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Il riscatto dei vuoti urbani comincia da sTREEt di Maddalena Scalabrin Martina Lucchi Un paesaggio Stretto EDITORIALE di Daniela Colafranceschi Orti in iter tra spazi disegnati e spazi praticati di Maria Felicia Della Valle #08mag/giu 2012 PAESAGGIO DELLA CREATIVITÀ URBANA

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La rivista di verdiana Network. PAESAGGIO DELLA CREATIVITA' URBANA

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Page 1: Network In Progress #8

Il riscatto dei vuoti urbani comincia da sTREEt di Maddalena Scalabrin

Martina Lucchi

Un paesaggio StrettoEDITORIALE

di Daniela ColafranceschiOrti in iter tra spazi disegnati e spazi praticati

di Maria Felicia Della Valle

#08mag/giu 2012 PAESAGGIO DELLA

CREATIVITÀ URBANA

Page 2: Network In Progress #8

www.verdiananetwork.com

Direttore Responsabile della rivista_Alessandra Borghini..........................................sandra.borghini@edizioniets.com Presidente del Comitato di redazioneEnrico Falqui....................................................................... [email protected] Generale, Responsabile stage formativi e attività di tirocinio_arch. Francesca Calamita.........................................francesca.calamita@libero.itResponsabile editoria e comunicazioni_arch. Stella Verin...............................................................stellaverin@gmail.comResponsabile web e servizio inviato speciale_Valerio Massaro.......................................valerio.massaro@verdiananetwork.comResponsabile progetto di ricerca_dott.ssa Chiara Serenelli.......................................chiaras@verdiananetwork.com Responsabile progetti urbani_arch. Paola Pavoni...........................................................pavoni_paola@libero.it

Concept copertina: Annalisa Cataldi, Antonina Cremona

Contatti

[email protected]

Direttore responsabile: Alessandra Borghini

Casa Editrice e sede della rivista : ETS, P.za Carrara 16/19, Pisa

Legale rappresentante Casa Editrice : Mirella Mannucci Borghini

Presidente redazione e proprietario sito online : Enrico Falqui, via Lamarmora 38, firenze

Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa n° 612/2012 , periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress”

Responsabile editoriale: Stella Verin

Editing e grafica: Valerio Massaro

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SOMMARIO

Il riscatto dei vuoti urbani comincia da sTREEt di Maddalena Scalabrin

Martina Lucchi 21UNA TESTIMONIANZA DI CREATIVITA’ URBANAIL TEATRO DEI CHILLE DE LA BALANZA NELL’EX-MANICOMIO DI SAN SALVI A FIRENZE: UN LUOGO-CORPO di Claudio Ascoli 27RIPENSARE LA GRAND PARIS: LA VILLE POREUSE

di Annalisa Biondi 33Barriere architettoniche e permeabilità urbana

di Damiano Galeotti, Sabrina Tozzini, Stella Verin 41

RECENSIONI

La fine della città Leonardo Benevolo

di Arianna AnichiniLa fine della res publica? 49

Un paesaggio Stretto 7EDITORIALE

di Daniela Colafranceschi

13Orti in iter tra spazi disegnati e spazi praticati

di Maria Felicia Della Valle

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IDEE CREATIVE IN MOSTRA PER SARZANAConvegno ed esposizione delle proposte di riqualificazione e valorizzazione per il territorio di Sarzana dell’Università di Firenzedi Francesca Calamita

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PhotoStory

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La photostory di questo mese parla di particolari, dettagli e oggetti che non sempre notiamo ma che ‘popolano’ la città. Sono passati più di 30 anni ha quando provocatoriamente Hollein affermava che “tutto è architettura”; eppure la nostra percezione sembra ancora poco abituata a questa concezione. L’approccio ‘paesaggistico’ sembra avere connaturata in se una visione olistica e omnicomprensiva della realtà; quella visione secondo cui tutto, anche ciò che non rimane è paesaggio.Il paesaggio urbano invece sembra refrattario a questa interpretazione, la definizione stessa che oggi la parola ‘architettura’ vuole assumere sembra rifuggirne.Eppure le città sono piene di giustapposizioni di oggetti, segnali, decorazioni e vegetazioni...Quello che bisogna chiedersi è se l’architettura ‘spogliata’ di tutti questi elementi sia ancora architettura piuttosto che mera ‘materia’; perché se per architettura intendiamo quella ‘della città può perdere la sua natura una volta sparito l’elemento umano, fatto questo sí sempre di contraddizioni e giustapposizioni.

Civita di Bagnoreggio, Viterbo Foto di Paolo Alfieri

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Foto di : Vanessa Lastrucci, Fotografo Freelance

L’Architettura che non mi piaceL’Architettura che mi piacedi Enrico Falqui

Rubrica

Io e i miei allievi abbiamo sostato in silenzio davanti al “mausoleo” di Castello, dove troveranno alloggio gli allievi sottufficiali della Scuola nazionale dei Carabi-nieri.“Ma come è stato possibile?” mi chiedevano.In quei momenti, ripensavo a certi commenti di Nietsche sull’ Architettura, defini-ta “ a volte, capace di diventare una specie di oratoria della potenza per mezzo della forma” o quelle dell’architetto Otto Wagner, il quale, già nel 1895 affermava “niente che non sia funzionale potrà mai essere bello, ma anche niente che sia tanto brutto potrà mai essere funzionale”.Poi, presi la parola e dissi loro: ”Niente di quello che Richard Rogers aveva pro-gettato nel 1995 si è realizzato, e dal 1997 al 2004, il Comune di Firenze ha permesso che il previsto “luogo” di accesso del Parco metropolitano fiorentino diventasse un ‘nuovo Corviale’, consegnandolo alla strategia di ‘guerra’ tra le società in gara per un appalto da 261 milioni di euro. Poi è arrivata l’indagine della Procura di Firenze,i processi sulla corruzione e sugli illeciti si stanno ancora celebrando, ma Firenze non riavrà più il “senso di un luogo”, che le è stato defi-nitivamente sottratto.

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PhotoStory

6Poggioreale, TrapaniFoto di Paolo Alfieri

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Sono numerose le esperienze didattiche, di indagine scientifica, di applicazione

progettuale di laboratori seminariali che ci vedono intervenire su temi legati alla città e al territorio, per i quali si privilegiano ambiti applicativi che sono instabili, preca-ri, di frontiera, comunque nevralgici, dove l’intervento di architettura del paesaggio assume un ruolo chiave e determinante.

1. Area Falcata a Messina (foto di Daniela Colafranceschi)

Un paesaggio Stretto

EDITORIALE

di Daniela ColafranceschiUniversità degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria

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Mi riferisco a quelli che ho spesso deno-minato ‘paesaggi critici’ perché fragili, compromessi, apparentemente svuotati di senso, eppure potenzialmente di grande ricchezza.Il contesto geografico, come uno degli am-biti possibili di riferimento, è quello me-diterraneo; per cultura, per consuetudine, per la complessità che presenta e le oppor-tunità che offre, non ultimo, per i labora-tori di progetto che nella mia Facoltà di Reggio Calabria andiamo svolgendo e che, proprio a queste latitudini, si rivolgono.I porti, gli stretti, le aree marginali, de-presse o ex infrastrutturali, le periferie ur-bane, il sistema degli spazi pubblici della città consolidata, l’architettura dei parchi e dei giardini per ambiti di margine, la ri-qualificazione di fiumare, ambiti costieri, per i quali il sistema ‘paesaggio’ alla luce dell’attuazione della Convenzione Euro-pea, reclama la definizione di attitudini e politiche per una qualità strategica di in-tervento, nel progetto e nella sensibilizza-zione ambientale dei suoi valori paesaggi-stici. Ai luoghi marginali, critici, incoerenti, si riconosce una forte potenzialità pae-saggistica verso la loro sensibilizzazione estetico-culturale ed ecologico-ambientale in grado di riqualificarli come ‘sistemi di nuova centralità’. Dalla recente ratificazione della CEP-Con-venzione europea del paesaggio, emerge in modo netto, la necessità di pensare al pa-esaggio non in riferimento a singole parti di pregio del territorio, ma all’intero ter-

ritorio e alle sue risorse, come esito della secolare influenza delle attività antropiche che qui si sono succedute e stratificate. Questa nuova istanza porta con sé due conseguenze fondamentali: la prima, è che lascia dunque intendere, estendere (e ribaltare) un concetto di ‘paesaggio di qua-lità’ verso l’idea di ‘qualità del paesaggio’: qualità, evidentemente, di tutto il paesag-gio, in quanto prodotto, immagine scritta sul suolo di una società e di una cultura.La seconda -conseguente- è che questo nuovo concetto di paesaggio, individua di per sé un’area che non è omogenea e dunque il paesaggio a cui appartiene non è semplicemente la dilatazione fisica di ambiti territoriali contenuti nel suo peri-metro, ma in una logica del tutto nuova, il riconoscimento di un ‘paesaggio misto’, complesso, ibrido, per il quale non esisto-no confini, limiti, bordi e dove non si di-stingue un dentro da un fuori. E’ un siste-ma aperto; una geografia di risposte locali e globali, plurali e specifiche di espressioni estetiche, emozionali, sociali.

