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focus: wnba, la lega delle donne

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Page 1: Pick&Roll Magazine Ottobre 2014

focus: wnba, la lega delle donne

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PICK&ROLL MAGAZINE

Editoriale

La storia del meseBecky Hammon

L’intervistaRaffaella Masciadri

Time Out conRoberta Meneghel

Mara Buzzanca

FocusWNBA, la lega delle donne

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Ottobre 2014

Page 3: Pick&Roll Magazine Ottobre 2014

Scrivere un editoriale non è mai facile. Soprattutto se è il primo editoriale dopo una lunga pausa. Pick&Roll Magazine è tornato ed io non potrei essere più felice. Questo progetto nato 4 anni fa, dopo una pausa di due anni, ritorna a prendere vita.

La sfida è la stessa che mi ha fatto decidere di fondare questo magazine: dare visi-bilità alla pallacanestro femminile in Italia. Questa volta però il nostro focus sarà sulle storie che si nascondono dietro ogni protagonista e sull’importanza di avere un sogno nella vita.

Le storie infatti affermano chi siamo. E proprio tutti, sportivi e non, cerchiamo conferma che le nostre vite abbiano un significato. Come lo facciamo? Riconoscendo la nostra storia in quella di altre persone. Ed è proprio questa considerazione che per-mette di relazionarci e identificarci, attraversando ogni sorta di barriera. Conoscere la storia di una persona aiuta infatti a creare una sorta di connessione emotiva. E la bel-lezza delle storie è che sono ovunque, spesso lì dove non ti saresti mai aspettato di tro-varle e ti chiedono di essere raccontate.

Il nostro paese sta vivendo un momento di crisi profonda e molto più frequente-mente ci induce a tenerci stretta la rassegnazione. Per trovare speranza in questo mo-mento di avversità bisogna essere pronti ad agire. Ecco perché io, al contrario, vi invi-to a sognare. E a farlo ad alta voce. Non sottovalutate mai il potere di un sogno. Chi vi racconta che i sognatori sono persone con la testa fra le nuvole, non ne ha evidente-mente mai conosciuto uno. Chi sogna ha un piano, ha un obiettivo. E quell’obiettivo, diventa il significato di una vita. Inseguire un sogno è molto più pratico di quanto si possa pensare: è pianificare, decidere, agire, sbagliare e soprattutto avere la forza di ri-cominciare. Questa consapevolezza e diversi anni della mia vita dedicati ad inseguire un sogno mi hanno fatto concludere che fosse giunto il momento per Pick&Roll Maga-zine di ritornare in campo.

Il nostro contributo sarà un magazine incentrato sul basket femminile con l’ambi-zioso obiettivo di ispirare altre persone ad inseguire i propri sogni. Vi racconteremo

L’EDITORIALE

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di Manuela Picariello

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una nuova storia ogni mese, ma daremo spazio anche ad alcune tematiche relative alla gestione organizzativa del basket femminile.

Personalmente da ogni storia ho imparato qualcosa. Inoltre, credo nel potere dei sogni, nella loro capacità di trasformare e dare un senso alla vita. Ecco perché amo leg-gere e raccontare storie di basket, storie di donne incredibilmente forti che hanno fat-to del loro sogno lo scopo di una vita. Allora, che ne dite, siete pronti a leggerne qualcu-na? 

Buona lettura!

“Ci sono tante ragioni per cui gioco a pallacanestro, non solo perchè l’adoro. Gioco per il 99% delle persone a cui è stato detto che non erano abbastanza brave, abbastanza alte o che non provenivano dalla ‘scuola

giusta’. Non datevi mai per vinti.”

Becky Hammon

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“Ti chiedo scusa Becky, davvero, ti chiedo scusa!”Richie Adubato è figlio dell’immigrazione italiana, quella che ha transitato per El-

lis Island e che poi ha preso possesso di quella lingua di terra che Lord Berkeley aveva ribattezzato New Jersey. Come tutti i figli dell’immigrazione più disgraziata, Richie aveva imparato a sue spese due cose: che la dignità era più importante della pagnotta

BECKY HAMMON

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di Pasquale Russolillo

Photo credits: Official Becky Hammon FB Page/beckyhammon25.com

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e che non avrebbe mai dovuto chiedere scusa a nessuno, nemmeno al Papa. Ma in quella calda serata di fine estate, sedu-to sulla panca del Compaq Center di Hou-ston, Coach Adubato aveva imparato un’altra lezione, una di quelle che suo pa-dre non aveva fatto in tempo ad impartir-gli, che gli uomini, quelli veri, riconosco-no i propri errori. Aveva appena perso Ga-ra-3 delle Finals di WNBA contro le Hou-ston Comets della leggendaria Cynthia Co-

oper, e malgrado la sconfitta fosse stata netta, Richie aveva un rimpianto che non lo lasciava andare, avrebbe dovuto far gio-care quella rookie bassina di Rapid City che nessuno voleva. Avrebbe dovuto far giocare Becky Hammon.

“Ti chiedo scusa Becky, davvero, ti chiedo scusa!”

La Hammon era rimasta seduta per tutto il secondo tempo. Aveva disputato una buona annata, ma una Finale WNBA era tutta un’altra cosa, c’era una pressio-ne che quella ragazzina con gli occhi da cerbiatto non avrebbe mai potuto sostene-re. Ma se Richie era un uomo cresciuto per le strade di Irvington, Becky aveva im-

parato a fronteggiare le difficoltà prima ancora di imparare a parlare. Sotto i riflet-tori di quel palazzo immenso, offesa più per quello che aveva considerato un insul-to che per non aver giocato, guardò negli occhi Coach Adubato e gli disse:

“Coach, io ci sguazzo nella pressio-ne!”

Già, la pressione è casa sua, perché malgrado un’infanzia felice, niente nella vita di Becky è stato davvero facile, mai,

nemmeno a Rapid City. Quella parte del South Dakota, che i minatori chiamavano Hay Camp, è sempre stata una zona di transito, un luogo di passaggio, nulla più; la usavano i cercatori d’oro per raggiunge-re l’Ovest, l’ha usata Becky per arrivare in Texas. È un posto in cui fa un freddo in-sensato perché le correnti artiche che scendono dal Canada non trovano uno straccio di montagna a fermarle, e le gior-nate le passi a sciare sulle Black Hills o a battere “home runs” quando l’estate lo permette. Gli Hammon sono sempre stati una famiglia atipica, sempre allegri, gio-viali e con una passione smisurata per il basket. Si gioca sempre, nonostante le

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“Richie aveva un rimpianto: avrebbe dovuto far giocare quella rookie bassina di Rapid City che nessuno voleva.

Avrebbe dovuto far giocare Becky Hammon”

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temperature bassissime , si va al campet-to del quartiere, e con la testa nascosta in un cappello di lana si gioca fino a che il freddo e la luce lo permettono. Matt e Gi-na sono gli unici ad avere il permesso, ma Becky, la piccolina, no. Lei deve stare a casa, gli amici dei suoi fratelli sono trop-po grandi e con quel freddo prenderebbe certamente un malanno.

