nubi d'acciaio

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La nuova ecologia / OTTOBRE 2012 18 primo piano aranto non può attendere. Il carico di veleni che l’Ilva, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, ha riversato per decenni sulla città dei Due Mari ha causato morti, gravi patologie in particolare alle vie respiratorie e inquinamento delle matrici ambientali. È scritto nero su bianco nell’ormai famosa ordinanza del 26 luglio firmata dal giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco. Il provvedimento chiede il sequestro dell’impianto e misure cautelari per otto dirigenti dell’azienda, appartenente dal ‘95 al gruppo Riva, con l’accusa di disastro ambientale. Una conferma del danno sanitario subito dalla popolazione è arrivata inoltre alla metà di settembre dallo studio Sentieri dell’Istituto superiore di sanità relativo al periodo 2003-2008: sull’area di Taranto si riscontra un aumento della mortalità di circa il 10% superiore rispetto a quella attesa, un eccesso che conferma le analisi del periodo 1995-2002. T La vertenza dell’Ilva racconta la fine di un modello industriale che schiaccia l’ambiente. L’ipotesi della riconversione e l’attesa per le decisioni del governo NUBI D’ACCIAIO di Francesco Loiacono

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La vertenza dell'Ilva racconta la fine di un modello industriale che schiaccia l'ambiente. L'ipotesi della riconversione e l'attesa per le decisioni del governo

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La nuova ecologia / ottobre 201218 ottobre 2012 / La nuova ecologia

primopiano

aranto non può attendere. Il carico di veleni che l’Ilva, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, ha riversato per decenni sulla città dei Due Mari ha causato morti, gravi patologie in particolare alle vie respiratorie e inquinamento delle

matrici ambientali. È scritto nero su bianco nell’ormai famosa ordinanza del 26 luglio firmata dal giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco. Il provvedimento chiede il sequestro

dell’impianto e misure cautelari per otto dirigenti dell’azienda, appartenente dal ‘95 al gruppo Riva, con l’accusa di disastro ambientale. Una conferma del danno sanitario subito dalla popolazione è arrivata inoltre alla metà di settembre dallo studio Sentieri dell’Istituto superiore di sanità relativo al periodo 2003-2008: sull’area di Taranto si riscontra un aumento della mortalità di circa il 10% superiore rispetto a quella attesa, un eccesso che conferma le analisi del periodo 1995-2002.

TLa vertenza dell’Ilva racconta la fine di un modello industriale che schiaccia l’ambiente. L’ipotesi della riconversione e l’attesa per le decisioni del governo

nubi D’ACCiAiO di Francesco Loiacono

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«Gli studi interdisciplinari che trattano il nesso fra inquinamen-to e salute hanno fatto progressi enormi, Taranto è stata studiata da diverse prospettive e tutte le evidenze forniscono una misura autentica circa l’impatto sulla sa-lute dell’inquinamento presente in città. E il principio di precau-zione porta a chiedere provvedi-menti immediati riguardo l’area industriale» spiega Liliana Cori, responsabile per la comunicazione dell’Unità di ricerca di epidemio-logia dell’Ifc-Cnr. Come uscire da questa morsa?

«Più qualità, meno inquinamento»A colloquio con Luciano Gallino, sociologo dell’economia

lva e non solo. Fiat, Alcoa e altre produzioni in crisi occupano le cronache di queste settimane. Qual è il futuro

delle industrie italiane? Ne parliamo con il professor Luciano Gallino, sociologo dei processi economici e del lavoro.

Innanzitutto uno sguardo a che cosa sta succedendo all’Ilva di Taranto. Governo e azienda affrontano l’emergenza ambientale nella giusta maniera?La situazione era degradata ed era noto che lo fosse addirittura da decenni, e non si può riparare in pochi mesi o in poche settimane. Ad ogni modo mi pare che finora i problemi non siano stati affrontati con l’energia e con le risorse tecniche necessarie. Quindi cosa andrebbe fatto e invece non si sta facendo?Avremmo dovuto vedere centinaia di tecnici e ingegneri che andavano sul posto per studiare e capire quali interventi fare, e come farli, per ridurre l’inquinamento. Ma non si vede questo via vai di tecnici.L’Ilva e la sua produzione di acciaio hanno ancora un futuro in Italia?Se convertita, l’Ilva un futuro ce l’avrebbe. La domanda di acciaio è alta e buona parte della produzione italiana va all’estero, quindi contribuisce al nostro export. Finché il modello produttivo è quello di oggi, la produzione di acciaio ha una forte domanda e in un paese come l’Italia che ha poche industrie dà un contributo all’economia. L’acciaio è un materiale che ha molte applicazioni, va dalle piccole parti delle mollette alle componenti delle infrastrutture. ecco, se a taranto si interviene per ridurre l’inquinamento, si può cominciare anche a produrre altri tipi di acciaio. È anche vero che è possibile farlo impiegando risorse e capitali rilevanti.Operazioni simili potrebbero dare risposta alla crisi che stanno vivendo altre grandi industrie?Certo, bisogna cominciare a parlare di riconversione in generale. La stessa produzione di auto non può tornare ai livelli

