-vano l’Inghilterra e altri stati europei di pelliccie, cuoi,tabacco; più tardi di riso e di materie coloranti, persinodi seta di bachi coltivati intensivamente; e avviarono uncommercio di generi alimentari, legname e piccole im-barcazioni con le isole francesi, inglesi e spagnuole delMare dei Caraibi, produttori di zucchero. Questo com-mercio violava tutte le leggi britanniche, e quindi euro-pee, di navigazione, poichè i noleggiatori americani nonpagavano accise nei porti inglesi. Già sul finir del XVIIsecolo questa omissione da parte loro causava un certoattrito e sollevava commenti in Inghilterra, e fu uno deifattori che contribuirono alla Rivoluzione Americanaalla fine del XVIII secolo.

Giorgio Washington fu uno dei rari uomini giunti alpotere, il quale avesse la giusta nozione delle immenseterre deserte che si estendevano al di là dei Monti Alle-gheny; egli comprendeva inoltre l’importanza di un ca-nale che avrebbe trasportato il centro del commerciodelle pelliccie da Detroit alla piccola città di Alexandriasul Potomac. Washington non aveva idea alcuna dei mu-tamenti nel mondo meccanico, che in un breve giro

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spiegato, la ruota e l’animale da tiro non esistevano; ilbronzo stesso era sconosciuto fuor del Perù e del Messi-co; in tutta l’America preistorica non c’è traccia di ferrofuso. Per tre secoli le tredici colonie inglesi che si sareb-bero unite un giorno sotto una comune bandiera visseroprecariamente, vòlte le spalle allo sconfinato continenteche si estendeva, inesplorato ancora, verso occidente,vòlto lo sguardo e il pensiero alla terra natia. Provvede-vano l’Inghilterra e altri stati europei di pelliccie, cuoi,tabacco; più tardi di riso e di materie coloranti, persinodi seta di bachi coltivati intensivamente; e avviarono uncommercio di generi alimentari, legname e piccole im-barcazioni con le isole francesi, inglesi e spagnuole delMare dei Caraibi, produttori di zucchero. Questo com-mercio violava tutte le leggi britanniche, e quindi euro-pee, di navigazione, poichè i noleggiatori americani nonpagavano accise nei porti inglesi. Già sul finir del XVIIsecolo questa omissione da parte loro causava un certoattrito e sollevava commenti in Inghilterra, e fu uno deifattori che contribuirono alla Rivoluzione Americanaalla fine del XVIII secolo.

Giorgio Washington fu uno dei rari uomini giunti alpotere, il quale avesse la giusta nozione delle immenseterre deserte che si estendevano al di là dei Monti Alle-gheny; egli comprendeva inoltre l’importanza di un ca-nale che avrebbe trasportato il centro del commerciodelle pelliccie da Detroit alla piccola città di Alexandriasul Potomac. Washington non aveva idea alcuna dei mu-tamenti nel mondo meccanico, che in un breve giro

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d’anni avrebbe modificato la vita sociale nel VecchioMondo e rinnovato la società americana.

Mount Vernon, la casa di Giorgio Washington cosìcome è conservata a poche miglia dalla capitale degliStati Uniti, appare oggi il modello di una delle tantevecchie case di campagna inglesi. Nulla, nel sistema divita o nella filosofia economica del «padre della patria»,indica che la nazione in cui egli aveva ridestato uno co-scienza nazionale, a un secolo appena dalla sua morte,dopo la Guerra del 1812-14 e l’alba della moderna indu-stria nel 1816, si sarebbe sviluppata verso occidente; eche dal segmento centrale degli Stati Uniti sarebbe sòrtoun miracolo industriale e meccanico. Le macchine e laforza usata in questa conquista vennero senza dubbiomodificate secondo le particolari condizioni fisiche esociali della nuova terra; ma non c’è dubbio che le ideefondamentali fossero d’origine europea: specialmenteinglese, dell’Inghilterra del tardo XVIII e del XIX seco-lo. Se queste brillanti invenzioni, in Europa avevanoesercitato profonda influenza, avevano intensificato, raf-forzato la vita sociale già esistente, negli Stati Uniti for-marono, costruirono, diressero addirittura una societànuova, quale non s’era veduta mai in nessuna età e innessun paese. Le città americane sulle coste dell’Atlan-tico, e quelle d’origine spagnuola lungo il Mississipi esulle coste del Pacifico, contano più di tre secoli di vita.Ma la grande metropoli di Chicago non ne ha che uno;altre grandi città del vasto Middle-West non hanno an-cora cento anni; e dalla più completa primitività passa-

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d’anni avrebbe modificato la vita sociale nel VecchioMondo e rinnovato la società americana.

Mount Vernon, la casa di Giorgio Washington cosìcome è conservata a poche miglia dalla capitale degliStati Uniti, appare oggi il modello di una delle tantevecchie case di campagna inglesi. Nulla, nel sistema divita o nella filosofia economica del «padre della patria»,indica che la nazione in cui egli aveva ridestato uno co-scienza nazionale, a un secolo appena dalla sua morte,dopo la Guerra del 1812-14 e l’alba della moderna indu-stria nel 1816, si sarebbe sviluppata verso occidente; eche dal segmento centrale degli Stati Uniti sarebbe sòrtoun miracolo industriale e meccanico. Le macchine e laforza usata in questa conquista vennero senza dubbiomodificate secondo le particolari condizioni fisiche esociali della nuova terra; ma non c’è dubbio che le ideefondamentali fossero d’origine europea: specialmenteinglese, dell’Inghilterra del tardo XVIII e del XIX seco-lo. Se queste brillanti invenzioni, in Europa avevanoesercitato profonda influenza, avevano intensificato, raf-forzato la vita sociale già esistente, negli Stati Uniti for-marono, costruirono, diressero addirittura una societànuova, quale non s’era veduta mai in nessuna età e innessun paese. Le città americane sulle coste dell’Atlan-tico, e quelle d’origine spagnuola lungo il Mississipi esulle coste del Pacifico, contano più di tre secoli di vita.Ma la grande metropoli di Chicago non ne ha che uno;altre grandi città del vasto Middle-West non hanno an-cora cento anni; e dalla più completa primitività passa-

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rono al massimo fervore di vita economica e industriale.In Europa, la moderna struttura meccanica si è so-

vrapposta a oltre un millennio di civiltà. Ci fu una gran-de Europa prima delle ferrovie, del motore a vapore odell’elettricità; prima delle macchine automatiche e del-le invenzioni che occorsero entro l’ambito d’una gene-razione. Tutta questa dinamica forza dovette, in unmodo o nell’altro, trovarsi un posto fra un complesso diantiche leggi, usanze, regole stabilite di commercio eantichi privilegi. Fabbriche e officine sussistono accantoad antiche mura grigie, e più moderni metodi di traspor-to conducono i turisti verso luoghi sacri, per memoria eper fatto, alle passate ma sempre vive civiltà di Roma edi Atene. L’Europa è antica: essa è il prodotto di contatticon il Mediterraneo e con l’Asia Minore. Il suo vinogiovane ferve entro otri di antiche pergamene; essa siavvolge in un vecchio manto che le memorie han resoprezioso, dal quale stenta a separarsi, sia pur di fronte anuove contingenze di vita. Cento volte la si è vista ri-conquistare tradizioni di secoli, riparare ai torti che ri-salgono nella notte dei tempi, rimodellare la sua formapolitica ed economica, e serbar intatta, con ciò, la suapreziosa eredità.

Ciò significa che vi sono conquiste più difficili degliostacoli naturali o della bonifica di un’incolta terra sel-vaggia.

Mai ci fu problema mondiale più vasto di quellodell’adattamento politico, sociale ed economicodell’Europa verso il mondo di quelle macchine che il

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rono al massimo fervore di vita economica e industriale.In Europa, la moderna struttura meccanica si è so-

vrapposta a oltre un millennio di civiltà. Ci fu una gran-de Europa prima delle ferrovie, del motore a vapore odell’elettricità; prima delle macchine automatiche e del-le invenzioni che occorsero entro l’ambito d’una gene-razione. Tutta questa dinamica forza dovette, in unmodo o nell’altro, trovarsi un posto fra un complesso diantiche leggi, usanze, regole stabilite di commercio eantichi privilegi. Fabbriche e officine sussistono accantoad antiche mura grigie, e più moderni metodi di traspor-to conducono i turisti verso luoghi sacri, per memoria eper fatto, alle passate ma sempre vive civiltà di Roma edi Atene. L’Europa è antica: essa è il prodotto di contatticon il Mediterraneo e con l’Asia Minore. Il suo vinogiovane ferve entro otri di antiche pergamene; essa siavvolge in un vecchio manto che le memorie han resoprezioso, dal quale stenta a separarsi, sia pur di fronte anuove contingenze di vita. Cento volte la si è vista ri-conquistare tradizioni di secoli, riparare ai torti che ri-salgono nella notte dei tempi, rimodellare la sua formapolitica ed economica, e serbar intatta, con ciò, la suapreziosa eredità.

Ciò significa che vi sono conquiste più difficili degliostacoli naturali o della bonifica di un’incolta terra sel-vaggia.

Mai ci fu problema mondiale più vasto di quellodell’adattamento politico, sociale ed economicodell’Europa verso il mondo di quelle macchine che il

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suo stesso genio aveva creato. Un’Europa composta etranquilla, libera dagli intrighi e dalle complicazioni dileggi arcaiche, significherebbe un mondo libero da tuttele apprensioni, da tutte le inquietudini, e preparato final-mente al grande compito di lavorare alla propria «civil-tà». Confusione europea vuol dire confusione mondiale.Per il momento, essa si è vòlta a strane divinità, e i suoipiedi errano per sentieri pericolosi. Ma non allarmiamo-ci; l’Europa è una donna d’esperienza, e non verrà menoalla prova nemmeno in queste buie ore. Essa ha dato laluce al mondo; saprà certo trovare una luce che la guidiverso più alti destini.

In Europa come negli Stati Uniti l’Epoca delle GrandiScoperte, della navigazione, del commercio mondiale edella colonizzazione, e quel periodo noto nel XVIII se-colo quale la Rivoluzione Industriale, si uniscono stret-tamente in un complesso sociale, economico e meccani-co. Tutti questi concetti sono più antichi nel Vecchio chenon nel Nuovo Mondo; in Europa, essi apparvero per laprima volta a una società più ricca e più compatta e me-glio educata. La Rivoluzione Industriale specialmente èun fenomeno europeo. Eppure il risultato materiale diquesti mutamenti si è reso più manifesto negli Stati Uni-ti che non in qualsiasi altra parte del mondo. Gli StatiUniti hanno accresciuto la potenzialità delle macchine,hanno sviluppato maggior forza motrice, costruito piùstrade, automobili, ferrovie, fabbricato più stoffe e ac-ciaio dell’Europa.

Una volta che le invenzioni si furono radicate sulla

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suo stesso genio aveva creato. Un’Europa composta etranquilla, libera dagli intrighi e dalle complicazioni dileggi arcaiche, significherebbe un mondo libero da tuttele apprensioni, da tutte le inquietudini, e preparato final-mente al grande compito di lavorare alla propria «civil-tà». Confusione europea vuol dire confusione mondiale.Per il momento, essa si è vòlta a strane divinità, e i suoipiedi errano per sentieri pericolosi. Ma non allarmiamo-ci; l’Europa è una donna d’esperienza, e non verrà menoalla prova nemmeno in queste buie ore. Essa ha dato laluce al mondo; saprà certo trovare una luce che la guidiverso più alti destini.

In Europa come negli Stati Uniti l’Epoca delle GrandiScoperte, della navigazione, del commercio mondiale edella colonizzazione, e quel periodo noto nel XVIII se-colo quale la Rivoluzione Industriale, si uniscono stret-tamente in un complesso sociale, economico e meccani-co. Tutti questi concetti sono più antichi nel Vecchio chenon nel Nuovo Mondo; in Europa, essi apparvero per laprima volta a una società più ricca e più compatta e me-glio educata. La Rivoluzione Industriale specialmente èun fenomeno europeo. Eppure il risultato materiale diquesti mutamenti si è reso più manifesto negli Stati Uni-ti che non in qualsiasi altra parte del mondo. Gli StatiUniti hanno accresciuto la potenzialità delle macchine,hanno sviluppato maggior forza motrice, costruito piùstrade, automobili, ferrovie, fabbricato più stoffe e ac-ciaio dell’Europa.

Una volta che le invenzioni si furono radicate sulla

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loro terra, gli Europei immigrati nell’America Setten-trionale non ebbero a sostenere altra concorrenza chequella di qualche centinaio di migliaia d’uomini viventipoco meno che all’Età della Pietra; non incontrarono al-tri ostacoli fuorchè quelli naturali d’un continente nuo-vo, e grazie a quelle tali invenzioni, poterono vincerlicon sorprendente facilità; e, sempre col sussidio dellaciviltà industriale europea, costruirono una nazione ric-chissima e potentissima.

In Europa, quella stessa civiltà industriale aveva au-mentato la ricchezza, moltiplicato la potenza; ma nonmai al punto degli Stati Uniti. In Europa l’invenzioneera costretta (e tuttora lo è) a lottare contro complicatisistemi legali, antiche regole e tradizioni, e contro le di-visioni politiche note sotto il nome di «nazioni». Il risul-tato? Duecento anni di confusione e disordine politico esociale, in cui le nazioni non hanno trovato altro sfogofuorchè quello delle guerre. O forse, negli ultimi due se-coli il mondo della tecnica ha fatto tali giganteschi pas-si, che ancora non è stato possibile trovare un equilibriosociale? E fino a che non si troverà questo equilibrio so-ciale e politico, la preparazione alla guerra, la paura del-la guerra, il costo delle guerre e del modo di evitarle re-steranno terribili fardelli sulle spalle dei popoli.

Se la storia dell’uomo si limitasse unicamente alle sueconquiste nel campo della meccanica, formerebbe unaserie di magnifiche testimonianze. L’uomo non ha im-piegato molto a vincere gli ostacoli di cui la natura gliaveva sparso la via; non solo, ma ha saputo volgerli tutti

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loro terra, gli Europei immigrati nell’America Setten-trionale non ebbero a sostenere altra concorrenza chequella di qualche centinaio di migliaia d’uomini viventipoco meno che all’Età della Pietra; non incontrarono al-tri ostacoli fuorchè quelli naturali d’un continente nuo-vo, e grazie a quelle tali invenzioni, poterono vincerlicon sorprendente facilità; e, sempre col sussidio dellaciviltà industriale europea, costruirono una nazione ric-chissima e potentissima.

In Europa, quella stessa civiltà industriale aveva au-mentato la ricchezza, moltiplicato la potenza; ma nonmai al punto degli Stati Uniti. In Europa l’invenzioneera costretta (e tuttora lo è) a lottare contro complicatisistemi legali, antiche regole e tradizioni, e contro le di-visioni politiche note sotto il nome di «nazioni». Il risul-tato? Duecento anni di confusione e disordine politico esociale, in cui le nazioni non hanno trovato altro sfogofuorchè quello delle guerre. O forse, negli ultimi due se-coli il mondo della tecnica ha fatto tali giganteschi pas-si, che ancora non è stato possibile trovare un equilibriosociale? E fino a che non si troverà questo equilibrio so-ciale e politico, la preparazione alla guerra, la paura del-la guerra, il costo delle guerre e del modo di evitarle re-steranno terribili fardelli sulle spalle dei popoli.

Se la storia dell’uomo si limitasse unicamente alle sueconquiste nel campo della meccanica, formerebbe unaserie di magnifiche testimonianze. L’uomo non ha im-piegato molto a vincere gli ostacoli di cui la natura gliaveva sparso la via; non solo, ma ha saputo volgerli tutti

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o quasi a vantaggio proprio. Ha saputo creare in formaconcreta ogni desiderio che il suo intelletto è stato capa-ce di formulare. Il pensiero è stato il padre di più d’unabrillante impresa. L’uomo non ha permesso ad alcunabarriera materiale di frenare questi fecondi pensieri suoi,e nemmeno di ritardare le proprie azioni. Mezzo milioned’anni d’invenzioni convalidano la sua fama di mecca-nico. Dalla rozza pietra scheggiata alla moderna fabbri-ca, dal traino trascinato sul suolo ai treni, alle automobi-li, agli aeroplani e ai grandi palazzi galleggianti che sol-cano i mari; dal semplice fuoco ai complessi congegnielettrici d’oggi il viaggio è lungo, dato che secondo unasua invenzione l’uomo misura tempo e spazio. Ognimovimento ha costituito un passo in avanti; le invenzio-ni sono in costante progresso, diventano sempre più ge-niali, complesse e specializzate ma dirette sempre allaconquista dell’ambiente materiale. Mai, in tutti questimillenni, le forze che producono la ricchezza, che vin-cono la natura e superano il bisogno materiale, hannoindugiato. Ci furono, naturalmente, lunghi periodi in cuiquesto movimento, per una ragione o per l’altra, rallentòe sostò; ma, se guardiamo le cose nel loro insieme,l’uomo, animale che dal suo pensiero seppe foggiare ar-nesi, ha progredito sempre verso una maggior compiu-tezza meccanica.

In ciò che riguarda la politica e lo stato sociale,l’uomo ha testimonianze meno lusinghiere per lui. Il suospirito inventivo, la sua comprensione nel campo diquesti problemi, sono meno attivi, meno fecondi. Il

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o quasi a vantaggio proprio. Ha saputo creare in formaconcreta ogni desiderio che il suo intelletto è stato capa-ce di formulare. Il pensiero è stato il padre di più d’unabrillante impresa. L’uomo non ha permesso ad alcunabarriera materiale di frenare questi fecondi pensieri suoi,e nemmeno di ritardare le proprie azioni. Mezzo milioned’anni d’invenzioni convalidano la sua fama di mecca-nico. Dalla rozza pietra scheggiata alla moderna fabbri-ca, dal traino trascinato sul suolo ai treni, alle automobi-li, agli aeroplani e ai grandi palazzi galleggianti che sol-cano i mari; dal semplice fuoco ai complessi congegnielettrici d’oggi il viaggio è lungo, dato che secondo unasua invenzione l’uomo misura tempo e spazio. Ognimovimento ha costituito un passo in avanti; le invenzio-ni sono in costante progresso, diventano sempre più ge-niali, complesse e specializzate ma dirette sempre allaconquista dell’ambiente materiale. Mai, in tutti questimillenni, le forze che producono la ricchezza, che vin-cono la natura e superano il bisogno materiale, hannoindugiato. Ci furono, naturalmente, lunghi periodi in cuiquesto movimento, per una ragione o per l’altra, rallentòe sostò; ma, se guardiamo le cose nel loro insieme,l’uomo, animale che dal suo pensiero seppe foggiare ar-nesi, ha progredito sempre verso una maggior compiu-tezza meccanica.

In ciò che riguarda la politica e lo stato sociale,l’uomo ha testimonianze meno lusinghiere per lui. Il suospirito inventivo, la sua comprensione nel campo diquesti problemi, sono meno attivi, meno fecondi. Il

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mondo della moderna civiltà meccanica è armato controse stesso, e i fabbri di armi hanno, socialmente, la prece-denza sui fabbricanti di arnesi e i produttori di ricchez-ze. Eppure in tutte le filosofie che sono a fondamento ditutte le grandi religioni esiste la prova che l’uomo, nelsuo pensiero quanto meno, ha riconosciuto la folliaumana, e non ignora i metodi per curare questa follia.Anche oggi, intellettualmente, l’uomo è sulla via di con-siderare sistemi di pace piuttosto che di guerra. La con-fusione stessa delle teorie politiche odierne, i grandicambiamenti verificatisi durante gli ultimi vent’anninelle forme di governo, il conflitto di idee economiche:tutto questo prova che l’uomo è almeno alla ricerca diun equilibrio tra il suo mondo sociale e quello dellameccanica. E quando l’uomo comincia a riflettere, pos-siamo essere quasi sicuri che sta per trovare la soluzio-ne.

Una cosa è certa. In nessun momento della passatastoria umana c’è stata un’Età dell’Oro. La speranza, pernecessità di cose, è un problema di domani, e non diieri.

Noi siamo propensi a credere che in alcune societàprimitive, come nell’antico Perù, fra gli Esquimesi pri-ma del contatto con i Russi o con i cacciatori di balene,o in certe isole del Pacifico, vi sia stata in passato unamaggiore dignità verso il lavoro, un livello sociale rela-tivamente alto per l’industria e un ritmo di vita assai piùnobile. Siamo propensi a credere che in quelle società illavoro fosse un peso oneroso e talvolta meno micidiale

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mondo della moderna civiltà meccanica è armato controse stesso, e i fabbri di armi hanno, socialmente, la prece-denza sui fabbricanti di arnesi e i produttori di ricchez-ze. Eppure in tutte le filosofie che sono a fondamento ditutte le grandi religioni esiste la prova che l’uomo, nelsuo pensiero quanto meno, ha riconosciuto la folliaumana, e non ignora i metodi per curare questa follia.Anche oggi, intellettualmente, l’uomo è sulla via di con-siderare sistemi di pace piuttosto che di guerra. La con-fusione stessa delle teorie politiche odierne, i grandicambiamenti verificatisi durante gli ultimi vent’anninelle forme di governo, il conflitto di idee economiche:tutto questo prova che l’uomo è almeno alla ricerca diun equilibrio tra il suo mondo sociale e quello dellameccanica. E quando l’uomo comincia a riflettere, pos-siamo essere quasi sicuri che sta per trovare la soluzio-ne.

Una cosa è certa. In nessun momento della passatastoria umana c’è stata un’Età dell’Oro. La speranza, pernecessità di cose, è un problema di domani, e non diieri.

Noi siamo propensi a credere che in alcune societàprimitive, come nell’antico Perù, fra gli Esquimesi pri-ma del contatto con i Russi o con i cacciatori di balene,o in certe isole del Pacifico, vi sia stata in passato unamaggiore dignità verso il lavoro, un livello sociale rela-tivamente alto per l’industria e un ritmo di vita assai piùnobile. Siamo propensi a credere che in quelle società illavoro fosse un peso oneroso e talvolta meno micidiale

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che non in città come Manchester, Pittsburgh, Stoccar-da, Lilla, o al Giappone d’oggi. Certamente i prodotti diquelle primitive industrie recano il marchio estetico diuna soddisfazione nel lavoro che è totalmente o quasiassente dall’industria entro l’ambito delle epoche stori-che.