E’ da qui, l’interesse, ad individuare pro-prio negli ambiti di limite, nelle frange di transizione, nella condizione di ‘margine’ una categoria progettuale propria dei pa-esaggi della contemporaneità; luoghi in-terfaccia che alimentano di ‘differenza’ ed eterogeneità, spazi dove si sovrappongono e transitano altri e nuovi significati, laddo-ve l’imprecisione dei contorni è la chiave per penetrare nel significato delle cose ed alimentare quella ‘macchina interpretativa’

2. Quartiere S. Sperato a Reggio Calabria (foto di Stefania Condurso)

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che ci permette di abitare luoghi apparen-temente inabitabili.Sono territori che ci parlano, che ci rendo-no evidente che, il paesaggio che li carat-terizza, il paesaggio di ‘limite’, qui separa e unisce allo stesso tempo. Sono spessori che hanno specificità propria, non sono solo “tra”, non identificano una demarcazione tra un bianco e un nero, ma vivono di una identità propria, come spazi ‘somma’ e ‘so-vrapposizione’ attraverso i quali transita-no nuovi e diversi significati. Uno spazio ‘terzo’ tra due, che genera l’esistenza di un altro territorio, questo sì privo di confini, di grande ricchezza e qualità.Sono luoghi più difficili da ‘interrogare’ ma da cui è più facile ricevere risposte.Il mediterraneo, o meglio un mediterra-neo -quello meridionale- e la sua geografia complessa, da telone di fondo, assume qui un ruolo protagonista. Un paesaggio che rimane nel suo insieme, referente più generale di una dimensione di conoscenze specifiche morfologiche e fenomenologiche ormai radicate nella no-stra cultura.

Paesaggio mediterraneo come paesaggio fragile, povero, con scarsa possibilità di ri-generazione, molto vulnerabile agli inter-

venti urbanistici ed infrastrutturali e con poca capacità di suturare spontaneamente le ferite ad essi conseguenti.Il progetto di questo paesaggio passa per la lezione della sua geografia: una lezione di razionalità, che incontra il linguaggio esatto dei materiali disponibili, di relazio-ne organica con il territorio; la lezione di un dialogo intelligente con il luogo anche alla scala di spazi e risorse minime.Calabria e Sicilia: dimensioni difficili e magnifiche al contempo. Regioni delle differenze, dei disagi, dei forti contrasti e dalle mille contraddizioni, dagli assetti ter-ritoriali di volta in volta imposti e stratifi-cati; quelli di queste terre sono paesaggi fortemente dinamici che si giustappongo-no e contrappongono ad altri tenacemente statici.

Così, lo Stretto di Messina ha visto spesso misurarci - attraverso il progetto di archi-tettura del paesaggio - con la sua criticità. Un’area geografica che suggerisce e stimo-la la possibilità di indagare nuovi patti tra natura e cultura; luoghi dove è possibile in-contrare sintesi paesaggistiche innovative. E’ un habitat che ispira nostalgia ma per-mette anche prospettive, immagini, con-cetti, forme, sentimenti e ragioni del tutto

3. Quartiere S. Sperato a Reggio Calabria (foto di Stefania Condurso)

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moderni.Il sistema degli ambiti pubblici qui è an-cora in grado di strutturare tra loro antichi insediamenti, espansioni urbane ed inter-venti edilizi recenti; strade piazze e ancora tra questi i cortili, gli interstizi, i vuoti, gli ambiti incolti di prossimità o gli slarghi stradali, nell’idea che anche solo pochi ele-menti possano generare capacità evocatrici forti; che lavorare con materiali semplici possa arricchire un progetto; che la mo-dificazione solo lieve della topografia lasci conquistare un valore di complessità allo spazio.Città, sobborghi, paesi, località costiere e balneari, centri agricoli e rurali, tutte iden-tità riconoscibili, tra le quali si interpon-gono frange indefinite di territori neglet-ti, di periferie autocostruite, di estensioni urbane abusive diffuse, di zone intermedie ibride o aree dimesse che attendono rispo-ste progettuali in adesione a quel ‘sistema paesaggio’ che gli è pertinente e apparte-nente.Condizioni che impongono strategie di intervento forti come forti e critici sono questi contesti; reclamano cioè una attitu-dine paesaggistica che non è soltanto di ri-sanamento o di tutela, che non è solo pro-tezionista nei confronti di una patologia esistente. Il progetto di paesaggio identifi-ca invece la chiave di volta con cui riscatta-re queste realtà attraverso una risposta che non può che essere contundente e anche provocatoria; che permetta ai luoghi di acquisire - per reazione - un’identità pro-pria e rispondere così ad un nuovo assetto, ad una modificazione sul piano funzionale ed estetico, con un valore aggiunto di qua-lità per quella parte di territorio o di città a cui si dirige.

Con il riconoscimento di “Reggio Cala-bria città Metropolitana” (marzo 2009) si consolida un’identità dello Stretto come Area Metropolitana.Si consolida e legittima dunque il pensiero di una area estesa al territorio di Calabria e Sicilia prospiciente lo Stretto, dove città, cittadine, centri minori, conurbazioni, in-

frastrutture, connotano un unico sistema metropolitano. Per esso è proprio il siste-ma ‘paesaggio’ – a partire dal suo mare, quello dello Stretto – il più forte ‘link’ di connessione e di identità comune.E’ per questo che ho più volte usato il ter-mine di ‘Parco dello Stretto’ per meglio esprimere quell’idea identitaria di questo ambito geografico e alle potenzialità forti che offre , quando si pensi al suo territorio come dispositivo di nuova significazione, come soggetto capace di sostenere stra-tegie e generare processi di qualificazione o ‘riqualificazione’ attraverso il progetto ‘non convenzionale’ del suo paesaggio. L’esistenza di un’Area Metropolitana dello Stretto non fa che ribadire questo concet-to. Il ‘Parco dello Stretto’ come capacità che ha una porzione di territorio di resti-tuire significato e qualità e, parallelamente innescare un processo piú diffuso di rico-noscimento del suo paesaggio come pro-dotto culturale, perché spazio complesso, ibrido.

L’acqua non è tutta uguale. Il mare, così come la terra acquistano senso e significati in relazione alle geografie a cui apparten-gono. Quanto più una distanza che se-para le coste diminuisce, tanto maggiore è il grado di relazione che tesse tra le sue sponde. Gli stretti di mare in questo sen-so, sono spazi di tensione e relazione del tutto speciali. Sono ambiti unici e vorrei aggiungere ‘uniti’. Il loro identificarsi come unità è forse definito più dall’uso, dal passaggio, dal viaggio, dalla visita e dalla vista di questo luogo, che da coloro che lo vivono e vi ap-partengono. L’acqua, per queste geografie, agisce come potente fattore identitario.Quindi, un pezzo di mare speciale, una ‘piazza liquida’, lo spazio pubblico tessuto e sotteso dalle mille traiettorie e rotte che quotidianamente lo attraversano, lo solca-no, lo ‘attaccano’ alle sue rive. La grande piazza dell’Area Metropolitana si carica di identità propria, proprio perché spazio di incontro tra entità.Sono le città insieme ai loro territori di

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margine ad intessere il dialogo tra spon-de, a costruire differenti assetti e adattabi-lità espressive. E’ il loro paesaggio a defi-nirsi come struttura ‘portante’ di un unico ‘sistema’ in grado di superare e annullare una cronicizzata dicotomia.Il Parco dello Stretto come ipotesi di pen-siero, intenzioni e attitudini verso un pro-getto unico, organico, condiviso da aree metropolitane su sponde opposte, dove l’assenza di una loro connessione fisica, di-venti il punto di forza che ne potenzi inve-ce l’integrazione.Un ambito ‘scambiatore’ di relazioni e va-lori urbani tra le città a cui appartiene e di cui disegna le geografie. E’ uno spazio defi-nito da ‘reti’, attraversato, percepito, con-trollato, e proprio per questo fortemente ‘vincolo’ tra città e territorio. E’ un ibrido perché è un territorio costituito da acqua e terra; è un territorio di mare. E’ un parco perché non cessa di mediare la relazione tra ambiente e città. Così sul piano della distanza metrica tra le

due sponde, - che esiste solo sulla superfi-cie astratta della carta geografica – le due coste sono saldate: l’acqua tesse la relazio-ne che tra le due coste racchiude.Non una scenografia, ma una geografia complessa e critica, dove il teatro di una sua identità culturale è quella del paesag-gio e delle mille forme di abitarlo. Al progetto la grande responsabilità di in-terpretarlo.

