rewind - raccolta di riflessioni di economia, fisco e finanza

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_________________________________________________ Donatello Alessio Consulente in Strategia, Programmazione & Controllo di Gestione www.RisorseProfessionali.it Rewind! Raccolta di (ovvie) riflessioni di Economia, Finanza e Fisco di donatello alessio

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_________________________________________________ Donatello Alessio

Consulente in Strategia, Programmazione & Controllo di Gestione www.RisorseProfessionali.it

Rewind!

Raccolta di (ovvie) riflessioni di Economia, Finanza e Fisco

di donatello alessio

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Rewind! Raccolta di (ovvie) Riflessioni di Economia, Finanza e Fisco

Donatello Alessio

Consulente in Strategia, Programmazione & Controllo di Gestione www.RisorseProfessionali.it

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L’Autore

Donatello Alessio E’ Dottore Commercialista e Revisore contabile in Lecce nonché Curatore Fallimentare e Consulente Tecnico d’Ufficio presso il Tribunale di Lecce. Per diverse aziende italiane svolge l’attività di consulente in Strategia, Pianificazione e Controllo di Gestione. E’ anche Formatore in Organizzazione aziendale ed in Processi di Internazionalizzazione aziendale. E’ fondatore di www.RisorseProfessionali.it

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Indice

Prefazione p. 6 Banca e Azienda: si cambia! p. 7 (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 05/04/04)

Regole nuove per lo sviluppo p. 12 (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 31/05/04)

Credito bancario: meno rischi p. 18 (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 17/01/2006)

Alla scoperta del contratto psicologico p. 22 (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 21/03/06)

Evasione: dalla verità al contrasto p. 25 (Pubblicato su www.lavoce.info del 26/11/08)

Innovazione unica arma per competere p. 32 (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 23/03/2009)

Evasione: una malattia sociale p. 37 (Pubblicato su www.lavoce.info del 22/08/09)

Crisi: giù la maschera! p. 45 (Pubblicato su www.lavoce.info del 27/08/2009)

Crisi: siamo alla resa dei conti p. 48 (Pubblicato su www.lavoce.info del 05/02/2010)

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Interventi contri i ritardi nei della PA p. 52 (Pubblicato su www.commercialistatelematico.it del 07/09/2010)

Lotta all’evasione p. 60 (Pubblicato su www.commercialistatelematico.com del 28/01/2011)

Dove va’ l’Italia! p. 64 (Pubblicato su www.lavoce.info del 16/08/2011)

Evasione sotto scacco: ecco come! p. 70 (Pubblicato su www.lavoce.info del 23/08/2011)

Svenduta l’occupazione dei giovani p. 77 (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 03/11/2011)

Il fuoco che brucia in Borsa! p. 80 (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 15/12/2011)

La lotta all’evasione non è uno spot! p. 85 (inedito)

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Non il più forte e non il più intelligente,

ma vince colui che

meglio si adatta al cambiamento.

(C. Darwin)

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PREFAZIONE

Potrebbe apparire l’acme dell’autocelebrazione ma

la raccolta di riflessioni sui temi scottanti dell’economia,

della finanza e del fisco contenuta in questo e-book può

essere invece un indizio che svela la riluttanza del

Sistema Italia in un periodo (2004-2011) in cui ha

regnato la sregolatezza della globalizzazione.

Si tratta di riflessioni spontanee che mettono a

nudo la miopia del nostro Paese che prova a ribaltare

sulla globalizzazione tutta la responsabilità di un

pensiero stagnante.

La lettura progressiva, in alcuni passaggi, spiazza

addirittura il tempo, mentre la sintesi di tutto è in

questo aforisma:

“Colui che non prevede le cose lontane, si espone ad

infelicità ravvicinate.” (Confucio)

Buona Lettura!

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Banca e Azienda: si cambia! (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 05/04/04)

Nello scadenzario della prossima estate le nostre

imprese devono aggiungere il termine, previsto per

giugno, delle trattative sull’Accordo di Basilea 2.

Dell’argomento se ne parla ancora poco ma ci

abitueremo a familiarizzare nei prossimi mesi

quando le nuove regole inizieranno a produrre le

prime e significative conseguenze.

Vediamo, in sintesi, storia, contenuto ed effetti

dell’importante novità. L’accordo, che prende il

nome della placida cittadina svizzera dove ha sede

la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), nasce

in seno ad un Comitato, costituto a metà anni ’70

su iniziativa dei Governatori delle Banche Centrali

dei Paesi del G10 e composto da: Belgio, Canada,

Francia, Germania, Italia, Giappone, Lussemburgo,

Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito

e Usa. Gli Accordi del Comitato non hanno valore

vincolante nei confronti dei Paesi aderenti, salvo

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loro recepimento. La finalità principale del Comitato

è armonizzare le regole ed i comportamenti dei

differenti sistemi creditizi nazionali.

L’Accordo, che è in fase di discussione e che sarà

effettivo alla fine del 2006, è denominato Basilea 2

poiché è il successivo a quello sottoscritto nel 1988

il quale prevedeva l’obbligo per le banche di

accantonare, a garanzia, l’8% del capitale erogato.

I correttivi e le analisi fatte nel corso degli anni

hanno portato, nel gennaio del 2001, a rivedere il

contenuto dell’Accordo da cui è scaturito un

documento – The New Basel Capital Accord – che ha

dato inizio ad una trattativa sul nuovo Accordo

definito, appunto, Basilea 2.

Tale Accordo intende introdurre delle novità che

sono di forte impatto sul sistema bancario italiano e

si basa su tre pilastri: 1) requisiti patrimoniali

minimi; 2) controllo prudenziale dell’adeguatezza

patrimoniale; 3) requisiti di trasparenza delle

informazioni.

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Tralasciando i tecnicismi previsti, la novità assoluta

e di forte impatto sulle imprese è il sistema di rating

in base al quale la capacità d’accesso al mercato del

credito delle imprese dipende dal proprio livello di

rischio (rating). Ciò significa che ogni banca si sta

adoperando a riconvertire i vecchi e poco efficienti

criteri di valutazione, fondati sulle informazioni

quantitative, in modelli efficienti che tengano conto

anche di importanti informazioni qualitative

dell’impresa e dai quali viene fuori un dato

inequivocabile: appunto, il rating. In sostanza, si

adotta il genere di modelli utilizzati dalle più

importanti agenzie internazionali di rating quali

Moody’s, Fitch e Standard and Poor’s.

Le trattative in corso sono intense e tese non tanto

per l’evoluzione delle logiche del sistema creditizio

quanto per le conseguenze che si riverberano sul

sistema imprenditoriale. In sostanza, Basilea 2,

suffragata dagli scandalosi crack di Parmalat, Cirio,

Giacomelli, Enron e molti altri ancora, si basa sulla

logica del credito di qualità che ha come ingredienti

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non solo gli indicatori di redditività dell’impresa e di

solidità del patrimonio aziendale, ma anche gli

indicatori di solvibilità in termini di capacità di

generare cassa oltre a quelli di qualità del business

e del management. E’ indubbio, dunque, che

l’obiettivo del credito di qualità possa essere

centrato solo a patto che le logiche che governano

l’impresa rispettino i principi di sana gestione.

Un’altra conseguenza da non trascurare è la

prociclicità delle misure previste nell’Accordo. Ciò

significa che in periodi economici difficili, come quello

che stiamo vivendo, il sistema bancario si copre dai

rischi riducendo le esposizioni nei confronti delle

imprese. Ed è soprattutto in queste fasi che prevale

la gestione aziendale di qualità.

Da una recente simulazione, svolta

dall’Unioncamere, inoltre, su un campione di 7.860

società italiane appartenenti ai 15 principali settori

produttivi, viene fuori che il 65% di loro si colloca

sulle classi di rating critiche, il 16% addirittura in

zona di fallimento, mentre solo il 17,5% avrebbe

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rating accettabili. In altri termini, oltre l’80% delle

nostre imprese rischia l’aumento del costo dei

capitali presi a prestito ovvero la contrazione degli

stessi.

Queste sono le minacce che aleggiano sul mercato

del credito. Tuttavia, è semplicistico ricercare in

Basilea 2 il capro espiatorio della superficialità

nelle scelte di finanziamento e di investimento.

Personalmente credo che sia opportuno iniziare sin

d’ora a rigenerare la concezione tanto del rapporto

banca-impresa quanto del modello direzionale

dell’azienda. Ciò è perseguibile costruendo sistemi

informativi aziendali efficienti; monitorando lo

“stato di salute” dell’impresa; pianificando e

verificando gli obiettivi; armonizzando la gestione di

tutte le risorse impiegate. E’ necessario, in

sostanza, approfittare delle minacce del nuovo

Accordo per iniziare a guardare in faccia la realtà

della propria azienda. Solo in questo modo Basilea

2 può rappresentare il giusto presupposto alla

maturità imprenditoriale.

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Regole nuove per lo sviluppo (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 31/05/04)

Le sorti della ripresa del modello economico

italiano, nonché di quello pugliese, non possono più

essere affidate ai soli investimenti materiali

(tangibles assets) ma anche, se non soprattutto,

agli investimenti nella conoscenza (intangibles

assets). Questa è la chiara sensazione che aleggia

nei quartier-generali da dove partirà la scossa tanto

decantata dal nostro Presidente della Repubblica.

Se provassimo a leggere le statistiche, ci

accorgeremmo subito di quanto forte debba essere

quella scossa per rianimare un’economia che si è

scoperta tutta un tratto (!?!) degente e poco

competitiva. Sono bastati i primi quattro mesi del

2004 per far perdere all’Italia dieci posizioni nella

graduatoria della competitività dei Paesi

industrializzati: siamo retrocessi alla 51.ma

posizione rispetto alla 41.ma del 2003 (Fonte: Imd).

Se ciò non bastasse, nella classifica siamo

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preceduti da Paesi quali la Giordania, il Sud Africa

e la Russia e precediamo solo l’Argentina ed il

Venezuela. Cambia ben poco anche a livello

provinciale. Se consideriamo, ad esempio, la

provincia di Lecce, essa occupa il 97° posto su 103

nella classifica del reddito pro-capite delle province

italiane (Fonte: IlSole24Ore) con 12.195 Euro di

reddito prodotto per cittadino contro una media

nazionale di 18.906 Euro. Non conforta certo

sapere che il reddito pro-capite della Slovenia e di

Malta è di poco superiore ai 10.000 Euro. Corrono i

presupposti per parlare di una “Questione italiana”

e il debacle non è, pertanto, circoscritto alle sole

regioni meridionali.

