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‘Taxe Percue’ ‘Tassa Riscossa’ - Padova C.M.P. Abbonamento annuo: Italia 30,00 - Estero 60,00 - Fascicolo separato 6,00 Poste Italiane s.p;a. - Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Padova ISSN 1120-9755 ANNO XXXI OTTOBRE 2016 rivista di storia arte cultura

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ISSN 1120-9755

ANNO XXXI OTTOBRE 2016

rivista di storia arte cultura

belvest.com

Men’s Collection Spring / Summer 2016

MADE IN ITALY

BELVEST_Padova_Campagna SS16_210x295_TB.indd 1 26/01/16 17:53

Rivista bimestrale • Anno XXXI • Fascicolo 183 • Settembre-Ottobre 2016

3Editoriale

4Musme: il nuovo Museo sulla Storia della Medicina

Elisa Salvato

7Cesare Crescente, Sindaco di Padova

Paolo Giaretta

13Il complesso di San Giovanni di VerdaraGraziano Giuseppe Parise, Carla Zaccariello

18L’arte organaria romantica a Padova

Alberto Sabatini

23Aldo Rossi e il Municipio di Borgoricco

Paolo Pavan

28Piazzale Boschetti

Alberto Susa

32La chiesa del Cimitero Maggiore di Padova

Paolo Franceschetti

37Donato Sartori e il Museo della Maschera

Paola Piizzi

42L’impressionismo di Zandomeneghi a Palazzo Zabarella

Silvia Gullì

47La mia Padova...Ferdinando Camon

49Rubriche

Presidente: Vincenzo de’ StefaniVice Presidente: Giorgio RonconiConsiglieri: Salvatore La Rosa, Oddone Longo, Mirco Zago

Rivista di storia, arte e culturaDirezione: Giorgio Ronconi, Oddone Longo, Mirco ZagoRedazione: Gianni Callegaro, Mariarosa Davi, Roberta Lamon, Paolo Maggiolo,Paolo Pavan, Elisabetta Saccomani, Luisa Scimemi di San BonifacioProgettazione grafica: Claudio RebeschiniRealizzazione grafica: Gianni CallegaroDirettore responsabile: Giorgio Ronconie-mail: [email protected]

Sede Associazione e Redazione Rivista: Via Arco Valaresso, 32 - 35141 Padova Tel. 049 664162 - Fax 049 651709e-mail: [email protected] - www.padovaeilsuoterritorio.itc.f.: 92080140285

Consulenza culturaleAntonia Arslan, Pietro Casetta, Francesco e Matteo Danesin, Pierluigi Fantelli,Francesca Fantini D’Onofrio, Sergia Jessi Ferro, Paolo Franceschetti, Elio Franzin,Donato Gallo, Claudio Grandis, Salvatore La Rosa, Vincenzo Mancini,Maristella Mazzocca, Luciano Morbiato, Gilberto Muraro, Antonella Pietrogrande,Giuliano Pisani, Gianni Sandon, Francesca Maria Tedeschi, Rosa Ugento, Roberto Valandro,Maria Teresa Vendemiati, Francesca Veronese, Gian Guido Visentin, Pier Giovanni Zanetti

Enti e Associazioni economiche promotriciAmici dell’Università, Amici di Padova e il suo territorio,Camera di Commercio, Cassa di Risparmio del Veneto,Banca Antonveneta (Gruppo Monte dei Paschi di Siena), Comune di Padova,Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo,Regione del Veneto, Unindustria Padova

Associazioni culturali sostenitriciAmici dell’Orchestra di Padova e del Veneto, Amissi del Piovego,Associazione Comitato Mura,Associazione “Lo Squero”, Associazione Italiana di Cultura Classica,Casa di Cristallo, Comitato Difesa Colli Euganei,Comunità per le Libere Attività Culturali,Ente Petrarca, Fidapa, Gabinetto di Lettura,Gruppo del Giardino Storico dell’Università di Padova,Gruppo “La Specola”, Gruppo letterario “Formica Nera”,Italia Nostra, Istituto di Cultura Italo-Tedesco, Progetto Formazione Continua,Società “Dante Alighieri”, Storici Padovani, The Andromeda Society, UCAI,Università Popolare, U.P.E.L.

Amministrazione e StampaTipografia Veneta s.n.c. - Via E. Dalla Costa, 6 - 35129 PadovaTel. 049 87 00 757 - Fax 049 87 01 628e-mail: [email protected] - [email protected]

Autorizzazione Tribunale di PadovaRegistrazione n. 942 dell’11-4-1986 - Iscrizione al R.O.C. n. 25890 del 24-7-2015

Abbonamento anno 2016: Italia e 30,00 - Estero e 60,00Fascicolo separato: e 6,00 - Arretrato e 10,00 c/c p. 1965001 «Tipografia Veneta s.n.c.» - Padova

Sped. in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/B legge 662/96 - Filiale di Padova.Gli articoli firmati non impegnano la rivista e rispecchiano soltanto il pensiero dell’autore. Tutti i diritti di proprietà letteraria ed artistica sono riservati e sono estesi a qualsiasi sistema di riproduzione. Per loro conto, gli autori si assumono la totale responsabilità legale dei testi e delle immagini proposti per la stampa; eventuali riproduzioni anche parziali da altre pubblicazioni devono portare l’esatta indi-cazione della fonte. I manoscritti, le foto ed i disegni, anche se non pubblicati, non saranno restituiti.

Associazione “Padova e il suo territorio”

In copertina:Il grande salone del Museo della Storia della Medicina in Padova che ospita il Teatro ana-tomico vesaliano.

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C’è una Padova che ancora molti non conoscono, ignorata dai rituali percorsi turistici nonostante rivesta una ragguardevole importanza culturale: è la Padova dei musei minori, estranea ai nostri ritmi di vita quotidiana e comunque ritenuta trascu-rabile rispetto ad altri interessi e richiami. Un giudizio che risente di quel concetto antiquato che considera il museo un deposito di ciò che è diventato vecchio inattuale e anche inutile, e non uno spazio aperto, un luogo in cui scienza, storia, usi e tradizioni dialogano col presente, capaci di trasmetterci curiosità, di farci partecipi di scoperte in grado di arricchire e di dare più senso alla nostra vita.

Chi nei momenti di riposo o di vacanza vuol dedicarsi alla scoperta della propria città sotto questo particolare risvolto non ha che da scegliere. Tra le molteplici occa-sioni, ne segnaliamo due avviate di recente, illustrate in questo fascicolo da chi opera in esse. Si tratta del Museo di storia della medicina in Padova, che ha sede in via S. Francesco nel quattrocentesco edificio eretto per ospitare il primo ospedale cittadino. Nello spazio di tre piani, attraverso documenti e reperti antichi, video e strumenti inte-rattivi il visitatore percorre, sala dopo sala, l’evoluzione della scienza medica padova-na, illustrata dagli stessi protagonisti che con le loro osservazioni e scoperte l’hanno progressivamente svelata.

Di minor impatto volumetrico, ma di non minore interesse come segno della pre-senza e della vicinanza con la città di una comunità strettamente legata alla storia della nostra civiltà, è il Museo della Padova ebraica, nato anch’esso un anno fa in via delle Piazze, nel luogo dove sorgeva la sinagoga di rito tedesco distrutta da un incendio doloso nel 1943. Non si tratta, anche in questo caso, di una semplice esposizione di og-getti e manufatti preziosi, testimonianza di riti e tradizioni secolari, ma di un tentativo di ricostruire per immagini e dal vivo il passato grazie a moderne soluzioni narrative ambientate nei luoghi stessi della Padova ebraica. Avremo occasione di parlarne in uno dei prossimi fascicoli.

Quanti poi si prefiggessero di visitare i musei del territorio, non mancherebbero di imbattersi in altrettanto interessanti sorprese. La Provincia di Padova ha addirittura creato una rete museale che tiene collegato questo ricco patrimonio, distribuito per diverse aree d’interesse, dall’arte alla storia, dall’archeologia alle scienze naturali, non tralasciando gli aspetti che riguardano le tecnologie e l’impatto con l’ambiente.

Nel fascicolo si dà conto di uno di questi stimolanti luoghi di cultura, il Museo della maschera ideato ad Abano Terme da Donato Sartori, continuatore dell’arte e dell’opera del padre, scomparso prematuramente da pochi mesi. Ci fa piacere cogliere questa occasione per ricordare la sua figura. Illustra il Museo la moglie Paola, che ne curò con Donato la creazione e l’allestimento. Il loro lavoro è un esempio che vale a dimostrare come la passione e l’impulso ideativo di privati possano dar vita a realtà di alto prestigio culturale ancor prima dell’intervento delle istituzioni, quasi a testimo-niare che il passato continua ad essere vivo e operante, e merita di essere conosciuto e trasmesso.

Giorgio Ronconi

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Elisa Salvato

MusMe: il nuovo Museosulla Storia della MedicinaLo straordinario percorso della Scuola medica padovana, dal ’400 a oggi,viene narrato in modo rigoroso e accattivante in un Museo che spiccaper innovatività: il MUSME - Museo di Storia della Medicina in Padova.Nato solo un anno fa, è già considerato un’eccellenza a livello nazionale.

«Ammesso che l’onore di essere stata la sede della rivoluzione scientifica possa appartene-re di diritto ad un singolo luogo, tale onore dovrebbe essere riconosciuto a Padova».1

Come ben riassunto dallo storico delle Scienze Herbert Butterfield, la Storia delle Scienze in generale e della Medicina in par-ticolare deve molto a Padova e al suo antico Ateneo.

L’Università di Padova, per merito anche della libertà di studio e di pensiero che vi veniva garantita dalla Serenissima, è stata la culla di quella Rivoluzione Scientifica che ha cambiato il volto del sapere in Occiden-te. Durante il Rinascimento, qui sono state rivoluzionate l’Astronomia e la Fisica; e qui è nata la Medicina moderna, come viene ef-ficacemente illustrato nelle sale del Musme.

Dall’ex Ospedale di San FrancescoGrande alla Fondazione MusMe

Il Musme è un Museo di nuova genera-zione che racconta la storia della Medicina da disciplina antica a scienza moderna, con particolare attenzione alla centralità della Scuola medica padovana.

La sede stessa del Musme ci parla di im-portanti innovazioni nel nostro passato: il Museo, infatti, è allestito nel palazzo quat-trocentesco che fu sede dell’ospedale di San Francesco Grande, primo ospedale cittadi-no, eretto nel 1414 per volontà dei coniugi Sibilia de’ Cetto e Baldo Bonafari da Piom-bino e attivo fino al 1798.

Nella seconda metà del Cinquecento fu in questi locali che, per la prima volta in as-soluto, gli studenti di Medicina iniziarono a imparare la pratica clinica direttamente al letto dei malati, gettando le basi del moder-no approccio didattico in Medicina.

Il restauro dell’ex Ospedale di San Fran-cesco Grande è stato promosso dalla Pro-vincia di Padova2 – proprietaria dell’edificio

dal 1959 – su progetto dell’Università degli Studi di Padova, allo scopo di ospitarvi un Museo che desse finalmente lustro alla glo-riosa storia della Scuola medica padovana.

Nel 2008 la Provincia di Padova, l’Uni-versità degli Studi di Padova, la Regione del Veneto, il Comune di Padova, l’Azien-da Ospedaliera e l’Ulss 16 hanno costitu-ito la “Fondazione Museo di Storia della Medicina e della Salute in Padova” – detta anche Fondazione MusMe, oggi presiedu-ta da Francesco Peghin – con la finalità di raccogliere, custodire e valorizzare le testi-monianze della cultura medica e scientifica padovana.

La Fondazione Musme nel 2013 ha ban-dito un avviso per la gestione dell’immobile – ribattezzato Palazzo della Salute – dando vita a una proficua sinergia pubblico-priva-to, in cui la Fondazione stessa mantiene un ruolo di indirizzo e controllo.

Tra il 2014 e il 2015 la QBgroup, società padovana leader nel settore dell’innovazio-ne tecnologica per la formazione medica, ha realizzato il Museo in tempi record, con la consulenza del Comitato Scientifico (pre-sieduto dal prof. Vincenzo Milanesi, già Magnifico Rettore dell’Ateneo patavino) e il sostegno finanziario della Fondazione Cariparo. Parallelamente al Museo, nell’a-la destra del palazzo, ha allestito anche un centro congressi altrettanto all’avanguardia.

Museo e centro congressi sono gestiti, a rischio imprenditoriale privato, dalla Palaz-zo della Salute srl, società rappresentata da Luca Quareni.

Il percorso espositivoIn equilibrio tra passato e futuro, il Musme

rivoluziona il concetto di Museo scientifico, coniugando storia e tecnologia. Incrocio tra una tradizionale collezione di reperti e un moderno Science Centre, fonde e rinnova

diElisa Salvato

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Musme: il nuovo Museo sulla Storia della Medicina

gli approcci museali e riesce a conquistare tutti, proponendo un percorso espositivo che si adatta al visitatore: dalla narrazione giocosa per i più piccoli all’approfondimen-to per gli studiosi.

Ai reperti antichi – messi a disposizio-ne da Università di Padova, Musei Civici, Azienda Ospedaliera e Ulss16 – si affianca-no exhibit interattivi, video e giochi multi-mediali, ideati per illustrare i reperti e chia-rire i temi trattati nelle sale. Ci sono poi gli ormai celebri “portoni del Musme”: lungo il percorso espositivo, il visitatore può bus-sare a grandi porte virtuali, che si aprono su video a grandezza naturale in cui alcuni pro-tagonisti del passato presentano sé stessi e gli argomenti del Museo, componendo una narrazione storica spesso divertente che si sviluppa di sala in sala.

Il Musme pone il corpo umano al centro di un percorso storico e scientifico, che si snoda lungo tre piani affacciati sull’asse stradale e sul cortile interno.

La prima sala, a piano terra, è dedicata alla storia dell’ex Ospedale di San Francesco Grande. Dal suo portone virtuale, Sibilia de’ Cetto racconta le motivazioni e le peculia-rità dell’intero complesso, ben descritto da un plastico con proiezioni mappate, mentre Giovanni Battista Da Monte spiega l’impor-tanza di introdurre la pratica anatomica e la pratica clinica nell’insegnamento universi-tario della Medicina.

Sempre a piano terra, la seconda sala è dedicata all’Università di Padova e alla sua centralità nella Rivoluzione Scientifica, illu-strata proprio da Galileo Galilei. Una pro-iezione sul soffitto narra la stretta relazione tra Astrologia e Medicina antica, mentre dei touch-screen presentano biografie e opere dei medici illustri che nei secoli hanno tro-vato nell’Ateneo patavino il luogo ideale in cui lavorare.

Ai piani superiori si incontrano quattro sale dedicate alla nascita e allo sviluppo delle scienze mediche moderne: Anatomia, Fisiologia, Patologia e Terapia, presentate rispettivamente da Andrea Vesalio, Santo-rio Santorio, Giovanni Battista Morgagni e Prospero Alpini.

Vi si trovano strumenti medici e reperti umani antichi e moderni, anche di anatomia patologica. Splendidi libri antichi, normal-mente inaccessibili al pubblico, qui sono an-che “sfogliabili” virtualmente. Giochi a di-versi livelli di difficoltà insegnano la corretta

1. Il Chiostro dell'ex Ospedale di S. Francesco

Grande. Sullo sfondo il campanile della chiesa di

San Francesco.

2. Osservare il cuore in grafica 3D.

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Elisa Salvato

eContent Award Italy per i migliori conte-nuti e servizi in formato digitale nella sezio-ne eLearning & Science e in pochi mesi ha scalato le classifiche di Tripadvisor, dove ha raggiunto il 6° posto tra le 200 cose da fare a Padova.

Il successo è stato notevole in particolare con le scolaresche: le centinaia di classi in visita hanno innescato un passaparola che ha fatto crescere l’afflusso di visitatori di mese in mese.

L’augurio è che questo trend positivo si confermi negli anni, anche grazie al rinno-vamento continuo delle proposte espositive e didattiche.

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1) H. Butterfield, Origins of Modern Science, 1949.

2) Con il contributo di Stato, Regione del Veneto, Comune di Padova e Società Autostrade Padova-Brescia.

anatomia del corpo umano, il lessico medi-co, l’associazione tra patologie e agenti pa-togeni. Un tavolo settorio virtuale permette di effettuare dissezioni anatomiche secondo le indicazioni di Vesalio. Pannelli interattivi con domande e risposte incoraggiano il vi-sitatore a ragionare sui temi affrontati, sia in termini di conoscenze storico-scientifiche sia in riferimento alla propria salute. E alcu-ne postazioni con disegni animati esplicativi permettono di misurarsi la pressione e altri parametri fisiologici a scopo didattico.

Percorse le sei sale, si entra nello stupe-facente Teatro Anatomico Vesaliano, grande salone in cui Anatomia e Fisiologia vengono illustrate – grazie a perfette proiezioni map-pate – da un modello di corpo umano lungo otto metri, che parla al pubblico e sembra un gigante vivo: l’“omone” del Musme, come ormai lo chiamano i bambini in visita.

Il percorso si chiude con due sale dedica-te alle esposizioni tematiche. Nei primi mesi il Musme ha ospitato Il cibo, i luoghi e le frodi nella Padova del Settecento (proposta dall’Archivio di Stato) e Luoghi e spazi della Salute. Immagini progetti disegni dagli ar-chivi ospedalieri di Padova (curata dal prof. Stefano Zaggia dell’Università di Padova).

Attualmente è visitabile la mostra Il corpo scoperto. L’anatomia da Vesalio al futuro, curata dal prof. Maurizio Rippa Bonati e dalla dott.ssa Silvia Ferretto dell’Università di Padova. Racconta la collaborazione tra anatomisti e artisti, presentando anche una selezione di opere illustrate di anatomia del ’500, tra cui la prima edizione del capolavo-ro di Andrea Vesalio, il De humani corporis fabrica libri septem, e le Pitture colorate d’anatomia fatte realizzare da Girolamo Fa-brici d’Acquapendente.

Il Musme, inaugurato il 5 giugno 2015, sta destando un interesse crescente.

Nel 2015 ha vinto il prestigioso premio

3. La Sala dedicataalla Terapia.

4. La seconda Sala e il portone di Galileo Galilei.

5. L'“omone” del Musme.

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Cesare Crescente, Sindaco di Padova

Cesare Crescente,Sindaco di Padova

Si anticipa un sintetico profilo di un personaggio che ha attraversato la storiadelle istituzioni del '900 padovano guidando la città negli annidella ricostruzione democratica e morale e della creazione di nuove infrastrutture.Sono però anche gli anni di una profonda alterazione del centro storico.

Ricorre quest’anno il centotrentesimo an-niversario della nascita di Cesare Crescen-te. Era infatti nato a Padova, nella frazione di Voltabarozzo, il 31 dicembre 1886 e a Padova morì il 18 dicembre1983, alle so-glie dei 97 anni. Un uomo che ha attra-versato la storia politico-amministrativa di larga parte del Novecento padovano. Non solo Sindaco di Padova, anche se di Pado-va fu sindaco per antonomasia, per un lun-go periodo di 23 anni, dal 26 aprile 1947, subentrando al dimissionario Sindaco so-cialista Gastone Costa, e poi rieletto inin-terrottamente per altre quattro legislature, adempiendo al mandato di Sindaco fino al 28 settembre 1970. Furono anni decisivi per la ricostruzione e la trasformazione della città dopo le ferite belliche: sindaco della ricostruzione e del coraggio, come lo definì Paolo Emilio Taviani, allora Mini-stro degli Interni, nel 1967 in occasione dei festeggiamenti per il ventesimo anno di sindacatura1.

E tuttavia Sindaco di Padova divenne uomo già maturo, a 61 anni, con alle spal-le una solida carriera di avvocato d’affari e una giovanile importante esperienza nella vita amministrativa.

Crescente fu infatti tra i protagonisti del rinnovamento della presenza sociale e po-litica cattolica nella Diocesi di Padova sot-to l’impulso del vescovo Pellizzo nei pri-mi due decenni del ’900. Un bel gruppo di giovani attivisti di Azione cattolica, sotto la guida di un altro giovane, il ventottenne sacerdote don Restituto Cecconelli, operò per rianimare la presenza cattolica nella società: dal conte Giuseppe Dalla Torre che divenne poi per un quarantennio diret-

tore dell’Osservatore Romano, a Sebastia-no Schiavon, parlamentare di grande pre-sa popolare, che di Crescente fu cognato, morto in giovane età, a Gavino Sabadin, che fu sindaco di Cittadella e poi il primo Prefetto di Padova dopo la Liberazione. In quel periodo Crescente si forma una so-lida esperienza amministrativa, dal 1910 al 1920 è Sindaco di Ponte San Nicolò, assessore a Cittadella con Sabadin, consi-gliere provinciale. È nel febbraio del 1919 tra i fondatori a Padova del Partito Popo-lare Italiano2. Durante la lunga parentesi del fascismo Crescente resta un sorveglia-to speciale ma non partecipa attivamente alla vita cospirativa, si impegna piuttosto a fondo nella professione di avvocato, co-struendo uno degli studi professionali più reputati di Padova.

Rientra nella vita amministrativa nel 1945 con la prima Giunta, nominata dal Comitato di Liberazione Nazionale. Fu quasi una scelta naturale affiancare al Sindaco comunista Giuseppe Schiavon, carismatico capo del PCI clandestino ma privo di esperienza amministrativa, Ce-sare Crescente, uomo esperto di diritto e di amministrazione e figura adatta a tran-quillizzare i “moderati”. Poi nel 1947 l’e-lezione a Sindaco, con una giunta ancora tripartita DC, PCI, PSI. Così si presentò Crescente in Consiglio Comunale: “È un peso ben grave, carissimi colleghi, che voi avete posto sulle mie povere spalle, ed io non so se potranno reggerle”3. In realtà le ‘povere spalle’ avrebbero poi retto l’am-ministrazione per 23 lunghi anni.

I temi erano ancora quelli drammatici della ricostruzione, come si può vedere

diPaolo Giaretta

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Paolo Giaretta

dalle discussioni in Consiglio Comunale: la mancanza di lavoro, di casa, la tensio-ne sui prezzi dei generi alimentari, le in-frastrutture di base come l’acquedotto da riadattare. Ma il clima politico generale si faceva aspro, preparandosi la grande bat-taglia del 1948. Per darne un’idea ecco un piccolo florilegio dei titoli apparsi in quel periodo nel settimanale diocesano La Di-fesa del Popolo: “Chi si astiene dal votare commette un peccato grave – o Cristo o Barabba”, “Cristiani in piedi, compatti a difendere la libertà, la patria, la religione”, “Non votare o votare male è peccato tra-dimento suicidio”. A cui rispondeva il set-timanale del PCI il Lavoratore con l’im-perativo di non votare il Governo degli “affamatori del popolo” che voleva dire “l’assolutismo padronale nelle fabbriche e nelle campagne, il trionfo del privilegio, l’abolizione delle organizzazioni sindacali democratiche, la disoccupazione per poter permettere all’industriale ed all’agrario di poter comprare il lavoro a basso prez-zo”. La Difesa del Popolo celebrava poi la vittoria del 18 aprile con titolo a piena pagina: “Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera – Viva l’Italia – la travolgente vit-toria della Democrazia Cristiana”.

L’alleanza uscita dalla Resistenza non poteva reggere ad uno scontro così duro, si formava una giunta DC PLI e i socialco-munisti passavano all’opposizione.

Si apriva con le elezioni del 1951 il pri-mo decennio delle sindacature di Crescen-te, con giunte sostanzialmente centriste. Crescente si conservò tuttavia la stima dei nuovi avversari. Così il consigliere Giu-seppe Gaddi, Segretario della Federazione provinciale del PCI commentò in Consi-glio Comunale la relazione di Crescente, pur annunciando il voto contrarissimo del PCI: “È evidente che tra i consiglieri della maggioranza non poteva essere scelta per-sona più equilibrata, più degna di essere sindaco dell’avv. Crescente”4.

Si pose mano alla trasformazione della città, con l’ambizione, se vogliamo un po’ provinciale, di fare di Padova la Milano del Veneto avviando una nuova infrastrut-turazione e profonde trasformazioni del suo assetto urbanistico.

A cominciare con l’intervento che cam-biò la natura di Padova città d’acque:

l’interramento delle Riviere. Nel febbra-io 1955 viene approvato all’unanimità il progetto di massima per la copertura dei canali interni da Porte Contarine a Pon-te san Lorenzo, salutato da tutti come un contributo decisivo alla soluzione del problema del traffico cittadino. Il consi-gliere Franco Busetto, segretario della federazione padovana e futuro parlamen-tare assicurava il consenso convinto del PCI affermando che con la realizzazione dell’opera si avrà “la valorizzazione di tutta la zona cittadina com’è dimostrato dal Piano regolatore della città: allarga il centro, lo rende più ricco, più vivace, lo abbellisce, cioè gli fa perdere qualche caratteristica di paesotto vecchio, simpa-tico sotto certi aspetti, ma antipatico sotto altri”5. Unica voce solitaria di dissenso (e potremmo dire profetica) fu quella di Lui-gi Gaudenzio, direttore della rivista “Pa-dova” e nel 1961 primo presidente della sezione padovana di Italia Nostra, che in un suo editoriale osservava che le moti-vazioni igienico sanitarie erano risolvibili per altra via e che la pessima visione di canali semivuoti e pieni di detriti si risol-veva mantenendo un adeguato livello idri-co: “Tutti i canali, svuotati naturalmente o volutamente dalle loro acque presentano lo stesso guaio, compreso il Canal Grande

Primi anni del '900.Un gruppo di dirigenti

del Movimento cattolico.Primo a sinistra

è Cesare Crescente, il secondo

è Gavino Sabadin, il terzo Lazzaro Girardin.

Seduti don Pedrazza Parroco di Voltabarozzo

e Sebastano Schiavon.

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Cesare Crescente, Sindaco di Padova

la Padova Venezia, il nuovo cavalcavia Borgomagno.

Nel ’54 si riporta la “Madonna dei Noli” in Piazza Garibaldi, con l’entusia-stico annuncio della Difesa del Popolo: “Trionfale ritorno della Madonna dei Noli” e qualche mal di pancia laicista per lo spostamento ai Giardini del monumen-to al fiero oppositore di ogni clericalismo!

La seconda metà degli anni ’50 è de-cisiva anche per la creazione della zona industriale di Padova. Con una battaglia parlamentare per ottenere una legge spe-ciale, vinta a metà perché una legge il Parlamento approva, ma senza agevola-zioni fiscali che dessero maggiore con-venienza agli investimenti. Crescente va avanti lo stesso, vince la battaglia per una zona industriale sufficientemente ampia, nonostante Piccinato usasse tutti i suoi poteri di componente il Consiglio Supe-riore dei Lavori Pubblici per ostacolarne l’approvazione. Dovrà affrontare anche una durissima contesa sulle indennità di esproprio. Non vi era solo una questione economica per alcune grandi proprietà, vi era la questione sociale di circa 400 pic-coli coltivatori che dalla terra ricavavano il reddito. Crescente qui impegnò tutta la sua esperienza di avvocato, da un lato

di Venezia, che nessuno tuttavia si sogna di coprire”6.

Sono anche gli anni in cui Padova, se-conda dopo Milano in Italia, adotta un Piano Regolatore Generale, affidandone la redazione all’arch. Luigi Piccinato. Scelta coraggiosa, ma fonte di dissidi e difficoltà. Innanzitutto con Piccinato. Un esempio: tutto l’ambiente universitario guidato dal Rettore Ferro voleva la rea-lizzazione delle nuove Cliniche aderenti all’Ospedale Civile, a costo di manomet-tere le mura cittadine e deturpare il Parco Jappelli per mantenere una stretta inte-grazione funzionale tra le strutture ospe-daliere e quelle universitarie. Piccinato, sostenuto dall’assessore Zancan, inviò una “Nota sul problema delle Cliniche” in cui metteva in luce tutti gli inconve-nienti di quella collocazione, in contrasto con le elaborazioni che stava realizzando per il Piano Regolatore. Altro esempio: la collocazione e il dimensionamento della Zona Industriale, che Piccinato prevedeva a ridosso del centro storico e di modeste dimensioni. Il conflitto sostanziale riguar-dava un diverso giudizio sulla città: per Piccinato Padova doveva restare una città di secondo rango, per l’Amministrazione il suo destino era di diventare la vera ca-pitale del Veneto7.

La città cambia il suo volto con la co-struzione di edifici caratteristici dell’a-spetto odierno: il Palazzo Coin in via Altinate, la Torre Medoacense in Largo Europa, la Torre CIGI in Piazza Insurre-zione, che si aggiungeva al Palazzo Torre del 1948, completando qualche anno più tardi con il Palazzo Quirinetta l’altera-zione dell’impianto dell’epoca fascista. Infine il complesso del BI.RI. alla Stan-ga, che voleva dare una impronta ameri-cana alla città. Si sviluppavano anche i sobborghi periferici, accompagnati dagli insediamenti di edilizia popolare e da un ambizioso piano della Diocesi di edifica-zione di chiese a servizio dei nuovi quar-tieri cittadini, già iniziato nell’immedia-to dopoguerra con le nuove chiese della Madonna Pellegrina, del Sacro Cuore e di Altichiero, poi proseguito fino agli anni ’70. Si costruisce il nuovo acquedotto, si inaugura l’autostrada Padova Vicenza e poi la tangenziale ovest, il raddoppio del-

14 giugno 1950,visita del presidente

del ConsiglioAlcide De Gasperi

alla Fiera Campionaria,accanto a lui Crescente

e il presidentedella Fiera Saggin.