4. Frange e brani di coltivazioni nella periferia di Reggio Calabria (foto di Daniela Colafranceschi)

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PhotoStory

12 Poggioreale, TrapaniFoto di Paolo Alfieri

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Fig.1 Berlino, Hebbel Theater, Life Science-Urban Farming

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Rapportarsi al paesaggio urbano impli-ca l’esercizio di leggibilità trasversali

derivanti dall’interazione tra spazi-usi-desideri che ne trasformano le valenze, i confini, le immagini. Nella misura in cui gli spazi sono esprimibili in forma di iti-nerari personali, essi diventano esperienze della casualità e dell’imprevisto, assimila-bili non tanto al solo schema dei bisogni, quanto piuttosto alla trama dei desideri, in sintonia con quanto già affermava Me-lin Webber sull’importanza di considerare le comunità urbane “come sistemi estesi nello spazio, processuali, i cui cittadini in-teragiscono con altri cittadini ovunque si trovino, in quanto è l’interazione, non il luogo, che costituisce l’essenza della città e della vita urbana”. Ciò comporta la necessità di riconoscere, nei processi di trasformazione e rigenera-zione urbana, la creatività come catego-ria progettuale per calibrare l’attenzione da una semplice risoluzione delle criticità riscontrate, all’immissione di opportuni-tà concrete volte a rafforzare un milieu

Orti in iter tra spazi disegnati e spazi praticatidi Maria Felicia Della ValleDottore di Ricerca in Progettazione Paesistica

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culturale già presente o potenziale nelle pratiche di appropriazione/cura degli spa-zi di uso individuale e collettivo. In tale ottica gli orti urbani, come tipologia di verde, possono assumere un ruolo nodale nella trama degli spazi aperti di numerosi quartieri o aree di margine dove, spesso, l’eccessiva frammentazione e discontinuità degli ambiti individuali, collettivi o semi-collettivi genera difficoltà di usi, orienta-mento, integrazione nonché bassi livelli di accessibilità e di sicurezza. Non è un caso che l’inserimento degli orti sia considerato dalle strategie di gover-nance territoriali sempre più orientate ad interventi di riqualificazione degli spazi interstiziali e residuali di prossimità per la costruzione di nuovi sistemi di paesag-gio rispondenti a specifiche esigenze delle collettività locali: “parchi agricoli peri ur-bani, spazi di vecchie e nuove filiere agro-alimentari d’eccellenza, sistemi di orti, giardini, aree per lo sport e aree del loisir concorrono a svelare una campagna che oggi non è più solo luogo di produzione distinto fisicamente e funzionalmente dai quartieri, ma che piuttosto si configura come un ulteriore prolungamento degli spazi dell’abitare urbano”.

Pertanto gli orti, nelle zone urbane e pe-ri-urbane, svolgono funzioni produttive, ambientali, sociali e culturali, sempre più richieste a livello globale con trend di cre-scita esponenziali, che stanno delineando, in molti scenari contemporanei, nuove modalità di gestione, fruizione e valorizza-zione dello spazio pubblico. In tal modo, il carattere di multifunzionalità assunto dall’attività orticola, si riflette non solo in una diversificazione della produzione di beni e servizi, ma anche in una trasfor-mazione dei paesaggi urbani ordinari con nuove forme di spazialità, nuovi modelli insediativi, nuove reti di connessione. Disponendosi all’esterno dei rapporti eco-nomici che regolano e strutturano gene-ralmente gli spazi agricoli destinati alla grande produzione, gli orti possono rap-presentare una vera e propria risorsa per la riqualificazione di aree di frangia e di risulta, per l’adeguata dotazione di verde e attrezzature ricreative in quartieri residen-ziali ad alta densità, per il miglioramento della qualità ambientale e paesaggistica dei contesti di vita, per l’integrazione econo-mica, occupazionale e socio-culturale, per lo sviluppo di servizi pedagogici e tera-peutico-riabilitativi, per la produzione e la commercializzazione di alimenti di quali-tà, per la realizzazione di veri e propri pre-sidi di quartiere.Le nuove istanze di carattere ambientale e sociale superano, nell’incremento della sua potenzialità di spazio collettivo, i risvolti dell’uso privatistico di uno spazio di pro-prietà pubblica. Per esempio, in Francia e in Inghilterra questo tipo di riserva, tra le maggiori inerenti la gestione degli orti, è stata soppiantata dal diffuso riconosci-mento del loro contributo alla risoluzio-ne delle problematiche urbane legate al degrado e ai disagi sociali grazie al lavoro delle associazioni che, pur conservando il tradizionale modello organizzativo basato sulla proprietà collettiva, pubblica o asso-ciativa del terreno con conduzione indivi-duale degli orti, hanno promosso la loro fruizione come spazi aperti di quartiere con una diversa commistione d’usi e fun-

2. Berlino, City Plants, Professional meeting for more participation in city design

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zioni e, dove possibile, il loro inserimento nei parchi urbani. Dal punto di vista progettuale nel corso della sua storia evolutiva il fenomeno degli orti si è collocato su una linea sottile tra due diverse modalità: la progettualità co-dificata e l’autocostruzione. Alla ricerca di forme e di organizzazioni spaziali che li ca-ratterizzino come portatori di qualità este-tica raggiunta attraverso il principio ordi-natore dell’uniformità e dell’integrazione contestuale, fa riscontro un altro aspetto, legato all’esistenza di soluzioni spontanee, emblemi di processi cognitivi di invenzio-ne e interpretazione personale dello spazio e di rifiuto di soluzioni progettuali molte volte avvertite come modelli estranei alla natura e alla cultura del luogo, in qualche modo imposte. Nel paesaggio degli orti sembra, infatti, de-linearsi quasi un’inconsapevole resistenza alla rarefazione di quegli spiragli di auto-nomia dell’abitare e a quei gradi di libertà del vivere cittadino: la volontà di un uni-verso urbano che, sia quando è progettato sia quando è autocostruito, tenta di evitare di restare soffocato dall’omologazione dei processi di globalizzazione, da una par-te, e dalla resistenza dei sistemi regolativi dall’altra. Alla luce degli sviluppi attuali, preme evidenziare come funzioni e forme

3. Lione, Jardins familiaux du Fort de Bron. Progetto Stu-dio Ilex. La veduta aerea evidenzia l’articolazione dell’im-pianto e le relazioni introdotte dal progetto che si è occu-pato della riorganizzazione del sito di orti concependolo come uno spazio aperto di quartiere.

4. Jardin du Closs Carret, Quartiere de la Croix-Rousse. L’orto pedagogico si estende tra due strade parallele su cui prospettano gli antichi edifici dei canuts (operai tessi-li) richiamando nell’apertura dei passaggi la traccia della ripartizione parcellare che caratterizzava i jardins potager presenti in questo quartiere operaio.

degli orti possano essere congruenti con la grammatica dei contesti di localizzazione: quale paesaggio per gli orti? E quale forma di integrazione paesaggistica?Dal punto di vista pubblico gli orti urbani sono attualmente nell’occhio di un ciclone mediatico per quanto riguarda il livello di attenzione sul tema da parte delle collet-tività e degli enti governativi: nel campo della prassi rientrano in molti progetti di rigenerazione e riqualificazione urbana per la dotazione di spazi verdi e aree ricreative, ma ciò non toglie che restino da una parte al centro di critiche e, dall’altra, di forme di assorbimento nell’establishment ufficia-le; ciò rende questo tipo di paesaggio da un lato, a rischio di estinzione e dall’altro di standardizzazione.Il sociologo Ivan Illich avrebbe detto de-gli orti che si tratta di “diritto alla disoc-cupazione creativa”, di spazi vernacolari che ripropongono nella vita della città un tipo di economia che è molto più vicina al valore d’uso che al valore di scambio. Lo

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stesso Illich però a distanza di pochi anni nel suo Lavoro Ombra avvertiva il rischio di una fenomenologia del margine: “nel diritto di arrangiarsi da soli c’è la strategia di un sistema che si sbarazza del welfare e che addossa tutti i costi del fare società ai cittadini, al loro fare informale. In un cer-to senso è tutta la logica del self-help che sembra per un verso liberatoria e per un altro invece uno sfruttamento ulteriore del settore informale, a cui viene affidato quel link-work, quel lavoro che consiste nel te-nere insieme la società di cui la grande eco-nomia ha voluto ben presto sbarazzarsi”. Ciò che invece andrebbe evidenziato nel rapporto tra percezione pubblica e mondo degli orti è che si tratta di un paesaggio or-dinario, quello portato a pari dignità dalla rivoluzione concettuale della Convenzione Europea del Paesaggio. Un paesaggio quo-tidiano che, al pari di altri, si configura come indizio del livello di vita delle città, del livello con cui le persone sono capaci di rendere familiari anche spazi sfigura-ti da interventi poco attenti alle esigenze del vivere e dimentichi di quell’aspirazione

manifesta del cives, il quale tende sempre a riaffermare la necessità di uso dello spazio. La città vive di una parte conscia e di una parte inconscia, quella conscia dovreb-be costruire strade, case, monumenti per favorire l’espressione di quella inconscia, per niente marginale, non per soffocar-la, né per dirigerla perché essa appartiene alla libertà di ciascuno. In questa prospet-tiva si situano le nuove problematiche: dall’eccesso di produzione di un paesaggio spontaneo, gli orti tendono oggi a passare all’eccesso opposto, alla produzione di un tipo di paesaggio standardizzato che più che rispondere alla loro natura risponde a quella della loro facile accettazione. Quest’ordine di sistemazione e questa integrazione viene vista attraverso una progettazione dei siti fino al più piccolo dettaglio secondo uno stretto impianto formale e una rigida regolamentazione che deve tendere ad evitare le possibili derive di appropriazione dello spazio da parte dei fruitori. Tendenza rigettata da altre posi-zioni a favore di un paesaggio spontaneo, popolare, che conservi maggiore ricchezza