A proposito di new-entry nella nuova Europa a 25, i

rischi di un ulteriore declassamento dell’Italia sono

dietro l’angolo. I nuovi dieci Paesi devono, infatti,

recepire le oltre 250 direttive comunitarie e si stima

che ciò può avvenire in non meno di 3-4 anni. In

questo lasso di tempo di adeguamento, le loro

economie diventano sempre più appetibili dalle

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imprese europee, pugliesi comprese. Non è difficile

delocalizzare la produzione in Paesi dove

convergeranno gli aiuti Ue, dove le riforme

strutturali sono da tempo avviate, dove si investe

nella ricerca parte consistente del Pil e dove il costo

medio del lavoro è di 6,7 Euro contro gli oltre 17

dell’Italia. D’altronde l’imprenditore deve

organizzare la sua azienda economicamente (come

recita l’art. 2082 del codice civile) e la tutela dei

posti di lavoro locali non è certo prerogativa sua ma

dello Stato.

A questo punto non è difficile abbozzare una

diagnosi di un’economia da tempo claudicante e

scarsamente stimolata. Ma quale può essere la

terapia che possa scuoterla? Credo che se

dobbiamo ricorrere alla scossa non possiamo che

seguire una terapia d’urto. Ciò significa, in

sostanza:

1) rigenerare l’attuale modello di gestione

imprenditoriale ormai obsoleto. L’Italia ha

iniziato a soffrire la concorrenza dal momento

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che si è spogliata dei protezionismi statali

mettendo in luce i tanti difetti e limiti

manageriali tanto consolidati quanto dispersivi

di risorse;

2) investire di più in ricerca e sviluppo. Per

convincerci di questo è sufficiente legare la

capacità d’innovazione alla competitività come in

una relazione di causa ed effetto. Sul piano del

confronto con gli altri Paesi, l’Italia non ha voce

in capitolo: ad esempio, nel 2002 la Cina ha

investito circa 60 miliardi di dollari in ricerca.

Solo Usa e Giappone qualcosa di più. Mentre

l’India ne ha spesi 19 miliardi. E l’Italia? Appena

10 miliardi di dollari;

3) adottare modelli incentivanti all’interno

delle organizzazioni. Si è calcolato che solo il

3% della retribuzione deriva dagli incentivi di

rendimento del personale. Se occorre una scossa

per un’economia monotona, non vedo ragione

per cui non si debba “scuotere” anche il modello

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organizzativo aziendale povero di idee e del

senso di sfida;

4) allargare i confini del proprio mercato.

Mentre la Francia e la Germania hanno

aumentato l’export del 15%, l’Italia ha subito

una contrazione del 7%. Non dimentichiamoci

che il mercato è globalizzato e che occorre

allargare gli orizzonti alla ricerca di nuove

opportunità commerciali;

5) abbandonare la politica cinese di bassi

prezzi e delle produzioni su commessa per

puntare su marchi propri;

6) interagire con le associazioni di categoria le

quali non hanno fatto abbastanza se abbiamo

un sistema industriale convalescente;

7) puntare sulla formazione continua che sia da

stimolo alla crescita della conoscenza aziendale

(know how) quale supporto intangibile (e per

questo non contraffabile!) allo sviluppo;

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8) ricercare validi supporti di crescita nei

professionisti che, per mestiere, sono focalizzati

su una particolare area gestionale;

9) aggregarsi in associazioni di vario tipo al

fine di approfittare dei vantaggi della grande

impresa pur preservando la singola autonomia

aziendale;

10) ed infine, riconoscere al made in Italy una

tutela forte contro la contraffazione selvaggia.

Credo che questa sia la terapia giusta ma è chiaro

che possiamo giudicarla solo dopo che il “paziente”

ha collaborato.

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Credito bancario: meno rischi col nuovo accordo (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 17/01/2006)

Dopo quasi sei anni di attente valutazioni ed

estenuanti compromessi, lo scorso settembre la

Commissione europea a riversato in una direttiva

comunitaria il nuovo Accordo sul capitale di credito

(Basilea 2). L’esordio ufficiale è atteso per il 2007

anche se, in realtà, il collaudo dei sistemi di

valutazione degli istituti bancari è oggi in dirittura

d’arrivo. In sostanza, il rischio di ogni azienda è già

quantificabile.

Ma vediamo in che consiste l’Accordo. Esso

coinvolge direttamente il sistema bancario

internazionale nel rispetto di un progetto di

stabilità del mercato creditizio iniziato nel 1988 (in

occasione della Basilea 1). Volendo sintetizzare,

esso stabilisce che su 100 di prestito all’impresa, la

banca è obbligata a mettere da parte una somma

pari ad 8 (ossia, l’8%) che sarà calcolata non più

sul valore del prestito (100) ma su quest’ultimo

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tenuto conto del rischio specifico dell’azienda

(rating). Può accadere, pertanto, che a fronte di 100

di prestito la banca metta a riserva 6 nel caso di

rischio limitato ovvero 12 nel caso di rischio

eccessivo. E’ superfluo osservare che le legittime

esigenze di stabilità e di redditività delle banche

finiscano per avallare soluzioni di

ridimensionamento dei prestiti (credit crunch)

ossia di aumento del costo degli stessi (pricing).

Salvo che l’azienda sia in grado di integrare le

garanzie reali e/o personali offerte. Ne consegue,

pertanto, che il pericolo del credit crunch o del

pricing è scongiurabile attraverso il contenimento

del rischio specifico dell’impresa.

L’effetto indotto dell’Accordo di Basilea 2 consiste,

in effetti, nell’educare le imprese a dedicare

maggiore cura alla qualità delle informazioni fornite

ai soggetti finanziatori e a porre maggiore enfasi

proprio sulle seguenti leve strategiche: capacità di

generare liquidità, stabilità patrimoniale ed

attitudine a sviluppare attività profittevoli.

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Come logica conseguenza, l’attenzione posta su tali

leve consente di migliorare i parametri a base del

calcolo del rating potendo così confidare

nell’ampliamento dell’affidamento o addirittura

nella riduzione del costo. Di fatto, tale

miglioramento è ineludibile da un complesso

processo di cambiamento dell’attuale gestione

aziendale scarsamente attenta alla dinamica

finanziaria e all’attività di budgeting, con strategie

confuse e contraddittorie e poco attente alla

ricchezza professionale (intangibles). Nella realtà,

l’imprenditore pone il fatturato come unico

termometro dello stato di salute della propria

impresa: come se per stare bene fosse sufficiente

mangiare! Troppo semplicistico per affrontare il

mercato globale sempre più dinamico e meno

protezionista: le imprese estere sono più agguerrite,

più solide e, quindi, meno rischiose perché hanno

sapientemente innovato la propria gestione. Se il

nostro sistema imprenditoriale è più rischio di altri

è perché non ha ancora maturato il coraggio del

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cambiamento. Ed il sistema creditizio inizia così a

disinteressarsi delle imprese meno competitive

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Alla scoperta del contratto psicologico (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 21/03/06)

Quanti contratti di lavoro esistono? La Riforma Biagi

ne ha introdotti diversi e per tutti i gusti. Seppur

tecnicamente differenti, i contratti di lavoro (sia

flessibile che fisso) hanno in comune un tipo di

accordo astratto che definiamo contratto

psicologico. Esso è sottointeso, informale, non

regolamentato e contiene un coacervo di regole

astratte che relazionano il lavoratore all’azienda.

Più concretamente, potremmo dire che il contratto

psicologico costituisce il complesso delle aspettative

che ciascun lavoratore ha nei confronti della

propria azienda ed, al tempo stesso, l’insieme delle

aspettative che l’azienda ha nei confronti del

lavoratore. Tant’è vero che, a parità di mansione,

un operaio single e senza figli ha delle aspettative

differenti rispetto ad un collega sposato, con figli ed

un mutuo sulla casa. Al momento della firma del

contratto di lavoro, ciascun lavoratore formula le

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aspettative personali (quali, compenso

proporzionale al lavoro svolto; possibilità di turni;

giorni di ferie; diritto al sindacato; ambiente

salubre; equo trattamento sul posto di lavoro; corsi

di aggiornamento; crescita professionale; resoconto

e riconoscimento delle proprie performance) da

conciliare con quelle dell’azienda (quali, rispetto

dell’orario di lavoro; rispetto degli obiettivi; lealtà ed

onesta professionale; cura del patrimonio aziendale;

affezione all’azienda). Allorquando dovessero venir

meno le aspettative dei due contraenti (lavoratore

ed azienda), si genera uno squilibrio tra il contratto

formale e quello psicologico per il quale l’azienda si

ritiene poco soddisfatta, mentre nel lavoratore

maturano demotivazione e frustrazione che lo

portano a lavorare senza motivazione e senza

entusiasmo. Questo precario status psicologico si

traduce in una contrazione della produttività e del

necessario apporto creativo del lavoratore stesso. In

sostanza, il gap tra il suo costo ed il suo

rendimento si riduce fino ad annullarsi. Se questo

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fenomeno si genera per la maggior parte dei

lavoratori, ecco spiegata la perdita di competitività

(e quindi di fatturati e di utili) dell’azienda. In altre

parole e com’è stato dimostrato in diverse ricerche, il

potenziale economico inespresso delle risorse umane

dell’azienda rappresenta oltre il 40% dell’utile

effettivamente realizzato. Ne consegue che, più è

soddisfatto il lavoratore è più migliorano i risultati

dell’azienda. Ma come motivare il personale? Le

ricette sono diverse e soggettive, ma tutte non

possono prescindere dalla capacità dell’azienda di

creare le condizioni affinché le aspettative del

lavoratore siano coerenti con quelle economiche

dell’impresa. La competitività è, fondamentalmente,

il giusto compenso per una cultura d’impresa

evolutiva che faccia leva non solo su capannoni e

macchinari ma (e soprattutto!) sulla potenzialità

delle idee e della conoscenza che devono essere

lealmente stimolate ed incentivate. In questo modo

diventa più facile far convergere le reciproche

aspettative assicurando risultati migliori.

