premio letterario federico ghibaudo
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Federico Ghibaudo
9/5/80 - 9/1/95
Liceo Scientifico
Gerardiana Basket
Monza
"Frisi" -1 G - a.s.94/95a
Liceo
Scientifico"Frisi"
Monza
Premio
Letterario
"Federico
Ghibaudo"
anno 2003
edizionea
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2003 - 9a edizione
“L’INDICE”
1° premio poesia Alessandro Farsi 5a - E pag. 5
2° premio poesia Cristina Pozzi 3a - D pag. 7
1° premio prosa Alessandro F.Dulbecco 4a - C pag. 8
2° premio prosa Pietro Spinelli 4a - B pag. 10
Premi giuria Andrea Fioravanti 4a - C pag. 12
“ Gaia Caimi 4a - F pag. 14
“ Luca Belloni 4a - H pag. 16
“ Chiara Di Marco 1a - G pag. 17
“ Margherita Corradi 1a - L pag. 19
altri componimenti
in ordine di presentazione:
Fabello Silvia 5a - H pag. 20
Giulia Pegolotti 4a - C pag. 23
Paola Stucchi 2a - I pag. 25
Nicolas Di Vara 2a - B pag. 32
Davide Papasidero 2a - F pag. 35
Valentina Rosolen 2a - B pag. 36
Mattina Muratore e
Laura Francavilla 5a - A pag. 37
Davide Fumagalli 4a - F pag. 38
Emanuele Fumagalli 4a - F pag. 39
Benedetta Carozzi 5a - B pag. 40
Chiara Nobis 5a - F pag. 41
Federica Maria Rossi 1a - B pag. 42
Alberto Padovani 4a - H pag. 43
Nicolas Di Vara 2a - B pag. 44
Andrea Fioravanti 4a - C pag. 45
Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2003 - 9a edizione
“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”
1995 1°Class. Alexandra Bonfanti 2a F
2° Loredana Lunadei 2a G
3° Arianna Ferrario 1a G
1996 1°Class. Martino Redaelli 4a A
2° Elena Cattaneo 4a G
3° Marika Pignatelli 3a C
1997 1°Class. Niccolò Manzolini 4a A
2° Matteo Pozzi 3a I
3° Elena Cattaneo 5a G
1998 1°Class. Lorenzo Piccolo 4a A
2° Matteo Pozzi 4a I
3° Lucia Gardenal 2a I
1999 1°Class. Dacia dalla Libera 3a E
2° Lorenzo Piccolo 5a D
3° Vincenzo Calvaruso 3a H
2000 1°Class. Giulia Pezzi 4a G
2° Dacia dalla Libera 4a E
3° Cristina Sanvito 4a D
2001 1°Class. Tiziano Erriquez 4a D
2° Giorgia di Tolle 4a D
3° Chiara Grumelli 4a A
2002 1°Class. poesia Alessandro Sala 4a H
2° Federica Archieri 5a L
1°Class. prosa Caterina Cenci 4a H
2° Alessandro Dulbecco 3a C
Concorso Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2003 - 9a edizione
“LA GIURIA”
Chiara Frittoli 1a - B
Valentina Begani 2a - D
Sergio Sauco 2a - I
Elena Ranieri 3a - C
Stefano Decadri 3a - B
Alessandra Turra 4a - F
Stefano Bozacchi 4a - E
Caterina Cenci 5a - H
Daniela Pozzi 5a - H
Emiliano Brivio 5a - G
“IL CONCORSO”
Il concorso è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha
un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni
partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue
esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere
agli altri, ogni partecipante, è un vincitore.
Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le
stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica
che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che
essere imperfetta.
I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto
nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con
l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla
spontaneità degli elaborati.
Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO
componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in
esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come
punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra
per idee, sentimenti ed emozioni.
“INTERNET”
I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale
si possono trovare su internet al seguente indirizzo:
http://www.premio-liceofrisi.it
Concorso Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“LA BIBLIOTECA”
in bilbioteca sono disponibili
per la consultatione,
i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...
...oltre una copia dei seguenti libri premio:
1996 L’Alchimista - Paulo Coelho - Bompiani
1997 Messaggio per un’aquila che si crede un pollo
Istruzione di volo per aquile e polli
Antony de Mello - Piemme
1998 Il viaggio di Theo Catherine Clèment
Longanesi
1999 Abbiate coraggio Francesco - Alberoni
2000 Perchè credo in Colui che ha creato il mondo
Antonio Zichicci - il Saggatore
2001 Il mondo di Sofia - Jostein Gaarder
Longanesi
2002 Il tao della fisica - Fritjof Capra
Adelphi
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Primo Classificato sez. poesia
“CAVALIERI e FURFANTI” di Alessandro Farsi - 5a E
Oh, magnifico mondo nuovo!
Io vengo da un esotico paese
da due diverse stirpi abitato:
i "cavalieri", d’animo onesto e cortese
e i "furfanti", dal nome disprezzato,
costoro, poveretti, hanno vita dura
perché mentono a chi chiede qualcosa
non per cattiveria, ma perché Natura
li dotò di questa ingannatrice posa.
Essi, però, non son sempre bugiardi
a volte per un dì, a volte mesi interi
cosicché si sa sempre troppo tardi
se nei loro discorsi furon sinceri.
Da lungo tempo ormai la società
ha accettato questi sfortunati;
son da così tanto nella comunità
da non esser più degli emarginati.
Ormai tutti hanno un impiego pagato:
avvocati, operai, preti, infermieri;
tanto per loro ha fatto lo stato
che anch’essi si senton "cavalieri".
Benché viver qui da noi sia bello
non posso dir che tutto sia perfetto
a governar, anche il miglior modello
talvolta presenta qualche difetto:
dal tassista che ti porta lontano
da dove tu volevi essere portato,
al gestore del cinema urbano
che mette il titolo del film sbagliato.
A volte un’insegnante spiega a scuola
interminabili e noiose lezioni
ma non è vera nemmeno una parola
di quelle rimaste in testa ai secchioni.
La maestra: "2 + 2 fa 10"
può sentenziar con soddisfazione,
e poi: "i troiani vinsero i greci
col nero cavallo di Napoleone".
Penso anche al mio zio poliziotto
addetto al centralino della caserma:
quante volte gli denunciano un complotto,
maligno piano d’una... vecchia inferma.
Comunque la polizia interviene
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ed arrestando l’anziana nonnetta,
se la porta via con flebo e catene,
a bordo d’una scura camionetta;
ma l’innocente vecchia, interrogata,
risponde a fatica con voce fievole:
"furti, incendi e la donna violentata...
sì... m’avete trovata, son la colpevole!".
Mentre lei spira in una cella ingiusta
accusata da falsi testimoni
ricevono in questura più una busta
di chi confessa quelle macchinazioni.
Nemmeno al ristorante puoi star certo
che quel che chiedi sarà poi servito:
t’aspetti la pasta, ma ti vien offerto
pesce fritto ed un panino imbottito.
Ogni famiglia, anche la migliore
convive con un furfante in cucina:
può esser il figlio od il genitore,
o la piccola impertinente cugina.
M’imbarazzò assai la stessa mia madre
quando disse ad amici e parenti
che non fu, a concepirmi, mio padre
bensì vicini parecchio piacenti.
Talvolta conosci nuove persone
che si presentano col nome di "Mario",
"Luigi", "Francesco", "Silvio" o "Marcone"
ma che il giorno dopo si chiaman "Dario".
Talvolta incontri studiosi stranieri
che domandano tutto d’un fiato:
"mi diresti tra questi due sentieri
qual è quello giusto e qual è sbagliato?".
Sono i vostri logici-matematici
che ci studiano da secoli interi,
essi vorrebbero sistemi pratici
per riconoscer se siamo sinceri.
Pensavo però che avrebbero smesso,
badate, è un’opinione mia,
quando un saggio un po’ dimesso
rispose "Questa è una bugia".
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Secondo Classificato sez. poesia
“MASCHERA”
di Cristina Pozzi- 3a D
Dicevo di esserci
E annuivo
E sorridevo
Ma ho nascosto nei silenzi
Il mio vuoto,
quel che hai rappresentato.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Primo Classificato sez. prosa
“RITRATTO”
di Alessandro F.Dulbecco- 4a C
If you can dream - and not make dreams your master, If you can think - and not make thoughts your aim, - Rudyard Kipling
Il penetrante odore della trementina riempiva la stanza. Dalla grande finestra entrava la luce
del mattino. Una delle pareti era interamente occupata da una massiccia libreria in legno, alla
quale erano appoggiate delle tele appena abbozzate. Alcune avevano solo un fondo di colore,
altre lasciavano già intuire delle figure. Una pellicola grigia ricopriva il pavimento, per evitare
che qualche macchia di colore potesse sporcarlo. Al centro della stanza, il cavalletto. Di fianco,
un piccolo mobile, a tre cassetti, con i colori. Primo cassetto: bianco, nero, grigi. Secondo
cassetto: gialli, rossi, terre. Terzo cassetto: blu, verdi, viola. Su di uno sgabello, dentro un
vaso, una cinquantina di pennelli, per la precisione cinquantaquattro, ordinatamente disposti
per grandezza e forma. Sul cavalletto una tela. Bianca. Il sottile strato di gesso, colla e olio di
lino, che sarebbe servito da fondo, era appena asciugato. Sembrava incredibile che in quella
stanza, dove ogni cosa era inesorabilmente segnata da almeno una macchia di colore, potesse
esistere qualcosa di tanto perfetto. Davanti al cavalletto, una sedia. E sulla sedia, un uomo. In
mano aveva una matita. Fissava la tela, e decise che sarebbe stato un ritratto, un ritratto di
donna.
Il penetrante odore della trementina riempiva la stanza. Dalla grande finestra entrava l’ultima
luce della sera. Davanti al cavalletto un uomo, sul cavalletto un quadro.
Rappresentava...
Rappresentava una giovane donna... Vent’anni, ventidue al massimo. La pelle chiara e i capelli
corvini contribuivano a rendere dolce la sua figura. Il Pittore passò ore - ore - ad osservarla.
Quasi come in un sogno, quando hai paura che, d’un tratto, tutto attorno a te svanisca. Quasi
come quando sei felice e, nel momento stesso in cui ascolti la musica della tua risata, hai
paura che tutto finisca. E - ad ogni sguardo - il Pittore andava rinchiudendosi nella gabbia di
cristallo, finta fittizia gioia che lui stesso si era fabbricato.
Rappresentava una giovane donna. Due occhi bruni che guardavano lontano... Da quello
sguardo l’avresti detta molto timida. il Pittore provò ad immaginare il carattere della sua
Creatura, una ragazza un po’ insicura, ma con cui avrebbe potuto avere interminabili discorsi,
senza mai saziarsi del suono della sua voce. Se qualcuno le avesse detto quanto era bella,
probabilmente sarebbe arrossita.