Fisicamente, l’uomo non è ancora completamenteadatto al compito prepostogli da quelle macchine che luistesso ha inventato. La vita moderna ha trasformatomolte forme di lavoro in una degradazione fisica e men-tale, attraverso la super-specializzazione e la meccaniz-zazione dei procedimenti di lavoro. Lungo la nostra glo-riosa via meccanica, noi abbiamo perduto gran parte diquella bellezza che avevano un tempo i prodotti del la-voro, e anche quell’interesse e quella, gioia nel lavoro,che – ne va della nostra esistenza stessa – dovremo re-cuperare. Nel XII e nel XIII secolo, in alcune zone indu-striali particolarmente favorite, sotto la protezione diCorporazioni sociali, piccoli gruppi di artigiani ricon-quistarono per un breve periodo alcunchè della dignità esicurtà del lavoro, così evidente in società primitive.Nell’eredità che ci lasciarono noi constatiamo quella talprova della soddisfazione dell’uomo nei prodotti del suogenio. Le cattedrali d’Europa e le opere d’arte, spessoanonime, che le ornano, esprimono un più alto volodell’immaginazione di quanto sia mai stato creato primae dopo d’allora; e dimostrano che in quell’epoca il lavo-ro non era soltanto un’ingrata fatica. La società, allora,lavorava per la società, e non per egoistici individuali-

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che non in città come Manchester, Pittsburgh, Stoccar-da, Lilla, o al Giappone d’oggi. Certamente i prodotti diquelle primitive industrie recano il marchio estetico diuna soddisfazione nel lavoro che è totalmente o quasiassente dall’industria entro l’ambito delle epoche stori-che.

Fisicamente, l’uomo non è ancora completamenteadatto al compito prepostogli da quelle macchine che luistesso ha inventato. La vita moderna ha trasformatomolte forme di lavoro in una degradazione fisica e men-tale, attraverso la super-specializzazione e la meccaniz-zazione dei procedimenti di lavoro. Lungo la nostra glo-riosa via meccanica, noi abbiamo perduto gran parte diquella bellezza che avevano un tempo i prodotti del la-voro, e anche quell’interesse e quella, gioia nel lavoro,che – ne va della nostra esistenza stessa – dovremo re-cuperare. Nel XII e nel XIII secolo, in alcune zone indu-striali particolarmente favorite, sotto la protezione diCorporazioni sociali, piccoli gruppi di artigiani ricon-quistarono per un breve periodo alcunchè della dignità esicurtà del lavoro, così evidente in società primitive.Nell’eredità che ci lasciarono noi constatiamo quella talprova della soddisfazione dell’uomo nei prodotti del suogenio. Le cattedrali d’Europa e le opere d’arte, spessoanonime, che le ornano, esprimono un più alto volodell’immaginazione di quanto sia mai stato creato primae dopo d’allora; e dimostrano che in quell’epoca il lavo-ro non era soltanto un’ingrata fatica. La società, allora,lavorava per la società, e non per egoistici individuali-

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smi. Aveva un piano e uno scopo comprensibiliall’uomo. Fu senza dubbio un periodo di grande disci-plina, ma anche di immaginazione creativa, e molte diquelle idee che oggi noi diciamo «moderne» trovanoorigine in periodi nei quali l’Europa era filosoficamentequasi unita nella religione; e una almeno nel linguaggiodella religione e della scienza. Sotto molti punti di vista,il secolo XIII rappresenta il più grande sforzo socialedell’Europa: un equilibrato rapporto tra energia mecca-nica e sociale; un periodo in cui ogni forza sociale e in-dustriale era dedita ai bisogni e alle aspirazioni della so-cietà, prima che all’esaltazione di nazioni, classi o indi-vidui.

Eppure questo periodo, che durò a malapena due se-coli, non rappresenta che poche oasi sociali e industriali,sparse qua e là per un vasto oceano di servaggio, schia-vitù, costanti guerre, malattie e ignoranze. Non soltantole Corporazioni escludevano le classi alte del controllo,ma anche le classi basse dell’impiego. Quando le muradelle città crollarono sotto la furia dei cannoni, e quandole costumanze delle Corporazioni andarono scosse sottol’urto del commercio mondiale e delle industrie specia-lizzate nei secoli XIV, XV e XVI, l’Europa fu dilaniatada sanguinose lotte intestine, oppressa dal bisogno, dallamiseria, travagliata dai soprusi e dalla disoccupazione; equesto stato di cose dura, si può dire, ai tempi nostri an-cora.

Circa 20.000 anni fa, il frumento, l’avena e altre gra-naglie conferivano un valore alla terra e un significato

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smi. Aveva un piano e uno scopo comprensibiliall’uomo. Fu senza dubbio un periodo di grande disci-plina, ma anche di immaginazione creativa, e molte diquelle idee che oggi noi diciamo «moderne» trovanoorigine in periodi nei quali l’Europa era filosoficamentequasi unita nella religione; e una almeno nel linguaggiodella religione e della scienza. Sotto molti punti di vista,il secolo XIII rappresenta il più grande sforzo socialedell’Europa: un equilibrato rapporto tra energia mecca-nica e sociale; un periodo in cui ogni forza sociale e in-dustriale era dedita ai bisogni e alle aspirazioni della so-cietà, prima che all’esaltazione di nazioni, classi o indi-vidui.

Eppure questo periodo, che durò a malapena due se-coli, non rappresenta che poche oasi sociali e industriali,sparse qua e là per un vasto oceano di servaggio, schia-vitù, costanti guerre, malattie e ignoranze. Non soltantole Corporazioni escludevano le classi alte del controllo,ma anche le classi basse dell’impiego. Quando le muradelle città crollarono sotto la furia dei cannoni, e quandole costumanze delle Corporazioni andarono scosse sottol’urto del commercio mondiale e delle industrie specia-lizzate nei secoli XIV, XV e XVI, l’Europa fu dilaniatada sanguinose lotte intestine, oppressa dal bisogno, dallamiseria, travagliata dai soprusi e dalla disoccupazione; equesto stato di cose dura, si può dire, ai tempi nostri an-cora.

Circa 20.000 anni fa, il frumento, l’avena e altre gra-naglie conferivano un valore alla terra e un significato

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alle unità sociali. Erano grandi scoperte o invenzioni,idee feconde, e nel loro possesso la terra esultava. E poi,in quelle stesse età, fu inventata la guerra. Migliaiad’anni prima che Cristo camminasse sul suolo di Gali-lea, gli uomini avevano mutato la guerra nella più odio-sa e inutile delle occupazioni: priva di qualsiasi profitto,ma segno di grande distinzione. Le cronache delle guer-re di Assiria e Babilonia, dell’Egitto, della Grecia, diRoma, della Persia sono un incubo di crudeltà. Nè leguerre che gli uomini hanno combattuto dall’alba deitempi moderni in poi sono meno brutali e inutili.

L’unica differenza tra guerre del passato e guerre delpresente consiste nella sempre maggior perfezione eprecisione di armi e strumenti bellici.

Quali testimonianze serba il mondo in materia di fattisociali che toccano all’esistenza di quegli uomini portatia contatto con materie prime, arnesi e strumenti, mac-chine e procedimenti tecnici? Ci riferiamo ancora sem-pre a questa vasta classe, come alla classe dei lavoratori.Come li ha trattati la società, da quando essa serba do-cumenti scritti delle proprie imprese? È quanto ci propo-niamo di vedere ora.

In un antico papiro scritto con una canna temprata, ri-trovato in una dimenticata città sulle rive del Nilo, chiscrive esorta un giovane a dedicarsi allo studio delle let-tere, poi, che tutte le altre occupazioni aperte a lui sareb-bero spiacevoli, onerose e lamentevolmente prive divantaggi e di considerazione sociale. Il panettiere, il fa-legname, il tagliatore di pietra, il tessitore, il sarto, il

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alle unità sociali. Erano grandi scoperte o invenzioni,idee feconde, e nel loro possesso la terra esultava. E poi,in quelle stesse età, fu inventata la guerra. Migliaiad’anni prima che Cristo camminasse sul suolo di Gali-lea, gli uomini avevano mutato la guerra nella più odio-sa e inutile delle occupazioni: priva di qualsiasi profitto,ma segno di grande distinzione. Le cronache delle guer-re di Assiria e Babilonia, dell’Egitto, della Grecia, diRoma, della Persia sono un incubo di crudeltà. Nè leguerre che gli uomini hanno combattuto dall’alba deitempi moderni in poi sono meno brutali e inutili.

L’unica differenza tra guerre del passato e guerre delpresente consiste nella sempre maggior perfezione eprecisione di armi e strumenti bellici.

Quali testimonianze serba il mondo in materia di fattisociali che toccano all’esistenza di quegli uomini portatia contatto con materie prime, arnesi e strumenti, mac-chine e procedimenti tecnici? Ci riferiamo ancora sem-pre a questa vasta classe, come alla classe dei lavoratori.Come li ha trattati la società, da quando essa serba do-cumenti scritti delle proprie imprese? È quanto ci propo-niamo di vedere ora.

In un antico papiro scritto con una canna temprata, ri-trovato in una dimenticata città sulle rive del Nilo, chiscrive esorta un giovane a dedicarsi allo studio delle let-tere, poi, che tutte le altre occupazioni aperte a lui sareb-bero spiacevoli, onerose e lamentevolmente prive divantaggi e di considerazione sociale. Il panettiere, il fa-legname, il tagliatore di pietra, il tessitore, il sarto, il

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messaggero: a tutti colui che scrive guarda con una spe-cie di arrogante pietà. Non era questa, sicuramente,l’Età dell’Oro del lavoro.

Nell’Epoca Classica della Grecia, esisteva una certadivisione del lavoro secondo le varie arti, e la manod’opera degli schiavi veniva impiegata nelle piccole of-ficine: c’era una produzione di merci destinateall’esportazione piuttosto che al consumo locale. Nei se-coli seguenti, oltre la metà della popolazione dell’Impe-ro Romano era composta di schiavi, o di cittadini attac-cati da severe leggi alla terra o a qualche impresa di co-struzione. L’assenza d’ogni invenzione meccanica du-rante quei secoli è una prova sufficiente che la manod’opera era a buon mercato. I coloni dell’Impero Roma-no divennero in seguito i servi e i vassalli del Medioevo.

L’ultimo secolo del Medioevo, il XIV, è il periododelle rivoluzioni urbane per eccellenza. In Italia il popo-lo, gli artigiani e il proletariato si disputano con l’altaborghesia, la nobiltà e i capitalisti. Roma, Genova, Bo-logna, Siena e altre città erano teatro di continue ecruente sommosse. La fine di quelle lotte fu una serie didittatori, alcuni tra i quali sono ora ricordati, a onor delvero, quali illuminati patroni delle arti. A Ypres e a Bru-ges (1323-28) la «Jacquerie», (un nome che sopravvissefino alla Rivoluzione Francese) sotto la guida di Deckere Piet muoveva guerra a tutti i ricchi, fino a che i mer-canti e i nobili coalizzati sconfissero la Lega nel 1328.Sotto la dittatura di Giacomo Artevelde, una rivoluzionedi piccoli borghesi e di classi operaie s’impadronì del

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messaggero: a tutti colui che scrive guarda con una spe-cie di arrogante pietà. Non era questa, sicuramente,l’Età dell’Oro del lavoro.

Nell’Epoca Classica della Grecia, esisteva una certadivisione del lavoro secondo le varie arti, e la manod’opera degli schiavi veniva impiegata nelle piccole of-ficine: c’era una produzione di merci destinateall’esportazione piuttosto che al consumo locale. Nei se-coli seguenti, oltre la metà della popolazione dell’Impe-ro Romano era composta di schiavi, o di cittadini attac-cati da severe leggi alla terra o a qualche impresa di co-struzione. L’assenza d’ogni invenzione meccanica du-rante quei secoli è una prova sufficiente che la manod’opera era a buon mercato. I coloni dell’Impero Roma-no divennero in seguito i servi e i vassalli del Medioevo.

L’ultimo secolo del Medioevo, il XIV, è il periododelle rivoluzioni urbane per eccellenza. In Italia il popo-lo, gli artigiani e il proletariato si disputano con l’altaborghesia, la nobiltà e i capitalisti. Roma, Genova, Bo-logna, Siena e altre città erano teatro di continue ecruente sommosse. La fine di quelle lotte fu una serie didittatori, alcuni tra i quali sono ora ricordati, a onor delvero, quali illuminati patroni delle arti. A Ypres e a Bru-ges (1323-28) la «Jacquerie», (un nome che sopravvissefino alla Rivoluzione Francese) sotto la guida di Deckere Piet muoveva guerra a tutti i ricchi, fino a che i mer-canti e i nobili coalizzati sconfissero la Lega nel 1328.Sotto la dittatura di Giacomo Artevelde, una rivoluzionedi piccoli borghesi e di classi operaie s’impadronì del

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governo a Gand, ed ebbe anche l’aiuto del Re d’Inghil-terra15. Seguì a quel moto una sollevazione dei tessitori,desiderosi che le classi operaie venissero al governo;tutto finì poi in massacri, saccheggi e conflitti senza finetra tessitori e follatori. Il tentativo si ripetè nel 1359 enel 1378. Anche qui non sapremmo vedere, neppur dilontano, un’Età dell’Oro per il lavoro o per la società.

Questo stato di cose per poco non condusse a una ri-voluzione operaia internazionale, nella quale avrebberodovuto perire tutti i nobili, i signori e i mercanti. La bat-taglia di Rosenbecque (novembre 1382) che costò lavita a ventiseimila lavoratori, soffocò il movimento inuna rossa bruma di odio e di miserie.

Nel 1348, la peste bubbonica, la Morte Nera, giunge-va come un turbine dall’Asia, uccidendo metà della po-polazione europea. A questa terribile ospite i poveri chesopravvissero guardarono come a una graziosa benefat-trice, poichè aveva creato una maggior richiesta di manod’opera; e i salari salirono d’un balzo ad altezze inspera-te. Nel 1349, in Inghilterra intervenne una legge cheproibiva ai lavoratori di richiedere, proporre o riceveresalari più alti di quelli stabiliti per legge. Naturalmente,molti evasero a questa legge. Ma molte terre furono adi-bite a pascoli per le pecore; così c’era meno bisogno dilavoranti, ma l’Inghilterra non tardò a essere piena diuomini amareggiati, senza lavoro e senza terra. Le leggi

15 Si legga l’opera TRE TRIBUNI, di alto interesse e definitiva inargomento (Ed. Corbaccio). (N. d. E.).

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governo a Gand, ed ebbe anche l’aiuto del Re d’Inghil-terra15. Seguì a quel moto una sollevazione dei tessitori,desiderosi che le classi operaie venissero al governo;tutto finì poi in massacri, saccheggi e conflitti senza finetra tessitori e follatori. Il tentativo si ripetè nel 1359 enel 1378. Anche qui non sapremmo vedere, neppur dilontano, un’Età dell’Oro per il lavoro o per la società.

Questo stato di cose per poco non condusse a una ri-voluzione operaia internazionale, nella quale avrebberodovuto perire tutti i nobili, i signori e i mercanti. La bat-taglia di Rosenbecque (novembre 1382) che costò lavita a ventiseimila lavoratori, soffocò il movimento inuna rossa bruma di odio e di miserie.

Nel 1348, la peste bubbonica, la Morte Nera, giunge-va come un turbine dall’Asia, uccidendo metà della po-polazione europea. A questa terribile ospite i poveri chesopravvissero guardarono come a una graziosa benefat-trice, poichè aveva creato una maggior richiesta di manod’opera; e i salari salirono d’un balzo ad altezze inspera-te. Nel 1349, in Inghilterra intervenne una legge cheproibiva ai lavoratori di richiedere, proporre o riceveresalari più alti di quelli stabiliti per legge. Naturalmente,molti evasero a questa legge. Ma molte terre furono adi-bite a pascoli per le pecore; così c’era meno bisogno dilavoranti, ma l’Inghilterra non tardò a essere piena diuomini amareggiati, senza lavoro e senza terra. Le leggi

15 Si legga l’opera TRE TRIBUNI, di alto interesse e definitiva inargomento (Ed. Corbaccio). (N. d. E.).

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diventavano sempre più rigide; quelli che le infrangeva-no venivano imprigionati o sottoposti a gravi multe.Tutti gli uomini che rifiutavano i salari stabiliti daglistatuti venivano trattati come «pitocchi», minaccia allasocietà stessa che li aveva ripudiati. Dice lo Statuto deiLavoratori, destinato a rinsaldare per sempre i ceppi diquegli sciagurati che così si chiamavano: «Ogni uomo odonna di qualsiasi condizione, libero e sano di corpo, eavendo raggiunto l’età di anni sessanta, il quale non ab-bia una casa propria ove abitare, nè una terra propria dacoltivare, e non sia a servizio d’altri, sarà in obbligo diservire il datore di lavoro che ne farà richiesta, per quelcompenso che è in uso in quel distretto ove egli verràassunto».

Questo Statuto è del 1351, tre anni appena dopo chel’Inghilterra era stata colpita da quell’immane sciagura,la quale avrebbe dovuto contribuire a unire gli uomini inun unico legame di fraternità. Ma la stessa Morte Neraera meno crudele dei cuori e delle leggi umane...

E poi, ecco apparire uno di quegli strani personaggisemi-fantastici, che a quell’epoca predicevano gli avve-nimenti di futuri secoli, e che il parassita Froissart chia-ma «il pazzo prete di Kent». Così egli predicava: «Buo-na gente, le cose non andranno mai bene in Inghilterra,sino a che i beni non saranno in comune, sino a che visaranno villani e gentiluomini. Per qual diritto colorocui noi diamo il nome di "signori" han da essere più illu-stri di noi? Per qual ragione lo hanno meritato? Essi ve-stono di velluto e si coprono di calde pelliccie ed ermel-

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diventavano sempre più rigide; quelli che le infrangeva-no venivano imprigionati o sottoposti a gravi multe.Tutti gli uomini che rifiutavano i salari stabiliti daglistatuti venivano trattati come «pitocchi», minaccia allasocietà stessa che li aveva ripudiati. Dice lo Statuto deiLavoratori, destinato a rinsaldare per sempre i ceppi diquegli sciagurati che così si chiamavano: «Ogni uomo odonna di qualsiasi condizione, libero e sano di corpo, eavendo raggiunto l’età di anni sessanta, il quale non ab-bia una casa propria ove abitare, nè una terra propria dacoltivare, e non sia a servizio d’altri, sarà in obbligo diservire il datore di lavoro che ne farà richiesta, per quelcompenso che è in uso in quel distretto ove egli verràassunto».

Questo Statuto è del 1351, tre anni appena dopo chel’Inghilterra era stata colpita da quell’immane sciagura,la quale avrebbe dovuto contribuire a unire gli uomini inun unico legame di fraternità. Ma la stessa Morte Neraera meno crudele dei cuori e delle leggi umane...

E poi, ecco apparire uno di quegli strani personaggisemi-fantastici, che a quell’epoca predicevano gli avve-nimenti di futuri secoli, e che il parassita Froissart chia-ma «il pazzo prete di Kent». Così egli predicava: «Buo-na gente, le cose non andranno mai bene in Inghilterra,sino a che i beni non saranno in comune, sino a che visaranno villani e gentiluomini. Per qual diritto colorocui noi diamo il nome di "signori" han da essere più illu-stri di noi? Per qual ragione lo hanno meritato? Essi ve-stono di velluto e si coprono di calde pelliccie ed ermel-

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lini, mentre noi andiamo avvolti in cenci. Essi hannovino e spezie e pan bianco; e noi mangiamo focaccied’avena e paglia, e beviamo acqua. Essi vivono in ozionelle loro belle dimore; a noi lavoro e pene, e la pioggiae il vento nei campi. Eppure, è merito nostro e delle no-stre fatiche, se costoro mantengono la loro pompa».

Sul finir del XIV secolo, gli abitanti di Londra assi-stevano a un inusitato spettacolo. Come un nembo che sisollevi da un mare in tempesta, come un fuoco cheavanzi per una prateria secca, un centinaio di migliaiad’uomini dagli occhi torvi si serravano attorno al loroRe adolescente, Riccardo II, implorando la libertà per sèe per le proprie terre. Il Re accordò la richiesta, com’erain suo arbitrio di fare. La gioia illuminò tosto quei voltitetri; la folla si disperse; ma il giorno dopo, il Re rompe-va la regale parola, e Wat Tyler cadeva pugnalatosull’erba di Smithfield. Fu questa la fine della «Rivoltadei Contadini»; certamente un portento, ma che ancoranon ci sembra preannunciare l’Età dell’Oro.

Negli Statuti degli Apprendisti, sotto il regno di Eli-sabetta, sono enumerate trentadue arti libere, che pote-vano essere insegnate solamente ai figli dei liberi pro-prietari. I merciai, i pannaioli, gli orafi, i negozianti inferraglie, i tessitori non potevano assumere alcun garzo-ne o apprendista il cui padre o la cui madre non avesseuna proprietà di almeno 40 scellini. In un altro articolosono poi enumerate ventuna arti che potevano essere in-segnate a figli di genitori nullatenenti.

Fatta eccezione per coloro che possedevano, persone

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lini, mentre noi andiamo avvolti in cenci. Essi hannovino e spezie e pan bianco; e noi mangiamo focaccied’avena e paglia, e beviamo acqua. Essi vivono in ozionelle loro belle dimore; a noi lavoro e pene, e la pioggiae il vento nei campi. Eppure, è merito nostro e delle no-stre fatiche, se costoro mantengono la loro pompa».

Sul finir del XIV secolo, gli abitanti di Londra assi-stevano a un inusitato spettacolo. Come un nembo che sisollevi da un mare in tempesta, come un fuoco cheavanzi per una prateria secca, un centinaio di migliaiad’uomini dagli occhi torvi si serravano attorno al loroRe adolescente, Riccardo II, implorando la libertà per sèe per le proprie terre. Il Re accordò la richiesta, com’erain suo arbitrio di fare. La gioia illuminò tosto quei voltitetri; la folla si disperse; ma il giorno dopo, il Re rompe-va la regale parola, e Wat Tyler cadeva pugnalatosull’erba di Smithfield. Fu questa la fine della «Rivoltadei Contadini»; certamente un portento, ma che ancoranon ci sembra preannunciare l’Età dell’Oro.

Negli Statuti degli Apprendisti, sotto il regno di Eli-sabetta, sono enumerate trentadue arti libere, che pote-vano essere insegnate solamente ai figli dei liberi pro-prietari. I merciai, i pannaioli, gli orafi, i negozianti inferraglie, i tessitori non potevano assumere alcun garzo-ne o apprendista il cui padre o la cui madre non avesseuna proprietà di almeno 40 scellini. In un altro articolosono poi enumerate ventuna arti che potevano essere in-segnate a figli di genitori nullatenenti.

Fatta eccezione per coloro che possedevano, persone

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di alta nascita e uomini di scienza e lettere, gli altri era-no costretti a scegliere il proprio stato fra il marinaio, unlimitato numero di mestieri, o zappare la terra. Tuttiquelli che non rientravano in queste categorie, poi, veni-vano senz’altro costretti a dedicarsi all’agricoltura, entrodate condizioni e per un limitato salario. A nessuno erapermesso abbandonare il proprio borgo o la parrocchia,in cerca d’una sorte migliore, senza il permesso delleautorità.

Nel 1563 veniva approvata una «Legge dei Poveri»,per ovviare in una certa misura alla dolce se pur dubbio-sa carità del passato. Se il Vescovo trovava che le sueesortazioni non bastavano, e che «uomini di mente pre-suntuosa e ostinata rifiutavano di dare un obolo per ilsollievo dei poveri, ciascuno secondo le proprie forze»il Vescovo responsabile poteva anche venir trascinato intribunale e giudicato. I giudici avevano il dovere di ac-certarsi del numero dei poveri nati nella parrocchia o iviresidenti da tre anni, onde prendere provvedimenti peressi. Le condizioni che avevano creato la disoccupazio-ne e la miseria erano grandi quanto la nazione, anzi,quanto il mondo intero; eppure, ogni piccola parrocchiadoveva sopportarne il peso.