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Evasione: dalla verità al contrasto (Pubblicato su www.lavoce.info del 26/11/08)

A leggere i numeri dell’onnipresente evasione fiscale

si ha la sensazione che di questo vizio genetico

siamo costretti a farcene una ragione. Le cause

dell’evasione sono complesse e portando la

questione al di fuori delle istituzioni, si avverte

come le ragioni degli “imputati”, ossia il mondo

delle partite Iva, non siano meno opinabili di quelle

dei principali “inquisitori”, cioè i dipendenti in

generale e pubblici, in particolare. Se da un lato, si

tenta di giustificare l’evasione come l’estremo atto

di protesta verso un sistema-Paese grottesco e

ballerino, dall’altro, si cavalca una torbida onda

giustizialista perché l’evasione non è mai orfana: si

evade da una parte perché esiste il consenso

dall’altra. In altri termini, di fronte ad uno sconto che

lascia al cliente o consumatore qualcosa in tasca,

non prevale, nell’intimità del rapporto commerciale,

quello spirito giustizialista che mai come in quella

occasione esige il ritiro di uno scontrino, di una

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ricevuta o di una fattura. Ciò non significa

legittimarne l’opera, ma vorrei porre l’enfasi sul

principio di solidarietà su cui regge la democrazia

anche economica di un Paese: ognuno deve

contribuire equamente al suo mantenimento. E

questo è il punto. Se al termine evasione

attribuiamo il significato più ampio di mancato

contributo equo a cui ognuno di noi è tenuto, non

si evade solo omettendo scontrini, fatture ed altri

redditi. Si evade anche, svolgendo il doppio-lavoro,

esercitando abusivamente il dono dell’ubiquità

trovandosi sul posto del lavoro ed al mercato,

lasciando che la polvere stagioni le pratiche

amministrative, oppure affidandosi a persone che

sappiano condividere l’intento personale e non

l’interesse per la res pubblica. Allora, in un Italia in

cui mal comune è mezzo gaudio, il primato europeo

dell’evasione fiscale (48% del reddito imponibile non

dichiarato ovvero il 15% del Pil ovvero circa 140

miliardi di euro all’anno ovvero una decina di leggi

finanziarie) è un problema di tutti anche se con

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intensità differenti. E’ ovvio, la tentazione ad

evadere è più forte per le partite Iva ma se il

dipendente ne avesse una ….. Nonostante i diversi

ed i più creativi tentativi di lotta all’evasione

escogitati dagli ultimi governi, il problema

dell’evasione pare essere il male incurabile del

nostro Paese. Personalmente, credo che una dose di

creatività insaporita di buon senso possa renderci

più solidali. Allora, faccio quattro osservazioni che

fanno una proposta. Primo, sappiamo che le tasse

servono a mantenere la struttura dello Stato

compreso il personale. Come per un’azienda che

deve stare sul mercato, anche lo Stato deve

rispettare precisi vincoli di sopravvivenza, ossia di

efficienza intesa come capacità di utilizzare al

meglio le risorse evitando inutili sprechi e

dirottando il surplus risparmiato a favore di altri

settori dell’economia (infrastrutture, ricerca, servizi

sociali, istruzione, ecc.), e di efficacia intesa come

capacità dello Stato di rispondere alle aspettative

dei cittadini. Così come per un’impresa, laddove

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esistono sprechi di risorse ed aspettative deluse, lo

Stato vacilla e non riesce a garantire la solidarietà.

Inoltre, il cittadino percepisce lo spreco e l’iniquità e

matura la consapevolezza che il suo contributo in

termini di tasse sia un cattivo investimento. Quanto

vogliamo pagare all’oste che ci ha fatto servire un

buon aceto? Tutto questo per dire che, il cittadino

che vede un apparato statale efficiente ed efficace

allo stesso tempo, è soddisfatto di contribuire

secondo equità. Quindi, quando qualche ministro

pretende efficienza ed efficacia non fa’ altro che

dimostrare che le tasse pagate sono un buon

investimento. Pertanto, se tutta la pubblica

amministrazione (dal ministro fino all’ultimo dei

precari) funziona equamente, la tentazione

dell’evasione giustizialista sarà molto debole.

Secondo, la riluttanza dell’artigiano ad emettere la

ricevuta fiscale arriva (addirittura!) al 76% a livello

nazionale (fonte: contribuenti.it). A chi sdegnato

riflette, ricordo che l’omissione della ricevuta

conviene, di fatto, ad entrambi gli attori ma a

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danno dello Stato. D’altronde, il reddito del cliente-

consumatore (dipendente, pensionato, disoccupato

ed anche artigiano) è tassato al lordo di tutte le

spese necessarie per vivere (o sopravvivere visti i

tempi che corrono!). Si potrebbe eccepire la doppia

tassazione in quanto si tassa il reddito speso dal

cliente-consumatore che diventa reddito tassabile

per l’artigiano. A questo aggiungiamoci poi l’Iva che

colpisce definitivamente il consumatore finale. Se

però, il cliente-consumatore avesse la possibilità di

tassare il reddito al netto di tutte le spese avremmo

che il reddito netto tassabile sarà pari a quello

risparmiato. Se invece, ci potesse pagare le tasse

sul reddito residuo, il cliente-consumatore avrebbe

mille motivi in più per pretendere la ricevuta fiscale

e quindi, le minori entrate fiscali derivanti dal più

basso reddito così dichiarato sarebbero più che

compensate con il maggior reddito dichiarato

dall’artigiano. L’effetto finale sarebbe una drastica

riduzione dell’evasione fiscale, una più equa

tassazione che eviterebbe di tassare i consumi, uno

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stimolo propulsivo per l’economia in quanto con il

… più spendi e meno tasse paghi aumentano i

consumi e, quindi, i fatturati delle imprese. Terzo.

Un altro problema per le tasche dello Stato è il

mancato versamento delle tasse: i redditi sono stati

dichiarati ma le tasse non sono state interamente

versate. Noi italiani siamo un popolo che non

temiamo nulla, figuriamoci la sfortuna. Non solo. Ci

siamo inventati il gioco più difficile al mondo: il

superenalotto. In Campania si scommette circa il

12% del reddito, mentre la media nazionale è al 6%.

Non solo. Ogni italiano, in media all’anno,

scommette 709 euro per vincerne 477 euro. Lo

Stato è l’unico giocatore che vince sempre!

Comunque, ci risparmiamo una tassa di almeno un

paio di miliardi l’anno. Ecco la soluzione agli omessi

versamenti delle tasse. Proviamo a pensare ad un

meccanismo che consenta a ciascun contribuente di

vincere (purché non con la stessa probabilità del 6 al

superenalotto!) almeno le tasse da lui versate: ci

possiamo ragionevolmente aspettare che pagare le

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tasse sarà più piacevole. Quarto. Il sistema

sanzionatorio deve essere deterrente e marginale

nel senso che non deve concedere sconti ai furbetti

e deve essere accessorio ad un sistema

diffusamente spontaneo di contribuire con le

proprie tasse alla spesa pubblica: le tasse sono

percepite eque (e quindi pagate!) quando il sistema-

Paese è equo. Contrariamente, si finisce per giocare

a guardia e ladro. In ragione di questo, inoltre, si

avrebbero poche perplessità a pubblicare sulle

testate giornalistiche (locali e non) l’elenco

nominativo dei contribuenti pizzicati ad evadere. A

mio parere la lotta dell’evasione deve partire dalla

coscienza comune, deve essere costruita

sull’efficienza ed efficacia della pubblica

amministrazione, sull’equa tassazione del reddito al

netto delle spese per vivere, al contempo alleviata

dalla nostra passione a sfidare la dea bendata e

stigmatizzata dalla sanzione anche attraverso le

pubblicazioni dei furbetti sui giornali. Se poi

qualcuno ha un’idea migliore!

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Innovazione unica arma per restare sul mercato (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 23/03/2009)

Non mi sorprendo affatto quando sento accusare il

sistema bancario di non riuscire a sostenere il

diffuso fabbisogno di liquidità da parte delle

aziende. E tanto meno mi sorprende l’accusa mossa

nei confronti dell’Accordo di Basilea2 quale causa

tecnica della restrizione creditizia (credit crunch).

Non mi sorprendo perché, proprio su queste pagine,

nel 2004 (esattamente sul giornale del 05 aprile),

scrissi un articolo dal titolo: “Banche-imprese, si

cambia”. Conoscendo le logiche creditizie, in quel

articolo spiegai che l’Accordo bancario avrebbe

privilegiato il credito di qualità che si sarebbe

ottenuto innovando le logiche di gestione

dell’impresa passando da un modello orientato alla

produzione ad un modello manageriale orientato al

mercato, ossia fondato su logiche imprenditoriali di

larghe vedute ed idonee ad introdurre in azienda i

principi di strategia, di brand, di aggregazione, di

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motivazione del personale, di controllo di gestione e,

soprattutto, di gestione finanziaria.

A distanza di quasi cinque anni dall’approvazione,

Basilea2 ha dimostrato il suo impatto sul mercato

creditizio: meno credito e/o più garanzie e/o più

interessi. Sin da principio si è sempre temuta la

prociclicità della nuova regolamentazione bancaria.

Ciò significa che il mercato del credito segue il

trend dell’economia, pertanto, quando l’economia

cresce il credito bancario si amplia, quando invece

l’economia si contrae il credito si restringe. Nulla di

più chiaro se consideriamo che le banche si

garantiscono dal rischio di insolvenza dei propri

clienti così come fanno le compagnie di

assicurazione: il premio assicurativo RCA varia in

relazione a parametri quali età, auto, provincia,

sesso, ecc. Purtroppo, siamo vittime di una cultura

imprenditoriale di vecchio stampo eccessivamente

devota alla vendita a tutti i costi senza aver troppo

riguardo nemmeno alla qualità del fatturato. Non ci

siamo accorti che il nostro modello imprenditoriale,

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fatte le doverose eccezioni, aveva un buon valore in

lire ma non ha un sufficiente valore in euro! Non

capisco perché sia sempre colpa degli altri: quando

del governo, quando della globalizzazione, quando

dei cinesi. Ma sarà anche colpa della nostra

miopia? Nella situazione attuale, sono d’accordo

con la scelta delle imprese di tagliare i costi

ridondanti e le aree di business ritenute non

strategiche, ma è importante lavorare

sull’innovazione (non intesa solo in senso

tecnologico) quale unica arma per poter competere

in un mercato che rimarrà globalizzato seppur con

regole diverse. Le imprese devono imparare a

collaborare perché il mercato internazionale, di cui

quello locale è solo una porzione, è molto vasto e le

nostre imprese esageratamente piccole. E’

necessario poi che la pubblica amministrazione

velocizzi i pagamenti ed eviti l’aumento delle

imposizioni: il rischio è che, a causa della penuria

di liquidità, l’evasione aumenti. La lotta all’evasione

è sacrosanta, ma le urgenti esigenze di bilancio non

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possono gravare troppo, in termini di liquidità, sugli

artigiani, commercianti ed autonomi. Basti pensare

che da loro si potrebbero recuperare circa 9 miliardi

di euro di evasione, mentre dalle grandi imprese il

gettito salirebbe a 30 miliardi (fonte: Contribuenti.it).

E a dirla tutta, si stima che il doppio-lavoro conta

circa 850.000 dipendenti (in nero, ovviamente!).

L’evasione è, dunque, una questione più di etica

che di categoria.