precedenti, se scomparisse all’improvviso avremmo la grave perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. Ma se parliamo del settore dell’auto dobbiamo parlare di conversione alla mobilità sostenibile: vuol dire che produrremo più autobus. D’altronde costruirne uno equivale a realizzare 10-12 auto di grossa cilindrata. Per non parlare della costruzione delle metropolitane. Anche l’alluminio ha futuro?È un altro prodotto necessario all’industria moderna, e forse ha anche un destino

migliore dell’acciaio perché può contribuire a produzioni molto più leggere. Però è un settore molto energivoro e ciò contrasta con la necessità di abbattere la produzione di energia dal carbone. Se parliamo dell’Alcoa dobbiamo dire che per alimentarla ci vorrebbero parchi eolici grandi parecchi chilometri e non è possibile realizzarli in poche settimane.E allora, come dobbiamo immaginare il futuro dell’industria? In tutti i discorsi che si fanno sembra che all’orizzonte ci sia un ritorno ai livelli di produzione di cinque o sei anni fa. Questo è un ragionamento che si fa per l’auto come per l’acciaio. Invece dobbiamo pensare a una produzione diversa, in cui l’industria impiega il lavoro e le tecnologie in maniera più rispettosa dell’ambiente e per realizzare beni più utili alla collettività.

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Dobbiamo pensare a una produzione diversa, in cui l’industria impiega il lavoro e le tecnologie in maniera più rispettosa dell’ambiente e per realizzare beni più utili alla collettività

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La nuova ecologia / ottobre 201220 ottobre 2012 / La nuova ecologia

EsTATE bOllEnTEIl problema è esploso durante l’estate, con le proteste in piaz-za della cittadinanza esasperata dall’idea di dover scegliere fra la-voro e salute, le polemiche fra il ministro Clini e la magistratura sulla necessità di una chiusura immediata degli impianti, il ti-more di perdere un indotto occu-pazionale di oltre 20mila persone. «Taranto ha bisogno di voltare pagina rispetto a un passato ca-ratterizzato da un insostenibile inquinamento ambientale e da pesantissime sofferenze per la popolazione – commenta Stefano Ciafani, vicepresidente nazionale di Legambiente – Ma questo sarà possibile soltanto se il ministero dell’Ambiente cambierà passo, chiudendo la stagione delle blan-de autorizzazioni concordate con l’Ilva e delle bonifiche pianificate ma mai realizzate». Una prima verifica si avrà con l’Aia (l’Auto-rizzazione integrata ambientale di cui ogni sito industriale deve essere dotato, una sorta di licenza a produrre a patto che si inquini il meno possibile) che un’apposita commissione di esperti ha promes-so di presentare entro il 30 settem-bre in vista della Conferenza dei servizi da tenersi a metà ottobre. Quella vecchia, concessa soltanto un anno fa dall’allora ministro Stefania Prestigiacomo, oltre ad essere piuttosto permissiva nei confronti della proprietà, è stata scritta, dicono le indagini della Guardia di Finanza, in un clima fortemente condizionato dalla proprietà: tanto per dire una l’in-gegner Dario Ticali, ancora oggi alla presidenza della commissione Aia, secondo gli inquirenti sareb-be stato sollecitato ad accettare gran parte delle osservazioni for-nite a suo tempo dal gruppo in-dustriale. «Le sue dimissioni, che come Legambiente abbiamo già ri-chiesto, ci sembrano doverose per restituire un quadro di chiarezza a questa vicenda» commenta Ste-fano Ciafani. I giudici del processo in corso per disastro ambientale,

primopianoTArAnTO in POlvErE

in alto, un blitz di legambiente davanti alla sede dell’ilva. Qui sopra, l’economista Guido viale

intanto, hanno imposto diverse prescrizioni alla commissione incaricata di redigere il nuovo testo che segnerà, in un modo o nell’altro, il destino del sito. Certo è che per alleggerire il carico am-bientale dell’impianto e guardare a un futuro di sostenibilità, come dimostra il piano in 26 punti ela-borato da Legambiente (vedi box a lato), occorrono scelte di ampio respiro. E nel mondo gli esempi ai quali ispirarsi per la riconversio-ne non mancano.