Sir Josiah Child, mercante e filosofo, ritiratosi nellasua casa in campagna verso la metà del XVII secolo, persfuggire all’epidemia che minacciava Londra, ci ha la-sciato certe sue riflessioni, a proposito di un po’ di tutto:interessi, agricoltura, industria della lana, sussidi per ipoveri. In questi documenti, Sir Josiah ricorda certi par-

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di alta nascita e uomini di scienza e lettere, gli altri era-no costretti a scegliere il proprio stato fra il marinaio, unlimitato numero di mestieri, o zappare la terra. Tuttiquelli che non rientravano in queste categorie, poi, veni-vano senz’altro costretti a dedicarsi all’agricoltura, entrodate condizioni e per un limitato salario. A nessuno erapermesso abbandonare il proprio borgo o la parrocchia,in cerca d’una sorte migliore, senza il permesso delleautorità.

Nel 1563 veniva approvata una «Legge dei Poveri»,per ovviare in una certa misura alla dolce se pur dubbio-sa carità del passato. Se il Vescovo trovava che le sueesortazioni non bastavano, e che «uomini di mente pre-suntuosa e ostinata rifiutavano di dare un obolo per ilsollievo dei poveri, ciascuno secondo le proprie forze»il Vescovo responsabile poteva anche venir trascinato intribunale e giudicato. I giudici avevano il dovere di ac-certarsi del numero dei poveri nati nella parrocchia o iviresidenti da tre anni, onde prendere provvedimenti peressi. Le condizioni che avevano creato la disoccupazio-ne e la miseria erano grandi quanto la nazione, anzi,quanto il mondo intero; eppure, ogni piccola parrocchiadoveva sopportarne il peso.

Sir Josiah Child, mercante e filosofo, ritiratosi nellasua casa in campagna verso la metà del XVII secolo, persfuggire all’epidemia che minacciava Londra, ci ha la-sciato certe sue riflessioni, a proposito di un po’ di tutto:interessi, agricoltura, industria della lana, sussidi per ipoveri. In questi documenti, Sir Josiah ricorda certi par-

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ticolari «approvati di Comune Consenso»:1) – Che in Inghilterra, i poveri si son sempre trovati

nelle più misere e malaugurate condizioni, alcuni affa-mati per mancanza di pane, altri in procinto di morir difreddo – inutili a se stessi e nocivi alla Nazione, cosache è riconosciuta e deplorata da tutti. 2) – Che i figli diquesti poveri crescono in indigenza e pigrizia, e non neprofitta certo la loro salute; e più d’ogni altro si trovanoessi soggetti ed esposti a mali pericolosi, tanto che moltine muoiono in ancor tenera età, e quelli che giungonoall’età adulta, per le pessime abitudini contratte nellagioventù non sono di alcun utile, e servono unicamentead arricchire la Nazione di ladri e mendicanti. 3) – Chese si riuscisse a impiegare tutti i nostri poveri in gradodi compiere un lavoro qualsiasi, ciò procurerebbe qual-che centinaio di migliaio di lire sterline per annum avantaggio del paese intero».

Child prosegue poi a dire che «...l’errore radicale, se-condo il mio parere, è di lasciare a ogni parrocchia ilpeso e la cura dei propri poveri. Per esempio, se un po-vero ozioso che non vuol lavorare o non trova lavoro incampagna, viene a Londra per esercitarvi il mestiere dimendicante – avesse costui trovato invece un funziona-rio un po’ più diligente, che non siano uno su venti; ilquale avesse compiuto il proprio dovere, che sarebbe dicondurre il povero davanti al Giudice Conciliatore, ilquale avrebbe ordinato che il delinquente venisse frusta-to, e mandato poi di parrocchia in parrocchia...».

Tale lo stato di cose, cinquant’anni avanti le prime

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ticolari «approvati di Comune Consenso»:1) – Che in Inghilterra, i poveri si son sempre trovati

nelle più misere e malaugurate condizioni, alcuni affa-mati per mancanza di pane, altri in procinto di morir difreddo – inutili a se stessi e nocivi alla Nazione, cosache è riconosciuta e deplorata da tutti. 2) – Che i figli diquesti poveri crescono in indigenza e pigrizia, e non neprofitta certo la loro salute; e più d’ogni altro si trovanoessi soggetti ed esposti a mali pericolosi, tanto che moltine muoiono in ancor tenera età, e quelli che giungonoall’età adulta, per le pessime abitudini contratte nellagioventù non sono di alcun utile, e servono unicamentead arricchire la Nazione di ladri e mendicanti. 3) – Chese si riuscisse a impiegare tutti i nostri poveri in gradodi compiere un lavoro qualsiasi, ciò procurerebbe qual-che centinaio di migliaio di lire sterline per annum avantaggio del paese intero».

Child prosegue poi a dire che «...l’errore radicale, se-condo il mio parere, è di lasciare a ogni parrocchia ilpeso e la cura dei propri poveri. Per esempio, se un po-vero ozioso che non vuol lavorare o non trova lavoro incampagna, viene a Londra per esercitarvi il mestiere dimendicante – avesse costui trovato invece un funziona-rio un po’ più diligente, che non siano uno su venti; ilquale avesse compiuto il proprio dovere, che sarebbe dicondurre il povero davanti al Giudice Conciliatore, ilquale avrebbe ordinato che il delinquente venisse frusta-to, e mandato poi di parrocchia in parrocchia...».

Tale lo stato di cose, cinquant’anni avanti le prime

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«macchine», un secolo prima che si aprisse la fabbricadi Arkwright. Non la macchina creava i poveri; la socie-tà preparava una popolazione di poveri e indigenti per lamacchina.

Nel suo saggio su Le Piantagioni, che sarebbero poi ifamosi tredici stati del 177616, destinati a diventare ilmiracolo meccanico del XX secolo, paragonandone ivalori alla vecchia Inghilterra, Sir Josiah dice:

«La Virginia e la Barbada furono dapprima popolateda gente vagabonda, viziosa e priva di mezzi per procu-rarsi una casa nel loro paese; o erano inadatti a qualsiasigenere di lavoro, o non s’erano mai dati la pena di tro-varne, o tanto malamente si comportavano rubando ofornicando o dandosi ad altri eccessi, che nessunoavrebbe consentito a impiegarli. Mercanti e proprietaridi navi mandavano i loro agenti a raccogliere tale genteper le vie di Londra e in altri luoghi; li vestivano poi, eli imbarcavano per essere impiegati nelle piantagioni; eove l’Inghilterra non avesse avuto piantagioni fuor delpaese, quella gente non avrebbe trovato come vivere acasa propria, ma avrebbe finito o per fame, o sulla forca,o per uno di quegli sciagurati mali che sono risultato dimiseria e di vizio...».

Quattordici anni prima che giungiamo alla prima in-venzione visibile della Rivoluzione Industriale, la navet-ta volante di John Kay (1734), si verificava in Inghilter-

16 L’A. allude alla Rivoluzione Americana del 1776 (N. d.Tr.).

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«macchine», un secolo prima che si aprisse la fabbricadi Arkwright. Non la macchina creava i poveri; la socie-tà preparava una popolazione di poveri e indigenti per lamacchina.

Nel suo saggio su Le Piantagioni, che sarebbero poi ifamosi tredici stati del 177616, destinati a diventare ilmiracolo meccanico del XX secolo, paragonandone ivalori alla vecchia Inghilterra, Sir Josiah dice:

«La Virginia e la Barbada furono dapprima popolateda gente vagabonda, viziosa e priva di mezzi per procu-rarsi una casa nel loro paese; o erano inadatti a qualsiasigenere di lavoro, o non s’erano mai dati la pena di tro-varne, o tanto malamente si comportavano rubando ofornicando o dandosi ad altri eccessi, che nessunoavrebbe consentito a impiegarli. Mercanti e proprietaridi navi mandavano i loro agenti a raccogliere tale genteper le vie di Londra e in altri luoghi; li vestivano poi, eli imbarcavano per essere impiegati nelle piantagioni; eove l’Inghilterra non avesse avuto piantagioni fuor delpaese, quella gente non avrebbe trovato come vivere acasa propria, ma avrebbe finito o per fame, o sulla forca,o per uno di quegli sciagurati mali che sono risultato dimiseria e di vizio...».

Quattordici anni prima che giungiamo alla prima in-venzione visibile della Rivoluzione Industriale, la navet-ta volante di John Kay (1734), si verificava in Inghilter-

16 L’A. allude alla Rivoluzione Americana del 1776 (N. d.Tr.).

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Page 383: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

ra il primo grande panico finanziario. Tale curioso feno-meno economico non può certo essere attribuitoall’industria meccanica, dato che non esisteva ancora. Aquel tempo, nessuno poteva appigliarsi alla tecnologiacome a una scusa per una follia economica.

Per mezzo del Trattato di Utrecht, l’Inghilterra avevaricevuto dalla riluttante Spagna un diabolico dono, colmonopolio del commercio degli schiavi africani nei pos-sedimenti spagnuoli del Nuovo Mondo: una specie dirinnovamento del commercio stabilito da Enrico il Na-vigatore nel XV secolo. Su questo mitico monopolio, ifinanzieri inglesi organizzarono la famosa Compagniadei Mari del Sud. Lasciamo parlare Anderson, un con-temporaneo degli avvenimenti:

«L’anno 1720 resta memorabile nella storia della no-stra finanza per il famoso schema o progetto dei Maridel Sud, adottato dal Governo in seguito alla legge percui si effettuava la liquidazione dei debiti nazionali, colconcorso della compagnia mercantile del suddettonome, costituita in società con un atto del Parlamentonel 1711, con lo scopo di esercitare un commercio pri-vato nei Mari del Sud.

«Non appena la Compagnia si trovò nella sua nuova estraordinaria posizione, l’avidità di acquistarne le azionidivenne una mania universale. Ma, per quanto la furiache aveva invaso le menti in tale occasione raggiunges-se il parossismo di un’epidemia e altrettanto disastrosasi rivelasse nelle conseguenze per i patrimoni di nume-rosi cittadini, probabilmente in complesso il fenomeno

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ra il primo grande panico finanziario. Tale curioso feno-meno economico non può certo essere attribuitoall’industria meccanica, dato che non esisteva ancora. Aquel tempo, nessuno poteva appigliarsi alla tecnologiacome a una scusa per una follia economica.

Per mezzo del Trattato di Utrecht, l’Inghilterra avevaricevuto dalla riluttante Spagna un diabolico dono, colmonopolio del commercio degli schiavi africani nei pos-sedimenti spagnuoli del Nuovo Mondo: una specie dirinnovamento del commercio stabilito da Enrico il Na-vigatore nel XV secolo. Su questo mitico monopolio, ifinanzieri inglesi organizzarono la famosa Compagniadei Mari del Sud. Lasciamo parlare Anderson, un con-temporaneo degli avvenimenti:

«L’anno 1720 resta memorabile nella storia della no-stra finanza per il famoso schema o progetto dei Maridel Sud, adottato dal Governo in seguito alla legge percui si effettuava la liquidazione dei debiti nazionali, colconcorso della compagnia mercantile del suddettonome, costituita in società con un atto del Parlamentonel 1711, con lo scopo di esercitare un commercio pri-vato nei Mari del Sud.

«Non appena la Compagnia si trovò nella sua nuova estraordinaria posizione, l’avidità di acquistarne le azionidivenne una mania universale. Ma, per quanto la furiache aveva invaso le menti in tale occasione raggiunges-se il parossismo di un’epidemia e altrettanto disastrosasi rivelasse nelle conseguenze per i patrimoni di nume-rosi cittadini, probabilmente in complesso il fenomeno

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Page 384: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

non era sintomatico di nulla che tendesse a pronosticareuna decadenza della ricchezza nazionale; nè, nelle sueconseguenze ultime, era poi da considerarsi una calami-tà pubblica o generale.

«Gli anni 1694 e 1695, a esempio, furono notevoliper i progetti e gli schemi che vi si evolsero: molti deiquali finirono poi in una bolla di sapone: tra questi laLand Bank del celebre ostetrico dottor Hugh Chamber-lain, il quale imprestava denaro a un basso interesse sugaranzie in terreni, e su tale base stabiliva persino unavaluta monetaria nazionale. Un altro progetto del generefu proposto da certo John Briscoe. Vari altri progetti cir-colavano: per il recupero di tesori perduti in fondo almare, per la pesca delle perle, per lo sfruttamento di mi-niere, per la trasformazione di rame in ottone, per la ma-nifattura di lame di spade internamente vuote, di reci-pienti di vetro, di oggetti verniciati a lacca, di arazzistampati, e via dicendo.

«Uno scrittore del giorno assai al corrente in proposi-to, afferma che alcuni di questi progetti erano utili edavevano anche fortuna, fino a che non cadevano inmano di speculatori di Borsa, e allora sfumavano poi innulla. Altri invece non erano che inezie, di scarsa o nes-suna praticità. Inoltre, i progetti cominciavano come disolito cominciano i progetti: lotterie su lotterie, macchi-ne su macchine, ecc. si moltiplicavano miracolosamen-te. Se accadeva che qualcuno traesse vantaggio daun’invenzione felice e pratica, la conseguenza era chesubito altri cercavano di imitarla, anche se era brevetta-

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non era sintomatico di nulla che tendesse a pronosticareuna decadenza della ricchezza nazionale; nè, nelle sueconseguenze ultime, era poi da considerarsi una calami-tà pubblica o generale.

«Gli anni 1694 e 1695, a esempio, furono notevoliper i progetti e gli schemi che vi si evolsero: molti deiquali finirono poi in una bolla di sapone: tra questi laLand Bank del celebre ostetrico dottor Hugh Chamber-lain, il quale imprestava denaro a un basso interesse sugaranzie in terreni, e su tale base stabiliva persino unavaluta monetaria nazionale. Un altro progetto del generefu proposto da certo John Briscoe. Vari altri progetti cir-colavano: per il recupero di tesori perduti in fondo almare, per la pesca delle perle, per lo sfruttamento di mi-niere, per la trasformazione di rame in ottone, per la ma-nifattura di lame di spade internamente vuote, di reci-pienti di vetro, di oggetti verniciati a lacca, di arazzistampati, e via dicendo.

«Uno scrittore del giorno assai al corrente in proposi-to, afferma che alcuni di questi progetti erano utili edavevano anche fortuna, fino a che non cadevano inmano di speculatori di Borsa, e allora sfumavano poi innulla. Altri invece non erano che inezie, di scarsa o nes-suna praticità. Inoltre, i progetti cominciavano come disolito cominciano i progetti: lotterie su lotterie, macchi-ne su macchine, ecc. si moltiplicavano miracolosamen-te. Se accadeva che qualcuno traesse vantaggio daun’invenzione felice e pratica, la conseguenza era chesubito altri cercavano di imitarla, anche se era brevetta-

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ta, e pubblicavano proposte sui giornali, che ogni giornone erano pieni; e così si gabbavano a vicenda o specula-vano sulla credulità altrui».

Parlando poi di altri e più dubbi «progetti», l’Ander-son continua:

«Persone d’ambo i sessi e di qualità, in cui la cupidi-gia prevaleva su ogni altra considerazione di dignità oequanimità, si trovarono coinvolte in questi frequenti"palloni gonfiati". Gli uomini si abboccavano con gli in-termediarî in taverne o al caffè, le signore dalla crestaiao dal merciaio. Mentre le truffe più fervevano e si molti-plicavano, ogni impostore che avesse un po’ di facciatosta, non aveva che da affittare una stanza in un caffè oin qualche casa vicino al luogo ove si trovava l’invento-re, e aprire una sottoscrizione per qualcosa che avesseattinenza con un qualsiasi commercio, industria o pian-tagione, o per un’idea nata nella fervida fantasia degliorganizzatori o rubacchiando tra i numerosi progetti cor-renti già strombazzati dai giornali; e in men di poche oretrovava sottoscrittori per uno, due e in certi casi anchepiù milioni di immaginarie azioni. E sì che molti di que-sti sottoscrittori erano i primi a non aver alcuna fede inquei progetti; bastava loro la promessa di incassar prestoun premio sui risultati della sottoscrizione; quando nonsi fossero affrettati ad appioppare le azioni, non appenaacquistate, ad altri più creduli di loro. Chi aveva lancia-to la sottoscrizione, a buon conto, era sicuro del denaroricevuto in deposito. I primi acquirenti non tardavano atrovarne dei secondi, e così via, a prezzi più alti, in ogni

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ta, e pubblicavano proposte sui giornali, che ogni giornone erano pieni; e così si gabbavano a vicenda o specula-vano sulla credulità altrui».

Parlando poi di altri e più dubbi «progetti», l’Ander-son continua:

«Persone d’ambo i sessi e di qualità, in cui la cupidi-gia prevaleva su ogni altra considerazione di dignità oequanimità, si trovarono coinvolte in questi frequenti"palloni gonfiati". Gli uomini si abboccavano con gli in-termediarî in taverne o al caffè, le signore dalla crestaiao dal merciaio. Mentre le truffe più fervevano e si molti-plicavano, ogni impostore che avesse un po’ di facciatosta, non aveva che da affittare una stanza in un caffè oin qualche casa vicino al luogo ove si trovava l’invento-re, e aprire una sottoscrizione per qualcosa che avesseattinenza con un qualsiasi commercio, industria o pian-tagione, o per un’idea nata nella fervida fantasia degliorganizzatori o rubacchiando tra i numerosi progetti cor-renti già strombazzati dai giornali; e in men di poche oretrovava sottoscrittori per uno, due e in certi casi anchepiù milioni di immaginarie azioni. E sì che molti di que-sti sottoscrittori erano i primi a non aver alcuna fede inquei progetti; bastava loro la promessa di incassar prestoun premio sui risultati della sottoscrizione; quando nonsi fossero affrettati ad appioppare le azioni, non appenaacquistate, ad altri più creduli di loro. Chi aveva lancia-to la sottoscrizione, a buon conto, era sicuro del denaroricevuto in deposito. I primi acquirenti non tardavano atrovarne dei secondi, e così via, a prezzi più alti, in ogni

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parte della città e anche delle contee adiacenti; e tantogrande era la confusione, la folla che si accalcava inquelle Borse fittizie, che spesso il medesimo "progetto"o "bolla di sapone" veniva venduto contemporaneamen-te al principio d’una strada per il dieci per cento di piùche non al termine».

Anderson ricorda certi «Globe Permit», i quali veni-vano esitati al prezzo corrente di 60 ghinee e oltre: pezzidi carta da gioco che recavano impresso a cera il mar-chio della Taverna del Globo, e il misterioso motto«Sail Cloth Permit» (permesso e autorizzazione per teleda vela), senza alcuna firma; e davano al possessore di-ritto di opzione sulle azioni di una nuova Compagnianon ancora costituita.

In che cosa differisce questo panico del primo quartodel XVIII secolo da altri disastri economici che seguiro-no, non escluso il più recente, che è del 192917 appena edi cui portiamo tuttora le conseguenze?

Mac Pherson, nella sua Storia del Commercio, parlan-do del panico finanziario del 1787 in Inghilterra e negliStati Uniti, scrive:

«La Gran Bretagna, invece di esser rovinata per man-canza di commercio con l’America, com’era stato pre-detto, correva il pericolo di soffrire per l’eccessivo entu-siasmo da parte dei commercianti, ansiosi di entrare innuovi rapporti sul Continente con persone che non ave-

17 L’A. allude al grande panico e tracollo della Borsa di Nuo-va York, nell’ottobre del 1929 (N. d. Tr.).

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parte della città e anche delle contee adiacenti; e tantogrande era la confusione, la folla che si accalcava inquelle Borse fittizie, che spesso il medesimo "progetto"o "bolla di sapone" veniva venduto contemporaneamen-te al principio d’una strada per il dieci per cento di piùche non al termine».

Anderson ricorda certi «Globe Permit», i quali veni-vano esitati al prezzo corrente di 60 ghinee e oltre: pezzidi carta da gioco che recavano impresso a cera il mar-chio della Taverna del Globo, e il misterioso motto«Sail Cloth Permit» (permesso e autorizzazione per teleda vela), senza alcuna firma; e davano al possessore di-ritto di opzione sulle azioni di una nuova Compagnianon ancora costituita.

In che cosa differisce questo panico del primo quartodel XVIII secolo da altri disastri economici che seguiro-no, non escluso il più recente, che è del 192917 appena edi cui portiamo tuttora le conseguenze?

Mac Pherson, nella sua Storia del Commercio, parlan-do del panico finanziario del 1787 in Inghilterra e negliStati Uniti, scrive:

«La Gran Bretagna, invece di esser rovinata per man-canza di commercio con l’America, com’era stato pre-detto, correva il pericolo di soffrire per l’eccessivo entu-siasmo da parte dei commercianti, ansiosi di entrare innuovi rapporti sul Continente con persone che non ave-

17 L’A. allude al grande panico e tracollo della Borsa di Nuo-va York, nell’ottobre del 1929 (N. d. Tr.).

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vano uno scellino di credito. Molti di questi avventurie-ri, non appena sbarcati in America si affrettavano a con-vertire la loro merce in danaro liquido, a qualunqueprezzo, e poi tornavano ad imbarcarsi per l’Europa; o sinascondevano negli sconfinati deserti nell’internodell’America, instaurandovi un nuovo personaggio: ilpirata di terra».

Coxe, citato da Craik, dice:«Nel 1847, le rimanenze delle sovrabbondanti impor-

tazioni dei quattro anni precedenti erano costantementeofferte a prezzi inferiori al loro costo in Europa; e consi-derevoli quantità di merci europee, portate dall’Americaalle Indie Occidentali, anche colà furono vendute sotto-costo».

Nel 1816 vi furono in Inghilterra e in America panicifinanziari, dovuti a crolli industriali e alla fine delleguerre napoleoniche. Valgano, quale esempio delle vi-cissitudini finanziarie della guerra, gli alti e bassi delprezzo della cocciniglia: l’insetto che vive sul cactusmessicano e che produce il noto color scarlatto vivido.Questa materia veniva impiegata per tingere le giubberosse dei soldati inglesi. Prima delle guerre napoleoni-che, il prezzo era di 4 scellini la libbra: all’epoca dellabattaglia di Waterloo, era cresciuto a 30 scellini: e pochimesi dopo, ricadeva di nuovo a 4 scellini. Un confrontotra aumenti e ribassi nei prezzi di certe merci, causatidalle contingenze di guerra, prima e dopo ogni guerra,dimostrerebbe chiaramente il costo della società. Che suqueste oscillazioni di prezzo, pochi individui si arricchi-

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vano uno scellino di credito. Molti di questi avventurie-ri, non appena sbarcati in America si affrettavano a con-vertire la loro merce in danaro liquido, a qualunqueprezzo, e poi tornavano ad imbarcarsi per l’Europa; o sinascondevano negli sconfinati deserti nell’internodell’America, instaurandovi un nuovo personaggio: ilpirata di terra».