Inoltre, i dieci bandi di aiuti regionali sostengono i

consorzi, le infrastrutture, la ricerca, le aziende di

grandi dimensioni: non ci sono ancora gli aiuti agli

investimenti delle piccole imprese. E’ necessario

sbloccare urgentemente tutti i fondi della

programmazione POR 2007-2013! Infine, è

necessaria la collaborazione dei consumatori. Non

dobbiamo dimenticare che l’unico modo per far

lievitare la ricchezza è consumarla. In pratica, più

acquistiamo e consumiamo e più le aziende

producono per vendere. Così si tutelano i posti di

lavoro! Pertanto, al di là degli interventi governativi,

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l’occupazione si sostiene continuando a comprare

senza farsi terrorizzare dalla crisi: è proprio

quest’ultima la sua conseguenza psicologica che ne

aggrava gli effetti.

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Evasione: una malattia sociale (Pubblicato su www.lavoce.info del 22/08/09)

Il mondo delle partita Iva è da sempre additato

come concausa del buco nei conti pubblici: se tutti

pagassero le tasse, le casse dello Stato sarebbero

meno vuote. Potrebbe essere un’accusa plausibile

dal momento che l’impresa autoliquida le imposte

stabilendo, di fatto, la misura delle tasse da

versare, mentre il dipendente è costretto a versarle

per intero visto che è il suo datore di lavoro a

trattenerle. Allora, perché non pensare di applicare

lo stesso sistema delle ritenute d’acconto ai

lavoratori autonomi? Guardando la realtà sono

doverose le seguenti riflessioni. Primo, se il

dipendente avesse una partita Iva non farebbe

meglio del lavoratore autonomo: è solo questione di

posizione! Secondo, l’evasione non è orfana poiché il

suo costo collettivo (in termini di minori entrate

statali) equivale al cinico beneficio privato: il cliente

non pretende la fattura o lo scontrino in cambio

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dello sconto dell’Iva (quale imposta a carico del

consumatore finale); mentre l’impresa non paga le

tasse sul prezzo pattuito. Si stima che l’evasione

sottrae allo Stato circa 135 miliardi di euro

all’anno. Di questi, 34 miliardi attribuibili al lavoro

nero (dipendenti “fantasma” e doppio lavoro),

mentre 10 miliardi derivano dalla mancata

emissione di fatture e scontrini. D’altronde,

l’equilibrio di Nash (dalla Teoria dei Giochi

formulata dal premio Nobel G. Nash) sintetizza

proprio questo: a prescindere dal risvolto legale o

etico, cliente e venditore si portano

consensualmente sulla posizione di massimo

beneficio per entrambi. Terzo, le tasse non

piacciono a nessuno soprattutto quando non

contribuiscono all’equità dello status lavorativo. In

altri termini, il fenomeno evasivo ci sarà fin quando

il sistema impositivo non funge per tutti i lavoratori

(pubblici, privati, autonomi) un comune ed equo

strumento di ponderazione del lavoro, dei rischi e

dei servizi pubblici. E se a ciò non provvede lo

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Stato, ogni lavoratore (dipendente compreso)

cercherà di fare da sé. Potrà sembrare

inconcepibile, ma l’evasione misura le differenze di

ponderazione del lavoro tra autonomi e dipendenti.

Facciamo un esempio attingendo alle diverse

informazioni ufficiali disponibili (CCIAA, Istat,

Ministero Finanze, Sole24Ore, ecc.). Consideriamo

un artigiano-tipo senza dipendenti che abbia

investito nella sua azienda 50 mila euro di

risparmi, mentre dalle banche riceve in media 135

mila euro per mettere su una ditta di 185 mila euro

di investimento. Lo stesso artigiano paga i

contributi Inps al 20%, l’imposta regionale Irap

(4,82%) oltre all’Irpef, non ha diritto alle ferie, è

sempre reperibile, non ha diritto al TFR e non gode

della tutela contro la malattia. Rileviamo inoltre,

che il fatturato medio dichiarato per il 2006 dagli

artigiani è di circa 89 mila euro, mentre il reddito

medio dichiarato è di 19.410 euro (21,84% sul

fatturato). Consideriamo, poi, un dipendente di una

piccola azienda del settore metalmeccanico-

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artigianato con livello di quadro (base: 1.825 euro

lorde al mese) il quale lavora effettivamente 224

giorni medi all’anno al netto delle ferie e delle

festività, si assenta per 9 giorni medi all’anno per

causa malattia, ha diritto alla 13.ma mensilità ed al

TFR, sopporta i contributi Inps nella misura dello

9,19% sul 33% complessivo (il restante 23,81% di

contribuzione è a carico del datore di lavoro), gode

di benefits e non investe nulla nell’azienda se non il

suo tempo. Quantifichiamo, inoltre, il costo medio

ponderato del capitale investito (proprio e di

finanziamento) dall’artigiano-tipo considerando il

rendimento dei BTP 2018 (4,50%), il premio per il

rischio aziendale, il costo medio dei finanziamenti

bancari nonché il coefficiente di rischiosità

sistemica (1,25) ottenendo un costo del 9,0%. Ora,

mettiamo a confronto i due lavoratori che

ammettiamo di pari livello non avendo altre

equivalenze lavorative migliori del dipendente-

quadro seppur dovendo considerare almeno il livello

dirigenziale più difficile da stimare. Proviamo ora a

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stimare (approssimazione per difetto) il reddito di

“equivalenza lavoro” dell’artigiano escludendo, per

ragioni di semplicità e di irrilevanza nel confronto,

le detrazioni fiscali ed il calcolo dell’Irpef in quando

operano nella stessa misura. Consideriamo, inoltre,

solo i parametri base di retribuzione escludendo,

quindi, straordinari, incentivi di produzione e altri

benefits. Elaborando tutti questi dati si arriva a

calcolare per il dipendente-quadro un reddito base

annuo di euro 25.700 lorde (stipendio base per 13

mensilità, indennità di malattia per 9 giorni in

media, quota annua di TFR). Mentre, per l’artigiano

si arriva a quantificare un reddito stimato annuo di

53.000 euro lorde (26.800 per 250 giorni lavorativi

medi all’anno, 2.200 euro tra malattia e TFR,

16.700 euro per rendimento figurativo del capitale

investito, 7.300 euro per l’Irap e per la differenza di

aliquote contributive). Questo è il reddito lordo

minimo che l’artigiano dovrebbe percepire per

riconoscere la giusta valutazione del proprio lavoro

e rischio imprenditoriale. A questo punto, il

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fatturato stimabile rispetto al reddito di

“equivalenza lavoro” è pari a circa 243 mila euro

che, rispetto a quello mediamente dichiarato (circa

89 mila euro), consente di stimare un’imponibile

evasa del 63,4%; Iva evasa (perché non versata dal

cliente) per 31 mila euro; tasse e contributi evasi

(perché non dichiarati dall’artigiano) per 63.000

euro. E questo è il danno erariale stimato da cui

deriva un maggior “vantaggio” per l’artigiano

rispetto al vantaggio del quadro-dipendente di 32

mila euro. Ma se sommiamo il reddito medio

dichiarato per il 2006 (19.410 euro) al maggior

“vantaggio” derivante dall’evasione così

determinato, otteniamo 51 mila euro: di poco

inferiore al reddito “equivalente lavoro” calcolato in

precedenza. Nonostante tutto, il reddito di

“equivalenza lavoro” dell’artigiano è inferiore di 1/3

rispetto al reddito annuo medio convenzionale Inps

(77 mila euro) di un dirigente di 6 livello (profilo

comunque più attinente). Ciò significa che le

diverse stime dell’evasione (tra il 60 e 70%

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dell’imponibile) sono plausibili e questa analisi

approssimata dimostra come il titolare di partita Iva

tiene conto comunque dei costi impliciti come il

costo del capitale investito, il rischio

imprenditoriale oltre ai benefici e tutele riconosciute

ad un quadro-dirigente. Tuttavia, ciò non deve

legittimare alcuna forma di evasione fiscale, ma non

possiamo negare le reali dinamiche che alimentano

il fenomeno evasivo.

In conclusione, non possiamo negare che l’evasione

ha due protagonisti (artigiano e cliente) i quali hanno,

in coerenza con la Teoria di Nash, lo stesso interesse

(illegale): non pagare le tasse. Oltre al sistema

sanzionatorio, come deterrente si potrebbe creare

un meccanismo di esenzione fiscale del valore

economico del rischio imprenditoriale (come sopra

stimato) che invece il dipendente non corre: è

indubbio che 1.000 euro di reddito di un artigiano

valgono di più di 1.000 euro di un dipendente.

Infatti, il meccanismo di tassazione progressiva per

scaglioni di reddito crea equità nella misura del

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reddito ma non nella sua qualità (con o senza

rischio d’impresa). E’ importante creare, inoltre, il

senso morale di equità delle tasse per mezzo

dell’equità dei redditi. E’ necessario che il sistema

sanzionatorio sia da deterrente anche nei confronti

del cliente: in questo modo si rompe l’Equilibrio di

Nash a tutto vantaggio per il fisco. Altrimenti, il

cittadino continuerà a pesare le proprie tasche.

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Crisi: giù la maschera! (Pubblicato su www.lavoce.info del 27/08/2009)

La globalizzazione si evolve a livello di integrazione

sia commerciale (WTO) sia finanziaria attraverso i

flussi di liquidità dai Paesi in via di sviluppo (Paesi

emergenti) a quelli avanzati (USA ed Europa). Se

però l’ingegneria finanziaria ha incentivato fin

troppo i suoi manager, era inevitabile l’enorme bolla

immobiliare e creditizia che ha inghiottito anche

importanti banche internazionali fino al loro

fallimento. E’ quanto è successo anche nella

Grande Depressione degli anni ‘30 con l’aggravante

però che l’attuale mercato è, appunto, globalizzato.

Una mano alla crisi l’hanno data i principi contabili

internazionali (IAS) secondo i quali gli attivi delle

società obbligate (banche comprese) debbano essere

valorizzati al valore di mercato che lo scoppio della

bolla speculativa ha poi gravemente sgonfiato.