Rappresentava una giovane donna. Due occhi bruni che guardavano lontano. Indossava un lungo
abito da sera... L’avrebbe potuta conoscere di notte, ad una festa, in un ampio cortile
illuminato da grandi fiaccole. E si sa che alla luce del fuoco tutti i volti appaiono buoni. Pacato
chiaroscuro di colori, il fuoco addolcisce gli sguardi, e con essi i sentimenti. I loro occhi si
erano incontrati per caso. Non avrebbe potuto dire con precisione per quanto tempo erano
rimasti a guardarsi. Poi, lui le si era avvicinato, con la voce che tremava
- Ti stavo aspettando
- Anch’io
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Rappresentava una giovane donna. Due occhi bruni che guardavano lontano. Indossava un lungo
abito da sera. Sullo sfondo una stanza con un grande letto di mogano... Avevano parlato per
ore, gli occhi fissi l’uno sull’altra. Lei era una pianista. Davvero? Che compositori le
piacevano? Ravel, Schumann, ma soprattutto Debussy. Lui spesso metteva un disco di
Debussy, come sottofondo, mentre dipingeva. No, era un pittore? Sì, era un pittore. Le
sarebbe piaciuto molto vedere un suo quadro.
- Se ti va di venire a casa mia, lì ce n’è uno che ho finito da poco.
Le andava.
Rappresentava una giovane donna. Due occhi bruni che guardavano lontano. Indossava un lungo
abito da sera. Sullo sfondo una stanza con un grande letto di mogano. Le lenzuola erano
disfatte... Erano rimasti sdraiati per ore, sul letto, uno accanto all’altra. Ognuno sentiva il
corpo dell’altro, il suo calore. Avevano giocato fra le pieghe delle lenzuola, con i cuscini. A un
certo punto, si erano fermati, contemporaneamente, quasi come se si fossero messi d’accordo.
Un sorriso impalpabile sul volto di lei. La baciò.
Il quadro rappresentava una giovane donna. Due timidi occhi bruni che guardavano lontano.
Indossava un lungo abito da sera. Sullo sfondo una stanza con un grande letto di mogano. Le
lenzuola erano disfatte. Dalla finestra si vedeva la strada, giù di sotto, piena di gente. La gente?
Giù dalla finestra del suo studio, nella strada, la gente passava sul serio. Era stata una
giornata calda, ma ora il sole stava lentamente tramontando dietro i tetti delle case e - d’un
tratto - la strada si era popolata. il brusio dei passanti arrivò fino al suo orecchio, e lo distolse
dai suoi pensieri. Quasi stordito, il Pittore si alzò, avviandosi a passi lenti verso la finestra. Si
affacciò e si mise ad osservare i passanti. Solo in quel momento lo capì. Capì che la sua donna
era finta, che il suo amore era finto. La gente che camminava lungo la strada, quella era vera.
La gente che era uscita nella brezza del crepuscolo era vera. Uomini, donne, bambini.
Camminavano, si salutavano, parlavano. Loro erano veri. Quattro ragazze che bisbigliavano
concitatamente a proposito di qualche ragazzo. Loro erano vere. Due bambini, con il naso
schiacciato sulla vetrina del negozio di giocattoli, in fondo alla via. Loro erano veri. Ma la sua
donna no. Lei era solamente un quadro. Una sottile pellicola di colore stesa su una tela di
canapa. Come poteva innamorarsene? No, non poteva prendersi in giro così. Era crudele
rinunciarle, ma la più grande bugia è mentire a se stessi. La verità può fare male, ma non
bisogna mai mentire a se stessi. Quella è la bugia più grande, la più maledettamente
spregevole.
Però... Però in fondo, cosa sarebbe cambiato? L’importante non è la verità, l’importante è
essere felici. E lui, davanti a quella donna, si era sentito felice come mai prima di allora.
Sarebbe bastato così poco. Quasi nulla: rinunciare a quella gente, inutile ma vera, per
abbandonarsi a quella donna. No, no, no, la più grande bugia è mentire a se stessi. Continua a
ripeterlo, o cederai alla tentazione. La più grande bugia è mentire a se stessi. E’ convincersi
che le cose possano continuare quando in realtà sono già finite. La più grande bugia è mentire
a se stessi. E’ convincersi di essere forti quando non lo siamo. La più grande bugia è mentire a
se stessi. E’ convincersi di essere eterni. La più grande bugia è mentire a se stessi. E’
convincersi che una sconfitta sia in realtà una vittoria. La più grande bugia è mentire a se
stessi. E’ convincersi che un quadro sia vero.
Però... Però in fondo cosa sarebbe cambiato?
Rappresentava una giovane donna. Due timidi occhi bruni che guardavano lontano. Un lungo
abito da sera. Sullo sfondo una stanza con un grande letto di mogano. Le lenzuola erano disfatte.
Dalla finestra si vedeva la strada, giù di sotto.
Una strada deserta.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Secondo Classificato sez. prosa
“PIA de TOLOMEI”
di Pietro Spinelli - 4a B
130 -Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via-,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
133 -ricordati di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
136 disposando m’avea con la sua gemma-
Il mio nome è Pia de Tolomei, sono un membro dell’illustrissima famiglia dei Tolomei, una
delle più illustri di Siena. Quando nacqui decisero di chiamarmi Pia per la devozione che mia
madre aveva per la Madonna e perché fu proprio la Madonna a salvarmi la vita.
Quando mia madre era in dolce attesa si ammalò di tisi e tutti la davano per spacciata; le era
già stata data l’estrema unzione ma grazie a quell’Ave Maria pronunciato sul letto di morte
riuscì a partorirmi viva. Purtroppo appena i miei occhi videro la luce lei morì.
Io odiavo mia madre, anche se non l’avevo mai vista ne’ conosciuta la odiavo a morte, era lei
che mi aveva fatto nascere. Fu la mancanza del suo amore a spingermi verso il peccato e la
lussuria, la mancanza del suo amore e quel diavolo perverso che risiede nell’anima di mio
padre.
Ogni mattina andavo in chiesa a pregare, ogni santissimo giorno congiungevo le mani verso il
cielo e invocavo la vergine Maria, umile e contenuta nel volto recitavo ogni parola con totale
devozione, ma dentro di me, nel profondo della mia anima, ardevo come il fuoco. Tutta la
gente perbene della città mi ammirava per la mia purezza, la mia castità, tutti tranne mio
padre. Egli sapeva bene cosa ero in grado di fare, mi conosceva a fondo. Fin dai primi anni di
vita aveva continuato a ripetermi che avrei dovuto prendere il posto di mia madre.
Inizialmente non capivo il significato delle sue parole, forse avrei dovuto occuparmi della casa
e dei miei sette fratelli anche se erano più grandi di me. No, non era quello il mio compito, ciò
che dovevo fare lo capii una notte d’inverno; avevo solo dodici anni quando il mio caro padre,
degno erede e illustre rappresentante della famiglia de’ Tolomei, entrò in camera mia e mi
possedette avidamente, mettendo fine in cinque minuti alla mia giovinezza ed innocenza. Da
quel giorno divenni la paladina del piacere e persi ogni briciolo di dignità. I contadini del
nostro podere mi conoscevano bene e io sapevo come soddisfarli. Amavo il piacere, di
qualunque tipo, non importava se ero da sola, con uno o più amanti, nello stesso letto o sulla
stessa balla di fieno. L’unica cosa importante era il segreto, nessuno doveva sapere quello che
succedeva nel mio letto, sotto gli alberi di ciliegie o in quel maledetto fienile. A volte
indossavo una maschera per non farmi riconoscere, a volte legavo i miei amanti e lanciavo
loro le minacce più turpi per distoglierli dal raccontare in giro ciò che era successo, nessuno in
città doveva sapere ciò che accadeva nel candido giaciglio di Pia de’ Tolomei.
Con il mio viso bianco e delicato e la mia voce candida riuscivo a convincere chiunque,
nessuno dubitava della mia purezza e onestà. Quante cerimonie, quante falsità, quante
preghiere inutili ero costretta a sopportare.
Rifiutai tutti i pretendenti che chiedevano la mia mano, non volevo sposarmi, sapevo che avrei
dovuto smettere di vivere a quel modo e non potevo sopportare l’idea. Poi un giorno, dopo
aver dato il benvenuto ad un illustre ospite di mio padre, rimasi incinta e fui costretta a
maritarmi per non gettare la famiglia nello scandalo. Fu quel povero cristiano di Nello de’
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Panocchieschi che mi prese in moglie due mesi dopo, quando ancora il corsetto copriva il
gonfiore del mio ventre. Mi portò in Maremma, in un grande castello. Tutto sembrava essersi
sistemato, finalmente ero lontana da mio padre e potevo vivere tranquilla. I giochi proibiti di
Siena erano solo un brutto ricordo che velocemente sfumava nella mia mente. Mi accorsi che
per la prima volta in vita mia ero felice.
Tutto però fu breve illusione: presto i miei peccati vennero puniti. Una sera andai dal mio
povero marito e gli annunciai di essere incinta e mentii dicendogli che il figlio era suo. Non
dimenticherò mai quella notte, la sua espressione mutò in un secondo: da uomo innamorato e
gentile a uomo freddo e disgustato. Stette immobile davanti a me per cinque lunghi minuti
poi si voltò e disse: "Io non posso avere figli" e se ne andò senza voltarsi. Fu l’ultima volta che
lo vidi.
Tre giorni dopo mi trovai nella cella della torre del castello ed avevo una gran sete. Le catene
intorno alle braccia mi bloccavano il sangue, la gola mi bruciava e il fetore delle mie feci mi
faceva girare la testa. Pensai a mia madre e alla sua ultima preghiera per la Madonna che mi
aveva salvato la vita diciannove anni prima. Poi pensai al mio bambino, quella piccola anima
che avevo ingiustamente strappato dal cielo, il frutto del peccato che portavo dentro. Lo sentii
morire, provai una pena immensa e totale, una disperazione così forte da farmi bloccare il
cuore.
Fu l’amore per quel figlio di Dio, per quella innocente creatura che mi salvò dalle fiamme
dell’inferno, quel povero piccolo che pagò per i miei peccati.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Premio Speciale Giuria
“BUGIE BUGIE BUGIE EVVIVA LE BUGIE” di Andrea Fioravanti - 4a C
Bugie perbene, bugie permale; bugie fantasiose, bugie banali; bugie solari,
leziose; bugie d’onore, bugie traditrici. Bugie eleganti, volgari, stupide,
intelligenti,. Bugie segrete, utili, ladre, bugie cortesi, uniche. Ce ne sono tante
di bugie, tante quante sono le verità. Tante come gli esseri umani, come i
sentimenti, come i gesti di cortesia, come le stelle del firmamento. E meno
male, perché senza bugie la vita sarebbe un inferno.
Pensate che cosa accadrebbe se non riuscissimo mai a frenare uno smodato
impulso alla verità. Semplicemente, la verità non si può dire, a meno di non
essere o molto spietati, o molto giovani, o molto pazzi. Si può dire al preside
che ti chiede perché arrivi in ritardo che trovi il professore di lettere un emerito
imbecille? A tua sorella che il suo bambino appena nato è brutto come suo
marito? All’amica ingrassata che sta assomigliando sempre più a una balena?
Alzi la mano chi non ha mai fatto, in società, quello stupidissimo gioco che
chiamano "della verità"? E’- un esercizio di sado-masochismo, dove tutti
finiscono paonazzi e sciupati. Un gioco che agguanta, perché ciascuno di noi
vorrebbe sapere la verità dell’altro e tenere per sé la propria.
