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Anno IX - N° 4, settembre/ottobre 2014 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina www.circoloathena.com Anno IX - N° 4, settembre/ottobre 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno IX - N° 4, settembre/ottobre 2014

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

www.circoloathena.com

Anno IX - N° 4, settembre/ottobre 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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SOMMARIO

Paradiso perduto terra mia ora che sui volti ti rivedo di generosi uomini scuri guardinghi nascosti nei tratti d’avi antichi greci ammalianti nel barocco di palazzi e di chiese di parole e di gesta animate pietanze d’un vino gagliardo su tavole di pani e di odori ca intra ‘ll’osse te tràsanu intra ‘llu sangu te tràsanunei demoni guerrieri alle porte di Troia in fanciulle scazzicated’amor follie tarantolate.Col tuo canto notturno terra mia non disturbi la quiete t’abbandoni anzi ai vapori della sera remota è l’alba per le fatiche ancor buie un bicchiere c’è tempo un sorriso c’è tempo non indugia no sulla soglia l’incerto viso foresto sacro un dio vi sottende.Rossa piana arida bella terra mia mirtillo che profumi di bucatorucola al sapore di frisatimo di vergine macchia cespugli radente a schiuderti campanili Nardò lontani orizzonti d’infanzie remote quando una foglia trombettinascatenava suoni monotoni e accorati che un vento carezzevole e secco librava sugli ulivi fino al mare.

Alfredo Romano

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] - [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Rossano MarraDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Giorgio Liaci, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero VinsperImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiPubblicità: Giuseppe De MatteisStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

COLLEMETO

COPERTINA: “Autunno” - Foto tratta da internet

Extra moeniaAD UN PASSO DALL’INFERNOdi Rino DUMA 4

Medioevo salentinoPIETRO DE HUGOTdi Giancarlo VALLONE 8

Vestigia perdutePORTA SANTA CATERINAdi Salvatore BECCARISI 11

Storie d’amoreFRANCESCO CASTROMEDIANO...di Giuseppe PASCALI 14

Artisti galatinesiARMANDO MARROCCOdi Maurizio NOCERA 17

Terra nosciaIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 20

Epistolario cittadinoLETTERE DI CESIRA POZZOLINI...di Rosamaria DELL’ERBA 22

Stregonerie & sortilegiMACÀRI E MACARÌEdi Luigi MANNI 24

Tarantismo e...TRA MISTERO E FASCINOdi Gianfranco CONESE 26

Su e giù per il SalentoLUNGO LA VALLE DELL’IDROdi Massimo NEGRO 30

Arte sacraIL MARTIRIO DI UN POPOLOdi Candida STIFANELLI 32

Autori & editoriL’UNA E DUE - DISCO(R)DANZEdi Claudia PETRACCA 34

Sul filo della memoriaQUATTHRU GNÒCCULIdi Pippi ONESIMO 37

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Nell’ultimo numero di questa rivista, parlando dei graviproblemi che affliggono l’umanità, concludevo il mio scrit-to con le seguenti riflessioni, molto sofferte e meditate. 1) “Sino a quando la natura si lascerà aggredire dall’uomo?”; 2) “C’è un modo per rimediare a una catastrofe immane che giàbussa alla porta?”.

La rabbia della natura

Per quanto concerne il primo interrogativo, la natura hagià iniziato a ribellarsi alle scriteriate attività umane.La prima reazione proviene dall’atmosfera, la cui con-