5. Copenaghen, Instant Allotment

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e autenticità. Quale prospettiva? Forse la soluzione è una scelta di mediazione tra la cultura dell’autonoma espressione, che prima di essere una condizione è un dirit-to, e la necessità dell’integrazione conte-stuale che ne restituisca i livelli di relazione spaziale e sociale. La domanda d’integra-zione non può essere ignorata e può essere soddisfatta proprio attraverso un progetto di paesaggio a “maglia flessibile” che colga e traduca i rapporti figurali con le forme e gli elementi del contesto e concepisca i siti non come allineamenti monotoni di parcelle, che definisca elementi progettuali in grado di lasciare margini di personaliz-zazione senza nuocere all’effetto d’insieme. Negli orti non si elaborano oggetti, ma re-lazioni ovvero rapporti di paesaggio che, attraverso segni progettuali o auto costrui-ti e i modi dell’aggregazione delineano tra-me eterogenee di micro paesaggi in grado di apportare nuove gamme tonali, nuo-vi livelli e spessori nella sintassi urbana. Non, dunque, una semplice sommatoria di frammenti in un rigida maglia spazia-le, ma circuiti di relazioni le cui singole sfere possono funzionare, a seconda delle esigenze, come entità autonome o come parte di un tutto più ampio e integrato nel contesto. In questo modo di riorganizzare lo spazio aperto, di effettuare operazioni

di conoscenza che lo investono e lo mo-dificano, ogni linea di confine si trasforma in elemento interagente con una pluralità di ruoli. Quindi se l’identità si costruisce nel fare comune, ricreando un rapporto affettivo di interazione tra comunità in divenire e luoghi, essa si configura come l’esito emergente di un’esperienza aperta di costruzione, non assumibile come dato a priori. Per questo l’appartenenza ai luo-ghi e alla comunità, possono essere solo esiti di un processo che passa dal diretto coinvolgimento delle soggettività e dalla costruzione di nuovi luoghi di incontro e di socialità attraverso interventi che non scindano le forme fisiche dai contenuti ap-propriabili.Ciò apre un’ulteriore riflessione sulla ca-pacità del progetto di paesaggio di farsi “dispositivo” e sulla centralità dell’agire secondo il paesaggio in qualsiasi campo dell’operatività dell’architettura. Una ri-flessione che tocca il ruolo del progettista nel processo di trasformazione del paesag-gio, che è processo essenzialmente collet-tivo.

6. Martine Rascle, Promenade. La na-ture en ville. Schizzo prospettico, matita e carboncino. Ar-chivio Agence Ilex, Lione 2005.

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1 MELIN WEBBER, Luoghi urbani e sfera urbana non locale, in AA.VV., Indagini sulla struttura urbana, Il Saggiatore, Milano, 1968, pag. 173. (edizione origi-nale 1964).2 PAOLA DI BIAGI, ELENA MARCHIGIANI (a cura di), Città pubbliche. Linee guida per la riqualificazione ur-bana, LaboratorioCittàPubblica, Mondadori, Milano 2009, pag. 105. Si pensi a quanto sia preminente, nelle aree metro-politane più congestionate, la richiesta, per esempio, di aree per prodotti alimentari di qualità (circuiti brevi di commercializzazione, pick your own, km 0, urban farming, raccolta diretta nei campi, reti di mutuo aiu-to, ecc.) da sviluppare mediante la tipologia degli orti collettivi o jardins habitant. Tra le diverse tipologie quelle più ricorrenti sono: orti familiari (tradizionali, assegnati ad un singolo utente senza la possibilità di commercializzazione dei pro-dotti); orti collettivi (generalmente non contemplano la parcellizzazione e prevedono la commercializzazio-ne dei prodotti in filiera corta per mense di strutture pubbliche, scuole, ospedali, ecc.); orti didattici (in-seriti nelle strutture scolastiche o allestiti all’interno dei siti di orti familiari o in spazi aperti di quartiere); orti terapeutici o di inserimento sociale (prevedono la commercializzazione dei prodotti in circuiti a corto raggio formati da reti associative finalizzate alla reinte-grazione nel mercato del lavoro dei soggetti emargi-nati. Si dispongono su terreni coltivati collettivamente con finalità terapeutiche conseguite attraverso la ria-bilitazione di persone in difficoltà fisiche, psicologiche e di inserimento occupazionale e sociale. In vista di tali obiettivi l’allestimento di questa tipologia richiede la predisposizione di una parte localizzata in una zona abitata che favorisca la dinamica relazionale con la collettività e la presenza obbligatoria di un coordina-tore professionalmente competente nelle tecniche di giardinaggio poste alla base della filosofia riabilitativa). L’inserimento degli orti nei parchi oltre ad aumenta-re la multifunzionalità incrementa la presenza umana, in termini di sicurezza e di presidio, anche nei gior-ni non festivi. Inoltre, in cambio della concessione in uso del terreno coltivabile, che dovrebbe pur sempre rimanere di proprietà pubblica, si potrebbero richie-dere prestazioni di manutenzione, abbattendo così i costi di gestione del verde pubblico. Cfr. MARIA FE-LICIA DELLA VALLE, POMPEO FABBRI, Il Verde Ur-bano. Struttura e Funzione, Politecnica, Milano 2010, pag.18. “L’autocostruzione significa usare lo spazio come risorsa. E’ quella capacità di orientamento, di fare di un posto il proprio luogo. E’ la permanenza di una facoltà culturale che si appiglia e mette radici per for-me e colori ed usi e movimenti: il luogo di arrivo della propria emigrazione”. FRANCO LA CECLA, I giardini di Lower East Side, in MICHELA PASQUALI, I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens, Bollati Bo-ringhieri, Torino 2008, pag. 12. Nella stretta relazione che intercorre tra l’orto e il suo ideatore, paesaggisti come Bernard Lassus hanno ravvisato “un’estetica radicata nei luoghi e fondata sull’immaginario dove l’incommensurabile poetico è l’alternativa immaginifico all’igienismo professionale

degli spazi verdi, alla sua incapacità di inventare il fia-besco e il sensibile della nostra epoca”. MASSIMO VENTURI FERRIOLO, Paesaggi rivelati. Passeggiare con Bernard Lassus, Guerini e Associati, Milano 2006, pag. 94.FRANCO LA CECLA, op. cit..,Torino 2008, pag. 12

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FirenzeFoto di Vanessa Lastrucci

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Logroño, centro storico, La Rioja (Spagna)Foto di Chiara Serenelli

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Il riscatto dei vuoti urbani comincia da sTREEtdi Maddalena Scalabrin Martina [email protected]

Gli alberi in città sono come degli ombrelli che ci proteggono dagli agenti atmosferici, purifica-no l’aria e l’acqua e forniscono benessere.Gregory McPherson

Quante sono le piazze, i parcheggi, le aree dismesse e gli spartitraffico ca-

ratterizzati dalla preponderante presenza del cemento? E in quale misura elementi come questi potrebbero abbellirsi grazie all’inserimento di alberi e vegetazione? Per chi ha la fortuna di abitare in zone verdi con una forte presenza di parchi e aree ri-servate agli alberi, la risposta è semplice: abbattimento delle polveri sottili e dello smog, riduzione delle allergie ai pollini, aumento del valore degli immobili, incre-mento della biodiversità, riduzione dello stress. Insomma: un netto miglioramen-to della qualità della vita. I vuoti urbani - vuoti squallidi e trascurati - si mostrano nelle nostre città sotto un’infinita varietà di forme e aspetti diversi, portando spes-so luoghi altrimenti vivibili a una perdita