Poco male, vorrà dire che si gioche-rà in casa. Per Natale chiede a papà Mar-

tin un canestro da mini-basket, uno di quelli che si attaccano alle porte e, non contenta, ogni pomeriggio lo costringe a giocare con lei. Forse il termine “giocare” non rende bene l’idea di ciò che succede-va nella cameretta di Becky. Durante quel-le sessioni di allenamento non vedeva suo padre, né la cameretta, la mente della piccola Rebecca trasformava quei pome-riggi in Finali in cui ci si giocava un’inte-ra stagione. Suo padre era in ginocchio a braccia aperte e lei provava a superare quel gigante con le zampe lunghissime, con tanto di telecronaca e tiro allo scade-re. Un giorno, stanca della sua altezza, de-cise di conoscere il cielo e saltò così in al-

to da schiacciare in faccia allo sbalordito Martin. Quando tornò sulla terra chiese a suo padre se sarebbe mai stata capace di schiacciare in un canestro vero. Suo pa-dre la guardò amorevole e decise di rega-larle l’elisir che l’avrebbe cambiata per sempre. Si avvicinò e accarezzandole i ca-pelli disse:

“Lascia stare il cielo, impara a co-mandare sulla terra!”

Per la piccola Becky è una rivoluzio-

ne copernicana, ricorderà per sempre le parole di suo padre. Le ricorderà soprat-tutto quando, crescendo, otterrà il per-messo di andare al campetto a giocare con suo fratello. Ogni qual volta si avvici-nava al pitturato, Matt e i suoi amici, non facendo complimenti, la mandavano al tappeto. Allora, memore dell’insegnamen-to di suo padre, cominciò a scoprire altre zone del campo, imparò gli angoli per bat-tere dal palleggio i difensori più veloci ed imparò ad usare il corpo per proteggersi dai ragazzi più grossi quando andava a ca-nestro.

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“Lascia stare il cielo, impara a comandare sulla terra!” Per la piccola Becky è una rivoluzione copernicana, ricor-

derà per sempre le parole di suo padre.

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Su quel campetto in cemento, in quel sobborgo di Rapid City nacque la grande Becky Hammon.

Nel South Dakota non sono mai sta-ti grandi appassionati di basket, ma un talento così cristallino non l’avevano mai visto.

Becky si iscrive al liceo locale e alla prima partita a Stevens High School, par-te dalla panchina. Entra, alza la mano, e già sapete dove è finito il tiro. Di lì in poi la panchina la vedrà di rado, finendo il suo anno da senior con 26 punti di media ed il titolo statale di “Giocatore dell’an-no” in tasca.

Era più impossibile che raro che gli osservatori dei college si spingessero fino in South Dakota, nessun giocatore degno di nota era mai nato tra quelle montagne e difficilmente ne sarebbe mai nato qual-cuno. Così a Becky non restava che man-dare richieste di ammissione alle universi-tà che avevano un programma di basket femminile. Richieste spedite al mittente, tutte; motivazione: “Non sei abbastanza brava!”

Quell’estate, però, a Terre Haute, in Indiana, zona in cui il basket e la caccia al cervo sono religioni di stato, Becky venne chiamata a rappresentare il South Dakota in un incontro di esibizione. Sugli spalti, tra i tanti tifosi, c’era anche Kari Galle-gos-Doering, assistant coach di Colorado State. Il motivo per il quale si trovava in quella fredda palestra non si chiamava pe-rò Becky Hammon, Gallegos-Doering era

lì per il playmaker dell’altra squadra, una giocatrice di colore più alta e dal fisico im-ponente. Kari era lì con il coach di un’al-tra alma mater e, ne era sicuro, avrebbe dovuto sfoderare tutte le sue doti persua-sive per soffiare quel playmaker al suo collega. Minuto dopo minuto, azione do-po azione, però notò quello scricciolo di montagna e si ritrovò suo malgrado ad es-sere testimone della sua bravura. Non aveva mai visto nessuno con quel primo passo, era immarcabile, nessuno riusciva a portarle via la palla. Aveva un’attitudi-ne fuori dal comune e migliorava il gioco delle compagne, una capacità che è prero-gativa dei campioni. Kari si alzò veloce-mente e voltandosi disse al suo amico coach: “Te la lascio, io mi prendo l’altra”.

A fine partita Kari Gallegos-Doering andò da Becky e senza troppi giri di paro-le le disse:

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“Sei magica, sarai la prima All-Ame-rican a giocare per Colorado State!”

La profezia si avverò. Becky Ham-mon divenne All-American ed insieme al-la compagna Katie Cronin contribuì a mettere Colorado State sulla mappa del basket universitario statunitense. Nei suoi quattro anni a Fort Collins portò la squadra per tre volte al torneo NCAA, ar-rivando alle Sweet 16 e diventando la mi-glior marcatrice di sempre della Western Athletic Conference. Tutto ciò, però, non bastò a Becky per realizzare il suo sogno di entrare nella WNBA. Quando il 6 Apri-le del 1999, il commissioner, lesse il no-me di Elaine Powell come 50esima ed ulti-ma giocatrice del Draft, Becky scoppiò in lacrime e rivolgendosi a suo padre, con-fessò: “Sono sempre stata la persona che non viene mai scelta”.

Non fu mai un mistero che la moti-vazione principale alla sua mancata chia-mata, risiedesse nel fatto che tutti i Gene-ral Manager della WNBA ritenessero un rischio prendere una giocatrice così bas-sa.

È risaputo però, che la fortuna è un dio fra gli uomini, e per una volta nella vi-ta, forse la prima, Becky venne scelta.

Coach Richie Adubato, per puro ca-so si era ritrovato a vedere qualche casset-ta della ragazza ed avendo un buco a ro-ster nello spot di point-guard, non ci pen-sò due volte a portare a New York quella ragazzina del South Dakota. Quando la vide per la prima volta in allenamento pe-

rò, Adubato ebbe se non un ripensamen-to, sicuramente qualche dubbio in più. Quella biondina dimostrava 16 anni e tut-to sembrava meno che una giocatrice di basket. Nello scrimmage interno pre-cam-pionato, Adubato le mise in marcatura, nell’ordine, Teresa Weatherspoon e Vic-kie Johnson, due amazzoni scolpite nel-l’ebano che la superavano di almeno dieci centimetri e 20 libbre. Becky, proprio co-me faceva da piccola, immaginò di essere in una finale valida per il titolo e comin-ciò a tirar fuori tutto il suo repertorio. La forza e l’aggressività messa in mostra con-tro due atlete olimpiche medagliate, im-pressionò coach Adubato. Era incredu-lo,strabuzzò gli occhi e vedendo il prodi-gio compiersi capì di aver pescato il pesce che aveva inghiottito l’anello della regina.

In poco tempo divenne il faro della squadra, rubando il posto in quintetto proprio a quella Teresa Weatherspoon che aveva dovuto marcare durante il pri-mo allenamento. L’esplosione di Becky ebbe una eco devastante, raramente il mondo aveva visto una giocatrice così abi-le su entrambe le parti del campo, sapeva sfruttare le disattenzioni delle avversarie punendo la difesa con penetrazioni diffi-cilmente contenibili, o tiri chirurgici da ogni parte del campo.

Era una tiratrice mortifera. Un giorno al Madison Square Gar-

den arrivò Reggie Miller, con pochi margi-ni di discussione il miglior tiratore che il genere umano abbia mai visto. Coach

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Adubato, con un passato sulle panchine della NBA, lo accolse con tutti i crismi che si devono ai campioni di questo cali-bro. È risaputo però che pur cacciando via la propria indole con il forcone, essa ritornerà sempre. Coach Adubato provò a resistere, ma alla fine l’indole da ragazzac-cio del New Jersey venne fuori. L’occasio-ne era troppo ghiotta.