Inoltre, è imbarazzante fidarsi dei giudizi sulla

rischiosità espressi dalle società di rating

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internazionali pagate dalle stesse società o enti

sottoposti a valutazione. Non solo. E’ entrato in

crisi il controllo concreto ancorché etico delle

istituzioni a ciò preposte tollerando, di fatto, le falle

negli argini normativi fino a creare lo tsunami

finanziario che, con sorprendente effetto domino,

dagli USA si è esteso rapidamente in Europa

coinvolgendo drasticamente l’economia reale

mondiale. A differenza del passato, dunque, non

esistono più aree geografiche di compensazione

economica ma una sola arena globale. Oltretutto,

l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale

ha fatto registrare il più basso livello di fiducia dei

consumatori/risparmiatori, delle imprese e degli

investitori. Oltre a Basilea2, anche l’incertezza frena

le aziende a ricorrere al credito che le banche non

confessano di aver comunque ristretto. Con ciò non

intendo stigmatizzare la globalizzazione che serve

invece a permettere l’equità tra i popoli, ma intendo

sollevare dubbi sulla solidità dell’architettura

dell’economica occidentale. Nello scenario

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dell’economia italiana, nel breve periodo gli

operatori economici navigheranno a vista: pochi

investimenti in attesa della domanda nazionale

spinta da quella estera. La disoccupazione resterà

comunque elevata soprattutto tra la manodopera

despecializzata e a poco serviranno i sussidi al

reddito soprattutto se questi, vista l’incertezza, sono

risparmiati anziché essere messi in circolo

attraverso i consumi. Per un biennio potremmo

assistere ad una contrazione dei prezzi al consumo

e tale deflazione aggraverà la situazione in quando

gli investimenti non sono più giustificabili dai

margini esigui. Sopravvivranno le aziende con un

economico livello di innovazione

(processo/prodotto), con un brand forte, in rete ed

orientate all’estero: le altre saranno out. Salvo

improbabili politiche protezionistiche, nel nuovo

ordine mondiale i Paesi low-cost continueranno ad

offrire oltre a manodopera e strutture anche qualità,

riscopriremo l’etica del profitto e della solidarietà,

mentre il baricentro del mondo sarà all’equatore.

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Crisi: siamo alla resa dei conti (Pubblicato su www.lavoce.info del 05/02/2010)

Quello che è successo sul palcoscenico

dell’economia mondiale è la migliore

rappresentazione mai riuscita di un collasso

economico. Basti pensare che tra il 2008 ed il 2009

la ricchezza prodotta (PIL) dal nostro Paese è

scivolata ai livelli del 2001 tirandosi dietro almeno

700 mila occupati. Addirittura, la produzione

industriale è crollata ai livelli del 1985. Che colpo!

In altri termini, in poco più di un anno sono stati

sacrificati gli sforzi di oltre un quinquennio di

manovre per la crescita e l’occupazione. Alla resa

dei conti, dopo un’imbarazzante e timida prudenza,

economisti accreditati, banchieri e governi si sono

accorti di trovarsi nel lunapark della Grande

Recessione: la più grave dal dopoguerra! Vi

risparmio di tediarvi con le complesse cause che

spiegano la crisi, per sintetizzarne la sua naturale

evoluzione: dalla vertiginosa crisi finanziaria (inizi

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del 2000) si è passati alla crisi economica (2008)

per arrivare alla crisi occupazionale (2010). La

globalizzazione, una concausa, ha permesso alle

aziende di spostare le fasi di produzione verso i

Paesi a bassi costi beneficiando lauti guadagni a

prezzi ridotti. Tutti contenti compresi anche i

consumatori che, nel frattempo, sono diventati

anche disoccupati e cassaintegrati. Il sistema

finanziario ha preferito cavalcare l’onda della

speculazione selvaggia scaricando l’economia reale.

Nel frattempo, le istituzioni ed i sindacati affidano

alla cassa integrazione e ai contributi straordinari

la soluzione di un complesso problema strutturale

rischiando di dilatare i tempi della ripresa. Prima o

poi i contributi straordinari finiranno e poi? Gli

sforzi fatti sinora sono più di difesa che di reazione

alla crisi e allora abituiamoci alle montagne russe.

Ci ritroviamo ad affrontare la crisi non con le riforme

strutturali bensì ricorrendo al lifting pur di mostrare

risultati immediati. Prepariamoci, allora, ad una

ripresa molto lenta e probabilmente ci vorranno

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almeno altri tre anni prima di assistere ad una

ripresa solida. Intanto, la Cina, l’India ed i Paesi del

nord-Africa si avviano ad imporre la loro leadership

economica per i prossimi decenni perché innovazione

e bassi costi fanno la loro miscela competitiva. Ciò

che noi non siamo riusciti a fare. La ripresa in Italia

deve essere costruita sulla meritocrazia delle

migliori competenze; sui settori dell’innovazione, del

turismo, dell’agroalimentare e dell’alta moda; sulla

capacità delle imprese di fare sistema; sul coraggio

di investire nelle professionalità creative

difficilmente imitabili. Tra i bamboccioni non ci

sono solo giovani fannulloni che amano vivere di

rendita, ma anche tanti giovani talenti scoraggiati

da un sistema del lavoro ingessato da meccanismi

allergici al merito. In questo modo si spiega anche

la mediocre competitività del nostro Paese. Semmai,

bamboccioni sono quei sistemi imprenditoriali che

per sopravvivere al mercato competitivo pretendono

il sostegno pubblico: ma quando si emanciperanno?

In sostanza, dobbiamo industrializzare la creatività,

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incentivare la gestione strategica e manageriale

dell’azienda guardando al futuro, garantire la tutela

dell’unicità del Made in Italy, considerare il mercato

internazionale quale unico e solo mercato di

riferimento. Gli strumenti per farlo ci sono:

basterebbe usarli! Sono anni che diciamo le stesse

cose, ma se ci ostiniamo a controllare il presente

leggendo il passato, sicuramente perderemo il

futuro.

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Interventi contri i ritardi nei pagamenti della PA (Pubblicato su www.commercialistatelematico.it del 07/09/2010)

Grazie alla Legge n. 122/2010, di conversione del

D.L. n. 78/2010 “Manovra correttiva 2011-2013”, a

partire dal 1° gennaio 2011 le imprese che vantano

crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, verso

le regioni, gli enti locali e gli enti del Servizio

Sanitario Nazionale (SSN) derivanti dalla

somministrazione, fornitura ed appalti, hanno il

diritto di compensarli con le somme dovute a

seguito di iscrizione a ruolo. In pratica, l’impresa

creditrice, una volta ottenuta la certificazione del

proprio credito dall’ente debitore (ai sensi dell’art. 9

co. 3-bis del D.L. 185/2008) potrà utilizzarla a

compensazione, parziale o totale, delle somme

dovute a seguito di iscrizione a ruolo presso il

concessionario per la riscossione. I tempi saranno

tassativi tant’è che l’ente debitore è obbligato a

rilasciare la suddetta certificazione entro 20 giorni

dalla richiesta. E qualora non dovesse versare

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l’importo compensato entro i successivi 60 giorni, il

concessionario per la riscossione procederà (ai

sensi del DPR 602/73) alla riscossione coattiva.

Inoltre, un’interessante sentenza (la nr.

352/1/2010) della Commissione Tributaria

Provinciale di Lecce ha cancellato le maggiori

somme per sanzioni ed interessi iscritte a ruolo a

carico di un’azienda operante nel settore TAC

(Tessile, Abbigliamento e Calzaturiero) che per

“forza maggiore” non ha provveduto a versare le

imposte dovute richiamando l’art. 6 co. 5 del D.

Lgs. 472/97. I giudici tributari hanno ritenuto,

infatti, che il mancato versamento delle imposte a

causa di un’imprevista crisi economia a largo

spettro e, di conseguenze, del proprio cliente

principale configuri quell’ipotesi di forza maggiore

intesa “… quale forza esterna che determina, in

modo inevitabile, a compiere un atto non dovuto che,

nella fattispecie, consisteva nel versamento delle

imposte”.

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E’ bene ribadire, inoltre, che l’omesso versamento

delle imposte comporta, salvo il ricorso al

ravvedimento spontaneo, l’applicazione della

sanzione del 30% oltre agli interessi di mora ed agli

aggi di riscossione. Un “costo” aggiuntivo che può

arrivare anche al 40% delle imposte omesse.

Mentre, per i ritardi della Pubblica Amministrazione

(P.A.) rispetto agli accordi contrattuali non c’è

traccia di sanzioni ed interessi. In barba ad ogni

principio di equità!

Tra l’altro, i tempi medi di pagamento delle fatture

da parte della P.A. raggiunge in Italia mediamente i

128 giorni per 70 miliardi di euro di debiti.

Addirittura, nella Sanità si arriva anche a superare

i 2 anni. Il ritardo medio nei Paesi UE è, invece, di

69 giorni: siamo, dunque, sul podio dei peggiori!

Tuttavia, per scongiurare i ritardi nei pagamenti

commerciali (P.A. compresa), il D. Lgs. 231/2002

prevede l’applicazione automatica degli interessi di

mora pari (dal 01/07/09) al 8,0% oltre i 30 giorni

dalla scadenza del pagamento. Oltretutto, in sede di

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verifica, l’amministrazione finanziaria contesta la

tassazione di diritto degli interessi così calcolati in

quanto certi ed esigibili. E’ chiaro: se da una parte

lo Stato sanziona il ritardo nel versamento delle

imposte; dall’altro, è altrettanto giusto che la P.A.

morosa paghi almeno gli interessi previsti per legge.

Ma nella realtà funziona diversamente: tutelare il

diritto al credito da interessi è inopportuno!

A questo punto, nella “normale” situazione

debitoria della P.A., si potrebbero configurare le

seguenti situazioni:

1) impresa che è costretta ad indebitarsi per

poter pagare le imposte ovvero ricorrere allo sconto

di fatture o alla cessione del credito: in questo caso,

l’impresa ha diritto ad incassare in concreto anche

gli interessi di mora dell’8% (D. Lgs. 231/02) che

compensano, in buona parte, il costo finanziario;

2) impresa che non si indebita ma che ricorre al

ravvedimento operoso (“breve” entro 30 giorni

oppure “lungo” entro 1 anno): in questo caso,

l’impresa sopporta un costo (poco più del 3%)

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inferiore a quello bancario e conserva il diritto a

vedersi corrispondere gli interessi di mora;

3) impresa che per evidenti ragioni di difficoltà

economiche e per la conseguente difficoltà di

accesso al credito bancario – che aumenterà per gli

effetti della prossima “Basilea 3” – non sono in

grado di pagare nemmeno nei termini del

ravvedimento: in questo caso, a seguito dei controlli

automatizzati (art. 36-bis DPR 600/73 e art. 51

DPR 633/72) l’impresa riceverà la cartella di

pagamento con un maggior onere tra sanzioni,

interessi ed aggi che può arrivare al 40% delle

imposte omesse.

E’ in questo ultimo caso che si potrebbe configurare

l’ipotesi di “forza maggiore” che di fatto impedisce

all’impresa di provvedere al puntuale pagamento

delle imposte omesse. E allo stato attuale, tale

ipotesi può essere fatta valere solo in sede di

contenzioso come è accaduto di recente per giudizio

della Commissione Tributaria di Lecce. D’altronde lo

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Stato non può sanzionare l’omesso versamento

laddove il suo apparato è al tempo stesso moroso.