Dr.ssa in Architettura del Paesaggio Dr.ssa in Architettura del Paesaggio

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di significato. Il rischio, denunciato fino allo sfinimento da attivisti e cittadini oggi come in passato, è quello della scompar-sa delle relazioni sociali, relegate a pochi ghetti privilegiati e alieni al resto della cit-tà. Il paradosso è che chi abita questi spazi privilegiati, magari senza rendersene con-to, rischia di rinchiudersi entro i propri confini e ignorare ciò che lo circonda, con una conseguente scollatura del tessuto so-ciale dell’intera città.Il vuoto deve essere ripensato e percepito come uno spazio pubblico multifunziona-le e come un luogo di benessere personale

in cui trascorrere il proprio tempo. Tutto questo è possibile grazie all’inserimento nel tessuto urbano di elementi del paesag-gio. Ed è qui che entra in gioco sTreet, un progetto che noi, ragazze laureate alla ma-gistrale dell’Università di Firenze, inten-diamo sviluppare nei prossimi mesi.Il nostro interesse per la questione nasce durante il tirocinio presso la P.O. Direzio-ne Ambiente del Q4, dove ci venne propo-sto di sviluppare un progetto esistente già nel lontano 2001. L’idea era semplice: ar-

ricchire gli angoli di Firenze piantando più alberi. Con l’intento di cogliere l’aspetto funzionale dell’albero calato in un conte-sto urbano, abbiamo pensato di trasforma-re l’operazione di pianificazione e realizza-zione dell’effettivo impianto dell’albero in qualcosa di immediato, tangibile e mone-tizzabile.Il primo step è stato quello di formulare un sistema di linee guida pratiche e detta-gliate, che si adattino allo spazio a dispo-sizione e che possano indicare le informa-zioni necessarie per un impianto corretto. Nasce sTreet, il cui nome rimanda proprio

a questo obiettivo (street, strada, ma an-che tree, albero). sTreet non si occupa dei grandi parchi o giardini storici, ma di pic-coli spazi, quelli meno noti ma non meno importanti. Micro-interventi di questo tipo consiste-ranno nell’introduzione di uno, due o più alberi, che andranno inseriti in varie aree sparse nelle nostre città. La novità di sTre-et consiste nel calcolo automatico, tramite software, del miglior modulo da inserire a seconda dello spazio disponibile, della ne-

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cessità di ombreggiamento, della presenza di parcheggi, dei limiti d’impianto e così via.L’accidentalità della genesi di questi spazi, e cioè il fatto che essi non siano nati da un disegno ma dall’assenza di un disegno (e su questa assenza diventa molto diffi-

cile sovrapporre qualsiasi schema), rende tuttavia l’operazione complicata. Affinché l’albero giusto al posto giusto diventi non solo uno slogan ma una realtà concreta e vantaggiosa per chiunque, abbiamo elabo-

rato un metodo che indichi le linee guida per una progettazione sostenibile, a secon-da della tipologia di spazio che si intende migliorare.Il software sTreet, in questa nuova ottica, diventerà quindi un mezzo consultabile in maniera intuitiva, permettendo a chi lo

userà di venire indirizzato verso un corret-to impianto arboreo. L’utente dovrà limi-tarsi a inserire i dati relativi allo spazio che intende riqualificare. Nello specifico:– le dimensioni dello stesso,

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– la distanza dall’edificato,– la distanza minima dalla carreggiata,– la presenza del marciapiede,– il grado di visibilità da garantire,– il contesto (parcheggio, vicolo, ecc),– la mappatura dei sottoservizi,– la presenza di impianti arborei nelle vi-cinanze.A questo punto il software indicherà il modulo sTreet più funzionale a quel parti-colare spazio, con le informazioni tecniche necessarie a realizzare un progetto corretto sia dal punto di vista formale che da quello tecnico-botanico. Nell’immagine qui sot-to alcuni esempi delle informazioni fornite dal modulo sTreet.Il progettista non dovrà far altro che intro-durre nello spazio da riqualificare il modu-lo sTreet che gli è stato indicato. Il softwa-re, in definitiva, è pensato per tutti coloro che hanno bisogno di un supporto nella realizzazione di un progetto di verde ur-bano, ed è indicato quindi sia per i tecnici comunali che necessitano di velocizzare i tempi progettuali, sia per gli architetti che si occupano anche di esterni, sia per pro-fessionisti del settore che lo useranno per dimostrare il valore economico del proprio lavoro.

I vantaggi sono evidenti: primo fra tutti quello di evitare le lunghe e travagliate fasi di scelta delle specie e delle tecniche d’im-pianto. Verrà inoltre garantita una certa omogeneità di interventi sul territorio, il che renderà il paesaggio urbano più digni-

toso e vivibile. Non solo: la progettazio-ne di ogni singolo spazio, grazie a sTreet, potrà essere presentata in anticipo ai com-mittenti secondo ‘linee giuda’ certificate, fornendo quindi costi, materiali necessari, uomini previsti e ore di lavoro richieste.STreet intende dimostrare come l’arbori-coltura urbana rappresenti, oltre che un ottimo espediente per ridare vita a quegli spazi che non hanno precisa destinazione d’uso, una buona pratica da molteplici punti di vista. La sistemazione degli inter-stizi urbani può riportare ordine, coeren-za e riconoscibilità funzionale in ambienti frazionati e disomogenei, migliorando in sostanza la qualità della vita di tutti noi e, soprattutto, delle generazioni alle quali la-sceremo in eredità questo piccolo e mera-viglioso pianeta.

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UNA TESTIMONIANZA DI CREATIVITA’ URBANAIL TEATRO DEI CHILLE DE LA BALANZA NELL’EX-MANICOMIO DI SAN SALVI A FIRENZE: UN LUOGO-CORPO

Dal 1998 un padiglione dell’ex-mani-comio fiorentino di San Salvi, e gli

spazi all’aperto che lo circondano, sono diventati sede e materia prima di un pro-getto teatrale dei Chille de la balanza, storica compagnia del teatro di ricerca in Italia (www.chille.it). Così, un’area di oltre 30 ettari - negata per più di un secolo ai fiorentini - si è nel tempo trasformata in una città aperta, luogo di produzione cul-turale: teatro, arti visive, musica, canzone d’autore, poesia… La parola ‘cultura’ ci riporta al verbo latino ‘còlere’ che ha diversi significati: coltivare (un campo), ornare (un corpo), venerare (una divinità), ma soprattutto abitare (un luogo).Abitare è una facoltà umana. E’ una abilità acquisita, costruita sì su una predisposizio-

di Claudio AscoliCompagnia Teatrale Chille de la balanza

1. San Salvi negli anni ‘20

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ne biologica (l’essere fisicamente presen-te in quel luogo), ma elaborata cultural-mente, quindi condivisa con una società. E come osserva Merleau-Ponty, “il nostro corpo non è nello spazio: abita lo spazio, inerisce lo spazio”. Località è la forma del possesso di un luo-go da parte dei suoi abitanti: il termine inglese belonging–appartenenza è da con-siderarsi attivo nei due sensi: dei luoghi e delle persone.Ecco perché mai come oggi è importante fare mente locale, comprendere come ogni gestione del territorio sia una mera que-stione di conoscenza locale. La Cecla propone un parallelo affascinan-te invitandoci a considerare che noi siamo fatti della stessa carne di cui sono fatti i luoghi e che per questo tra noi e loro c’è una stessa corrispondenza e somiglianza. Siamo le mappe di noi stessi e dei luoghi che ci circondano, così come questi diven-tano mappe del nostro corpo e dei nostri sensi”.Molti Artisti contemporanei, tra cui chi vi parla e il gruppo Chille de la balanza da me diretto, vivono lo spazio come percor-so-luogo di percezione, come soprattutto ‘spazio tra’. Spesso presentando il mio Fare Teatro, parlo di “Luogo-Corpo-Metodo in un percorso tra tradizione e tradimento”. Un percorso basato sul disequilibrio, inteso come attitudine alla discontinuità, ad esse-re aperti all’infinito. Anche da ciò la nostra

marginalità in una società dialettica, nella quale si cerca disperatamente una sintesi, un punto fermo, una risposta. Il nostro disequilibrio è invece all’opposto il lavo-ro sul terreno della domanda, in una con-tinua ricerca di nuovi inizi non vincolati dalla mente, semmai dal Corpo. Cerco di spiegarmi meglio.Oggi la città soffre di molte mancanze: mancano ad esempio i ‘luoghi accanto’, luoghi che assolvano la funzione dell’a-gorà (sorta di mercato come occasione di accordi nonostante le differenze e i malin-tesi), di luoghi in cui la vita possa trovare spazio per allargare lo spazio, come stirac-chiandosi. Chiunque abbia partecipato o costruito progetti con noi, e sia stato a San Salvi, non può non riconoscerlo come un ‘luogo accanto’.Abitare per noi è infatti molto più di una semplice attività di progettazione: quoti-dianamente orientiamo il nostro spazio rispetto a noi stessi, stando al suo interno. Abitare è creare e viceversa.La casa, il villaggio…San Salvi non sono un’immagine ridotta del cosmo, in un cer-to senso sono già il cosmo.Al contrario, spesso oggi assistiamo ad una sorta di fascismo architettonico. I luoghi non sono da abitare, ma da consumare nei tempi e nei modi decisi dalle centra-li del consumo. Da qui la moltiplicazio-ne di notti bianche, feste calate dall’alto e quant’altro. Di conseguenza bisogna che la città sia difesa dalle ‘presenze improprie’