“Ascolta Reggie, sai quanto io ti sti-mi, ma ho qui con me una ragazza che ti-ra meglio di te”

“Buon per te Richie, ma sappiamo entrambi che questo non è possibile”

Richie Adubato non aspettava altro, e con un’espressione stranamente diverti-ta e con voce fin troppo gentile buttò lì un:

“Scommettiamo?”Ora, per quanto un bambino povero

possa un giorno diventare ricco, state pur certi che non dimenticherà mai il valore dei soldi. Così dopo i 1000 dollari propo-sti da Reggie Miller, Richie abbassò la po-sta a 100 George Washington verdi, e per rendere ancora più appetitoso il tutto, venne stabilito che la sfida non fosse una semplice gara di tiro da 3 punti, ma una ben più emozionante gara di tiro da cen-trocampo.

Quando Reggie Miller mise il suo primo canestro non fece in tempo ad alza-re le mani in segno di vittoria che Becky ne mise due di fila. La gara la vinse Bec-ky, ovviamente, e mentre Reggie lasciava il campo borbottando commenti poco

gentili, il buon Richie si leccava il pollice contando i verdoni.

Il passaggio alle San Antonio Stars fu una vera e propria consacrazione nel gotha del basket mondiale, e nell’anno di grazia 2007 realizzò una media di 18.8 punti e 5 assist in Regular Season, portò le Stars al miglior record stagionale, ven-ne chiamata per il terzo anno consecutivo all’All Star Game e, qualora non bastasse, venne inserita nel primo quintetto WNBA. Macinava vittorie e batteva re-cord, ma quell’anno passerà alla storia del basket come l’anno in cui Becky andò a giocare in Russia. Il suo approdo al CSKA Mosca rappresentava quello che per Cristoforo Colombo saranno sembra-

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te le coste di Guanahani. Quella città ma-gica, la cultura così diversa, rappresenta-vano per lei la scoperta dell’America. Fu una vera e propria folgorazione. A dire il vero Becky era sempre stata innamorata dell’Europa e della passione che gli abi-tanti del Vecchio Mondo mettono nello sport più bello del mondo. Alla sua prima esperienza dall’altra parte dell’Atlantico, Becky giocò a Rovereto e ogni qual volta il presidente entrava nello spogliatoio e

sbraitava in quella incomprensibile ma dolcissima lingua, lei non poteva fare a meno di pensare che negli States il presi-dente lo si vedeva solo alla firma del con-tratto. Al ritorno negli U.S.A. l’affetto dei tifosi, che nel frattempo l’avevano ribat-tezzata “Big Shot Becky” parafrasando il nickname del mitico Robert Horry, non bastò a convincere Anne Donovan – Coach della nazionale americana per i Giochi Olimpici di Pechino – a convocar-la in nazionale. Il colpo fu duro. In ballo non c’era semplicemente il riconoscimen-to di una chiamata dovuta, quanto più i sogni disillusi di una bambina che su un’ideale lavagna aveva lasciato a monito

i tre sogni da realizzare nella vita: rag-giungere con la testa la mensola, diventa-re una giocatrice di basket e partecipare ad un’Olimpiade.

La mensola l’aveva superata – di po-co, ma l’aveva superata – , era diventata una delle giocatrici più forti al mondo, ma non era riuscita a realizzare il sogno più importante. Come sempre nella sua vita, il genio ci aveva messo un po’ a pale-sarsi, veniva da lontano, da quella città

che tanto bene l’aveva accolta qualcheme-se prima. Dimenticate però lampade da sfregare e tappeti volanti, il genio in que-stione ha pochi capelli, uno sguardo da pugile e risponde al nome di Igor Grudin. L’uomo della provvidenza, di chiara origi-ne russa, è il direttore sportivo del CSKA e nel preciso istante in cui la Federazione lo ha nominato Head Coach della naziona-le femminile russa di basket, il suo pensie-ro è volato nel South Dakota.

Mettete pure la terza spunta alla li-sta di sogni da realizzare di Becky.

La sua decisione di giocare le Olim-piadi con un’altra nazionale creò non po-che turbolenze in patria. Coach Anne Do-

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“Quando Reggie Miller mise il suo primo canestro non fece in tempo ad alzare le mani in segno di vittoria che Becky ne mise

due di fila. ”

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novan, la donna che non l’aveva ritenuta all’altezza di vestire i colori del suo Paese, fu la prima ad accusarla pubblicamente di tradimento.“Se giochi in questo Paese, vivi in questo Paese, sei cresciuta nel cuo-re di questo Paese, ma indossi la divisa russa, allora non sei una vera patriota.”

Per quanto Becky abbia provato a giustificare la sua scelta, attribuendo tut-ta la vicenda al sogno di giocare un’Olim-piade, l’opinione pubblica americana si schierò in massa contro di lei. Becky, co-

me ovvio che sia, ne risentì enormemen-te, e il destino, come un perfetto sceneg-giatore, fece affrontare in semifinale la sua Russia contro gli Stati Uniti. Becky è visibilmente nervosa, e chi non lo sareb-be al suo posto, giocava contro il suo Pae-se e allo stesso tempo contro se stessa. La Russia cade inevitabilmente sotto i colpi di Diana Taurasi per 52-67, e Becky, lon-tana anni luce da quella che il mondo ave-va imparato ad amare, segna appena 2 punti.

Al ritorno negli States, dopo aver conquistato un bronzo olimpico, gioca la miglior stagione della sua vita riconqui-stando l’affetto di tutti: entra ancora una volta nel primo quintetto WNBA, segna una media di 19.5 punti con le Stars, vie-ne chiamata agli All Star Game della WNBA e dell’Eurolega, ed in entrambe le competizioni vince la “Gara del tiro da 3 punti”.

Malgrado la forza e la voglia di vin-cere fossero rimaste immutate, i legamen-ti di Becky non sono più quelli di una vol-ta. Le ginocchia le danno il permesso di centrare il traguardo dei 5000 punti in carriera e organizzano il suo canto del ci-gno in grande stile. Nei Playoffs di quel-l’anno, contro le Sparks del Big-3 Parker-Penicheiro-Thompson, Hammon ritorna ad essere “Big Shot Becky”, segna 37 pun-ti regalando al pubblico sprazzi di onni-potenza.

Tutto lo Staples Center è in piedi ad applaudirla e Becky non può fare a meno

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che alzare le mani in segno di ricono-scenza, cercando di memorizzare tutti i dettagli di quella partita. La consape-volezza che quel fa-stidio alle ginoc-chia la perseguiterà per il resto della sua carriera viaggia di pari passo alla sua voglia di conti-

nuare a giocare. I due anni successivi so-no un martirio, il dolore alle ginocchia la tormenta e sono più le ore passate in clini-ca che quelle sul parquet.

ACL, tre maledettissime lettere che, messe in quest’ordine, significano una co-sa sola: Anterior Cruciate Ligament. Sta-gione finita.

Si dà il caso però che nella nostra storia, ci sia un altro figlio di immigrati europei, Gregg Charles Popovich, per chi mastica pane e NBA semplicemente “Pop”. Madre croata, padre serbo e con un passato da agente CIA che aggiunge ulteriore mistero al personaggio. L’invito a Palazzo Spurs per la signorina Becky Hammon da Rapid City è tanto immedia-to quanto sorprendente.

Il motivo è semplice: “Vieni qui agli Spurs nel periodo di riabilitazione e mi dai una mano con gli allenamenti”.

I nove mesi passano con la stessa velocità di una vacanza e quello che sem-

brava un parto si trasforma nell’anno più bello della vita sportiva di Becky, tanto da arrivare a dire:

“Farmi esplodere le ginocchia è sta-ta la più grande benedizione della mia vi-ta”.