Coxe, citato da Craik, dice:«Nel 1847, le rimanenze delle sovrabbondanti impor-

tazioni dei quattro anni precedenti erano costantementeofferte a prezzi inferiori al loro costo in Europa; e consi-derevoli quantità di merci europee, portate dall’Americaalle Indie Occidentali, anche colà furono vendute sotto-costo».

Nel 1816 vi furono in Inghilterra e in America panicifinanziari, dovuti a crolli industriali e alla fine delleguerre napoleoniche. Valgano, quale esempio delle vi-cissitudini finanziarie della guerra, gli alti e bassi delprezzo della cocciniglia: l’insetto che vive sul cactusmessicano e che produce il noto color scarlatto vivido.Questa materia veniva impiegata per tingere le giubberosse dei soldati inglesi. Prima delle guerre napoleoni-che, il prezzo era di 4 scellini la libbra: all’epoca dellabattaglia di Waterloo, era cresciuto a 30 scellini: e pochimesi dopo, ricadeva di nuovo a 4 scellini. Un confrontotra aumenti e ribassi nei prezzi di certe merci, causatidalle contingenze di guerra, prima e dopo ogni guerra,dimostrerebbe chiaramente il costo della società. Che suqueste oscillazioni di prezzo, pochi individui si arricchi-

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scano, non toglie nulla al fatto che la società in massa cirimette. Il mercante di cannoni non è il solo profittatoredi guerra; la spesa dei cannoni è la più lieve tra tutte lespese di guerra.

Thomas Tooke, il padre della statistica moderna, trat-tando dell’anno 1825 dice:

«Le speculazioni sulle merci procedettero straordina-riamente attive dalla fine del 1824 fino a primaveraavanzata dell’anno seguente. La speculazione sul rialzonon si limitava ad articoli che presentassero una ragioneplausibile per un aumento, fosse pur piccolo; si estende-vano a generi i quali, lungi dal mancare, erano anzi insovrabbondanza. Così il rame, di cui la provvista era inaumento, a paragone d’anni anteriori, crebbe dal 20all’80%. I titoli delle miniere messicane cominciaronoad attirar l’attenzione; i titoli delle miniere del Cile, delBrasile e della Columbia venivano comperati con entu-siasmo; così quelli di compagnie di assicurazione e delgas. Dopo di che, i prezzi ricaddero con rapidità».

Del panico ferroviario in Inghilterra abbiamo già det-to; e non v’è bisogno di riferire altri numerosi esempidel costo sociale di panici finanziari e di guerre: la vi-cenda è, più o meno, sempre la stessa. È evidentech’essi non sono dovuti unicamente all’aumento dellaricchezza, o a cause industriali, ma anche alla scarsaabilità sociale di usare di questa ricchezza, e di distri-buirla con discernimento e oculatezza. Tra l’una e l’altraguerra, tra i panici non ci furono soltanto «ricostruzionieconomiche», ma congiunture dovute all’aumento di in-

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scano, non toglie nulla al fatto che la società in massa cirimette. Il mercante di cannoni non è il solo profittatoredi guerra; la spesa dei cannoni è la più lieve tra tutte lespese di guerra.

Thomas Tooke, il padre della statistica moderna, trat-tando dell’anno 1825 dice:

«Le speculazioni sulle merci procedettero straordina-riamente attive dalla fine del 1824 fino a primaveraavanzata dell’anno seguente. La speculazione sul rialzonon si limitava ad articoli che presentassero una ragioneplausibile per un aumento, fosse pur piccolo; si estende-vano a generi i quali, lungi dal mancare, erano anzi insovrabbondanza. Così il rame, di cui la provvista era inaumento, a paragone d’anni anteriori, crebbe dal 20all’80%. I titoli delle miniere messicane cominciaronoad attirar l’attenzione; i titoli delle miniere del Cile, delBrasile e della Columbia venivano comperati con entu-siasmo; così quelli di compagnie di assicurazione e delgas. Dopo di che, i prezzi ricaddero con rapidità».

Del panico ferroviario in Inghilterra abbiamo già det-to; e non v’è bisogno di riferire altri numerosi esempidel costo sociale di panici finanziari e di guerre: la vi-cenda è, più o meno, sempre la stessa. È evidentech’essi non sono dovuti unicamente all’aumento dellaricchezza, o a cause industriali, ma anche alla scarsaabilità sociale di usare di questa ricchezza, e di distri-buirla con discernimento e oculatezza. Tra l’una e l’altraguerra, tra i panici non ci furono soltanto «ricostruzionieconomiche», ma congiunture dovute all’aumento di in-

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venzioni tecniche. Guerre e panici, terribili e deleterî inquesti ultimi due secoli, poterono impedir solo momen-taneamente il passo all’ascesa della ricchezza mondiale.Sempre e sempre ancora, la meccanica ha salvato ilmondo dai guasti che vi ha prodotto la politica.

Guardiamo ora al quadro del lato umano, e misuria-mo il progresso secondo concetti individuali piuttostoche economici. Nel 1784, un certo dottor Percival inda-gava insieme ad altri scienziati la natura di una febbreendemica a Manchester. L’onest’uomo non viene menoalla sua lealtà verso la scienza medica. «Raccomandia-mo caldamente, per tutti coloro che lavorano nei cotoni-fici, un più lungo riposo a mezzogiorno, e un orario dilavoro più breve in genere: indulgenza che giudichiamoindispensabile sotto i quattordici anni, per la salute at-tuale e per la capacità avvenire del loro lavoro; poichèun’attiva ricreazione nella fanciullezza e nell’adolescen-za è necessaria alla crescita, al vigore e alla buona costi-tuzione del corpo umano. E poichè siamo su questotema, non possiamo esimerci dal richiamare l’attenzionedi coloro che sono i custodi del pubblico benessere, suun altro fatto importante: che la generazione in divenirenon dovrebbe essere privata di occasioni per istruirsi,nell’unica età in cui può esser veramente suscettibile diprogresso».

Nel 1802 Sir Robert Peel, industriale cotoniere mem-bro del Parlamento e fondatore del Corpo d’agenti dipolizia a Londra, ottenne l’approvazione di una leggeper migliorare le condizioni di quei tali apprendisti, che

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venzioni tecniche. Guerre e panici, terribili e deleterî inquesti ultimi due secoli, poterono impedir solo momen-taneamente il passo all’ascesa della ricchezza mondiale.Sempre e sempre ancora, la meccanica ha salvato ilmondo dai guasti che vi ha prodotto la politica.

Guardiamo ora al quadro del lato umano, e misuria-mo il progresso secondo concetti individuali piuttostoche economici. Nel 1784, un certo dottor Percival inda-gava insieme ad altri scienziati la natura di una febbreendemica a Manchester. L’onest’uomo non viene menoalla sua lealtà verso la scienza medica. «Raccomandia-mo caldamente, per tutti coloro che lavorano nei cotoni-fici, un più lungo riposo a mezzogiorno, e un orario dilavoro più breve in genere: indulgenza che giudichiamoindispensabile sotto i quattordici anni, per la salute at-tuale e per la capacità avvenire del loro lavoro; poichèun’attiva ricreazione nella fanciullezza e nell’adolescen-za è necessaria alla crescita, al vigore e alla buona costi-tuzione del corpo umano. E poichè siamo su questotema, non possiamo esimerci dal richiamare l’attenzionedi coloro che sono i custodi del pubblico benessere, suun altro fatto importante: che la generazione in divenirenon dovrebbe essere privata di occasioni per istruirsi,nell’unica età in cui può esser veramente suscettibile diprogresso».

Nel 1802 Sir Robert Peel, industriale cotoniere mem-bro del Parlamento e fondatore del Corpo d’agenti dipolizia a Londra, ottenne l’approvazione di una leggeper migliorare le condizioni di quei tali apprendisti, che

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fin dall’epoca elisabettiana erano rimasti abbandonati ereietti dai filosofi ed economisti di quei tempi, negli in-teressi delle «leggi sul libero scambio» e di «richiesta eofferta», riguardo al lavoro umano. La legge insistevaaffinchè i cotonifici venissero imbiancati a calce ed ae-rati a dovere almeno due volte l’anno; gli apprendistidovevano esser decentemente vestiti e nutriti, con unorario che non superasse le 10, 12 ore giornaliere; esclu-si dal servizio notturno, salvo che in alcuni opifici piùgrandi; e infine, avrebbero beneficiato di una adeguataistruzione elementare e religiosa. Due ispettori eranonominati, onde sorvegliare le industrie tessili in GranBretagna. John Brown scrive nelle Memorie di RobertBlinco: «Il modo atroce con cui venivano trattati centi-naia di migliaia di orfani, cresciuti in orfanotrofi e istitu-ti di carità, assorbiti con impressionante rapidità dai nu-merosi cotonifici; il triste spettacolo offerto da quelliche sopravvivevano a quell’infame esistenza, nel 1812rese necessaria la legge di Sir Robert Peel per l’assisten-za e la protezione dei fanciulli poveri impiegati nei co-tonifici. Difficile sarebbe dare un’idea del completo di-sprezzo, con cui certi «nuovi ricchi», proprietari di gran-di stabilimenti, accolsero un atto che era stato emanatoper frenare la loro crudeltà senza precedenti e il lorosciupio di vite umane».

Nel 1801, il giudice Groose condannava un certoJourvaux a dodici mesi di lavori forzati, per maltratta-menti inflitti ai suoi apprendisti. Rendiamogli onore:egli è una figura giudiziaria unica nel suo tempo.

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fin dall’epoca elisabettiana erano rimasti abbandonati ereietti dai filosofi ed economisti di quei tempi, negli in-teressi delle «leggi sul libero scambio» e di «richiesta eofferta», riguardo al lavoro umano. La legge insistevaaffinchè i cotonifici venissero imbiancati a calce ed ae-rati a dovere almeno due volte l’anno; gli apprendistidovevano esser decentemente vestiti e nutriti, con unorario che non superasse le 10, 12 ore giornaliere; esclu-si dal servizio notturno, salvo che in alcuni opifici piùgrandi; e infine, avrebbero beneficiato di una adeguataistruzione elementare e religiosa. Due ispettori eranonominati, onde sorvegliare le industrie tessili in GranBretagna. John Brown scrive nelle Memorie di RobertBlinco: «Il modo atroce con cui venivano trattati centi-naia di migliaia di orfani, cresciuti in orfanotrofi e istitu-ti di carità, assorbiti con impressionante rapidità dai nu-merosi cotonifici; il triste spettacolo offerto da quelliche sopravvivevano a quell’infame esistenza, nel 1812rese necessaria la legge di Sir Robert Peel per l’assisten-za e la protezione dei fanciulli poveri impiegati nei co-tonifici. Difficile sarebbe dare un’idea del completo di-sprezzo, con cui certi «nuovi ricchi», proprietari di gran-di stabilimenti, accolsero un atto che era stato emanatoper frenare la loro crudeltà senza precedenti e il lorosciupio di vite umane».

Nel 1801, il giudice Groose condannava un certoJourvaux a dodici mesi di lavori forzati, per maltratta-menti inflitti ai suoi apprendisti. Rendiamogli onore:egli è una figura giudiziaria unica nel suo tempo.

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Nel 1808, i salari degli stabilimenti degli artigiani tes-sitori erano la metà di ciò che erano nel 1800; e la colpaveniva data, non senza ragione, al telaio meccanico.

Nel Giornale della Camera dei Comuni del 1812 silegge la famosa «Petizione Bolton». Quei disgraziatitessitori che impiegavano il telaio a mano s’erano affer-rati come all’unico barlume di speranza nel buio, aun’antica legge di Elisabetta, che dava ai magistrati lo-cali facoltà di fissare i salari, riferendosi al costo localedella vita.

Ecco l’umile petizione di questi nostri miseri fratelliaccalcati alle porte di quella ch’era allora la più potentenazione su madre terra:

«I Postulanti hanno appreso con grande interesse,come alla Camera sia stata presentata una legge per re-vocare quella parte dello Statuto Elisabettiano, il qualeautorizza i magistrati a stabilire e fissare nelle rispettivegiurisdizioni i prezzi dei salari agli operai, artigiani, tes-sitori, filatori ecc. I Postulanti hanno sofferto per moltianni riduzioni quasi costanti dei loro compensi, talvoltacon un trascurabile aumento, ma durante gli ultimi 30mesi le riduzioni continuarono, e i salari sono ormai alpunto che il guadagno dei filatori di cotone non eccedela media di cinque scellini la settimana, mentre le altrearti arrivano in genere ai 20-30 scellini. I prezzi esorbi-tanti dei viveri (le guerre napoleoniche avevano aumen-tato il costo della vita, e le leggi sul frumento dei pro-prietari terrieri aveva contribuito all’aumento) d’ognigenere rendono quasi impossibile ai Postulanti di soppe-

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Nel 1808, i salari degli stabilimenti degli artigiani tes-sitori erano la metà di ciò che erano nel 1800; e la colpaveniva data, non senza ragione, al telaio meccanico.

Nel Giornale della Camera dei Comuni del 1812 silegge la famosa «Petizione Bolton». Quei disgraziatitessitori che impiegavano il telaio a mano s’erano affer-rati come all’unico barlume di speranza nel buio, aun’antica legge di Elisabetta, che dava ai magistrati lo-cali facoltà di fissare i salari, riferendosi al costo localedella vita.

Ecco l’umile petizione di questi nostri miseri fratelliaccalcati alle porte di quella ch’era allora la più potentenazione su madre terra:

«I Postulanti hanno appreso con grande interesse,come alla Camera sia stata presentata una legge per re-vocare quella parte dello Statuto Elisabettiano, il qualeautorizza i magistrati a stabilire e fissare nelle rispettivegiurisdizioni i prezzi dei salari agli operai, artigiani, tes-sitori, filatori ecc. I Postulanti hanno sofferto per moltianni riduzioni quasi costanti dei loro compensi, talvoltacon un trascurabile aumento, ma durante gli ultimi 30mesi le riduzioni continuarono, e i salari sono ormai alpunto che il guadagno dei filatori di cotone non eccedela media di cinque scellini la settimana, mentre le altrearti arrivano in genere ai 20-30 scellini. I prezzi esorbi-tanti dei viveri (le guerre napoleoniche avevano aumen-tato il costo della vita, e le leggi sul frumento dei pro-prietari terrieri aveva contribuito all’aumento) d’ognigenere rendono quasi impossibile ai Postulanti di soppe-

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rire all’esistenza per sè e per le loro famiglie, e i parrocisono tanto gravati d’obblighi di carità pubblica, che nonc’è da sperar sussidi da quella parte. Gli altri lavoratoriricevono ugualmente la mercede pattuita, mentre i fila-tori di cotone a lavoro terminato non sanno che cosaavranno, e debbono affidarsi alla buona grazia del loroprincipale».

Nel 1819, dileguata ogni speranza in Parlamento,venne deciso un ricorso per il suffragio universale ma-schile, e stabilita un’adunanza del Consiglio Comunaledella città di Manchester. Il giorno prima dell’adunanza,i podestà e i commissari di Manchester e di Solford fe-cero pubblicare un avviso in cui raccomandavano «aipacifici e ben disposti abitanti della città» di rimanere,entro i limiti del possibile, nelle loro case il giorno se-guente, e di trattenere anche i loro bambini e la servitù.Alle 11 antimeridiane del 16 agosto 1819 il ReverendoW. R. Hany, Giudice Conciliatore e Ministro della Chie-sa, il Rev. Ethelstone, Giudice Conciliatore, e vari altrimagistrati laici si radunarono in casa di un ricco borghe-se in Mount Street, onde godersi lo spettacolo da unbuon posto.

Erano presenti anche il Reggimento di Cavalleria diCheshire, del Principe Reggente, e un distaccamento diReale Artiglieria. Non appena il presidente dei Postulan-ti ebbe esposto i desiderata, il Rev. Ethelstone diede let-tura del sovversivo documento, e cavalleria e polizia ca-ricarono una folla inerme, sciabolando i poveretti comese si fosse trattato di Francesi.

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rire all’esistenza per sè e per le loro famiglie, e i parrocisono tanto gravati d’obblighi di carità pubblica, che nonc’è da sperar sussidi da quella parte. Gli altri lavoratoriricevono ugualmente la mercede pattuita, mentre i fila-tori di cotone a lavoro terminato non sanno che cosaavranno, e debbono affidarsi alla buona grazia del loroprincipale».

Nel 1819, dileguata ogni speranza in Parlamento,venne deciso un ricorso per il suffragio universale ma-schile, e stabilita un’adunanza del Consiglio Comunaledella città di Manchester. Il giorno prima dell’adunanza,i podestà e i commissari di Manchester e di Solford fe-cero pubblicare un avviso in cui raccomandavano «aipacifici e ben disposti abitanti della città» di rimanere,entro i limiti del possibile, nelle loro case il giorno se-guente, e di trattenere anche i loro bambini e la servitù.Alle 11 antimeridiane del 16 agosto 1819 il ReverendoW. R. Hany, Giudice Conciliatore e Ministro della Chie-sa, il Rev. Ethelstone, Giudice Conciliatore, e vari altrimagistrati laici si radunarono in casa di un ricco borghe-se in Mount Street, onde godersi lo spettacolo da unbuon posto.

Erano presenti anche il Reggimento di Cavalleria diCheshire, del Principe Reggente, e un distaccamento diReale Artiglieria. Non appena il presidente dei Postulan-ti ebbe esposto i desiderata, il Rev. Ethelstone diede let-tura del sovversivo documento, e cavalleria e polizia ca-ricarono una folla inerme, sciabolando i poveretti comese si fosse trattato di Francesi.

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Page 393: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

Dieci minuti dopo l’inizio del macello, le strade eranodeserte, fatta eccezione per i morti e i feriti. Undici furo-no i morti; 420 i feriti, tra cui 113 donne.

Per tale atto di barbarie, al Rev. W. R. Hay fu decreta-to uno stipendio di 2000 sterline l’anno! Ecco l’esempiodell’atteggiamento delle classi dirigenti di quel tempoverso le richieste dei lavoratori. Un Ministro del Vange-lo di Pace e di Giustizia veniva pagato in ragione diquasi 200.000 lire l’anno per assassinare i suoi simili!

Tommaso Carlyle, guardando con occhio scuro aglieffetti sociali del panico del 1847, allorchè la Rivoluzio-ne Industriale compieva il suo primo secolo di progres-so, nel primo capitolo del Passato e Presente dice:

«La condizione dell’Inghilterra sulla quale molti li-belli sono ora in corso di stampa, e molti pensieri desti-nati a rimanere inediti fervono in ogni cervello riflessi-vo, a ragione è considerata tra le più gravose e singolariche si siano mai viste al mondo. L’Inghilterra traboccadi ricchezza di svariatissima produzione, di provvigioniper ogni genere di necessità umana; con tutto ciò,l’Inghilterra muore di inazione. Con sempre nuova ge-nerosità il suolo britannico fiorisce e prospera; e ondeg-gia di messi dorate; e brulica di officine, di un comples-so industriale di quindici milioni di operai, a quantosembra i più robusti, abili e volonterosi che il mondoabbia mai conosciuto. E questi uomini sono presenti, illavoro che compierono e i frutti che esso rese sono qui;e le nostre mani ne traboccano; ed ecco come per incan-to una funesta voce continua a comandare: «Non toccate

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Dieci minuti dopo l’inizio del macello, le strade eranodeserte, fatta eccezione per i morti e i feriti. Undici furo-no i morti; 420 i feriti, tra cui 113 donne.

Per tale atto di barbarie, al Rev. W. R. Hay fu decreta-to uno stipendio di 2000 sterline l’anno! Ecco l’esempiodell’atteggiamento delle classi dirigenti di quel tempoverso le richieste dei lavoratori. Un Ministro del Vange-lo di Pace e di Giustizia veniva pagato in ragione diquasi 200.000 lire l’anno per assassinare i suoi simili!

Tommaso Carlyle, guardando con occhio scuro aglieffetti sociali del panico del 1847, allorchè la Rivoluzio-ne Industriale compieva il suo primo secolo di progres-so, nel primo capitolo del Passato e Presente dice:

«La condizione dell’Inghilterra sulla quale molti li-belli sono ora in corso di stampa, e molti pensieri desti-nati a rimanere inediti fervono in ogni cervello riflessi-vo, a ragione è considerata tra le più gravose e singolariche si siano mai viste al mondo. L’Inghilterra traboccadi ricchezza di svariatissima produzione, di provvigioniper ogni genere di necessità umana; con tutto ciò,l’Inghilterra muore di inazione. Con sempre nuova ge-nerosità il suolo britannico fiorisce e prospera; e ondeg-gia di messi dorate; e brulica di officine, di un comples-so industriale di quindici milioni di operai, a quantosembra i più robusti, abili e volonterosi che il mondoabbia mai conosciuto. E questi uomini sono presenti, illavoro che compierono e i frutti che esso rese sono qui;e le nostre mani ne traboccano; ed ecco come per incan-to una funesta voce continua a comandare: «Non toccate

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nulla, lavoratori, padroni lavoratori, padroni oziosi; nes-suno di voi deve toccarvi, nessuno deve profittarne;questi sono frutti incantati». Sui disgraziati lavoratoritale comando cade per primo nella sua più dura forma;ma cade anche sui ricchi padroni. Nè i ricchi padronioziosi, nè i più ricchi nè i più insigni potranno sfuggirvi,ma tutti dovranno piegarvisi, o saranno «poveri» nelsenso letterale della parola, o in un senso ben altrimentifatale.

«Per chi dunque questa dovizia d’Inghilterra è dovi-zia? Chi è dunque che benedice, che rende più felice,più saggio, più bello, per un qualsiasi verso migliore?Chi è riuscito a impadronirsene, a farla operare e rende-re, non quale un falso ma quale un fedel servitore; a ri-cavarne un vero beneficio? Nessuno, finora. Noi posse-diamo ricchezze maggiori di quanto altra nazione abbiatratto mai dai propri beni; e meno vantaggio di chiunquealtro al mondo ne godiamo. Circondato da una splendi-da pletorica abbondanza il popolo perisce; entro muradorate, e con i granai ripieni, nessuno si sente al sicuronè soddisfatto.

«Mida anelava all’oro. E lo ebbe, tanto che ogni cosada lui toccata si mutava in oro. Eppure, con le sue lun-ghe orecchie, egli non stava meglio di prima».

Un altro testimonio contemporaneo citeremo ancora,a provare che la società in massa non fu particolarmenteprudente nell’applicazione pratica delle proprie conqui-ste tecniche nella Rivoluzione Industriale. Uno degli uo-mini più notevoli, sebbene poco noto nel XIX secolo, fu

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nulla, lavoratori, padroni lavoratori, padroni oziosi; nes-suno di voi deve toccarvi, nessuno deve profittarne;questi sono frutti incantati». Sui disgraziati lavoratoritale comando cade per primo nella sua più dura forma;ma cade anche sui ricchi padroni. Nè i ricchi padronioziosi, nè i più ricchi nè i più insigni potranno sfuggirvi,ma tutti dovranno piegarvisi, o saranno «poveri» nelsenso letterale della parola, o in un senso ben altrimentifatale.