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2. Camminamenti e gabbia. (Foto di Renato Bar-tolozzi)

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come barboni, mendicanti, e ancora mu-sicanti di strada estemporanei, bambini, finanche anziani che si fermino a leggere o pensare, forestieri colpevoli di mangiare qualcosa seduti su una panchina. Ai nostri occhi ci viene offerto un territorio imbal-samato! Di contro, il carattere da luoghi di confi-ne, da luoghi perduti fa proprio delle aree marginali e di risulta gli spazi per eccellen-za dove gli Artisti (soggetti principali della mente locale) possano esercitare al meglio la loro attività. E’ qui che si ritrova il fu-turo delle città: centri storici abbandonati, spazi industriali dismessi, zone di confi-ne…come gli ex-manicomi. Ma cosa intendo per confine? Una traccia, una traccia che distingue l’abitare dal non abitare. Oggi i centri si svuotano, ma pa-radossalmente notiamo che quanto più un insediamento sia privo di centro, tanto più è difficile definirne i confini.“Abitare i confini”, frase di Padre Balducci che dà il titolo al nostro attuale percorso di ricerca a San Salvi, è un ossimoro; sta a in-dicare la necessità di dar vita ad un centro ‘nel’ confine: il confine come estensione di una (nuova) centratura avvenuta. E’ qui che ritrova senso il perdersi nella sua più alta accezione, cioè quella capacità di riat-tivare una interazione tra noi e l’ambiente. “L’attuale”, dice Foucault, “non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l’Altro, il

nostro divenire altro: la traiettoria.”Viva i luoghi marginali, le aree abbando-nate, dunque…ma attenzione! Tali ter-ritori risultano difficilmente intelligibili e quindi progettabili, perché privi di una collocazione viva nel presente e quindi in definitiva (apparentemente) estranei ai lin-guaggi del contemporaneo. La loro conoscenza non può perciò avveni-re che per esperienza diretta: in definitiva possono essere testimoniati piuttosto che rappresentati, ancor meglio ascoltati. Osservano gli Stalker, e io concordo: “qui improvvisamente lo spazio assume un sen-so, ovunque la possibilità di una scoperta, il timore di un incontro indesiderato. Lo sguardo si fa penetrante, l’orecchio si di-spone all’ascolto. Restano possibili due sole azioni: il riconoscimento degli abbandoni come massima forma di cura per ciò che è noto e si è sviluppato e l’attraversamento come immediata rinascita di un discorso che ascolti il muggito, il lamento, il soffio che i luoghi abbandonati articolano”.

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3. C’era una volta il manicomio

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Firenze, torrente MensolaFoto di Chiara Serenelli

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PhotoStory

SansepolcroFoto di Vanessa Lastrucci

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Nel 2008 l'ex presidente francese Ni-colas Sarkozy convoca dieci gruppi

multidisciplinari composti da architetti, ingegneri, urbanisti e paesaggisti per ri-flettere sulla metropoli del XXI secolo ed in particolare sul nuovo volto della Grand Paris. Ogni gruppo definisce dei nuovi scenari che successivamente verranno tra-dotti in dieci proposte elaborate da pro-fessionisti sia francesi che internazionali: l'Atelier di Castro Denissof Casi, Yves, il Groupe Descartes, Jean Nouvel con Du-tilheul e Cantal-Dupart, Antoine Grum-bach, MVRDV, LIN, Studio O9, lo studio AUC, l'Atelier di Christian De Portzam-parc e lo studio Rogers Stirk Harbour & partners. L'intento non è quello di realiz-zare un concorso di idee, piuttosto una ri-flessione collettiva: affrontando lo studio della Grand Paris, un'area di 12.000 kmq e di circa 12 milioni di abitanti, si dovrà inevitabilmente arrivare ad affrontare un tema molto più ampio, che riguarda il prossimo futuro delle metropoli europee.

RIPENSARE LA GRAND PARIS: LA VILLE POREUSEdi Annalisa BiondiArchitetto

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Come sarà il volto di Parigi tra 20-30 anni? Nello sforzo di rispondere a questa domanda i dieci gruppi di tecnici hanno realizzato proposte molto diverse tra loro ma tutte basate sulla necessità di superare lo schema radiocentrico della Parigi attua-le. Partendo proprio da questo obiettivo, il gruppo degli architetti Rogers-Stirk-Harbour immagina una metropoli poli-centrica impostata su un articolato sistema della viabilità, mentre il Groupe Descartes propone di suddividere l'intero agglome-rato della Grand Paris in venti aree urbane da 500mila abitanti, pensate come 20 città sostenibili che contribuiranno alla creazio-ne di una nuova scala locale metropolita-na.L'idea di una città reticolare si ritrova an-che nella proposta dell'équipe AUC, che elabora nuovi modelli spaziali basati sul concetto di una città ibrida, polimor-fa e polifonica. Anche il gruppo di De Portzamparc si concentra sull'analisi del modello spaziale della città ma non pro-pone uno schema policentrico, bensì uno a rizoma come nuova figura topologica ca-pace di organizzare le future connessioni.

Lo studio Castro Denissof Casi, invece, propone un'organizzazione policentrica i cui nodi sono rappresentati dall'interse-zione di vecchi e nuovi luoghi reali, imma-ginari e simbolici. Sempre su questo tema si concentra l'equipe guidata da Antoine

Grumbach che prende spunto da una ci-tazione di Napoleone: “Paris, Rouen, Le Havre, une seule ville dont la Seine est la grande rue”, immaginando una città linea-re da Parigi al porto di Le Havre attraverso la via naturale della valle della Senna.Le altre équipes invece, si concentrano di più sullo studio del tessuto metropolitano, come il gruppo tedesco LIN che inter-preta lo sviluppo della Grand Paris come una combinazione di agglomerati urbani a diverse densità attraversati da paesag-gi flessibili, oppure come il trio Nouvel, Dutilheul e Cantal-Dupart che propone una città verticale con torri, grattacieli e padiglioni con serre e giardini agli ultimi piani. Invece, lo studio olandese MVRDV immagina una città capace di massimizza-re le sue performance e scommette para-dossalmente su una "Grad Paris plus petit" ossia più piccola, intendendo con "plus" una città più ambiziosa, più ottimista, più densa, più efficiente, più ecologica, più compatta, ossia più facile da governare e quindi più piccola.

1.Proposta del sistema della mobilità di Rogers Stirk Har-bour & partners

2. Lo schema a rizoma proposto dall’Atelier di Christian De Portzamparc

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Infine, la proposta del gruppo italiano diretto da Bernardo Secchi (Studio 09) introduce il tema della Ville Poreuse. La metafora della porosità applicata alla cit-tà serve a suggerire la stratificazione e l'a-dattabilità dei tessuti che la compongono, l'ipotesi degli autori è che ogni città in futuro, dovrà affrontare tre problematiche fondamentali legate alla progressiva cresci-ta della disuguaglianza sociale, al rischio ambientale e alla mobilità. Partendo dalla definizione della porosità geologica (ossia il rapporto tra pieno e vuoto) l'équipe si è servita del contributo di un gruppo di ricercatori (il Laboratorio MOX di calcolo scientifico del Politecnico di Milano) che ha elaborato modelli matematici in gra-do di fornire valutazioni quantitative del concetto di porosità urbana. Attraverso le categorie di porosità, connettività, per-meabilità e accessibilità lo studio rilegge tutto il territorio, suddiviso in una maglia di 3 km, nel tentativo di comprenderne la struttura spaziale. Una volta individuati i

pori, è necessario capire come connettere l'uno all’altro: la connettività garantisce la permeabilità del tessuto urbano, che a sua volta rende più ampia l’accessibilità, aumentando così la libertà di mobilità dei cittadini. Su questo schema viene poi ela-borato un progetto di porosità, messo in atto attraverso cinque proposte: una nuova immagine per la metropoli parigina, l’ac-qua e le relazioni biotiche, la biodiversità e la sociodiversità, il riciclo al 100% del tessuto urbano, la politica della mobilità e dell’accessibilità. La ville Poreuse è dun-que composta da tre elementi: il supporto (le support), la spugna (l'éponge) e la ma-glia (la maille). Il supporto è rappresentato dall'attuale configurazione geomorfologi-ca del territorio della Grand Paris, mentre la spugna è costituita dai noms, dai punti e dai nodi. I noms sono i toponimi che rappresentano l'appropriazione storica da parte delle comunità che hanno abitato questi luoghi; i punti sono i monumenti, che per definizione sono luoghi di con-

3. La città lineare da Parigi a Le Havre di Antoine Grumbach

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centrazione e rappresentazione dell'imma-ginario; i nodi sono invece rappresentati principalmente dalle fermate del trasporto pubblico (rubinetti) attraverso cui la po-polazione fluisce dalla rete della mobilità (tubature) diffusa in tutta la città. Infine la maglia è un organismo isotropo sovrappo-sto alla spugna, come struttura principale su cui si basa la riorganizzazione della città attraverso una accessibilità capillare. Quindi potersi muovere liberamente è uno dei diritti fondamentali della Ville Poreuse che si ri-organizza non intorno ai grandi

flussi di mobilità ma attraverso una serie di reti locali interconnesse. Un sistema del genere potrebbe essere la soluzione per do-tare la struttura di Parigi, oggi gerarchica e frammentata, di una rete leggera, isotropa e diffusa, luogo degli spazi di prossimità, connessi tra loro e alle reti della grande viabilità.