Intanto l’infortunio è recuperato e Becky torna a giocare, per l’ultimo anno ha deciso di mettere di nuovo la canotta nero-argento delle Stars. Torna, ma la mente è dall’altra parte di San Antonio, in quella zona dell’Alamo in cui si festeg-gia per la vittoria del quinto anello del-l’era Popovich.La telefonata arrivò in esta-te, Becky era tornata per un paio di giorni a casa, a Rapid City. Seduta sotto un cielo indaco ascoltava i coyote ululare mentre gli occhi si riempivano delle luci delle stel-

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“Se giochi in questo Paese, vivi in questo Paese, sei cresciuta nel cuore di questo Paese, ma indossi la divisa russa, allora non sei una vera pa-triota.”

Anne Donovan (ex Head Coach USA)

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le. Dall’altro capo del telefono, un’inconfondibile voce roca, abituata a scegliere con cu-ra le parole da usare disse:

“Il fatto che tu sia donna è solo un caso, ti sto assumendo perché saresti perfetta qui da noi”. Becky riconobbe Gregg Popovich, e per un momento non realizzò l’impor-tanza della cosa.

Era stata appena nominata assistant coach dei San Antonio Spurs. Non era sem-plicemente la prima donna a sedere su una panchina NBA, era diventata la prima don-na a diventare allenatrice nella lega che ha fatto la storia dello sport professionistico americano.

Quando mise giù, Becky andò al dove da bambina sfidava suo fratello. I riflettori erano spenti, prese la palla e incominciò a tirare. Come sempre, anche in quel momen-to, sola sul campo da basket più importante della sua vita cominciò a far viaggiare la mente. Questa volta però non sognava come sarebbe stata la sua carriera, la riviveva. Iniziò a ripercorrere tutta la sua vita a ritroso rivivendo i tiri più importanti della sua

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“Non era semplicemente la prima donna a sedere su una pan-china NBA, era diventata la prima donna a diventare allena-trice nella lega che ha fatto la storia dello sport professionisti-

co americano”

Becky Hammon durante la conferenza stampa di presentazione come Assistant Coach dei San Antonio Spurs (fonte USA Today)

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carriera. Ripensò a suo padre che le aveva insegnato ad amare il basket, a Kari che l’aveva scoperta, a Richie che le aveva dato quell’opportunità e non poté fare a meno di ripensare a quando schiacciò nel canestrino di casa sua.

“Lascia stare il cielo, impara a comandare sulla terra!” le aveva detto suo padre, non immaginando però che un giorno sua figlia, quella bambina esile ma con gli occhi pieni di sogni, avrebbe conquistato le stelle.

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Avete iniziato la stagione con il piede giusto. Vi siete aggiudicate la Super-coppa e avete lanciato un chiaro segnale a tutte le squadre sulle vostre am-bizioni in Serie A1. Ad un roster già solido avete aggiunto una giocatrice di valore come Ogwumike. A questo punto la domanda è una: quali sono le ambizioni di Schio a livello europeo?

In Italia essendo campionesse in carica molti ci danno come favorite, ma come sempre bisogna guadagnarsi tutto sul campo. Tra l’altro ho visto un maggiore equili-

RAFFAELLA MASCIADRI

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di Manuela Picariello

Photo Credits: Ufficio Stampa Famila Schio

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brio nelle squadre in campo rispetto al-l’annos scorso. Ci sono più squadre attrez-zate o comunque sullo stesso livello. Ci sono realtà che possono dare filo da torce-re soprattutto in trasferta. Certo che la ve-ra misura di questa squadra la si vedrà in Europa quando affronteremo delle vere e proprie “corazzate”. Ma in base alla mia esperienza e in base agli anni giocati in questa competizione, posso dire che non sempre il roster più forte sulla carta alla fine vince. L’anno scorso ha vinto il Gala-tasaray che sicuramente aveva dei talenti in squadra, ma non era la favorita. Credo che l’innesto di Ogwumike ci abbia indub-biamente rafforzato. Ha dimostrato fino-

ra di essere una giocatrice super. Molto atletica, salta, prende rimbalzi, ha una ot-tima tecnica sotto canestro e nonostante sia esile tiene molto bene i contatti. In Eu-rolega si troverà ad affrontare gente più grossa ed è ovvio che lì poi dovrà venire fuori tutto il lavoro di squadra.Bisognerà cercare di colpire nei momenti giusti, al posto giusto. Da fuori, con le penetrazio-ni e anche con il gioco sotto canestro. Equilibrare e mixare un po’ il tutto sarà

la chiave tattica fondamentale. Inoltre, quest’anno sarà ancora più difficile per-chè hanno ripristinato la formula delle Fi-nal Four. A me personalmente piace di

più perché respiri l’aria delle finali di Eu-rolega vere e proprie. Naturalmente sarà molto più difficile arrivarci. Certo la com-petizione è lunga, ma noi giocheremo con determinazione partita dopo partita. Ve-dremo alla fine dove arriveremo.

Recentemente ha fatto molta notizia il ritiro di Becky Hammon. E’ diventata la prima donna assi-

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“Ogwumike ha dimostrato finora di essere una giocatrice super. Molto atletica, salta, prende rimbalzi, ha una otti-

ma tecnica sotto canestro e nonostante sia esile tiene molto bene i contatti.”

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stant-coach nella NBA. Cosa ne pen-si?

Credo che il suo ingresso nella NBA debba far capire veramente a noi europei quella che è la cultura sportiva america-na, come viene considerato uno sportivo che ha fatto carriera o che ha fatto risulta-ti in America. Becky ha giocato tanti anni in WNBA, ha giocato anche in Europa, ha vinto una medaglia olimpica e non gioca-va neanche per gli Stati Uniti. Se devo es-sere sincera, forse proprio questo è stato l’aspetto che mi ha più sorpreso. Direi che questo suo nuovo ruolo sia anche un riconoscimento ad una carriera incredibi-le. Sicuramente c’è da dire che i San Anto-nio Spurs sono la franchigia più innovati-va e quindi più aperta a queste cose. Ap-pena ho appreso la notizia quasi non ci credevo. Però basta guardare in Spagna, l’anno scorso si sono ritirate Amaya Val-demoro ed Elisa Aguilar. Sono state subi-to coinvolte dalla Federazione Spagnola, ma hanno avuto anche l’opportunità di

essere telecro-niste dei mon-diali maschili che erano or-ganizzati pro-prio in Spa-gna. Diciamo che il mondo sportivo nelle altre nazioni si evolve e va-lorizza le gio-

catrici o comunque le sportive in genera-le. In Italia manca questo o probabilmen-te è sempre mancato. Anche in questo set-tore si va più avanti per conoscenze che per meriti. Non mi sembra che esista un riconoscimento della competenza.

Rimaniamo in America. Tu hai giocato in WNBA nelle Los Angeles Sparks. Che cosa ti è rimasto più im-presso dell’esperienza america-na?quali sono le differenze con il campionato italiano?