«Per chi dunque questa dovizia d’Inghilterra è dovi-zia? Chi è dunque che benedice, che rende più felice,più saggio, più bello, per un qualsiasi verso migliore?Chi è riuscito a impadronirsene, a farla operare e rende-re, non quale un falso ma quale un fedel servitore; a ri-cavarne un vero beneficio? Nessuno, finora. Noi posse-diamo ricchezze maggiori di quanto altra nazione abbiatratto mai dai propri beni; e meno vantaggio di chiunquealtro al mondo ne godiamo. Circondato da una splendi-da pletorica abbondanza il popolo perisce; entro muradorate, e con i granai ripieni, nessuno si sente al sicuronè soddisfatto.

«Mida anelava all’oro. E lo ebbe, tanto che ogni cosada lui toccata si mutava in oro. Eppure, con le sue lun-ghe orecchie, egli non stava meglio di prima».

Un altro testimonio contemporaneo citeremo ancora,a provare che la società in massa non fu particolarmenteprudente nell’applicazione pratica delle proprie conqui-ste tecniche nella Rivoluzione Industriale. Uno degli uo-mini più notevoli, sebbene poco noto nel XIX secolo, fu

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il naturalista Wallace, che con Darwin spartisce il meritodella scoperta delle leggi sulla selezione naturale. Diver-samente da Darwin, che si trovava in fortunate condi-zioni, Wallace si guadagnava la vita raccogliendo esem-plari scientifici nelle giungle tropicali: nella Valle delRio delle Amazzoni, e in seguito e con maggior famanell’Arcipelago Malese. Osservatore attento ed esperto,egli non era per nulla cieco verso le azioni di quell’emi-nente tra i primati, il più arduo a interpretarsi, che eral’Homo Sapiens in persona. Nel 1816, egli pubblicaval’Arcipelago Malese, versione popolare del suo diario:sei anni dopo il suo ritorno dalle selvaggie isoledell’Oceano Indiano; dopo aver scritto ventiquattro sag-gi scientifici, e aiutato a ordinare e a classificare125.000 esemplari di animali, piante, conchiglie e insettiprima di poter aver la libertà di dedicarsi a compitimeno poderosi. Era ritornato a un’Inghilterra più stra-niera d’ogni selvaggia isola su cui avesse mai pòsto pie-de – più straniera e tremenda. Nel suo diario, egli de-scrive un mercato nell’isola di Aru, nell’anno 1857:

«Uno dei fatti più sorprendenti ad Aru era lo straordi-nario buon mercato di tutti gli articoli di manifattura eu-ropea e indigena. Noi ci trovavamo a 2000 miglia oltreSingapore e Batavia, che sono grandi empori dell’Estre-mo Oriente; in un luogo non frequentato dai commer-cianti europei e ad essi quasi ignoto, dove tutto arrivavadi seconda o terza mano e spesso anche più. Eppure, sitrovavano calicò inglesi e cotoni americani a 83 scellini(il prezzo doveva essere per una pezza di 23 yards, circa

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il naturalista Wallace, che con Darwin spartisce il meritodella scoperta delle leggi sulla selezione naturale. Diver-samente da Darwin, che si trovava in fortunate condi-zioni, Wallace si guadagnava la vita raccogliendo esem-plari scientifici nelle giungle tropicali: nella Valle delRio delle Amazzoni, e in seguito e con maggior famanell’Arcipelago Malese. Osservatore attento ed esperto,egli non era per nulla cieco verso le azioni di quell’emi-nente tra i primati, il più arduo a interpretarsi, che eral’Homo Sapiens in persona. Nel 1816, egli pubblicaval’Arcipelago Malese, versione popolare del suo diario:sei anni dopo il suo ritorno dalle selvaggie isoledell’Oceano Indiano; dopo aver scritto ventiquattro sag-gi scientifici, e aiutato a ordinare e a classificare125.000 esemplari di animali, piante, conchiglie e insettiprima di poter aver la libertà di dedicarsi a compitimeno poderosi. Era ritornato a un’Inghilterra più stra-niera d’ogni selvaggia isola su cui avesse mai pòsto pie-de – più straniera e tremenda. Nel suo diario, egli de-scrive un mercato nell’isola di Aru, nell’anno 1857:

«Uno dei fatti più sorprendenti ad Aru era lo straordi-nario buon mercato di tutti gli articoli di manifattura eu-ropea e indigena. Noi ci trovavamo a 2000 miglia oltreSingapore e Batavia, che sono grandi empori dell’Estre-mo Oriente; in un luogo non frequentato dai commer-cianti europei e ad essi quasi ignoto, dove tutto arrivavadi seconda o terza mano e spesso anche più. Eppure, sitrovavano calicò inglesi e cotoni americani a 83 scellini(il prezzo doveva essere per una pezza di 23 yards, circa

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20 metri); moschetti a 15 scellini, forbici e coltelli tede-schi a tre pence e mezzo il pezzo, e altre coltellerie, co-tonerie e vasellami nelle medesime proporzioni. Gli in-digeni di questo luogo così fuor di mano comperavanotutte queste cose per lo stesso valor monetario, o press’apoco, che i nostri operai, ma in realtà assai più a buonmercato, chè il guadagno di poche ore di lavoro rendepossibile a questi selvaggi di procurarsi in abbondanzaprodotti che per essi sono un lusso, mentre per l’europeosono necessità di vita.

«Questa facilità di vita non rende nè più agiato nè piùfelice il barbaro; al contrario, ha su di lui un effetto de-leterio. Solo lo stimolo della necessità lo costringe a la-vorare; se il ferro fosse prezioso quanto l’argento e il ca-licò costoso quanto il raso, gli effetti sarebbero beneficiper lui. Così, egli ha maggior numero di ore d’ozio; e lasua provvista di tabacco non gli viene mai meno, ed eglipuò inebriarsi più spesso e completamente; poichè l’Arùdisdegna l’ubriachezza a metà; un boccale di arzentenon è per lui che un leggero stimolo, e ha bisogno di ungallone almeno d’una bevanda alcoolica, prima di di-chiararsi soddisfatto.

«Questo stato di cose induce a riflessioni non troppopiacevoli. La metà almeno delle vaste moltitudini chevivono allo stato primitivo, alle quali i nostri gigante-schi sistemi industriali e capitalistici e la nostra intensaconcorrenza impongono i prodotti dei nostri telai e delleofficine, non avrebbero certo nulla da perdere fisica-mente, e tutto avrebbero da guadagnare moralmente,

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20 metri); moschetti a 15 scellini, forbici e coltelli tede-schi a tre pence e mezzo il pezzo, e altre coltellerie, co-tonerie e vasellami nelle medesime proporzioni. Gli in-digeni di questo luogo così fuor di mano comperavanotutte queste cose per lo stesso valor monetario, o press’apoco, che i nostri operai, ma in realtà assai più a buonmercato, chè il guadagno di poche ore di lavoro rendepossibile a questi selvaggi di procurarsi in abbondanzaprodotti che per essi sono un lusso, mentre per l’europeosono necessità di vita.

«Questa facilità di vita non rende nè più agiato nè piùfelice il barbaro; al contrario, ha su di lui un effetto de-leterio. Solo lo stimolo della necessità lo costringe a la-vorare; se il ferro fosse prezioso quanto l’argento e il ca-licò costoso quanto il raso, gli effetti sarebbero beneficiper lui. Così, egli ha maggior numero di ore d’ozio; e lasua provvista di tabacco non gli viene mai meno, ed eglipuò inebriarsi più spesso e completamente; poichè l’Arùdisdegna l’ubriachezza a metà; un boccale di arzentenon è per lui che un leggero stimolo, e ha bisogno di ungallone almeno d’una bevanda alcoolica, prima di di-chiararsi soddisfatto.

«Questo stato di cose induce a riflessioni non troppopiacevoli. La metà almeno delle vaste moltitudini chevivono allo stato primitivo, alle quali i nostri gigante-schi sistemi industriali e capitalistici e la nostra intensaconcorrenza impongono i prodotti dei nostri telai e delleofficine, non avrebbero certo nulla da perdere fisica-mente, e tutto avrebbero da guadagnare moralmente,

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ove gli articoli di cui noi li forniamo raddoppiassero otriplicassero il loro prezzo attuale. Se al tempo stessoanche soltanto una parte della differenza realizzata nelguadagno potesse trovar la via alle tasche dei lavoratoriche collaborano a produrre quegli articoli, migliaia diesseri umani verrebbero sollevati dal bisogno al benes-sere, dall’indigenza fisica e morale alla salute; e dimi-nuirebbero così anche le statistiche della delinquenza. Ècerto ben difficile per un Inglese, non contemplar conorgoglio queste nostre gigantesche imprese industriali ecommerciali; e non pensare, al tempo stesso, a espedien-ti che ne rendano sempre più rapido il loro progresso,sia diminuendo il costo di produzione degli articoli, siascoprendo nuovi mercati da sfruttare.

«Se tuttavia formulassimo la domanda che tanto spes-so sale alle labbra dei fedeli delle scienze meno popolari– cui bono? – si troverebbe che la risposta è assai più ar-dua di quanto non s’immagini. I vantaggi, anche ai po-chi che li coltivano, sembrerebbero d’ordine piuttostomateriale; mentre i numerosi danni intellettuali e moraliche risultano dalla fatica fisica del lavoro, dai bassi sala-ri, da abitazioni malsane e insufficienti, da occupazionimonotone e unilaterali, a paragone di un numero forsealtrettanto grande di vantaggi reali, dimostrano una pro-porzione di mali tanto gravi, da indurre financo gli am-miratori più convinti delle nostre industrie a dubitar del-la opportunità di ulteriori sviluppi. Si dirà che l’ingra-naggio non si può arrestare; che il capitale deve essereimpiegato; che è necessario dar lavoro alla popolazione;

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ove gli articoli di cui noi li forniamo raddoppiassero otriplicassero il loro prezzo attuale. Se al tempo stessoanche soltanto una parte della differenza realizzata nelguadagno potesse trovar la via alle tasche dei lavoratoriche collaborano a produrre quegli articoli, migliaia diesseri umani verrebbero sollevati dal bisogno al benes-sere, dall’indigenza fisica e morale alla salute; e dimi-nuirebbero così anche le statistiche della delinquenza. Ècerto ben difficile per un Inglese, non contemplar conorgoglio queste nostre gigantesche imprese industriali ecommerciali; e non pensare, al tempo stesso, a espedien-ti che ne rendano sempre più rapido il loro progresso,sia diminuendo il costo di produzione degli articoli, siascoprendo nuovi mercati da sfruttare.

«Se tuttavia formulassimo la domanda che tanto spes-so sale alle labbra dei fedeli delle scienze meno popolari– cui bono? – si troverebbe che la risposta è assai più ar-dua di quanto non s’immagini. I vantaggi, anche ai po-chi che li coltivano, sembrerebbero d’ordine piuttostomateriale; mentre i numerosi danni intellettuali e moraliche risultano dalla fatica fisica del lavoro, dai bassi sala-ri, da abitazioni malsane e insufficienti, da occupazionimonotone e unilaterali, a paragone di un numero forsealtrettanto grande di vantaggi reali, dimostrano una pro-porzione di mali tanto gravi, da indurre financo gli am-miratori più convinti delle nostre industrie a dubitar del-la opportunità di ulteriori sviluppi. Si dirà che l’ingra-naggio non si può arrestare; che il capitale deve essereimpiegato; che è necessario dar lavoro alla popolazione;

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che basta un solo momento di esitazione per farci supe-rare da altre nazioni che sono ugualmente all’opera; cheun arresto significherebbe un disastro nazionale. Qual-cuna di queste ragioni può esser vera; altre sono fallaci.È, in ogni modo, un problema assai difficile da risolve-re; e noi siamo proclivi a credere che è questa difficoltàappunto, la quale induce gli uomini a concludere chequello stato di cose necessario e inalterabile debba esse-re giusto; e che i suoi benefici abbiano da essere mag-giori dei suoi danni. Così o press’a poco la pensavanogli avvocati americani della schiavitù; nè vedevano checi fosse una via d’uscita molto facile e pratica.

«Il fatto che ci ha indotto a queste considerazioni ècertamente degno di nota: che in uno dei più remoti an-goli della terra, dei poveri selvaggi possano comperarecerte stoffe a miglior mercato che non gli abitanti delpaese di produzione; che i figli dei tessitori debbano tre-mar di freddo a un vento invernale, perchè il loro padrenon può comperare articoli che sono invece alla portatadelle borse d’indigeni selvaggi d’un paese tropicale,dove le stoffe sono un puro lusso e ornamento; ciò do-vrebbe indurci a riflettere su un sistema che ha condottoa risultati tali, sistema che gode della nostra incondizio-nata ammirazione; dovrebbe invogliarci a, guardare conun certo sospetto sui passi da gigante che questo sistemava facendo. Non dobbiamo dimenticare poi che il nostrocommercio non è un prodotto puramente naturale. È sta-to nutrito di legislazioni, fertilizzato per mezzo dellaprotezione di flotta ed esercito. Già abbiamo messo in

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che basta un solo momento di esitazione per farci supe-rare da altre nazioni che sono ugualmente all’opera; cheun arresto significherebbe un disastro nazionale. Qual-cuna di queste ragioni può esser vera; altre sono fallaci.È, in ogni modo, un problema assai difficile da risolve-re; e noi siamo proclivi a credere che è questa difficoltàappunto, la quale induce gli uomini a concludere chequello stato di cose necessario e inalterabile debba esse-re giusto; e che i suoi benefici abbiano da essere mag-giori dei suoi danni. Così o press’a poco la pensavanogli avvocati americani della schiavitù; nè vedevano checi fosse una via d’uscita molto facile e pratica.

«Il fatto che ci ha indotto a queste considerazioni ècertamente degno di nota: che in uno dei più remoti an-goli della terra, dei poveri selvaggi possano comperarecerte stoffe a miglior mercato che non gli abitanti delpaese di produzione; che i figli dei tessitori debbano tre-mar di freddo a un vento invernale, perchè il loro padrenon può comperare articoli che sono invece alla portatadelle borse d’indigeni selvaggi d’un paese tropicale,dove le stoffe sono un puro lusso e ornamento; ciò do-vrebbe indurci a riflettere su un sistema che ha condottoa risultati tali, sistema che gode della nostra incondizio-nata ammirazione; dovrebbe invogliarci a, guardare conun certo sospetto sui passi da gigante che questo sistemava facendo. Non dobbiamo dimenticare poi che il nostrocommercio non è un prodotto puramente naturale. È sta-to nutrito di legislazioni, fertilizzato per mezzo dellaprotezione di flotta ed esercito. Già abbiamo messo in

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dubbio la saggezza e la giustizia di tale politica; unavolta poi che cominciamo a vedere come una ulterioreespansione delle nostre manifatture e del nostro com-mercio potrebbe essere un male, il rimedio non dovreb-be essere lontano».

Non c’è necessità di moltiplicare i particolari di que-ste tristi testimonianze. Il divario tra invenzione mecca-nica e invenzione sociale è troppo evidente, e parla dasè. Le proteste d’uomini coraggiosi, sorte in passato,sono tanto vere e forse altrettanto neglette oggi che ailoro tempi. Quei miglioramenti che si verificarono nellecondizioni materiali di tutte le zone sociali senza privi-legi o fatte segno a gravi torti furono in massima parte ilrisultato di invenzioni meccaniche piuttosto che sociali.Oggi il mondo offre lo spettacolo di una confondente se-rie di esperimenti sociali divergenti, ognuno dei qualicerca di conseguire un particolare vantaggio entro i li-miti d’una data area nazionale; e tutti più o meno con-fondono la ricchezza in termini di prezzo piuttosto cheper equazioni di valore.

Il disagio economico diffuso nel mondo intero nonpuò essere curato e guarito in modo definitivo conl’applicazione di misure locali temporanee. In un mondonel quale la forza che produce la ricchezza tende a uncomune livello di efficienza meccanica, nè ricchezza nèprosperità, nè la mancanza dell’una e dell’altra potrannoesser ristrette entro limiti nazionali, nemmeno conl’impiego di mezzi politici. Se questa nostra età signifi-ca qualcosa, se la potenza materiale accumulata e in

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dubbio la saggezza e la giustizia di tale politica; unavolta poi che cominciamo a vedere come una ulterioreespansione delle nostre manifatture e del nostro com-mercio potrebbe essere un male, il rimedio non dovreb-be essere lontano».

Non c’è necessità di moltiplicare i particolari di que-ste tristi testimonianze. Il divario tra invenzione mecca-nica e invenzione sociale è troppo evidente, e parla dasè. Le proteste d’uomini coraggiosi, sorte in passato,sono tanto vere e forse altrettanto neglette oggi che ailoro tempi. Quei miglioramenti che si verificarono nellecondizioni materiali di tutte le zone sociali senza privi-legi o fatte segno a gravi torti furono in massima parte ilrisultato di invenzioni meccaniche piuttosto che sociali.Oggi il mondo offre lo spettacolo di una confondente se-rie di esperimenti sociali divergenti, ognuno dei qualicerca di conseguire un particolare vantaggio entro i li-miti d’una data area nazionale; e tutti più o meno con-fondono la ricchezza in termini di prezzo piuttosto cheper equazioni di valore.

Il disagio economico diffuso nel mondo intero nonpuò essere curato e guarito in modo definitivo conl’applicazione di misure locali temporanee. In un mondonel quale la forza che produce la ricchezza tende a uncomune livello di efficienza meccanica, nè ricchezza nèprosperità, nè la mancanza dell’una e dell’altra potrannoesser ristrette entro limiti nazionali, nemmeno conl’impiego di mezzi politici. Se questa nostra età signifi-ca qualcosa, se la potenza materiale accumulata e in

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continuo divenire della società in massa deve significarealtro che confusioni, questa potenza materiale deveesplicarsi in un modo per cui la ricchezza attuale e po-tenziale sia sempre più accessibile a tutti. Sviare questaenergia verso le guerre, sperperarla in un sordido corro-sivo ozio, tentare di frenarla per mezzo di forme politi-che artificiali, vuol dire aprire le porte al disastro. Inol-tre, essa è follia, tre volte follia: in tutta la lunga storiadell’uomo, mai, neppure una volta egli ha rifiutato diaccettare l’arnese migliore, mai, neppure una volta haabbandonato il metodo più semplice e pratico per un al-tro, che aveva l’unico pregio di assimilarsi meglio a unqualche sistema sociale.

Malgrado un generale progresso nelle condizioni ma-teriali, e di fronte a un incredibile aumento di potenzameccanica, le condizioni delle due nazioni che sembre-rebbero le più favorite dalla sorte su questa terra fannovergogna a ogni acume politico, a ogni intelligenza eco-nomica. Durante l’ultimo decennio, tanto la Gran Breta-gna quanto gli Stati Uniti hanno dedicato non pochisforzi politici per migliorare le condizioni sociali gene-rali. Eppure, di fronte a essi il Presidente degli StatiUniti, anche dopo la «ricostruzione nazionale», ha so-lennemente dichiarato che nella nazione più ricca dellaterra, la nazione più libera dalla paura e dal peso dellaguerra, con la più grande capacità di produzione mecca-nica, provvista di illimitate materie prime, in questa na-zione un terzo della popolazione è in cattive condizionifisiche, inadeguatamente provvista di indumenti e abita-

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continuo divenire della società in massa deve significarealtro che confusioni, questa potenza materiale deveesplicarsi in un modo per cui la ricchezza attuale e po-tenziale sia sempre più accessibile a tutti. Sviare questaenergia verso le guerre, sperperarla in un sordido corro-sivo ozio, tentare di frenarla per mezzo di forme politi-che artificiali, vuol dire aprire le porte al disastro. Inol-tre, essa è follia, tre volte follia: in tutta la lunga storiadell’uomo, mai, neppure una volta egli ha rifiutato diaccettare l’arnese migliore, mai, neppure una volta haabbandonato il metodo più semplice e pratico per un al-tro, che aveva l’unico pregio di assimilarsi meglio a unqualche sistema sociale.

Malgrado un generale progresso nelle condizioni ma-teriali, e di fronte a un incredibile aumento di potenzameccanica, le condizioni delle due nazioni che sembre-rebbero le più favorite dalla sorte su questa terra fannovergogna a ogni acume politico, a ogni intelligenza eco-nomica. Durante l’ultimo decennio, tanto la Gran Breta-gna quanto gli Stati Uniti hanno dedicato non pochisforzi politici per migliorare le condizioni sociali gene-rali. Eppure, di fronte a essi il Presidente degli StatiUniti, anche dopo la «ricostruzione nazionale», ha so-lennemente dichiarato che nella nazione più ricca dellaterra, la nazione più libera dalla paura e dal peso dellaguerra, con la più grande capacità di produzione mecca-nica, provvista di illimitate materie prime, in questa na-zione un terzo della popolazione è in cattive condizionifisiche, inadeguatamente provvista di indumenti e abita-

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zioni e proporzionatamente mancante di mezzi educati-vi, igienici e ricreativi per il popolo. Un importanteesponente del partito conservatore in Inghilterra ha fattouna constatazione press’a poco simile riguardo alla metàdella popolazione della Gran Bretagna. Quali sarannodunque le condizioni di altre nazioni europee industrial-mente meno sviluppate, o addirittura di quei paesidell’Asia che socialmente e industrialmente si trovanoalla retroguardia? E non c’è dunque altra risposta a que-sti problemi, fuorchè la guerra o la preparazione allaguerra? Di quale diritto esiste l’autorità, se questo statodi cose non può essere modificato e corretto per autori-tà?

L’Estremo Oriente fu sempre un «problema», daitempi di Alessandro il Macedone fino alla recente rottu-ra tra Arabi ed Ebrei. Al fondo della questione c’è sem-pre il medesimo vecchio problema: il desiderio, l’aspira-zione di campi arabili in quella zona che il dottor Brea-sted così opportunamente chiama «la fertile mezzalu-na».

In un recente studio pubblicato sull’Atlantic, Artur P.Chew discute il problema in questi termini:

«Spesse volte le regioni fertili si mutano in desertoper il crollo piuttosto che per il mancato sviluppo di me-todi sociali. Come si sa, la maggior penisola araba (laSiria, la Mesopotamia o l’Iran, l’Armenia e certe partidell’Asia Minore) contiene reliquie architettoniche divaria specie, le quali provano come queste regioni fos-sero un tempo densamente popolate. Paesi che fino

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zioni e proporzionatamente mancante di mezzi educati-vi, igienici e ricreativi per il popolo. Un importanteesponente del partito conservatore in Inghilterra ha fattouna constatazione press’a poco simile riguardo alla metàdella popolazione della Gran Bretagna. Quali sarannodunque le condizioni di altre nazioni europee industrial-mente meno sviluppate, o addirittura di quei paesidell’Asia che socialmente e industrialmente si trovanoalla retroguardia? E non c’è dunque altra risposta a que-sti problemi, fuorchè la guerra o la preparazione allaguerra? Di quale diritto esiste l’autorità, se questo statodi cose non può essere modificato e corretto per autori-tà?