sistenza non è più quella di mezzo secolo fa. C’è, infatti,un’enorme presenza di anidride carbonica, prodotta, in pri-mis, dall’industria, dalla cir-colazione degli automezzi,dal riscaldamento domesticoe dall’eruzione dei vulcani e,in subordine, dai numerosi in-cendi, dalla decomposizionedei rifiuti, dal prodotto del-l’espirazione umana (7,5 mi-liardi di uomini oggiimmettono un quantitativodoppio di anidride carbonicarispetto ai 3,5 miliardi deglianni ’70). Questa ingentemassa di CO2 non viene piùassorbita con regolarità dallepiante, dalle acque dei mari e,soprattutto, degli oceani per due importantissimi motivi. Ilprimo è dovuto al graduale ed incessante depauperamentodelle foreste equatoriali, che nel giro di un trentennio hannoperso un buon 25% del loro patrimonio boschivo. Interi trat-ti di foreste lussureggianti sono stati aggrediti e letteralmen-te annientati per ricavarne legno pregiato per le industriedel mobile o legno comune per quelle della carta. Sui terre-ni disboscati sono state impiantate coltivazioni intensive dimais, canna da zucchero, grano, caffè, cotone, thè, ecc. Que-ste piante non potranno mai sostituire l’azione disintossican-te delle foreste abbattute, né tantomeno potranno produrreO2, se non in misura insignificante (4-5%).

In secondo luogo, un dato non trascurabile è rappresenta-to dalle prime difficoltà incontrate dalle acque marine edoceaniche ad assorbire anidride carbonica, da cui dipende laformazione del fitoplancton, elemento indispensabile per il

ciclo vitale nei mari e per il rilascio di ossigeno nell’atmosfe-ra. Alla base di tutto ciò vi è l’aumento graduale dell’acidifi-cazione delle acque, dovuta al continuo surriscaldamentoatmosferico e al conseguente effetto-serra.

Oltre alle continue e scriteriate immissioni di CO2, vi è unaltro subdolo fenomeno che fra non molto stravolgerà l’in-tero equilibrio biologico. È rappresentato dall’assottiglia-mento del ‘permafrost’, un terreno caratteristico delle zonesettentrionali prossime ai poli (Europa, Asia, America), cheoccupa una superficie pari a dieci volte quella degli Usa. Ilpermafrost, chiamato anche ‘permagelo’, è una striscia diterreno dallo spessore di due-tre metri, perennemente con-gelato, al di sotto del quale si estendono immense zone di

ghiacci, i quali, a loro volta,intrappolano giacimenti dimetano. Se questo gas doves-se trovare delle vie d’uscita, sidiffonderebbe nell’atmosfera,determinando effetti catastro-fici per la vita. L’effetto-serra,ahinoi, continuando indistur-bato a sciogliere il perma-frost, già comincia a minare ilfuturo della Terra.

La popolazione mondialeSulla scorta di quanto asse-

rito, è dovere primario del-l’uomo adoperarsi immedia-

tamente affinché sia ristabilito l’equilibrio tra i vari elemen-ti della natura.

Ma, in quale direzione l’uomo dovrebbe muoversi e qua-li misure prioritarie dovrebbe adottare?

La causa principale, che poi causa non è, bensì effetto discellerati propositi, è rappresentata dall’aumento spropor-zionato della popolazione mondiale, ormai prossima a ta-gliare il traguardo dei 7,6 miliardi di persone. Tutti lo sannoe tutti ne parlano. E allora, una volta individuato l’elemen-to-principe dei nostri mali, basterebbe intervenire con un’ap-propriata politica internazionale per bloccare prima einvertire poi la tendenza al preoccupante fenomeno. Sem-plice, molto semplice!… Semplice a dirsi, ma non ad attuar-si. Ci sono, cari lettori, enormi interessi da proteggere…interessi che si ridurrebbero drasticamente, se si puntasse aun contenimento della popolazione mondiale e, peggio an-

4 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

EXTRA MOENIA

Foresta amazzonica abbattuta

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cora, a una sua riduzione. Tutto ciò non è gradito all’econo-mia di mercato, la quale anzi punta a globalizzare il feno-meno e ad incentivarlo. In pratica, le leggi economiche, cheun tempo erano governate dall’uomo, oggi ci governano e cidominano.