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Paolo Giaretta

nuova “Via per Milano”, inaugurata nel novembre 1962, realizzata con altezze e volumi in difformità al Piano Regolatore. Si consente la realizzazione della nuova sede della Banca Antoniana, progettata da una firma illustre come l’arch. Giò Ponti, ma realizzata abbattendo la storica sede dell’Albergo Storione, davanti al Bo e di fianco al Municipio, luogo significativo per le vicende culturali della città (scom-parvero così le belle sale decorate da Ce-sare Laurenti). Si imposta inoltre l’abbat-timento del quartiere Conciapelli con la realizzazione del nuovo grattacielo ed un approccio fortemente speculativo.

Per uno dei paradossi frequenti nella storia l’ultima legislatura guidata da Ce-sare Crescente tra il 1965 ed il 1970 fu se-gnata da una profonda innovazione politi-ca. Quando Cesare Crescente venne eletto Sindaco per la quarta volta, nel febbraio del 1965, era già un uomo di 79 anni. An-cora lucidissimo ed attivo, in grado di re-stare un solido punto di riferimento per la

escogitando un meccanismo che consen-tisse di elevare il prezzo di esproprio ini-zialmente fissato, dall’altro offrendo agli espropriati anche adeguati sussidi sociali, dalla ricostruzione delle case in altra zona all’offerta di lavoro alternativo, ecc. All’i-nizio del 1960 il Consorzio per la Zona Industriale, nel frattempo costituito sotto la presidenza di Crescente, era già riuscito ad acquistare un milione di metri quadra-ti, ad urbanizzare la zona Nord Piovego e a vendere le aree a 39 ditte.

La prima metà degli anni ’60 vede una crescita della città affidata prevalente-mente ad un ciclo edilizio/speculativo, di cui diventa riferimento principale l’asses-sore ai lavori pubblici Celeste Pecchini. Se ne lamenta fin nel 1961 Diego Valeri con una garbata ma ferma lettera aperta al Sindaco: “Dirò dunque schiettamen-te […] che molte nuove costruzioni mi sembrano o piuttosto sono dei veri orrori. […] io non credo che siano approvabili, per nessun motivo o pretesto, certe de-molizioni, più o meno abusive, di edifici di interesse storico-artistico”8. Il Gazzet-tino conduce una coraggiosa campagna di stampa sul tema della deturpazione del Centro Storico, campagna che viene ripresa dalle colonne del Corriere della Sera, in cui Leonardo Borgese nel 1962 faceva un ritratto severissimo delle vicen-de urbanistiche padovane. Sotto il titolo “Distruggono Padova” (con il catenaccio “Il verde e l’acqua sono ormai nelle mani degli speculatori: ma nessuno sembra in-dignarsene: anzi la gente si dimostra sod-disfatta dello scempio. Avidità affaristica sposata a carenza di senso civico”) scri-veva Borgese: “Il verde e l’acqua spari-scono. In nome del futuro e del progres-so, e del decoro, e dell’igiene e del senso sociale. In realtà per comando dell’avida speculazione, della barbarie meccanizza-ta, motorizzata e dell’ignoranza presun-tuosa. […] I soliti colpi di mano, le prepo-tenze palesi o subdole, gli avvelenamenti procurati non indignano sul serio nessu-no, nemmeno qui. […] Via l’acqua per far diventare la città come un autodromo di allenamento per cretini e per alzare case e grattacieli miserrimi infittendo spavento-samente il traffico, soffocandolo, ferman-dolo”9. Sono gli anni in cui si realizza la

1956: i lavoriper l'interramento della

riviera dei Ponti Romani.

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Cesare Crescente, Sindaco di Padova

di un nuovo Museo agli Eremitani. Ven-ne bandito un concorso pubblico e risultò vincitore il progetto dell’arch. Sacripanti, che incontrò subito molte resistenze per la sua impostazione profondamente inno-vativa. Il progetto fu sonoramente boccia-to in Consiglio Comunale. Dei democri-stiani votarono a favore solo due giovani consiglieri comunali, che avrebbero avuto importanti ruoli negli anni successivi: Et-tore Bentsik e Angelo Ferro.

Crescente usciva definitivamente di scena come Sindaco nel 1970, con una faticosissima successione. Le elezioni si tennero il 7 giugno, ma solo a fine settem-bre si riuscì ad eleggere sindaco Ettore Bentsik. Ad un sindaco di 83 anni succe-deva un sindaco di 38. Crescente presie-dette per altri tre anni il Consorzio per la Zona Industriale, ritirandosi poi definiti-vamente a vita privata.

Certamente non mancarono le critiche, anche retrospettive, sulle scelte di Cre-scente. Le più fondate possono riguardare le vicende urbanistiche. Dalla scelta co-raggiosa di un piano regolatore, in antepri-ma in Italia, alla sua alterazione, con gravi manomissioni del tessuto storico della cit-tà, che cambiarono in peggio l’aspetto di

città. Ma sono gli anni in cui cambiano gli equilibri politici nazionali con la na-scita dei governi di centro sinistra. Anche a Padova ci sono novità. Nella Democra-zia Cristiana viene sconfitto il blocco mo-derato guidato per decenni dall’avv. Luigi Carraro; diventa segretario l’autorevole parlamentare Stanislao Ceschi che impo-sta per Padova una giunta di centrosini-stra DC, PSI, PRI, invano contestata dalla minoranza democristiana, anche perché Cesare Crescente, per tre legislature Sin-daco di giunte centriste, non fa una piega ed affronta la sfida di una nuova sinda-catura, accettando la collaborazione con i socialisti, che pure avevano contestato duramente le sue precedenti scelte ammi-nistrative.

Si aprì una nuova fase che ebbe indub-biamente elementi di continuità con le precedenti amministrazioni, e di questo i comunisti accusarono i socialisti. Si im-postò una più consapevole politica urba-nistica, più attenta alla tutela del Centro Storico, per il quale venne predisposto un Piano; fu approvato il Piano per il Cen-tro Direzionale, si dette attuazione ad un ambizioso Piano per l’edilizia popolare. Insomma si cercò sotto la guida dell’as-sessore socialista all’Urbanistica Fran-cesco Feltrin di dare uno sviluppo più ordinato alla crescita della città. Furono anche gli anni del baby boom che si affac-cia alla leva scolastica. Tra il ’64 ed il ’69 tra elementari e medie ci fu un incremento del 30% della popolazione scolastica, cui l’amministrazione rispose con la realizza-zione di 18 nuovi edifici e 28 interventi di ammodernamento ed ampliamento di quelli esistenti. Si creò la nuova munici-palizzata per la Nettezza Urbana, si pas-sò alla metanizzazione, abbandonando il vecchio Gasometro a carbone, nell’ACAP cessò definitivamente il sistema filovia-rio. Si realizzò a tempo di record il nuovo complesso del Foro Boario e del macello in Corso Australia, tra marzo 1966 (pri-ma pietra) e giugno 1968 (inaugurazio-ne). Ma è il caso di dire che i buoi erano già scappati, perché si era profondamen-te modificato il mercato delle carni ed il complesso entrò presto in crisi.

Una grave sconfitta Crescente dovette subire sulla vicenda della realizzazione

Cesare Crescenteal tavolo di Sindaco

nei primi anni '60.

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Paolo Giaretta

ni”, e ancora: “Tutti i cittadini, anche i più umili, sono stati ammessi a conferire con il Sindaco in armonia con la nostra fede de-mocratica che vuole i reggitori della cosa pubblica a contatto con il popolo, pronti ad ascoltare le istanze che spesso sono espres-sione della sofferenza e del bisogno”.

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1) È singolare che su una figura così significativa per la storia del novecento padovano non si sia fin qui scritto pressochè nulla. Sta per uscire nella collana Ottocento a Padova diretta dal prof. Mario Isnenghi il saggio di chi scrive e Francesco Jori Cesare Crescente Sindaco di Padova 1947-1970, ed. Il Poligrafo, Padova 2016.

2) Su questi aspetti si vedano Massimo Toffanin Sebastiano Schiavon, lo “strapassasiori”, Padova 2005 e Liliana Billanovich Luigi Pellizzo, Vescovo a Padova, Padova 2014.

3) Archivio Comune di Padova (=A.C.P.), Verbali del Consiglio Comunale, seduta del 26 aprile 1947.

4) A.C.P., Verbali del Consiglio Comunale, 25 giugno 1951.

5) A.C.P., Verbali del Consiglio Comunale, 10 febbraio 1955.

6) Luigi Gaudenzio, A proposito della progettata copertura del Naviglio, “Padova ” n. 3, 1955.

7) Per una puntuale ricostruzione delle vicende dell’approvazione del piano e più in generale delle trasformazioni urbanistiche del periodo si veda Mario Battaliard, Padova, trasformazioni urbanistiche della città e principali opere dopo l’unione del Veneto all’Italia (1866-1992), Padova 2015 e Elio Franzin, Luigi Piccinato e l’antiurbanistica a Padova 1927-1974, Padova 2004.

8) La lettera di Diego Valeri e la risposta di Crescente in “Città di Padova”, n. 4, 1961.

9) L. Borgese, Distruggono Padova, “Corriere della Sera” 14 febbraio 1962.

10) Relazione alla cittadinanza sull’attività dell’Amministrazione Comunale dal 1951 al 1956, “Città di Padova”, 1956.

Padova. Però il giudizio storico deve fare i conti con le condizioni del tempo: un blocco costituito dalle banche che alimen-tavano il circuito finanziario, da gruppi di speculazione immobiliare e da un potente apparato di imprese di costruzione, le cui ambizioni l’Amministrazione non seppe, o meglio non volle, contenere. In alcune operazioni, sulle quali il giudizio odierno non può che essere negativo, il consenso di allora fu pressoché unanime ed entu-siasta. Anche il disordinato sviluppo delle periferie può essere criticato per aver fa-vorito lo sviluppo di una edilizia minuta, affollata e di bassa qualità. C’è però da considerare che in quegli anni, per que-sta via, la possibilità di edificare su lotti minuscoli, con distanze ridotte al minimo, dette accesso alla casa in proprietà, sogno da sempre degli italiani, ad un’ampia pla-tea di cittadini, non solo del ceto medio, ma anche del ceto operaio, che provvede-va da sé a realizzare una parte del manu-fatto: casetta in proprietà, con un piccolo spazio per coltivare l’orto dopo il lavoro.

Meno fondata è la critica di aver avuto una visione ristretta della leva finanzia-ria con l’obiettivo del pareggio di bilan-cio. Qualche danno il Comune lo ricavò, ma c’è da chiedersi se non sia stata più lungimirante la visione di Crescente di quella di amministratori votati alla mol-tiplicazione del debito pubblico. Così egli affermava presentando il resoconto dell’amministrazione nel 1956: “Il pareg-gio di bilancio l’abbiamo raggiunto e ciò deve essere motivo di vivo compiacimen-to, perché esso dà respiro all’attività della Pubblica Amministrazione nei vari setto-ri, rende più elastica la possibilità della spesa ed elimina la pesante tutela della Commissione Centrale per la Finanza Lo-cale, che spesso inceppa il ritmo normale della vita amministrativa del Comune”10. Un discorso da federalista più che da av-versario ideologico della spesa pubblica.

Pensiamo che Crescente ci tenesse a ve-dere riconosciuto questo comportamento come frutto di una sua scelta, corrispon-dente a un criterio di rispetto e di equità. Afferma nello stesso resoconto: “Nessuna faziosità, nessuna parzialità, nessun favo-ritismo nella nostra condotta, ma tratta-mento eguale per tutti i nostri concittadi-

1961: primi insediamenti nella Zona Industriale

con viale dell'Industriagià urbanizzato.

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Il complesso di San Giovanni di Verdara

Il complesso di San Giovanni di VerdaraBreve illustrazione di un importante e spesso trascurato monumento cittadino, ricco di storia millenaria e di pregi architettonici e artistici, nonostante le diverse trasformazioni e il depauperamento del suo patrimonio.

Tra le innumerevoli, splendide e meno co- nosciute realtà padovane appare opportuno, agli occhi di chi scrive, annoverare il com-plesso di San Giovanni di Verdara, sede dell’ospedale militare (oggi denominato Dipartimento Militare di Medicina Legale - DMML), specie ora nella ricorrenza del centenario della Grande Guerra, periodo nel quale Padova a buon diritto assurse al ruolo di capitale della sanità militare.

Finalità dell’articolo è quella di portar-ne alla luce alcuni aspetti. Nello specifico, pur rappresentando il DMML di Padova una struttura moderna ed efficiente dal punto di vista funzionale – unico ospedale militare del Nord Est – è tuttavia oscuro alla gran parte delle migliaia di utenti che ogni anno vi accedono come l’edificio rappresenti un vero e proprio capolavoro architettonico, le cui vicende plurisecola-ri sono affascinanti e di sicuro interesse storico. Forse poco conosciuti anche dai cittadini di Padova stessa, gli avvenimenti succedutisi nel complesso di San Giovanni di Verdara rivestono un ruolo di prioritario interesse in ambito artistico, architettonico e culturale nella più ampia accezione, che travalica la semplice sfera locale1.

Il DMML di Padova è situato in prossi-mità del centro storico ed è rappresentato da un complesso di edifici di epoca diver-sa dislocati in prossimità dell’antico siste-ma di comunicazione fluviale e a ridosso della antica strada militare romana “Viri-daria” che, proseguendo a settentrione si univa con la strada “Postumia” e con la via “Annia Inferiore”. Non si hanno noti-zie relative all’epoca romana, anche se è verosimile che, analogamente a quanto spesso verificatosi per molti edifici di culto cristiano, anche quel complesso, divenuto nel Medioevo un monastero benedettino,

sorgesse su un preesistente insediamento (tempio?) pagano. I documenti più antichi attestano l’esistenza del monastero, che prese il nome di San Giovanni Battista in Viridario, agli anni 1219 e 1221. Il nome viridario, di incerta interpretazione, po-trebbe derivare dalla antica strada romana viridaria che si dipanava lungo la zona al-lora situata fuori dalle mura cittadine, op-pure provenire dal termine viridarium, ad indicare gli orti in uso dei monaci benedet-tini o la dislocazione stessa in campagna, “in mezzo al verde”. È certo il suo collo-camento nei pressi dell’antica via dell’Ar-zere (oggi via Beato Pellegrino), strada romana di comunicazione con l’altopiano di Asiago. Il monastero, sede di un prio-rato di benedettini albi (ovvero di monaci benedettini riformati di obbedienza vesco-vile) era conosciuto e famoso fin dal primo ’300. Pochissimo ci è noto dei primi seco-li di vita del monastero: nonostante fosse collocato in posizione periferica rispetto al centro cittadino, per l’entità della struttura (costituita da un chiostro, due logge, una sala capitolare ed una chiesa), nonché per l’estensione dei terreni ad uso agricolo, esso dovette rappresentare un importante centro di riferimento. Sappiamo che sotto la signoria dei Carraresi, intorno al 1350 il monastero di San Giovanni, era già un pri-orato benedettino doppio, ovvero costitui-to da una comunità maschile ed una fem-minile. Dopo quasi due secoli di fioritura il monastero andò rapidamente decadendo, verosimilmente per la perdita di importan-za del luogo e dell’itinerario lungo il quale era posto, cui contribuì la chiusura della porta di accesso alla città situata in prossi-mità del monastero.

La decadenza comportò non solo il de-grado, ma anche il crollo di parte degli

diGraziano Giuseppe

Parise,Carla Zaccariello

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Graziano Giuseppe Parise - Carla Zaccariello

edifici. Nel 1431 papa Eugenio IV affidò il monastero in commenda al cugino An-tonio Correr, vescovo di Ostia e nipote del precedente papa Gregorio XII. Il Cor-rer, uomo dotto e lungimirante, nel 1436 rinunciò in favore dei Canonici regolari agostiniani lateranensi. Iniziò con essi un nuovo ciclo di splendore. Il processo di ricostruzione ebbe inizio negli anni imme-diatamente successivi. Già nel 1436 ci si dedicò al rifacimento della chiesa per poi passare ai lavori di edificazione della bi-blioteca, del chiostro grande e al restauro del cosiddetto chiostro doppio. Tale nuo-vo assetto architettonico si è conservato, pressoché intatto nella sua configurazione originale, fino ai nostri giorni.

Dalla metà del Quattrocento e per oltre un secolo il monastero divenne non solo uno dei più importanti enti religiosi della città, ma luogo di studio e di ricerca di ec-cellenza, a tal punto che vi fu istituita una scuola di teologia, di diritto e di filosofia. Il monastero divenne centro culturale di grande importanza, vero e proprio cena-colo degli uomini dotti del Rinascimento, come testimonierebbe la frequente presen-za di Pietro Bembo. La biblioteca, per nu-mero e qualità dei libri raccolti, era consi-derata una delle più importanti del tempo.

Cospicue furono le donazioni di codici da parte di molti illustri personaggi, che ri-guardavano anche opere di medicina, rac-colte di monete, strumenti ottici, meccani-ci e astronomici. Nel corso dei secoli, fino alla soppressione del monastero avvenuta nel 1783, la chiesa e altri locali si erano arricchiti di opere pittoriche e sculture di artisti molto noti tra i quali il Padovanino, Tintoretto, Piazzetta, Ricci, Tiepolo, Stefa-no dell’Arzere, Pietro da Bagnara, Bonaz-za: molte delle opere sono ora conservate al Museo civico di Padova. Nel 1556, nel massimo fulgore, Pio V elevò il complesso al rango di Abbazia.

A partire dalla seconda metà del ’600 il monastero andò incontro ad un ulteriore periodo di decadenza. Il patrimonio libra-rio della biblioteca fu largamente disperso a causa di numerose vendite. Molti vo-lumi si trovano tuttora conservati presso prestigiose biblioteche europee (Londra, Oxford, Parigi, Copenaghen, Berna). Nel 1783 gli ultimi 587 codici rimasti furono

ceduti alla Biblioteca Marciana di Venezia. Questa data segna anche la soppressione della congregazione dei canonici e la tra-sformazione dell’edificio in brefotrofio.

Nel 1848 il monastero fu dapprima re-quisito per esigenze belliche e trasformato in deposito della Repubblica di San Marco di Daniele Manin e quindi, con la cadu-ta della Repubblica, destinato a caserma da parte degli austriaci (1849). Nel 1853 i Gesuiti acquistarono l’edificio per tra-sformarlo in un convitto. Nel 1866, dopo l’annessione del Veneto all’Italia, il mona-stero fu definitivamente espropriato e tra-sformato in Ospedale militare2.

Molteplici sono gli aspetti di interesse storico, artistico e architettonico del com-plesso. Ne passeremo in rapida rassegna i più salienti, quantunque il susseguir-si degli avvenimenti storici e i numerosi rifacimenti abbiano profondamente al-terato l’aspetto originale del monastero. Permangono tuttavia quasi intatte alcune parti, come ad esempio i due chiostri (di un terzo chiostro presente un tempo non rimane alcuna traccia) e la sala adibita a biblioteca, di notevolissimo interesse.

Il chiostro grande è il complesso di mag-gior impatto emotivo (fig. 1). Opera di Lo-renzo da Bologna e Pietro Antonio Degli Abati o da Modena (uno dei più raffinati maestri degli intarsi dell’epoca, che si as-sumerà anche l’onere degli intarsi per il refettorio, la sacrestia e la biblioteca) e di Lorenzo da Bologna fu edificato nel 1496. Di forma quadrilatera, si caratterizza per le notevoli dimensioni con un solo ordine di 84 colonne in marmo rosa di Bassano. L’ampiezza e il pregio dei materiali usati per le colonne ne testimoniano la maesto-sità e lo rendono brillante esempio di ar-chitettura rinascimentale del nord Italia, con spazi ampi e luminosi, chiari rapporti

1. Monasterodi San Giovanni

di Verdara:il Chiostro grande,

particolare.

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Il complesso di San Giovanni di Verdara

zione architettonica del loggiato superio-re, opera dell’architetto Lorenzo da Bolo-gna, portato a compimento nel 1491. Di notevole manifattura sono anche nel chio-stro doppio i capitelli, opera del lapicida Giuliano da Porlezza, ornati da motivi ge-ometrici o floreali, ognuno diverso dall’al-tro. Nell’opera muraria prevale il cotto, conferendo un’ originalità all’insieme che richiama lo stile bolognese dell’epoca pre-sente anche in altre opere di Lorenzo da Bologna. Al centro del chiostro fa bella mostra di sé un pozzo marmoreo anch’es-so opera del medesimo artista. Nel 1944 una bomba distrusse un’ala del chiostro danneggiando gravemente anche il pozzo. Conferisce ulteriore originalità all’insie-me l’orologio costruito nel 1492 sulla tor-re mozza, a ridosso della chiesa, da Gian-carlo da Reggio, tuttora funzionante.

La biblioteca rappresenta sicuramente la struttura di maggiore interesse e meglio conservata dell’intera struttura. L’accesso avviene attraverso una doppia rampa di scale situata nell’androne di comunicazio-ne tra i due chiostri. Uno stupendo porta-le cinquecentesco, di pietra intarsiata con motivi floreali e animali, sormontato da un timpano ad arco rappresenta il maestoso accesso alla sala. Nei capitelli sono raffi-gurate due figure femminili che reggono un libro a simboleggiare l’uso dell’aula. All’interno invece il portale è decorato secondo un gusto analogo, ma più rigo-glioso ed è sormontato da una Madonna con Bambino. Di considerevoli dimensio-ni (circa m 27×10) l’aula ha mantenuto nella porzione centrale il pavimento ori-ginale bicolore a “quadri cotti”, riporta-

di luce messi in risalto dalla volta a bot-te a tutto sesto che richiamano la lezione del Brunelleschi. Alla esecuzione delle colonne e dei capitelli parteciparono altri maestri, tra i quali spicca il nome di Giu-liano da Porlezza. Capitelli e sostegni, tutti diversi tra loro e ornati da motivi floreali e geometrici, risaltano per ricchezza di intar-sio e maestria di esecuzione.

Curiosità più storica che artistica è la palla di cannone (bombarda) incastonata sul muro della biblioteca che si affaccia sul chiostro, verosimilmente collocata in sede a imperitura memoria dello scampato pericolo o dei danni occorsi in occasione dell’assedio delle truppe dell’Impero coa-lizzate nella Lega di Cambrai contro la Se-renissima Repubblica di Venezia. Un’altra testimonianza dell’evento è data dalla pre-senza di tre palle di bombarda posizionate in cima ad uno dei portali di accesso sor-montate da una oscura iscrizione in latino che afferma: Ales Iovis ter maximi matris deorum bijuges his lusitabant sphaerulis non ergo lucri et sanguinis sed imperii sed gloriae (trad. “L’uccello di Giove tre volte massimo e il cocchio a pariglia della madre degli dei si divertivano con queste piccole sfere, non a scopo di ricchezza e di sangue, ma al fine di dominio e di glo-ria”) la cui più probabile interpretazione rimanda agli scontri tra l’uccello di Giove, ovvero l’aquila, simbolo degli Asburgo, e il cocchio della madre degli dei (Gea), trainato dai leoni, il simbolo di Venezia.

L’ingresso semicircolare situato ad un angolo del chiostro grande, che si affac-cia sulla via di accesso, di epoca più tar-da (verosimilmente settecentesco), ben si conforma con il colonnato, conferendo con la sinuosità delle forme leggerezza al chio-stro grande. Merita un cenno la statua di San Giovanni situata sopra la porta d’in-gresso, di incerta attribuzione ma di prege-vole fattura, nonostante i segni del tempo richiamino la necessità di un’opera di re-stauro. Degne di menzione sono anche le due grandiose magnolie plurisecolari che campeggiano maestose al centro del chio-stro, veri e propri giganti che possono ri-valeggiare, in termini di imponenza, con le “consorelle” presenti a Sant’Antonio.

Il chiostro doppio o “del pozzo” (fig. 2), di epoca antecedente al chiostro grande, risalta agli occhi per la differente conce-

2. Monasterodi San Giovanni

di Verdara: il Chiostro doppio

o “del pozzo”.

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Graziano Giuseppe Parise - Carla Zaccariello

e complessi e, con una visione della pro-spettiva che fa tesoro degli insegnamenti del Mantegna.

Sulla parete sud sono invece raffigura-ti santi o personaggi illustri dell’Ordine Agostiniano; sono databili intorno al 1600 e sono di più modesta fattura. Vi figura an-che una donna, la B. Donna Battista Ver-nacia, che aveva portato lustro all’ordine agostiniano, cui apparteneva, con la san-tità della sua vita e come autrice di opere ascetiche.

Occorre ricordare infine che, accanto al primitivo nucleo della biblioteca, andò formandosi nel corso degli anni un vero e proprio museo ricco di busti, bassorilievi, vasi, sigilli antichi e la già ricordata ric-ca collezione numismatica. La pinacoteca poi vantava tele e ritratti del Tintoretto, del Padovanino, del Perugino, del Piazzetta, dei da Bassano e di molti altri celebri ar-tisti. Infine, seguendo il gusto dell’epoca, nel ’600 per opera dell’abate Ascanio Va-rese si aggiunse un vero e proprio museo di storia naturale andato in gran parte di-sperso già ai primi dell’800.

Sottostante alla biblioteca, al piano terre-no vi era il refettorio, ristrutturato nel Sei-cento per accogliere le Nozze di Cana del Padovanino, una delle opere più preziose del monastero, ora delle Gallerie dell’Ac-cademia di Venezia. Delicati ed eleganti fregi marmorei caratterizzano la porta di ingresso al refettorio anch’essi verosimil-mente opera di Antonio da Modena.

Esula dalle finalità del presente articolo effettuare una esaustiva disamina di tutti gli aspetti di interesse storico, artistico e archi-tettonico del complesso di San Giovanni di Verdara e che meriterebbero, per ricchezza e complessità, trattazione di ben più ampio respiro. Solo la chiesa, contraddistinta da ben sei altari e un tempo riconosciuta come tra le più solenni e maestose dell’intera cit-tà (m 44×14,5), risulterebbe degna di studi e analisi approfondite. Nella chiesa è pos-sibile ancora intravedere una delle caratte-ristiche che contraddistingue tutto il com-plesso, ovvero la contemporanea presenza di elementi di diversi stili architettonici, da quelli tardogotici a quelli rinascimentali a testimonianza di una transizione stilistica ottenuta per giustapposizioni che connota l’originalità della struttura. Ulteriori appro-fondimenti sarebbero auspicabili anche per

to alla luce nel 1940 grazie all’opera del cappellano militare don Pietro Ceroni, ar-tefice della “riscoperta” delle decorazioni della biblioteca. La volta è lunettata con due ordini di aperture, tonde nella parte superiore e ad arco nella parte inferiore. Nella configurazione attuale si susseguo-no archi e tondi, chiusi e aperti, dando luogo ad un ritmo alternato, in grado di il-luminare adeguatamente la sala secondo la sua originale funzione. È possibile che il ciclo pittorico situato sulla parete a destra dell’ingresso, più tardo, abbia portato alla soppressione delle finestre che aumenta-vano l’illuminazione da sud. Gli archi del-le lunette, molto acute e profonde, si di-partono da lesene scanalate, con capitelli corinzi che ritmano le pareti. Nelle pareti si riscontrano almeno tre cicli pittorici cor-rispondenti a diversi periodi. Nel soffitto è raffigurato al centro il Cristo con ai lati le figure di San Giovanni e Sant’Agosti-no, che facilmente richiamano il nome del comprensorio e l’ordine degli agostiniani lateranensi. Nei tondi dislocati sopra le fi-nestre sono rappresentate da un lato le sei Virtù Teologali e Cardinali e dall’altro le sei Arti Liberali. Alcuni autori ritengono tali raffigurazioni coeve ai primi affreschi, mentre altri propendono per un’opera tar-do cinquecentesca. Oltre alla visione di in-sieme, ciò che colpisce lo spettatore sono senz’altro gli affreschi sulla parete sinistra di dotti e personaggi illustri che donarono libri e manoscritti alla biblioteca. Se appa-re probabile l’attribuzione delle prime tre raffigurazioni alla scuola dei Canozi (dei quali Pietro Antonio degli Abati era paren-te e con i quali collaborò all’edificazione del duomo di Modena) di più incerta attri-buzione (e di minor qualità) risultano i re-stanti. Alcuni studiosi ritengono plausibile individuare, per quanto riguarda i primi tre affreschi, personaggi storicamente esistiti riconoscendovi le figure di Girolamo di Santasofia, dottore in Arti e Medicina, tra i primi benefattori a donare manoscritti alla biblioteca, del Montagnana (fig. 3) e del Marcanova (fig. 4).

Tra questi spicca la figura di Giovanni Marcanova, erudito e medico, il quale nel 1467 donò ben 521 codici alla biblioteca. Le figure dei dotti sono delineate con volti realistici sullo sfondo di precise scenogra-fie architettoniche, seduti tra mobili ricchi

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Il complesso di San Giovanni di Verdara

dova. Alcuni strumenti ottici e astronomici sono tuttora conservati presso l’Università. Una menzione occorre effettuare anche dei numerosi monumenti funerari, trasferiti intorno al 1869 presso il chiostro del novi-ziato nella Basilica del Santo. Suggestivo risulterebbe ancora poter analizzare le te-stimonianze della prima epoca benedettina del complesso, della quale affiorano qua e là nella struttura alcune testimonianze, come i pilastri presenti nei seminterrati.