Dal lato sportivo quello che mi ha colpito di più è la massima professionalità che hanno tutti quanti all’interno della socie-tà. La società è più vista come un’azien-da, diciamo. Una professionalità che an-dava dal magazziniere fino a Lisa Leslie (che in quegli anni era la giocatrice simbo-lo non solo delle Los Angeles Sparks, ma di tutto il movimento femminile america-no). Tutti lavoravano per far star bene

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noi giocatrici, la squadra in generale e per fa sì che tutte le nostre energie fosse-

ro concentrate sul campo. Si lavorava per lo stesso obiettivo e tutti erano trattati al-la stessa maniera. Però, ripeto, c’era una grande professionalità e un gran rispetto dei ruoli. Sicuramente negli Stati Uniti c’è in generale una cultura sportiva pazze-sca. Questo mi ha colpito tanto. Ogni pe-riodo dell’anno i media seguono un deter-minato sport ed il suo epilogo finale. Que-sto mi ha lasciato senza parole,ecco. Un’attenzione che forse non c’è in Italia, probabilmente anche per mancanza di strutture o comunque perchè non viene data la stessa importanza a tutti gli sport. In Italia sappiamo benissimo che lo sport per eccellenza è il calcio.Punto. Tutto il resto quasi non conta. Negli Stati Uniti invece ci può essere uno sport pre-dominante, ma uno in ogni periodo del-l’anno.

La WNBA è diventata la lega leader per quanto riguarda le politi-che di gestione delle risorse umane con particolare attenzione alle don-

ne e alle minoranze etniche. Pensi che il campionato italiano stia fa-

cendo progressi in questo senso?

Non mi sembra. Ad esempio, molte ex giocatrici americane che ho incontrato in WNBA on in Europa adesso allenano

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“Sicuramente negli Stati Uniti c’è in generale una cultura sportiva pazzesca. Questo mi ha colpito tanto.”

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nei college. Sicuramente lì è diverso ed hanno numerose opportunità, però in Ita-lia non vedo un sistema del genere. Vivia-na Ballabio è stata una delle prime ad es-sere inserita nei quadri dirigenziali, al-l’epoca con la Comense, le avevano asse-gnato qualche piccolo compito, ma in ge-nerale tutte le altre giocatrici devono tro-varsi un lavoro che sia al di fuori del mon-do del basket. Sarebbe bello rimanere al-l’interno, ecco. In questo momento in Ita-lia non c’è un sistema che ti consenta di spendere le competenze nel tuo settore una volta che hai finito la carriera. Ci so-no pochissime allenatrici donna, il Geas Sesto San Giovanni ha Cinzia Zanotti che ha fatto la sua trafila come allenatrice nel-le giovanili con ottimi risultati. Ha vinto diversi scudetti con le giovanili non solo perchè aveva giocatrici di talento come Zandalasini. Un altro esempio è Monica Stazzonelli che ora è a Schio. Insomma, mi piacerebbe vedere molto di più situa-zioni del genere. Mara Fullin era stata chiamata a fare la Team Manager della nazionale. Dovrebbe esserci una continui-tà d’iniziativa. E’ ovvio che poi ci sono atlete che una volta finita la carriera non ne vogliono più sapere e quindi fanno al-tro. Ma in generale, io credo che possa es-sere di aiuto a tante persone, non solo al-le giocatrici stesse. Può essere fonte di ispirazione anche per le giovani che pos-sono magari diventare allenatrici.Non parlo solo del ruolo dell’allenatrice, una ex-giocatrice può essere fondamentale an-

che a livello dirigenziale come General Manager. Chi ha giocato è a conoscenza di diverse esigenze e situazioni perchè le ha già vissute dall’interno dell’organizza-zione. Credo che sia un vantaggio notevo-le anche per le società. Soprattutto per-chè non tutti caratterialmente sono porta-ti ad essere allenatori. Andrebbero viste come persone che conoscono lo sport e quindi possono essere ancora utili all’or-ganizzazione sportiva. Direi che manca questa mentalità.

Hai mai avuto allenatrici don-ne? Che differenza c’è tra un uomo e una donna a tuo avviso?

Le mie prime allenatrici sono state donne. Una di queste è stata proprio Mo-nica Stazzonelli che mi ha allenato i pri-mi anni. Dopo ho avuto sempre uomini come allenatori. Forse la differenza è dal punto di vista psicologico. Una donna ca-pisce meglio certe situazioni. Poi però di-pende da caso a caso. Se si tratta di giova-nili è un discorso, ma se si tratta di prima squadra è diverso. La gestione dello spo-gliatoio può diventare più delicata. Tutto dipende anche dal carattere dell’allenatri-ce/allenatore. Credo che comunque sia necessario un po’ di distacco tra l’allenato-re e le giocatrici. Chiunque alleni deve sa-pere distinguere bene i ruoli perché avere un allenatore o un’allenatrice con cui si ha un rapporto troppo amichevole alla fi-ne è controproducente.

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Di recente sei stata coinvolta in un programma che affianca gli studenti-atleti. Perché hai deciso di sposare questa causa?

La vita sportiva purtroppo ha una fine e quindi devi crearti un futuro dopo lo sport. Naturalmente mi reputo fortuna-ta perché per parecchi anni ho vissuto in questa “elite” del mondo sportivo di alto livello. Vengo pagata per fare ciò che mi piace, ciò che mi diverte. Anche se alla fi-ne è un lavoro vero e proprio perché non ci sono ferie, non ci sono fine settimana liberi, non ci sono malattie, etc. Devi sem-plicemente dedicare la tua vita alla palla-canestro. Punto. Dopo però, quando per un motivo o per un altro, sospendi la tua carriera, devi avere in mano qualcosa per affrontare quello che è il mondo del lavo-

ro vero e proprio. Io avevo fatto già Scien-ze Giuridiche a Como, la triennale, poi sic-come il corso di laurea in Giurisprudenza è ritornato magistrale, ho deciso di conti-nuare. Sapevo che l’Università di Trento era un’ottima università e curiosando su internet ho visto questo programma che si chiama Top Sport. Mi ha subito colpito perché era la prima volta che vedevo in un ateneo italiano un programma che aiu-tasse e affiancasse uno sportivo. Si dà co-sì la possibilità agli sportivi, sapendo gli impegni che possono avere, di avere una maggiore disponibilità e flessibilità nelle date di esami, piuttosto che nei colloqui con i professori. Quindi io proseguirò gli studi e farò la specialistica, finendo il per-corso in Giurisprudenza.

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Cosa ti piacerebbe fare dopo aver conseguito questa laurea?

L’avvocato in sé non tanto, però non si sa mai. Mi piacerebbe sempre unire lo sport e lo studio. La prima cosa che mi verrebbe in mente è fare la procuratrice, ma anche entrare in una squadra e lavora-re come General Manager o Team Mana-ger. Magari devo trasferirmi in America per trovare qualcosa del genere!

Sei impegnata anche con la GI-BA (Giocatori Italiani Basket Asso-ciati). Quali sono i diritti che anco-ra pensi dobbiate acquisire come giocatrici?Quanto tempo e cosa ci vorrà per ottenerli?