Alla base di questo ‘perverso meccanismo’, c’è il terribilemostro rappresentato dal “profitto d’impresa”, figlio predi-letto dell’egoismo, che spinge l’uomo a sfruttare e ad arric-chirsi a dismisura contro ogni logica. Se si trattasse diegoismo controllabile, i danni sarebbero pochi. Il guaio è checi troviamo di fronte ad una forma mostruosa di egoismo,che ormai trabocca e contamina ogni angolo del pianeta, de-

terminando forti contrasti, guerre e lutti, tanti lutti. È un vor-tice impetuoso dall’impareggiabile avidità, è un orridopozzo senza fondo e senza dimensioni!

Ecco dove risiedono i mali del mondo!... Esattamente inquesto buco nero dell’umanità!

Questo è l’unico vero problema che ci deve spingere a lot-tare per guadagnarci un altro tipo di cultura… la culturadella felicità!

“Non si tratta di immaginare il ritorno dell’uomo all’era delle ca-verne, né di erigere un monumento all’arretratezza…” – comegiustamente osserva Josè Pepe Mujica, presidente dell’Uru-guay – “…Però non possiamo continuare, indefinitamente, a la-sciarci governare dal mercato, bensì dobbiamo cominciare ad esserenoi a governare il mercato”.

Una via d’uscitaUna cosa è ormai certa e incontrovertibile: l’attuale model-

lo di sviluppo non è più proponibile, perché altamente de-leterio. Va immediatamente accantonato o, quanto meno,rimodellato nei suoi elementi principali.

Da qualche tempo a questa parte, si sta affacciando conuna certa insistenza la teoria della “decrescita felice”, idea-ta dall’economista e antropologo Serge Latouche.

Cosa rimprovera lo studioso all’attuale “economia di mer-cato” e cosa propone in alternativa?

Intanto rivolge un’aspra critica al capitalismo, al consumi-smo, all’utilitarismo, alla crescita economica, in quanto rite-nuti rei di sfruttamenti selvaggi, di accumulo abnorme digrandi ricchezze, di un progressivo impoverimento del-l’umanità, dell’inasprimento dei rapporti internazionali, dienormi tensioni sociali su larga scala. Tutte queste cause so-no “portatrici d’infelicità”.

Latouche sostiene che è inconcepibile pensare che l’uma-nità possa puntare a un continuo sviluppo e rigetta l’ideache la ricchezza possa produrre altra ricchezza all’infinito.

Il no al capitalismo, e quindi all’incontrollata economia dimercato, è giustificato da evidenze logiche. Infatti l’auspica-bile ‘crescita illimitata’, sbandierata dai liberisti, è pura fol-lia, è un’utopia che porta dritto a sbattere contro un muro,poiché le risorse a disposizione dell’uomo sono limitate e giàprossime all’esaurimento. Continuare a percorrere questastrada significherebbe addentrarsi in un ginepraio tortuoso,sempre più irto e senza alcuna via d’uscita.

È invece auspicabile che le varie nazioni riescano a coniu-gare l’economia con l’ecologia e con l’antropologia economi-ca, e anche che si rendano promotrici di un cambiamentoculturale, che scardini dalla mente degli uomini l’educazio-ne utilitaristica degli ultimi due secoli, colpevole di tanti di-sastri ambientali e sociali.

In alternativa, lo studioso propone di puntare alla cosid-detta ‘decrescita felice’, che comporterebbe una diminuzio-ne di prodotti e, di conseguenza, di consumi. Tutto ciò nonprovocherebbe una fase di recessione economica, ma di ‘de-crescita controllata’ dell’economia, cioè di un ridimensiona-mento organizzato delle risorse, in modo che non ci fosseroeccessi di produzione e, quindi, sovrabbondanza di rima-nenze, che, nel caso di prodotti alimentari, sarebbero desti-nate alla distruzione.