L’Estremo Oriente fu sempre un «problema», daitempi di Alessandro il Macedone fino alla recente rottu-ra tra Arabi ed Ebrei. Al fondo della questione c’è sem-pre il medesimo vecchio problema: il desiderio, l’aspira-zione di campi arabili in quella zona che il dottor Brea-sted così opportunamente chiama «la fertile mezzalu-na».

In un recente studio pubblicato sull’Atlantic, Artur P.Chew discute il problema in questi termini:

«Spesse volte le regioni fertili si mutano in desertoper il crollo piuttosto che per il mancato sviluppo di me-todi sociali. Come si sa, la maggior penisola araba (laSiria, la Mesopotamia o l’Iran, l’Armenia e certe partidell’Asia Minore) contiene reliquie architettoniche divaria specie, le quali provano come queste regioni fos-sero un tempo densamente popolate. Paesi che fino

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all’Era Cristiana nutrivano milioni di abitanti sono oradesolati e sterili. Le loro foreste sono scomparse, il suo-lo un tempo fertile è seppellito sotto la sabbia. È indi-scutibile che il Medio Oriente dev’essere stato un tempostraordinariamente produttivo; la sola Asia Minore van-tava circa 250 grandi città. Immensi eserciti in marciatrovavano da vivere, rubando e saccheggiando terre cheoggigiorno darebbero cibo appena per qualche branco dicapre. La maggior parte delle autorità si mostra riluttan-te a credere che il clima abbia mutato nel corso dellastoria. Per esempio, il professor D. S. Sanford, dell’Uni-versità di Oxford, in una lettera al direttore del «Servi-zio di Conservazione Agricola degli Stati Uniti», dichia-ra: «Io sono convinto che in tempi prossimi all’Era Cri-stiana debbano esserci stati pochissimi veri mutamentidi clima, mentre vi furono mutamenti locali di vitale im-portanza. D’altra parte vediamo come l’uomo riscatti aldeserto vastissime zone, per poi lasciarle decadere». Eancora: «Le civiltà del Medio Oriente erano storicamen-te in pieno fiore ieri appena, eppure non hanno quasi la-sciato traccia di sè. Antiochia era all’apice della sua glo-ria nel 380 D. C.; ora è lo spettro di una città, che occu-pa a mala pena un quarto dell’area originale...». Era ilcontrollo dell’Eufrate e del Tigri che dava modo ai nu-merosi abitanti di espandersi in una prosperosa ed estesaciviltà, e di far fronte al deserto. Ora il controllo di vasteopere d’irrigazione non è più un’impresa individuale macollettiva. Coloro che studiarono il Medio Oriente dalpunto di vista agricolo vennero alla conclusione che

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all’Era Cristiana nutrivano milioni di abitanti sono oradesolati e sterili. Le loro foreste sono scomparse, il suo-lo un tempo fertile è seppellito sotto la sabbia. È indi-scutibile che il Medio Oriente dev’essere stato un tempostraordinariamente produttivo; la sola Asia Minore van-tava circa 250 grandi città. Immensi eserciti in marciatrovavano da vivere, rubando e saccheggiando terre cheoggigiorno darebbero cibo appena per qualche branco dicapre. La maggior parte delle autorità si mostra riluttan-te a credere che il clima abbia mutato nel corso dellastoria. Per esempio, il professor D. S. Sanford, dell’Uni-versità di Oxford, in una lettera al direttore del «Servi-zio di Conservazione Agricola degli Stati Uniti», dichia-ra: «Io sono convinto che in tempi prossimi all’Era Cri-stiana debbano esserci stati pochissimi veri mutamentidi clima, mentre vi furono mutamenti locali di vitale im-portanza. D’altra parte vediamo come l’uomo riscatti aldeserto vastissime zone, per poi lasciarle decadere». Eancora: «Le civiltà del Medio Oriente erano storicamen-te in pieno fiore ieri appena, eppure non hanno quasi la-sciato traccia di sè. Antiochia era all’apice della sua glo-ria nel 380 D. C.; ora è lo spettro di una città, che occu-pa a mala pena un quarto dell’area originale...». Era ilcontrollo dell’Eufrate e del Tigri che dava modo ai nu-merosi abitanti di espandersi in una prosperosa ed estesaciviltà, e di far fronte al deserto. Ora il controllo di vasteopere d’irrigazione non è più un’impresa individuale macollettiva. Coloro che studiarono il Medio Oriente dalpunto di vista agricolo vennero alla conclusione che

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l’agricoltura poteva nuovamente rifiorire su quelle terreal solo patto che venissero rinstaurati gli antichi sistemid’irrigazione. Per quale causa quelle antiche opere anda-rono neglette e distrutte? Indubbiamente non per causeinterne ma esterne; non per ignoranza dei principî dicontrollo delle inondazioni ma per le guerre, le invasio-ni e la paralisi sociale che ne risultò. Solo quando la po-tenza degli stati crollò scomparirono le opere d’irriga-zione, le dighe, i serbatoi e gli acquedotti; solo allora imonti perdettero le loro foreste. È degno di nota il fattoche avanti l’Era Cristiana gli eserciti nemici rispettava-no le foreste e le opere d’irrigazione, anche se distrug-gevano le messi e i raccolti. Tanto l’Eufrate come il Ti-gri avevano terribili inondazioni le quali, diversamenteda quelle del Nilo, erano irregolari; e qualsiasi conqui-statore il quale volesse ricavare poi un vantaggio dalleproprie conquiste, doveva lasciare intatte le opere d’irri-gazione e le foreste, a rischio di non avere più raccolti.Oltre gli elaborati sistemi d’irrigazione, l’Asia Minore,la Mesopotamia, la Siria, la Persia avevano boschi ric-chissimi, pascoli verdeggianti e fertili frutteti. Ma dopol’Era Cristiana il rispetto per i fiumi e le foreste scom-parve; e i nuovi conquistatori ridussero il paese a un de-serto.

«Furono poi i Nomadi del deserto, seguìti dai Crocia-ti, a menare il colpo fatale. L’agricoltura aveva fioritonell’Asia Minore fino ad allora. Ma dopo la caduta diRoma, le orde di Maometto vi portarono la devastazio-ne. Trascurando l’agricoltura, non si fecero scrupolo di

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l’agricoltura poteva nuovamente rifiorire su quelle terreal solo patto che venissero rinstaurati gli antichi sistemid’irrigazione. Per quale causa quelle antiche opere anda-rono neglette e distrutte? Indubbiamente non per causeinterne ma esterne; non per ignoranza dei principî dicontrollo delle inondazioni ma per le guerre, le invasio-ni e la paralisi sociale che ne risultò. Solo quando la po-tenza degli stati crollò scomparirono le opere d’irriga-zione, le dighe, i serbatoi e gli acquedotti; solo allora imonti perdettero le loro foreste. È degno di nota il fattoche avanti l’Era Cristiana gli eserciti nemici rispettava-no le foreste e le opere d’irrigazione, anche se distrug-gevano le messi e i raccolti. Tanto l’Eufrate come il Ti-gri avevano terribili inondazioni le quali, diversamenteda quelle del Nilo, erano irregolari; e qualsiasi conqui-statore il quale volesse ricavare poi un vantaggio dalleproprie conquiste, doveva lasciare intatte le opere d’irri-gazione e le foreste, a rischio di non avere più raccolti.Oltre gli elaborati sistemi d’irrigazione, l’Asia Minore,la Mesopotamia, la Siria, la Persia avevano boschi ric-chissimi, pascoli verdeggianti e fertili frutteti. Ma dopol’Era Cristiana il rispetto per i fiumi e le foreste scom-parve; e i nuovi conquistatori ridussero il paese a un de-serto.

«Furono poi i Nomadi del deserto, seguìti dai Crocia-ti, a menare il colpo fatale. L’agricoltura aveva fioritonell’Asia Minore fino ad allora. Ma dopo la caduta diRoma, le orde di Maometto vi portarono la devastazio-ne. Trascurando l’agricoltura, non si fecero scrupolo di

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ucciderla. Vennero poi i Crociati, i quali implacabilmen-te distrussero le foreste e abbatterono financo gli uliviper le loro macchine di guerra. Ai Crociati seguì la po-tenza turca; i Turchi non erano mai stati agricoltori, ecompletarono quindi l’opera di distruzione. Roma avevacostruito una strada nel cuore stesso dell’Asia Minore;sotto i Turchi questa sparì e il commercio cessò virtual-mente. Roma, pur avendo altre fonti di rifornimenti,aveva conservato l’agricoltura in quelle regioni. I Cro-ciati erano ospiti transitorî, e i Turchi non si sognarononeppure di rinstaurare sistemi d’irrigazione. Svanì ilmotivo, e con esso la potenza sociale di mantenere vival’agricoltura; e le sabbie del deserto coprirono laterra...».

Quale sfida più diretta alla cultura meccanicadell’Europa Occidentale di questo deserto creatodall’uomo? E pensare che immensi doni il mondo avevaricevuto da quelle regioni, che guerra e ignoranza resti-tuirono alle sabbie di amarezza. Erano la patria dellavite e dell’ulivo, di moltissimi fiori e alberi da frutta;erano la seconda patria almeno del grano, dell’orzo e dimolti vegetali commestibili. Da esse, tanto l’Occidenteche l’Estremo Oriente avevano avuto altri e inestimabilidoni nel campo dell’arte e della tecnica, della filosofia,e della religione. Oggi la diplomazia europea ha scaglia-to gli Arabi e gli Ebrei in un aspro conflitto; gli uominicombattono per pochi miseri acri di suolo coltivabile, erinnovano i fasti di quell’antica lotta tra i piantatori disemi e coloro che addomesticarono gli armenti. La guer-

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ucciderla. Vennero poi i Crociati, i quali implacabilmen-te distrussero le foreste e abbatterono financo gli uliviper le loro macchine di guerra. Ai Crociati seguì la po-tenza turca; i Turchi non erano mai stati agricoltori, ecompletarono quindi l’opera di distruzione. Roma avevacostruito una strada nel cuore stesso dell’Asia Minore;sotto i Turchi questa sparì e il commercio cessò virtual-mente. Roma, pur avendo altre fonti di rifornimenti,aveva conservato l’agricoltura in quelle regioni. I Cro-ciati erano ospiti transitorî, e i Turchi non si sognarononeppure di rinstaurare sistemi d’irrigazione. Svanì ilmotivo, e con esso la potenza sociale di mantenere vival’agricoltura; e le sabbie del deserto coprirono laterra...».

Quale sfida più diretta alla cultura meccanicadell’Europa Occidentale di questo deserto creatodall’uomo? E pensare che immensi doni il mondo avevaricevuto da quelle regioni, che guerra e ignoranza resti-tuirono alle sabbie di amarezza. Erano la patria dellavite e dell’ulivo, di moltissimi fiori e alberi da frutta;erano la seconda patria almeno del grano, dell’orzo e dimolti vegetali commestibili. Da esse, tanto l’Occidenteche l’Estremo Oriente avevano avuto altri e inestimabilidoni nel campo dell’arte e della tecnica, della filosofia,e della religione. Oggi la diplomazia europea ha scaglia-to gli Arabi e gli Ebrei in un aspro conflitto; gli uominicombattono per pochi miseri acri di suolo coltivabile, erinnovano i fasti di quell’antica lotta tra i piantatori disemi e coloro che addomesticarono gli armenti. La guer-

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ra sembra l’unica soluzione. Se la guerra sarà, risulteràpiù costosa e renderà meno che non una soluzionescientifica del problema.

Entro l’ambito del Vicino Oriente, 4000 anni di guer-re hanno lasciato il loro terribile marchio su una delleprime civiltà della terra, la madre, anzi, della civiltà mo-derna. Con i mezzi che l’Europa d’oggi avrebbe a suocomando, quei danni, quelle follie potrebbero essere ri-parati. Fertilità e abbondanza potrebbero ritornare làdove ora allignano desolazione e miseria e odio, simili amale erbe dei cocenti deserti. Se l'uomo, con la sola for-za del bove, senza macchine, senza ferro, riuscì un tem-po a domare il Tigri e l’Eufrate e a raccogliere le lorobenefiche acque per i giorni di siccità, che cosa non po-trebbero fare oggi gli ingegneri moderni per quella stes-sa terra? Ecco il campo per una nobile lotta, ecco unaprova per il coraggio umano, ecco una bella battaglia davincere! Eppure, sembra quasi che il compito vada oltrele forze di ogni singola nazione. Nessuna unità politicasi azzarda a compiere l’impresa, perchè altre nazioni siaffretterebbero a distruggerla con una guerra. Evidente-mente è un compito che può essere conseguito solamen-te in pace e con uno scopo unico.

Paul B. Sears, nel suo libro Deserti in cammino, dicecose assai interessanti sull’abilità agricola dei contadiniindiani e cinesi, ai quali nessuno in Europa o negli StatiUniti potrebbe stare a paragone. La Cina è riuscita arendere coltivabile ogni pollice o quasi dei suoi vastissi-mi dominî. Essa arriva a economizzare ogni oncia di

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ra sembra l’unica soluzione. Se la guerra sarà, risulteràpiù costosa e renderà meno che non una soluzionescientifica del problema.

Entro l’ambito del Vicino Oriente, 4000 anni di guer-re hanno lasciato il loro terribile marchio su una delleprime civiltà della terra, la madre, anzi, della civiltà mo-derna. Con i mezzi che l’Europa d’oggi avrebbe a suocomando, quei danni, quelle follie potrebbero essere ri-parati. Fertilità e abbondanza potrebbero ritornare làdove ora allignano desolazione e miseria e odio, simili amale erbe dei cocenti deserti. Se l'uomo, con la sola for-za del bove, senza macchine, senza ferro, riuscì un tem-po a domare il Tigri e l’Eufrate e a raccogliere le lorobenefiche acque per i giorni di siccità, che cosa non po-trebbero fare oggi gli ingegneri moderni per quella stes-sa terra? Ecco il campo per una nobile lotta, ecco unaprova per il coraggio umano, ecco una bella battaglia davincere! Eppure, sembra quasi che il compito vada oltrele forze di ogni singola nazione. Nessuna unità politicasi azzarda a compiere l’impresa, perchè altre nazioni siaffretterebbero a distruggerla con una guerra. Evidente-mente è un compito che può essere conseguito solamen-te in pace e con uno scopo unico.

Paul B. Sears, nel suo libro Deserti in cammino, dicecose assai interessanti sull’abilità agricola dei contadiniindiani e cinesi, ai quali nessuno in Europa o negli StatiUniti potrebbe stare a paragone. La Cina è riuscita arendere coltivabile ogni pollice o quasi dei suoi vastissi-mi dominî. Essa arriva a economizzare ogni oncia di

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materia organica, persino gli escrementi, e il nero fangodei suoi fiumi, per fertilizzare i suoi campi, eppure leinondazioni, le epidemie, le carestie decimano ognianno le sue provincie; financo la guerra moderna diven-ta un mero incidente nella sua perenne miseria. OsservaSears:

«L’importanza di una selezione dei semi non è com-presa; spesso sono coltivate varietà inferiori di vegetali.Resta tuttavia il fatto che il livello generale della praticaè tanto superiore, in generale, che assai poche regionidel mondo possono reggere in paragone con esso. Unadelle più belle conquiste del contadino cinese è stata latrasformazione del Bacino Rosso di Szechuan; nel 1710non era che un pezzo di cattiva terra, che dava da viverea poco più di 145.000 anime, mentre oggi è una meravi-gliosa e fiorente zona agricola di 45.000.000 di abitanti.

«Eppure, nulla sarebbe più errato di credere che laCina sia uno Stato in grado di bastare a se stesso. Essavive su una fertilità immagazzinata dall’opera dei suoigrandi fiumi durante milioni di passati anni, sussidiatadall’attuale tributo su un’area che è grande il doppiodella Cina propriamente detta, ma con una popolazionedi sedici volte minore. Di fatto i suoi due grandi fiumi,il Yang-tze-Kiang e il Hwang nascono nel Tibet, il qualeha una scarsissima popolazione, di tre persone appenaper miglio quadrato. Questi fiumi sono alimentati danevi perenni e apparentemente inesauribili, e portanoseco materie minerali come pure vegetali, grazie alle piùalte montagne del mondo e ai lussureggianti boschi di

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materia organica, persino gli escrementi, e il nero fangodei suoi fiumi, per fertilizzare i suoi campi, eppure leinondazioni, le epidemie, le carestie decimano ognianno le sue provincie; financo la guerra moderna diven-ta un mero incidente nella sua perenne miseria. OsservaSears:

«L’importanza di una selezione dei semi non è com-presa; spesso sono coltivate varietà inferiori di vegetali.Resta tuttavia il fatto che il livello generale della praticaè tanto superiore, in generale, che assai poche regionidel mondo possono reggere in paragone con esso. Unadelle più belle conquiste del contadino cinese è stata latrasformazione del Bacino Rosso di Szechuan; nel 1710non era che un pezzo di cattiva terra, che dava da viverea poco più di 145.000 anime, mentre oggi è una meravi-gliosa e fiorente zona agricola di 45.000.000 di abitanti.

«Eppure, nulla sarebbe più errato di credere che laCina sia uno Stato in grado di bastare a se stesso. Essavive su una fertilità immagazzinata dall’opera dei suoigrandi fiumi durante milioni di passati anni, sussidiatadall’attuale tributo su un’area che è grande il doppiodella Cina propriamente detta, ma con una popolazionedi sedici volte minore. Di fatto i suoi due grandi fiumi,il Yang-tze-Kiang e il Hwang nascono nel Tibet, il qualeha una scarsissima popolazione, di tre persone appenaper miglio quadrato. Questi fiumi sono alimentati danevi perenni e apparentemente inesauribili, e portanoseco materie minerali come pure vegetali, grazie alle piùalte montagne del mondo e ai lussureggianti boschi di

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cui si ammantano i loro fianchi. Ma quando l’industriamoderna cercasse di penetrare fino a quelle sorgenti, persfruttarle con quello zelo che fu profuso, per esempio,dagli Stati Uniti nelle Montagne Rocciose, la Cina sa-rebbe condannata a sicura fine».

Le terribili inondazioni del Hwang, o Fiume Giallo, egli ugualmente terribili se pure meno noti uragani disabbia di quelle terre, oltre al loess del Deserto di Gobi,costituiscono per la Cina un nemico assai più mortaleche non gli eserciti che il Giappone manda contro diessa; togliendo gli uomini ai suoi mercati industriali chelottano, anche essi, per la vita e per la morte; spinta dal-la impellente necessità di procurare cibo ai milioni di fi-gli suoi, che in patria muoiono di fame.

La carestia del 1770 in India costò la vita a dieci mi-lioni d’indigeni. Per la medesima ragione, un terzo dellapopolazione di Orassa moriva nel 1865 (le proporzionidelle perdite durante la «Morte Nera» in Europa si sonomantenute fino a tempi recenti). Al pari della Cina,l’India dipende dal Tibet per l’acqua: dalle imperiturecime dei monti, dalle nevi eterne e dalle foreste chemantengono inalterato il corso dei fiumi. Una volta di-strutto questo equilibrio, una volta che il Tibet fosse pre-da della moderna mania di sfruttamento industriale; unavolta abbattute le foreste per ricavarne cellulosa, fibraper carta, materia per fibre sintetiche; una volta scavati emartoriati i suoi pendii, la Cina e l’India andrebbero in-contro a sicura rovina. Tutto ciò significherebbe via li-bera e inondazioni e siccità, a uragani di sabbia e a dilu-

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cui si ammantano i loro fianchi. Ma quando l’industriamoderna cercasse di penetrare fino a quelle sorgenti, persfruttarle con quello zelo che fu profuso, per esempio,dagli Stati Uniti nelle Montagne Rocciose, la Cina sa-rebbe condannata a sicura fine».

Le terribili inondazioni del Hwang, o Fiume Giallo, egli ugualmente terribili se pure meno noti uragani disabbia di quelle terre, oltre al loess del Deserto di Gobi,costituiscono per la Cina un nemico assai più mortaleche non gli eserciti che il Giappone manda contro diessa; togliendo gli uomini ai suoi mercati industriali chelottano, anche essi, per la vita e per la morte; spinta dal-la impellente necessità di procurare cibo ai milioni di fi-gli suoi, che in patria muoiono di fame.

La carestia del 1770 in India costò la vita a dieci mi-lioni d’indigeni. Per la medesima ragione, un terzo dellapopolazione di Orassa moriva nel 1865 (le proporzionidelle perdite durante la «Morte Nera» in Europa si sonomantenute fino a tempi recenti). Al pari della Cina,l’India dipende dal Tibet per l’acqua: dalle imperiturecime dei monti, dalle nevi eterne e dalle foreste chemantengono inalterato il corso dei fiumi. Una volta di-strutto questo equilibrio, una volta che il Tibet fosse pre-da della moderna mania di sfruttamento industriale; unavolta abbattute le foreste per ricavarne cellulosa, fibraper carta, materia per fibre sintetiche; una volta scavati emartoriati i suoi pendii, la Cina e l’India andrebbero in-contro a sicura rovina. Tutto ciò significherebbe via li-bera e inondazioni e siccità, a uragani di sabbia e a dilu-

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vi di acque distruttive, che segnerebbero la condanna di500.000.00 di creature umane – una popolazione supe-riore a quella dell’Europa.

Quale sorte attende dunque l’Asia? Rimarrà essa unbottino di guerra, all’alternata mercé di piccoli gruppimilitari, ma destinata a cedere sempre, in ultima analisi,alla forza più grande della miseria, dell’indigenza, delsuolo spogliato della sua fertilità, della speranza uccisanei pazienti cuori umani?

Il Giappone, la Russia e la Cina rappresentano tre or-ganismi politici completamente distinti, filosoficamentee socialmente in antagonismo, costantemente sull’orlodi un aperto e generale conflitto militare. Questa guerra,evitata finora unicamente, a quanto pare, dalla mancan-za di preparazione, coinvolgerebbe più della metà dellapopolazione terrestre. L’India non potrebbe sperare di ri-manere estranea al conflitto, e l’intervento suo, per ov-vie ragioni, trascinerebbe con sè l’Europa.

Eppure, tutte queste nazioni si trovano di fronte almedesimo pericolo; tutte dispongono delle medesimeforze meccaniche per scongiurare il disastro universaleche seguirebbe a una simile guerra, e che, guerra o nonguerra, verrà; a meno che il grande istintivo problemadella conservazione non si trovi a esser risolto da quellestesse forze meccaniche dedicate ora alla guerra.

Quale diabolico spirito filosofico ha fatto scegliereall’uomo la guerra come sfogo per le sue energie, piut-tosto che la conquista di un minaccioso ambiente fisico?Egli potrebbe ben salvare il Tibet, proteggere le benefi-

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vi di acque distruttive, che segnerebbero la condanna di500.000.00 di creature umane – una popolazione supe-riore a quella dell’Europa.

Quale sorte attende dunque l’Asia? Rimarrà essa unbottino di guerra, all’alternata mercé di piccoli gruppimilitari, ma destinata a cedere sempre, in ultima analisi,alla forza più grande della miseria, dell’indigenza, delsuolo spogliato della sua fertilità, della speranza uccisanei pazienti cuori umani?