Anche perché la vita non ha sempre bisogno di verità. Ha bisogno di dolcezza,
piccoli inganni, gentili bugie. Perché spesso ci vuole un buon motivo per
svegliarsi la mattina, e se non c’è bisogna inventarlo, costruire sogni alternativi,
per indorare la pillola del vivere, per diventare migliori. Per non ricordarsi che
tanto, prima o poi, si muore. Dunque, l’esistenza va adornata di sogni, di
illusioni, di speranze. Insomma, di piccole bugie. L’arte del vivere è l’arte
dell’aggiustamento, del maquillage. In fondo, l’unico vero dovere non è tanto
quello di non mentire agli altri, ma di non mentire a se stessi. Scriveva il grande
Joseph Conrad: "L’unica cosa che l’uomo può tradire è la sua coscienza".
E che si mente lo sappiamo tutti, anche se facciamo finta di credere nella bontà
della verità. Mentiamo in casa, sul posto di lavoro, a scuola, dovunque e
comunque..
Se avete un’amica sui cinquant’anni che sparisce per quindici giorni e torna con
i capelli corti, un look tutto nuovo e un sorriso smagliante sulla faccia tirata di
fresco, provate a chiederle: dove hai fatto il lifting? Lei sgranerà gli occhioni
senza più zampe di gallina, gonfierà ancor più le labbra tumide in
un’espressione innocente e dirà: "Quale lifting? Sono appena tornata da una
vacanza!". E perché non confessare che una volta, almeno una, siamo entrati in
una chat sotto mentite spoglie dichiarando di essere un giovanotto palestrato o
una splendida ragazza di vent’anni? E poi, se c’è di mezzo una donna, le bugie
sono inevitabili. Si può davvero dire tutta la verità alla fidanzata o alla migliore
amica?!
No, assolutamente no. Perché un abbellimento, un piccolo omissis,
un’aggiuntina qua e là nel racconto ci stanno bene. Anzi, probabilmente sono
necessari. Le bugie più frequenti sono quelle dette per fini utilitaristici, per fare
bella figura, per trarsi d’impaccio o per fregare; quelle insomma dette ai
superiori, ai colleghi, o quelle rifilate dai commercianti ai clienti. Poi ci sono
quelle cosiddette "relazionali", quelle spese nei rapporti di coppia, amorosi e
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familiari. Naturalmente esistono anche le menzogne a fin di bene; quelle dette
per non ferire l’altro, bugie di cortesia, di buon cuore.
E perché bugie all’apparenza così inutili?
Perché nella vita quotidiana è molto più importante non offendere che farsi
capire. Privilegiare le cortesie alla chiarezza è una regola fondamentale del
vivere insieme. Il compromesso sociale si basa, in tutte le culture, su una
comunicazione fatta di forme indirette. Perché la verità non è un criterio di
affetto o di amore, e nemmeno di buona convivenza. C’è una frase
azzeccatissima di Baudelaire che dice: "grazie a Dio esiste il malinteso". Perché,
se per caso tutti ci capissimo, nessuno andrebbe d’accordo. Le persone possono
comunicare a mille, ma non è questo che le fa andare d’accordo, perché ci sono
cose che non sono trasmissibili. La nostra di oggi è la più stupida delle culture,
perché ci induce a pensare a noi stessi come macchine, ricettori o emettitori di
messaggi. Non è vero. Le parole sono ambigue. Il linguaggio è ambiguo. Il
linguaggio è una trappola. Perché noi parliamo con i gesti, con il tono della
voce, con gli sguardi. Per questo esiste una grande cultura della bugia, che è
una cultura preoccupata dei rapporti.
Non stupisce ma potrebbe far riflettere che molti reclamano a gran voce il
diritto alla verità ma nessuno reclama il diritto all’inganno. Il diritto a
ingannare e a essere ingannato che si esercita a volte per prudenza, altre per
codardia, ma talvolta è davvero utile.
Si dice ai bambini di non mentire perché altrimenti crescerà loro il naso come a
Pinocchio. La morale della favola, che non mente ma mette in guardia, sembra
chiara: si insegna loro a non mentire... mentendo.
Che ironia..
Dunque, buone bugie a tutti e, soprattutto, niente pentimenti: provocano solo
disastri.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Premio Speciale Giuria
“BUGIE” di Gaia Caimi - 4a F
Mi presento
sono la bugia in persona: il ricordo
FIUME DI ISTANTI FUGACI
INTENSO SUDORE
MUTAMENTO
NERA SOLITUDINE
Cosa ti impedisce di guardare al di là del vetro?
La tua menzogna
la smorfia che porgi al mio io
Sei angosciante
Presuntuoso
Così radicato in me
da accompagnarmi anche a mia insaputa..
Ma da adesso, mia cara menzogna,
la mia bugia è più forte e tenace del tuo potere di seduzione!
E allora perché non accetti con serenità il mio parlarti?
Hai più paura della mia arte oratoria
o di non saper più continuare sulla tua strada?
Temi il mio abbandono anche quando tenti di provocarlo..
ILLUSIONE
STRAVOLGIMENTO
SGUARDO OFFUSCATO
RIVELAZIONE
Codardo..
Non riesci proprio ad ammettere di aver bisogno di me?
Hai voluto prevaricare sulla mia debolezza
Sei stato l'artefice del mio mettermi in gioco
Perché ora pretendi di essere radicato in me se poi non ho il diritto di volerti?
Come fai a coinvolgermi così tanto sensi, anima e corpo al tuo passaggio?
Devo tagliare definitivamente il tuo possedermi...
MALEDETTA GAMMA DI COLORI
CHIAROSCURO
COMPENETRAZIONE
FUSIONE DI TONALITA’ DISCORDI
NOTE DISSONANTI
Ti ho donato la presa e la perdita di coscienza, ricordi?
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Non puoi uccidere il tuo passato:
hai bisogno di star male,
delle emozioni e dei brividi che solo esso ti fa assaporare..
Perché ora ti nascondi dietro la maschera della verità?
Sii te stessa, menzogna!
Sfruttami
Abusa della mia voce per uscire dal mio corpo
Io non ti voglio più!
FATALE BUGIA, SEI ANCORA TUA PARLARE
16
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Premio Speciale Giuria
“BUGIE” di Luca Belloni - 4a H
Sono il ragazzo più bello della scuola
Sono il più simpatico di tutti
Ho un sacco di pregi e nessun difetto
Ho la media più alta di tutto il Frisi
La matematica è la mia passione
Posso avere una ragazza diversa ogni giorno
Nessuno al mondo mi odia
Non ho mai nessun tipo di problemi
Infine sono il ragazzo più felice del mondo!
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Premio Speciale Giuria
“LA POZZANGHERA” di Chiara Di Marco - 1a G
Parlo con te!
Parlo con te, Falsità!
Forse non ti ricordi neanche di quell’anno passato insieme,
o per meglio dire, nella stessa classe.
Certo, ormai è una cosa finita,
fa parte dei ricordi,
ma tu... tu sei ancora falsità!
Sei l’opposto di me;
io ho il coraggio di parlarti,
in questo modo, senza pudore, davanti a tutti.
Tu che cosa facevi?
Ti fingevi mia amica e poi...
mi hai deriso,
mi hai allontanata da tutti,
hai disprezzato il mio nome,
mi hai chiamata "la diversa"
ma diversa da chi?
Diversa da te!
Sai, ero orgogliosa di esserlo!
Mi vantavo con le persone che sapevano ascoltarmi
di non essere uguale al gruppo,
alla massa che comandavi come tanti burattini!
Ero "la diversa" certo.
Ma l’ipocrisia,
la paura
non ti ha mai portato a dirmelo in faccia,
a guardarmi negli occhi.
Capisco solo ora perché lo hai fatto.
Io avevo degli ideali,
avevo coraggio,
e sicuramente non ti avrei mai seguito
solo perché eri la gallina più bella del pollaio.
Ti difendevi solo così,
spettegolando,
eri contagiosa;
persino le mie migliori amiche mi avevano emarginata,
E tu non sai quanto ho sofferto;
quante notti a piangere sulla foto di classe;
quanti giorni persi per tentare di parlarti,
fino a quando un giorno non mi trovai in un vialetto...
Un vialetto colmo di pozzanghere
create da una pioggia intermittente.
Chiusi l’ombrello;
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a che mi serviva?...
sarei tornata a casa un po’ bagnata...
e allora?
Sentivo il dolce tintinnio dell’acqua;
sai, non l’avevo più fatto
da quando sono diventata "grande"
Com’era bella quella musica
prodotta dal nulla delle nuvole,
dall’invisibile vento,
dal rimbalzo delle stille sui tetti,
e dal lacrimare delle foglie.
Avanzai a passo lento,
e i miei sensi si abbandonarono
in una danza spinta dal soffio del gelido inverno.
Avevo capito che troppe volte
mi ero riparata dagli ostacoli,
gli ostacoli della vita,
aggirandoli,
senza superarli mai,-
poiché l’incertezza incombeva,
e come in una pozzanghera,
avevo il timore di sporcarmi di fango.
Da quel momento, compresi che con la mia volontà
e la mia voglia di vivere,
sarei riuscita a spiccare salti
che mi avrebbero fatto sconfiggere
ogni tipo di contrarietà.
...
ed oggi...
ciò che provo per te non è più astio,
non nutro più rancore per quello che è successo.
Vorrei solo rincontrarti,
e ricominciare, AMICA MIA,
come l’onda sulla spiaggia
trasforma i vecchi passi
e ne crea di nuovi.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
Premio Speciale Giuria
“BUGIE” di Margherita Corradi - 1a L
Ho bevuto
l’aria
silenziosa e antica
frangia sospesa
da stralci di nuvole.
Ho ascoltato
l’assenza
generosa e piena
di suono e di moto
polvere sciolta
in cromatismo di smeraldo.
Profumi verdi
avvolti,
flessuose spirali,
lungo un raggio
colato in controluce.
Ho pianto
sul buio acerbo
delle cose
effimera bugia
illusione
dei miei sensi.
-percezioneilliusione-
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“DIALOGO DI PITAGORA E DI UN MATEMATICO”
di Silvia Fabello - 5a H
PROTAGORA: La realtà… non esiste, appare.
MATEMATICO: La realtà è ciò che io, padrone degli strumenti delle scienze esatte, posso
dimostrare. Ciò che non si può dimostrare non esiste.
PROTAGORA: Allora tu stesso non esisteresti. Della realtà… noi possiamo conoscere ogni
aspetto, solo che esso può apparire agli uomini sotto una forma, oppure
nelle vesti del suo contrario. Non c’è univocità….
MATEMATICO: Se nulla è sicuro, e l’apparenza è tutto, di quali tue convinzioni mi stai
allora facendo certo. Stai forse cadendo in contraddizione? Se mi stessi
dicendo una cosa e l’altra per essere coerente col tuo pensiero, io scusa
non ti comprendo.
PROTAGORA: Una realtà c’è. Con che non voglio dire che noi mortali possiamo
intendere il vero, che una verità… univoca non esiste: quella realtà che voi
chiamate dimostrabile, e cui di conseguenza attribuite il titolo di Verità, è
al contrario una realtà doksa.
MATEMATICO: Ma considera una cosa che io posso dimostrare, o di cui posso dire che E’,
per utilizzare un linguaggio che ti è più consono; essa postula in sé i suoi
attributi e quindi la sua oggettiva verità….
PROTAGORA: Sciocco! Se avessi prestato attenzione alle mie parole ti saresti accorto che
la realtà non E’, ma c’è. Ho detto che la realtà ci si presenta come
apparenza; e dunque ne consegue che sono la sapienza dell’intelletto
umano e la sua istruzione retorica che gli permettono di rappresentarla nel
modo che gli aggrada.