sOluziOni AlTErnATivETanto per cominciare, le tecnologie utili a produrre ghisa da carbone e minerale grezzo senza ricorrere ai processi di cokeria, abbattendo no-tevolmente le emissioni, esistono e si chiamano Corex e Finex. In Au-stria, a Linz, un impianto basato sul processo Corex è stato realizza-to già 15 anni fa da Voest Alpine, altri sono in funzione in Cina e in India. La Siemens ha aperto nel 2007 un altro impianto a Shangai basato su questa tecnologia che produce soltanto 40 grammi di anidride solforosa per ogni ton-nellata di ghisa prodotta contro 1,4 Kg del processo tradizionale basato sulla filiera cokeria-sinte-

rizzazione-altoforno: «È l’acciaieria a minor impatto ambientale – spie-ga il professor Giuseppe Silva, del laboratorio di metallurgia al Poli-tecnico di Milano – Richiede però dimensioni enormi, basti dire che l’impianto di Shangai produce un milione e mezzo di tonnellate d’ac-ciaio l’anno, contro i nove dell’Ilva, utilizzando una superficie pari a circa un quarto del sito pugliese». Come dire, a parità d’estensione a Taranto si potrebbero produrre circa 6 milioni di tonnellate d’ac-

la proposta di legambiente✱

La riconversione dell’Ilva, secondo Legambiente, passa attraverso 26 punti irrinunciabili: un elenco

di interventi tecnici che l’associazione propone al minis-tero dell’Ambiente dalla primavera scorsa, da quando ha chiesto al ministro Corrado Clini di riaprire la procedura dell’Aia rilasciata ad agosto 2011. Richieste in gran parte già contenute nelle osservazioni che Legambiente ha presentato sui tre pareri istruttori conclusivi (Pic) redatti dalla Commissione Ippc (ottobre 2009, dicembre 2010, maggio 2011). Fra queste spiccano la copertura dei parchi minerali, la riduzione del livello di produzione, il campiona-mento in continuo delle emissioni di diossina dal camino E312, l’utilizzo dei reflui dei depuratori evitando così il prelievo d’acqua dai fiumi, la chiusura delle procedure di analisi e dell’accordo di programma per la bonifica delle aree rientranti nel Sin (Sito d’interesse nazionale). i www.legambientetaranto.eu

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A Taranto la cittadinanza si è mobilitata per chiedere impegni concreti alla proprietà. Dietro, i parchi minerali coperti nell’acciaieria della Hyundai in Corea e gli impianti della Tyssen Krupp a Duisburg, in Germania

il COrAGGiO Di PArlArEdi Alessandro Langiu*

Quello che ci fa capire la stampa è che la città di taranto, come nel film Matrix, si sia risvegliata all’improvviso da un grande sonno e abbia

preso consapevolezza. ovviamente così non è, ma nulla si può verso la stampa generalista che non attende altro che drammi per riempire palinsesti o pagine, sperando di aumentare audience e vendite. La consapevolezza nella città c’è in pratica da sempre. Che l’inquinamento fosse causa di tanti mali è l’amara realtà domestica del golfo ionico. È stato un coming out lento da parte dei cittadini, per pudore del proprio dolore, per la paura di toccare una fonte di reddito importante, per la paura stessa di aver ragione sull’ipotesi di malattia del territorio. Dal 2001 in avanti quando l’organizzazione mondiale della sanità mise nero su bianco che al rione tamburi si registrava una mortalità per patologie tumorali anomala e due volte superiore al resto d’Italia, è stato un susseguirsi di dati e accadimenti che confermavano la gravità della situazione. L’incidente probatorio del febbraio 2012 ha fatto chiarezza. I periti nominati dalla procura hanno depositato ed esposto le ricerche svolte e i risultati. L’acciaieria inquina ed è causa di malattia e decessi. Il giro di boa arriva con la sentenza del gip del 26 luglio 2012 che dispone il sequestro degli impianti. La procura dà certezza a quello che non si aveva il coraggio di ammettere: il danno ambientale che coinvolge territorio e