Il Giappone, la Russia e la Cina rappresentano tre or-ganismi politici completamente distinti, filosoficamentee socialmente in antagonismo, costantemente sull’orlodi un aperto e generale conflitto militare. Questa guerra,evitata finora unicamente, a quanto pare, dalla mancan-za di preparazione, coinvolgerebbe più della metà dellapopolazione terrestre. L’India non potrebbe sperare di ri-manere estranea al conflitto, e l’intervento suo, per ov-vie ragioni, trascinerebbe con sè l’Europa.

Eppure, tutte queste nazioni si trovano di fronte almedesimo pericolo; tutte dispongono delle medesimeforze meccaniche per scongiurare il disastro universaleche seguirebbe a una simile guerra, e che, guerra o nonguerra, verrà; a meno che il grande istintivo problemadella conservazione non si trovi a esser risolto da quellestesse forze meccaniche dedicate ora alla guerra.

Quale diabolico spirito filosofico ha fatto scegliereall’uomo la guerra come sfogo per le sue energie, piut-tosto che la conquista di un minaccioso ambiente fisico?Egli potrebbe ben salvare il Tibet, proteggere le benefi-

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Page 409: Morris De Camp Crawford - Liber Liber

che nevi dell’Himalaja, così come il Perù coi suoi arnesidi bronzo salvò i ghiacciai delle Ande, cui doveva lapropria fertilità; potrebbe dominare i fiumi, disciplinarele inondazioni, come l’antico Sumer con l’Eufrate e ilTigri. Se vorrà rimanere uomo, l’uomo dovrà essere piùgrande del suo ambiente fisico.

In Africa, zanzare e mosche tze-tze hanno trucidatopiù di qualsiasi conquistatore. Ci sono vaste e fertilissi-me zone in cui, a causa della piaga di questi e altri inset-ti, nè uomini nè animali domestici possono vivere. Sonoaree deserte che necessitano di acqua, pestifere zone chepotrebbero esser bonificate. Sono queste le arene per ilcoraggio, per la bravura di schiere d’ingegneri!

Ma l’Europa e l’Asia soffrono di molti antichi mali.Tormentate dal terrore di guerre e rappresaglie, di

vendette negate o non appagate, preferiscono affidarsi amisure di sicurezza militare, piuttosto che a misured’ordine sociale, che darebbero fecondi frutti. Ogni cosaappare attraverso la rossa nebbia di stragi paurose. Nè lasperanza è di guida. Migliaia d’anni di guerre, secoli didubbi e sospetti sono riusciti, per ora almeno, a oscurareil fatto che il pericolo che il mondo corre non è che unapiega mentale, un labirinto in cui lo spirito umano erra esi perde.

Vi fu un tempo in cui gli interessi dell’uomo non siestendevano oltre quel gruppo che si adunava attorno alfuoco comune. Vennero poi altri tempi, in cui il posses-so delle caverne, le grandi caccie necessarie al sostenta-mento della tribù allargarono le vedute degli uomini; e a

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che nevi dell’Himalaja, così come il Perù coi suoi arnesidi bronzo salvò i ghiacciai delle Ande, cui doveva lapropria fertilità; potrebbe dominare i fiumi, disciplinarele inondazioni, come l’antico Sumer con l’Eufrate e ilTigri. Se vorrà rimanere uomo, l’uomo dovrà essere piùgrande del suo ambiente fisico.

In Africa, zanzare e mosche tze-tze hanno trucidatopiù di qualsiasi conquistatore. Ci sono vaste e fertilissi-me zone in cui, a causa della piaga di questi e altri inset-ti, nè uomini nè animali domestici possono vivere. Sonoaree deserte che necessitano di acqua, pestifere zone chepotrebbero esser bonificate. Sono queste le arene per ilcoraggio, per la bravura di schiere d’ingegneri!

Ma l’Europa e l’Asia soffrono di molti antichi mali.Tormentate dal terrore di guerre e rappresaglie, di

vendette negate o non appagate, preferiscono affidarsi amisure di sicurezza militare, piuttosto che a misured’ordine sociale, che darebbero fecondi frutti. Ogni cosaappare attraverso la rossa nebbia di stragi paurose. Nè lasperanza è di guida. Migliaia d’anni di guerre, secoli didubbi e sospetti sono riusciti, per ora almeno, a oscurareil fatto che il pericolo che il mondo corre non è che unapiega mentale, un labirinto in cui lo spirito umano erra esi perde.

Vi fu un tempo in cui gli interessi dell’uomo non siestendevano oltre quel gruppo che si adunava attorno alfuoco comune. Vennero poi altri tempi, in cui il posses-so delle caverne, le grandi caccie necessarie al sostenta-mento della tribù allargarono le vedute degli uomini; e a

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questi interessi si aggiunsero in seguito la coltivazionedei campi, la cura degli animali domestici. L’uomo pro-gredì poi dalla tribù alla città, dalla città allo stato, allanazione, e persino a imperi o a gruppi di nazioni chesotto un unico regime politico riunivano varie lingue,culture, razze e religioni. L’Egitto, Sumer, la Cina,l’Assiria, la Persia, la Grecia e Roma erano, in tempi an-tichi, esempi di questa tendenza sociale a estendere ununico pensiero per vari paesi.

Non possiamo sperare che venga un tempo in cui lasocietà si accorga che molti problemi non potranno ri-solversi altro che su una base comune e mondiale diidee; che, dal momento che non c’è invenzione tecnicautile all’umanità che non sia stata accettata dal mondointero, quelle arcaiche invenzioni politiche le quali ritar-dano il progresso sociale, dovranno tosto o tardi modifi-carsi per essere adeguate ai tempi, e alla realtà dei fatti?

L’industria moderna, il moderno sistema bancariovanno oltre le barriere nazionali. I problemi dei mercatimondiali di petrolio e carbone, lana e cotone, non pos-sono più essere risolti ormai su basi nazionalistiche. Visono pur stati pazienti, anche se timidi sforzi tra nazioniindustriali per venire ad accordi mondiali su questioni disalari e ore di lavoro. Per il momento, queste iniziativerestano allo stato di tentativi, che costantemente si urta-no allo scoglio della politica. Eppure, l’idea di una solu-zione mondiale di problemi economici e sociali è ormainata. Per ora, non è che un debole uccelletto che ancoranon si avventura fuori dal nido; ma chi ci dice che pre-

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questi interessi si aggiunsero in seguito la coltivazionedei campi, la cura degli animali domestici. L’uomo pro-gredì poi dalla tribù alla città, dalla città allo stato, allanazione, e persino a imperi o a gruppi di nazioni chesotto un unico regime politico riunivano varie lingue,culture, razze e religioni. L’Egitto, Sumer, la Cina,l’Assiria, la Persia, la Grecia e Roma erano, in tempi an-tichi, esempi di questa tendenza sociale a estendere ununico pensiero per vari paesi.

Non possiamo sperare che venga un tempo in cui lasocietà si accorga che molti problemi non potranno ri-solversi altro che su una base comune e mondiale diidee; che, dal momento che non c’è invenzione tecnicautile all’umanità che non sia stata accettata dal mondointero, quelle arcaiche invenzioni politiche le quali ritar-dano il progresso sociale, dovranno tosto o tardi modifi-carsi per essere adeguate ai tempi, e alla realtà dei fatti?

L’industria moderna, il moderno sistema bancariovanno oltre le barriere nazionali. I problemi dei mercatimondiali di petrolio e carbone, lana e cotone, non pos-sono più essere risolti ormai su basi nazionalistiche. Visono pur stati pazienti, anche se timidi sforzi tra nazioniindustriali per venire ad accordi mondiali su questioni disalari e ore di lavoro. Per il momento, queste iniziativerestano allo stato di tentativi, che costantemente si urta-no allo scoglio della politica. Eppure, l’idea di una solu-zione mondiale di problemi economici e sociali è ormainata. Per ora, non è che un debole uccelletto che ancoranon si avventura fuori dal nido; ma chi ci dice che pre-

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sto le sue morbide piume non diventino robuste ali; euna volta che un’idea abbia spiccato il volo, chi sa direquanto lontano possa arrivare?

Ogni idea sociale degna di vivere fu accolta dapprimacon disprezzo, poi con timore; ma in ultimo è stata sem-pre accettata. Chi può predire l’avvenire, se non perconfronto col passato? Ci fu un tempo in cui gli uominicredevano che il mondo fosse piano; l’idea è ormai rele-gata alla mentalità di pochi selvaggi il cui numero dimi-nuisce, si può dire, ogni giorno. La maggioranza degliuomini crede oggi che i problemi mondiali possano ve-nir risolti unicamente da controlli basati sulla forza; mac’è una minoranza la quale pone in dubbio questa teoria.Ora, l’idea impiega molto tempo per diventar convinzio-ne, ma poco tempo è necessario alla convinzione per es-sere matura all’azione.

Su nessuna plaga terrestre i benefici d’una civiltàmeccanica caddero con tanta abbondanza come sugliStati Uniti. Due immensi oceani rappresentano tuttoradue quasi insormontabili barriere che li difendono, senon dalle guerre, dalle invasioni. Ne l’Asia nè l’Europali minacciano, se non sotto l’aspetto di un vortice chepotrebbe attirare e assorbire le forze armate ed economi-che della nazione. A nord e a sud pacifici vicini, sicuridei propri diritti, non sono in alcun modo mal dispostiverso la potenza materiale e la mole degli Stati Uniti. Lapopolazione, composta di diverse razze europee e medi-terranee, mostra giuste e ragionevoli simpatie verso ipaesi d’origine, mentre senza alcun dubbio propende per

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sto le sue morbide piume non diventino robuste ali; euna volta che un’idea abbia spiccato il volo, chi sa direquanto lontano possa arrivare?

Ogni idea sociale degna di vivere fu accolta dapprimacon disprezzo, poi con timore; ma in ultimo è stata sem-pre accettata. Chi può predire l’avvenire, se non perconfronto col passato? Ci fu un tempo in cui gli uominicredevano che il mondo fosse piano; l’idea è ormai rele-gata alla mentalità di pochi selvaggi il cui numero dimi-nuisce, si può dire, ogni giorno. La maggioranza degliuomini crede oggi che i problemi mondiali possano ve-nir risolti unicamente da controlli basati sulla forza; mac’è una minoranza la quale pone in dubbio questa teoria.Ora, l’idea impiega molto tempo per diventar convinzio-ne, ma poco tempo è necessario alla convinzione per es-sere matura all’azione.

Su nessuna plaga terrestre i benefici d’una civiltàmeccanica caddero con tanta abbondanza come sugliStati Uniti. Due immensi oceani rappresentano tuttoradue quasi insormontabili barriere che li difendono, senon dalle guerre, dalle invasioni. Ne l’Asia nè l’Europali minacciano, se non sotto l’aspetto di un vortice chepotrebbe attirare e assorbire le forze armate ed economi-che della nazione. A nord e a sud pacifici vicini, sicuridei propri diritti, non sono in alcun modo mal dispostiverso la potenza materiale e la mole degli Stati Uniti. Lapopolazione, composta di diverse razze europee e medi-terranee, mostra giuste e ragionevoli simpatie verso ipaesi d’origine, mentre senza alcun dubbio propende per

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una unità di lingua e tradizioni. Quei due oceani rappre-sentano per gli Stati Uniti la medesima garanzia di sicu-rezza che lo Stretto della Manica offriva un tempo, edentro certi limiti offre tuttora alla Gran Bretagna; cioè,un ostacolo che nessun nemico potrebbe facilmente su-perare.

L’autore di questa modesta e rapida scorsa attraversoi secoli, che volge ormai alla conclusione, conserva, ap-peso sopra il caminetto nel suo studio, un vecchio fucileda caccia a una canna, dalla piastra di pietra, fabbricatoin una piccola fonderia nei pressi di Tarrytownsull’Hudson, a trenta miglia a nord della città di NuovaYork. Sopra il rialzo che connette la canna al calcio è in-cisa la significativa data del 1776: l’anno in cui gli abi-tanti di tredici colonie americane stabilivano di liberarsidal giogo dell’autorità britannica. Perfettamente conser-vato, lo schioppo è una buona arma, efficace e fedeleoggi quanto poteva esserlo centosessant’anni fa. Allor-chè un patriota la toglieva dalla rastrelliera di palchi dicervo; si buttava in spalla un corno di bufalo pieno dellanera polvere manipolata secondo la formula Roger Ba-con (inventata nel XIII secolo) e si appendeva alla cin-tola un sacchetto di pallottole di piombo, fuse a una auna entro lo stampo sul focolare domestico; quel patrio-ta era bene armato quanto qualsiasi soldato al mondo; e,se il suo occhio era sicuro e il suo cuore animoso, era unbuon soldato, quanto qualsiasi altro al mondo.

Oggi come oggi un esercito di ventimila uomini, benearmati, solidali e ben guidati, potrebbe tenere sotto un

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una unità di lingua e tradizioni. Quei due oceani rappre-sentano per gli Stati Uniti la medesima garanzia di sicu-rezza che lo Stretto della Manica offriva un tempo, edentro certi limiti offre tuttora alla Gran Bretagna; cioè,un ostacolo che nessun nemico potrebbe facilmente su-perare.

L’autore di questa modesta e rapida scorsa attraversoi secoli, che volge ormai alla conclusione, conserva, ap-peso sopra il caminetto nel suo studio, un vecchio fucileda caccia a una canna, dalla piastra di pietra, fabbricatoin una piccola fonderia nei pressi di Tarrytownsull’Hudson, a trenta miglia a nord della città di NuovaYork. Sopra il rialzo che connette la canna al calcio è in-cisa la significativa data del 1776: l’anno in cui gli abi-tanti di tredici colonie americane stabilivano di liberarsidal giogo dell’autorità britannica. Perfettamente conser-vato, lo schioppo è una buona arma, efficace e fedeleoggi quanto poteva esserlo centosessant’anni fa. Allor-chè un patriota la toglieva dalla rastrelliera di palchi dicervo; si buttava in spalla un corno di bufalo pieno dellanera polvere manipolata secondo la formula Roger Ba-con (inventata nel XIII secolo) e si appendeva alla cin-tola un sacchetto di pallottole di piombo, fuse a una auna entro lo stampo sul focolare domestico; quel patrio-ta era bene armato quanto qualsiasi soldato al mondo; e,se il suo occhio era sicuro e il suo cuore animoso, era unbuon soldato, quanto qualsiasi altro al mondo.

Oggi come oggi un esercito di ventimila uomini, benearmati, solidali e ben guidati, potrebbe tenere sotto un

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completo controllo la metropoli di Nuova York, ove lapopolazione non disponesse che di armi sportive. Leforme di governo dipendono, potenzialmente almeno,dal numero delle forze terrestri armate, e dalla loro soli-darietà o mancanza di solidarietà verso i governi stabili-ti. I cambiamenti di governo sono unicamente in funzio-ne della disponibilità di queste forze. Attualmente nonc’è neppure il più lontano pericolo di questo genere pergli Stati Uniti, ma se essi fossero costretti dalle circo-stanze a formare un grande esercito nazionale, creereb-bero in quel momento stesso una forza che potrebbemodificare o distruggere la forma politica e la filosofiadi questa grande nazione.

Degli abitanti degli Stati Uniti, oltre il 56% vivono inzone urbane. Ci fa un aumento di urbanesimo del 5%durante gli ultimi dieci anni, e di oltre il 20% durante gliultimi trenta, o nell’ambito d’una generazione. Alcunecittà lungo le coste orientali vantano origini che risalgo-no al XVII secolo, come posti commerciali, villaggi oforti. Ma la grande ascesa urbanistica degli Stati Unitiebbe luogo durante il secolo scorso, e le costruzioni siintensificarono durante gli ultimi cinquant’anni. Nellostesso periodo, gli Stati Uniti hanno raggiunto il loroimmenso sviluppo meccanico, dovuto al fatto che i suoiabitanti si trovarono in possesso delle più potenti forzemateriali che l’uomo abbia mai conosciuto. Eppure, contutto ciò, in moltissime, anzi in tutte le città americaneabbondano le abitazioni malsane, i quartieri di miseria edi vizio. Gli slums, disdoro e obbrobrio della civiltà mo-

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completo controllo la metropoli di Nuova York, ove lapopolazione non disponesse che di armi sportive. Leforme di governo dipendono, potenzialmente almeno,dal numero delle forze terrestri armate, e dalla loro soli-darietà o mancanza di solidarietà verso i governi stabili-ti. I cambiamenti di governo sono unicamente in funzio-ne della disponibilità di queste forze. Attualmente nonc’è neppure il più lontano pericolo di questo genere pergli Stati Uniti, ma se essi fossero costretti dalle circo-stanze a formare un grande esercito nazionale, creereb-bero in quel momento stesso una forza che potrebbemodificare o distruggere la forma politica e la filosofiadi questa grande nazione.

Degli abitanti degli Stati Uniti, oltre il 56% vivono inzone urbane. Ci fa un aumento di urbanesimo del 5%durante gli ultimi dieci anni, e di oltre il 20% durante gliultimi trenta, o nell’ambito d’una generazione. Alcunecittà lungo le coste orientali vantano origini che risalgo-no al XVII secolo, come posti commerciali, villaggi oforti. Ma la grande ascesa urbanistica degli Stati Unitiebbe luogo durante il secolo scorso, e le costruzioni siintensificarono durante gli ultimi cinquant’anni. Nellostesso periodo, gli Stati Uniti hanno raggiunto il loroimmenso sviluppo meccanico, dovuto al fatto che i suoiabitanti si trovarono in possesso delle più potenti forzemateriali che l’uomo abbia mai conosciuto. Eppure, contutto ciò, in moltissime, anzi in tutte le città americaneabbondano le abitazioni malsane, i quartieri di miseria edi vizio. Gli slums, disdoro e obbrobrio della civiltà mo-

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derna, sono scomparsi dall’Olanda e dalla Scandinavia.L’Inghilterra ha fatto grandi sforzi in questo senso; laGermania e l’Italia hanno costruito non solo quartierioperai adeguati ai loro bisogni, ma intere città nuove,salubri e bene organizzate, per le masse lavoratrici. Enella più giovane, più ricca e libera nazione della terra,la questione degli slums si dibatte e si discute tuttora, difronte a un Congresso dalle idee confuse in proposito.La città di Nuova York, per esempio, è situata su un’iso-la entro una delle perfette rade naturali della terra,all’estuario d’un bellissimo fiume; ma che cosa ha fattola stupidità umana, di tanti doni naturali? In realtà, oggiNuova York è una plaga rocciosa, circondata da una fo-gna aperta, al termine di una fogna lunga 150 miglia. Labaia e il fiume, ripuliti e risanati a dovere, riforniti dipesce, soprattutto del salmone che vi prospera natural-mente, renderebbero la vita più sana, più piacevole emeno costosa per milioni d’individui. La capacità dicompiere queste imprese, la volontà di condurle a termi-ne non dipende che dalla nazione americana. I mezzicon cui gli antichi re di Sumer e Akkad regolavano iloro grandi fiumi sono inezie, paragonati ai grandi mez-zi di cui dispone l’idraulica moderna. Il Mississipi e ilMissouri sono due immani ferite aperte nel cuore degliStati Uniti, per le quali se ne va, al pari di un sangueprezioso, la parte migliore del suolo. Inondazioni, ura-gani di vento, erosioni provocate dalle acque e dalle in-temperie sono le cause di deserti, i quali al pari di eser-citi in marcia divorano la civiltà americana. Uomini av-

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derna, sono scomparsi dall’Olanda e dalla Scandinavia.L’Inghilterra ha fatto grandi sforzi in questo senso; laGermania e l’Italia hanno costruito non solo quartierioperai adeguati ai loro bisogni, ma intere città nuove,salubri e bene organizzate, per le masse lavoratrici. Enella più giovane, più ricca e libera nazione della terra,la questione degli slums si dibatte e si discute tuttora, difronte a un Congresso dalle idee confuse in proposito.La città di Nuova York, per esempio, è situata su un’iso-la entro una delle perfette rade naturali della terra,all’estuario d’un bellissimo fiume; ma che cosa ha fattola stupidità umana, di tanti doni naturali? In realtà, oggiNuova York è una plaga rocciosa, circondata da una fo-gna aperta, al termine di una fogna lunga 150 miglia. Labaia e il fiume, ripuliti e risanati a dovere, riforniti dipesce, soprattutto del salmone che vi prospera natural-mente, renderebbero la vita più sana, più piacevole emeno costosa per milioni d’individui. La capacità dicompiere queste imprese, la volontà di condurle a termi-ne non dipende che dalla nazione americana. I mezzicon cui gli antichi re di Sumer e Akkad regolavano iloro grandi fiumi sono inezie, paragonati ai grandi mez-zi di cui dispone l’idraulica moderna. Il Mississipi e ilMissouri sono due immani ferite aperte nel cuore degliStati Uniti, per le quali se ne va, al pari di un sangueprezioso, la parte migliore del suolo. Inondazioni, ura-gani di vento, erosioni provocate dalle acque e dalle in-temperie sono le cause di deserti, i quali al pari di eser-citi in marcia divorano la civiltà americana. Uomini av-

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veduti, estranei a ogni interesse politico, hanno datol’allarme. Eppure i responsabili, coloro che dovrebberocorrere ai ripari, seguitano ad assistere indifferenti e in-sensibili ad annui e periodici disastri; oppure risolvonoil problema con aleatori rimedî locali, invece di attac-carlo coraggiosamente dal lato nazionale.

Nei dieci stati a occidente del Mississipi vivono da trea quattro milioni di cittadini americani, i quali, a causadi tre secoli d’indifferenza economica e sociale, dopo laGuerra Civile e le decadi di sfruttamento note quali la«Ricostruzione», vivono pericolosamente sull’orlo dellafame, e non godono che in parte minima i beneficid’una civiltà che si vanta di esser grande. Ebbene: nelmezzo di questo deserto economico sono sòrte oasi in-dustriali, piccole città provviste di scuole, biblioteche,chiese, ospedali e ridenti casette; e commoventi sono glisforzi che furono fatti per creare queste piccole comuni-tà solide e prosperose. Come riescono a mantenersi sala-ri, ore di lavoro e adeguati servizi pubblici in questi pae-si, di fronte alla costante minaccia di milioni d’uomini edonne insufficientemente impiegati in una magra agri-coltura?

Se la questione agricola non potrà essere risolta nelSud degli Stati Uniti, il problema industriale è senza so-luzione. Il problema agricolo può risolversi solamentecon un controllo nazionale delle inondazioni dei fiumi, iquali scendendo dalle Montagne Rocciose, irrigano lesconfinate pianure, dividono in due gli Stati Uniti e sigettano nel Golfo del Messico. Il problema della nazio-

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veduti, estranei a ogni interesse politico, hanno datol’allarme. Eppure i responsabili, coloro che dovrebberocorrere ai ripari, seguitano ad assistere indifferenti e in-sensibili ad annui e periodici disastri; oppure risolvonoil problema con aleatori rimedî locali, invece di attac-carlo coraggiosamente dal lato nazionale.