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1) Per una essenziale bibliografia vedi G. Fa-bris, S. Giovanni di Verdara, luogo di passione e di gloria, “Padova”, X, n. 4-5, 1937, ripubblicato in Scritti di arte e storia padovana, Padova 1977; A. Barzon, Affreschi scoperti nella biblioteca del monastero di S. Giovanni di Verdara, ora cappella dell’Ospedale militare di Padova, Tip. Antoniana, Padova 1946; P. Sambin, La formazione quattro-centesca della biblioteca di S. Giovanni di Verdara in Padova, “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti”, CXIV,1956; G. Fiocco, Le tarsie di Pietro Antonio degli Abati, in Scritti di storia dell’arte in onore di L. Venturi, Roma 1956; C. Gasparotto, Era un celebre convento l’Ospedale militare di Padova, “La squilla del Carmine”, II, n. 24, 1955; G. Rampazzo, Note sulla trasformazione edilizia del monastero di S. Giovanni Battista di Verdara in Padova (1430-1500): da documenti ine-diti, Soc. Coop. Tipografica, Padova 1980; M. Uni-verso, S. Giovanni di Verdara, in Padova basiliche e chiese, Vicenza 1975; L. Puppi - M. Universo, Padova, Bari, 1982; C. Casoria Salbego, Per una storia delle collezioni di S. Giovanni di Verdara in Padova. Testimonianze documentarie, “Bollettino del Museo Civico di Padova”, LXXII, 1983, pp. 219-257; A. Pasetti Medin, San Giovanni di Verda-ra: le forme dell’architettura e F. Piovan, Il mona-stero di San Giovanni di Verdara, in Le biblioteche e la città, a cura di R. Piva, Verona 1997.

2) È ora divenuto Dipartimento militare di medi-cina legale (DMML), con un bacino di utenza che abbraccia il Triveneto e l’Emilia Romagna. Con il DMML di Milano, è l’unica struttura sanitaria dell’esercito presente nel nord Italia a servizio del-le Forze Armate, Corpi di Polizia e altri Enti dello Stato.

riportare alla luce le tracce artistiche delle antiche vestigia attualmente testimoniate solo dalle maestose colonne, dal rosone centrale e da qualche porzione di affresco sulla parete dell’abside. Anche la sala del capitolo con i delicati ed eleganti fregi che caratterizzano la porta di ingresso e le fi-nestre, opera verosimilmente di Antonio da Modena, meriterebbe una menzione per sti-le ed originalità di fattura.

Infine, un paragrafo a parte dovrebbe ri-guardare la biblioteca e tutto il materiale un tempo ivi presente. Basti pensare ai li-bri e manoscritti – nel periodo di massimo splendore se ne contavano alcune migliaia tra codici, incunaboli, volumi e stampe e al momento della chiusura nel 1783 il cu-ratore catalogò 587 codici e 40 incunabo-li – attualmente sparsi in molte delle più rinomate biblioteche europee e non solo. I volumi racchiudevano gran parte delle di-scipline dello scibile umano, con una con-sistente quota di testi di medicina, scien-ze e astronomia, oltre alla preponderante parte di testi sacri e di filosofia e teosofia. Come aneddoto basti ricordare che presso la biblioteca di San Giovanni nel 1508 fu tradotta in latino e stampata l’Opera Om-nia di Avicenna. Parimenti meritano alme-no un cenno fugace le collezioni di oggetti d’arte, strumenti scientifici e “mirabilia” gelosamente raccolte presso il monastero e successivamente cedute nel corso dei secoli. Per gli appassionati degna di asso-luta menzione è la raccolta numismatica e la collezione di medaglie con l’effigie di personaggi celebri conservata in parte a Venezia presso la Biblioteca Marciana e in minima parte presso i Musei civici di Pa-

3. Monasterodi San Giovanni

di Verdara: la biblioteca. Affresco raffigurante Pietro Montagnana,

benefattore della biblioteca.:

Bottega dei Canozi (attr.).

4. Monasterodi San Giovanni

di Verdara: la biblioteca.Affresco raffigurante

uno dei benefattori della biblioteca.

Incerta l'attribuzione del personaggio e

dell'Autore dell'affresco.

3 4

18

Alberto Sabatini

L'arte organariaromantica a Padova

Tra le pieghe del tempo e della storia la nostra Città conobbe, nel XIX secolo,l’opera di vari organari veneti: tra tutti spiccano il veneziano Giacomo Bazzani,il vicentino Giovanni Battista De Lorenzi e il padovano Angelo Agostini.

Seguace dei canoni stilistici settecenteschi degli Organi da chiesa, in particolare della prassi costruttiva neoclassica veneziana, fu Giacomo Bazzani: oriundo di Cavasso (Udine), dopo aver lavorato da giovane alle dipendenze dirette nella bottega dei figli di Gaetano Callido, finì per mettersi in proprio rilevandone l’azienda e tutte le attrezzature nel 1830.

Giacomo Bazzani, capostipite di una prolifica famiglia di organari di vaglia (l’attività proseguì ininterrotta fino quasi al 1950 grazie ai figli Alessandro e Pietro, ai nipoti Giacomo e Pietro ed ai pronipo-ti Alessandro e Lorenzo), anche se fedele alla tipologia fonica dell’Organo vene-to preferì eliminare i registri tipicamente callidiani del Flauto in duodecima e della Cornetta per far posto alla doppia coppia di registri orchestrali “ad ancia” Fagotto bassi 8’/Tromba soprani 8’ e Clarone bassi 4’/Corno Inglese soprani 16’; era altresì propenso ad introdurre i nuovi registri “ad anima” come l’Ottavino soprani 2’, il Fla-gioletto nei bassi 0 ½’, i Corni da caccia soprani 16’ e la Viola bassi di 4 piedi. Le voci della pedaliera erano completate, ne-gli Organi maggiori, da un Trombone 8’ con tube in legno a sezione piramidale, se-condo l’uso lombardo, con l’accostamento dei “Timballi” nei 12 toni formati da 13 canne in legno di larga taglia suonanti uni-te per semitono (a due a due).

Le opere della famiglia Bazzani sono caratterizzate da una solida lavorazione delle parti lignee, in particolare delle can-ne della basseria, e dalla sapiente distribu-zione del vento in somieri del tipo “a tiro”. Questo tipo di somiere, facente parte di

quelli del tipo “a canali per tasto”, è quello più comunemente adottato dall’organaria veneta fino a tutto l’Ottocento. I Bazzani si distinsero, poi, anche per la accurata lavorazione delle canne metalliche, segno inconfondibile di una consumata perizia nell’arte tramandata di padre in figlio: otti-me saldature lineari ed ineccepibili, lastre di metallo ben trafilate, con percentuali di stagno e piombo ben proporzionate tanto da rendere nel tempo la canna molto sta-bile al peso dell’intonazione e dell’accor-datura.

Nel 1834 Giacomo Bazzani costruì l’Or-gano per la chiesa di San Pietro a Pado-va (oggi suffraganea della Cattedrale); il manufatto rappresenta uno dei più antichi esemplari di questa famiglia artigiana di cui resta traccia in Veneto (fig. 1): è uno strumento assai prezioso che – come certi-fica un cartiglio posto sul listello sopra la tastiera – subì alcuni restauri e varie modi-fiche nel 1839 e nel 1873 da parte dell’A-gostini (tra le quali l’aggiunta di una Vio-la) e nel 1938 da parte della ditta “Fratelli Ruffatti”. Purtroppo quest’Organo è in pessime condizioni poiché è inutilizzato da più di cinquant’anni; meriterebbe un oculato ed attento recupero completo1.

Anche la figura del vicentino Giovan-ni Battista De Lorenzi (1806-1883) in-crementò notevolmente il cambiamento dei canoni classici dell’organaria veneta in città (fig. 2). Gli strumenti usciti dalle sue mani (più di un centinaio) denotano la propensione a voler sposare le sonorità ti-piche della scuola organaria lombarda dei registri di concerto con quelle più tradizio-nali del Ripieno e dei Flauti della scuola

diAlberto Sabatini

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L'arte organaria romantica a Padova

veneta, con il miraggio, però, di rendere l’Organo più espressivo mediante le pro-prie geniali invenzioni che, tuttavia, non ebbero un gran seguito. Il somiere adot-tato nei suoi strumenti è del tipo tanto “a tiro” quanto “a vento”; da ricordare, poi, la sua invenzione dell’Organo “fonocro-mico” consistente nella possibilità di po-ter variare l’intensità del suono dei vari registri: premendo i tasti del manuale, un primo scatto apriva il ventilabro (valvola di intercettazione dell’aria fluente) posto nella parte anteriore del somiere, mentre abbassando di più lo stesso tasto, un se-condo scatto apriva il secondo ventilabro posto nella parte posteriore del somiere, il quale alimentava una seconda fila di can-ne, unisona alla prima tradizionale, che ne rinforzava così il suono2.

La produzione del De Lorenzi ebbe li-velli artistici notevoli, con strumenti forni-ti di prospetti di canne in «stagno finissimo d’Inghilterra» (come egli amava definire), e dotati di meccaniche perfezionatissime, leggere e sensibili, con cuscinetti di piom-bo nei giunti e con una fonica dall’intona-zione pressoché perfetta.

Di questo valido costruttore, originario di Schio, a Padova resta l’opera numero 171, realizzata nell’anno 1877: si tratta dell’Organo situato nella Basilica del Car-mine (fig. 3). Lo strumento, di mole piut-tosto generosa, è collocato in una cassa ar-monica in cornu Epistolae e possiede una consolle “a finestra” provvista di un unico manuale e di pedaliera, rispettivamente di 56 e 20 tasti, entrambi con prima ottava cromatica. La sua fonica è basata su un profondo ma angelico Principale 16’: ol-tre ai consueti registri di colore, tipici del costruttore vicentino, tra le ance figurano un bellissimo Eufonio basso, un Flicorno soprano ed un Bombardone ai pedali (il Timpano è azionato dall’ultimo tasto della pedaliera); un corposo Ripieno e una nu-trita basseria al pedale fanno di quest’Or-gano un degno rappresentante dell’arte organaria veneta ottocentesca.

Sempre del De Lorenzi si ha memoria di un altro Organo in Città: quello della chiesa prepositurale di Sant’Andrea, che venne costruito nel biennio 1875-1876. Attualmente si trova nella parrocchiale di San Marco a Camposampiero, dove ven-

ne trasferito nel 1965 in occasione della collocazione in Sant’Andrea di un nuovo strumento a trasmissione elettrica della ditta “L’Organaria”. Alla data della sua inaugurazione padovana ottocentesca, l’Organo delorenziano di Sant’Andrea si presentava chiuso in una bella cassa lignea dotata di un unico fornice, nel quale erano alloggiate le canne in stagno finissimo ap-partenenti al Principale 8’ bassi con alla base quelle del Flagioletto; lo strumento possedeva una consolle “a finestra” dotata di un’unica tastiera di 58 note (Do1-Sol56) e di una pedaliera di 18 note, entrambe con prima ottava cromatica: tra i registri più importanti figuravano un Ripieno su base 8’, sviluppato sino alla Trigesimasesta, un’Ottava divisa in bassi e soprani, Fa-

1. Padova, chiesadi San Pietro. Organo di

Giacomo Bazzani(anno 1834).

1

2

2. Ritrattodell'organaro vicentino

Giovanni Battista De Lorenzi (1806-1883).

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Alberto Sabatini

restare fedele al tipo di fonica tradiziona-le veneta, quindi: Ripieno di intonazione dolce, con armonici separati sino all’ulti-ma fila di canne (in contrasto con la scuo-la lombarda che era solita unire in coppia le file più acute), e piramide femminile a file scisse (in Lombardia si raggruppavano spesso i Cornetti in due blocchi: Cornetto i e Cornetto ii); copiò l’uso e il meccanismo della Terza Mano dal bergamasco Giusep-pe Serassi: mantenne però, al contrario del collega lombardo, l’uso costante del so-miere maestro “a tiro”.

Numerosi sono i suoi lavori nella città in cui risiedeva: il primo strumento, da-tato 1830 (oggi non più esistente perché demolito), venne installato nella chiesa di San Gregorio, seguito tre anni dopo dal restauro e l’ampliamento dell’Organo del Nacchini della chiesa degli Eremitani. Nel 1839 costruì l’Organo per la chiesa del Torresino e l’anno seguente per quella del Beato Pellegrino (strumento che si conser-va ancor oggi in buono stato). Nel 1844 collocò un nuovo e grandioso Organo nel-la chiesa dei Servi (oggi non più esistente) e, nel 1847, nella casa del Nobile Brunelli (dotato di Principali, Ripieno, Contrabassi reali, Ottava di Contrabassi, Voce Umana, Fluta, Flauti, Ottavino, Viola, Violoncel-

gotto 8’ bassi, Trombe 8’ soprani, Corno Inglese 16’ soprani, Viola 4’ bassi, Flauti in viii e xii, Cornetta, Voce Umana e Cim-bassi (Tromboni) 8’ ai Pedali. Quest’Or-gano, rimodernato nel 1916-1917 dalla ditta “Malvestio” di Padova per adattarlo ai gusti novecenteschi, venne venduto alla parrocchiale di Camposampiero nel 1965 non prima di essere elettrificato e dotato di una nuova consolle. Fortunatamente, nel 2011 lo strumento è stato ripristinato secondo l’originaria configurazione me-diante un brillante intervento della ditta “Lucato” di San Martino di Lupari.

L’Organo che si trova nella piccola chie-sa di San Gaetano a Padova (antica parroc-chiale), in località Terranegra, pare essere una delle opere giovanili del De Lorenzi: tutto farebbe ritenere lo strumento attri-buibile al primo periodo di produzione del costruttore scledense, quindi verso il 1840; attualmente il manufatto è ridotto a miseri ruderi in quanto risulta privo di tut-te le canne metalliche e lignee.

Rimanendo in ambito ottocentesco, vale la pena spendere qualche parola in più per Angelo Agostini (1806-1890), il più importante esponente dell’arte orga-naria padovana romantica (fig. 4)3: figlio del musicista vicentino Lorenzo Agostini, può essere ritenuto a pieno titolo il primo organaro padovano dell’Ottocento con un proprio stile costruttivo; presso la botte-ga dell’abate Gregorio Malvestìo apprese l’arte organaria con molta rapidità, grazie anche ad una particolare predisposizione per la meccanica.

L’Agostini divenne tanto noto e stimato da essere paragonato, in terra padovana, a quanto il De Lorenzi fu in ambito vicen-tino: entrambi abbracciarono con interes-se, dapprima timidamente, poi sempre più fervidamente, lo stile della scuola orga-naria lombarda recependone la fonica (la ricca strumentazione delle ance sgargianti e l’introduzione sistematica dei registri violeggianti) e la parte meccanica (l’ado-zione del sistema di azionamento dei regi-stri “a manetta”, nonché la Combinazione Libera preparabile mediante l’estrazione verso l’esterno del comando dei registri, il dispositivo del “Tiratutti” o “Tirapieno” a pedale e l’uso dei Timballi). Questo or-ganaro padovano, però, volle comunque

3

3. Padova, Basilica del Carmine. Organo di

Giovanni Battista De Lorenzi (anno 1877).

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L'arte organaria romantica a Padova

conservato, dopo leggeri ritocchi ad ope-ra della famiglia Malvestìo, nella chiesa dell’ex-Monastero della Visitazione. Un rimaneggiamento dovuto a questo organa-ro padovano è quello all’Organo di Fran-cesco Dacci nella chiesa di San Giovanni Decollato, compiuto nel 1860, mentre fu sottoposto ad ampio rinnovamento nel 1873 l’Organo della chiesa di San Pietro, anno in cui egli costruì anche l’Organo per la chiesa di Voltabrusegana (strumento ec-cellente ed ottimamente conservatosi sino ai nostri giorni). Al 1866 risale la più tar-diva opera dell’Agostini in Città: l’Organo per la chiesa dell’Immacolata, strumento ancora esistente, ampio e possente, basato su un Principale di 16 piedi.

All’Agostini sembra attribuibile anche quanto rimane dell’Organo nella chiesa dei Santi Fermo e Rustico (fig. 6); di esso si conserva la cassa armonica, posta in una cantoria settecentesca a ridosso della controfacciata, e qualche lacerto interno; il manufatto ottocentesco, che tra i regi-stri annoverava un Ripieno su base 8’, Voce Umana, Flauto in ottava e Ottavino, è andato in gran parte disperso durante lo scorso secolo: meriterebbe di essere recu-perato o ricostruito.

La lunga attività di Angelo Agostini fu segnata da importanti riconoscimenti pro-

lo, Fagotto, Corno Inglese, Tromboncini, Trombe, Trombe reali, Corno dolce).

Lavori di restauro ed ampliamento fu-rono effettuati da questo valente artefice nella Cattedrale di Padova tra il 1846 ed il 1848 sui grandi Organi callidiani del 1790-1791 (fig. 5), mentre un ordinario in-tervento di manutenzione fu portato a ter-mine nel 1850 agli strumenti dell’immen-sa Basilica di Santa Giustina. Nulla ci resta oggi dell’Organo che egli costruì nel 1850 circa per la chiesa di Santa Sofia, mentre possiamo ancora ammirare, anche se in stato di abbandono, quello costruito nello stesso periodo per la chiesa di Sant’Anna (Casa di Ricovero dei PP. Camilliani – oggi in parte demolita ed adibita a scuola), attualmente situato nella ex-chiesa Parroc-chiale di Lozzo di Cadore, ora auditorium comunale. Nel 1852 l’Agostini restaurò ed ampliò il piccolo Organo del Callido, già collocato nella Basilica di Santa Giustina, presente nella chiesa di San Daniele (oggi nella chiesa parrocchiale di Villatora di Saonara), mentre una nuova opera fu da lui realizzata nel 1857 per il Santuario An-toniano dell’Arcella (poi sostituito da un nuovo strumento di fabbricazione “Mal-vestio”). L’anno seguente costruì un pic-colo ma grazioso strumento per le funzio-ni minori nella Cattedrale di Padova, oggi

4. L'organaro padovano Angelo Benedetto Agostini

(1806-1890).

5. Padova,Basilica Cattedrale.

Organo di Gaetano Callido ”in cornu Evangelii”

(anno 1791) riformato nel corso del XX secolo.

4 5

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Alberto Sabatini

gior vivacità; l’Agostini fu sempre restio ad introdurre, invece, nei suoi strumenti il Quinto armonico (Cornetta). Una Viola 4’ nei bassi è sempre presente, accoppiata negli strumenti maggiori da una Viola 8’ nei soprani; questi due registri, dal timbro timido ma altrettanto suasivo, ricalcano la sonorità della scuola lombarda dei Serassi e dei Carrera, con intonazione pura, non sofisticata e priva di artifizi; alla bocca è accostato soltanto un piccolo freno armo-nico del tipo “a vomere”. Tastiera e peda-liera sono sempre realizzate con la prima ottava “in sesta” o corta.

L’Agostini non ebbe continuatori diret-ti: dopo la sua morte, tutta l’attrezzatura fu prelevata dalla Ditta dei Fratelli Pugina che, nel frattempo, avevano portato la bot-tega artigiana dall’originaria Stanghella al centro di Padova.

l

1) I particolari tecnici dello strumento sono riportati in: A. Sabatini, L’antico Organo «Giacomo Bazzani» nella chiesa di San Pietro a Padova: uno strumento da salvare, Quaderni della “Musa Ceciliana”, Padova, 2005.

2) Tale artifizio fu sperimentato per la prima volta nel 1851 in uno strumento per un privato di Nogara, nel veronese.

3) Per una esauriente biografia dell’Agostini, si rimanda il lettore a: A. Sabatini, L’Organo nella Chiesa del Beato Pellegrino a Padova e l’attività di Angelo Agostini, Armelin Musica, Padova, 2003.

fessionali, come, ad esempio, quello della grande medaglia d’argento dell’Istituto Veneto per aver inventato l’Organo “me-tagòfono”: si trattava in sostanza di un tipo di strumento a tastiera trasportabile, con lo stesso principio applicato nelle ta-stiere degli harmonium. I suoi strumenti denotano una coscienziosa ed artigiana-le lavorazione dei materiali con legnami scelti e stagionati: il somiere maestro, in-variabilmente del tipo “a tiro”, è caratte-rizzato da solidità di costruzione e lunga durevolezza di funzionamento. Le canne di legno, realizzate in essenza di abete con scrupolosità e finezza, danno sempre voce robusta, pronta e corposa; le canne di me-tallo, lavorate con grande perizia, rivelano una buona trafilatura della lastra con bas-sa percentuale di stagno sul piombo, una caratteristica, questa, che rende gli Organi dell’Agostini non molto stabili nell’accor-datura e nell’intonazione: fatto accentuato sovente dalla predilezione per uno spesso-re della lastra metallica piuttosto modesto. I cordoni di saldatura delle canne sono po-sizionati con grande precisione e le anime portano incisi piccoli denti che, tuttavia, non impediscono alla canna di emettere un transitorio d’attacco del tutto classi-cheggiante. Il timbro dei registri ad ancia è sempre molto caldo e nello stesso tempo chiaro, vivo: tale famiglia è rappresentata negli strumenti del nostro padovano dal-la coppia Fagotto bassi e Trombe soprani con l’aggiunta del Clarone 4’ nei bassi ed un Corno Inglese 8’ (o 16’) nei soprani, tutti con tuba in metallo. La batteria delle ance è arricchita, negli strumenti maggio-ri, dalle Trombe reali 8’ al pedale, poste sul medesimo somiere dei Contrabbassi, ma con secreta propria: il registro, inne-stato con il blocco su proprio zoccolo in legno di noce, ha la tuba in legno a forma tronco di piramide rovesciata, secondo la prassi lombarda. Mirabile è la corposità della dolcissima Fluta reale nei soprani con canne cilindriche di larghissima ta-glia; i Flauti in ottava ed in duodecima, però, hanno la foggia tipicamente veneta a cuspide perfetta. La piramide armonica femminile viene solitamente coronata da un Ottavino a doppia bocca dalla voce gar-rula e pettegola, posto sul somiere dietro le canne di facciata per ottenere una mag-

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6. Padova, chiesa dei Santi Fermo e Rustico.

Organo probabile opera di Angelo Agostini (XIX secolo).

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Aldo Rossi e4 il Municipio di Borgoricco

Aldo Rossi e ilMunicipio di BorgoriccoUn Monumento dell’Architettura Moderna, che ha saputo valorizzare il territorio.

La città analoga (fig. 1) è un’opera collet-tiva realizzata da Aldo Rossi, Eraldo Con-solascio, Bruno Reichlin e Fabio Reinhart per la Biennale di Venezia nel 1976. Si tratta di una composizione a collage, con grafia storicizzata, di una città immagi-naria composta da progetti, immagini e luoghi in riporto topografico. Una sorta di “manifesto” dell’Architettura, che, ben presto, diventa un modello teorico a cui attingeranno generazioni di progettisti. In tale opera gli autori sperimentano l’i-potesi che si possa trasformare un luogo con richiami associativi che combinano la storia stratificata del luogo stesso, quello che in altri tempi sarebbe stato chiamato “genius loci”, figurazioni provenienti da luoghi e contesti diversi, architetture di progetti e realizzazioni degli autori. Una miscellanea di realtà ed immaginazione capace di evocare un destino possibile per la città, vale a dire un processo immagina-tivo e razionale allo stesso tempo, centrato sull’idea che il paesaggio urbano nel suo sviluppo possa essere pianificato provve-dendo alla trasformazione “per parti”, con la creazione di nodi capaci di dialogare e nello stesso tempo indirizzare i processi di crescita.

In Ceci n’est pas une ville1, Manfredo Tafuri su Aldo Rossi e sulla sua Città Ana-loga scriveva: «Rossi, nella sua allegoria della “città analoga” tenta un’operazione magica: unire ad un’essiccata nostalgia la dichiarazione del proprio “consistere”». E concludeva: «A chi ricerca una “fermezza” consapevole, ma vuole a tutti i costi solle-citare assensi è doveroso non rispondere. Il tacere della critica significa, in tal caso, rifiutare la fragilità del poeta che enuncia, coram populo, il desiderio di stendersi, di fronte al “suo” pubblico, su un consolato-rio divanetto freudiano».

Un giudizio tranchant che lasciava poco

spazio all’idea di scientificità che Aldo Rossi tentava di imprimere alle sue teorie sulla progettazione architettonica. A qua-rant’anni di distanza, nonostante tutto, l’o-pera rossiana ha resistito più della feroce critica di Manfredo Tafuri. Paradosso? Per niente: Tafuri aveva espresso un giudizio assolutamente corretto e condivisibile, ma evidentemente, anche se privo di scientifi-cità, un linguaggio e una poetica possono comunque essere condivisi e consolidarsi, trasformando il mondo del reale. Vale a dire che una teoria, per quanto arbitraria, può assumere connotazioni e seguito tali da diventare persistenza e sentire comu-ne, cosicché non solo Aldo Rossi è stato il primo italiano al quale è stato assegna-to il Pritzker Architecture Prize, il premio internazionale per l’architettura più presti-gioso, ma ha anche avuto un nugolo di se-guaci ed imitatori tale da segnare influen-zare interi territori.

Una Poetica quella di Rossi che misce-la elementi della memoria, figurazioni e grafemi illuministi e dell’Architettura del Movimento Moderno. Essa ha radici nel culto della Storia, inteso nel duplice senso di riconoscimento della storia materiale (anche attraverso il solo frammento, più o meno, archeologico) e della storia imma-teriale, fatta di cultura e di ritualità. In tal modo l’architetto svela l’ipotetico genius loci, che caratterizza un determinato luo-go, per dar spazio attraverso il suo imma-ginario ad una visione progettuale, che ne rispetti ed amplifichi i caratteri mitopoie-tici2.

Nello stesso resoconto che ne dà Ros-si, l’intervento a Borgoricco si pone come esemplare per esplicitare le sue teorie ar-chitettoniche.

Borgoricco è un paese dell’alta pado-vana, con una popolazione di poco più di 8.000 abitanti. Il suo territorio si distribui-

diPaolo Pavan

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Paolo Pavan

sce all’interno di quello che si definisce come graticolato romano, vale a dire una suddivisione del territorio secondo una maglia ortogonale composta da vie e fos-sati, prodotta dalla centuriazione romana verso il 40 a.C. (fig. 2)3.

Si tratta di un paesaggio, negli anni Ot-tanta del secolo scorso prevalentemente agrario, nel quale emergono poche ar-chitetture di qualche valore e privo di un edificato che dia l’idea di vivere collettivo e municipalità. Nel 1982 diventa sindaco del paese Gianfelice Peron, una figura di “umanista” e cattedratico dell’Universi-tà (prima di Verona e poi di Padova), che aveva già al suo attivo funzioni anche di amministratore della Cosa Pubblica, aven-do presieduto dal 1975 al 1980 la Com-missione Cultura della Provincia di Pado-va. Peron trova una situazione comunale in cui “erano carenti o appena avviate o mancavano del tutto non «grandi opere» ma opere pubbliche necessarie, come ac-quedotto, fognature, marciapiedi, scuole, cimiteri e altro. In particolare da alcuni anni si discuteva in modo inconcludente sulla realizzazione di un centro civico che riunisse alcuni servizi essenziali: non solo la sede municipale, ma anche la bibliote-ca, il museo, una sala di incontro per i par-titi e le associazioni”4.

Visti l’inefficacia del dibattito e le ina-deguatezze delle proposte edificatorie pro-dotte dai tecnici del luogo, Gianfelice Pe-ron, su suggerimento dell’allora sindaco di Cadoneghe Elio Armano, affida ad Aldo Rossi la progettazione per la nuova sede del Municipio che “sarebbe dovuta sorge-

re in una zona centrale, contigua all’esi-stente piazza con la chiesa e le scuole, ma ancora agricola e completamente intatta sotto il profilo edilizio”5. Per Aldo Rossi si tratta di realizzare quello a cui fino ad allora aveva solo aspirato: il sogno della grande architettura civile, il monumento laico alla Civitas (figg. 3 e 4).

Nella relazione tecnica del progetto6 si precisa il lotto dell’insediamento, una fra-zione della centuria a sud ed in asse alla chiesa col fronte della chiesa di San Leo-nardo; un asse nord-sud, tra l’attuale via San Leonardo e l’antica via Desman, con-fermato anche dall’allora Piano di Fab-

1. Aldo Rossi, Eraldo Consolascio, Bruno

Reichlin e Fabio Reinhart: La città analoga, 1976.

2. Il graticolato romano a Borgoricco. Sono segnati

in giallo gli assi stradali che determinano la

suddivisione in centurie e nel sotto sistema

dell'actus quadratus (elaborazione grafica:

Paolo Pavan).

3. Aldo Rossi, schizzodi progetto dei volumi

del Municipio, 1983.