MATEMATICO: Tu mostri di non aver posto mente all’essenza intima di ciò di cui vuoi
essere esperto. Il vero esiste, ma, e in questo mi ritrovo concorde a te, non
nella realtà comune come appare alle persone di poco acuto ingegno. Esso
non dipende come vuoi sostenere tu dalla mia propria volontà….
PROTAGORA: Facciamo che io non creda veramente a quello di cui sto cercando invece
di farti certo: potresti tu, ora, dimostrarmerlo? Potresti tu dirmi qual è la
verità a mio proposito?
MATEMATICO: Stai cercando di sviarmi ed ingannarmi con le tue parole. Il vero esiste e lo
si può trovare nelle leggi supreme che regolano il mondo; ed è una verità
che noi possiamo dimostrare, potendo con la forza della ragione, e non con
la tua fuorviante retorica, convincere anche i più scettici. Le tue
argomentazioni non sono che illusioni, basate su una finzione.
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PROTAGORA: Io non ti sto mentendo. Dal momento che sono conscio e dichiaro la non
esistenza di un vero univoco, io sono sincero nel presentarti la mutevole
realtà.
Non sono ordunque fasulle anche quelle che voi chiamate superbamente
certezze scientifiche come la luce del giorno ed il buio della notte, il giallo
del sole ed il bianco della luna laddove un cieco se le immagina diverse?
Dipendono solo da una percezione umana.
MATEMATICO: Ma un cieco non può, essendo manchevole della vista, non può Conoscere
la realtà.
Egli la percepisce manchevole, e crea false illusioni.
PROTAGORA: Sei in errore, e sei tu che ora stai cadendo in contraddizione. Le sue non
sarebbero illusioni, perché la conoscenza della realtà è una percezione
della mente e dei sensi.
Tu sostieni di poter dimostrare la realtà, perché allora non ne puoi rendere
consapevole anche il cieco?
MATEMATICO: Così il mondo risulta però contraddittorio.
PROTAGORA: E’ l’uomo la misura di tutte le cose.
La realtà non sarebbe di per sé contraddittoria, semplicemente non
definita; se solo voi non cercaste di affermare la sua univocità e di
dimostrarla! Cosi facendo la rendete falsa.
Mi è stato sottoposto poco tempo fa questo quesito da un uomo
appassionato di presunte verità *); lo voglio ora rivolgere a te, che ti
professi maestro delle scienze esatte: se fai cadere un grano di miglio esso
non genera nessun rumore; ma se fai cadere un sacco di grani di miglio, il
tuo orecchio ne percepisce il suono.
Si ingannano allora i tuoi sensi, o è forse la realtà che appare diversa in
momenti diversi, perché non è univoca?
Rispondimi, se sei in grado di dimostrarmi il fenomeno con la tua verità.
MATEMATICO: Mi stai nuovamente ingannando; non posso dimostrarti ciò che tu mi
chiedi, perché la tua è una domanda capziosa. In verità il suono esiste
sempre.
PROTAGORA: Sicché tu lo puoi sentire.
MATEMATICO: No, sentire no. Ma esiste.
PROTAGORA: Non andare in collera; lo puoi dimostrare a me o al mondo?
MATEMATICO: Non posso dimostrarlo. Ma esiste!
PROTAGORA: Bene, bene. Mi risolvo a concludere che neanche tu mi puoi portare
dimostrazioni oggettive del vero e sei in contraddizione con te stesso.
Però anzi cerchi di ingannarmi con le tue pretese, mentre io sono stato
sincero con te. Tu menti a te stesso e agli uomini, ma in conclusione la
realtà neanche per te è vera.
Cosi è veramente.
*) Zenone lo Stoico
dal "Dialogo di Protagora e di un matematico"
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[L’operetta è stata ritrovata nella biblioteca pubblica di Recanati, intitolata ma non firmata; è
stata attribuita a Leopardi, rintracciando in essa, attraverso l’uso dell’ironia, le teorie del poeta
sul rapporto tra il vero e le illusioni. In realtà il fatto che non sia stata inserita nelle "Operette
Morali", lo stile meno retorico e il modo stesso in cui sono trattati i temi, alcuni dei quali
estranei al Leopardi, fanno discutere a proposito della possibile attribuzione: è stato anche
ipotizzato che possa trattarsi di una posteriore imitazione, di un falso.]
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“BUGIE” di Giulia Pegolotti - 4a C
Già mentre metti il libro di storia nello zaino sai che lì rimarrà fino al tuo ritorno
a casa. Prima di uscire di casa il pomeriggio pensi immancabilmente di sfruttare
la mezz’oretta di viaggio in autobus per studiare la lezione per il giorno dopo, ma
il buon proposito di dedicarsi alla cultura rimane altrettanto immancabilmente
tale.
All’inizio te ne stai seduta a osservare la strada fuori dal finestrino e poi, succede
sempre, rivolgi l’attenzione verso la gente che viaggia con te: scruti gli altri,
ascolti le loro conversazioni, senza volerlo, senza cattiveria, sarà voyeurismo
come quello degli spettatori del Grande Fratello, sarà noia, ma finisci sempre per
farlo. A volte la cosa ti fa diventare davvero triste.
Beh, non sempre, dipende dal tuo umore.
Quando sei già un po’ giù di tuo vedi le cose in maniera diversa, e ti sembra
ovvio che lo strato di trucco di quella ragazza seduta sul sedile dietro non è
quello che lei è, è quello che lei vuole sembrare davanti ai suoi amici alle persone
che incontra per strada ai ragazzi che incrocia nei corridoi della scuola ai suoi
genitori che magari una volta per tutte vedono che lei è diventata grande.
Probabilmente lei si piace pure ma secondo te in fondo non è vero affatto.
Consideri che ai due ragazzini che stanno discutendo a proposito
dell’interrogazione di scienze dei giorno dopo non importa proprio niente della
doppia elica, ma domani in classe ne parleranno con passione al professore,
prenderanno otto più e tra una settimana non si ricorderanno neppure se era la
citosina quella che stava con la guanina (o era l’adenina?).
Sorridi osservando la ragazza che sta descrivendo all’amica che le siede di fianco
tutte le dinamiche psicologiche del processo che ha portato il suo ex ad
abbandonarla ottusamente per un’altra (gli uomini non capiscono mai niente ma
tornerà lo so ed io gliela farò vedere stanne sicura però nel frattempo ci sto
troppo male aiuto), interlocutrice annuisce comprensiva, è voltata di spalle ma se
potessi sai che le leggeresti negli occhi solo l’attesa un po’ risentita di poter
esporre anche i suoi di problemi esistenziali, di sicuro più gravi di quelli di questa
lagna che non capisce niente della vita (sono d’accordo con te, guarda che uno
come quello meglio perderlo che trovarlo).
Avverti provenire da dietro di te un tipico ticchettio di cellulare, ti immagini il
sorrisino stampato in faccia alla ragazzina intenta a rispondere ai messaggi
sdolcinati di un qualcuno a causa di cui si ritroverà sdraiata sul letto a piangere
entro un paio di settimane...
... ti senti un po’ cinica oggi, eh?
Lo sguardo cade sul pezzo di stoffa bianco attaccato allo zaino, e neanche tu ti
senti poi cosi genuina... hai manifestato per la pace, hai una bandiera arcobaleno
appesa fuori dal balcone di casa, ti infervori sporadicamente discutendo della
guerra e di questioni più grosse di te, ed in fondo continui a percepire i tuoi
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piccoli problemi, le tue interrogazioni, i tuoi litigi con i genitori ed i tuoi telefoni
che non squillano come faccende più gravi dell’enormità che intanto succede.
E anche tu ti trucchi, anche tu studi e ripeti cose di cui non ti importa proprio
nulla, anche tu hai manie di protagonismo e anche tu mandi messaggi sdolcinati,
nel disperato tentativo di comunicare... e mentre sei lì, seduta sul tuo sedile, su
un autobus di linea qualsiasi, ti sembra di cogliere l’essenza di un non sai che di
universale. Noi non possiamo comunicare, non ne siamo capaci, le bugie devono
esistere per forza, non tanto le bugie che si raccontano, quanto tutte quelle che
mettiamo nel modo di vestire, nel modo di parlare, nel nostro apparire... Siamo
costretti a tante piccole bugie perché è il modo più semplice che troviamo per
lanciare i nostri pensieri e toccare quelli degli altri... siamo isole collegate da
ponti barcollanti di parole e sguardi...
Basta poco per spezzare il filo di certe riflessioni, ad esempio il bip-bip dei
cellulare, è arrivato un messaggio. Per di più l’autobus è quasi alla tua fermata, ti
alzi e ti accorgi che devi muoverti a tornare a casa, hai detto a tua madre che
saresti stata indietro per le sei, stavolta ti uccide davvero.
E poi devi studiare storia.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“VERITA’ E BUGIE SONO ENTRAMBE MALATTIE”
di Paola Stucchi - 2a I
Era una sera d’inverno molto fredda e Mario se ne stava seduto alla finestra a guardare la
neve che cadeva fitta fitta dal cielo scuro del crepuscolo. Stava aspettando che Andrea, il
fratello maggiore, tornasse a casa e continuava a guardare il sentiero che portava al villaggio
vicino per vedere se arrivasse. Il vorticare dei fiocchi di neve gli giocava brutti scherzi e spesso
gli sembrava di vedere dei piccoli esserini che si sarebbero potuti dire o gnomi o folletti. Ogni
volta che cercava di osservare quelle cosine, beh, quelle sparivano e rimanevano solo i fiocchi
bianchi che danzavano. Era seduto nel vano della finestra e, vicino, c’era un mobiletto con
sopra il vaso dei fiori preferito da sua mamma, pieno ora di margherite finte per via della
stagione; per terra il fratellino Daniele stava vivacemente giocando col gatto e con le sue
costruzioni.
Mario si era stufato di stare ad aspettare e quegli esserini che pensava frutto del continuo
vorticare della neve iniziavano a dargli sui nervi, così aveva cominciato a guardarsi intorno
alla ricerca di qualcosa da fare o almeno di qualcosa con cui giocherellare un po’. In giro non
c’era niente da poter usare, tutto era in ordine perfetto e sua madre si sarebbe subito accorta
del minimo cambiamento. Uffa! Non c’era mai niente di divertente da fare in casa! Il
fratellino, stanco delle costruzioni, iniziò a inseguire il gatto per tutta la camera: intorno al
divano, sotto il tavolo, dietro le tende... Mario riprese a guardare fuori dalla finestra e iniziò a
tirare dei calcetti al mobiletto vicino a lui che cominciò a traballare. Daniele stava correndo
verso la parte opposta della camera e urlava sempre più per l’eccitazione dell’inseguimento. Il
fratello era al limite della sopportazione e, irritato sia per il chiasso sia perché non trovava
niente da fare, iniziò a tirare calci sempre più frequenti e più intensi al mobiletto fino a che il
vaso, dopo aver paurosamente oscillato cadde a terra assieme al mobile e il povero Daniele
non finì in mezzo a tutto quel disastro per pura fortuna, perché si trattenne al pelo. Mario era
sicuro: qualcosa di nero era passato tra il fratellino e il vaso, perché il vaso cadde a terra senza
rompersi e Daniele riuscì a non finire sotto al mobile. Il piccolo, spaventato, si mise a piangere
credendo di averlo fatto cadere lui. La madre accorse, ma Mario riuscì a rimettere a posto il
vaso prima che lei lo vedesse. Il fratellino era tutto rosso e piangeva tanto che per poco non
gli vennero le convulsioni.