4. Il progetto della Ville Poreuse

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5: Studio della porosità, connettività, permeabilità e accessibilità della Ville Poreuse

Tutte le immagini sono tratte da Le Grand Paris de l’agglomération Parisiennehttp://www.legrandparis.net/

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PhotoStory

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FirenzeFoto di Vanessa Lastrucci

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PhotoStory

Roma, pressi di Saxa RubraFoto di Chiara Serenelli

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Barriere architettoniche e permeabilità urbanadi Damiano Galeotti Paesaggista Sabrina Tozzini Architetto Stella Verin Architetto

Il tema della permeabilità urbana, intesa come possibilità per tutti di percorrere

ed accedere agli spazi pubblici urbani ed ai vari servizi sparsi nelle città, rappresenta oggi una questione di prioritaria impor-tanza.Sempre più le amministrazioni locali ma-nifestano oggi, anche in base agli obblighi dettati dalla legge, una sensibilità nei con-fronti delle difficoltà che le barriere archi-tettoniche (B.A.) creano ai cittadini, e fra queste il Comune di Fucecchio ha chie-sto al DUPT della facoltà di Architettura dell’Università di Firenze di svolgere una ricerca sul tema delle barriere architetto-niche.Il lavoro è stato affrontato, sotto la dire-zione ed il coordinamento scientifico del prof. Gabriele Paolinelli, ricercatore e do-cente di architettura del paesaggio presso il DUPT.

1.Una via del centro storico di Fucecchio

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2.Una tavola, estratto del lavoro di monitoraggio delle Barriere Architettoni-che.

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Il lavoro ha preso avvio dal ragionamento sul concetto di Handicap che come ricor-da anche la carta di Barcellona, è dinamico e nasce dalla presenza di un gap tra ciò che la società percepisce come ‘normale’ e ciò che invece viene lasciato ai margini, pen-sato come un caso limite da non tenere in considerazione nella progettazione. Ciò significa che è in primo luogo la società stessa, con la propria cultura e tecnologia, e non tanto lo stato fisico del singolo a cre-are una disabilità.Ad un evolvere tecnologico e culturale cor-

risponde una sempre maggior inclusione dei singoli, e le loro differenze possono di-venire motivo di apprezzamento piuttosto che di esclusione. Questo auspicato evol-versi della società porterà probabilmente all’individuazione di nuove barriere da ab-battere, per trovare vie anche dove ancora non cerchiamo e per la volontà di rendere le città sempre più vivibili per tutti.La normativa vigente, indica come barrie-re architettoniche ai sensi dell’articolo 1 comma 2 del DPR 503/1996:a) gli ostacoli fisici che sono fonte di di-sagio per la mobilita di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi cau-sa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o tempo-ranea;b) gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazio-ne di spazi, attrezzature o componenti;c) la mancanza di accorgimenti e segnala-zioni che permettono l’orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sor-di.Nella Regione Toscana già la L.R. 47/1991 chiedeva ai comuni di dotarsi di piani di intervento per l’abbattimento delle barrie-re architettoniche, piani confermati dalla L.R. 1/2005, ed il successivo regolamento del 29 luglio 2009, n. 41/R, il quale elenca una tipologia di barriere architettoniche,

Due momenti delle attività par-tecipative con le associazioni si disabili

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in parte derivate dal DPR 503/1996. Si tratta di tipologie utili a normare la pro-gettazione di dettaglio, calibrate anche sull’ambiente urbano.Il lavoro su Fucecchio è stato affrontato con un approccio ‘paesaggistico’ che ha permesso di integrare il tema delle B.A. con gli aspetti funzionali degli spazi aperti pubblici e dei servizi al cittadino, tenendo conto della conformazione morfologica, storica e architettonica del territorio. L’area urbanizzata di Fucecchio si trova sulla riva destra del fiume Arno, e si esten-de in parte adagiato su di un colle, il Pog-gio Salamartano, e per la maggior parte nella zona pianeggiante che si trova alla sue pendici. L’articolazione dell’abitato è quindi carat-terizzata dalla presenza del rilievo morfo-logico sul quale si attesta il centro storico della città, per questa ragione l’accessibilità di questa area è fortemente condizionata dall’articolazione morfologica del luogo; l’espansione più recente dell’abitato è in-vece localizzata nella parte pianeggiante e si estende prevalentemente verso sud, sud- ovest fino a lambire le rive del fiume Arno.Di notevole interesse sono anche le ca-ratteristiche storiche dell’insediamento: Fucecchio rappresentava la XXIII tappa (Mansio), insieme a Ponte a Cappiano dell’antica Via Francigena, perciò la loca-lità, definita Arne Blanca, crebbe notevol-mente in relazione a questo percorso.E’ da sottolineare dunque che nel moni-toraggio e studio della accessibilità dell’ abitato di Fucecchio tutti questi elementi sono stati presi in considerazione.

Attraverso lo studio normativo e l’indivi-duazione di alcune esperienze significative sul tema (case studies) in merito alle moda-lità di intervento sulle barriere architetto-niche, e grazie ad alcune attività partecipa-tive che hanno reso possibile il confronto fra le associazioni di disabili presenti a Fu-cecchio, il Comune e i ricercatori, è stato definito uno spettro tipologico delle B.A. da indagare. In base ai dati ricavati è stato successiva-

mente costruito un Archivio Geografico Informativo, implementabile nel tempo, la cui funzionalità è stata sperimentata nel censimento delle B.A. nell’area urbana di Fucecchio.Attraverso un intensa campagna di so-pralluoghi sono state censite tutte le B.A. presenti negli spazi aperti pubblici urbani, secondo modalità che hanno privilegia-to non tanto il singolo episodio, quanto la funzionalità sistematica della viabilità. Ogni elemento viario è stato quindi cata-logato in base alle sue dotazioni, proble-matiche, funzioni ed opportunità proget-tuali. Si è ritenuto opportuno sviluppare lo studio dell’accessibilità urbana tenendo

5.Un estratto del lavoro, abaco delle barriere

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conto delle specificità morfologiche e sto-riche di Fucecchio, valutando in modo se-parato il tessuto del centro storico rispetto alle espansioni successive, riconoscendo non tanto l’impossibilità di superare le barriere morfologiche, quanto la necessità di programmare interventi mirati e diversi nei due casi. Successivamente questi dati riportati nell’archivio hanno permesso, attraverso adeguate e specifiche modalità di interro-gazione, di assegnare un grado di accessibi-lità ad ogni percorso. Il lavoro ha mirato a superare l’aspetto meramente computisti-co spesso alla base dei piani di abbattimen-to delle barriere architettoniche, cercando di pesare i criteri di valutazione sulla scala urbana ed è arrivato ad individuare alcuni percorsi ritenuti prioritari e fondamentali per la fruizione della città. Tali percorsi si configurano come dotazione minima ur-bana per la creazione di una prima rete di accessibilità che vada a connettere gli spazi pubblici di maggiore interesse e gli spazi urbani dove si concentrano le funzioni principali, le fermate degli autobus, i par-cheggi, i nodi, i percorsi, le piazze, i luoghi di aggregazione e i luoghi essenziali per gli spostamenti pedonali e la fruizione della città. Sono stati inoltre individuati all’in-terno del nucleo urbano i principali nodi funzionali oltre agli agglomerati che si configurano a formare i diversi ‘quartieri’.Congiungendo queste due analisi è stato quindi possibile creare una rete di percorsi accessibili che andranno a connettere i nu-clei funzionali ed urbani individuati.Gli spazi aperti pubblici se messi a sistema in un’ottica di fruibilità e accessibilità per tutta la cittadinanza, potranno creare uno spazio urbano dotato di una migliore qua-lità e vivibilità.