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Aldo Rossi e4 il Municipio di Borgoricco

Le due teste delle ali del municipio e la facciata di ingresso del Centro Civico han-no un rivestimento lapideo in bianco di Asiago. Il selciato della piazza e lo spazio interposto tra Municipio e Centro Civico sono in trachite di Monte Merlo, mentre la pavimentazione interna “è diversificata a seconda delle funzioni; nei due piani del corpo centrale è prevista in quadroni di marmo bianco e rosso”12; negli altri am-bienti si alternano ceramiche smaltate a listoni di larice.

L’insieme di Municipio, Centro Civico e piazza, grazie all’idea di gerarchia del-la simmetria e all’uso delle volumetrie stereometriche che rimandano a modella-zioni dell’architettura illuminista13, si de-finisce come un manufatto coerentemente relazionato tra le sue parti e come segno concluso in sé. In questo senso il razio-nalismo palladiano viene perfettamente letto e riproposto nella modernità. Un’ar-

bricazione come luogo di sviluppo per il Servizi7.

“Dal punto di vista tipologico, il nuovo municipio riprende la struttura tipica della villa veneta, costituito da un corpo centra-le principale e da due ali laterali di servi-zio. (...) Il corpo principale, con le due ali, conforma un «campo» (figg. 5 e 6). Tutto il «campo» è contornato da un portico”8. Con ciò Rossi sceglie un intervento che di “analogico” ha una lontana eco del territo-rio Veneto nella villa palladiana, ma che in loco manca di riscontro. Così come l’idea di «campo». Eppure questa forma tipolo-gica permette a Rossi la creazione di un ordine e di una gerarchia distributiva degli ambienti interni fortemente espressiva e di interesse: “All’edificio si accede median-te un ingresso principale, segnato da due colonne, al centro del portico antistante, e due ingressi secondari alle due ali late-rali. Nel corpo principale, a due piani, si trovano la Biblioteca e parte del Museo al piano terra, la Sala del Consiglio al piano superiore, cui si accede mediante due sca-le disposte simmetricamente all’asse lon-gitudinale dell’edificio. (...) Nelle due ali (fig. 8), ad un unico piano, sono collocati gli uffici amministrativi”9. L’edificio si conclude con la “ciminiera” sul lato nord (figure, sotto la quale è posto il locale cal-daia (figg. 9 e 10). Il municipio viene inau-gurato nel 1995, mentre le sale dedicate al museo presenti nella sede municipale sono trasferite nel “Centro Civico - Museo della Centuriazione” (fig. 11) finito di realizzare nel 2003 su uno studio di fattibilità esegui-to dallo stesso Rossi10. Successivamente, tra il 2007 e 2008, l’architetto Loris Tasso in stile rossiano realizza la grande piazza antistante a sud il municipio, concluden-dolo in senso monumentale.

Le forme costruttive si sviluppano, an-che nelle architetture degli epigoni, per addizione combinatoria di volumi ele-mentari, con i pieni dominanti sui vuoti; la struttura è eseguita parte in calcestruz-zo armato e parte in muratura portante, mentre le coperture sono prevalentemente in travatura lignea lamellare, con il tetto composto da un tavolato in legno rivestito in lamiera di rame. Nelle partiture parietali si alternano mattoni a vista11, marmorino bianco ed intonaco tinteggiato a bianco.

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4. Planivolumetrico di progetto; in basso il

Municipio,in alto il Museo/Teatro.

5. Ripresa fotografica dalla piazza antistante

il Municipio(foto: Marco Noaro).

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Paolo Pavan

la ciminiera (figg. 9 e 10), si nota anche nel cimitero di Modena, nella scuola elemen-tare di Fagnano Olona, nel progetto per la casa dello studente di Chieti e nel proget-to per la Landesbibliothek a Karlsruhe; Il doppio fronte timpanato della parete nord del Municipio lo ritroviamo nel progetto delle case a Zandobbio o nella scuola di Broni o, ancora nelle case a Goito; infine i setti frazionanti le coperture, ne chiudo-no le teste come nelle case a Broni e nella casa dello studente a Chieti.

L’opera di Rossi a Borgoricco è sicura-mente un segno importante che implemen-ta il valore del territorio padovano, creando un’immagine nitida e riconoscibile di una comunità, un vestito di pietra del quale già si vede il destino di diventare permanenza e, probabilmente monumento. In un ter-ritorio come quello Veneto, devastato da un’edilizia priva di qualità, è auspicabile che si attualizzino laboratori creativi come quello di Borgoricco che, grazie ad una sintesi di intenti ed intelligenze di ammi-

chitettura così forte che tutti gli edifici che successivamente sorgono nell’intorno do-vranno necessariamente confrontarsi con tale emergenza figurativa. In questo senso Borgoricco assume un carattere paradig-matico dell’architettura rossiana, poiché ne attualizza due componenti fondanti: l’idea di emergenza e monumento, come nuclei essenziali dello sviluppo urbano, e di città per parti, vale a dire l’insieme uni-tario e indipendente dell’intervento pro-gettuale nel tessuto territoriale14.

Dal punto di vista compositivo-funzio-nale, il porre al centro del corpo “padro-nale”, subito in fronte all’ingresso del Mu-nicipio, la biblioteca e non un’anonima hall distributiva, rimanda all’Etica Civile dell’architettura rossiana; essa è, infatti, il luogo per eccellenza della memoria e insieme della collettività ritrovata15. Spo-glia, come possiamo immaginare un Bou-leuterion dell’antichità, l’aula delle adu-nanze comunali, posta sopra la biblioteca; essa ha la tribuna per il pubblico sempli-cemente composto da un gradonato in cal-cestruzzo, sul quale la seduta è ricoperta in assi di legno. La chiusura della copertura è a volta ribassata16 poggiante su un trave in legno lamellare in chiave: lo spazio as-sume così connotazioni di ampio respiro, evocante strutture collettive come il “Pa-lazzo della Ragione”, anche se in rapporto di scala assolutamente ridotto.

La cifra del linguaggio di Rossi è la medesima che si ripete in molte delle sue opere: la fontana triangolare (fig. 7) la ritroviamo a Segrate e nella scuola “De Amicis” a Broni; i due cilindri, a mo’ di colonne, e la trave in acciaio a doppia T che li sormonta, come architrave, sono presenti nel Gallaratese, nel progetto per Cannaregio e nella sede del GFT a Torino;

6 7

8

6. Ripresa fotograficadalla piazza con dettagliodelle colonne delimitanti

il margine verso viale Europa(foto: Marco Noaro).

7. Particolare della fontana (foto: Marco Noaro).

8. Interno dall'ala uffici.Si noti al termine del

corridoio il profilo triangolare corrispondente alla fontana verso la piazza

(foto: Paolo Pavan).

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Aldo Rossi e4 il Municipio di Borgoricco

- Borgoricco analoga, a cura di M. Giora e L. Tas-so, Comune di Borgoricco 2009, p. 23 e seguenti.

8) Ibid.9) Ibid.10) Aldo Rossi scompare il 4 settembre del

1997. Si deve quindi intendere che per la progetta-zione per il Centro Civico il suo contributo sia sta-to limitato a schizzi ed ipotesi preliminari. Mentre il progetto vero e proprio è redatto da “Aldo Rossi Associati: Marco Brandolisio, Giovanni da Pozzo, Massimo Scheurer e Michele Tadini”.

11) (...) i mattoni non dovevano essere rosa o gialli, ma rosso Milano: il rosso potente e cupo della facciata della cappella Trivulzio, opera del Bramantino. (...) E per quel rosso insistetti tanto che la San Marco Laterizzi dovette acquistare una cava d’argilla ferrosa per produrlo: così nacque il mattone AR del Municipio di Borgoricco (M. Zan-canella, in Aldo Rossi a Borgoricco, op. cit.).

12) Aldo Rossi, il municipio di Borgoricco, a cura di F. Dotti, Cleup, Padova 2006, p. 40.

13) Si leggano, ad esempio, i capitoli Emil Kaufmann e l’architettura dell’illuminismo e In-troduzione a Boullèe in Scritti scelti sull’architet-tura e la città, di Aldo Rossi, Clup editrice, Milano 1975.

14) Per una trattazione più completa, si rimanda al testo dello scrivente trattato nella Dispensa per il corso di “didattica dell’Arte nel Territorio” all’U-niversità di Ca’ Foscari di Venezia, a.a 2009-10.

15) Penso che questa posizione di centralità della biblioteca abbia positivamente contribuito a formare la mia idea di biblioteca come centro culturale e sociale e chetale spazio abbia notevol-mente influenzato anche l’apertura culturale delle amministrazioni comunali che già negli anni ’90 hanno promosso questo territorio attraverso inizia-tive ed eventi di notevole rilevanza (V. Agostini in Aldo Rossi, il municipio di Borgoricco, cit. p. 11).

16) I regolamenti edilizi del Comune di Borgo-ricco impedivano di raggiungere l’altezza necessa-ria per voltare a tutto sesto la Sala del Consiglio, perciò, come nei treni che devono passare sotto alle gallerie, la volta fu ribassata con lo stesso di-segno; un disegno reso quasi famigliare dalle lun-ghe percorrenze di Aldo in treno (M. Zancanella in Aldo Rossi a Borgoricco, cit., p. 50.

nistratori illuminati e tecnici, ha prodotto una composizione architettonica compiuta e di respiro internazionale.

l

1) M. Tafuri, Ceci n’est pas une ville, in Lotus International, n. 13 - dicembre 1976, pp. 10-13.

2) Io credo alla capacità dell’immaginazione come cosa concreta. (...) comprendere i monu-menti anche come pezzi della città, sedimentazio-ni di materiali, che si possono trasformare, adat-tare, predisporre ad una nuova vita non significa un’avventura culturale ma un grande progetto per le principali nazioni d’Europa. A. Rossi, La città analoga, ibid., pp. 5-6.

3) L’opera di centuriazione fu condotta proba-bilmente attorno al 40 a.C. da Asinio Pollione, generale di Antonio e membro della commissione deputata alle distribuzioni agrarie per poter soddi-sfare le richieste dei veterani dell’esercito. Il ter-reno venne misurato e diviso regolarmente in un reticolo di 710 metri di lato (=20 actus). S. Cipria-no, Borgoricco e il territorio a nord-est di Padova, contenuto in AA.VV., Borgoricco, il municipio e il centro civico - Aldo Rossi, Comune di Borgoricco 2014.

Il Graticolato Romano, che si estende tra Pa-dova e Venezia, ha ancora una buona persistenza nella rappresentazione plastica del territorio. Il graticolato era allineato secondo parallele ed or-togonali intorno al suoi assi centrali definiti da un cardo (via Aurelia, l’attuale SR 307) e un decuma-no (via Desman, il cui etimo deriva proprio da de-cumano), che si incrociavano a San Giorgio delle Pertiche. La vastità del frazionamento territoriale secondo tale sistema è ancora oggi visibile, anche se degli 800 chilometri di strade ne sono rimaste circa trecento.

4) G. Peron, Un’idea e il suo compimento: il Municipio di Aldo Rossi a Borgoricco, in Aldo Rossi a Borgoricco, a cura di C. Visentin, Il Poli-grafo, Padova 2009.

5) G. Peron, ibid.6) La progettazione architettonica è affidata al-

l’architetto Marino Zancanella, il calcolo struttu-rale e assistenza ai lavori all’ingegner Loris Vedo-vato, mentre la ditta Aronne Anselmi è l’impresa costruttrice.

7) Dal Municipio di Aldo Rossi a Città rifondata

9 10 11

9. La ciminiera dell'impianto termico (in interrato)ed il fronte nord del

Municipio(foto: Paolo Pavan).

10. Il fronte sud (ingresso)del Museo/Teatro

(foto: Marco Noaro).

11. Interno del Teatro(foto: Paolo Pavan).

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Alberto Susa

Piazzale Boschetti

Le vicissitudini di un’area al di là del Piovego che divennenel secondo Ottocento sede della prima industrializzazione cittadina.

Piazzale Boschetti è una zona molto nota ai padovani per l’essere stata per decenni e fino a qualche anno fa la sede della sta-zione delle autocorriere. Meno note sono le sue vicende storiche, che val la pena di ricordare.

Nel corso del Medioevo l’area oggi indicata come “Piazzale Boschetti” era adiacente al percorso viario in uscita da porta Porciglia, lungo le mura carraresi, allo sbocco dell’attuate, omonima via. Era stata poi inglobata nel guasto cinquecen-tesco, la fascia di terreni completamente priva di edifici creata attorno alla città per scopi difensivi, ottenuta demolendo tutti gli edifici ivi esistenti, tra cui numerosi edifici religiosi. Questa situazione si era poi mantenuta per vari secoli, praticamen-te inalterata fino all’Ottocento inoltrato.

Una importante modifica era intervenuta nel 1847 con la costruzione dell’Officina del Gas, la cui realizzazione aveva portato alla rettifica di un tratto della strada di cir-convallazione esterna, la via che percor-reva l’intero perimetro esterno alla città. La nascita del nuovo rettilineo, via Gaso-metro, oggi via Trieste, delimitava un’area oblunga la cui parte occidentale sarebbe divenuta l’oggetto della presente nota.

Anni dopo, e precisamente nel 1873, nella parte orientale di questa fascia di terreni veniva costruito il macello suini, quale ampliamento di quello bovini al di là del fiume, odierno Istituto d’arte Pietro Selvatico. Li collegava una passerella in legno. Qualche anno dopo ancora, questa volta nella parte occidentale, quasi di fron-te all’Officina del Gas, nasceva la fabbrica di Giuseppe Molinetti e Guglielmo Levi, per la macinazione e la raffinazione dello zolfo. Era dotata di un motore a vapore da 12 HP, con una caldaia, ed occupava 27 operai, tutti maschi adulti.

Un più significativo evento si verificava nel biennio 1884-85, quando la zona veni-va attraversata dalla linea ferroviaria per Fusina, realizzata dalla Società Veneta per Imprese e Costruzioni Pubbliche. Parten-do dalla nuova stazione di S. Sofia, costru-ita sulla fascia di terreno che fino a pochi anni prima era stato l’alveo dell’omoni-mo canale, il binario attraversava il Pio-vego su di un ponte metallico accanto ai due macelli e, dopo un breve tratto verso nord, curvava in direzione della Stanga e di Ponte di Brenta, tagliando in due l’area lenticolare tra via Gasometro ed il Piove-go. Qualche anno dopo un ulteriore bina-rio si staccava dal principale subito dopo l’attraversamento del fiume e raggiungeva un nuovo scalo merci collocato di fronte alla stazione ferroviaria nazionale.

Era il segnale di quella che sarebbe stata la prima industrializzazione cittadina e del-la localizzazione delle prime industrie. Se ai primordi dell’industrializzazione i primi stabilimenti erano sorti in pieno centro sto-rico, nel breve volgere di anni le ristrettez-ze del reticolo viario e la mancanza di aree idonee avrebbero indotto gli imprenditori a cercare zone libere da grandi impedimenti e, soprattutto, comode a quello che all’epo-ca era il più avanzato sistema di trasporto: la ferrovia. La fascia di terreni tra Piovego a sud e ferrovia a nord rispondeva a tutti i requisiti: ampiezza di spazi per la presenza del guasto, accesso non solo alla ferrovia ma anche al trasporto fluviale.

L’area Boschetti rimaneva ben dentro questa zona di sviluppo e gli effetti non avrebbero tardato a manifestarsi. Sempre a partire dagli anni 1885-86 la Società Ve-neta creava al suo interno, al fianco della raffineria di zolfo, un “fabbricato ad uso cantiere, tettoia grande e piccola” (questa la descrizione catastale), divenuto poi una

diAlberto Susa

29

Piazzale Boschetti

vera e propria officina meccanica1, con macchina a vapore, magazzini e tettoia. A motivare questa iniziativa era la decisio-ne presa dalla Veneta qualche anno prima allo scopo di rendersi indipendente nella fornitura di opere in ferro per le sue re-alizzazioni. Nel 1881 aveva acquistato la vecchia e gloriosa fonderia Rocchetti di via Tiso da Camposampiero, opificio che aveva però il grosso handicap di essere nel centro storico, su una via stretta e lontana dalla ferrovia. Da qui l’idea di creare una dependance con maggiori spazi e, soprat-tutto, al fianco di una linea ferroviaria2.

L’interesse della Veneta per l’area non era però isolato, poiché nella parte orien-tale della nostra area, al fianco del macello suini, nasceva nello stesso periodo la se-gheria di Maria Ziliani e C., indicata nel 1890 come la più importante della provin-cia. Dal lato opposto, nel 1894 Francesco Zamarello acquistava l’area ed il fabbri-cato della precedente raffineria di zolfo, aprendovi una tintoria a vapore3, come orgogliosamente dichiarato sulla carta in-testata e sui documenti ufficiali. Si trattava di un altro caso di preesistente attività lo-calizzata in borgo S. Leonardo, trasferita fuori dall’angusto centro cittadino. A nord di via Gasometro, di fronte all’area Bo-schetti, tra fine Ottocento e Novecento la Società Paolo Morassuti, attiva nel com-mercio di ferro e ferramenta, apriva il suo magazzino centrale, che nel 1906 usufrui-rà anch’esso di un raccordo ferroviario.

A fine Ottocento la Società Veneta, dopo un lungo periodo di crisi, veniva messa in liquidazione (1899) e le attività ferroviarie passavano alla Società Veneta per Costru-zione ed Esercizio di Ferrovie Secondarie Italiane, di nuova costituzione. Nello stes-so anno chiudeva anche la fonderia Roc-chetti e con essa la sua dependance di via Gasometro, che diveniva un deposito di legname. Nel 1909 deposito legname ed un’area di fabbricato urbano venivano ce-duti a Giovanni Boschetti che vi colloca-va un magazzino di carboni fossili, coke, antracite, carboni di legna, legna da fuo-co e materiali refrattari. Anche in questo caso non si trattava di una nuova intrapre-sa ma del trasferimento dal centro città di un’analoga attività. In precedenza infatti i Magazzini Boschetti erano collocati in via

Bolzonella, corrispondente grosso modo alla parte centrale di via S. Lucia, fino ai primi del Novecento suddivisa in vari tronchi, ognuno con nome diverso.

Un anno dopo l’inizio della gestione del nuovo magazzino la società F.lli Bo-schetti avviava la costruzione del fabbri-cato ad uso uffici e abitazione che ancor oggi esiste all’angolo tra le vie Gozzi e Trieste. Inizialmente era previsto un edi-ficio dell’attuale lunghezza nel piano ter-ra, mentre primo e secondo piano erano limitati alla metà lato, verso l’incrocio stradale; negli anni successivi avveniva il completamento nei modi attuali. Oltre a questo edificio il luogo era dotato di altre costruzioni minori e di una serie di tettoie; un raccordo ferroviario lo collegava alla linea della Società Veneta in via G. Gozzi.

L’attività dei magazzini dei F.lli Bo-schetti continuò fino agli anni ’30, quando

1. Stralcio della planimetria del 1886

per la realizzazione dell’acquedotto pubblico.

Visibile l’area Boschetti occupata sulla sinistra

da una raffineria di zolfo (a), sulla destra (b),

dall’Officina Rocchetti[da Le sorgenti per Padova,

a cura di Marco Maffei, 2001].

2. Facciata su via Trieste del palazzo costruito dai

F.lli Boschetti, divenuto poi sede di uffici

e biglietterie del terminal autocorriere.

1

2

a

b

30

Alberto Susa

vecchi depositi. L’attenzione dell’Ammi-nistrazione si era poi spostata sulla zona nei pressi della stazione ferroviaria, già adibita a scalo delle ex Guidovie della Società Veneta, di ampiezza idonea se accorpata ad altri lotti a disposizione del Comune. Un’area dotata di adeguata via-bilità, vicina al centro commerciale, che in quegli anni stava migrando verso nord, ed alla stazione. La scelta era anche con-gruente con il PRG del 1954 che appunto destinava a nuovo terminal il terreno tra la stazione ferroviaria, la Chiesa della Pace e via Tommaseo lasciato libero dallo scalo merci delle Guidovie Venete.

La SIAMIC e le altre società di trasporti che gravitavano su Padova consideravano

entrò in crisi, chiudendo nel 1939. Negli anni successivi l’area passava in proprietà alla SAICA (Soc. An. Industria Catrami e Affini) con sede in Monselice, assieme all’area che decenni prima era occupa-ta dalla tintoria Zamarello. Un ulteriore passaggio di mano avveniva nel secondo dopoguerra, quando negli anni 1949-50 tutta l’area veniva acquisita dalla società SIAMIC.

La SIAMIC, che nel primo dopoguerra operava nel campo dei trasporti automobi-listici pubblici a Treviso, era stata rilevata nel 1921 da Ugo Sisto Stefanelli. Questi, dopo qualche anno, aveva trasferito la sede a Padova4, nella cui provincia stava già implementando i servizi pubblici. Uf-fici, rimessa e garage erano collocati in via Trieste, a fianco dell’Officina del Gas, la stazione di partenza delle autocorriere era situata in piazza Eremitani, con bigliet-teria in alcuni locali del palazzo ex sede della Veneta, poi Cassa di Risparmio. Con l’andare del tempo e lo sviluppo del tra-sporto automobilistico gli spazi di piazza Eremitani erano divenuti insufficienti, il Comune poi voleva valorizzare adeguata-mente il patrimonio artistico della chiesa e dell’attiguo convento; condizioni che avevano indotto entrambe le parti a stu-diare un possibile trasferimento in altro sito. Erano state prese in esame possibili sedi alternative5, a partire da piazza Maz-zini, subito scartata poiché anche in questo caso lo spazio disponibile era considerato insufficiente; erano poi nate altre ipotesi quali piazzale Boschetti, l’area del Foro Boario di Prato della Valle o quella della stazione di S. Sofia, quest’ultima conside-rata area già predisposta al nuovo impiego. A seguito di un più approfondito esame la zona di Prato della Valle era stata scartata per le interferenze che si sarebbero cre-ate con il mercato settimanale; quella di S. Sofia fu pure tralasciata per la volontà del Comune di allargare la sede viaria di via Morgagni al fine di facilitare l’accesso alla zona ospedaliera e per consentire la realizzazione del progetto, allora esisten-te, di aprire una strada di collegamento tra piazza Garibaldi e via Morgagni. Per l’area Boschetti, già nelle disponibilità della SIAMIC e da questa sponsorizzata, esistevano dubbi anche per l’esistenza di

3. La bassa costruzione tra i due palazzi

con l’ingresso ai Magazzino Boschetti,

demolita anni fa.

4. I magazzini Boschetti quando erano ancora

funzionanti. Tutto attorno corriere della SIAMIC

parcheggiate in attesa di entrare in servizio

[da Da Luigi Piccinato e l’antiurbanistica a Padova,

a cura di Elio Franzin, 2004].

3

4

31

Piazzale Boschetti

arrivare ad una conclusione. Tramontata questa ipotesi, e in attesa di un progetto definitivo, pesa il pericolo di una possi-bile edificabilità sull’area. Nel frattempo l’area è divenuta un parcheggio pubblico. Gli edifici lungo via Trieste sono in sta-to di abbandono ed in lento decadimento, mentre è stato demolito il basso fabbrica-to intermedio che recava ancora la scritta “Magazzini Boschetti”. Peccato, perché la sua conservazione avrebbe permesso di mantenere una testimonianza di un’epoca passata.

l

1) APS Archivio storico, b. 2, fasc. 5: Progetto acquedotto anno 1886.

2) ASPd, Fondo Veneta, Scatola B/153) Le condizioni industriali della provincia di

Padova, 1890: la Tintoria Zamarello è l’unica in città ad avere una caldaia a vapore da 6 HP, destinata al riscaldamento dei bagni di tintura, occupando 9 operai.

4) Padova tra le due guerre, Carlo Munari, 1988.

5) Rivista L’Orologio, anno 1957.6) Dalla rivista L’Orologio, anno 1959, n. 46

mese di novembre: “le autocorriere sono state spostate ‘provvisoriamente’ a Piazzale Boschetti da un mese”.

quell’area troppo eccentrica preferendo-le il terreno ex Boschetti. Dopo una serie di tentativi di accordo andati a vuoto, nel 1958 la SIAMIC forzava la mano trasfe-rendo il terminal cittadino in piazzale Bo-schetti, malgrado le proteste dell’Ammini-strazione comunale. Per salvare la faccia e rendere la scelta accettabile si dichiarò che la nuova localizzazione sarebbe stata provvisoria6, senza però mettere un ter-mine fisso. Iniziava una storia lunga cin-quant’anni, coerente con il vecchio detto che afferma non esserci nulla di più dura-turo del provvisorio.

Con gli anni l’area Boschetti diveniva l’unico terminal autocorriere di Padova, assorbendo anche quello della Società ve-neta che per lungo tempo era rimasto in largo Meneghetti. Conservava la sua fun-zione anche dopo il 1983, anno in cui la SIAMIC cessava di esistere passando la mano ad una società pubblica.

Con la crescita del traffico cittadino la situazione della viabilità attorno alla zona Boschetti diveniva sempre più critica, ri-portando alla ribalta l’opportunità di un nuovo trasferimento, concretizzatosi nel-lo spostamento a lato della stazione fer-roviaria.

Liberato Piazzale Boschetti dalle corrie-re, è sorto il quesito sul cosa farne dell’area relativa. Per anni il dibattito pubblico si è polarizzato attorno al quesito se utilizzarla per realizzare il nuovo auditorium, senza

5

5. I magazzini Boschetti quando si discuteva se

convertirli in stazione autocorriere.

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Paolo Franceschetti

La chiesa del Cimitero Maggiore di Padova

Vengono resi noti la data dell’inaugurazione (30 ottobre 1892)e i nomi dei numerosi artisti – in prevalenza padovani e veneziani –coinvolti a vario titolo nella fase decorativa.

Nel 1867, dopo un cinquantennio di ten-tennamenti da parte dell’amministrazione cittadina sui progetti suggeriti per il nuovo cimitero da Antonio Noale, Giuseppe Jap-pelli e Giovanni ed Eugenio Maestri, una nuova giuria composta da Camillo Boito, Alberto Cavalletto, Giambattista Cecchi-ni, Andrea Scala e Pietro Selvatico sceglie la soluzione indicata dal triestino Enrico Holzner (1834-1899)1. L’intervento, in forme lombardo-bizantine della prima epoca del cristianesimo, rispetta l’este-tica della nuova architettura che si ispira al Medioevo nazionale (in città si notano analogie con il Santo e con la Sala della Ragione) per modernizzare l’Italia postu-nitaria, come sostenuto da Camillo Boito su insegnamento di Pietro Selvatico. Ap-prezzata per la suddivisione degli spazi e per la concezione dell’ingresso e della chiesa con pianta a croce greca, la soluzio-ne Holzner presenta un costo superiore a quello indicato nel programma di concor-so e alcune difficoltà legate al terreno che il Comune tenta di superare negli anni se-guenti con l’ausilio di consulenze tecniche e l’esame di nuove idee. Solamente a fine 1881 il progetto, con alcune modifiche alla facciata della chiesa, ottiene il via libera e l’anno successivo l’architetto triestino – affiancato dall’ingegner Giovanni Brillo (Badia Polesine 1832-Padova 1913) – av-via ingenti lavori di movimento terra. Nel 1884 l’impresa dell’ingegner Guido Finzi comincia a gettare le fondazioni dell’e-dificio di culto. All’inizio del decennio seguente la costruzione, il cui prospetto è ritoccato ancora una volta nel 1889, è già a buon punto e si avviano le pratiche per assegnare il servizio religioso – svolto

fino a quel momento da un sacerdote – ai frati Cappuccini: il 16 ottobre 1891 padre Vettore da Vià prende possesso della cap-pellania2. L’inaugurazione della chiesa, dedicata alla Resurrezione di Gesù Cristo, avviene il 30 ottobre 1892 con l’intervento del vescovo Giuseppe Callegari, il quale, dopo aver benedetto il luogo e celebrato la messa, è accompagnato in visita al can-tiere dal consigliere comunale Giovanni Cavazzana e dall’ingegner Brillo3.

La chiesa si presenta ancora priva di pit-ture e di arredi, il pavimento è al grezzo e al centro è stato collocato in via provvi-soria un altare molto modesto. La Giunta inizia quindi a occuparsi di questo aspetto con occhio attento ai costi, operando le proprie scelte quasi sempre su proposta o su progetto di Holzner e con parere della Commissione d’Ornato4. La fase di com-pletamento e dotazione dell’edificio sarà svolta nel quinquennio successivo.

Come prima opera vengono eseguiti (maggio 1893) due grandi portoni in larice del Cadore realizzati dal laboratorio Ros-si di via San Daniele, condotto da Angelo dopo la morte del padre Giuseppe, su dise-gno di Holzner e con accessori in ferro fusi nell’officina del cavalier Pio Berti presso l’Istituto Camerini-Rossi di via Scalzi (ora via Beato Pellegrino). I due portoni, come quelli minori laterali, vengono tinti del co-lore del bronzo.

Per la decorazione interna la Commis-sione e l’architetto triestino scelgono il progetto ornamentale proposto dal bravo quanto modesto pittore Giuseppe Damiani di Via Conciapelli e già in novembre bril-lano le prime stelle dorate in campo azzur-ro su alcuni lembi della cupola. Terminata

diPaolo

Franceschetti

33

La chiesa del Cimitero Maggiore di Padova

l’anno successivo, la decorazione subisce fin da subito un deterioramento causato dal salso e dall’acqua piovana che filtra sulle pareti dai pinnacoli e dai finestroni e sarà rifatta nel biennio 1899-1900.