persone. Da questo momento il dolore individuale può essere condiviso, diviene reale, ma al contempo diviene reale la necessità di fare ordine, di rimettere le cose nel sentiero del diritto, unico modo per sconfiggere la paura, legittima, del futuro. Quindi non più solo gli ambientalisti ma ogni cittadino ha il coraggio di parlare. Nelle manifestazioni che si sono avvicendate nel mese di agosto, i cittadini hanno portato in strada e sotto le lenti dei media le storie di ordinario disagio: pediatri, giovani famiglie, operai (sindacalizzati e non) anziani, studenti. ognuno con la sua storia, la sua rabbia per le malattie dei familiari, la paura di esserne toccato direttamente, il dramma dell’eventuale perdita del lavoro.

La grande rivoluzione è rappresentata dagli operai dell’acciaieria, che dal 1995 (anno della privatizzazione) sembravano essere diventati Invisibili, come dice il titolo del libro di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno, sottotitolo “vivere e morire all’Ilva di taranto”. oggi gli operai manifestano la paura per il lavoro e condividono il dolore per le malattie. I cittadini di taranto chiedono il ripristino del

diritto, che in Italia trova nei contesti legati all’inquinamento ambientale una sorta di latenza. È un percorso lungo e complesso quello che si è avviato, ma la sua conclusione positiva, cioè coniugare salute e lavoro, non può che essere l’unica via percorribile. Come due maratoneti che affrontano una gara complessa, con sfortune e difficoltà. Nessuno taglia il traguardo per primo, ma uniti tagliano il traguardo insieme.

* Drammaturgo e attore tarantino. Sul rapporto fra taranto e l’Ilva ha scritto due testi,“25 mila granelli di sabbia” e “otto mesi in residence”, nei quali mette in scena la vita nel quartiere tamburi e le vicende degli operai vittime di mobbing.

È stato un coming out lento da parte dei cittadini, per pudore del proprio dolore, per la paura di toccare una fonte di reddito importante

ciaio salvaguardando al contempo buona parte dei posti di lavoro (as-sorbibili anche per le operazioni di bonifica) e la salute pubblica. Cer-to, una metamorfosi di questo ge-nere non sarebbe facile da gestire: «La riconversione potrebbe durare diversi anni e comporterebbe un drastico decremento della produ-zione, con tanto di cassa integra-zione e ricorso alla mobilità. In più l’acciaio necessario al nostro siste-ma produttivo andrebbe importato dall’estero – avverte Guido Viale,

economista e autore fra gli altri del libro La conversione ecologica (Nda press, 2012) – Ma si sta giocando il futuro di un’intera città e non si può dare spazio a giochi al ribasso. Servono investimenti importanti e soprattutto che gli abitanti di Ta-ranto partecipino alla discussione sulle misure da adottare».

POlvEri KillErUn’altra soluzione, che prescinde dal cambiamento del modello pro-duttivo, è stata sviluppata in Ger-

mania, primo produttore di acciaio nel Vecchio continente, dalla Tys-sen Krupp che ha sostituito inte-gralmente le cokerie di Duisburg ottenendo buone performance am-bientali in un sito collocato, come quello tarantino, a ridosso della città. Un esempio che rappresen-ta una speranza per il quartiere Tamburi di Taranto, dove sono più frequenti i casi di tumore e le leu-cemie e dove si avvertono di più le conseguenze dei famigerati parchi minerali, cresciuti negli anni insie-

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La nuova ecologia / ottobre 201222

primopianoTArAnTO in POlvErE La nostra sfida

di Lunetta Franco*

La contrapposizione tra il lavoro, l’ambiente e la salute, a taranto, tocca nel vivo ogni persona sensibile, oltre alle migliaia di lavoratori dell’Ilva. una contrapposizione difficile da superare anche in questo primo scorcio del