- Dovevi tenerlo d’occhio! Sai bene che con la sua asma non deve agitarsi così.
Possibile che non ci si possa mai fidare di te?! -
- Non me l’avevi detto di impedirgli di giocare col gatto. -
La madre si infuriò.
- Di giocare col gatto no, ma di impedirgli di correre sì!
- Me ne sono dimenticato.- e con un’alzata di spalle uscì dalla stanza andando in camera sua.
Nel frattempo era rientrato il fratello maggiore.
- Sono tornato!-
- Preso tutto?-
- Sì - e andò in cucina a mettere in ordine le cose comperate.
Intanto il padre scese dal piano di sopra mentre la madre saliva col piccolo in braccio per
andare a prendere le medicine da dare al piccolo contro l’attacco di asma che gli stava
venendo.
- Cara, hai per caso aperto tu la finestra in camera di Andrea?-
- No. E poi con questo tempo? Vedrai che l’avrà aperta Mario per fargli dispetto.-
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- Beh, lui ha negato, ma cosa ha fatto Daniele?-
- Si è agitato correndo dietro al gatto e gli è venuto un attacco d’asma.- intanto era
arrivata in cima alla scala e si era subito diretta in camera a prendere le medicine.
Il padre borbottando tra sé andò in cucina.
- Non hai chiuso la finestra.-
- Cosa?-
- Non hai chiuso la finestra della camera prima di uscire. Ora la camera sembra la tana di un
orso polare. -
- Ma io l’avevo chiusa! -
La madre intanto dal piano di sopra;
- Andrea, mi sembrava di averti detto qualcosa prima di uscire.-
- La finestra l’ho chiusa!-
- Veramente?! L’hai chiusa, però adesso c’è un bel po’ di neve sul tuo letto, per terra e ci si
congela al solo affacciarsi sulla porta - Ma... -
- Dormirai in camera con i tuoi fratelli, non posso mettere disordine in sala o domani sentirai
la paternale di tua nonna.-
- Perché non provi a chiedere a Mario? Non mi sembra che sia nuovo a queste cose. E poi non
era sceso con noi ma era rimasto su un po’. E’ sceso quando sono uscito!
- Ne sei sicuro?-
- Sì, sul davanzale c’era il guanto che aveva in mano prima di scendere.- disse la madre
entrando.
- E’ inutile, ormai non ci sono più speranze. Va beh ci dovremo rassegnare! Ma cara, come sta
Daniele?-
- Si è ripreso, si è appena addormentato. La crisi non era niente di grave.-
- Per fortuna non ha avuto niente di serio. Ma non lo controllava nessuno?-
- Qualcuno sì ma... -
Nel paese di Busìverì, quello di Mario, i bambini si potevano classificare in due categorie: la
prima era quella dei bambini che volenti o nolenti non riuscivano mai a dire una bugia,
nemmeno la più piccola e semplice del "non sono stato io", erano insomma dei santini; l’altro
gruppo, al quale apparteneva Mario, era quello dei bambini che non riuscivano mai a dire la
verità e nemmeno a fare quello che si chiedeva loro. I genitori di questi ultimi erano alquanto
disperati anche perché, qualunque risoluzione prendessero, era molto raro che i figli
riuscissero a smettere di fare i totali bugiardi e a iniziare a dire la verità. A questo punto
nasceva un serio problema: infatti solo una ristrettissima minoranza dei pochi bambini che
smetteva di dire sempre bugie riusciva a passare interamente alla verità, mentre l’altra
rimaneva tra verità e falsità, e comunque questo cambiamento di comportamento avveniva
solo prima dei dieci anni e poi si rimaneva definitivamente ciò che si era.
Mario era appunto uno dei bugiardi e pigri e la famiglia e gli amici e i professori erano
esasperati, ma il suo era, come si suole dire, un caso perso; cocciuto, testardo e ribelle, non
c’era verso di fargli entrare in testa qualcosa che lui non volesse, come appunto la verità e
l’obbedienza. Nonostante tutto ciò che si era tentato non era mai cambiato di una virgola e
ormai aveva undici anni: non c’era più speranza. I suoi genitori, tuttavia, non disperavano di
fargli entrare in testa un po’ di obbedienza e continuavano a punirlo, non troppo severamente,
per cercare di fargli capire qualcosa.
Ancora una volta Mario fu messo in punizione ma niente cambiò il suo modo di comportarsi e
i suoi cominciarono a disperare che divenisse almeno un po’ sensato.
E quella sera fu messo nella camera del fratello, fredda, ma era la punizione. "Insomma, è ora
che tu capisca le conseguenze delle tue azioni!" aveva detto sua mamma. Si era rintanato
nell’angolo più caldo della stanza e cioè dalla parte dove nella sua camera, che era attigua,
c’era la stufa. Si stava quasi per addormentare quando qualcosa luccicò nel buio. Aprì gli
occhi. Non c’era niente. Tornò a cercare di appisolarsi, ma qualcosa nella penombra si mosse e
attirò la sua attenzione. Gli si stava avvicinando, ma la cosa, o meglio i tre esserini gli si
affollarono davanti.
- Verum, allora?! -
- Sì, è lui, è uno dei casi più critici. -
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I tre esserini guardarono Mario che li osservava scettico e stupito al contempo.
- Se permettete lo interrogo io.- e si fece avanti quello più basso.
Aveva baffi bianchi e portava un completo verde da boscaiolo.
- Come ti chiami, ragazzo?-
"Devo sognare. Sembrano i tre elfi di Claudio."- Claudio - rispose
- Esattamente come l’altro.- bofonchiò quello rosso sulla destra e si fece avanti.
- Bene Mario, Claudio è tuo amico. Come è caduto il vaso
- L’ha preso dentro mio fratello - "Ma come fa a sapere che mi chiamo Mario?"
Fu la volta dell’elfo di centro, quello vestito di blu.
- Va bene Mario, dopo aver tirato quel calcio mi hai quasi steso sotto il mobile. (Mario rimane
allibito) Comunque, so che avete fatto un po’ di Parmenide nel laboratorio di filosofia a
scuola. Bene, mi sai dire qual è la sua vera verità?
- La vvve, la vve... -
I tre elfi si guardarono e si fecero un cenno d’intesa.
- Il tuo è proprio un caso critico, non riesci nemmeno a dire una filosofia così semplice.
Comunque ti diamo una possibilità. Se non la passi, non sarai in grado di tornare indietro in
questo mondo, mentre se la passi ... vedrai.-
Si tolsero i cappelli facendo spuntare le orecchie a punta e agitate queste si ritrovarono tutti e
quattro in un giardino pieno di fiori, tutti soffocati da cespugli di rovi dalle spine grosse,
intrecciati tra loro in modo talmente fitto da lasciare appena intravedere ciò che ricoprivano.
Mario non poteva crederci. Stava indubbiamente sognando. Si tirò un pizzicotto facendosi
male. No, non stava sognando. Che Claudio dicesse il vero?
Claudio era stato un bambino proprio come lui, incapace di dire la verità, però poco prima di
compiere gli undici anni era improvvisamente cambiato e aveva iniziato a smettere di dire le
bugie, ammetteva ogni cosa che faceva e non era più nemmeno in grado di dire la più
semplice delle bugie. Quando gli avevano chiesto cosa gli fosse successo aveva risposto che tre
elfi gli erano comparsi davanti, gli avevano fatto cose strane e lui non riusciva più a dire bugie
e addirittura non riusciva neanche a pronunciare tale parola.
"Ma che Claudio avesse veramente ragione?" No! Era inammissibile una cosa del genere. Non
poteva essere vero! Non doveva essere vero! E poi era contro ogni logica, insomma a undici
anni o dicevi la verità o dicevi le bugie. E poi Claudio era stato ricoverato...
No, non era vero, però non stava neanche sognando!
- Allora, stava dicendo l’elfo rosso, vedi bene che questo giardino è un po’ trascurato. Devi
rimetterlo a posto! -
- Cosa?-
- Devi trovare tre porte che si aprono solo con i nostri tre nomi.- disse quello blu
- I nostri nomi li sai già, solo che non li rammenti, questo ti servirà a trovarli.- e l’elfo verde gli
consegnò una specie di piccola ampolla contenente del liquido simile all’acqua.
- Bene, se versi l’acqua per terra troverai la strada.
- Devi seguire un preciso percorso.-
- Se infrangerai il percorso ti perderai.-
Detto questo i tre elfi sparirono. Mario era rimasto lì esterrefatto con la piccola ampolla in
mano e non sapeva cosa fare. Non era possibile. Provò a tirarsi degli schiaffi, ma niente, non
riusciva a svegliarsi. Non riusciva a vedere una via d’uscita e così si risolvette a seguire il
consiglio degli elfi. Versò un po’ d’acqua per terra e comparve una "C", vi andò sopra e
comparve davanti una "O" e così via fino ad arrivare a leggere la frase "COSA VUOI DIRE?"
Quando arrivò al punto di domanda si ritrovò davanti a due porte. La prima era rossa con in
mezzo tre strisce verticali che da sinistra a destra erano blu, bianca e rossa, tutte contornate di
nero e con sopra una "F". "Sembra quasi la bandiera francese" pensò subito Mario. L’altra era
uguale se non che invece che rossa era tinta di bordò. Stava osservando le porte quando gli
comparve dinanzi un serpente.
- Ssssalve. Tu devi essere il ragazzzzino. Bene, sssseguimi.-
E attaccatosi con la coda alla sua gamba lo tirò verso la siepe che si aprì e lasciò vedere una
superficie nera. Il serpente sibilò. Sulla superficie nera si vide un bambino piccolo di circa
cinque anni, aveva preso un piccolo calamaio e ne stava versando l’inchiostro su una pagina di
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qualche cosa, sentendo arrivare qualcuno aveva lasciato cadere il calamaio ed era scappato
fuori dalla stanza. Mario si sentì come se qualcuno gli stesse scavando nella memoria. Poi la
scena disparve e si vide una famiglia seduta a tavola e il padre che urlava contro quello che
sembrava essere il figlio maggiore.
- Insomma te l’avrò ripetuto cento volte: era un documento importantissimo! Basta, questa
sera non esci e non uscirai neanche per quei dannatissimi allenamenti!- e tirò un ceffone al
figlio. La scena disparve. Il serpente fissò il ragazzo negli occhi, lo scrutò a fondo. Gli girò
intorno, lo analizzò; poi, ergendosi al livello della sua faccia:
- Che bella ssscenetta commovente, non trovi? Un vero esempio di limpida verità lampante,
non è cosssssì?-
Gli occhi del serpente brillarono di malvagità. Mario si era quasi dimenticato di quella storia.
- Quella è stata la prima volta che ho mentito. Mio padre mi aveva chiesto se ero stato io, ma
io avevo negato subito e poi mia madre aveva visto mio fratello col calamaio in mano.-
Il serpente si ritrasse disgustato, i cespugli di spine si alleggerirono e si diradarono
notevolmente e il ragazzo, sentendosi in un certo senso più leggero, ritrovò il resto del
ricordo...