Nel settembre 1893 un certo Lombardi, di cui non abbiamo rinvenuto notizie, e lo scultore Cesare Nascimbeni di via La-vandaie (ora via XX Settembre) vincono al ribasso la gara per la realizzazione ri-spettivamente del pavimento e dell’altare. Quest’ultimo è collaudato l’anno dopo dall’artista Luigi Ceccon, il quale consi-glia soltanto di levigare a pomice la gra-dinata. Nascimbeni esegue poi in marmo di Carrara anche la cornice (baldacchino) dell’altare, che in un primo momento – per risparmiare – doveva essere fatta in stucco da Pietro Novelli.

Tutti gli artisti ricordati, coinvolti nelle opere di decorazione della chiesa di pro-prietà comunale, sono scelti nell’ambiente cittadino non solo perché l’amministra-zione sostiene convintamente l’economia locale, ma anche perché Padova vanta nu-merose individualità dotate di grande com-petenza e professionalità. L’unica attività commessa esternamente è il lavoro a mo-saico da comporre sulle lunette sovrastanti alcune porte del cimitero: le due maggiori dell’ingresso principale della chiesa e di quello prospiciente, le due minori delle uscite laterali, quelle al termine dei due bracci che si protendono verso la strada d’accesso. Per tutte la Giunta, accantonata l’idea di sostituirvi delle pitture a foglia d’oro meno costose, si rivolge nel 1893 all’esperto mosaicista veneziano Giovanni Battista Morolin, già autore di restauri nel Castelvecchio di Verona e all’interno del-la basilica di San Marco (e che sappiamo aver ornato anche la cappella del ricostru-ito castello Kreuzenstein a Leobendorf vi-cino a Vienna). La gestazione dell’opera è travagliata: in un primo momento Morolin deve presentare gli schizzi ad acquarello da sottoporre alla Commissione d’Orna-to; in un secondo momento si opta per i cartoni a chiaroscuro in grandezza natu-rale e per una porzione di figura musiva completa a colori; a fine anno poi il pittore Antonio Brunelli Bonetti, membro della Commissione, si reca a Venezia nello stu-dio dell’artista Antonio Ermolao Paoletti

per esaminare i disegni dei mosaici; infine, nell’aprile 1894, su proposta di Holzner e progetto di Morolin – abbozzato sempre da Paoletti – si decide di sostituire le iscri-zioni di due lunette con le allegorie del Tempo e della Storia, visibili ora sopra le porte di testa dei bracci d’ingresso. Tutti i lavori musivi, che rappresentano, oltre ai due ricordati, la Resurrezione di Gesù, il Compianto sul Cristo morto, la Fede e la Carità, saranno posti in opera nel 1895. L’anno seguente la Giunta rifiuterà la pro-posta di Morolin di ornare anche il cupo-

E. Holzner, facciata della Chiesa del Cimitero

Maggiore.

L'interno della Chiesa, con l'altare di Cesare

Nascimbeni e parte della cupola decorata da

Giuseppe Damiani.

34

Paolo Franceschetti

proprio di artisti e la stima guadagnata a forza di sacrifici e di privazioni, che sia loro concesso dalla onorevole Giunta che i detti bozzetti vengano esaminati da una commissione diversa da quella che giu-dicò in precedenza, cioè, da una commis-sione composta da artisti, la quale dia il giusto valore ai detti bozzetti presentati al concorso, i quali non sono che l’embrione del modello che è obbligatorio nell’altez-za prescritta di metri 1.57” (Il Veneto, 10 dicembre). Nel luglio 1894 esce un nuovo concorso: i bozzetti (da realizzare sempre in scala 1:3) verranno esposti dal 20 al 30 novembre nella Sala della Gran Guardia e saranno giudicati dalla Commissione d’Ornato affiancata da un illustre scultore non residente, poi scelto nella persona del veneziano Urbano Nono, fratello del no-tissimo pittore Luigi. Le statue – si precisa sul giornale il 23 agosto – dovranno avere “la testa sporgente per intero dal fondo” e “lo stile da adottarsi dovrà stare in armo-nia con quello usato per tutti gli edifici del Cimitero e rimontare all’epoca fra il XII ed il XIII secolo, uniformandosi quindi in principialità agli esempi forniti dal Giot-to”. Partecipano Pietro Bertocco, Augusto Caimi, Cesare Nascimbeni, Pietro Novel-li, Giovanni Rizzo e Natale Sanavio. Su Il Veneto del 20 novembre si considerano efficaci quelli di Sanavio, Rizzo e Nascim-

lino dell’altare e confermerà la pittura con stelle d’oro su fondo azzurro concepita nel progetto originario.

Per gli apostoli in altorilievo da collo-carsi sulle facciate anteriore e posteriore della chiesa è bandito nel settembre 1893 un concorso riservato agli artisti residenti a Padova, dove si esige il concetto della scultura primitiva. I bozzetti dei quattro partecipanti – fra cui Novelli, che presenta tutti e dodici gli apostoli, e Natale Sanavio – sono esposti in Salone dal 15 al 30 no-vembre. La recensione che appare il 27 del mese sul quotidiano Il Veneto è impietosa: “solo quattro o cinque” bozzetti “meritano di essere presi in qualche considerazione”; taluni “difettano perfino nel plagio” e “due di quelli apostoli sembrano donne vestite da uomo: i lineamenti sono perfettamente femminili; uno sembra appena licenziato dalle mani di un barbiere tanto è acconcia-to barba e capelli all’ultimo figurino, altri due sono pedrocchini vestiti alla romana”. La stroncatura è condivisa dalla Commis-sione d’Ornato, la quale, chiamata a giu-dicare, non si pronuncia favorevolmente su alcuno, mentre è respinta dagli scultori cittadini che in una lettera alla Giunta fan-no notare la fattibilità dei bozzetti e l’inco-raggiamento avuto dal pubblico e da artisti di indiscutibile valore; essi inoltre “prega-no, anche per salvaguardare il loro amor

Particolare della facciata posteriore con il mosaico

del Compiantodi Giambattista Morolin

e gli Apostoli di Giovanni Rizzo, a sinistra,

e di Natale Sanavio,a destra, che si

distinguonoper diversità di stile.

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La chiesa del Cimitero Maggiore di Padova

triestino avvisava finalmente la Giunta che avrebbe presentato dei disegni e in maggio faceva pervenire tre tavole di progetto in grandezza naturale per un crocifisso (cm 80×45), sei candelabri (65×22) e quattro lampade (36×24) da eseguirsi in bronzo “a lutto” (abbrunato), mentre per le panche aspettava di conferire con il cappellano. Il sindaco, Vettor Giusti del Giardino, le in-viava quindi all’Ufficio Tecnico, che rice-veva le offerte di Berti, Colbachini e Mu-naretti (quest’ultimo forniva un preventivo con fusione a cera perduta e uno con meto-do “a staffa”, che permette il riutilizzo delle matrici); Natale Sanavio si proponeva per modellare le matrici in gesso. Non sembra che il progetto abbia avuto esecuzione: non si rinvengono, infatti, ulteriori decisio-ni della Giunta in merito – gli arredi oggi esistenti, d’altra parte, non corrispondono – e al contrario altre delibere autorizzano il padre cappuccino ad acquistare due can-delabri (1900) e un crocifisso (1904). La causa del mancato compimento potrebbe essere rinvenuta nell’esigenza di economia che si impose con decisione a metà degli anni novanta, quando l’attività costruttiva venne sospesa per il lievitare dei costi, ne-cessari anche a risolvere le numerose pro-blematiche strutturali e idrauliche insorte, e riprese qualche tempo dopo secondo la variante proposta nel 1898 da Daniele Donghi (Milano 1861 - Padova 1938), che lasciò immutato il fronte principale del complesso e intervenne modificando i tre lati perimetrali rimanenti.

Ad altri tre lavori accenniamo breve-mente. Il primo è una lapide sormontata dal busto che ritrae Enrico Holzner, opera degli scultori triestini Luigi Taddio e Pao-

beni. Il Comune. Giornale di Padova del 23 novembre biasima il rivale per aver ad-ditato i preferiti alla Commissione senza esporre le proprie idee e commenta i la-vori identificandoli col loro motto: si sal-vano dalle stroncature Arte, Pro necropoli patavina e Salvatore, perché interpretano nel modo migliore i precetti della scuola verista. Arte (Sanavio) contraddistingue dodici bozzetti – fra i quali si segnala un Giacomo “veramente buono”, ma copiato da una tela di Domenico Morelli – e un Giovanni grande al vero, però somiglian-te a un “laccato damerino”; Pro necro-poli patavina (“un giovane intelligente”) mostra quattro buoni bozzetti; Salvatore (Rizzo) indica un Pietro e un Filippo “la-vorati da maestro” (un terzo apostolo si era frantumato). La contesa prosegue sui due quotidiani, finché sabato 15 dicem-bre la Commissione Apostoli, riunita alla Gran Guardia, sceglie sei bozzetti di Na-tale Sanavio rappresentanti Bartolomeo, Giovanni, Paolo, Giacomo, Simone e An-drea, e uno di Giovanni Rizzo rappresen-tante Pietro. La Giunta rispetta il verdetto e affida ai due artisti anche l’esecuzione delle altre cinque statue rimanenti: in tutto nove a Sanavio e tre a Rizzo. Non abbiamo rinvenuto nella delibera la suddi-visione degli ulteriori altorilievi fra i due scultori, ma riteniamo, giacché essi sono collocati sulla facciata a gruppi di tre, che quello con Pietro al centro – uno dei pochi apostoli riconoscibili con certezza per la presenza delle chiavi, suo attributo icono-grafico – possa spettare a Rizzo. Le sta-tue, realizzate come prevede il concorso in marmo statuario di Carrara di seconda qualità, saranno messe in opera nel 1896.

Per gli arredi sacri della chiesa, la Giunta aveva incaricato da subito (1894) l’Ufficio Tecnico di predisporre disegni e preventivi per un crocifisso, quattro candelabri, due lampade e alcuni banchi. Realizzati gli schizzi e chiesti i costi all’artigiano vene-ziano Emanuele Munaretti e ai padovani Daciano Colbachini (con stabilimento in via Scalona, ora Gregorio Barbarigo) e Pio Berti, il progetto si interrompeva all’inizio dell’anno seguente, quando su suggeri-mento della Commissione d’Ornato erano stati inviati i documenti a Holzner per l’ap-provazione. Nel febbraio 1897 l’architetto

G.B. Morosin,Resurrezione di Cristo,

(su cartonedi A. e. Paoletti), 1895.

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Paolo Franceschetti

all’antico splendore i dipinti ultracente-nari, permettendone la leggibilità, ma an-che per proteggerli dal deperimento (sono necessari circa 10.000 euro). Chissà che pure in questo caso la liberalità di priva-ti e di soggetti pubblici, come Banche e Fondazioni cittadine (magari la Cassa di Risparmio del Veneto che è proprietaria di palazzo Donghi, splendidamente decorato dall’artista), unita al meccanismo dell’Art Bonus, possa supportare felicemente la nostra proposta.

l

1) Camillo Boito: un’architettura per l’Italia unita, catalogo della mostra a cura di G. Zucconi e F. Castellani, Padova, Museo Civico di Piazza del Santo, 2 aprile - 2 luglio 2000, Venezia 2000.

2) G. Ingegneri, I Cappuccini a Padova: cinque secoli di presenza, Padova 2000, p. 151.

3) Il Comune. Giornale di Padova, 31 ottobre 1892. Per l’occasione si stampa su cromolitogra-fia la seguente epigrafe: “Alla cara memoria / dei nostri fedeli defunti / in questo giorno / XXX ot-tobre MDCCCXCII / in cui / da sua eccellenza re-verendissima / Mons. Vescovo Giuseppe Callegari / viene aperto al pubblico culto / e solennemente benedetto / il nuovo tempio monumentale / dedi-cato / alla resurrezione di N.S. Gesù Cristo / nel Cimitero Maggiore / del Comune di Padova / preci e suffragi”.

4) Una ricerca condotta presso l’Archivio Gene-rale del Comune di Padova ha fornito alcune noti-zie nei verbali di Giunta, ma quasi nulla - nessun disegno - nel fondo Contratti e nelle carte della Commissione d’Ornato.

5) Vedi il mio Giovanni Vianello (Padova 1873-1926). Maestro di Casorati e Cavaglieri, Castel-franco Veneto 2015, pp. 69-71.

lo Zanette, collocato nell’ingresso della chiesa in seguito al decesso dell’architetto, avvenuto nella sua città natale il 10 apri-le 1899. Il secondo riguarda la magnifica Via Crucis dipinta con perfetta intonazione allo stile del tempio da Giovanni Vianello, artista padovano di rilievo nazionale, se-gnalato in riviste specialistiche come Em-porium, La cultura moderna, Vita d’arte e Arte e storia, con commenti fra gli altri di Mario Pilo, Eduardo Ximenes, Pirro Bes-si, Ettore Cozzani, Antonio Della Rovere, Pasquale De Luca, Achille De Carlo, Ugo Ojetti, Arturo Lancellotti e Giulio Ulisse Arata5. Il primo quadro – la stazione nu-mero IV (Incontro di Cristo con Maria) – era apparso in chiesa il 2 novembre 1913 su iniziativa di un comitato composto da alcuni sacerdoti e commercianti determi-nati a raccogliere la somma necessaria al completamento dell’opera, poi era stato esposto nella vetrina della tintoria Venuti in via Roma (sotto il portico della chiesa dei Servi). L’idea era piaciuta ai padovani e in breve era stata raggiunta la cifra con-tenuta richiesta dall’artista. Lunedì 29 giu-gno 1914 il vescovo Luigi Pellizzo poteva finalmente benedire singolarmente la cro-ce di ogni stazione e recitare le preghiere seguito dai fedeli, infine si congratulava con il pittore Vianello, presente all’even-to. Da ultimo accenniamo al crocifisso che oggi pende dal cupolino dell’altare: l’ope-ra – come indicato nell’iscrizione retro-stante – è un dono datato 2 novembre 1926 da parte della famiglia Penzo in suffragio di Antonio, studente di giurisprudenza, mancato nel 1921 a soli vent’anni d’età (il padre Rodolfo insegnava nella locale fa-coltà di medicina).

A breve, grazie al mecenatismo di alcu-ni privati e all’Art Bonus, che permette la detraibilità fiscale delle erogazioni desti-nate al sostegno del patrimonio culturale pubblico, la chiesa comunale del Cimitero Maggiore aggiungerà un nuovo ripiano in marmo bianco di Carrara destinato a reg-gere il tabernacolo, sostenuto da otto co-lonnine che richiamano quelle dell’altare maggiore (costo dell’opera 12.800 euro).

Un altro lavoro che ci piacerebbe andas-se a buon fine è il restauro delle quattor-dici stazioni della Via Crucis di Giovanni Vianello, necessario non solo per riportare

G. Vianello, Deposizione di Cristo, stazione XIV

della Via Crucis, 1914.

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Donato Sartori e il Museo della Maschera

Donato Sartori e il Museo della Maschera

Scultore, performer continuatore e innovatore dell'arte paterna.Ha sviluppato ed evoluto il concetto di maschera dalla forma teatraleal Mascheramento Urbano. È stato direttore del Centro Maschere e Strutture Gestuali e a lui è dedicato il Museo Internazionale della Maschera.

Sono stata per quasi quarant’anni la com-pagna di Donato Sartori nella vita e nel la-voro, ad iniziare da quando ancora studen-tessa di architettura lo incontrai durante la preparazione del mascheramento urbano di piazza San Marco in occasione della Biennale di Venezia del 1980. Già curio-sa di mio, fui subito attratta emotivamente dalla sua energia, dalla sua voglia di fare e coinvolgere, dall’ideale di un mondo diverso in cui l’arte ha un posto prepon-derante anche come veicolo per liberarsi/liberare da tensioni sociali, ripetitività quotidiana, paura del diverso agendo in un clima di collaborazione.

Ci siamo piaciuti subito e presto mi sono innamorata anche del suo lavoro, della magia della maschera.

E mi sono sentita pronta ad iniziare con lui un nuovo viaggio, una vita viva… qua-si il proseguimento di un’ infanzia nella quale “argento vivo” era stato il mio so-prannome. E poi, durante un viaggio di studio con Donato in Indonesia, ecco il mio primo incontro fortuito, come sono spesso gli episodi che marcano la nostra vita e il nostro lavoro con le maschere ri-tuali e teatrali.

Mi ritrovai subito, e con piacere, im-mersa in un mondo che l’essere umano sa da sempre perché da sempre la maschera accompagna ed esprime le specificità dei popoli. In quanto scultura-simulacro, essa ricopre infatti funzioni strettamente legate alla vita quotidiana: attraverso riti evoca-tivi, propiziatori, spettacolari in contesti culturali e religiosi ancorché sociali e po-litici, la maschera si assume il compito di tramandare e comunicare la cultura delle comunità attraverso forme simboliche.

Ed è proprio fondando sulla maschera la propria originaria e originale peculiarità che il Centro maschere e strutture gestuali ha raccolto intorno al proprio nucleo crea-tivo fisso – formato da Donato Sartori, da me e più tardi da nostra figlia Sarah, dallo scenografo Paolo Trombetta – una miriade di collaborazioni temporanee in direzioni di ricerca nate via via nel tempo e nello spazio in base a esigenze e stimoli cultu-rali.

Tale fenomeno non riguarda infatti la sede italiana soltanto, ma è verificabile an-che in altri Paesi: per esempio in Brasile, dove il lavoro svolto dal Centro continua da anni a produrre punti di sinergie con strutture culturali operanti sul territorio. A poco a poco Donato mi ha fatto conosce-re e scoprire il suo mondo, iniziato quan-do prese il testimone dal padre scomparso prematuramente. Amleto Sartori (1915-1962) fu grande scultore, pittore, poeta e fece rinascere la maschera teatrale in cuoio riscattandola da due secoli di oblio. A pro-posito di passaggio delle consegne, Dona-to mi raccontava che il possente fisico di Amleto resse fino a consentirgli di con-cludere le opere ancora incompiute presso l’atelier di piazza Castello a Padova e nel-le cave di pietra di Vicenza. E ricordava le ultime istruzioni del padre al momento di prendere il treno per Parigi dove lo avreb-be sostituito nell’allestimento della cor-posa mostra di maschere per l’Orestea, la trilogia di Eschilo – fortemente voluta da Jean Louis Barrault, icona del teatro fran-cese – presso il foyer dell’Odeon Théâtre de France. Fu questa grande mostra che proiettò a forza Donato, poco più che ven-tenne, nella sfera internazionale.

diPaola Piizzi

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Paola Piizzi

Una nota interessante: quasi cin-quant’anni dopo, Donato Sartori creò per la stessa trilogia nuove maschere, volute dal regista svedese Peter Oskarson: stavol-ta con materiale diverso (resine nuove), fattezze diverse, ambientazione diversa, ma ancora una volta sulla base di una ge-niale e creativa direzione di ricerca sulla maschera teatrale greca vibrofonica. Le due differenti creazioni di Amleto e Dona-to sono esposte ora al Museo Internazio-nale della maschera di Abano Terme, che ha i loro nomi: e, come sempre, nella loro diversità suscitano ammirazione e stupore. «Il mio pensiero – ha dichiarato il grande mimo Etienne Decroux – modella i gesti così come il pollice dello scultore modella le forme: il corpo, scolpito dall’interno, si distende ed io sono al tempo stesso scul-tore e statua.» Il lavoro/arte dell’attore, il lavoro/dello scultore: il loro incontro in un ritmo sincronico.

I due Sartori, un padre e un figlio soli-dali nell’elaborazione di uno stile incon-fondibile della maschera grazie a una formazione da bottega rinascimentale e ad una trasmissione/elaborazione diretta del mestiere e dell’arte, non sono tuttavia sovrapponibili come artisti: differente è il loro temperamento creativo, diversi il ta-glio della figura ed i rapporti dimensionali che scandiscono nel tempo una sequenza di trasformazioni.

Dall’interesse per il volto – campo pri-vilegiato del padre –, Donato passa alla maschera totale. E questo per una sorta di rarefazione fisiognomica che pervade la totalità del’attore: non converte la ma-schera in costume o in scenografia, come potrebbe fare un pittore, ma ne incalza la funzione e la spinge a invadere tutta l’a-rea spettacolare come un fantasma che di-sarticoli lo spazio e poi lo riduca, dissoci le cose e torni a fonderle in un insieme. Donato amplia insomma il concetto di ma-schera dal volto al corpo e dal corpo allo spazio attraverso maschere totali o strut-ture gestuali, installazioni/performances o mascheramento urbano. I Sartori sono stati uomini operosi, hanno inteso la cono-scenza come sinonimo e continuo incen-tivo a ricerca, indagine, sperimentazione.

Il loro spazio è stato/è libero, senza con-fini a difendere piccole proprietà private:

da scultura a pittura, da insegnamento a pubblicazioni di testi e saggi che connetto-no creatività artistica a visione scientifica mostrando non solo i risultati ma il farsi di un pensiero. La loro opera non è rical-co, meccanico rifacimento di immagini teatrali storiche o desuete, bensì specchio di un’epoca – l’attuale – in rapidissima evoluzione; è il racconto, attraverso ope-re, di sperimentazioni e cambiamenti dei nostri anni. La nascita della ricerca sulla maschera teatrale risale al secondo dopo-guerra, quando l’attività culturale in Italia conosce volontà e fervore di ripresa.

Le città che maggiormente riescono ad esprimere un’intensa attività legata al te-atro sono, in ordine di tempo, Padova e Milano ove sorgono le prime istituzioni teatrali: il Teatro Universitario di Padova e il Piccolo Teatro della città di Milano. Ed è in quegli anni che l’istituzione teatrale dell’Università di Padova chiede la colla-borazione di Amleto Sartori per insegnare storia dell’arte e modellazione della ma-schera teatrale, unendo le sue competenze a quelle di Jacques Lecoq e di Gianfranco De Bosio per realizzare le maschere desti-nate agli spettacoli in programma.

Le sue sperimentazioni sul cuoio prose-guono consolidando la tecnica recuperata dal padre. Con Donato si fissano alcune concezioni che sembrano dare risposte esaurienti a istanze di molti artisti della ge-nerazione precedente: egli spiega che una maschera non può nascere come fine a se stessa, sarebbe altrimenti uno degli oggetti estetici in vendita a migliaia in occasioni come il Carnevale di Venezia, nel miglio-re dei casi contraddistinti da una certa ri-

Donato Sartori mentre modella la maschera di

Arlecchino nel suo atelier.

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Donato Sartori e il Museo della Maschera

Jacques Lecoq, che per primo mi trasmise le pulsioni per la sua realizzazione». Dalla maschera del volto Donato passa dunque alla maschera totale impossessandosi del corpo fino allo stravolgimento dello spa-zio e del tempo intorno ad esso: nasce il mascheramento urbano, la maschera della città. Nei lavori collettivi l’artista Dona-to Sartori, assieme al Centro Maschere e Strutture Gestuali, sembra voler tirare le fila di un’ipotesi globale che risale, con gli opportuni distinguo, alle avanguardie sto-riche. Egli fa entrare la sua arte nel quoti-diano della realtà urbana. ‘Arte sociale del ’900’ la definisce il grande critico Pierre Restany.

Infatti la festa o la cerimonia incentrata sul mascheramento urbano attraverso vele acriliche e ragnatele colorate si svolge nel cuore delle città che sono i centri storici, avvolgendo strade edifici chiese campani-li piazze palazzi e modificandone l’usuale aspetto estetico. L’insolita visione crea tra i presenti-partecipanti un processo di rivi-sitazione dello spazio urbano dell’oggetto e del rapporto con l’oggetto. Concetto an-tico, che nel Settecento francese e italiano prevedeva il temporaneo mutamento di intere aree urbane attraverso trompe-l’oeil

cercatezza tecnica. Se una maschera nasce veramente è perché quell’attore, con pre-cise caratteristiche somatiche ed emotive, sostiene sulla scena un preciso ruolo; per-ché è guidata da una regia che prospetta particolari esperienze; perché vuole dire qualcosa; perché è in un determinato luo-go in un preciso momento storico.

La maschera è un oggetto esatto, uno strumento di comunicazione. Ogni linea promana un senso del bello, un significato, una risposta a una domanda. Non indulge mai alla maniera, al preziosismo, alla reto-rica. Le linee tagliano un carattere, un’età, un’emozione, diventano linguaggio anche poetico.

Le prime ideazioni nascono durante il seminario-laboratorio del 1976 a Mi-rano, paesino dell’entroterra veneziano, nell’ambito del decentramento della Bien-nale di Venezia con la collaborazione di operai e maestranze delle inquinatissime fabbriche del circondario. Le ‘struttu-re gestuali’ nascono in questo contesto, dall’incontro tra la maschera, fondamen-tale ambito di ricerca dei Sartori, e la scul-tura contemporanea. Sono intese come maschere totali, proposte quali oggetti di comunicazione visiva, realizzate negli anni attraverso molteplici esperienze in seminari-laboratorio tenuti nelle più varie realtà culturali del mondo: da Venezue-la a Messico a Cuba in America Latina; da Copenaghen a Bruxelles a Parigi in Europa; in altre numerose capitali quali Mosca, Tokyo; negli USA. L’espressività drammatica di quei corpi dilaniati, appe-si, coperti da mascherature professionali o maschere civili e protettive come quel-le antigas, diventa, coadiuvata dal gesto e dall’azione, il linguaggio visivo di una co-municazione di carattere sociale, di accusa e di riflessione politica… Le sculture non esauriscono il proprio orizzonte di senso sul piano estetico ma perseguono il conti-nuo divenire di quello creativo-comunica-tivo in una dimensione collettiva.

Donato racconta: «Era nata la prima forma scultorea utilizzabile, una sorta di figura antropomorfa emblematica, una «novella super marionetta» ad uso gestua-le o esposta, una sintomatica presenza di azioni e performance urbane. Venne bat-tezzata ‘struttura gestuale’ in ricordo di

Donato Sartori, Il Colosso, 1987.

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Paola Piizzi

altro da quello proposto a Berlino, a sua volta differente rispetto alla realizzazione a Londonderry in Irlanda. Particolarmente non facile l’analisi delle differenze storico culturali tra i fruitori nel caso di masche-ramenti urbani in capitali dell’America Latina come la Havana a Cuba, Città del Messico, Caracas in Venezuela, Rio de Janeiro in Brasile. Un ricordo personale sull’influenza degli eventi sulle persone, Donato incluso.

All’inizio lui disegnava le sue opere usando colori molto scuri, ma alla nascita di Sarah riprende il colore e non l’abban-dona più. Il tavolo della sala da pranzo si riempiva di fogli, colori e spesso la china si fondeva con il gouache colorato crean-do effetti di estremo impatto, smaglianti. Combinare la vita famigliare con quella lavorativa non è scevra di giornate burra-scose, il confrontare le idee per nuovi pro-getti creava a volte tensione, ma non c’era mai noia o recriminazione e ogni giorno sorgeva nuovo… eravamo come due albe-ri che crescono vicini ma non si soffocano, le radici si toccano e i rami si abbracciano. L’instancabile ricerca e creazione nonché raccolta di opere maschere documenti og-getti provenienti da tutto il mondo, l’atti-vità artistica che si snoda dalla fine degli anni Venti ad oggi attraverso una serie ininterrotta di complesse sperimentazioni ha fatto della valorizzazione di maschere e mascheramenti una sorta di unicum inter-nazionale riconosciuto e premiato con la destinazione, da parte del Comune di Aba-no Terme, della seicentesca Villa Trevisan

e scenografie dipinte su grandi quinte de-stinate a ricoprire l’architettura storica modificandone esteticamente l’aspetto esteriore.

Consuetudine che si protrasse nel tem-po sino ad essere riassunta e cristalliz-zata nell’opera di un grande artista del ’900, Marcel Duchamp. La «rivisitazione dell’oggetto» da parte di Duchamp si per-petua nell’opera di Donato Sartori attra-verso il mascheramento urbano. Il Sartori scultore e performer tende a collocare la ricerca e la comunicazione creativa tra le nuove forme di teatro, arti visive, musica, gestualità… in una sorta di aggregazione di artisti associati che, dopo alterne vicen-de politico- esistenziali, nel 1979 prende il nome di Centro maschere e strutture gestuali. Il Mascheramento urbano nasce dunque da un’analisi dello strumento ma-schera intesa come comunicazione e dallo stimolo al mascheramento sempre vivo nell’uomo, attraverso il quale, collettiva-mente, si cerca un rito nuovo. Ritualità e festa: concetti antichissimi accompagnano la storia della creatività; forme e colori, tracce e partecipazioni sono la miscela at-traverso la quale l’essere umano estrinseca la propria energia creativa in una sorta di ebbrezza collettiva. Uso della luce e del-le proiezioni, forme e colori nello spazio, oltre a gestualità, hanno caratterizzato nell’ultimo ventennio la ricerca nell’am-bito delle arti visive e del teatro d’avan-guardia.