III millennio, quando si penserebbe che il progresso scientifico e tecnologico possa risolvere tutti o quasi tutti i problemi. Legambiente, che forse è l’associazione ambientalista più consapevole dell’ineludibile interconnessione tra questione ambientale e questione sociale, sta facendo una scommessa molto difficile: credere che questa angosciante dicotomia possa trovare una sintesi positiva per cui nessuno più a taranto (ma non solo) sia costretto a scegliere tra salute e lavoro, ma che tutti abbiano diritto a lavorare in un ambiente sicuro in cui non ci si ammali o si muoia. La magistratura, che è stata per troppi anni l’unico presidio contro gli inquinatori, con l’ultima inchiesta in cui tra le ipotesi di reato a carico dell’Ilva vi è quella gravissima di disastro ambientale doloso e colposo, ha scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora di silenzi, acquiescenze, corruzioni e complicità. MoLti credono che in quest’AziendA non si possano attuare interventi tali da abbatterne drasticamente il micidiale impatto ambientale. Questo per due motivi: il primo è l’obsolescenza di molti impianti e il secondo è l’assoluta sfiducia nelle istituzioni. Queste, silenti o complici per troppi anni, ora, sotto la spada di Damocle della magistratura, devono imporre all’azienda quel radicale ammodernamento tecnologico, nonché i controlli e i monitoraggi più serrati e rigorosi, che la città tutta chiede e a cui ha diritto.noi siAMo invece “costretti” A crederci e a scommettere, perché questo territorio ha bisogno di lavoro (120.000 disoccupati solo nella provincia di taranto), perché l’acciaio è strategico anche per quella green economy cui affidiamo tante speranze, perché non riteniamo eticamente accettabile che le lavorazioni più sporche siano spostate in paesi poveri dove il regime di controlli e divieti è vago o inesistente, e infine perché crediamo che solo questi interventi potranno garantire un futuro all’Ilva consentendole di essere competitiva con il meglio della siderurgia mondiale. Ma sia chiaro: non accetteremo accordi al ribasso, autorizzazioni ambientali con prescrizioni blande e dilazionate nel tempo, non accetteremo baratti tra salute e lavoro. Noi vogliamo vincere la nostra scommessa.* presidente del circolo di Legambiente taranto

Non accetteremo accordi al ribasso né autorizzazioni con prescrizioni blande

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me all’acciaieria a ridosso dei pa-lazzi. È da lì che si alzano le polveri rosse che ricoprono tetti e balconi e s’infilano nei polmoni delle perso-ne, tanto che il sindaco nel 2010 ha emesso un’ordinanza che vieta ai bambini di giocare nelle aree verdi del quartiere perché contaminate. Il nodo dei parchi minerali, infi-ne, è forse quello più difficile da affrontare. La soluzione migliore sarebbe quella di allontanarli dal quartiere e coprirli, la Hyundai nella propria acciaieria in Corea l’ha fatto abbattendo quasi del tutto la dispersione delle polveri. Il minerale arriva dalle stive delle navi trasportato su nastri che cor-rono al chiuso di tubature lunghe i 36 chilometri che dividono l’accia-ieria dal porto. Su questo capitolo il presidente dell’Ilva, Bruno Fer-rante, ha presentato alla Procura di Taranto (contestualmente alla richiesta di riprendere la produzio-ne) un piano di risanamento che prevede 400 milioni d’investimen-to e un incarico alla Paul Wurth,

colosso dell’impiantistica per la si-derurgia, per coprire i parchi con l’obiettivo di ridurre le polveri del 70-90%. Un piano che però è stato bocciato dai custodi nominati dal-la Procura. «La spesa complessiva per la riconversione è certamente più alta, parliamo di svariati mi-liardi di euro – riprende Viale – Chi dovrà spenderli?».

inTErvEnTO EurOPEOGià, chi metterà mani al portafo-glio? Le casse dello Stato in questo periodo piangono. «E poi lo Sta-to non può sostenere un’azienda per ammodernare gli impianti, infrangendo le norme sulla con-correnza – chiarisce Monica Fras-soni, presidente del partito Verde europeo – Per di più sarei perso-nalmente contraria a una scelta di questo genere verso un’impresa che ha avuto durante gli anni un atteggiamento assai discutibile. Piuttosto questa sia l’occasione per rimettere al centro dell’agen-da il tema delle bonifiche. Ci sono aree, anche fuori dallo stabilimen-to, che devono essere bonificate e per questi interventi si possono utilizzare i fondi strutturali eu-ropei. Ci sarebbero anche finan-ziamenti Ue per rinnovare le tec-nologie – aggiunge Frassoni – Ma non sono a fondo perduto e soprat-tutto per poter attingervi bisogna predisporre progetti di qualità». Gli unici, del resto, che potrebbe-ro aiutare Taranto ad uscire dal tunnel. Perché qui o si cambia o si muore. n