- Sono stato io ad accusare mio fratello di fronte a mio padre perché non volevo essere punito
e poi avevano litigato, così ne approfittai. Però ero stato io. Adesso mi dà fastidio un po’
quello che ho fatto.-
Non aveva mai ammesso di aver detto una bugia. Era la prima volta. Le spine scomparvero
totalmente, Mario si sentì molto più leggero e i fiori presero un debole colore poco smorto ma
non allegretto. Il serpente, inorridito, era scappato a testa bassa alla porta e quando il ragazzo
lo raggiunse si issò sulla porta rossa e si andò a incastrare nel contorno nero intorno alla
bandiera francese. Il ragazzo rimase notevolmente interdetto di fronte allo strano
comportamento dell’animale e non sapeva cosa fare o semplicemente cosa pensare. Il serpente
lo guardò.
- Pressssta bene attenzzzione: Vérité!-
Il serpente si fece di un rosso vivo fiammeggiante come un fuoco e si integrò nella porta che
era diventata del medesimo colore e che si aprì, un po’ cigolando, sulla seconda parte del
giardino da salvare.
- I miei complimenti, sei riuscito ad ammettere il tuo primo sbaglio, non sei poi così
irrecuperabile. Bene ricordati tutto ciò che hai visto e sentito-
Erano i tre elfi che avevano parlato, ne era sicuro, però non sapeva dove.
- Tranquillo, non ti preoccupare, tu non ci puoi vedere ma noi ti seguiamo. Ricordati bene:
Vérité!-
"Vérité, ma che diavolo vorrà dire?" e data una scrollata di spalle attraversò la porta. Entrato
nella seconda area del giardino si guardò intorno per decidere il da farsi. Le spine, poté
notare, erano un poco più fitte rispetto alla prima parte del giardino e i fiori più spenti
rispetto agli altri già visti. Non sapeva cosa fare e si guardava intorno come un bambino
sperduto alla ricerca di aiuto e consiglio, quando sentì una leggera frescura sulla mano
sinistra. Si ricordò così, vedendola, dell’ampolla datagli dai tre elfi e del suo funzionamento.
Tolse il tappo e versò un po’ di quell’acqua per terra; come prima comparì una lettera, questa
volta la "D", e come prima dovette camminare sulla frase che pian piano usciva. In cammino
fu più lungo e Mario ne approfittò per controllare lo stato dei fiori: erano coperti dalle spine,
però come se fossero cresciuti insieme a quelle; altra cosa che gli balzò all’occhio, come si
suole dire, fu l’arsura che li aveva colpiti. Intanto era arrivato alla fine della frase che aveva
segnato il suo percorso.
"DEVI DISTINGUERE E CAPIRE QUAL E’ LA BUGIA, SE HAI GIA’ AMMESSO LO SBAGLIO
SARA’ PIU’ FACILE" Arrivò davanti a due alte porte più massicce delle prime due. Queste
erano verdi e lungo ì cardini scorreva un lungo serpente rosso vivo; al centro delle due porte
c’era un’aquila solo che quella di destra era ad ali spiegate, mentre quella di sinistra era
rintanata e lo guardava torva e minacciosa. Stava studiando le due porte quando sentì
arrivare due uomini che discutevano. Si voltò e rimase a guardare e ad ascoltare.
- Sei un bugiardo bell’e buono.- stava dicendo il primo, un evidente dottore un po’ spigliato e
trasandato, ma con uno sguardo franco e sincero.
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- Ma, mi consenta di contraddirla mio caro dottore, a mio parere è proprio lei il bugiardo.-
aveva invece ribattuto il secondo dallo sguardo un po’ freddo e indifferente, ma dal
comportamento impeccabile e aristocratico. I due si fermarono davanti a Mario che li
guardava come per dire: e voi cosa ci fate qua? Non centrate niente con me. Fu il dottore
spigliato a parlare.
- Benvenuto, tu sei qui per giudicarci e per scegliere chi preferisci seguire. Dal canto mio ti
consiglio di non dare ascolto a questo Pinocchio. Se segui me arriverai, con un po’ di fatica, lo
ammetto, alla terza porta. Se segui lui, non so che fine farai.
- La prego di non dare ascolto a quest’uomo che non fa altro che parlare a caso, replicò il
dottore aristocratico. - A sentirlo sembrerebbe quasi che ci trovassimo nella foresta della Bella
Addormentata. Comunque sia io le posso mostrare la via più veloce. Sono certo che ne terrà
conto e poi potremo iniziare un interessante discorso su certe bevande e potrei fargliene
assaggiare una.-
Nei suoi occhi brillò per un secondo un po’ di malvagità. Mario ebbe paura, riflettè un
secondo e poi arrivò alla sua decisione.
- Seguirò il dottore spigliato. Voi usate le lusinghe come ho provato a fare io per ingannare
alcuni miei amici e quindi mi sapete più di bugia, siete facile e comodo, ma pericoloso. La
verità è franca e sincera anche se non è sempre il massimo della vita.
- Come hai osato!!- il dottore aristocratico si infuriò e sì trasformò in una specie di mostro
orripilante e si stava per lanciare sul ragazzo quando l’aquila della porta sinistra gli volò
addosso e se lo mangiò in un boccone.
- Mi dispiace per l’orrendo spettacolo, ma adesso ti lascio andare, io devo tornare al mio
laboratorio. -
Così detto il dottore mise una mano sull’aquila della porta di destra che divenne come un
unico prato verde. Nel frattempo le spine sì erano dissolte e il giardino era ritornato a fiorire.
La porta si aprì dopo che il dottore ebbe detto "Verum".
- Ricordati: il rosso è Vérité e il verde Verum. Ciao. - e il medico se ne andò.
Oltrepassata la porta Mario si trovò davanti a una via sempre più stretta, le spine si erano
allargate a macchia d’olio e prendevano parte della strada. La condizione dei fiori era
notevolmente peggiorata e lui si sentiva quasi in colpa per quella situazione. Versò ancora un
po’ d’acqua e comparve di nuovo, camminandoci sopra, la frase. La situazione era
notevolmente peggiorata e i fiori stavano visibilmente morendo. Giunto alla fine del percorso
si trovò di fronte ad una porta blu, immensa costituita da due battenti; su entrambi c’erano un
serpente infuocato lungo i cardini ed un’aquila verde come un prato, poi a destra, nel centro,
c’era, conficcata, un’ampolla uguale alla sua con l’imboccatura verso l’alto e nel centro a
sinistra il posto per un’altra ampolla come la sua con l’imboccatura verso il basso. Non sapeva
cosa fare. "DEVI SCEGLIERE: O LA VERITA’ E LA VITA, O LA BUGIA E LA MORTE DEL TUO
IO" La bugia e la morte del proprio io. Mario continuava a chiedersi cosa volesse dire.
Osservava le siepi e gli sembrava che disegnassero la scritta "BUGIE". Sì era proprio così, più
guardava e più vedeva in quel groviglio di spine la parola "BUGIE". Ma come scegliere la vita?
Ormai non pensava più alle bugie, il solo pensiero lo faceva rabbrividire perché a quella
parola ormai associava il dottore aristocratico trasformatosi in mostro. Un brivido d’orrore lo
scosse tutto al solo ricordo! Si rammentò dell’ampolla e dell’ultima lezione di scienze: l’acqua
è alla base della vita! Ma come poteva darla a quelle piante morenti? Ci doveva essere un
modo! Si mise ad osservare la porta e si convinse che l’unico modo sarebbe stato quello di
porla a testa in giù, nella speranza che l’acqua non uscisse tutta prima. Mario capovolse deciso
l’ampolla e con suo grande stupore l’acqua non cadde, ma rimase con quella membrana che si
forma quando si riempie il bicchiere d’acqua fino all’orlo. Superata la sorpresa si impegnò a
sistemare l’ampolla nella porta incastrandola perfettamente al suo posto. I serpenti infuocati
guizzarono fuori dalla porta e bruciarono le spine che avvolgevano i fiori, poi da tutto il
giardino zampillarono fontane che dissetarono e rinvigorirono le varie piante e infine le aquile
si alzarono in volo, dissiparono le nuvole e il sole accarezzò e salutò il giardino finalmente
tornato alla vita. Mario si sentiva decisamente meglio, più leggero e con la soddisfazione di
aver fatto finalmente qualche cosa di buono, ma anche con un po’ di rimorso per le bugie
dette, per i suoi inganni e le sue falsità e si ripromise di mettere a posto tutto ciò che poteva.
30
Le due aquile vagando per il cielo e scorrazzando tra le nuvole avevano plasmato queste
ultime che ora gli dicevano:
- Verità!-
Non appena Mario ebbe pronunciato tale parola la porta alle sue spalle si spalancò e lui vide il
suo giardino fiorito all’inizio del suo percorso, il punto da cui era partito e ad attenderlo
c’erano i tre elfi di prima.
- Benvenuto- disse il rosso - Sei finalmente giunto. -
- Complimenti, sei stato veramente in gamba- commentò il blu
Il verde gli fece un profondo inchino di complimento.
- Ora puoi darci i nomi, inizia da me.-
Mario rimase un attimo a pensare.
- Allora, tu devi essere Verum perché sei verde come la porta. Il tuo nome mi sembra latino e
sono sicuro che l’aquila ad ali spiegate era il simbolo romano.
- Esatto. Sono il più vecchio di noi tre. Posso vantare di aver conosciuto personalmente
Cassandra e ho anche cercato di aiutarla, ma quei Troiani non volevano saperne di verità. Ah
quei disgraziati!-
- Avanti calmati fratellone, io vorrei sapere il mio nome.
- Tu sei Vérité. Rosso come la porta.
- Infatti, sono francese e come il mio fratellone se mi traduci mi chiamo Verità. Sono nato in
Francia. Però non ho sinceramente mai capito perché mi abbiano dato il serpente.-
- Io alla fine, lo dico da me, sono Verità. Blu perché per disegnare l’acqua in genere si usa il
blu e l’azzurro e poi la verità è limpida e cristallina come l’acqua. Bene, ora vuoi dirci la vera
verità di Parmenide?-
- Beh... Dovrebbe... la vera verità di Parmenide è: l’essere è e il non essere non è. -
- Io direi promosso a pieni voti. Tu cosa ne dici, Verum? -
- Beh, ha salvato il suo giardino interiore che rischiava di soffocare per le bugie e poi riesce a
dire la verità quindi... Non ho obiezioni. -
- Allora miei cari fratelloni lo riporto a casa.-
E senza dare il tempo a Mario di dire niente lo prese per una manica del maglione, agitò le
orecchie e, in men che non si dica, furono nella camera di Andrea.
- Bene, allora ciao e non dimenticarti di noi e della verità! - e Verità sparì.
In quel momento entrò il padre.
- Tutto bene? -
Mario lo guardò con una faccia trasognata.
- Avanti vai in camera tua. - e lo accompagnò a letto.
Quando si fu cambiato e messo sotto le coperte disse al padre che stava uscendo dalla stanza:
- Sai pa, oggi l’ho aperta veramente io la finestra. -
Al padre venne un colpo. Mario che ammetteva di aver sbagliato e che smentiva una sua
bugia?! Ma quando mai si era vista o udita una cosa del genere? Rimase a guardarlo
stralunato finché non lo chiamò la moglie. Quando le riferì l’accaduto, anche a lei venne un
colpo.