Riguardo alla certificazione del credito, potrebbe, in

linea di principio, accelerare i tempi di pagamento

della P.A., ma è spontaneo temere che i vincoli di

bilancio (in primis, il patto di stabilità) dell’apparato

pubblico impediscano, di fatto, la concreta

applicazione della norma salvo un corposo e costoso

ricorso alle anticipazioni di cassa. Sarebbe surreale

immaginare una massiccia azione esecutiva nei

confronti degli enti locali e del SSN in particolare: a

pignorare i macchinari ospedalieri equivarrebbe ad

un tentato omicidio! Oltretutto, la lotta all’evasione

ed il virtuosismo nella gestione produrranno effetti

benefici per i bilanci degli enti locali, delle regioni e

del SSN non prima di un biennio. Potrebbe

accadere, invece, che la P.A. imporrà scadenze

contrattuali in linea con gli attuali tempi effettivi di

pagamento vanificando la finalità della norma. Lo

stesso si potrebbe argomentare riguardo l’ipotesi in

discussione di cessione pro-soluto dei crediti verso

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la P.A. Il rischio concreto è che, di fatto, cambierà

ben poco!

E’ agevole ritenere, invece, che sia meno oneroso e

più efficace sostenere la normativa corrente

riconoscendo di fatto gli attuali interessi moratori

dell’8% sui ritardi nei pagamenti ovvero

disapplicare per legge le sanzioni, gli interessi e gli

aggi per le imposte omesse sino a concorrenza del

debito della P.A. scaduto da oltre 30 giorni dai

termini contrattuali i quali però non dovranno

artatamente dilatarsi. Nel frattempo, laddove

incapace di avvalersi del ravvedimento operoso,

l’impresa creditrice ben potrà ricorrere in

Commissione Tributaria per far valere il proprio

stato di forza maggiore e vedersi così annullare le

sanzioni, gli interessi e gli aggi per le imposte pari

al credito vantato dimostrando lo stato di difficoltà

finanziaria nonché l’eccessivo ritardo della P.A. oltre

i termini contrattuali concordati. Infine, è

necessario modificare sia il D. Lgs. n. 231/02

introducendo l’obbligo per il debitore commerciale

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(P.A. compresa) di saldare i debiti commerciali

maggiorati automaticamente degli interessi di mora

previsti per legge; sia la Legge n. 122/2010

prevedendo la compensazione del credito

commerciale dell’impresa vantato verso la P.A. anche

con gli altri debiti tributari (Ici, Tarsu, Irpef, Irap,

ecc.) a prescindere dalla sussistenza di eventuali

debiti a ruolo: consentire la compensazione solo per

le imposte in cartella già maggiorate dalle sanzioni

equivale ad oberare le imprese di pesanti oneri

finanziari per ritardi della P.A..

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Lotta all’evasione (Pubblicato su www.commercialistatelematico.com del 28/01/2011)

“Le tasse sono il prezzo che si deve pagare per una

società civilizzata” sosteneva Oliver H. Holmes

giurista americano di inizi ‘900. Probabilmente non

abbiamo ancora il giusto senso civico per sentire il

dovere di pagare le tasse. O meglio, non viviamo

una civiltà degna di tale senso.

Nessun altro governo precedente ha dichiarato

guerra all’evasione come quello attuale: la strategia

persecutoria è un buon deterrente ma l’evasione è

dura a morire. Perché? Semplice. Se le tasse sono il

prezzo per i servizi ricevuti dallo Stato,

probabilmente il ritorno di utilità ricevuto dai cittadini

è non proprio equo e al disotto delle legittime

aspettative. E così il prezzo dei servizi (ossia, le

tasse) sono troppo esose! Se ciò fosse pretestuoso,

allora non capisco perché i finlandesi sono così ligi

nel pagare le tasse più care d’Europa.

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Evidentemente, il loro Stato non fa’ mancare proprio

nulla.

Non illudiamoci che gli unici evasori siano le partite

Iva. Se anche i dipendenti ne avessero una, non

sarebbero da meno. Dopotutto, l’evasione è un reato

mai orfano: l’imprenditore omette la fatturazione

risparmiando sulle tasse, mentre il cliente finale

risparmia l’Iva che non potrebbe diversamente

recuperare. Si sa’, l’Iva incide il consumatore finale.

Quindi, l’evasione è un malcostume che accontenta

un po’ tutti. Oltretutto, diversi studi hanno stimato

che i principali evasori italiani sono gli industriali, i

bancari e gli assicurativi i quali rappresentano il

60% dell’evasione, mentre i commercianti e gli

artigiani evadano il 23%, i professionisti il 9%,

mentre restante 8% è la misura dell’evasione dei

dipendenti. Tra l’altro, una recente indagine Censis

commissionata dal Cndcec, rileva che il 34% degli

intervistati dichiara di non ritirare la ricevuta o lo

scontrino. E ben il 20% dichiara che lo fa’ per

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risparmiare qualcosa! Allora, è più onesto

ammettere che mal comune mezzo gaudio!

A questo punto faccio una riflessione. L’evasione

stimata in Italia è di circa 300 miliardi di euro per

cui allo Stato mancano all’appello oltre 150 miliardi

tra Iva ed imposte dirette. Ipotizziamo che da

domani tutte le imprese decidano di fatturare tutto,

briciole comprese. Non dimentichiamo che ogni

azienda persegue il fine del lucro: un’attività che

non produce utili non è un’azienda commerciale ma

una no-profit. Quindi, succederà che tutte le

aziende aumenteranno i prezzi nel rispetto della

soglia di marginalità del capitale investito al disotto

della quale, l’imprenditore si trasforma in

investitore in titoli di Stato o altri valori mobiliari

che, evidentemente, rendono di più. Facendo,

pertanto, un calcolo algebrico, ne segue che ciascuno

italiano (neonati compresi!) subirà, in termini di

impennata (teorica) dei prezzi, un aumento della

spesa di circa 2.500 euro all’anno. In sostanza, la

lotta all’evasione inciderà, di fatto, il consumatore

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finale attraverso un aumento frenetico dei prezzi il

che significa che, in questo contesto, assisteremo ad

un’inflazione fiammante!

In una fase di depressione economica come quella

attuale, è necessario invece stimolare i consumi

quale carburante dell’economia. Serve perciò, creare

le condizioni di fiducia nel mercato, la ciclicità del

sistema fiscale (ossia, tasse più elevate nei periodi di

crescita economica sostenuta e tasse ridotte in

periodi di crisi come quello attuale), la chiarezza e la

serenità nelle aspettative economiche ed occorre

incentivare anche fiscalmente l’azienda impavida

che investe ed assume di questi tempi.

Contrariamente assisteremo ad un sadico

avvitamento dell’economia minacciata da implosioni

settoriali. E scoprire più in là, che la crisi non è finita

è solo l’alibi di chi nel frattempo riceve un prezzo per

un servizio illusorio. Ai posteri l’ardua sentenza.

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Dove va’ l’Italia (Pubblicato su www.lavoce.info del 16/08/2011)

Non appena il mare si ritira, la bassa marea svela

tutti i detriti sul fondale della nostra coscienza. E,

da quello che sta succedendo, scopriamo la

peggiore scenografia dei nostri egoismi. Sicché il

desiderio di M. d’Azeglio (uno dei primi patrioti

dell’unità) di fare gli italiani dopo l’Italia è rimasto,

dopo 150 anni, insoddisfatto. Di questa bassa

marea, non ci rimane che la visione spettrale di una

Signora Italia vecchia, obesa e svogliata. Ma quali

sono i malesseri dell’anziana Italia? Se nell’ultimo

ventennio del ‘900, abusando della teoria

keynesiana, il debito italiano è lievitato in misura

esponenziale (passando dal 60% al 120% del Pil) è

chiaro (e nessuno si sorprenda!) che l’obesità da

debiti ha sottratto ricchezza alle generazioni future.

Se il benessere per la collettività è finito per essere

surclassato dal benessere delle caste è evidente

come il cittadino abbia maturato quel mix egoistico

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di disprezzo e cinismo. Nel frattempo, nessuno ha

mai tentato (o voluto!) di far comprendere che il

benessere collettivo è di gran lunga maggiore della

somma dei singoli egoismi. E ciò che è peggio,

l’egoismo dei padri ha fagocitato il futuro e le

speranze dei figli. Oggi, ci troviamo perciò a pagare

ogni anno interessi stratosferici (pari a circa tre

“normali” manovre finanziarie) su uno dei debiti

pubblici più alti al mondo. Ma quale padre

s’indebita per sperperare in opere pubbliche

incompiute ed in spese asfittiche presentando poi il

conto ai propri figli? Non è certo un padre e tanto

meno è degno di lezioni di moralità! Oggi l’Italia si

presenta oppressa dai debiti, lenta nella crescita

perché allergica alla creatività, ingessata nei

protezionismi di sorta, garantista verso quei

lavoratori ancorati da decenni al posto pubblico

senza alcuna oggettiva valutazione meritocratica e

inclemente con i giovani destinati ad avere per

lavoro fisso la precarietà. Ma ciò che più mi

spaventa è la sfiducia della nuova generazione nel

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sistema Italia. I giovani non nutrono l’italianità

perché costretti dal sistema Italia a vivere con i

genitori e (quindi) a rinviare l’emancipazione, non

progettano il futuro perché non riescono ad

immaginarlo e nutrono un senso di insofferenza che

sfocerà in un confronto generazionale che scuoterà

le coscienze di chi oggi pensa di condonare il

passato anziché di costruire il futuro. Un giovane

che oggi (fortunatamente!) lavora deve farsi carico

dei vitalizi di tre pensionati già graziati dal vecchio e

devastante sistema pensionistico costruito sugli

stipendi opportunamente lievitati degli ultimi anni

di lavoro oppure i vitalizi di quei pensionati ex

titolari d’impresa che hanno versato contributi

sufficienti a coprire, mediamente, appena cinque

anni della loro pensione. E poi, a cosa serve oggi

tentare di abolire la pensione di anzianità se i più

fortunati iniziano a lavorare a trent’anni? Perché,

ad esempio, non si incentiva l’imprenditorialità

giovanile sostenendo lo spin-off universitario

attraverso il venture capital e concedendo

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l’esenzione fiscale e contributiva per i primi tre