Sono tanti i diritti che dobbiamo ancora acquisire e sicuramente ci vorrà anche tanto tempo. Abbiamo bisogno di perso-ne disponibili ad una maggiore apertura verso il mondo femminile e a quelle che possono essere le problematiche di que-sto mondo. Sarebbe bello arrivare ad un professionismo femminile, però credo che, considerata anche la situazione nella maschile ed il periodo economico, non sia il momento più adatto. Non so in quanti anni si possa ottenere. Però c’è an-che da dire che realtà come la Spagna e la Francia l’hanno introdotto. Essendo don-na una delle prime cose che mi viene da dirti è la possibilità di diventare mamma. Avere una maternità senza per forza esse-

re costrette a farlo a fine carriera. Ma an-che tante altre tutele che adesso manca-no. Ad esempio la questione tesseramen-ti. Ogni società deve pagare una certa somma di soldi ad un’altra squadra per avere le giocatrici. Con la GIBA stiamo cercando di raccogliere il maggior nume-ro di adesioni possibili da parte delle atle-te in modo da far crescere la base. L’obiet-tivo è quello di avere delle rappresentan-ze che possano discutere a livello federale e a livello di lega. Va migliorata la comu-nicazione con questi organi. Sarebbe im-portante avere una ex cestista che possa fare gli interessi di noi giocatrici. Molto spesso le società falliscono e anche se ci sono i contratti firmati tra giocatrici e so-cietà, può succedere che non vengano ri-spettati. Ma andrebbero rispettati perchè per noi questo è un lavoro. Ci sono perso-ne che vivono di questo. Nelle società che chiudono a metà anno per fallimento, le giocatrici si trovano a non percepire più nulla. Quindi servono anche maggiori tu-tele per quanto riguarda i compensi ed il rispetto dei contratti. Alla fine il nostro deve essere considerato un lavoro vero e proprio ed è giusto che venga retribuito. Ovviamente conosciamo tutti il periodo di difficoltà economico che sta vivendo il nostro paese e le problematiche che le so-cietà sportive stanno avendo, però resta il fatto che se decidiamo di giocare anche per il minimo indispensabile, allora il mi-nimo deve essere garantito, altrimenti non si va avanti. Anche la questione pen-

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sioni resta un nodo tutto da sciogliere. Noi non versiamo contributi INPS, perciò io a fine carriera, a 35 anni, per lo Stato italiano non ho mai lavorato perchè non ho versato i contributi. Si potrebbe pen-sare di mettere un contributo a fine anno, che può essere 1/3 a carico della giocatri-ce e 2/3 a carico della società. Oppure di-viso al 50% in modo che poi con il passa-re degli anni o a fine carriera la giocatrice possa ritrovarsi qualcosa.

E’ sempre più comune vedere spari-re tante squadre, anche squadre che hanno fatto la storia del movi-mento italiano. Cosa hai provato quando hai visto sparire la Comen-se dal panorama del basket naziona-le italiano? Cosa pensi che possa es-sere fatto per evitare questi falli-menti?

Un bel colpo al cuore. Perché alla fi-ne vedere abbandonato quel palazzetto che è stato sfondo di tanti trofei italiani ed europei, non è stato e non è un bello spettacolo. Mi sarebbe piaciuto vedere più rispetto da parte di certe persone per quello che la Comense rappresentava e

per quello che ha dato al basket femmini-le italiano. Spero che situazioni del gene-re non si creino più e che la Comense stes-sa possa ritornare ad essere quello che era: un pezzo di storia del basket italiano.

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“Spero che situazioni del genere non si creino più e che la Comense stessa possa ritornare ad essere quello che era:

un pezzo di storia del basket italiano.

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1) Hai da poco deciso di interrompere la tua carriera nel basket gio-cato e da quest’anno sei entrata nello staff dirigenziale di una squadra sto-rica come la Reyer Venezia. Spiegaci bene il tuo ruolo.

Questo è il mio secondo anno lontano dal parquet, ed è il secondo anno da Team Manager alla Reyer Venezia. Sono al mio quinto anno in questa gloriosa  società che, nella persona del Presidente Luigi Brugnaro, mi ha dato la  possibilità di non lasciare definitivamente questo mondo che è la mia vita. Il mio ruolo principale è quello di assi-

ROBERTA MENEGHEL

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Redazione

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stere la squadra a 360 gradi, fare da col-lante tra staff, società e atlete; so che vuol dire tutto e niente, ma vi assicuro che le cose da fare sono tante e che dietro ad una società di questo livello c'è uno staff che lavora come pochi immaginano. Ho la fortuna di essere assistita da professio-nisti del settore da cui cerco sempre di im-parare, questo è un aspetto fondamenta-le. Cerco sempre di migliorare e di impa-rare dagli errori.

2) Quale bagaglio hai portato dalla tua esperienza da giocatrice in questo nuovo lavoro?

Diciamo che ho la "fortuna" di pen-sare ancora da giocatrice e quindi posso avere il vantaggio di capire le problemati-

che o esigenze che hanno le ragazze. E poi loro sanno che, come facevo in cam-po, possono sempre contare su di me, e a volte basta un semplice gesto, uno sguar-do o un urlo (difatti chi si siede di fianco a me in panchina usa i tappi). 

3) Cosa vedi nel tuo futuro, hai in-tenzione di sederti in panchina e di-ventare un giorno allenatrice oppu-re ti vedi lontana dal parquet? Cosa voglio fare da grande? Non so se mi prendete in giro con questa domanda vi-sto che ho ben 37 anni. Diciamo che uno dei miei sogni era allenare una serie A maschile (mica scema), ma quando 2 an-ni fa mi sono trovata davanti alla scelta di allenare o ricoprire il ruolo di Team Ma-

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nager ho scelto il secondo perché, come quando giocavo, mi piace fare il “lavoro sporco”. Partecipo comunque alla vita del-la panchina grazie a coach Liberalotto, sto imparando molto anche da lui, per cui magari un giorno, quando sarò più "vecchia"... Per ora mi piace e mi gratifi-ca quello che sto facendo, ma vivo sem-pre day by day. Nel frattempo sto anche finendo l’università, mi manca un esame e sarò laureata in Economia e Commer-cio.

4) Recentemente ha fatto molta no-tizia il ritiro di Becky Hammon ed il suo ingresso come prima assistant-coach donna nella NBA. Cosa ne pensi?

San Antonio è sempre stata una so-cietà fuori dagli standard americani e con un coach atipico. Per cui non mi ha sor-preso la loro scelta: una panchina con Po-povic, Messina ed Hammon...wow! Penso che stessero cercando persone che potes-sero dare un contributo e una visione del basket diversa dal solito; hanno avuto il coraggio di osare e sicuramente Becky po-

trà dare quel qualcosa in più che forse mancava. Sono davvero felice per lei.

5) Tu hai anche giocato con Becky Hammon a Rovereto. Puoi dirci che tipo era e raccontarci qual-che aneddoto a riguardo?

Ho giocato con Becky a Rovereto, era all'inizio della sua carriera ma appena arrivata si intuiva che sarebbe stata una campionessa. Sempre col sorriso, sempre disponibile e soprattutto faceva canestro ovunque e ti serviva palloni d'oro! Difatti

grazie a lei ci siamo salvati ai playout. L'unica cosa di cui era stranita erano le urla del presidente in spogliatoio, forse in America non sono abituati a tale "parteci-pazione"! 6) La WNBA è diventata la lega lea-der per quanto riguarda le politi-che di gestione delle risorse umane con particolare attenzione alle don-ne e alle minoranze etniche. Pensi che il campionato italiano stia fa-cendo progressi in questo senso?

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“L'unica cosa di cui era stranita erano le urla del presi-dente in spogliatoio, forse in America non sono abituati a

tale "partecipazione"!”

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In Italia questo mondo è un po' ma-schilista, ma forse anche per colpa di noi donzelle.In America il sistema è diverso, a partire dai college, che noi non abbiamo. La WNBA è basket e marketing, i palazzetti sono immensi, la gente si diverte, balla e mangia. Nel loro campionato non si retro-cede. Di differenze ne potrei trovare a biz-zeffe, è tutto diverso, a partire dalla men-talità. Non dico che la loro sia migliore,di-co solo che è radicalmente differente.Ma basta guardare anche più vicino, in Euro-pa. Ad esempio, in Francia danno una ma-no alle società. Sei professionista. Se ri-mani incinta è lo stato che ti paga lo sti-pendio. Sei tutelata. Qui in Italia è diver-so. Io ho smesso di giocare e dopo 20 an-ni di basket è come se non avessi fatto niente. Niente contributi. E’ da anni che si parla di questo anche con la GIBA, ma ancora non si sono riuscite a cambiare le cose. Insomma, in Italia si sta cercando di dare spazio alla donna ma siamo anco-ra lontani.  