- Sarà stato il freddo della stanza a fargli prendere un colpo.- questo fu il commento
all’accaduto.
Ma sebbene tutti pensassero che questo fosse solo una di quelle cose che capitano una sola
volta nella vita, in realtà non lo fu e bisogna immaginarsi lo sconvolgimento che tutti ebbero
nel vedere la nuova e impeccabile condotta di Mario. Era divenuto un bravo ragazzo diligente
e diceva sempre la verità, alla prima insufficienza che portò a casa ammise di non aver
studiato e ammise anche che era stato lui a far cadere il calamaio a cinque anni, quella famosa
volta. Inoltre una volta venne alle mani con un suo compagno di classe e, cosa inaudita,
ammise addirittura di averlo provocato lui! I genitori e tutti quelli che lo conoscevano
iniziarono a preoccuparsi e cominciarono a consultare medici, psichiatri e psicologi. Mario
capiva il perché di tante visite, ma sapeva che se avesse raccontato dei tre elfi l’avrebbero
preso veramente per matto e l’avrebbero ricoverato, però c’era sempre l’ampolla vuota che
aveva trovato accanto al suo letto la mattina dopo quella strana impresa. "Pazienza,
continuava a ripetersi, prima o poi smetteranno".
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Erano ormai passati un paio d’anni da quell’episodio e ormai tutti si stavano abituando al suo
nuovo comportamento, quando Mario a scuola sentì parlare di un ragazzo che aveva visto tre
elfi che volevano convincerlo a dire la verità e di essere poi finito nelle grinfie di un mostro
spaventoso. "Poverino, mi dispiace per lui, però mi piacerebbe rivedere quei tre!" E continuò
per il corridoio. Quel tale fu ricoverato in clinica un paio di giorni dopo.
A tre anni esatti dall’incontro con gli elfi a cena, il suo fratellino usci con una frase di Rodari:
"Nel paese della bugia la verità è una malattia". Mario ripensò al suo caso e al ragazzo che
aveva incontrato Verum, Vérité e Verità e iniziò a ridere a più non posso, tanto che cadde
persino dalla sedia. Tutti lo guardarono senza capirlo e più lo guardavano stupiti e più lui
rideva. Quella frase di Rodari era proprio adatta a Busìverì, peccato che non ne esisteva una
con la verità per paese e la bugia come malattia. Chissà, magari esisteva, ma quella non faceva
al caso suo, né a Busìverì né al nostro Mario.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“APOLOGIA DELLA BUGIA”
di Nicolas Di Vara - 2a B
Quanto vale una rima? E una bugia? Una rima in fondo non è che una
bugia da un effetto sonoro, mentre una bugia non è che un tentativo di
mettere in verso una verità che si vuole o si deve nascondere. E qual è, in
fondo, la differenza tra una bugia e una metafora? La bugia è la volontà di
nascondere una verità sostituendola con il racconto di eventi fittizi lontani
o appena contigui alla realtà. Raccontare una verità non è che un processo
di ricordo e di racconto di un evento così come lo si è visto. In entrambi i
casi si tratta di raccontare una verità. Una verità discutibile e suscettibile a
seconda del classico "punto di vista". Ma tutto sommato, come definire la
verità? Chi racconta una bugia, non è che una vittima della bugia stessa.
Lo stesso Pinocchio non è che un povero legnetto che prende vita e che
racconta bugie per nascondere verità che, nella sua proiezione mentale,
risultano scomode. Ma che cos’è Pinocchio se non una grande, semplice,
banale metafora? La metafora non è che una bugia. Ogni poeta è in grado
e deve essere in grado di sviluppare una poetica sapendo miscelare
saggiamente verità e finzione, sentimenti e falsi sentimenti, o comunque
sentimenti momentanei, che non appartengono al suo bagaglio
sentimentale.
Poi la certezza della conoscenza associata all’ignoranza altrui, sentimento
intrinseco alla bugia, non può essere che una convinzione propria di colui
che la bugia la usa in quanto semplice mezzo di occultamento. La bugia
più profonda è quella verso sé stessi, che punisce. La conoscenza è un
sentimento piuttosto ingenuo, o meglio è ingenuo colui che è convinto di
poterla portare a sé e farla propria. Ma se la conoscenza non è delineabile,
come si può delineare una verità?
Cosa si oppone alla bugia? Cosa è in grado di vestirsi da verità, cosa è in
grado di svegliare nel profondo dell’animo la tendenza alla verità, o
almeno alla verità apparente? C’è una sola cosa che si oppone alla bugia.
L’appartenenza vince le differenze, è un sentimento di vicinanza, non solo
morale. Condividere lo stesso obiettivo e gli stessi sogni può essere una
prerogativa della verità. La verità è la cognizione dell’appartenenza ad un
particolare disegno e intreccio di sentimenti. E diceva bene il signor G
quando cantava che l’appartenenza non è un insieme casuale di persone o
lo sforzo civile dello stare assieme: l’appartenenza è avere gli altri dentro
di sé, e quindi condividere gli stessi sogni, desideri, gli stessi diritti davanti
alle proprie convinzioni. Condividere quindi la medesima verità, che non
necessariamente è percepibile ed evidente. Può essere opposta alla verità
apparente. La bugia è quindi un tradimento davanti a quale verità? E
l’appartenenza è il contrario della bugia o è fatta della medesima struttura
intrinseca? Questa duplice possibile interpretazione è un paradigma di
questo stesso discorso. Dove è la verità e dove è la finzione?
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Credo ci sia una parola strettamente interconessa con la bugia: certezza.
La bugia nasce dal concetto stesso di certezza, dalla certezza della verità e
quindi dalla certezza, dalla sicurezza della falsità della menzogna. La
certezza di nascondere una verità. Lo stesso concetto di certezza poco si
adatta all’animo umano e in particolare all’animo del menzognero. La
certezza è qualcosa di granitico, di decisivo, di caparbio e, estremizzando,
non è che un’inconscia convinzione di potenza. L’unica certezza che si può
avere è quella di non sapere, ma scrivere sulla bugia, sulla verità e in
particolar modo sulla certezza rappresenta una contraddizione in termini.
Come posso scrivere le mie false certezze, come posso scrivere le mie
verità? Dovrei verificarle ogni momento per vedere che non mento. In
ogni momento per verificare che siano le stesse di prima, per poi
accorgerti che sono già cambiate, in un battibaleno.
Così come è strettamente legata col significato di verità, così la bugia è
connessa con la finzione o con la non-realtà. In effetti dire una bugia è
come costruire, nella proiezione mentale di colui che la subisce (che, non
è escluso, può essere anche colui che la dice), una realtà fittizia parallela a
quella, per l’appunto, "reale". Ma ecco che ci si addentra in una foresta
ancora più fitta, quella dell’espressione umana. La bugia è una tipica
espressione dell’animo umano, e lo stesso mio utilizzo così frequente della
parola "bugia" non dipende solo dalla pochezza dei sinonimi, ma da una
volontà di esorcizzare la finzione, appunto. In fondo la parola intesa come
mezzo di comunicazione, o ancor di più di espressione non è che una
bugia. E’ veramente un concetto meraviglioso quello di affiancare la parola
all’espressione umana. L’uomo attraverso la parola non solo comunica,
non solo pronuncia bugie, ma si esprime; e l’espressione non è
propriamente assimilabile alla comunicazione, a mio avviso. Esprimersi
vuol dire render palese le proprie idee, i propri desideri, per l’appunto la
propria realtà. Così come si esprime un pensiero, lo si colora, lo si rende
un’entità a sé che costituisce un’idea, l’essenza intrinseca dell’uomo.
Si potrebbe allargare questo tipo di discorso all’idea di parola quale
conseguenza di una cosa; o di una cosa come conseguenza della parola. E
qui i discorsi fra linguaggi induttivo e deduttivo si amplierebbero a non
finire.
Ma la bugia, quindi, è un importantissimo carattere distintivo del genere
umano. Mi rammento quel discorso freudiano dell’insulto e della scurrilità
quale decisivo passo avanti dell’umanità verso la civilizzazione e in fondo
le due questioni sono piuttosto vicine.
C’era un sogno, una volta, una grande bugia che mi faceva sempre
commuovere. Immaginavo un mondo diviso in due parti. Una parte
luminosa, accecante dove c’era un grande trono. Sopra vi sedeva uno
splendido essere che giocava con delle sfere piene di luce. E’ il dio dei
sogni, mi dicevo. Dall’altra parte, una terra scura, fredda e oscura. E su un
piccolo scranno sedeva un piccolo re, terribile. Il dio della realtà che invia
il dono più terribile, il risveglio. Ho sempre desiderato che mi si
raccontassero bugie. In fondo nella vita non conta sapere la verità assoluta
ed inconfutabile, ma è meglio essere coscienti e conoscenti di una verità
che si adatti il più possibile a sé. Ogni volta che mi è stata rivelata una
verità non ho migliorato la mia condizione precedente di tanto. Tanto vale
vivere nel mondo della bugia, dove è ignorata la vera realtà, ma ci si sente
un po’ meno responsabili di quello che la verità fa. Come il valore della
musica esula dal mero susseguirsi delle note, così la verità esula dalla
concezione granitica del reale, ma entra in una nuova sfera di
consapevolezza: ogni verità è a suo modo reale.
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Aiutatemi a librarmi dal mondo delle false verità e a separarmi dalla mia
conoscenza infima della realtà per attraversare una nuova certezza, quella
dell’eterea paralisi dello spirito. E allora allontanatemi da tutto ciò che posso
toccare: ho bisogno dì sentire quel mondo nascosto dietro gli occhi. Davanti
agli occhi sono anch’io in grado di guardare, ma desiderio immaginare quello
che possa nascondersi dietro le porte e della realtà in quel mondo misterioso
che solo un animo folle potrebbe sperare di spiegare a parole. So solo che
esiste e che nessuno può arrivare a spiegarlo senza volersi sentire parte di
esso. Un tempo desideravo fare della mia vita il tempio della certezza e della
verità; accertata l’impossibilità dell’impresa mi sono accorto che il vero
obiettivo dell’animo sta nel costruire una realtà nuova. Una realtà di follia e
conoscenza alternative in modo da opporsi a quella prigione d’aria e carne
che la realtà della propria fisicità. Vivere distanti dal proprio corpo fisico è
un impresa che assomiglia molto a quella di un santone orientale, ma la vera
volontà non è cercare una fantomatica catarsi, bensì creare una realtà di
sentimenti e desideri che esuli dalla semplice constatazione della vita come
respiro e pensiero. Voglio scoprire una terza dimensione. Vedo la dimensione
della realtà, posso appena percepire quella del pensiero, ma voglio tuttavia
superarla, andare oltre e guardare cosa c’è oltre. Come i generarli in guerra,
come una loro famosa tattica, voglio superare il mondo del pensiero e
scoprire una terza dimensione sensoriale in modo da tagliare fuori i due
mondi precedenti. Esiste un modo in cui la verità non abbia senso, in cui
possa esprimere il mio desiderio di fuga e di conoscenza con la follia con il
sogno con lo sgretolarsi della certezza.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“BUGIA DI UN VECCHIO SOGNATORE”
di Davide Papasidero - 2a F
Il regalo più bello che mio nonno mi ha fatto è un sogno. Quello di riuscire a far
scorrere le mie dita sul pianoforte in presenza di un vasto pubblico suonando un
"notturno" di Chopin, il compositore da lui prediletto, e nel contempo stupirlo,
estasiarlo.