anni? Gli ammortizzatori sociali devono essere, per

natura, temporanei altrimenti si trasformano in un

illusorio parcheggio per coloro che sognano un futuro

lavorativo. Ma se in Italia continuiamo a sistemare

solo i conti pubblici deprimendo redditi e consumi

senza perciò sostenere la crescita economica

attraverso la quale ripagare il debito; se il Ministero

dello Sviluppo Economico è sottomesso a quello dei

conti pubblici; se lo Stato paga le aziende nel triplo

del tempo della media europea mentre – a parti

invertite - ricorre a tutte le armi possibili di

riscossione coatta delle somme maggiorate quasi

del 50% tra sanzioni ed interessi; se abbiamo

un’incidenza dell’evasione molto più alta rispetto ai

Paesi scandinavi con la più alta pressione fiscale

ma con il rapporto tasse/servizi tra i migliori

d’Europa; se i diritti acquisiti sono intangibili e

posti a carico delle nuove generazioni; se lo Stato

confida anche nel gioco-scommesse per

rimpinguare le casse dimostrandosi inclemente

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verso coloro che scommettono più per bisogno che

per gioco rischiando di precipitare nel vortice della

dipendenza; se i migliori ricercatori ritornano per

poi rifuggire; se ci illudiamo che le infrastrutture

materiali possano rifondare l’economia strutturale e

non crediamo che sono le infrastrutture della

conoscenza a dare l’accelerazione al Paese; se ci

consoliamo confrontandoci con l’economia della

Grecia perché temiamo il confronto con quella della

Germania o della Francia; se i sindacati si

arroccano sulle rendite di posizione e non

comprendono che il vantaggio di costo ed il

vilipendio al made in Italy sono le cause occulte

della disoccupazione contro cui si doveva lottare; se

le imprese non tollerano che i dipendenti debbano

essere anche “proprietari” alla tedesca della propria

azienda; se la nostra classe dirigente preserva le

posizioni e non i risultati (quelli buoni!); se

pensiamo di inculcare il senso dell’onestà anche

fiscale con (prossimi) spot televisivi quando lo

stesso sistema discrimina e mortifica le aspettative

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di equità e benessere; se nelle altre democrazie si

dimette un ministro per aver copiato la propria tesi

di laurea, mentre da noi il ministro si dimette solo

da inquilino; se si pensa che il senso civico sia un

dovere di legge e non un obbligo di coscienza; se si

tollera il predominio dell’economia finanziaria

sull’economia reale; se servono più geriatri che

pediatri, se … allora ogni tentativo di risollevare le

sorti del nostro Paese è destinato a naufragare per

poi farne affiorare i detriti alla prossima bassa

marea.

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Evasione sotto scacco: ecco come! (Pubblicato su www.lavoce.info del 23/08/2011)

Da diversi mesi seguo con interesse l’annoso e

genetico problema dell’evasione fiscale in Italia. Ciò

che accomuna i vari articoli dei giornali nonché

l’opinione pubblica è il binomio evasore=lavoratore

autonomo soprattutto del Sud. A ben guardare ed

incrociare le indagini, mi accordo che – purtroppo –

il fenomeno è poco conosciuto e per questo

affrontato in maniera poco appropriata. Allora,

faccio sintesi delle mie riflessioni (anche su dati

statistici di diversa fonte) e della mia soluzione:

1) chi sono gli evasori: in ballo ci sono oltre

180 miliardi di euro all’anno tra economia

sommersa (34,3 miliardi), economia criminale (78,2

mld), evasione di società di capitali (22,4 mld),

evasione delle big company (37,2 mld), evasione dei

lavoratori autonomi e piccole imprese (8,2 mld).

Come si vede, l’evasione dei “capri espiatori”

rappresenta appena il 4,5%, mentre molto di più si

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potrebbe recuperare dalle società di capitali, dalle

grandi imprese e dal lavoro in nero. Già, si contano

2,9 milioni di lavoratori in nero tra i quali 850 mila

dipendenti con il vizio del doppio lavoro (fonte:

contribuenti.it). Non dimentichiamo, inoltre, un altro

aspetto non certo trascurabile. L’evasione dei

piccoli imprenditori e professionisti si realizza

omettendo l’emissione della fattura. Ma è pur vero

che il cliente non insiste più di tanto poiché, così

facendo e senza dispiacere, risparmia il 20% di Iva

che non può scaricarsi. Si pensi che l’Iva evasa in

Italia è pari a 60 miliardi di euro all’anno tra

operazioni “carosello” ed omessa fatturazione.

Quindi, è più giusto perseguitare entrambi gli attori

dell’evasione dal momento che questa non è mai

orfana.

Risulta, inoltre, che i principali evasori sono gli

industriali (33,2%), i bancari ed assicurativi

(30,7%), i commercianti (11,8%), gli artigiani (9,4%),

i professionisti (7,5%) ed i lavoratori dipendenti

(7,4%). Se la teoria di Pareto (80/20) dice che, ad

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esempio, indossiamo per l’80% delle volte il 20% del

nostro guardaroba, è vero anche che l’80%

dell’evasione è concentrata nel 20% degli evasori.

Ed i dati sembrano confermare questa teoria!

2) dove si evade: l’evasione è più diffusa al

Nord Ovest (31,4%), seguito dal Nord Est (27,1%),

poi dal Centro (22,2%) e dal Sud (19,3%) anche se

qui il sommerso è più elevato. Quindi, l’evasione è

un malcostume nazionale che segue la

distribuzione della ricchezza;

3) si evade per iniquità: l’evasione è

deplorevole in ogni caso ed è una minaccia alla

solidarietà nazionale. Detto questo, i principali

stimoli all’evasione sono l’iniquità e la sfiducia

percepite.

Se lo Statuto del contribuente resta solo uno

stendardo da più parti strapazzato, il confronto è

impari. Poi, l’equivalenza fiscale tra reddito

imprenditoriale ed il reddito di lavoro dipendente è

scoraggiante. Il primo ha un rischio che non ha il

secondo ma che però soggiacciono alla medesima

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progressività d’imposta. Il rischio composto deriva

dalla crisi economica, dai ritardi nei pagamenti

anche della pubblica amministrazione, dalla

burocrazia che costa 15 miliardi l’anno, dalla

concorrenza spietata e sleale che lo Stato non ha

saputo regolare nei settori dei servizi, dell’artigiano

e dell’agricoltura. Poi, non si capisce perché per il

dipendente l’anno è formato da 13 mesi (se non da

14!) e le ferie sono pagate, mentre l’autonomo non

sconta alcun bonus. Sarebbe opportuno, a questo

punto, introdurre una deduzione d’imponibile per il

rischio imprenditoriale in modo da rendere

omogenea l’imponibilità fiscale tra i diversi

contribuenti. Inoltre, ci sono costosi piani di

salvataggio per l’occupazione delle grandi imprese

ma si abbandonano i dipendenti delle micro-

imprese sotto i 15 dipendenti che rappresentano

quasi il 90% delle imprese. E potrei continuare;

4) si evade per sfiducia: le tasse sono il prezzo

dei servizi resi alla collettività. Oggi, non so’ quanto

spenderebbero gli italiani per la quantità e la

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qualità dei servizi ricevuti. Esattamente il contrario

succede però nei paesi scandinavi: tartassati ma

soddisfatti! Tant’è che la tax compliance (ossia, la

fiducia nel fisco) da parte degli italiani è crollata al

16,74% dal 28,94%. Ora, se lo Stato non dimostra

efficienza ed efficacia farà fatica a pretenderne il

prezzo. E questo vale più sulle aspettative di

benessere nazionale che sulle condizioni attuali. Ma

se si continua a tagliare per colpa di un debito

malefico ed in una lunga fase di oscurità

economica, i bisogni fisiologici, di sicurezza, di

appartenenza ed affetto (della piramide di Maslow)

diventano fragili pilastri della fiducia nel sistema;

5) effetti della lotta all’evasione: è il cittadino

a pagarne il sacrificio. E’ logico come qualunque

impresa segua il profitto: non persegue certo fini

filantropici! Accadrà, pertanto, che quasi tutti

emetteranno fatture e scontrini o eviteranno

acrobazie di bilancio e, in linea con le aspettative di

profitto, aumenteranno quasi tutti i prezzi al

consumo. Effetto finale: aumento progressivo

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dell’inflazione, contrazione dei redditi dei

consumatori, criticità delle aspettative di reddito.

Se prevarrà la concorrenza, accadrà che molte

imprese continueranno a trovare margini di profitto

all’estero causando un’emorragia occupazionale che

ad arginarla non basteranno le risorse recuperate

dall’evasione. Tra l’altro, le manovre correttive

estive sono finalizzate alla riduzione del debito,

perciò, i maggiori introiti dell’evasione andranno a

tappare le falle del debito pubblico e non certo a

potenziare i servizi. Perciò, alla fine, la lotta

all’evasione sarà comunque un costo pagato dai

consumatori e lavoratori senza ricevere i dovuti

servizi;

6) la soluzione possibile: la deterrenza non

basta perché sarebbe necessario un controllore per

controllato. Per evitare ciò, ritengo sia necessario

adottare un mix di misure di etica fiscale avendone

il coraggio di non soggiacere ai poteri forti che

hanno fermato il Paese. Ecco la mia soluzione: a)

prima su ogni cosa, rendere la pubblica

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amministrazione trasparente, equa e la cui efficacia

soggetta al giudizio dei cittadini (utenti/clienti); b)

concentrare l’attenzione sulle grandi economie; c)

prevedere una deduzione fiscale legata al rischio

imprenditoriale da considerare nella progressione

d’imposta; d) incentivare l’uso della moneta

elettronica ed abbassare il divieto di contante a 500

euro; e) riformare l’attuale sistema fiscale tassando

il reddito al netto delle spese certificate e superiori

alle 250 euro: oggi lo stipendio è doppiamente

tassato quando incassato e quando speso (in capo

al venditore). Anche per ragioni di introiti, è

necessario elevare (se non raddoppiare!) le aliquote

d’imposta in modo da incentivare la pretesa della

fattura; f) abbassare la soglia per la contabilità di

magazzino; g) reintrodurre la comunicazione degli

elenchi clienti/fornitori; h) elevare a norma

costituzione lo Statuto del contribuente; i) tagliare i

privilegi passati perché questi non siano la zavorra

dei giovani. Staremo a vedere!

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Svenduta l’occupazione dei giovani (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 03/11/2011)

La crisi occupazionale non è un caso e nessuno si

sorprenda. Basterebbero poche riflessioni per

scoraggiare eventuali dubbi. La prima riguarda la

dinamica commerciale. Nell’ultimo decennio,

l’export è stato trainato anche dalla meccanica,

mentre l’import del comparto tessile, abbigliamento

e calzaturiero è cresciuto troppo in quantità. E a chi

non è capitato di acquistare, ad esempio, calzature o

abbigliamento di manifattura estera a pochi euro? Il

nostro consumo irresponsabile ha fagocitato la

nostra occupazione locale a vantaggio della più

economica occupazione estera. In sostanza, abbiamo

importato disoccupazione e spostato la ricchezza

dalla manifattura locale al commercio. D’altronde,

l’incapacità di differenziare la qualità ha sostenuto

l’importazione di prodotti (semi)finiti da quei Paesi a

basso costo produttivo giustificato dall’assenza di

tutti quei costi imposti dalle norme comunitarie e

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sulla sicurezza oltre che dal cuneo fiscale del lavoro

che un’impresa italiana deve invece sopportare.