7) Secondo te ci sono abbastanza donne nei quadri dirigenziali delle squadre italiane? Non vedo tantissime donne nei quadri di-rigenziali e forse, ripeto, la colpa è un po' anche nostra. Solo poche giocatrici che terminano la loro carriera vogliono rima-nere nell'ambiente, e bisognerebbe inter-rogarsi sul perché. Forse lo si vede come un qualcosa di estemporaneo, che non dà

sicurezza, forse si giunge alla saturazione e si ha voglia di fare esperienze diverse ed esplorare mondi nuovi, forse non ne vie-ne data la possibilità, forse non la si chie-de. Penso che sia un mix di queste motiva-zioni. Il fatto di non essere considerate professioniste giocando in A1, ti porta ma-gari a trovare qualcosa chiamata "profes-sione", perché rimanere nell'ambiente può essere a rischio di sentirsi dire un giorno "ciao, grazie, noi chiudiamo". Però dovremmo iniziare anche noi donne a bat-terci per la nostra causa. 

8) Hai mai avuto allenatrici donne? Che differenza c’è tra un uomo e una donna a tuo avviso? Nella mia carriera ho avuto allenatrici donne solo nelle giovanili. Sicuramente è diverso perché uomo e donna sono diver-si e ragionano in modo differente. Allena-re le donne è molto più difficile, conta più l'aspetto psicologico. Siamo molto permalose (e ho usato il "siamo") e dosia-mo molto bene le parole che ci vengono dette. Ma il luogo comune è il rispetto, se ti rispetto ti dò l'anima. Se l'allenatore è capace penso che sia indifferente se uo-mo o donna. L'allenatore o l’allenatrice perfetto non esiste, come non esiste la gio-catrice perfetta (perla di saggezza)!

9) Quali sono secondo te le motiva-zioni per le quali ci sono così poche allenatrici donne in serie A1? Il discorso sulle poche donne allenatrici

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penso vada di pari passo con quello dei quadri dirigenziali, le motivazioni sono le stesse. Forse per il ruolo di allenatrice è amplificato perché è difficile che si possa rimanere nelle stessa società per anni, per cui bisogna avere una mentalità aper-ta che ti permetta di spostarti senza pro-blemi e ciò difficilmente si coniuga con l'idea di creare una famiglia.  

10) E’ sempre più comune vedere sparire tante squadre che hanno fat-to la storia del movimento italiano. Nel tuo passato ci sono squadre co-me Rovereto, Treviglio e Priolo, che sono sparite o che hanno rico-minciato il loro cammino dalle se-rie minori. Qual è il tuo pensiero a riguardo e cosa pensi che possa es-sere fatto per evitare questi falli-menti? Hai citato 3 società in cui ho giocato che sono sparite...stai insinuando che porto sfiga??? Penso che ci siano diverse moti-vazioni. Una potrebbe essere che molte società fanno il passo più lungo della gam-ba, senza una progettazione chiara e a lungo termine. Un secondo aspetto è la mancanza di gente che investe nel movi-mento. Sicuramente bisogna riportare la

passione per la pallacanestro; cercare di pubblicizzare questo sport e chi lo pratica il più possibile, il che va di pari passo an-che coi risultati delle nazionali; creare in-centivi per attirare sponsor (lo Stato po-trebbe sicuramente fare qualcosa, ma so-no impegnati sulla questione Juve-Roma, non vorrei si distraessero). Sicuramente non c'è un'unica soluzione, sicuramente nessuno ha la bacchetta magica, però ognuno nel suo piccolo può contribuire a far appassionare qualcuno, a partire da chi scende in campo ogni domenica.

11) Ora che hai deciso di appen-dere le famose scarpette al chiodo è il momento di fare un bilancio sulla tua carriera. Raccontaci un momen-to che ricorderai con maggiore gioia ed uno che preferisci dimenti-care.

Ecco, già la frase "ripercorrere la tua carriera" mi fa sentire vecchia! Sicura-mente sono soddisfatta e devo ringrazia-re i miei genitori perché mi hanno per-messo di scegliere cosa fare nella mia vi-ta. Ho vinto, perso, pianto, gioito, cono-sciuto gente nuova, visitato posti diversi. Ho vissuto per questo sport e mi ha dato tanto, mi ha sicuramente arricchito. Ri-

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“Ognuno può contribuire a far appassionare qualcuno, a partire da chi scende in campo”

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cordi belli ce ne sono tanti, come la pri-ma maglia nazionale col cognome stampa-to, come l'oro ai Giochi del Mediterraneo, come i 2 anni imbattuti in Reyer prece-denti al mio ritiro e potrei continuare al-l'infinito. Uno da dimenticare è gara-5 playoff scudetto contro Schio. Quanto vor-rei rigiocare quella partita! Ho smesso di giocare ma non ho smesso di avere fame (purtroppo non solo il senso figurato) e di essere ambiziosa. Mi manca da morire il campo, ma grazie alla Reyer lo posso an-cora calcare in tacchi e tailleur e con la grinta e l'entusiasmo di sempre.

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1) Hai da poco deciso di interrompere la tua carriera nel basket gioca-to e sei entrata nello staff dell’Alma Basket Patti. Spiegaci bene il tuo ruolo.

Ho deciso di intraprendere la carriera da allenatrice di basket dopo una carriera da giocatrice che mi ha dato molte soddisfazioni. Con l’esperienza acquisita mi sono posta l’obiettivo di trasmettere il mio bagaglio tecnico alle nuove leve insieme ad uno staff che pone molta attenzione al settore giovanile, che rappresenta un valido futuro

MARA BUZZANCA

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Redazione

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nella nostra realtà. Ringrazio Alessandro Pizzo, le giocatrici Mariana Kramer e Gretel Dominguez con cui abbiamo fonda-to l’Alma Basket, raggiungendo in pochi anni ottimi risultati. L’anno scorso, ad esempio, siamo arrivati in finale regiona-le con l’Under-13.

2) Quale bagaglio hai portato dalla tua esperienza da giocatrice in que-sto nuovo lavoro?

L’esperienza maturata in 25 anni di agonismo mi ha consentito di acquisire un grande bagaglio tecnico e professiona-le che mi piacerebbe trasmettere alle gio-vani leve.

3) Cosa vedi nel tuo futuro, hai in-tenzione di sederti in panchina e di-ventare un giorno allenatrice oppu-re ti vedi lontana dal parquet?

Il basket è stata la mia vita come gio-catrice e lo sarà in futuro come allenatri-ce. Ho grandi progetti e spero con il cam-mino appena intrapreso di raggiungere grandi risultati professionali. Il primo step da allenatrice l’ho già superato e so-no pronta per quelli che seguiranno.

4) Recentemente ha fatto molta no-tizia il ritiro di Becky Hammon ed il suo ingresso come prima assistant coach donna nella NBA. Cosa ne pensi?

Il ritiro di una giocatrice di quel li-vello per diventare assistant-coach in

NBA è una scelta che condivido e che ri-tengo un’opportunità unica. Rappresenta l’inizio di un riconoscimento legittimo che spetta a chi merita, a prescindere dal sesso.

5) Tu hai anche giocato con Becky Hammon a Rovereto. Puoi dirci che tipo era e raccontarci qualche aned-doto a riguardo?