Fin da bambino ricordo, mi confessava spesso il suo rimorso per l’occasione
sfumata nella sua gioventù a causa di una fatalità, di realizzare quello stesso
sogno: ripeteva di aver voluto continuare a studiare, con determinazione e
tenacia; diceva che un giorno, finalmente, fosse riuscito ad avere il permesso di
suonare in un teatro, uno tra i più importanti (sul nome del quale, però, non ha
mai aperto bocca) il SUO concerto, quello da lui tanto aspettato, tanto bramato.
Nonostante ciò, rivolgendosi a me con uno sguardo sognatore, mi diceva
(ripetendo ogni qual volta iniziasse la narrazione, con queste esatte parole): "ma
il mio sogno si infranse contro una barriera invalicabile, proprio dinanzi alla
porta in cui solo i migliori entrano".
Stando al suo racconto, infatti, egli si ferì gravemente lavorando, solo alcuni
giorni prima dell’atteso evento; perse così tre dita della mano destra e il suo
progetto andò in fumo.
Questo fu il motivo per cui, a circa 9 anni di età, intrapresi la via che mi avrebbe
condotto, in un momento futuro, distante anni, nel quale avrei potuto mostrare
davanti a tutto il mondo il concretizzarsi di una vita di sogni, del sogno di una
vita.
Così migliorai, col tempo e con l’ingegno, mostrando passo a passo i miei
progressi a mio nonno; continuai imperterrito ad impegnarmi.
Trascorsi pochi giorni dalla sua morte, avvenuta il 10 di questo mese, triste
giorno di questo triste aprile, sono venuto a sapere dai miei genitori che il nonno
aveva perso le dita della mano durante la guerra, per colpa di una granata
esplosa prima del previsto, un grande sconforto ha avvolto la mia mente: la sua
storia era una menzogna, un’invenzione, una BUGIA.
L’aveva a me propinata, proprio come il venditore di caramelle cerca, riuscendo
in pieno nel suo intento, di vendere la sua mercanzia agli ingenui bambini;
bambini che abboccano all’esca di un astuto pescatore, come gli ottusi pesci. Così
son stato io.
Oggi, 15 aprile, data del MIO concerto (che credevo fosse anche di qualcun
altro... ), a 26 anni "suonati", fidanzato da due, è il giorno della rivalsa, della
rivincita.
Le mie dita scorrevano sulla tastiera del piano. Gabbiani in cerca di una preda. Il
pubblico è attonito, commosso, stupefatto.
Il "notturno" è terminato (persino Chopin sarebbe fiero di me). Solo ora capisco
che probabilmente ho compiuto ciò che mio nonno realmente avrebbe desiderato
per se. Ora ho vinto la battaglia di una intera esistenza (forse invano? forse
insignificante?). Ora posso afferrare quella invisibile maniglia, e valicare la porta
in cui solo i migliori possono entrare.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“BUGIE” di Valentina Rosolen - 2a B
Frutto di una tumultuosa lotta tra lealtà e istinto di autodifesa, traguardo non voluto di un
duro scontro tra responsabilità e libertà d’azione, le bugie si insinuano nelle nostre parole, in
discorsi che avremmo preferito evitare... diventano come realtà. La realtà di un rifugio buio
nel quale ci nascondiamo fino a non trovare più la nostra personalità, quando ormai la
codardia ha preso il sopravvento sulla ragione. Nostri difensori, giudici, pene e condanne allo
stesso tempo di un processo ideale, le menzogne feriscono più di una lama tagliente, più dì un
rasoio affilato, più della nostra lingua se mai avesse pronunciato quelle parole amare che ha
preferito evitare. Così noi, dopo averle dette, colpevoli e vittime allo stesso tempo
dell’inganno, iniziano a fuggire. Sappiamo infatti che la verità non si trova dietro l’angolo, in
quei vicoli scuri dove, come ladri, celiamo il nostro cuore alla sincerità che, piano piano, non
più alimentata, viene meno. Si dice che le bugie hanno le gambe corte, ma nessuno
s’immagina quanto lo siano quelle di colui che, nel pieno della menzogna, tenta di ritornare
alla verità. Così ci limitiamo a condurre la nostra vita di tutti i giorni, bugiardi così come
siamo. Ci lamentiamo ancora una volta dei personaggi televisivi "rifatti", di coloro che hanno
preferito una plastica a se stessi, pur di non mostrare le loro debolezze, piccoli difetti che,
coperti, saranno immaginati enormi, senza accorgerci che quelle "star" non sono così tanto
distanti da noi e dal nostro modo di agire. Ma quel che è peggio è che mentre un trattamento
estetico si paga, le bugie non possono essere né vendute, né tanto meno acquistate, scambiate
con un altro prodotto, o abbandonate in un cestino. Già, non bisogna, infatti, essere
commessi, o miliardari di professione per usufruirne. Basta rimanere uomini: poca coscienza,
assai meno intelletto, ancor meno ragione. Creature che mentono a se stesse
autoconvincendosi di essere superiori alle altre per quella razionalità tanto vantata di cui poi
non si servono, bugiarde di natura, insomma. Esseri che sanno celare un insulto dietro a un
sorriso e avidità con un ideale... senza accorgersi che pugnalando alle spalle colui che è loro
davanti colpiscono loro stessi. Ed è allora che l’animo avvizzisce e gli occhi s’intorbidiscono.
C’è chi dice che le bugie possono essere raccontate anche a fin di bene... ma che vantaggio
può esistere nel celare la realtà a un individuo, se prima o poi ci sbatterà contro in modo assai
più dolente rispetto a quello che avrebbe potuto essere se solo, ancora una volta, non fossimo
stati così... coraggiosi da mantenere un truce segreto? No, se non fossimo stati VIGLIACCHI a
tal punto da cercare di rendere, reale e credibile, qualcosa che non lo era. Allora quindi, anche
i sogni sono bugie raccontateci da qualcuno con il nobile ideale di darci una vana speranza in
un’esistenza che nulla assicura, né promette?! Forse. Si rivela perciò normale agire in modo
falso con gli altri se c’è chi lo fa con noi, per esempio noi stessi. Non è infatti vero che la
nostra mente è una bugiarda ingannatrice? Sia pur malvagi, potrebbe farci ritenere giusti, e,
anche se belli, orribili, perché non è lo specchio falso, né tantomeno la coscienza, forse
l’amico, ma non del tutto, bensì le convinzioni che abbiamo. Fissazioni per cui le bugie
diventano realtà, e noi pure invenzioni. Dunque noi stessi siamo bugie inventate per far
divertire un qualche essere lontano nell’universo? Sembra una domanda senza senso, ma, falsi
come siamo, non è poi così impossibile che la risposta giusta sia affermativa o forse negativa,
se vorremmo mentire ancora una volta. Se così fosse l’intero globo sarebbe un’enorme bugia
abbellita dalle colline della B e dalle valli della U; dolce come una G e allo stesso, tempo aspra
al pari di una I. Un mondo rispetto alla cui creazione noi uomini saremmo le A del caso,
ultimi, ma certo non meno importanti per dare significato ed espressione alla parola BUGIA.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“BUGIA” di Mattia Muratore e Laura Francavilla - 5a H
Il lento sgretolarsi
Di una verità
Porta ad un unico scoglio
Che sovrasta il mare della
Sincerità
38
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“UNA BUGIA” di Davide Fumagalli - 4a F
Una bugia:
La vuol dire un bambino,
perché un po’ birichino
per far solo un giochino.
Una bugia:
La pronuncia anche un adulto,
per non prendere un insulto
per politica o per culto.
Una bugia:
Può utilizzarla il vecchiettino,
per far contento il nipotino
che si accontenta di pochino.
Una bugia:
Detta a fin di bene
o per egoismo,
fa soffrire le pene
con un gran cinismo;
forse subito può dare sollievo
ma poi col tempo non perdona
il rimorso pare come un rivo
prima è lento e poi si sprigiona.
39
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“LA BUGIA” di Emanuele Fumagalli - 4a F
La bugia:
Abito del falso,
Bocca dell’ignorante
Urta i nostri pensieri
Gioca con i sentimenti, ma
Inciampa nella realtà che un
Amore vero può mostrare.
40
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“BUGIE” di Benedetta Carozzi - 5a B
Inevitabili si nascondono dietro bocche innocue,
vibrano nell’aria dirette ad incunearsi come lame affilate,
tante volte, è proprio vero che occorre essere attenti
per essere padroni di se stessi e così, giuramelo,
non lasciare che ti ammaestrino con la loro affabile vocina,
io, intanto, mi trovo imbarazzata, sorpresa, ferita
da un brivido che pervade interamente ogni mio senso,
svanendo poi via, via...
41
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“IO E L'ALTRA”
di Chiara Nobis- 5a F
Racconto di me e il respiro è strozzato.
Autentici pensieri gridano la vita, ma la voce colpevole li uccide
offrendomi un’illusoria vittoria.
Mi difendo con calcolate verità,
che sembrano inattaccabili nella loro falsità costruita.
Così divento sconosciuta,
lontana come la felicità e,
debolmente,
accetto di vivere di un’altra me.
42
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“LA GRANDE BUGIA” di Federica Maria Rossi - 1a B
Non date ascolto a chi giustificherà come giusta una guerra:
è una menzogna.
Non date ascolto a chi vi parlerà di libertà come qualcosa di irraggiungibile:
è una menzogna.
Non date ascolto a chi urlerà contro il cielo di essere un "servitore della patria",
per poi andare a schiantarsi contro un grattacielo colmo di vite umane:
è una menzogna.
L'unica grande verità è che il mondo è tutto una grande bugia ...
43
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“BUGIA” di Alberto Padovani- 4a H
Bugia,
tormento di un animo nobile,
dissacratrice di una realtà claudicante,
bugia,
capro espiatorio
per una soggettività ambigua,
amante fedele dei mio animo irrazionale.
44
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“LA CERTEZZA” di Nicolas Di Vara - 2a B
Ho nascosto una verità,
e il retaggio di quella mi ha coinvolto con la sua
caparbietà.
Ma la dolce stilla della conoscenza
Mi ha dato una sicurezza:
non sono certo di averla.
Non la certezza,
non la verità.
La verità, nell’indecisione
Più profonda, della conoscenza,
di una sola vera parola che non
fosse certezza.
Affronterò la verità,
mi nascondo
ma non ora
non mai
la raccoglierò.
Non amo la verità, né la cerco;
sogno la pazzia,
sogno di potere, un giorno
desiderare una nuova realtà,
autentica
e di non avere, mai più,
una sola convinzione.
45
Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2003 - 9a edizione
“VIVERE” di Andrea Fioravanti - 4a C
Quante bugie nell’assordante silenzio
Di chi non sa ascoltarsi,
Nei dolci sguardi sospirati
Di chi non sa amare.
Bugie nel mare al tramonto
Di chi non sa stupirsi,
Negli sfuggevoli momenti di gioia
Di chi non sa godere.
Si vive in mille maschere
Si recitano parti
Dimenticandoci di essere.
Dimenticandoci di vivere.
E mentre il tempo scorre
Lento, come il suono di un addio
Ci raccontiamo una bugia.
E si muore un po’.