Senza dimenticare che la salvaguardia dei posti di

lavoro è però prerogativa dello Stato non certo delle

imprese che per scopo hanno invece il massimo

profitto. Come seconda osservazione, non si poteva

non sapere che nel 2005 scadeva l’Accordo

Multifibre – firmato nel lontano 1975 – con cui si

imponeva ai Paesi in via di sviluppo di limitare le

esportazioni in Occidente di prodotti tessili e di

abbigliamento. La miopia della politica industriale

italiana ha sorretto invece la competitività delle

imprese attraverso gli incentivi pubblici (esemplare

il settore auto) e la nostalgica svalutazione della

lira. Quando era oramai necessario puntare

sull’innovazione e sulla genialità italiana, abbiamo

invece continuato a puntare sull’occupazione di

massa incentivando con fondi pubblici (famosa la

legge 488) la costruzione di aziende stile cattedrale:

peccato che in molte di esse echeggia oggi un

silenzio assordante. Eppure abbiamo speso quando

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invece era ineludibile investire! Come terza

osservazione, l’economia e la finanza globale sono a

somma zero. Perciò, per la fisica dei vasi

comunicanti, se una parte del mondo è in crisi,

l’altra cresce. Vale anche per i mercati finanziari:

c’è chi perde perché qualcuno ci guadagna. Sempre!

Come quarta osservazione, l’abusata teoria

keynesiana di sostenere l’economia attraverso la

spesa pubblica ha semplificato la sopravvivenza

della politica di fine millennio: spendi e spandi tanto

il conto lo pagheranno i posteri! Proprio come la più

ambita delle carte di credito. Ma se oggi la

disoccupazione giovanile è devastante, il conto è

impagato ed ecco che è tempo di tagliare anche le

speranze. Chiamateli pure bamboccioni, ma la

verità è che a causa dei diritti quesiti, della

transigenza e della spesa impazzita dello Stato degli

ultimi trenta anni, del deficit d’innovazione, della

voracità del potere, dell’assenza di una vera politica

industriale è stata svenduta l’occupazione dei

giovani. E che nessuno si sorprenda!

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Il fuoco che brucia in Borsa! (Pubblicato su Quotidiano di Puglia del 15/12/2011)

“In Borsa oggi persi 194 miliardi di euro! Oppure, la

Borsa brucia 120 miliardi!” Sono le notizie

allarmanti che si ripetono dentro una crisi infinita

riportate nei titoli dei telegiornali. Mai nessuno,

però, ci ha mai spiegato cosa significa realmente

“bruciati” o “persi”? E’ possibile spiegare il concetto

in maniera semplice evitando i tecnicismi finanziari.

La Borsa finanziaria (Piazza Affari in Italia) funziona

come un vero e proprio mercato in cui si scambiano

(virtualmente) strumenti finanziari costituiti da

azioni (frazioni di capitale delle società quotate) e da

prodotti derivati (frutto della migliore ingegneria

finanziaria speculativa). Il mercato borsistico

ragiona più sulle aspettative che sui dati economici

storici ed attuali. In pratica, se l’economia si

prevede in ribasso, le quotazioni crollano. Ma si

tratta di aspettative che spesso cambiano verso da

un giorno all’altro poiché gli operatori finanziari più

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grossi trainano decine di migliaia di piccoli

operatori (effetto domino). Inoltre, i prezzi delle

quotazioni si formano come naturale equilibrio delle

due masse di mercato: domanda di titoli (ordini

acquisto) ed offerta (ordini di vendita). Ciò a cui

abbiamo assistito nell’ultimo trimestre è stata

un’eccedenza dell’offerta rispetto alla domanda che

ha provocato una caduta libera dei prezzi. Perciò, la

massa dei titoli scambiati ad un prezzo ridotto ha

generato una perdita finanziaria strepitosa da

guadagnarsi i titoli di giornali e telegiornali.

Siccome è surreale immaginare che in Borsa si

“bruciano” euro, è più realistico credere che in

Borsa prevalga il principio della fisica dei vasi

comunicanti: c’è chi perde perché c’è qualcuno altro

che ci guadagna. Può accadere, infatti, che

l’investitore venda per realizzare, in fase di ricaduta

dei prezzi, i guadagni maturati nella fase della loro

crescita.

Può accadere, anche, che l’investitore venda a due

mani per creare panico finanziario per poi

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riacquistare quando i prezzi sono nuovamente

troppo bassi: quando le quotazioni risalgono fino

alla soglia psicologica di guardia, si affretta a

vendere realizzando profitti mentre le quotazioni

iniziano a crollare.

In entrambi i casi prevalgono perciò logiche

speculative dove le perdite sono compensate dai

guadagni. Sempre. Oggi, la Borsa è animata da una

psicosi finanziaria poco attenta ai fondamentali

economici di una società quotata o di un Paese: i

prezzi sottovalutano il valore reale dell’economia ma

ciò serve per la prossima corsa speculativa. Le

quotazioni segnano uno schizofrenico

encefalogramma dove i migliori speculatori sanno

come guadagnare anche quando il mercato scende.

E’ il mercato, c’è poco da fare!

Un esempio agevola la comprensione. Convinto

dalle buone notizie di mercato della società Alfa

SpA, l'investitore A acquista le sue azione al prezzo

di 100. L'investitore B si accoda ma (per effetto

della legge di mercato domanda/offerta) deve

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pagare un prezzo più alto: 110. Lo stesso fa'

l'investitore C ma ad un prezzo di 120. Intanto, la

quotazione del titolo è arrivata a 130 e gli acquisiti

da parte di altri investitori continuano: D acquista a

135, mentre E spunta un prezzo di 140. Sicché, A

sta guadagnando 40, mentre B 30. Ad un certo

punto, spunta la notizia che nei prossimi 6 mesi c'è

il rischio di debito del maggiore Paese di

esportazione della Società Alfa SpA. Allora, sulle

aspettative, le quotazioni incominciano la discesa. A

questo punto, gli investitori A e B (i più esperti!)

vendono in blocco a 138 guadagnando 38 e

rispettivamente 28. Mentre l'investitore E si

precipita a vendere a 135 (perdendo 5); l'investitore

D, preso dal panico, vende a 130 (perdendo 5).

Mentre gli altri investitori "intermedi" vendo a 125

perdendo 5. E' ovvio che la salita quanto la discesa

dei prezzi è contraddistinta da migliaia di

contrattazioni poiché la quotazione (ossia, il prezzo),

come detto, è il punto di equilibrio tra domanda ed

offerta. Ecco. La notizia di cronaca della giornata è:

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"Oggi bruciati in borsa 15!" . Ma potrebbero anche

dire: "... Però, complimenti a coloro che hanno

guadagnato 66!". Non c'è nulla di male non vi pare?

E a pensare poi che si pagano più tasse sugli

interessi maturati sui conti correnti bancari che

sulle plusvalenze finanziarie! Almeno,

un’informazione corretta dovrebbe raccontare tutta

la dinamica finanziaria evitando l’imbarazzo di

creare panico al ribasso o euforia al rialzo:

qualcuno è sempre in agguato!

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La lotta all’evasione non è uno spot! (inedito)

“Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti. In

servizi!” E’ questo lo slogan moralizzatore che si

alterna alla pubblicità sulle reti nazionali. Diventa

difficile poi spiegare come si possano tagliare i

servizi mentre aumentano le entrate dello Stato.

Misurare il fenomeno evasivo è un esercizio

acrobatico poiché si tenta di quantificare ciò che è

occultato. Ma se prendiamo per buone le stime che

pongono l’evasione (ossia, imponibile sottratta a

tassazione) al 17% del PIL e che la metà di essa si

concentra nel 10% di tutte le imprese, è certo

invece che il debito pubblico italiano è balzato dal

34% del PIL degli anni ’70 al 118% attuali

nonostante lo stesso PIL sia nel frattempo

cresciuto. Dopotutto, il debito lievita anche quando

la Salerno-Reggio Calabria rimane un cantiere

aperto da quando ero appena un lattante; oppure

quando alcuni dipendenti pubblici hanno il dono

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dell’ubiquità; oppure quando la corruzione (stimata

in 80 miliardi di euro l’anno) condiziona la spesa

pubblica; oppure quando il termine internazionale

“meritocracy” non ha ancora una vera traduzione in

italiano. Allora, se l’Italia ha raddoppiato il peso del

debito, significa che la spesa per infrastrutture e

servizi pubblici è cresciuta molto più della ricchezza

prodotta. E ciò perché abbiamo sempre creduto (a

torto!) che l’unico modo per alimentare la crescita –

ed il consenso – fosse quello di accelerare sulla

spesa pubblica. A questo punto sarebbe tanto

opportuno quanto trasparente fare l’analisi dei costi

dei servizi pubblici dal momento che il cittadino ne

paga il prezzo. D’altra parte, si è discusso tanto dei

costi standard nella sanità ma non sappiamo

ancora quanto ci costa, ad esempio, un letto o una

iniezione e soprattutto se ci sono differenze tra i

costi standard pugliesi, siciliani e veneti. Inoltre, è

un luogo comune che la pressione fiscale motiva

l’evasione: nei Paesi del nord Europa si pagano le

(tante) tasse poiché ci sono i (tanti) servizi. Ecco la

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soluzione del problema. Nessuno è disposto a

pagare le tasse se non a fronte dei servizi ricevuti.

Anzi, sono le inefficienze, le iniquità ed il

clientelismo a provocare l’evasione e la corruzione.

Perciò, dopo la manovra di rigore, il governo Monti

deve passare subito all’equità ed alla crescita

considerando anche che: oggi il cittadino è disposto

a pagare i servizi che riceve e non può, salvo

migliore benessere, pagare quelli che non ha

ricevuto in passato; mille euro di reddito di

un’impresa non hanno, per effetto del rischio

imprenditoriale e di una serie di altri elementi, lo

stesso valore del pari stipendio di un dipendente; la

famiglia equivale ad un’azienda con entrate

tassabili ed uscite deducibili. Una mia stima

elaborata su questi presupposti, conclude con un

risultato clamoroso: maggiori entrate nelle casse

dello Stato per 54 miliardi di euro in più all’anno. E

senza lacrime e sangue!

* * *