L’esperienza vissuta a Rovereto mi ha permesso di conoscere una professio-nista in un momento di crescita sportiva e professionale. Ricordo che era una per-sona silenziosa, che amava concentrarsi in campo e che non lasciava spazio alle distrazioni.

6) La WNBA è diventata la lega lea-der per quanto riguarda le politi-che di gestione delle risorse umane con particolare attenzione alle don-ne e alle minoranze etniche. Pensi che il campionato italiano stia fa-cendo progressi in questo senso?

Le difficoltà di inserire le donne in questo contesto sono ancora notevoli, tut-tavia l’esempio che bisogna seguire viene sicuramente dagli USA. Purtroppo credo che l’Italia sia ancora un po’ distante dal perseguire questo obiettivo.

7) Secondo te ci sono abbastanza donne nei quadri dirigenziali delle squadre italiane?

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La realtà italiana purtroppo non ha ancora compreso quanto sia importante il ruolo della donna a livello dirigenziale. Credo che il problema sia più inerente ad un fatto culturale piuttosto che alle com-petenze tecniche e alla meritocrazia. Ho conosciuto molte giocatrici che avrebbero potuto rivestire egregiamente ruoli diri-genziali che finora sono esclusivamente appannaggio degli uomini.

8) Hai mai avuto allenatrici donne? Che differenza c’è tra un uomo e una donna a tuo avviso?

Sì, ho avuto una sola allenatrice don-na. Dal punto di vista tecnico posso affer-mare che non ci sono differenze: il sapere non dipende dal sesso. Dal punto di vista comunicativo e relazionale penso che la

donna abbia una maggiore predisposizio-ne, ma questo è relativo.

9) Quali sono secondo te le motiva-zioni per le quali ci sono così poche allenatrici donne in serie A1?

Sicuramente sono poche le donne che intraprendono questa carriera forse perché oltre ai problemi soggettivi, si ag-giungono le grosse difficoltà di riconosci-mento; spesso c’è poca considerazione nei confronti delle donne in questo cam-po.

10) E’ sempre più comune vedere sparire tante squadre che hanno fatto la storia del movimento italia-no. Nel tuo passato ci sono squadre come Rovereto, Alcamo e Pontede-ra, che sono sparite o che hanno ri-cominciato il loro cammino dalle se-rie minori. Qual è il tuo pensiero a riguardo e cosa pensi che possa es-sere fatto per evitare questi falli-menti?

Penso che oltre alla crisi economica ci siano dei problemi nel sistema, credo che bisognerebbe avvicinarsi al sistema NBA. Che ne pensate?

11) Ora che hai deciso di appendere le famose scarpette al chiodo è il momento di fare un bilancio sulla tua carriera. Raccontaci un momen-to che ricorderai con maggiore

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gioia ed uno che preferisci dimenticare.La mia carriera mi ha soddisfatto tanto, ma avrei voluto “toccare il cielo”. Mi ri-

mane il dubbio di come sarebbe andata se avessi fatto il playmaker. Tuttavia ho avuto delle belle soddisfazioni che vorrei rivivere da allenatrice. Ricordo con grande affetto Bolzano, una città che mi ha accolto in un crescendo di emozioni, così come mi emozio-na ancora oggi la promozione in A1. Un pensiero speciale va alla mia compagna non-ché cara amica Paola Mazzali prematuramente scomparsa, che terrò sempre nel mio cuore. Concludo dicendo che il basket è il gioco più bello del mondo e personalmente mi ha fatto vivere delle bellissime emozioni.

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“Un pensiero speciale va a Paola Mazzali. Sarà sempre nel mio cuore. Concludo dicendo che il basket è il gioco più

bello del mondo”

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Da diversi anni in America si lavora su come incentivare la promozione del plura-lismo e la diversità delle risorse umane. Diverse ricerche infatti dimostrano che queste politiche migliorano l’efficacia aziendale e la qualità delle sue relazioni sociali, oltre a a generare un ritorno positivo sull’immagine stessa delle organizzazioni.

WNBA, LA LEGA DELLE DONNE

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fonte: espn.go.com

di Manuela Picariello

fonte: wnba.com

fonte: espn.go.com

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La volontà di rag-giungere questo tipo di benessere organizzativo at-traverso la valoriz-zazione delle di-versità nella ge-stione delle risor-se umane ha l’ef-

fetto di condurre a porsi delle domande scomode, ma neces-

sarie. Ad esempio, sulla questione della parità uomo-donna nello sport, negli Sta-ti Uniti hanno incominciato a chiedersi: quante donne ricoprono il ruolo di head coach? Quante sono presenti a livello diri-genziale nei team professionistici?

Richard E. Lapchick (nella foto a si-nistra) è il Direttore del TIDES, The Insti-tute for Diversity and Ethics in Sport (Isti-tuto per la Diversità e l’Etica nello Sport, ndr ) alla University of Central Florida e dalla fine degli anni Ottanta si occupa del-la pubblicazione di report sulla parità di genere. L’intento è quello di incentivare le squadre professionistiche e dei college

ad assumere più donne sia come allenatri-ci che dirigenti.

Qualche giorno fa è stato pubblica-to il Report 2014 per la WNBA, Woman National Basketball Association (l’equiva-lente della Serie A1 femminile in Italia, ndr): i risultati sono davvero interessanti. Il Report sostanzialmente analizza se esi-sta realmente una parità di genere: la ri-sposta per la WNBA è un sonoro " sì " in aggiunta al miglior record tra gli sport

professionistici americani.Utilizzando dati a partire dalla sta-

gione 2014, l'Istituto ha condotto una ana-lisi per capire quante donne ricoprissero delle posizioni all’interno degli uffici del-la WNBA e delle singole squadre. Sono stati analizzati tutti i ruoli: top manage-ment, direttore generale, allenatore, vice-allenatore, medico e preparatore atletico.

Questi i risultati in breve:

- Il 79% del personale che lavora negli uffici è donna.

- 12 le donne proprietarie di quo-te di partecipazione nelle franchigie della

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“Negli Stati Uniti hanno incominciato a chiedersi: quante donne ricoprono il ruolo di head coach? Quante sono pre-

senti a livello dirigenziale nei team professionistici?”

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WNBA nel 2014.Con un aumento di tre donne dal 2013. La maggior parte dei pro-prietari erano soci accomandanti, cioè con responsabilità limitate.

- 6 le donne allenatrici nella sta-gione 2014.

- Il 52% degli assistant coach è donna.

- 4 le donne ai vertici del manage-ment delle squadre.

- Il 23% dei vicepresidenti delle squadre della WNBA è donna.

- Il 42% del personale dei team in ruoli amministrativi è donna.

- 4 le donne che ricoprono il ruo-lo di General Manager.

- 4 sono i medici donne.- Il 54% dei preparatori atletici è

donna.- Il presidente della WNBA è una

donna: Laurel J. Richie. Eletta nel 2011, è la prima donna di colore ad essere nomi-nata capo di una lega sportiva professioni-stica .

In una intervista rilasciata alla Asso-ciated Press, Lapchick, elogiandone i ri-sultati, ha esortato la WNBA perche’ con-tinui ad essere leader di riferimento tra le leghe professionistiche americane, an-che se sono ancora poche le donne tra i proprietari delle franchigie. Inoltre ha sot-tolineato come la grande percentuale di assistant coach donne possa garantire in futuro la presenza di un maggior numero

di donne a rivestire il ruolo di head coach.

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fonte:forbes.com

fonte:espn.go.com

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