Nei dieci stati a occidente del Mississipi vivono da trea quattro milioni di cittadini americani, i quali, a causadi tre secoli d’indifferenza economica e sociale, dopo laGuerra Civile e le decadi di sfruttamento note quali la«Ricostruzione», vivono pericolosamente sull’orlo dellafame, e non godono che in parte minima i beneficid’una civiltà che si vanta di esser grande. Ebbene: nelmezzo di questo deserto economico sono sòrte oasi in-dustriali, piccole città provviste di scuole, biblioteche,chiese, ospedali e ridenti casette; e commoventi sono glisforzi che furono fatti per creare queste piccole comuni-tà solide e prosperose. Come riescono a mantenersi sala-ri, ore di lavoro e adeguati servizi pubblici in questi pae-si, di fronte alla costante minaccia di milioni d’uomini edonne insufficientemente impiegati in una magra agri-coltura?

Se la questione agricola non potrà essere risolta nelSud degli Stati Uniti, il problema industriale è senza so-luzione. Il problema agricolo può risolversi solamentecon un controllo nazionale delle inondazioni dei fiumi, iquali scendendo dalle Montagne Rocciose, irrigano lesconfinate pianure, dividono in due gli Stati Uniti e sigettano nel Golfo del Messico. Il problema della nazio-

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ne, il magno problema è la riforma dell’Acquisto dellaLuisiana. Dal rivestimento boschifero sui pendii delleMontagne Rocciose, alla costruzione di dighe e di canalid’irrigazione attraverso le pianure del Dakota, fino aquella di serbatoi e argini nel Middle West e nel Sud:tutto deve essere un unico piano oculato e comprensivo.Una nazione deve essere più forte della natura, oppureperirà.

Il fatto che noi viviamo in piena Epoca della Macchi-na non deve farci perdere l’interesse e l’amore alla no-biltà del lavoro manuale. Il progresso compiuto in Euro-pa nell’artigianato, particolarmente nei Paesi Scandinavie in Italia, dopo la Guerra Mondiale, è uno dei più con-solanti documenti nel nostro tempo. Una nuova bellezzaè risorta a vita, per mezzo dell’unico metodo che puòcreare la bellezza: per mezzo della mano e del cervellodell’uomo, guidati dalla tradizione e ispirati dal presen-te. Questo miracolo, che si è verificato in terre di cosìantica civiltà, è stato pienamente incoraggiato, sovven-zionato e patrocinato dai rispettivi governi. Negli StatiUniti vi sono grandi gruppi etnici i quali non mancanodi abilità manuale. Molti degli Indiani superstiti hannoserbato il ricordo e la capacità delle loro antiche arti; eanche nelle campagne vi sono intere famiglie che man-tengono viva la tradizione, portata dalla natia Inghilter-ra, della tessitura a mano, delle ceramiche e dei mobilid’arte. Ma avrebbero bisogno di guida e di esempio, diistruzione professionale, di scuole e musei d’arte, oltre auna certa forma d’incoraggiamento che solo il governo

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ne, il magno problema è la riforma dell’Acquisto dellaLuisiana. Dal rivestimento boschifero sui pendii delleMontagne Rocciose, alla costruzione di dighe e di canalid’irrigazione attraverso le pianure del Dakota, fino aquella di serbatoi e argini nel Middle West e nel Sud:tutto deve essere un unico piano oculato e comprensivo.Una nazione deve essere più forte della natura, oppureperirà.

Il fatto che noi viviamo in piena Epoca della Macchi-na non deve farci perdere l’interesse e l’amore alla no-biltà del lavoro manuale. Il progresso compiuto in Euro-pa nell’artigianato, particolarmente nei Paesi Scandinavie in Italia, dopo la Guerra Mondiale, è uno dei più con-solanti documenti nel nostro tempo. Una nuova bellezzaè risorta a vita, per mezzo dell’unico metodo che puòcreare la bellezza: per mezzo della mano e del cervellodell’uomo, guidati dalla tradizione e ispirati dal presen-te. Questo miracolo, che si è verificato in terre di cosìantica civiltà, è stato pienamente incoraggiato, sovven-zionato e patrocinato dai rispettivi governi. Negli StatiUniti vi sono grandi gruppi etnici i quali non mancanodi abilità manuale. Molti degli Indiani superstiti hannoserbato il ricordo e la capacità delle loro antiche arti; eanche nelle campagne vi sono intere famiglie che man-tengono viva la tradizione, portata dalla natia Inghilter-ra, della tessitura a mano, delle ceramiche e dei mobilid’arte. Ma avrebbero bisogno di guida e di esempio, diistruzione professionale, di scuole e musei d’arte, oltre auna certa forma d’incoraggiamento che solo il governo

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può loro dare. Se il governo trova danaro per l’industriameccanica, perchè non trova quanto occorrerebbe, inmisura assai minore, per le piccole industrie e l’artigia-nato? L’unico modo per cui l’industria meccanica puòtrarre vita e ispirazione, in particolari campi, è attraver-so il lavoro manuale e l’esperimento artistico. Scuole,università, laboratori scientifici si fanno un dovere di in-segnare alla gioventù degli Stati Uniti come le cose sifabbricano meglio e a miglior mercato. Ma assai raresono le scuole dove si insegni a produrre una cosa bellae utile con le proprie mani. Ci volle mezzo milione dianni per inventare e perfezionare una mano; ma a quan-to pare, noi abbiamo messo in disparte quest’eredità.L’America potrebbe trovare bei ricordi nella tradizioneinglese, olandese, francese e spagnuola; questi ricordidovrebbero essere risuscitati e ricreati con spirito mo-derno. Un popolo che non sa crearsi un’arte propria,manca d’immaginazione; non solo, ma schiva ciò che èun dovere.

È stato spesso scritto, ma troppo spesso dimenticato:«Senza visione, un popolo muore». È dunque così diffi-cile la visione di un mondo pieno di città dignitose, bel-le, comode, adeguate alla nostra epoca? E non si do-vrebbero circondare le grandi città di zone piacevoli efacilmente accessibili per lo sport, il riposo e la salute?La vita moderna ha un ritmo rapido, e noi abbiamo biso-gno di riposo e ristoro per il corpo e per lo spirito, quan-to e non meno che di lavoro.

Si dice che i sogni non siano di natura pratica; e noi

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può loro dare. Se il governo trova danaro per l’industriameccanica, perchè non trova quanto occorrerebbe, inmisura assai minore, per le piccole industrie e l’artigia-nato? L’unico modo per cui l’industria meccanica puòtrarre vita e ispirazione, in particolari campi, è attraver-so il lavoro manuale e l’esperimento artistico. Scuole,università, laboratori scientifici si fanno un dovere di in-segnare alla gioventù degli Stati Uniti come le cose sifabbricano meglio e a miglior mercato. Ma assai raresono le scuole dove si insegni a produrre una cosa bellae utile con le proprie mani. Ci volle mezzo milione dianni per inventare e perfezionare una mano; ma a quan-to pare, noi abbiamo messo in disparte quest’eredità.L’America potrebbe trovare bei ricordi nella tradizioneinglese, olandese, francese e spagnuola; questi ricordidovrebbero essere risuscitati e ricreati con spirito mo-derno. Un popolo che non sa crearsi un’arte propria,manca d’immaginazione; non solo, ma schiva ciò che èun dovere.

È stato spesso scritto, ma troppo spesso dimenticato:«Senza visione, un popolo muore». È dunque così diffi-cile la visione di un mondo pieno di città dignitose, bel-le, comode, adeguate alla nostra epoca? E non si do-vrebbero circondare le grandi città di zone piacevoli efacilmente accessibili per lo sport, il riposo e la salute?La vita moderna ha un ritmo rapido, e noi abbiamo biso-gno di riposo e ristoro per il corpo e per lo spirito, quan-to e non meno che di lavoro.

Si dice che i sogni non siano di natura pratica; e noi

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sappiamo quale sarà la domanda in replica a queste ri-flessioni: «Dove prendere il denaro per tutto ciò?». Eccola nostra risposta: e da dove viene il denaro in genere?da dove è venuto sempre, per annebbiare i cervelli degliuomini di una nube di odio e miseria, per sommergere ilmondo nel sangue? E che cosa è il denaro? È stato con-chiglie, wampum, piccole e grandi pietre bucate; bestia-me, schiavi umani, pezzi di metallo coniato, o carta sucui erano stampate promesse tante volte non mantenute.Il nostro denaro, per il momento, si basa su cosidetti «ti-toli di stato»; non è un asse patrimoniale, ma un passivo.Quanto varrà l’oro che il mondo nasconde ora entro arti-ficiali viscere, allorchè tornerà a fluire nelle correnti delcommercio mondiale? Il denaro non si dovrebbe rispar-miare che allo scopo di adunare energie, per l’acquistodi materie prime che produrrebbero la ricchezza. Il de-naro non si dovrebbe ammassare, che per contribuirealla creazione di questa ricchezza. Esso è una forza, unapiega mentale, fugace quanto o quasi la mano d’operache disciplina. Dove è il denaro dei Faraoni e di Mida,di Giulio Cesare o di Luigi XIV? Dove sono i debiti indanaro che l’Europa ripudiò dopo la guerra mondiale?

La misura della civiltà è la misura del discernimentousato per un fecondo impiego di energia. Non si può ri-sparmiare il denaro, più di quanto si possa risparmiareuna giornata d’estate: il denaro è stato «inventato» peressere usato e non ammucchiato. Vi sono, naturalmente,leggi, abitudini, tradizioni, le quali impongono rispetto;e sono le sacre massime del passato. Lo ammettiamo.

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sappiamo quale sarà la domanda in replica a queste ri-flessioni: «Dove prendere il denaro per tutto ciò?». Eccola nostra risposta: e da dove viene il denaro in genere?da dove è venuto sempre, per annebbiare i cervelli degliuomini di una nube di odio e miseria, per sommergere ilmondo nel sangue? E che cosa è il denaro? È stato con-chiglie, wampum, piccole e grandi pietre bucate; bestia-me, schiavi umani, pezzi di metallo coniato, o carta sucui erano stampate promesse tante volte non mantenute.Il nostro denaro, per il momento, si basa su cosidetti «ti-toli di stato»; non è un asse patrimoniale, ma un passivo.Quanto varrà l’oro che il mondo nasconde ora entro arti-ficiali viscere, allorchè tornerà a fluire nelle correnti delcommercio mondiale? Il denaro non si dovrebbe rispar-miare che allo scopo di adunare energie, per l’acquistodi materie prime che produrrebbero la ricchezza. Il de-naro non si dovrebbe ammassare, che per contribuirealla creazione di questa ricchezza. Esso è una forza, unapiega mentale, fugace quanto o quasi la mano d’operache disciplina. Dove è il denaro dei Faraoni e di Mida,di Giulio Cesare o di Luigi XIV? Dove sono i debiti indanaro che l’Europa ripudiò dopo la guerra mondiale?

La misura della civiltà è la misura del discernimentousato per un fecondo impiego di energia. Non si può ri-sparmiare il denaro, più di quanto si possa risparmiareuna giornata d’estate: il denaro è stato «inventato» peressere usato e non ammucchiato. Vi sono, naturalmente,leggi, abitudini, tradizioni, le quali impongono rispetto;e sono le sacre massime del passato. Lo ammettiamo.

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Ma tutte le leggi e le tradizioni, una volta o l’altra signi-ficarono un passo in avanti, segnarono la morte di leggipiù antiche. Esse rappresentano lo sforzo dell’uomo didare fermezza a un presente che è nelle sue aspirazioni.Sono le pietre miliari sulla via del progresso. Una voltaoltrepassate, non sono più misure di progresso. Affinchèle leggi vivano, e le tradizioni sopravvivano, entrambedebbono adattarsi ai bisogni dell’uomo, ed evolversi persoddisfare a questi bisogni. Le leggi sopravvissute sonole pastoie che inceppano il passo alle nazioni.

* * *

Duemila anni e più prima della nostra era, un potentere, il grande Hammurabi, volle fissare le sue leggi, e lefece scolpire su lapidi di diorite, che gli eruditi poteronodecifrare in parte ancora. Eccole sue parole, 2200 A. C.:

«Io cacciai il nemico a Nord e a Sud. Posi fine allesue illusioni. Diedi la salvezza alla mia terra. Feci sì cheil popolo vivesse in sicurtà. Non permisi che alcuno lomolestasse... Portai nel mio seno il popolo della terra diSumer e Akkad. Sotto la mia protezione condussi i lorofratelli in sicurtà. Nella mia saggezza li moderai, affin-chè il forte non opprimesse il debole. Feci sì che la ve-dova e l’orfano avessero giustizia in Babilonia, la cittàle cui torri inalzarono Anu e Bel».

Ragioni ottime, non c’è dubbio: nessuno potrebbe op-porsi a questi principî generali. Il sovrano concludequindi:

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Ma tutte le leggi e le tradizioni, una volta o l’altra signi-ficarono un passo in avanti, segnarono la morte di leggipiù antiche. Esse rappresentano lo sforzo dell’uomo didare fermezza a un presente che è nelle sue aspirazioni.Sono le pietre miliari sulla via del progresso. Una voltaoltrepassate, non sono più misure di progresso. Affinchèle leggi vivano, e le tradizioni sopravvivano, entrambedebbono adattarsi ai bisogni dell’uomo, ed evolversi persoddisfare a questi bisogni. Le leggi sopravvissute sonole pastoie che inceppano il passo alle nazioni.

* * *

Duemila anni e più prima della nostra era, un potentere, il grande Hammurabi, volle fissare le sue leggi, e lefece scolpire su lapidi di diorite, che gli eruditi poteronodecifrare in parte ancora. Eccole sue parole, 2200 A. C.:

«Io cacciai il nemico a Nord e a Sud. Posi fine allesue illusioni. Diedi la salvezza alla mia terra. Feci sì cheil popolo vivesse in sicurtà. Non permisi che alcuno lomolestasse... Portai nel mio seno il popolo della terra diSumer e Akkad. Sotto la mia protezione condussi i lorofratelli in sicurtà. Nella mia saggezza li moderai, affin-chè il forte non opprimesse il debole. Feci sì che la ve-dova e l’orfano avessero giustizia in Babilonia, la cittàle cui torri inalzarono Anu e Bel».

Ragioni ottime, non c’è dubbio: nessuno potrebbe op-porsi a questi principî generali. Il sovrano concludequindi:

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«A colui che osserverà le mie parole, che io ho scrittosul mio mausoleo, e non cancellerà le mie sentenze, nonannullerà le mie parole, nè altererà le mie leggi: alloraShamask prolungherà il regno di quell’uomo come haprolungato il mio, poichè io sono Re di giustizia, affin-chè egli possa governare il suo popolo in giustizia».

* * *

Hammurabi aveva nobili intenzioni, e scriveva chia-ramente le sue leggi; e alcune di queste sopravvisserofino ai nostri tempi, attraverso innumerevoli codici elingue. Ma prima ancora della sua morte, gli uomini ca-valcavano sulla nuova invenzione, il cavallo addomesti-cato (a lui noto come l’«asino delle montagne»); e si ar-marono di archi e frecce, di spade e lancie di ferro; el’impero di Hammurabi ebbe nuovi padroni, che per lesue leggi dimostrarono scarso riguardo.

Eppure l’uomo ha bisogno di leggi; non fosse altralegge che la necessità di trasformarsi per adattarsi anuove circostanze. Gli Stati Uniti, ultima frontieradell’invenzione meccanica, rappresentano un grandecampo per un esperimento sociale, che in questo mo-mento si trova inceppato da leggi superate e antiquate.L’America vorrà accettare la sfida? Vorrà aggiungerenuove pietre miliari alle molte che già segnano le suestrade, e affermare ancora una volta la forza del progres-so, sia materiale che spirituale?

La legge era già antica quando Babilonia era giovane

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«A colui che osserverà le mie parole, che io ho scrittosul mio mausoleo, e non cancellerà le mie sentenze, nonannullerà le mie parole, nè altererà le mie leggi: alloraShamask prolungherà il regno di quell’uomo come haprolungato il mio, poichè io sono Re di giustizia, affin-chè egli possa governare il suo popolo in giustizia».

* * *

Hammurabi aveva nobili intenzioni, e scriveva chia-ramente le sue leggi; e alcune di queste sopravvisserofino ai nostri tempi, attraverso innumerevoli codici elingue. Ma prima ancora della sua morte, gli uomini ca-valcavano sulla nuova invenzione, il cavallo addomesti-cato (a lui noto come l’«asino delle montagne»); e si ar-marono di archi e frecce, di spade e lancie di ferro; el’impero di Hammurabi ebbe nuovi padroni, che per lesue leggi dimostrarono scarso riguardo.

Eppure l’uomo ha bisogno di leggi; non fosse altralegge che la necessità di trasformarsi per adattarsi anuove circostanze. Gli Stati Uniti, ultima frontieradell’invenzione meccanica, rappresentano un grandecampo per un esperimento sociale, che in questo mo-mento si trova inceppato da leggi superate e antiquate.L’America vorrà accettare la sfida? Vorrà aggiungerenuove pietre miliari alle molte che già segnano le suestrade, e affermare ancora una volta la forza del progres-so, sia materiale che spirituale?

La legge era già antica quando Babilonia era giovane

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e le venerande lapidi di Hammurabi uscivano dalle manidegli scalpellini. È impossibile concepire l’uomo senzaleggi per cui egli viva in armonia con i suoi simili, conl’ambiente, con i suoi strumenti di lavoro e con quelconcetto dell’invisibile universo che attraverso l’imma-ginazione sfiora il suo intelletto. Dopo averne subito laforza, l’uomo ha domato la Fame, il Terrore, il Fuoco, ilGhiaccio, il Ferro e il Vapore, e molte altre forze ancorache ha rapito al Caos per forgiarle a sua guisa. In tuttol’universo, di tutti i tempi, non esistettero mai uominiprivi di leggi: sarebbe un’anomalia, una contraddizionein termini. Poichè l’uomo esiste solo in forza del pensie-ro, il pensiero è legge. Poichè pensa, l’uomo spera; esperando non può disperare. In tutta la lunga e faticosatestimonianza dei secoli non c’è ragione per un pessimi-smo che porterebbe solo alla negazione.

Nato dalle sue stesse ossa, dai suoi muscoli, tendini,nervi, occhi, dalla sua materia cerebrale, l’uomo è il ri-sultato materiale degli arnesi che il suo intelletto foggiòsecondo l’ambiente e il bisogno. Dai suoi terrori sorserodemoni; dalle sue speranze nacquero dèi. Fra la miriadedelle ingegnose invenzioni, sparse nel tempo e nellospazio per tutto il globo terracqueo, scaturite dalla suanatura inerte, egli è un’ombra proiettata dalla sua stessaombra. Ma donde viene la luce che dà vita alla sua stes-sa ombra?

Alle conquiste meccaniche dell’uomo noi abbiamodedicato un omaggio forse insufficiente, ma certo benin-teso. Nel nostro intelletto abbiamo misurato la forza del

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e le venerande lapidi di Hammurabi uscivano dalle manidegli scalpellini. È impossibile concepire l’uomo senzaleggi per cui egli viva in armonia con i suoi simili, conl’ambiente, con i suoi strumenti di lavoro e con quelconcetto dell’invisibile universo che attraverso l’imma-ginazione sfiora il suo intelletto. Dopo averne subito laforza, l’uomo ha domato la Fame, il Terrore, il Fuoco, ilGhiaccio, il Ferro e il Vapore, e molte altre forze ancorache ha rapito al Caos per forgiarle a sua guisa. In tuttol’universo, di tutti i tempi, non esistettero mai uominiprivi di leggi: sarebbe un’anomalia, una contraddizionein termini. Poichè l’uomo esiste solo in forza del pensie-ro, il pensiero è legge. Poichè pensa, l’uomo spera; esperando non può disperare. In tutta la lunga e faticosatestimonianza dei secoli non c’è ragione per un pessimi-smo che porterebbe solo alla negazione.

Nato dalle sue stesse ossa, dai suoi muscoli, tendini,nervi, occhi, dalla sua materia cerebrale, l’uomo è il ri-sultato materiale degli arnesi che il suo intelletto foggiòsecondo l’ambiente e il bisogno. Dai suoi terrori sorserodemoni; dalle sue speranze nacquero dèi. Fra la miriadedelle ingegnose invenzioni, sparse nel tempo e nellospazio per tutto il globo terracqueo, scaturite dalla suanatura inerte, egli è un’ombra proiettata dalla sua stessaombra. Ma donde viene la luce che dà vita alla sua stes-sa ombra?

Alle conquiste meccaniche dell’uomo noi abbiamodedicato un omaggio forse insufficiente, ma certo benin-teso. Nel nostro intelletto abbiamo misurato la forza del

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suo pensiero e passato in rassegna i prodotti di questopensiero. Eppure, più o meno, l’uomo è il paradossodella creazione, l’esperimento meno utile, la più grotte-sca beffa del destino. Dalla stessa finestrella della pro-pria anima, di tempo in tempo l’uomo ha còlto un vagobarlume di quella forza donde tutte le forze nacquero, lacausa di tutte le cause, la Causa Prima. Il suo spirito nonè che lo specchio il quale coglie questa luce.

L’uomo ha compiuto finora un assai lungo viaggio;ha visto e desiderato infinite cose; ma contro ogni ne-cessità e ogni barriera il suo spirito ha trionfato. Egli èstato pari al suo compito. Ancora non è giunto al termi-ne del cammino: nella gran luce del sole, ombre si deli-neano e prendono corpo, sogni si fanno sostanza e addi-tano più grandi sogni. Ancora l’uomo non ha finito dicompiere miracoli; ne questi hanno finito di ricompen-sarlo. È un’alleanza che non potrà essere distrutta, fino ache l’uomo si vale della forza dell’intelletto. E chi vorràdunque porre un limite al suo progresso, o una frontieraalle sue aspirazioni?

FINE.

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suo pensiero e passato in rassegna i prodotti di questopensiero. Eppure, più o meno, l’uomo è il paradossodella creazione, l’esperimento meno utile, la più grotte-sca beffa del destino. Dalla stessa finestrella della pro-pria anima, di tempo in tempo l’uomo ha còlto un vagobarlume di quella forza donde tutte le forze nacquero, lacausa di tutte le cause, la Causa Prima. Il suo spirito nonè che lo specchio il quale coglie questa luce.

L’uomo ha compiuto finora un assai lungo viaggio;ha visto e desiderato infinite cose; ma contro ogni ne-cessità e ogni barriera il suo spirito ha trionfato. Egli èstato pari al suo compito. Ancora non è giunto al termi-ne del cammino: nella gran luce del sole, ombre si deli-neano e prendono corpo, sogni si fanno sostanza e addi-tano più grandi sogni. Ancora l’uomo non ha finito dicompiere miracoli; ne questi hanno finito di ricompen-sarlo. È un’alleanza che non potrà essere distrutta, fino ache l’uomo si vale della forza dell’intelletto. E chi vorràdunque porre un limite al suo progresso, o una frontieraalle sue aspirazioni?

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