Donato Sartori e il Centro maschere e strutture gestuali si pongono storicamen-te in quest’area, utilizzando strumenti di ricerca pluridisciplinari per l’indagine storico-culturale delle città prescelte, per l’analisi degli ambienti, per la strategia dei progetti di installazione urbana consono ciascuno alle istanze delle diverse realtà, spaziando dall’uso di forme e quindi scul-ture di grandi dimensioni all’utilizzo di mezzi e strumenti messi a punto dalla tec-nologia moderna. Alla performance realiz-zata nel 1980 a Napoli /Maschio Angioino si contrappone, nello stesso anno, un pro-getto ben diverso al Castello Sforzesco di Milano; il progetto per Place du Chaillot e Tour Eiffel di Parigi, diretto a un pubbli-co quotidianamente sollecitato da quantità enormi di avvenimenti culturali, è stato

Donato Sartori, Amarcord, mascheramento urbano ,

Carnevale (Venezia, 2003).

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Donato Sartori e il Museo della Maschera

chiamato allievi da ogni parte del mondo. Si tiene ogni estate, si sviluppa da idea a progetto a realizzazione della maschera teatrale in cuoio secondo le metodologie e le tecniche dei Sartori dal 1947 ad oggi, si conclude con dimostrazioni-spettacolo sul lavoro dell’attore con maschera. Si conclude ma non termina, perché la gran parte dei partecipanti ai nostri seminari diventano in realtà dei seminatori… mol-te realtà ispirate alla nostra si sono infatti create nel tempo attraverso le loro istitu-zioni organizzazioni gruppi di appartenen-za. E i contatti fra loro e con noi diventano preziosi punti di confronto e sinergia. Il nome dei Sartori inteso come continuità generazionale - con Sarah siamo alla terza generazione - è conosciuto in tanti Paesi del mondo e moltissimi amici artisti, at-tori, uomini di teatro e di cultura, studiosi ci hanno assicurato la loro collaborazione e il loro sostegno a proseguire per il sen-tiero tracciato e per quelli imprevisti che si presenteranno interrogandoci. Sarah ed io, che della storica famiglia d’arte faccia-mo parte e da sempre abbiamo fatto tesoro delle esperienze vissute assieme, conti-nueremo a sperimentare e sviluppare vie di pensiero e di creazione dell’arte della maschera nei suoi diversi ambiti, aggiun-geremo nuove esperienze, arricchiremo la collezione. Una recente proposta è di dar vita a una Accademia dell’intelligenza creativa, perché tutto è vita e tutto si tra-sforma senza perdere le radici

Lavoreremo anche a questo.l

Savioli a sede del Museo Internazionale della Maschera Amleto e Donato Sartori.

Gli amici Dario Fo e Franca Rame han-no inaugurato il museo nel 2005 e ci han-no omaggiato con uno spettacolo creato apposta: Maschere, Pupazzi e Uomini di-pinti.

Io sono la responsabile della vita di que-sto Museo: insieme ai miei collaboratori e ai sempre più numerosi sostenitori di un patrimonio che, insieme alla Scuola-labo-ratorio, appartiene prima di tutto al nostro territorio, ne è risorsa e strumento di iden-tità culturale, ci siamo prefissi di proteg-gere, trasmettere e far evolvere insieme ai fruitori i saperi e i mestieri che hanno cre-ato, nutrito e fatto evolvere la realtà cultu-rale e artistica che il Museo internazionale della maschera Amleto e Donato Sartori custodisce per metterla a disposizione di tutti.

Da anni abbiamo iniziato a farlo – e intendiamo continuare – soprattutto at-traverso laboratori tematici, molti rivolti anche a giovani e giovanissimi. Crediamo infatti che la forma laboratorio sia un ac-celeratore potente di curiosità e domande – quelle vere, quelle di cui non si sa già la risposta –, uno strumento insostituibile di scoperta di proprie risorse e quindi di costruzione di autostima attraverso il fare, il pensare, il riflettere insieme su ciò che si è fatto per continuare. È anche un vaccino contro eventuali tentazioni di far coinci-dere il conoscere unicamente con la tra-smissione invece che con il continuo an-che faticoso ma bellissimo entusiasmante processo che si crea proprio attraverso le nostre diversità, che ne garantiscono la reale democrazia e stimolano/valorizza-no. È, anche, un antidoto al considerare il nostro Museo unicamente una vetrina e non una realtà aperta, dinamica e vitale, un possibile modello paradigmatico amato perché condiviso. Credo che è questo che tutti vogliamo… Amleto, Donato, noi che ci lavoriamo, tutti coloro che vengono si fermano si emozionano vogliono sapere ci scrivono. Quest’anno la XXXI edizione del seminario laboratorio Maschera Gesto Narrazione – la prima senza la direzione di Donato – comprensiva del Seminario Internazionale Arte della Maschera nella Commedia dell’Arte, ha come sempre ri-

Donato Sartori,con la moglie Paola, la figlia Sarah e gli allievi

durante il Seminario Internazionale

della Mascheranella Commedia dell'Arte

(2015).

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Silvia Gullì

L'impressionismodi Zandomeneghia Palazzo Zabarella

Si è inaugurata ad ottobre una grande mostra dedicata al pittore veneziano, rivisitato attraverso un percorso che ripropone l’intero arco della sua produzione artistica, meritevole d’essere meglio conosciuta e apprezzata.La mostra resterà aperta nell’elegante sede cittadina fino alla fine di gennaio 2017.

Figlio d’arte, Federico Zandomeneghi na-sce a Venezia il 2 giugno 1841 da Pietro, scultore, e Teresa Spertini. Una famiglia di scultori gli Zandomeneghi: il nonno, Lui-gi, il padre Pietro e lo zio Andrea si erano mossi sulle orme di Canova, di cui Venezia viveva ancora il culto testimoniato dalle numerose visite al suo monumento fune-bre all’interno della Basilica dei Frari. E proprio all’interno della grande Basilica, di fronte al monumento a Canova - di cui Luigi aveva scolpito le figure allegoriche della pittura e architettura- si staglia il monumento a Tiziano (1852) interamente eseguito dalla famiglia Zandomeneghi.

Ma il giovane Federico abbracciò la via della pittura iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, frequentata fra il 1857-591. La formazione continua, nel 1860, all’Accademia di Belle Arti a Mi-lano dove segue i corsi di “Prospettiva” e “Elementi di figura”.

Fervente patriota, nel luglio dello stesso anno parte come volontario al seguito di Garibaldi in Sicilia e, ancora, si arruolerà nel 1866 in occasione della Terza Guerra d’Indipendenza.

Nel 1862 matura la scelta di trasferirsi a Firenze ed entra in contatto col gruppo dei Macchiaioli Toscani, abbracciandone le scelte poetiche e le nuove tematiche fi-gurative incentrate su un Realismo impe-gnato, in cui affiorano istanze di denuncia sociale. Il Nostro si legherà in particolar modo a Silvestro Lega, Borrani, Martel-li e Abati e, insieme agli ultimi due, nel 1865, prende in affitto un appartamento

fuori Porta S. Gallo. E’ l’anno in cui lavora molto con Abati a Palazzo Pretorio, di cui è viva testimonianza il dipinto Palazzo Pre-torio datato 1865 (fig. 1). Dell’antico Pa-lazzo, denominato dal XVI secolo Palazzo del Bargello e dal 1865 sede dell’omoni-mo museo, Zandomeneghi da abile pittore prospettico fissa l’immagine, concentrata su due figure in costume intente a leggere una missiva sotto la luce cristallina che en-tra dalle finestre, scandendo l’architettura e bloccando per un istante la scena fuori dal tempo contemporaneo dell’artista.

In questi anni Federico segue i compa-gni Macchiaioli nei loro spostamenti fra Castiglioncello, dove esegue il dipinto La lettura 1865, e Piagentina dove dipinge Gli innamorati 1866, opera in cui cerca di esplorare nuove soluzioni compositive.

Il rientro a Venezia nel 1866 segna un’al-tra svolta nella pittura di Zandomeneghi: le sue opere raccontano ora la vita vene-ziana con le sue usanze e tradizioni, con i colori e la luce della città lagunare: Basti-mento allo scalo (1869) in cui l’atmosfera lagunare silenziosa e le sottili variazioni luminose trovano riscontro nella produ-zione contemporanea di Guglielmo Ciardi, Preparativi alla processione (1873): una scena di vita popolare colta davanti alla porta laterale dei Frari e, presentati per la prima volta insieme in quest’esposizione, La spesa (1873) e La pittrice (1874): la prima eseguita su commissione di Moisè Michelangelo Guggenehim, uno dei mag-giori mercanti del tempo; la seconda, rea-lizzata prima di confrontarsi con la realtà

diSilvia Gullì

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L'impressionismo di Zandomeneghi a Palazzo Zabarella

parigina risente, con la definizione attenta dei dettagli, con la pennellata nitida e la precisione descrittiva, della formazione italiana dell’artista in bilico fra la poetica dei Macchiaioli e la lezione veneziana.

Nel frattempo si susseguono anche le prime esposizioni delle sue opere: nel 1869 alla Promotrice fiorentina, nel 1872 all’E-sposizione Nazionale di Milano, dove pre-senta il capolavoro giovanile Impressioni di Roma in cui una schiera di mendicanti sui gradini del convento di S. Gregorio al Celio sono intenti a consumare il pasto of-ferto loro in elemosina: ciò che colpisce è il forte contrasto tra le solenni rovine roma-ne e la miseria del mondo contemporaneo. L’opera venne acquistata dal Ministero per la Pubblica Istruzione per la Pinacoteca di Brera.

E’ datato 1870 il famoso Ritratto di Die-go Martelli allo scrittoio (fig. 2): Martelli, quasi un moderno S. Girolamo, è rappre-sentato nel suo studio, intento a scrivere. L’atteggiamento pensoso, concentrato, cat-tura l’attenzione dello spettatore. Il colore, tipicamente veneziano, evidente nei tra-passi cromatici, gioca con i toni del rosso, arancio e marrone, mentre la solidità pro-spettica e costruttiva dell’impianto, nonché il taglio ravvicinato che rileva la precisione analitica con cui sono descritti gli oggetti,

deriva dal contatto con i Macchiaioli.Ma qualcosa all’improvviso cambia: il 2

giugno 1874, alle dieci di sera, il Nostro parte per Parigi “colla massima velocità … perchè non avvenga un pentimento che mi faccia piantar radici a Firenze”2.

Quando giunge a Parigi ha poco meno di trentacinque anni ed è un artista affermato e completo con una particolare abilità nel quadro di figura. Restando ancora fedele ai principi del Realismo, esprime il suo ap-prezzamento per gli artisti che presentano un’inclinazione verso quest’ultimo come Corot, Jules Breton, Henry Levy. L’ini-ziale ostracismo verso gli Impressionisti muterà successivamente in un’adesione al movimento e con esso si differenzierà net-tamente il percorso di Zandomeneghi da quello degli ex compagni Macchiaioli per i quali, nonostante tutto, Parigi diviene il punto di riferimento: nel 1875 la città ospi-ta Fattori, Gioli, Cannicci e, soprattutto, dal 1878 Diego Martelli, col quale è d’ob-bligo sottolineare l’assidua frequentazio-ne. Appena Martelli arriva a Parigi, Zan-domeneghi lo introduce negli ambienti da lui frequentati, come il famoso Caffè della Nouvelle Athènes, situato in Place Pigalle, all’angolo di Rue de la Rochefoucauld, nel quartiere di Montmatre, storico ritrovo de-gli Impressionisti.

1. F. Zandomeneghi, Palazzo Pretorio, 1865,

Venezia, Ca' Pesaro.

2. F. Zandomeneghi, Diego Martelli allo

scrittoio, 1870. Firenze, Galleria d'arte moderna di

Palazzo Pitti.

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Silvia Gullì

un effetto di fuga prospettica. Animata dai bambini intenti a giocare, di cui pare udire le voci sonore e squillanti, l’opera offre lo scorcio di un angolo parigino affollato du-rante una tersa giornata di sole. Notevole la resa degli effetti luminosi, grazie all’ado-zione della veloce pennellata impressioni-sta e di ombre colorate. Nuance cromatiche arricchiscono inoltre il selciato grazie ad una minuziosa stesura pittorica, quasi poin-tilliste. Si susseguono Mère et fille (1879), Il Dottore (1881, fig.4), personalissima interpretazione del linguaggio di Renoir, da cui derivano la pennellata mossa e la

Certo gli esordi non furono facili, anche perché a differenza di Boldini e De Nittis non lavorò per Goupil, che tanta parte ha avuto nell’inserire quei due italiens nella vita artistica parigina, ma si dovette accon-tentare di fare il disegnatore di figurini per un giornale di moda.

L’iniziale avversione verso il gruppo francese iniziò a mutare nel 1879, quando Degas lo invitò a partecipare alla quarta mostra collettiva. La Senna, i dintorni di Parigi gli appaiono ora in una luce nuova, emanata dalle opere esposte di Pissarro, Guillaumin, Monet, Renoir e Sisley. Da sottolineare che il senso di insofferenza provato inizialmente nei confronti degli Impressionisti era rivolto sostanzialmente verso il “tecnicismo cromatico-luministico di quegli artisti e verso l’indifferenza alla forma e ai contenuti etico-sociali”3.

Possiamo affermare che fu lo scritto di Duranty4, letto e meditato da Zandome-neghi, ad offrirgli una “visione nuova dell’Impressionismo”, in virtù del fatto che il critico francese sosteneva il valore del disegno come strumento conoscitivo e quindi consentiva al Nostro un approccio più consono alla sua formazione. Egli in-fatti farà sua una personale interpretazio-ne dell’Impressionismo in cui coniugherà i problemi compositivi a quelli cromatico luminosi5. E non sarà un caso, quindi, che in seno al movimento si schiererà dalla parte dei “realisti” o “dessinateurs” fa-cente capo a Degas, contro i coloristes. I temi scelti sono tratti dalla realtà urbana, cercando di salvaguardare la convenienza delle sue figure attraverso l’eleganza del segno. Nel grande dipinto il Moulin de la Galette (1878), considerato il manifesto della sua conversione, Zandomeneghi ri-trae une tranche de vie dove tutto diventa adesione alla modernità, in una costante ricerca di un taglio originale da conferire all’opera d’arte.

Nel 1880 e 1881 Zandomeneghi parte-cipa alla quinta e sesta collettiva degli Im-pressionisti rafforzando così il suo legame col gruppo. Sono anni in cui si situano ope-re straordinarie, tra cui l’emblematica Pla-ce d’Anvers a Parigi (1880, fig.3), consi-derata un capolavoro dell’artista per scelta iconografica e qualità esecutiva. La piazza viene presa dal lato corto, ottenendo così

3. F. Zandomeneghi,Place d'Anvers a Parigi,

1880. Piacenza, Galleria d'Arte Moderna

Ricci Oddi.

4. F. Zandomeneghi Ritratto del Dottore, 1881.

Collezione privata.

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L'impressionismo di Zandomeneghi a Palazzo Zabarella

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, Zandome-neghi consolida sempre più la sua posi-zione all’interno del movimento francese diventando l’interprete di una nuova sen-sibilità femminile e di atmosfere monda-ne: il tema prediletto è quello della figura femminile rappresentata nel chiuso delle stanze; soprattutto dal 1884, dopo la pre-matura scomparsa di De Nittis, egli diven-ta suo erede per l’abilità nell’utilizzare il pastello6: ne è un esempio il Tè, in cui con un originale scorcio ravvicinato rappre-senta uno dei riti mondani prediletti pro-prio da De Nittis: colpiscono la trasparen-za delle carni diafane, l’eleganza dei gesti nonché l’indagine psicologica dei volti, collocati di tre quarti, di profilo, e di spal-le7. Sorprendere un atteggiamento, un ge-sto, diventa il motivo dominante di opere in cui viene catturata l’intimità domestica, come per esempio una donna assorta nella lettura.

Nell’ultimo periodo non vennero meno la creatività e il successo dell’artista ve-neziano. Nel 1911 ha la prima occasione di esporre in Italia, inviando alla Mostra Internazionale di Roma, opere importanti come Il caffè della Nouvelle Athènes e Pla-ce d’Anvers a Parigi. Ma il grande riscatto arriva con l’XI Biennale d’arte di Venezia del 1914.

Continua l’influenza di Degas in ope-re come Femme devant une psyché del 1905-1910, mentre dalla frequentazione con Guillaumin nascerà un nuovo moti-vo, quello della figura inserita sullo sfon-do di un paesaggio campestre, indagato

cromia brillante che accende lo sfondo, su cui spicca il volto bonario del personaggio ritratto, il dottore che aveva in cura l’an-ziana madre dell’artista, trasferitasi con la figlia nella sua casa di Parigi. Sono imma-gini d’intimità domestica come anche La cuisinière (1881) – un insolito ritratto della sorella – , oppure i ritrovi mondani parigini come Al Caffè Nouvelle Athènes del 1885 (fig. 5): Zandomeneghi si ritrae in un an-golo del locale, di spalle, col volto rivolto allo specchio sul fondo, mentre è intento a conversare con Marie-Clémentine, detta Suzanne Valadon, modella di molti Impres-sionisti e madre di Maurice Utrillo, di cui fu la principale maestra. Moderna nel ta-glio fotografico, la composizione è scalata in diagonale, come nei dipinti di Degas; da notare il gioco di riflessi del grande spec-chio che moltiplicano i globi luminosi del lampadario, il tutto eseguito con una pittura a piccoli tocchi che dissolve l’impasto cro-matico in una miriade di frammenti bril-lanti e lucenti mostrando vicinanza con il nascente pointillisme.

Verso la metà degli anni ottanta Zando-meneghi frequenta il giovane Henry Tou-louse- Lautrec, che instradò verso l’Impres-sionismo. Alla collettiva del 1886 espone anche una serie di nudi femminili: La lec-ture (1886), Femme se coiffant (1887), Le tub, Nudo che si asciuga, opere in cui spic-ca la ricerca sulla figura femminile sorpresa in atteggiamenti che fanno parte dell’ordi-naria quotidianità. Vi si respira un’atmosfe-ra intima e cordiale in cui le pose sono colte in una singolare eleganza.

Nel frattempo si infittiscono anche le re-lazioni con Gauguin, Degas e Guillaumin. In virtù di queste frequentazioni Zando-meneghi inizia a provare un interesse per la pittura di paesaggio, originato dalla fre-quentazione della Valle de Chevrienne, a 30 km da Parigi, luogo che sarà di grande importanza per la produzione del decennio successivo, quando molte figure femminili saranno ambientate nella verde campagna di Damiette.

La personale tenuta nel 1893 alla Gal-leria Durand-Ruel consacrava anche il le-game esclusivo del pittore con questa casa d’arte, ed infatti dal 1894 cessa definitiva-mente la sua attività di figurinista per dedi-carsi esclusivamente alla pittura.

5. F. Zandomeneghi,Al Caffè Nouvelle Athènes (La brasserie), part., 1885.

Collezione privata.

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5) F. Dini, Dai Macchiaioli … cit., p. 32.6) I materiali usati preferibilmente da Zandome-

neghi sono la grafite e un carboncino grasso, forse con legante oleoso. Il pastello viene usato umido (con legante ad acqua o su foglio inumidito), tecni-ca adottata anche da Degas. Per quanto concerne il supporto usato da entrambi gli artisti, spesso viene adottata una carta vergata, pesante, dalla resa gra-nulosa, o azzurrina. Il contorno a gessetto nero è utilizzato come griglia di partenza anche nell’uso del pastello e costituisce il primo strato che penetra nel supporto, la carta a grana spessa, dettando an-che l’intonazione cromatica. Si veda: F. Castellani, Un veneziano… cit., p. 17.

7) Il ritratto, di spalle, molto utilizzato in questo periodo, costituisce un’innovazione nell’impian-to tradizionale della ritrattistica, da collegarsi alle incisioni delle riviste che presentano quasi sempre figure di spalla per far vedere al pubblico la parte posteriore dell’abito, importante in quel periodo, in quanto gli abiti sono arricchiti con tournure, pouff… anche Zandomeneghi utilizza di frequente pose di tre quarti e di spalla, sia per la figura intera che per il solo busto, costituendo così dei moduli stilistici molto ripetuti. Si veda: T. Sparagni, L’arte della moda - Donna e moda parigine nell’arte di Zandomeneghi, in Federico Zandomeneghi…, cit., p. 31.

8) La mostra è corredata da un importante cata-logo edito da Marsilio Editori.

en plein air, come in Rêverie, in cui ritrae una giovane donna all’aperto, assorta nei suoi pensieri. La pennellata, rapida e fila-mentosa, imita la consistenza del pastello e fa vibrare di variopinti riflessi le foglie, mentre il tratto diventa più libero a rendere la camicetta di cotone leggero a colori vi-vaci. L’opera si inserisce in quel contesto in cui il mondo femminile diventa sempre più malinconico e sognante, riscattato però da tagli compositivi originali e colori sma-glianti con accordi vivaci e dissonanti.

Il capolavoro di quest’ultima stagio-ne pittorica è Mattinée musicale (fig. 6), esposto per la prima volta in Italia: l’opera rappresenta una riunione mondana in un salotto parigino in cui gli astanti sono in-tenti ad ascoltare l’esecuzione di un brano musicale; attorno al pianoforte si affolla-no giovani donne, dalle ricercate toilettes e uomini vestiti più sobriamente: l’artista riesce perfettamente a ricreare l’atmosfera del momento grazie alla perfetta rappre-sentazione di stati d’animo differenti.

A chiusura del percorso dell’artista ul-time, ma non meno importanti, le nature morte: composizioni con le mele, dove poteva confrontarsi con i celebri dipinti di Cézanne nella ricerca del volume, come in pommes et oeufs rouges del 1916; ma an-che composizioni di fiori, in rapporto con la figura o da soli: con una grazia tutta par-ticolare l’artista alterna pennellate lunghe a tratti sottili e minuscole virgole, creando una stesura pittorica personalissima che ac-centua l’intensità cromatica e la vaporosità del fiore, visto anche come simbolo della brevità e della fragilità della bellezza8.

l

1) “Fui iniziato all’arte nella vita di famiglia nello studio di mio padre e poi all’Accademia di Venezia e poi guardando intorno a me…” Dai Macchiaioli agli Impressionisti. Il mondo di Zandomeneghi, a cura di Francesca Dini, Pagliai Polistampa, Firenze 2004, p. 10.

2) F. Castellani, Un veneziano a Parigi, in Fe-derico Zandomeneghi. Impressionista veneziano, Mazzotta, 2004, p. 11.

3) F. Dini, Dai Macchiaioli … cit., p. 32.4) E. Duranty, La Nouvelle Peinture, A propos

du groupe d’artistes qui espose dans les Galeries Durand-Ruel, Dentu, Paris 1876, p. 18.

G.B. Morosinsu cartone di A.E. Paoletti,

Resurrezione di Gesù, 1895.

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6. F. Zandomeneghi, Mattinée musicale

(1895-1900), coll. privata.

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La mia Padova...

La mia Padova...Ferdinando Camon ha saputo descrivere, con uno sguardo al tempo stesso lucido e partecipato, sia il mondo della campagna veneta (a partire dal suo primo romanzo del 1970, Il quinto Stato, e poi in particolare con Un altare per la madre del 1978) senza nostalgia né autocompiacimento, sia quello cittadino con la sua violenza esplicita o sotterranea (Occidente del 1975 e Storia di Sirio del 1984, fra gli altri). Non è possibile in queste note minime dare conto della ricca e articolata produzione letteraria di Camon. Non va, comunque, passata sotto silenzio la sua attività di acuto commentatore delle vicende italiane in vari quotidiani nazionali e locali.

Ferdinando Camon mi riceve nella sua casa colma dovunque di libri con una cordialità senza affettazione. Seduto comodamente nella poltrona del suo studio, accetta di rispondere ad alcune domande sulla sua vita a Padova. Anche se sembra voler controllare ogni singola parola, il suo discorso, condotto sul filo della memoria, scorre fluido e avvolgente, come un racconto sapientemente costruito, eppure confidenziale. Camon inizia ricordando il suo arrivo a Padova da studente universitario e poi non si nega alle altre domande. (L’intervista è stata raccolta da Mirco Zago).

Io non faccio vita cittadina. Ho studiato a Padova, dove ho fatto l’università, e sono stato favorevolmente colpito al primo impatto, perché venivo dal liceo classico di Legnago, in provincia di Verona. Quattro mesi dopo aver pagato le tasse universitarie, queste mi sono state restituite. Ho frequentato l’università di Padova con molta assiduità, ma all’esame il professore diceva: “E questo da dove viene fuori?”. Questa è una specie di maledizione che mi porto addosso: nessuno mi nota. L’università aveva (e ce l’ha ancora) questa iniquità: per sentire un’ora di lezione, io partivo dal mio microscopico paese a sud di Montagnana, andavo in bicicletta a Montagnana, pigliavo un treno e ci voleva un’ora, seguivo la lezione e poi facevo il percorso inverso per tornare a casa o mi fermavo a mangiare in una trattoria dalle parti della Cappella degli Scrovegni, che si chiamava “Storioncino”. Era una fatica enorme solo per seguire una lezione e il giorno dell’esame, dopo ore di viaggio, trovavo una lunghissima lista di prenotazione riempita da padovani. Io, che sono maoista, proporrei che i voti dei figli di contadini come me fossero moltiplicati per tre. Padova era allora una città chiusa. Ho sempre sentito questa separazione tra l’università e la città: la prima fa una cultura alta, ma che non è in osmosi con la cittadinanza, che non è acculturata. A causa di questa frattura non c’è militanza culturale e letteraria. Anche oggi sono in contatto con scrittori come Romolo Bugaro, Matteo Righetto, ma la città non fa nulla per noi. La città, allora come oggi, soffre di una arcaicità di fondo: ha un cattolicesimo arcaico, un comunismo arcaico, una destra arcaica,

non ha modernità. Soffro di questo. La mia immersione culturale nella città avviene quando il sabato vado al cinema. Il cinema è un prodotto culturale degno di essere visto perché ogni film è comunque il frutto di un gruppo di cervelli. Ecco, Padova per il cinema funziona bene. Anche le librerie funzionano bene. Quando ero studente, andavo a comprare libri da “Draghi”, compravo i libri delle Belles Lettres e della Bibliotheca Oxoniensis, che la libreria faceva arrivare in modo veloce.

Non sono mai stato distaccato, però, dalla città. Ho vissuto gli anni della violenza di destra e di sinistra. La destra mi ha spesso sabotato: mi hanno messo lo zucchero nell’olio dell’auto, cani morti in garage. La sinistra mi processava: i “compagni” venivano in queste stanze a processarmi per degli articoli che avevo scritto nei giornali italiani. Non dicevano il loro nome, ma su mia preghiera si sedevano sempre agli stessi posti in modo che io potessi chiamarli compagno A, compagno B, compagno C: erano violenti e insultanti, ma a parole. Ce n’era uno, biondo, dall’espressione spiritata, che fu poi coinvolto con le Brigate Rosse, e credo che abbia ucciso un carabiniere. Durante i miei anni di insegnamento, un collega fu condannato per la sua attività con Potere Operaio, fu incarcerato e dovette rimanere senza stipendio, pur avendo moglie e figli. Io riuscii a far avere mensilmente alla sua famiglia da parte di Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi e altri scrittori una somma pari allo stipendio. La moglie, quando il marito uscì di prigione, restituì i soldi che aveva avanzato. A me sembrava che il lavoro del mio collega non fosse violento, altrimenti non mi sarei mosso. La cultura di destra a Padova aveva il suo centro nella libreria “AR” che era vicina al Liviano e dove ho trovato un libro che spiegava il diritto di fare una strage. Io ho riportato quelle motivazioni in un mio romanzo, Occidente, di cui alcune pagine furono ricopiate da una cellula di destra che fu condannata per la strage di Bologna. I miei rapporti con la città di allora sono segnati da queste violenze e dai miei sforzi di liberarmene scrivendone. Quando vado a Bologna a trovare mio figlio e uscendo dalla stazione vedo la lapide col lungo elenco dei morti, mi dico che per loro, raccontando le motivazioni

diFerdinando Camon

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Elena Daniele

siano diversi. Perché esistesse una continuità, bisognerebbe che le figure potenti nella narrazione di uno fossero le figure potenti nella narrazione di un altro: ma così non è. In questi anni l’uomo, Dio, il mondo sono cambiati.

Qui a Padova a me piace molto via san Francesco, che percorro molte sere. Lavorando molto a casa, ho poi bisogno di fatica fisica; per questo ho comprato delle cavigliere di piombo con cui passeggiare. Via san Francesco ha cupolette illuminate da faretti gialli che danno un’atmosfera un po’ mistica. Da lì sbuco nelle piazze dominate dalla bellezza del palazzo della Ragione. Il direttore della francese Gallimard, che ha tradotto i miei libri, quando ha visto il palazzo, ne è rimasto incantato. Passeggio quotidianamente ancora, ma non uso più i piombi che mi rallentano (ma dovrei forse recuperarli).

La campagna di oggi non è più quella che ho raccontato. Quando ero giovane andavo a pescare e prendevo un sacco di pesci. Oggi quel fiume non ha più pesci. La campagna è passata dall’aratro trainato dai buoi al trattore. Un tempo nel Veneto dominava il bizzarro e meraviglioso trattore Landini, con un solo cilindro e con l’avviamento a “testa calda”, con una coppa che andava arroventata e su cui una pompa spruzzava la nafta. Ora hanno levato i grandi filari d’un tempo. L’agricoltura è diventata fortemente intensiva e il lavoro è più sicuro e moderno. Non c’è più il feticismo d’un tempo, con cui il contadino pensava di proteggersi dalle intemperie. Un tempo la campagna era bella perché selvaggia. Oggi si è desertificata. Quando andavo in bicicletta dal mio paese a Montagnana, c’erano nuvole di insetti che ti costringevano a fermarti. Ora non più. Quel mondo era poetico, ma il rimpianto di quel mondo ce l’ha solo chi non c’è mai vissuto. C’erano le malattie, le dita si riempivano di geloni, si pativa il freddo, non c’era acqua corrente, il cibo era grezzo e non sano. Una vita in cui a letto alla sera si vedeva il soffitto luccicare pieno di ghiaccioli non può essere oggetto di rimpianto.