1.Barriere Architettoniche a Fucecchio

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PhotoStory

RomaFoto di Paola Pavoni

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Firenze, strada per SettignanoFoto di Chiara Serenelli

PhotoStory

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«[...] più volte lei sottolinea in questa conversa-zione l’importanza che l’urbanistica si sostanzi in risultati concreti che le persone possono apprezzare, difendere se minacciati, e che inducano speranza di risultati ancora migliori. Questo doppio registro fatto di orizzonti e di pratiche rimanda ad uno più generale di intelligenza e operatività. Nella realtà italiana di oggi, il disastro prodotto in tante parti del nostro territorio è la dolorosa metafora di un disastro più complessivo [...] »

Con queste poche ma incisive parole, Francesco Erbani, il curatore dell’in-

tervista a Leonardo Benevolo, sintetizza efficacemente ciò che emerge in tutto il libro. Territorio e paesaggi urbani, atto-ri pubblici e privati, mondo accademico, politica, Benevolo fa un’operazione di ri-costruzione densa ed estremamente chiara e concisa delle intrecciate dinamiche urba-nistiche e politiche succedutesi dal Fasci-smo sino ai giorni nostri, di cui lui stesso è stato un protagonista. Le esperienze di Roma, Brescia, Palermo, Venezia, Napoli che vengono descritte, mettono sul banco degli imputati, non tanto la città in sé e per

RECENSIONE

La fine della città

La fine della res publica?di Arianna AnichiniStudentessa presso la Facoltà di Architettura di Firenze

Leonardo BENEVOLOintervista a cura di Francesco Erbani, Laterza, pagg. 170, euro 12,00

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sé, ma piuttosto gli attori fondamentali dei processi di trasformazione (parola che non prescinde dal significato di conservazione) del territorio: pianificatori, accademici, Pubblica Amministrazione, imprenditori, Benevolo spiega impeccabilmente come le loro attività si mescolino, spesso disordi-natamente (usa anche le parole lavoro pre-cario), senza un progetto innanzitutto cul-turale ben definito, studiato, partecipato, e che sia soprattutto concretizzabile e in-terprete dei bisogni futuri dell’uomo. Giò Ponti in Amate l’Architettura (Soc. Editri-ce Vitali e Ghianda, Genova 1957) scrisse: «architettura, nel passato, era espressione di una politica, anzi dello splendore di una politica». Anche se probabilmente si forza un po’ la lettura di Ponti, c’è comunque un messaggio ben preciso, che si ritrova continuamente tra le parole di Benevolo: è l’autorità alla base che deve creare le con-dizioni per cui si possano concretizzare gli interventi sulla città, sul territorio, sul pae-saggio. Ciò che è estremamente interessan-te del lavoro di questo architetto, ed è una costante fondamentale, che forse viene an-cora prima della parte più prettamente tec-nica, è l’addestramento e l’irrobustimento dell’apparato amministrativo, la forma-zione «[...] di un organismo permanente, in grado successivamente di approfondire il nostro lavoro, di correggerlo, e poi di intervenire direttamente o controllare gli interventi di altri soggetti». In questo ex-cursus storico di Benevolo, è sconcertante l’attualità di ciò che si legge: la stagnazione del Bel Paese era ed è uno dei punti cardi-ne dei potenti interessi, privati e non, per cui, dove tutto è fermo, tutto è possibile. Per questo, Benevolo indaga continuamen-te sulla deontologia di questa professione, che definisce un’arte difficile, una recher-che patiente (cit. Le Corbusier), qualità spesso scardinate dall’attività dei colleghi della scena contemporanea, ma che sono fondamentali e imprescindibili per ciò che l’architetto è chiamato a fare, «la bellezza realizzata nella vita» (cit. Piet Mondrian).

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RECENSIONE

IDEE CREATIVE IN MOSTRA PER SARZANAConvegno ed esposizione delle proposte di riqualificazione e valorizzazione per il territorio di Sarzana dell’Università di Firenze

Nella Sala Consiliare del Comune di Sarzana (SP), alla presenza di un pub-

blico numeroso e attento, si è tenuto saba-to 12 maggio il Convegno “Paesaggi critici e Spazi liquidi” organizzato dall’Ammini-strazione Comunale, dal Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio e dal Laboratorio di Architettura ed Ecolo-gia del Paesaggio dell’Università di Firen-ze.Il Convegno e la contestuale Mostra delle 38 tavole progettuali, allestita nel sugge-stivo Atrio del Palazzo Comunale, hanno permesso di illustrare le proposte di riqua-lificazione e valorizzazione paesaggistica per il territorio di Sarzana, elaborate dagli studenti del Laboratorio di Progettazione dei sistemi verdi territoriali del Corso di Laurea Magistrale in Architettura del Pa-esaggio di Firenze, che hanno dapprima analizzato il contesto paesaggistico, l’evo-luzione storica e le dinamiche sociali del territorio, per poi proporre un masterplan generale capace di mettere a sistema diver-si interventi che puntano alla tutela attiva

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e alla valorizzazione innovativa di alcune zone particolarmente significative di que-sta porzione di Val di Magra, tra cui il Par-co storico di Villa Ollandini e il sistema naturalistico costituito dai Bozi di Saudi-no e dal Fiume Magra.Le relazioni degli studenti sono state in-trodotte da interventi di approfondimen-to scientifico e culturale tenuti da docenti universitari e professionisti che hanno il-

lustrato il significato e l’identità storico-culturale di Villa Ollandini (arch. Stefano Milano), l’evoluzione e le emergenze bo-taniche ed architettoniche del suo parco (arch. Silvia Lanfranchi), i fattori emer-genti del paesaggio botanico-forestale di Bozi e del Fiume Magra (prof. Paolo Grossoni), mentre i coordinatori del La-boratorio sperimentale (prof. Enrico Fal-qui e prof. Lorenzo Vallerini) hanno de-

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scritto il percorso accademico svolto dal gruppo di 21 studenti che con passione e professionalità hanno svolto un lavoro di eccezionale pregio e che ha permesso di organizzare tale importante evento, rin-graziando soprattutto l’Amministrazione Comunale per la disponibilità dimostrata e offrendo la possibilità di proseguire nel lavoro di indagine ed approfondimento per avanzare proposte sempre più concrete e dettagliate.L’incontro pubblico, come hanno sotto-lineato il Sindaco Massimo Caleo e l’As-sessore alle Politiche della pianificazione e programmazione territoriale (Avv. Ro-berto Bottiglioni), si è infatti configurato come una prima occasione per condividere con la popolazione idee sullo sviluppo di quella porzione di territorio ligure, anche in vista del futuro avvio dell’iter di pro-grammazione del nuovo piano urbanistico comunale.La partecipazione infatti è stata numero-sa sia in occasione del convegno che, no-nostante la pioggia, nel pomeriggio della domenica, in cui erano previste due visi-te guidate alle aree oggetto di studio per

condividere con i cittadini gli scenari futu-ri proposti, occasione che sarà riproposta nelle prossime settimane invitando a par-tecipare le associazioni, i comitati, gli stu-denti delle scuole e tutti coloro che hanno a cuore il futuro del proprio territorio.

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VerdianaNetwork

VerdianaNetwork

Associazione di promozione sociale senza fini di lucro che diffonde una cultura della sostenibilità dello sviluppo urbano e territoriale, della conservazione e gestione del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale, secondo i principi della Convenzione Europea sul Paesaggio (Firenze, ottobre 2000) e il modello di città creativa definito dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE, Potsdam, maggio 1999). Verdiana Network svolge progetti di ricerca, formazione e sensibilizzazione sui parchi, le aree protette e le reti ecolo-giche, gli itinerari culturali, gli ecomusei, i distretti culturali, la riqualificazione dei quartieri urbani e periurbani, la Valutazio-ne Ambientale Stategica (VAS) e la pianificazione urbana e territoriale a partecipazione pubblica, anche in collaborazio-ne con Università, Istituti di ricerca ed Enti pubblici, con la possibilità di coinvolgere studenti e giovani laureati attraver-so tirocini e stage formativi. Verdiana Network offre al pubblico interessato la possibili-tà di riflettere e creare dibattiti sugli argomenti oggetto della propria attività tramite la pubblicazione periodica di articoli scientifici e divulgativi nella rivista on-line Network in Pro-gress.

Nel territorio di Marche e Umbria, in collaborazione con le Fondazioni Cassa di Risparmio di Loreto, Macerata, Foligno e Perugia, Verdiana Network ha svolto un progetto di ricer-ca per il recupero dei cammini di pellegrinaggio al Santuario di Loreto e la sua menzione a Itinerario Culturale Europeo, unendo all’indagine storiografica e cartografica un approc-cio paesaggistico alla progettazione.In Lunigiana (Toscana), con la collaborazione dei Comuni di Fivizzano, Aulla, Bagnone, Fosdinovo, Licciana Nardi e Vil-lafranca, il patrocinio della Regione Toscana, Verdiana Net-work ha promosso e coordinato il Corso di Formazione e Aggiornamento professionale Parchi naturali, aree protette e reti ecologiche per lo sviluppo del territorio, che ha porta-to all’elaborazione e all’esposizione di interessanti proposte progettuali per il territorio.Per la città di Firenze Verdiana Network è impegnata in un’i-niziativa, denominata Progetto Cartoline, di sensibilizzazio-ne al tema del degrado, dell’abbandono e della necessità del recupero degli spazi della città contemporanea, nata all’interno della ricerca per un Urban Center nell’area me-tropolitana fiorentina, oggetto di pubblicazioni convegni ed esposizioni.

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