I libri, le poesie, i premi in dialetto sono delle totali assurdità. Io sono nato nel dialetto, ma allora era la lingua del mondo. Agli oggetti del mondo dialettale si sommarono quelli del mondo industriale. Facevamo il bagno con il sapone fatto in casa (il saon), che aveva una grande potenza sgrassante ed era inodore; poi arrivò il sapone Palmolive. Mio padre, alla sera di ritorno dai campi diceva: “Dame il saon” e si lavava le mani sporche del lavoro dei campi; poi diceva: “Dame il sapone” e le profumava con il Palmolive. Quella dialettale e quella italiana non sono due parole diverse che indicano la stessa cosa, ma due parole che indicano cose diverse. Le cose del mondo dialettale non ci sono più. Parlare in dialetto oggi trovo sia una vezzosità che può dare persino fastidio.

profonde di chi quella strage ha compiuto e per essa è stato condannato, ho fatto quello che potevo, anche se credo che quelli che sono stati condannati non c’entrino. Ritornando alla Padova degli anni settanta, chi non vi ha vissuto non può neanche capire com’era melmosa, vischiosa, non può immaginare il clima di violenza.

La città ha avuto poi altre fasi. Padova si è impoverita, si è internazionalizzata, ma il cattolicesimo e la sinistra sono sempre quelli, molto rétro. Io ho sempre pensato che il problema del Nordest sia la scarsa informazione, la mancanza di un grande medium di informazioni come quelli del Nordovest. Con Giovanni Valentini, che era stato direttore dell’Espresso, studiammo in questa stanza il progetto di un giornale-madre, Il Mattino di Padova, che avrebbe dovuto fare da modello a molti giornali nelle Tre Venezie con le prime pagine identiche: sarebbe stato uno strumento formidabile. Ma il progetto non si realizzò perché la repubblica, che era il giornale “madre”, diventando il primo quotidiano nazionale, si disinteressò della stampa locale. Se ci fosse un grande giornale nel Veneto, nel Friuli e nel Trentino, i problemi della nostra regione sarebbero meglio conosciuti. Io ho sempre sognato di vivere in una città in cui poter, dopo la mia attività di scrittore, uscire di casa e recarmi in una redazione di giornale o di una grande casa editrice dove discutere di ciò che succede a Londra o a Parigi. A Padova non è successo. A Padova qualcosa del genere avrebbe potuto essere la Marsilio, ma non lo è diventata. Io mi sento orfano così.

Romolo Bugaro è uno scrittore geniale. Descrive un mondo a me ignoto, un mondo che ammiro e temo, quello della grande industria. Io ammiro i suoi libri. Matteo Righetto è più vicino a me, perché racconta il mondo della natura. La pelle dell’orso è un romanzo di iniziazione: la caccia all’orso sta al protagonista del romanzo di Righetto come la linea d’ombra sta al protagonista di Conrad. Ci sono effettivamente grandi scrittori nati in area veneta: oltre ai due appena citati, Marco Franzoso, Mauro Covacich, Gian Mario Villalta. Ho sempre sperato che nascesse una grande letteratura qui, ma in realtà questi scrittori sono in qualche modo degli emigranti: uno scrittore che nasce a Padova, ma pubblica a Milano o a Torino è un emigrante. Io non credo al concetto di eredità letteraria, perché il figlio che è il tuo continuatore, deve diventare il tuo killer. Io passo per essere un figlio di Pasolini, ma non ho fatto altro che trovare gli errori di Pasolini. Bugaro, Villalta e gli altri scrittori hanno un mondo nuovo che fanno apparire e che io guardo con ammirazione. Se posso, io li aiuto, perché, anche se i giovani scrittori sono i tuoi killer, hai il dovere di aiutarli, se riconosci in loro delle qualità. D’altro canto il Veneto è cambiato ed è giusto che i nuovi scrittori

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seggio, di amori, di alberi e piccoli orti, di pescatori con la canna – e di qualche grosso topo». Tra le cose che finiscono, il narratore regi-stra anche un certo teatro di primi attori (ricordiamo che Scabia è stato tra i pro-tagonisti dell’avanguardia teatrale), con l’emblemati-ca e commovente cerimonia d’addio della grande Emma Gramatica al Verdi, in quel 1953, l’anno della morte del compagno Stalin, «padre dei lavoratori del mondo».

Il racconto degli anni che seguono – dalla contestazio-ne politica all’azione vio-lenta, alle stragi – documen-ta quello che succede nel Paese e in città o cui vanno incontro i personaggi, fitti-zi o reali, ben riconoscibili, anche se Scabia ne mime-tizza o storpia i nomi (come quello dell’editore «saltato per aria», che diventa Vighi); compresi l’esecuzione bri-gatista «in un’antica via di Pava» e il rapimento e l’uc-cisione dell’ingegnere del Petrolchimico. La sintesi efficace della «bella Pava ormai in mano ai diavoli» finisce per ricordarci, all’op-posto, quanto carente è stata la riflessione su quel periodo (se si eccettua Occidente, il “romanzo” del 1975 di Fer-dinando Camon) e quanto veloce la rimozione, mentre

reduci o pentiti della «Lotta Armata» (così è designata nel romanzo la varietà delle sigle del terrore) si ritrovano tutti insieme a vendemmiare sui colli (o a scrivere apolo-getiche autobiografie)!

Su questo sfondo storico – scandito nelle schede, didat-tiche ma forse ridondanti, di un’appendice che inizia con «1953: la rivolta di Berlino» per concludersi con «2001: Settembre, fantastica visio-ne» – avvengono l’educa-zione e la ricerca amorosa della protagonista, tanto da configurarsi come gli episo-di di una Ars amandi, a volte esplicita («cominciò a sus-sultare – tutta aperta all’uo-mo che le dava piacere – e poi si quietò»), altre tenera, con rinvii alle vicende del padre Lorenzo, del figlio Alessandro e della nipote Irene Cecilia.

Ambizioso, spavaldo, tal-volta ingenuamente senten-zioso (come nelle rubriche in versi dei capitoli: «Vanno i millenni – noi li raccontiamo / fogli volanti siamo – foglie al vento…»), ma sempre sti-molante (anche nella stram-palata etimologia di “filo-sofia” da filò, che ricorda quelle di Isidoro di Siviglia), quest’ultimo romance sca-biano tenta la conciliazione di vita e morte, al punto che si può azzardare che L’azio-

PADOVA, CARA SIGNORA...

Giuliano ScabiaL’azione perfetta(ciclo dell’eterno andare) Einaudi, Torino 2016, pp. 242.

Come il loro autore sono anche i protagonisti dei romanzi di Scabia: si pon-gono alti e difficili obiettivi che nel corso della narrazio-ne, che è la loro vita, devono riuscire ad adempiere. Così è per Sofia in questa Azione perfetta: testimone dell’as-sassinio di un prete nei giorni convulsi della guerra civile, quando viene fucila-to un giovane partigiano per questo delitto, la bambina si assegna il compito di sco-prire se era la persona giu-sta. Mentre l’identificazione sarebbe facilmente risolta dal confronto con una foto-grafia, ben più difficili sono per l’eroina gli altri compi-ti, cioè ritrovare Lorenzo, il padre violoncellista, e «vin-cere la morte», perché gira-no attorno al nodo che, per-sino nelle fiabe, si chiama dei “compiti impossibili”. Ma i lettori di Scabia sanno che la soluzione è sempre meno importante della ricer-ca, che la meta spesso non è all’altezza del cammino o «eterno andare», il tema enunciato dal sottotitolo di questo terzo episodio del ciclo iniziato nel 1990 con In capo al mondo.

Il cammino di Sofia ini-zia con l’avventura dello sfollamento dalla bella Pava (così sempre è designata la città, co-protagonista più che sfondo della vicenda) verso la campagna e continua per tutto il resto del Novecento, la cui Storia spesso tragica è lo sfondo della storia della protagonista e dei suoi coe-tanei: tra Pava, l’Italia e il mondo, dagli scontri tra cat-tolici e comunisti veneti fino al crollo dei regimi comu-nisti, con una concentrazio-ne sugli anni di formazione-maturazione della ragazza, che corrispondono alle sta-gioni dell’ideologia, fino all’estremismo (di destra e di sinistra) e al terrorismo (dal 1960 al 1980).

I “cicli” romanzeschi di Scabia – di Nane Oca e questo, di Lorenzo e Ceci-lia – si caratterizzano per la prosa ritmica (esaltata nella lettura a voce alta, praticata dallo stesso autore) e, stili-sticamente, per una sintassi

elementare, per la presenza quasi fisiologica del dialet-to veneto, senza sottoline-ature (ma non «fóra pàea frégoea», per piacere!), e per l’abbondanza di dialoghi, tra il quotidiano e il sentenzio-so, la banalità e l’aforisma. Dialoghi che qui si arricchi-scono delle diatribe, degli scontri tra due personaggi, «l’arcangelo dagli occhi rossi» e «l’arcangelo dagli occhi celesti», testimoni e commentatori dell’azio-ne, che – per la loro dupli-ce e opposta natura ange-lica – privilegiano il bene o il male, con una sorta di obbligato gioco delle parti che ha la sua origine in una volontà superiore, divina o piuttosto demiurgica. Que-ste presenze ricordano tanto la congiunzione tra tenebre e luce, che è alla base del dualismo gnostico, quanto le figurine di angelo e diavolo che si trovano nei romanzi di Guareschi e nei fumetti di Jacovitti, due autori di metà Novecento che Scabia cono-sce bene.

L’educazione di Sofia è quella della sua generazio-ne (e dello stesso Scabia), con le infinite discussioni di politica e le esperienze amorose, mescolate insie-me, tanto che desiderio e amore, rivoluzione e verità appaiono come argomenti per giovani uomini e donne che filosofeggiano men-tre cercano di accarezzare o di respingere le carezze. «Il paesaggio è come l’ani-ma» dice una ragazza men-tre cammina tra le rovine del convento sul Venda ma poche pagine dopo, nono-stante il parere dell’«urba-nista» (Cervellati), in città si compie «lo scempio delle acque» (il tombinamento dei canali) e così si perdono «le riviere, i luoghi di pas-

Primo piano

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ne perfetta corrisponda a Un altare per i morti di Henry James, cioè a una specie di pantheon dei santi laici (tra i quali è il Berlinguer che viene a morire a Pava) e degli illusi del secolo scor-so. Attraverso una «rete universale» di simboli, cre-denze ed errori si arriva alla conclusione che «la memo-ria contiene tutto» – come dice un vecchio prete a Sofia – «è luminosa, oscura, piena di nodi non risolti, di abissi, di esseri insondabili».

E, finalmente, la protago-nista ritrova il padre, nella figura dell’arcangelo che la solleva in un luogo sospeso e illuminato, “tra le coppe dei monti e del mare”, poi-ché questa è la rivelazione dell’azione perfetta; accetta-re la morte, la propria morte, equivale a vincerla.

Luciano Morbiato

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di un “dopo” che negli anni Trenta e Quaranta, dominati da totalitarismi e autorita-rismi, sembrava utopistico ipotizzare: da qui il “ruolo di cerniera da lui esercitato tra la dirigenza popolare e la successiva classe dirigente democristiana” (p. 308).

Finita la lettura, le linee-guida del pontificato di Paolo VI emergono più chiare, a distanza di quasi quarant’ anni e al di là delle polemiche pretestuo-se o chiassose che spesso lo accompagnarono.

Siamo in grado di valutare meglio la fermezza dottrina-le del Pontefice – così l’en-ciclica Humanae vitae – la sofferenza del pastore che cercava di evitare spacca-ture all’interno della Chie-sa, in quegli anni Sessanta e Settanta particolarmente turbolenti anche all’interno dell’universo ecclesiastico, la conclusione del Conci-lio Vaticano II nel rappor-to fra rispetto della tradi-zione e dialogo col mondo contemporaneo, la apertu-ra al dialogo con la Chiesa d’Oriente, la visita in Ter-rasanta, l’enciclica Nostra aetate che segnò una svolta nei confronti dell’ebraismo, l’accorato appello rivolto all’Assemblea delle Nazio-ni Unite (“mai più guerra”), la Ostpolitik vaticana e l’in-tuizione, anch’essa profeti-ca, che il futuro del mondo sarebbe stato caratterizzato non dallo scontro fra l’Oc-cidente capitalistico e il comunismo sovietico, ma dalle tensioni fra un Nord del mondo, ricco e progredi-to, e un Sud povero di risor-se umane e materiali (così l’enciclica Populorum Pro-gressio). Insomma il Papa dimenticato, schiacciato fra il cosiddetto Papa Buono e la carismatica personalità di Giovanni Paolo II, anche grazie a questo libro, riemer-ge come una figura di altis-simo spessore umano e cul-turale, così che si capiscono le parole di Giovanni Paolo I, suo successore per brevis-simo tempo, che, salendo al Soglio di Pietro nel settem-bre 1978, ammise umilmente di non avere la cultura di Paolo VI.

Per finire una pignolesca osservazione su una svi-sta dell’autore: p. 128 “nel 1920, in occasione dei mil-lecinquecento anni dalla nascita di S. Girolamo (347-420)...” si tratta evidente-mente dei 1500 anni dalla morte; una lamentela sui

molti errori di stampa (anche in parole latine, p. 13-32, o straniere, Kulturkampk anzi-ché Kulturkampf), imputa-bili probabilmente alla fretta della casa editrice.

Minuzie però, in un testo interessante, scritto con lo stile rigoroso del saggio sto-riografico e al tempo stes-so immune da compiaciuti tecnicismi, accurato nella documentazione e in grado di fornire anche ai non spe-cialisti un’ampia panoramica sul Novecento italiano.

Fabio Orpianesi

Antonio Olivato (pseud. Toni Martin)ViLLa eStenSepersonaggi ed atmosferedella seconda metàdel novecentoEdizioni Papergraf, Piazzola sul Brenta 2016, pp. 103, ill.(Melagrana - Quaderni di storia locale. Gruppo Bassa Padova-na - Museo civico dei villaggi scomparsi).

Il libro va considerato come un piccolo dizionario degli aneddoti e delle curio-sità di Villa Estense: una sorta di breviario di cultu-ra locale in cui ogni singo-la notizia è frutto esclusivo della memoria dell’autore. Unica eccezione alla regola dei dizionari è che le singole voci non si trovano disposte secondo l’ordine alfabetico ufficale, ma obbediscono a un diverso criterio, che si suppone sia l’ordine crono-logico in cui i cinquantot-to frammenti della raccolta apparvero, uno dopo l’altro, nel giornalino parrocchiale La Campana.

Si tratta dunque di una ristampa di testi pubblica-ti in precedenza. E l’idea di riproporli tutti insieme, riu-niti in un dignitoso volumet-to, realizzato con discreto gusto editoriale, impedirà la dispersione di un prezioso corredo di notizie sull’uma-nità e sulle istituzioni del paese. È un libro davvero piacevole e si farà leggere volentieri anche da coloro che non conoscono questa cittadina ai confini della pro-vincia, e che tuttavia apprez-zeranno la prosa fluida e misurata dello scrittore e saranno in grado di cogliere una quantità di spunti inte-ressanti dalle descrizioni e dalle riflessioni che l’autore fa sui personaggi del posto (persone uniche, nel loro genere, dai caratteri irripe-

Lorenzo CarlessoDaLLa BreScia cat-toLica aLLa curia romana Di pio XiL’itinerario biografico di Giovanni Battista montini (1897-1939)Cleup, Padova 2015, pp. 348.

L’amico Lorenzo Carlesso – nel risvolto di copertina un sintetico profilo della sua attività di studioso – riper-corre con grande precisione archivistica, documentaria e bibliografica la formazione di Giovanni Battista Monti-ni, il futuro Paolo VI, Pon-tefice dal giugno 1963 all’a-gosto 1978. Ma al di là dei dati biografici – nascita ed educazione in una famiglia colta e benestante della Bre-scia cattolico-liberale, pre-coce vocazione, ordinazione sacerdotale nel marzo 1920, rapido ingresso nel servi-zio diplomatico della Santa Sede, ruolo di assistente spi-rituale della FUCI, la federa-zione degli universitari cat-tolici, fra il 1923 e il 1933, impegno sempre più inten-so nella segreteria di Stato vaticana (1925), a stretto contatto prima col cardina-le Gasparri, poi col cardi-nale Pacelli, futuro Pio XII, nomina ad arcivescovo di Milano nel 1952 – il libro ci dà uno spaccato di vita della Chiesa in Italia e in Europa, con uno sguardo particolare alle vicende del movimento cattolico italiano.

Così ripercorriamo i dif-

ficili rapporti fra laici e cat-tolici – il padre di Montini è deputato cattolico-liberale e dopo la Grande Guerra deputato del Partito Popo-lare – nella Brescia domi-nata dalla figura di Giusep-pe Zanardelli, uomo di alta cultura e civiltà giuridica, ma anche di intransigen-te laicismo, il progressivo attenuarsi dello scontro fra Chiesa e Stato, le incertez-ze nei confronti del fasci-smo da parte della gerarchia ecclesiastica e del mondo cattolico, entrambi divisi fra un’ala disposta a collaborare col regime e un’ala intran-sigente; poi il consolidarsi della dittatura, la progressiva emarginazione dei Popola-ri, il Concordato e il succes-sivo scontro col fascismo, intollerante di altre “agen-zie educative”, quali l’Azio-ne Cattolica e la FUCI, che si ponessero al di fuori del regime.

La ricognizione dell’Au-tore si estende poi ai molti problemi di politica eccle-siastica europea che G.B. Montini vide o visse dall’os-servatorio privilegiato della diplomazia vaticana nel periodo fra le due guerre: così le vicende del cattoli-cesimo nella neonata Polo-nia, la triste sorte dei catto-lici nella Russia bolscevica, stretti fra l’ateismo di stato e l’intolleranza delle residue gerarchie ortodosse, l’indi-viduazione pressoché imme-diata da parte della Chiesa della natura intrinsecamen-te pagana, anticristiana e addirittura antiumana del nazionalsocialismo, i diffici-li rapporti con gli ortodossi in Grecia, le scelte dramma-tiche derivanti dalla guerra civile di Spagna, fino alla seconda guerra mondiale e agli enormi problemi che ne derivarono.

Della formazione e dell’at-tività sacerdotale di Montini sono sottolineati in partico-lare il suo interesse per i pro-blemi della scuola (singolare la sua vicinanza al pensiero del laico Giovanni Gentile, p. 117), l’insistenza sulla formazione culturale dei cat-tolici nel “confronto con la cultura moderna” (p. 182), la sua sostanziale sintonia con l’altrettanto laico Benedetto Croce nel giudizio sul fasci-smo (p. 310) come malattia morale della nazione e la sua intuizione, si direbbe quasi profetica, della necessità di preparare una futura clas-se dirigente cattolica, colta e aperta al nuovo, in vista

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to, dalla maggior parte delle scuole italiane. La circostan-za appare deplorevole se si guarda alle facoltà giuridi-che universitarie dove l’eti-ca pubblica – o etica istitu-zionale – dovrebbe costitu-ire una disciplina di centrale interesse. Mentre invece, nella realtà, si constata più o meno l’opposto.

Da qui l’idea, maturata nell’ambito dell’Associa-zione per il Bene Comune (sorta a Padova nel 2014 ad opera di Angelo Ferro e Umberto Vincenti), di una raccolta antologica che proponga una facile lettura di alcuni passi significati-vi tratti da autori antichi e moderni che abbiano varia-mente affrontato il tema dell’etica (da Platone a John Rawls, da Lattanzio a John Locke, da Cicerone a Ronald Dworkin). Si tratta di brani scelti ed introdot-ti da esponenti del mondo accademico e da specia-listi del diritto. Al proget-to, coordinato da Giorgia Zanon (del Dipartimento di Diritto Privato e Critica del Diritto dell’Università di Padova), ha contribuito un discreto numero di docenti, di ricercatori e di avvocati, in massima parte studiosi di ambiente patavino: Mario Bertolissi, Francesca Cavag-gioni, Paolo Moro, Luca Fezzi, Francesca Zanetti, Andrea Pin, Giovanna Tie-ghi e Chiara Valsecchi.

Un’iniziativa meritevole quella intrapresa da Giorgia Zanon e dal suo gruppo di collaboratori: un libro che si consiglia ai più sensi-bili cultori del diritto e ai più seri professionisti, ma che si raccomanda in primo luogo agli studenti: perché l’esigenza di riconsiderare i valori dell’etica pubbli-

tibili), sui luoghi tipici, su vicende e circostanze memo-rabili.

Era comunque necessario che qualcuno, fra le perso-nalità di Villa Estense, pro-vasse a raccontare lo spirito del luogo. Antonio Olivato – per gli amici Toni Martin – ci è riuscito a meraviglia, componendo queste pagi-ne con brio, con passione e sensibilità. E con quel po’ di nostalgia che assolutamente non guasta.

Paolo Maggiolo

Enrico Pietrogrande mario De’ Stefani (1901-1969) architettura tra Veneziae l’adigeGangemi editore, Roma 2016, pp. 160.

Enrico Pietrogrande è tra i più attivi studiosi che scan-dagliano le vicende architet-toniche del nostro territorio.

Con questo nuovo libro l’Autore ci offre una indagi-ne rivolta a Mario de’ Stefa-ni, un protagonista singolare dell’architettura del territo-rio Padovano e del Veneto meridionale. Nato a Legnago (Verona) nel 1901 de’ Ste-fani si diploma come pro-fessore di Disegno presso l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, attivandosi come libero professionista già a vent’anni. Iscritto all’Albo degli Architetti solo a partire dal 1938 (in questo simile ad altra figura emblematica dell’Architettura Padovana: Quirino De Giorgio), opera in collaborazione con nume-rosi professionisti quali l’ar-chitetto Gildo Valconi e gli ingegneri Aldo Chieregato, Ettore Munaron, Giuseppe Bettio ed altri. In tali colla-borazioni de’ Stefani è quasi sempre l’interprete primo del progetto, che definisce

distribuzioni planimetriche degli ambienti e i prospet-ti degli edifici, vale a dire in tutto ciò che riguarda la composizione architettonica.

Nei quasi settant’anni di vita de’ Stefani attraversa periodi e culture diverse, che interpreta con approccio pragmatico: il Classicismo di inizio Novecento caratte-rizza le sue prime opere (il concorso per il Ponte della Vittoria di Venezia o l’Ippo-dromo di Rovigo); l’Eclet-tismo Storicista si manife-sta in “Villa Muneghina” a Padova, per poi mutare lo stile verso un Modernismo “ponderato” (Palazzo in Corso del Popolo a Padova). Ma de’ Stefani si fa influen-zare anche da tardi echi Art Nouveau (fabbricato al Bas-sanello) oppure da conta-minazioni dell’Architettura tradizionale tedesca (Villa a Legnago).

Le opere più interessanti, però, appaiono allo scriven-te quelle nelle quali Mario de’ Stefani meglio sposa la propria cifra compositiva dai forti contrasti chiaroscurali con figurazioni semplificate dei volumi edilizi, al limite della stereometria: ad esem-pio nella Torre ai Caduti di Legnago e soprattutto nella “Casa dello Studente Arnal-do Fusinato” del 1932-35 (prima stesura più che nel progetto realizzato, che subi-sce un sovralzo nel secondo dopoguerra per mano di Giu-lio Brunetta, il quale elimina il tetto-terrazza che correva continuo sui corpi di fabbri-ca). Opera che indica un’a-desione ad un Razionalismo Monumentale, frutto della “semplificazione” decorativa richiesta dal regime fascista e che l’autarchia imponeva, al fine di limitare e supplire ai costi dei materiali edili-zi. In questo edificio è pre-sente un pregnante dialogo tra la verticalità della torre d’angolo (nella quale è col-locato il vano scala che a sua volta è percorsa in mezzeria da una vetrata senza inter-ruzioni) con la distribuzione orizzontale dei fronti verso gli impianti sportivi e verso strada, accentuanti dai mar-capiani (unica flessione decorativa).

Decisamente vicini al Razionalismo Tedesco e al Neoplasticismo le opere che seguono: i progetti per i Caselli Autostradali di Pado-va e Venezia, le Case del Fascio di Torreglia e Granze che aprono all’ultimo perio-do di de’ Stefani, operan-

te dal secondo dopoguerra per lo più ad Abano Terme. Proprio ad Abano si trovano gli esempi di mediazione e di sintesi tra tutti i “parla-ti” dell’Architetto, che ben miscela la semplificazione linguistica dell’International Style al Monumentalismo, mai abbandonato, e all’uso del simbolico. Interessante e bella, seppur nell’attuale abbandono la “Colonia diur-na” di Abano Terme (1938), tanto quanto, a seguire, l’e-dificio sede dell’Azienda di Cura, dove il plasticismo della cerniera curva tra i fronti si sposa con un accen-tuato chiaroscurale del porti-co che si snoda su entrambi i fronti e si chiude su stra-da con archi a tutto sesto poggianti su pilastrini cir-colari binati. Nemmeno nel cinema-teatro delle Terme il Classicismo è dimenticato, con la forte simmetria dei fronti del seppur del tutto diverso rapporto dei pieni e dei vuoti, con quest’ultimi che ora dominano la compo-sizione e con il vetrocemen-to utilizzato per accentuare il carattere di leggerezza delle facciate. Sicuramente sensibile alla lezione di Ter-ragni il progetto per l’Isti-tuto Alberghiero, sempre ad Abano.

At t raverso la le t tura che Enrico Pietrogrande dà dell’opera di de’ Stefa-ni diventa nitido un pezzo importante di Storia dell’Ar-chitettura che ha segnato, e segna, il nostro territorio e che non può essere omolo-gata o catalogata in modo univoco. Indagine tanto più utile se si considera che tali testimonianze risultano ancor oggi esempi fulgidi di opere costruite con “buona arte” e con poche risorse, ma con grandi risultati formali.

Segnalo, infine, che il libro è strutturato per “sche-de” illustranti cronologica-mente i singoli progetti di de’ Stefani, rendendo effi-cace una lettura anche priva di progressività e permetten-do al lettore anche un uso “manualistico”.

Paolo Pavan

Giorgia Zanon (a cura di)PAGINEDI ETICA PUBBLICACleup, Padova 2016, pp. 184.

Fa notare – la curatrice del volume – che l’etica pubbli-ca è materia oggi trascurata, per non dire ignorata affat-

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ca deve inglobare il piano didattico, nella prospettiva di un ritorno a una cultura giuridica di autentico spes-sore, ispirata a un’adeguata tradizione dottrinale.

Paolo Maggiolo

IncontriiL Liceo ‘nieVo’e La matematica

I l L i c e o s c i e n t i f i c o “Ippolito Nievo” ha avuto quest’anno la grande sod-disfazione di veder com-petere due dei suoi allievi più bravi e dotati, Andrea Ulliana e Linda Friso, in alcune fra le più importan-ti gare matematiche istituite nel mondo scolastico. Dopo prove brillanti sostenute al Romanian Master of Mathe-matics (Andrea Ulliana) e all’European Girl’s Mathe-matical Olympiad (Linda Friso), i due studenti hanno preso parte, il 7 e l’8 mag-gio a Cesenatico, alle Olim-piadi matematiche italia-ne dove Andrea Ulliana si è piazzato al primo posto (ex aequo con uno studente del Liceo Righi di Roma) e Linda Friso ha conquista-to una medaglia d’argento. Due mesi più tardi Andrea

Ulliana ha partecipato anche alle Olimpiadi matematiche di Hong Kong (6-16 luglio) suscitando il legittimo orgo-glio dei propri insegnanti e facendo onore all’Istitu-to che ha garantito, a que-sta giovane promessa delle discipline matematiche, una preparazione di così ottimo livello.

Ulteriore soddisfazione, per il Liceo ‘Nievo’, è stata quella di essere inserito nell’Albo di eccellenza del MIUR a seguito del clamo-roso risultato ottenuto dalla classe III D (unica a pun-teggio pieno su 700 scuole italiane) al noto concorso “Matematica senza fron-tiere”.

Maria Viscidi

notturni D’arte 2016 28 luglio-31 agosto 2016.

Il tema proposto per la trentesima edizione dei Not-turni d’Arte, manifestazione estiva di alto contenuto cul-turale molto apprezzata dai padovani e dai turisti presen-ti in città nel mese di ago-sto, ha preso lo spunto dalle due importanti mostre cura-te da Vittorio Sgarbi, Il San Lorenzo di Donatello, espo-sto al Palazzo della Ragio-ne, e I Tintoretto ritrovati, ai Musei Civici agli Eremita-ni. L’occasione ha permesso d’indagare sul Rinascimen-to padovano, periodo che ha cambiato il volto della città e che l’ha vista protagonista del rinnovamento nei diversi campi dell’arte e della cono-scenza scientifica. All’epoca Padova era una città cultu-ralmente molto vivace, sede di una prestigiosa Universi-tà e animata da intellettua-li e mecenati di fama, come Alvise Cornaro, che ideò l’Odeo e la Loggia Cornaro, nella quale Angelo Beolco, detto il Ruzante, fece nasce-re il teatro moderno, o come l’erudito collezionista Marco Mantova Benavides, che si circondò di letterati e artisti, tra i quali lo scultore fioren-tino Bartolomeo Ammannati.

Nel Quattrocento Dona-tello istituì a Padova una vera e propria scuola di scultura, diffondendo uno stile che si instaurò imme-diatamente nell’ambiente locale e che vide l’afferma-zione del bronzetto, oggetto di piccole dimensioni, cari-co di echi antichi che ben si coniugavano con il gusto antiquario del tempo. Negli anni in cui imperversava il nuovo linguaggio artistico di Donatello, che in tempi recenti ha trovato ulteriori conferme nell’attribuzione del Crocifisso della Chie-sa dei Servi, Andrea Man-tegna si distingueva per la grandezza e spesso l’unicità delle sue composizioni. Non poteva quindi mancare una visita alla Cappella Ovetari nella Chiesa degli Eremi-tani, dove un giovanissimo Mantegna lasciava una delle opere chiave del Rinasci-mento.

Il Cinquecento portò gran-di cambiamenti nell’assetto urbano di Padova, con i pro-getti di Andrea Moroni e di Giovanni Maria Falconetto per l’architettura civile e con gli interventi di Bartolomeo d’Alviano per le strutture difensive. Nel campo delle

arti, la presenza di Tiziano, di Veronese, di Tintoretto contribuì in modo deter-minante al rinnovamento della pittura; le loro opere si distinguevano per la natura-lezza dei fatti narrati e per la creazione di impianti com-positivi equilibrati.

Nell’ambito scientifico occorre ricordare i numerosi studiosi che in città hanno trovato l’ambiente ideale per esprimere e sperimen-tare le proprie idee, contri-buendo allo sviluppo delle conoscenze mediche; cele-bri personaggi, quali Andrea Vesalio, Girolamo Fabrici d’Acquapendente e Gio-vanni Battista del Monte, si sono qui formati e vi hanno insegnato. Lo straordina-rio percorso di innovazione scientifica che dal Cinque-cento ad oggi ha visto pro-tagonista la scuola medica padovana è stato narrato nel corso dell’interessante visita al MUSME, Museo di Storia della Medicina in Padova.

Il ricco programma dei Notturni d’Arte, svoltosi in una trentina di appuntamen-ti, ha previsto anche visite fuori porta per sottolineare l’importanza delle “ville” nella cultura del tempo; villa Roberti Bozzolato a Bru-gine e villa Emo a Rivella erano dimore di campagna realizzate per essere resi-denze adeguate al prestigio del nobile proprietario, ma anche centri di controllo e di raccolta della produzione agricola del territorio circo-stante.

La formula ormai super collaudata della manifesta-zione, con serate trascorse tra visite guidate, spettaco-li, intrattenimenti musicali e conferenze non conosce crisi, visto il successo anche di quest’ultima edizione. La conoscenza e la familiarità dei padovani con la storia e il patrimonio artistico della propria città non si affievo-

liscono infatti con il tempo, ma anzi producono un rinno-vato interesse per gli artisti, gli architetti e gli scienzia-ti che vi hanno lasciato una tangibile testimonianza della propria cultura e della pro-pria sensibilità.

Roberta Lamon

PURPUREAE VESTES(Padova-Este-Altino, 17-20 ottobre 2016)

Dopo il successo del con-vegno internazionale La lana nella Cisalpina roma-na, svoltosi a Padova nel 2012 su iniziativa del Dipar-timento dei Beni Culturali dell’Ateneo patavino, la città ospita nuovamente, dal 17 al 20 Ottobre 2016, un secon-do grande incontro di studio dedicato all’economia tessile nel mondo antico.

Tra Padova, Este e Alti-no si svolgerà infatti la VI edizione del ciclo di con-vegni internazionali Pur-pureae Veste, che in prece-denza ha toccato Ibiza (I, 2004), Valencia (II, 2008; IV, 2014), Napoli (III, 2011) e Barcellona-Monserrat (V, 2014). L’evento si artico-lerà tra l’Orto Botanico di Padova (17 e 18), il Museo Archeologico Nazionale Atestino (il 19) e il nuovo Museo Archeologico Nazio-nale Altinate (il 20). Il sim-posio si concluderà a Vene-zia, con la visita della Tes-situra Bevilacqua, una delle più antiche manifatture tes-sili ancora attive, risalente almeno al XVII secolo.

Maria Stella Busana

MusicaiL Suono moLtepLiceDi anGiuSe L’orcheStra DipaDoVa e DeL Veneto

La cinquantunesima sta-gione concertistica dell’Or-chestra di Padova e del Veneto firmata dal suo direttore artistico e musi-cale Marco Angius si svol-gerà con grande varietà di compositori, periodi, stili e forme. Unica figura ricor-rente sarà Robert Schumann, compositore tra i più rappre-sentativi della molteplicità, con le sue maschere, i suoi personaggi e le sue identi-tà. All’interno della stagione un altro tema frequente sarà quello della rilettura da parte

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di grandi compositori del proprio passato, attraverso trascrizioni, orchestrazioni e rielaborazioni: una vera e proprio moltiplicazione del significato sonoro e musica-le attraverso lo sguardo dei grandi della storia musicale.

“Il suono molteplice” sarà infatti il titolo della stagio-ne, che si aprirà il 22 ottobre sotto la bacchetta di Daniel Kawka, con Anna Tifu al violino. In programma la composizione vincitrice del Concorso Internaziona-le “Nuovo Orfeo” 2016, la suite da La giara di Casel-la e il magnifico Concer-to per violino e orchestra di Sibelius. Il concorso “Nuovo Orfeo” rappresen-ta un importante impegno dell’OPV per i giovani com-positori, offrendo al vinci-tore anche la possibilità di aprire la prestigiosa stagione dell’Orchestra. Il concorso è stato organizzato in collabo-razione con l’Associazione Amici dell’OPV e vedrà una giuria internazionale presie-duta da Salvatore Sciarrino esaminare i lavori di compo-sitori under 35, i destinatari del concorso.

La seconda data il 17 novembre vedrà il direttore artistico e musicale dell’Or-chestra Marco Angius affian-cato dal giovane e talentuoso pianista David Fray nell’ese-cuzione del poema sinfoni-co di Borodin, Nelle steppe dell’Asia centrale, del cele-bre Concerto per pianoforte e orchestra op. 54 di Schu-mann e della Sinfonia n. 9 di Shostakovich.

Il 24 novembre Schumann sarà di nuovo protagonista con la Sinfonia n. 1 insie-me al magnifico Concerto per violino e orchestra di Brahms. Con la direzione di Gérard Korsten suonerà l’a-stro nascente del violinismo internazionale Josef Špaček.

Per il tradizionale Concer-

to di Natale presso la Basi-lica di S. Antonio, Angius ha previsto un concerto particolare, particolarmen-te dedicato alla rilettura dei compositori di autori passa-ti. Così a tre dei Madriga-li di Monteverdi orchestra-ti da Malipiero seguiranno le Variazioni su un tema di Haydn (proprio il corale di Sant’Antonio) di Brahms, i Wesendonck-Lieder di Wagner-Henze e i Tre corali di Bach orchestrati da Respi-ghi. Insieme a Marco Angius si esibirà il mezzosoprano Beatrice Mezzanotte.

Alessandra Canella

euGanea fiLmfeStiVaL15a edizione (30 giugno - 17 luglio 2016), Colli Euganei.

Partita nel 2002 la libel-lula, che è alla base del logo dell’Euganea Film Festival, continua a volare tra i fiori, mentre alla sommità un putto sorveglia una elementare “macchinetta”, come quella dei fratelli Lumière che dal 1895 riprendeva e proiettava le immagini in movimento del “cinematografo”: e così la manifestazione dedicata al cortometraggio e al docu-mentario è arrivata alla quin-dicesima edizione, conser-vando la sua struttura itine-rante e spostandosi nei luo-ghi più suggestivi dei Colli Euganei, da Este a Monse-lice, da Rovolon a Teolo, da Selvazzano a Luvigliano...

I cortili di ville centenarie e castelli, ma anche musei e teatri, si trasformano in temporanee sale di cinema dove vengono proiettati film di pochi minuti e lungome-traggi, nuovi, nuovissimi, provenienti da paesi lontani

o girati appena oltre i coni dei vulcani euganei, di autori sconosciuti, tranne agli spe-cialisti, film altrimenti invi-sibili o difficilmente visibi-li, date le ferree (o bronzee) “leggi del mercato”. Unica eccezione per pochi gloriosi titoli, come Fino all ‘ultimo respiro di Godard (del lonta-no 1960), visto la sera dell’ 8 luglio dagli spettatori seduti sul prato del Passo delle Fio-rine, in ricordo di Piero Tor-tolina, il cinéphile padovano, fondatore di CinemaUno e padre putativo di tutti i cine-asti veneti, da Gianni Mazza-curati a Marco Segato...

Sul documentario e la messa in scena della real-tà, a partire dai Lumière, ha espresso la sua autorevo-le opinione Werner Herzog nel 1999 dal Minnesota («I cineasti del Cinéma Vérité assomigliano a turisti che scattano fotografie tra le rovine dei fatti»), ma il gran-de regista tedesco ha anche offerto esempi di documen-tarismo visionario, da Fata Morgana a Apocalisse nel deserto fino a Grizzly Man, mentre numerosi sono ormai i film che “documentano” la realtà, le molte facce della realtà, dall’orrore all’idillio; e numerosi sono i registi, anche italiani, da Gianfran-

co Rosi (Sacro GRA, Fuoco-ammare) ad Alberto Fasulo (Rumore bianco).

Nell’esedra della sca-mozziana Villa Duodo, che domina dall’alto Monseli-ce, la sera di domenica 17 luglio, dopo l’anteprima del nuovo spettacolo di Marco Paolini (l’Album Numero Primo), sono stati assegnati i premi per le varie categorie, alla presenza di una madrina d’eccezione, l’attrice Clau-dia Cardinale, impegnata nelle riprese del film Nien-te di Serio. Ecco dunque il Palmarès euganeo (con brevi cenni delle motivazioni delle giurie): Miglior Documen-tario Il successore di Mattia Epifani («un uomo si con-fronta col proprio passato e le conseguenze delle sue scelte»); Miglior Cortome-traggio Animato El Mostro di Lucio Schiavon e Sal-vatore Restivo («una sto-ria vera rielaborata con un approccio originale, sia per la scelta grafica che per l’a-nimazione»); Miglior Corto-metraggio Champion dello svedese Mans Berthas («una narrazione costruita sui volti, sui suoni dell’ambiente e sui gesti rituali»); Premio Cine-mambiente Teaching Igno-rance di Tamara Erde (Fran-cia). Altri due premi sono stati assegnati dagli sponsor: Banca FriulAdria (e Parco Colli Euganei) a Nuove terre di Francesca Comencini e Fabio Pellarin (cinque storie vere di lavoro e marginalità in agricoltura, dal Piemon-te alla Calabria); Fondazio-ne Antonveneta (e Veneto Movie Movement) a Revel-stoke. Un bacio nel vento di Nicola Moruzzi (la ricostru-zione di una storia intima, tra Italia e Canada, attraverso foto d’epoca e vecchie let-tere).

Uno dei cinque episodi di Nuove terre, intitolato Le agricole e diretto da Pella-rin, documenta la vita di una cooperativa calabrese, che raggruppa soci diversi, dalle donne rom a giovani “svan-taggiati” o disabili, ed è un esempio di pratiche di colti-vazione e di resistenza (alla tracotanza di criminali locali che danneggiano le primi-zie), che si possono riassu-mere con le parole di Angela, una donna che manovra il trattore come una kolchozia-na: «Uno che è malato della psichiatria, se va nella terra, lui sta bene». Documentare la realtà significa anche dare la parola a questi contadini!

Luciano Morbiato

Cinema

Musica / Cinema

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zione umana) di confini, la scelta di quale porzione im-mortalare appare lampante nella sua centralità.

La rassegna si avvale anche di supporti multimediali onde renderne più agevole la frui-zione.

DanieLa turetta“il paradiso accanto”Galleria Samonà, 25 settem-bre - 1 novembre 2016.

Se la grande stagione del paesaggismo in pittura ha conosciuto il suo declino con l’affermarsi della fotografia, e se, con l’evolversi della tecnica, l’istantanea, sostitu-tiva delle lunghe pose all’aria aperta e successive rielabora-zioni nello studio dell’artista, è divenuta il mezzo più ido-neo a cogliere l’attimo inef-fabile in cui accade l’evento, a immortalare il momen-to più emozionante di una visione, oggi che i più ela-borati cellulari consentono a ciascuno di gestire la propria personale galleria fotografica di immagini e di emozioni, e di condividerle immedia-tamente sui social, che cosa può spingere un artista a cimentarsi ancora con la pit-tura del paesaggio?

Guardando le opere di Daniela Turetta, esposte nella nuova personale dal titolo “Il paradiso accanto”, che l’Assessorato alla Cul-tura del Comune di Padova le ha allestito nella Galleria Samonà, in via Roma 57, una risposta la possiamo forse trovare.

Sono composizioni pre-valentemente orizzontali, di piccolo e medio formato, realizzate con la tecnica a olio su tavola, che ritraggo-no il paesaggio alla base dei Colli Euganei e la luce dei suoi cieli, in momenti diversi del giorno, prevalentemente l’alba o il tramonto, e delle stagioni. Vedute grandango-lari rese in delicati controlu-ce, dove prevalgono, a volte, i toni bassi, smorzati che conferiscono all’atmosfera un senso di sospensione, di attesa; altrove respira un’aria sempre lieve, ma più lumino-sa, serena. Sono immagini di un paesaggio silente, immer-so nella natura, in cui la pre-senza umana è solo lasciata intuire nella fascia dei campi arati o coltivati che apre con i colori vivi di ciascuna sta-gione (il verde, il giallo della primavera, l’ocra, il rosso dell’estate, il bruno dell’au-tunno, il bianco della neve,

MostrefLuXiOratorio di San Rocco, Padova9 luglio - 28 agosto 2016.

Fluxi è un progetto che nasce dal dialogo tra Miran-da Greggio e Paolo Sartori. La loro principale forza ispi-ratrice è l’acqua, elemento di cui il Polesine, loro terra d’o-rigine, è molto ricca, e che rappresentano attraverso due differenti linguaggi espres-sivi: sculture e installazioni per Miranda Greggio, trame tessute e incise per Paolo Sartori. Le loro opere voglio-no mostrare anche il flusso interiore delle coscienze e utilizzando l’installazione e la scultura come fusione e metamorfosi, pensano all’ac-qua come elemento di vita e di positività che porta anche alla scoperta dell’interiorità.

Miranda Greggio si espri-me attraverso il gioiello, la scultura e l’installazione. I temi che indaga sono di carattere spirituale, etico, sociale, ispirati agli elementi naturali.

Paolo Sartori, laureato in Architettura, dopo aver spe-rimentato diversi linguag-gi artistici, dal bronzo al marmo, alla pittura, si con-centra sul tappeto, che diven-ta la sua principale forma espressiva.

Dal 2012 i due artisti con-dividono una feconda inte-sa creativa che li ha porta-ti a esporre le loro opere in diverse mostre a Rovigo e dintorni.

Nella mostra padovana erano presenti sette opere di Miranda Greggio in grande formato, più altre sette scul-ture-gioiello. Paolo Sartori presentava sette tappeti.

Tra le opere presenti se-gnaliamo Reli-acquarium, un pigmento rosso che intende celebrare il viaggio verso i luoghi fisici e mentali dove terra e acqua si incontrano nella loro naturale sacralità; Viriditas, un essenza di colo-re verde simbolo della vita e della natura; il Nidus Aquae, che rappresenta il liquido dal quale siamo nati; e Fluxi, scultura dotata di un instal-lazione luminosa che rappre-senta l’insieme delle energie.

Nel presentare la mostra, il critico Sergio Garbato ha osservato che alla fine, ci si ritrova inevitabilmente in quello stesso luogo confuso da cui si era partiti, come se il viaggio non ci fosse mai stato, come se ogni cosa tor-

nasse a essere se stessa, igno-rando temperie e mutamen-ti, mentre ancora risuonano all’orecchio le antiche parole di Eraclito: “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confi-ni dell’anima: così profon-do è il suo lógos”. È forse questo il senso profondo di Fluxi, mostra e installazio-ne al tempo stesso, in cui Miranda Greggio e Paolo Sartori continuano a cerca-re il respiro della vita nelle forme, destinate a mutare ininterrottamente secondo le oscure leggi di una circolari-tà che si gioca tutta in segni e passaggi e sguardi che si sovrappongono e si mischia-no, cercando di penetrare nel profondo di una cosmogonia costruita su simboli antichi fondamentali e sui quattro elementi che stanno alla base della nostra esperienza per-cettiva.

Nel cuore della poetica dei quattro elementi i due artisti riescono ancora a far vibrare la loro e la nostra immaginazione, ritrovan-do, nelle trasformazioni del metallo,connesso talora al vetro, e di vecchi tappeti di lana tormentati e strappati alla loro originaria identità, forme e visioni, immagini e sogni. Se è il fuoco che vibra e si accende nell’anima del metallo per dargli parvenze inattese, è l’aria che respi-ra in altre composizioni, in una segreta tensione verso il volo e la verticalità, ma è pur sempre l’acqua che diven-ta nutrimento di un continuo fluire che è il sogno stesso di Miranda Greggio. Un sogno che si ritrova nei tappeti di Paolo Sartori, stinti e bruciati nel gesto primario che corri-sponde alla creazione e che permette di accogliere in un eterno fluire le sottili incur-sioni del metallo in una liqui-dità che diventa miraggio.

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Giacomo Giovanni SteccaoLtre L’infinitoGalleria Civica Cavour,29 Luglio - 28 Agosto 2016.

Trecentosessantacinque fotografie del cielo, per omaggiare il Maestro Ghirri e ribadire la centralità della scelta artistica nell’era del-la automazione. È questa la terza esposizione personale – prima con il patrocinio comu-nale – del fotografo padovano Giacomo Giovanni Stecca.

Stecca, classe 1986, di-

plomato presso l’Accade-mia John Kaverdash di Milano, dopo aver esposto “Prima Prova” e “Vedute di Instagram”, avvalendosi della collaborazione dell’architetto Alessia Girardi, curatrice del-la mostra, espone un progetto che vuole essere, nel contem-po, un tributo ad un grande fotografo che ha segnato la Storia della fotografia italia-na, Luigi Ghirri, ed un moni-to per il futuro di quest’arte.

Per questa ragione il sog-getto degli scatti è sempre il cielo. Altro elemento presen-te nella rassegna, e caro al Maestro, è la tematica della “continuità dello sguardo sul-le cose”; anche nella mostra di Stecca, infatti, gli scatti sono stati realizzati nel cor-so di un anno, uno scatto al giorno.

L’altro intento che il foto-grafo padovano ha cercato di realizzare nel progetto, potremmo dire il messaggio che struttura la mostra, è stato quello di sottolineare l’impor-tanza della scelta. Nell’ epoca odierna in cui il rapido svi-luppo tecnologico permette la realizzazione di opere ed ef-fetti strabilianti, Stecca vuo-le ricordare che a monte del processo artistico-creativo, prima ancora che il fotografo impugni la macchina, deve essere compiuta una scelta. Scelta che, pare perfino ba-nale sottolinearlo, ontologi-camente implica l’inclusione di qualcosa e l’esclusione di qualcosa d’altro, nel progetto ancora prima che nell’inqua-dratura. Ed è attraverso quella scelta che si concretizzerà, in sede operativa, l’apporto per-sonale dell’artista. Sarà essa a determinare gran parte della valenza dell’opera ancora pri-ma che gli strumenti tecno-logici entrino in gioco: scelta come momento artistico di insostituibile umanità.

Negli scatti di Stecca ri-troviamo la precisa volontà di escludere ogni elemento paesaggistico che consenta la geo-localizzazione dell’in-quadratura cui l’opera si ri-ferisce, e questo per ribadire l’universalità del messaggio oggetto della mostra.

Attraverso la rappresen-tazione del cielo, elemento simbolo dell’infinito, confine esso stesso privo (alla perce-

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o ancora l’azzurro della sera o il nero nella luce lunare) la composizione. Scura, immo-ta, una siepe d’alberi, pun-teggiata qua e là da casolari, o il profilo dolce e lontano dei Colli Euganei disegna la linea bassissima dell’o-rizzonte: limite ultimo alla campagna, alla pianura che si estende ai loro piedi. Oltre la siepe, si innalza, dominando quasi l’intera superficie del quadro, la sconfinata immen-sità del cielo.

Cieli mutevoli, secondo l’ora del giorno e le stagioni, solcati da nuvole leggere o nembi più densi e avvolgenti, o ancora cieli limpidi, eterei, resi sempre in controluce.

Volubili, maestosi, leggia-dri, ariosi, offuscati o lumi-nosi, i cieli sono un volo di pensieri, sono respiro per l’anima, rapiscono, nel loro gioco di nuvole, la nostra sete di libertà, la nostra ansia di infinito.

Se l’ispirazione per la pittura del paesaggio viene a Daniela Turetta dal suo amore per la terra in cui è nata e dove ha scelto di vive-re, dipingere cieli e nuvo-le costituisce per l’artista un’altissima sfida, perché, come dice lei stessa, è dipin-gere l’anima del paesaggio,

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il cui corpo è la terra. E ren-dere, con la materia pittorica, la luce che è l’essenza stessa della vita, la particolare luce di un momento, di un’ora, di una stagione, cogliere l’in-tensità di quegli attimi, l’u-more, la speciale atmosfera è l’esperienza più potente si possa provare. E’ sentir-si partecipi di quel processo creativo che ciascun giorno si avvera, sempre diverso e sempre puntuale, con il sor-gere del sole: il prodigio della luce, il miracolo della vita.

Esperienza inebriante che Turetta trasferisce con gran-de maestria, attraverso accu-ratissime pennellate, infinite velature, nei suoi raffinati paesaggi. Come pure rie-sce a rendere quasi tangibi-le, nel ritratto innevato del paesaggio invernale, l’im-palpabile consistenza della neve. Nessun compiacimento descrittivo nelle sue opere, solo un invito ad accostarsi con umiltà alla natura, alla bellezza del suo paesaggio, ascoltarne le voci, ma soprat-tutto assaporarne i silenzi, che diventano slarghi del cuore e aiutano a rimettere nel giusto equilibrio la nostra dimensione esistenziale: le proporzioni dei vari elemen-ti nei suoi quadri dicono quale sia il nostro posto in questo giardino e come pos-siamo godere, pur non senza inquietudini, del paradiso che abbiamo accanto.

Maria Luisa Biancotto

19 settembre - 23 ottobremaria LuiSa SQuarciaLupi - il riciclo diventa arteGalleria laRinascente - piazza Garibaldi - Info: Orario de laRinascente - Ingresso libero

10 settembre - 23 ottobreANTONIO PANZUTO - Pitture sculture scenografieGalleria Cavour - piazza Cavour - Info: Orario 10–13, 15-19 chiuso lunedì - Ingresso libero

16 settembre - 16 ottobremara ruzza - s-guardo oltreScuderie di Palazzo Moroni - via VIII FebbraioInfo: Orario 9.30 -12.30, 14-19, lunedì chiuso - Ingresso libero

16 settembre - 6 novembreimaGo ocuLi. canaletto e la visione di prato della VallePalazzo Angeli - Prato della Valle 1/A

23 settembre - 23 ottobreLa moneta incontra tito LiVio Sala della Gran Guardia - piazza dei SignoriInfo: Orario 9.30-12.30, 14.30-18.30, lunedì chiuso - Ingresso libero

25 settembre - 1 novembreDanieLa turetta - il paradiso accantoGalleria Samonà - via RomaInfo: Orario mart.-ven.15-18, sab. 10-12,30/15,00-18,00; dom. 10-12,30 /15-18 - Ingresso libero

24 settembre - 6 novembreDiaLoGhi italia - Giappone - Gioielli contemporaneiOratorio di San Rocco - via Santa Lucia Info: Orario 9.30 -12.30, 15.30-19, lunedì chiuso - Ingresso libero

I lettori ci scrivono che per decenni è stata nascosta dai rifiuti e dalle macerie gettate abusivamente sulla golena è uno di pochi elementi oggettivi per verificare il livello delle acque del Piovego nel Cinquecento.

Nel novembre 2013 siamo stati informati dal dirigente ing. Tiziano Pinato del Genio civile di Padova (Regione del Vene-to) sui criteri della gestione del manufatto idraulico di Noven-ta Padovana fra i quali risulta assente quello delle conseguenze del livello delle acque del Pio-vego sulla cripta della cappella di Giotto.

Nell’agosto del 2014, vista la situazione idrica del Bastio-ne dell’Arena, abbiamo rivolto al Sindaco neoeletto Massimo Bitonci la richiesta che fosse interrotto il flusso di acqua della fontana collocata sopra il Bastio-ne dell’Arena.

È stato eseguito lo sterro davanti alla cannoniera da una squadra diretta sul piano ope-rativo dall’amico del Piovego Daniele Buso e da Maurizio Ulliana con la mia consulenza. Lo sterro è stato concluso il 18 aprile 2015. L’allora assessore comunale Fabrizio Boron (ora consigliere regionale) ha provve-duto al trasferimento dei rifiuti e delle macerie. La visibilità della cannoniera ovest del Bastione dell’Arena è un elemento inte-ressante per gli studiosi.

Abbiamo chiesto che il livel-lo della Golena del Bastione dell’Arena come quello di tutte le altre golene lungo il Piove-go sia riportato al livello attuale delle acque.

L’osservazione empirica dei cambiamenti idrici durante i lavori di sterro ci ha stimolati a chiedere all’architetto Luca Vol-pato di rilevare la quota dell’ac-qua interna al Bastione dell’A-rena.

Abbiamo diffuso la sua rela-zione secondo la quale l’acqua all’interno del bastione è più alta del livello del Piovego di cm 172.

Siamo ancora in attesa che l’accesso murato al Bastione dell’Arena sia riaperto in modo da rendere accessibile il camero-ne del bastione.

È evidente che i Giardini dell’Arena sono stati progettati e realizzati non tenendo conto delle conseguenze negative che avrebbero avuto sul sistema idrico dell’area, come fu subito rilevato all’epoca della loro rea-lizzazione.

Tutti i nostri interventi sulla Golena del Bastione dell’Are-na, sulla fontana collocata al di sopra del bastione, sono stati documentati fotograficamente e descritti in relazioni dettagliate e firmate dai responsabili e inviate al Sindaco Massimo Bitonci.

Elio Franzin

Sul numero 182 di “Padova e il suo territorio” è stato pub-blicato un testo del prof. Bruno Zanardi associato di Teoria e tecnica del restauro all’Uni-versità di Urbino preceduto da una breve nota redazionale la quale riferisce che il pregevole intervento è stato tratto da una carteggio con il sottoscritto. In realtà la pregevole lettera del prof. Zanardi, come quelle di altri autorevoli studiosi, fa parte del carteggio nazionale e inter-nazionale del “Comitato per la sicurezza statica e idraulica della cappella e della cripta di Giot-to” sorto a Padova il 10 marzo 2012 per iniziativa di numerosi ed autorevoli studiosi e cittadini.

La decisione di far nascere il Comitato per la sicurezza statica e idraulica della cappella e della cripta di Giotto è stata suggeri-ta e incoraggiata anche da stu-diosi non residenti a Padova che desideravano essere informati sulle decisioni dei vari organismi locali in materia di sicurezza sta-tica e idraulica della cappella e della cripta, considerata anche la pluralità di competenze.

La nascita del comitato il 10 marzo 2012 fu preceduta dalla pubblicazione nel 2004 del volume di Girolamo Zampieri La cappella degli Scrovegni in Padova. Il sito e l’area archeo-logica nel quale lo studioso, fra l’altro, documentò lo stato di degrado della cripta sulle cui funzioni gli studiosi formulano ancora oggi ipotesi diverse e della quale molti visitatori non erano a conoscenza.

Nel gennaio 2012 Girolamo Zampieri ha rivolto alla “Soprin-tendenza per i beni archeologici del Veneto” la richiesta relativa ad un piccolo scavo nell’area del sagrato della cappella per indi-viduare la lunghezza reale del condotto fittile e la presenza di un eventuale pozzo utile ai fini della ricerca storica sulle funzio-ni della cripta.

Nell’estate del 2009 il prof. Sergio Costa nella sua pubbli-cazione La cappella di Giotto e il cenobio, un gigante dai piedi di argilla (Amissi del Piove-go, Legambiente) documentò il degrado della cripta e il sistema, tuttora in funzione, molto discu-tibile e discusso, di prosciuga-mento dalle infiltrazioni d’acqua.

Nel gennaio 2012 il prof. Luigi D’Alpaos dell’Università di Padova ha incoraggiato una ricerca degli Amissi del Piove-go sui “mutamenti dei livelli del Piovego nei secoli successi-vi alla costruzione della cripta e della cappella”.

Il livello della cannoniera ovest del Bastione dell’Arena

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