Si pensi, a voler fare un esempio, alla produzione di auto-mobili nel mondo. Una parte considerevole di vetture risul-ta ogni anno invenduta e giace inutilizzata in grandi spaziaperti, per poi essere svenduta, sempreché ci siano richieste.Questa è ricchezza sottratta all’umanità che, altrimenti, si sa-rebbe potuta impiegare in altri progetti produttivi. Di taliesempi, ci sono a centinaia di migliaia, esattamente quantesono le varie merci prodotte. Pertanto, secondo questa teo-ria tutto ciò che presumibilmente non verrebbe consumato,non deve essere prodotto. Si tratta, in pratica, di applicarela tanto declamata “spending revue”, cioè la revisione dispesa, applicata anche all’economia mondiale.

Questo concetto va di pari passo con la riduzione deglisprechi. Tutto quello che non è necessario consumare, diconseguenza non va prodotto.

Per mancanza di spazio, ci limitiamo ad esaminare solodue punti essenziali della sua teoria, che ci vengono raccon-tati dallo stesso studioso.

1) Autonomia energetica e alimentare. Qui subentra il concetto di ‘località’. Nella visione della

decrescita, le comunità sono autonome. Sono escluse le mer-ci che realmente non sono producibili in loco, niente va im-

settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 5

Ressa per l’approvvigionamento d’acqua potabile

Serge Latouche

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portato. Una città consuma solo gli alimenti che produce,consuma solo l’energia che produce e utilizza solo gli stru-menti che crea. Qui assume un’importanza essenziale laquestione delle risorse rinnovabili, in grado di rendere auto-nomo anche un paese che non possiede giacimenti di petro-lio, di carbone, di gas ecc. Assume un’importanza particolareanche il riciclo: se l’import è considerato una cosa da evita-re, allora è indispensabile non sprecare gli strumenti, le mer-ci, gli oggetti; dunque è indispensabile riciclare.

2) Senso di appartenenza alla comunità. Se la comunità è autosufficiente (per quanto possibile) al-

lora è giusto che si instauri un rapporto più intenso tra lapopolazione e la propria terra. Rapporto che va coltivatomantenendo, ed eventualmente recuperando, le tradizionitipiche del territorio. In questo senso la decrescita non è so-lo una teoria economica, ma anche filosofica e antropologi-ca, quindi culturale.

Il pensiero di Latouche evidenzia che i maggiori proble-mi ambientali e sociali del nostro tempo sono dovuti pro-prio alla crescita economica e ai suoi effetti collaterali; di quil'urgenza di una strategia di decrescita, incentrata sulla so-brietà, sul senso del limite, sulle "8 R" (riciclare, riutilizzare,ridistribuire, rivedere, ristrutturare, ecc.) per tentare di ri-spondere alle gravi emergenze del presente.

Pertanto, via il “profitto d’impresa”, dentro il “profitto so-ciale” e, di conseguenza, rispetto assoluto dei legami conMadre Natura.

Potrebbe essere un’idea nuova, un progetto di vita moltointeressante, da non scartare a priori, ma da prendere nelladovuta considerazione e, magari, migliorarlo.

L’accorato appello di Papa FrancescoIl pensiero di Latouche è stato sostenuto indirettamente

da Papa Francesco che, qualche tempo fa, ha lanciato unmessaggio ben preciso, rivol-to ai vari governanti delmondo. Egli ha sostenutocon forza che "il nostro cuoredesidera un «di più», che non èsemplicemente un conoscere «dipiù» o un avere «di più», ma èsoprattutto «un essere di più».Non si può ridurre lo sviluppoalla mera crescita economica,spesso conseguita senza guarda-re alle persone più deboli e indi-fese. Il mondo può miglioraresoltanto se l’attenzione primariaè rivolta alla persona, se la promozione della persona è integrale, intutte le sue dimensioni, soprattutto in quella relativa al lavoro, chenon può essere considerato una variabile dipendente dai mercatifinanziari e monetari. Il lavoro è un bene fondamentale della per-sona, in quanto garantisce dignità, crea la famiglia e contribuiscea realizzare il bene comune e la pace. Il mondo può migliorare so-lo se non viene trascurato nessuno, compresi i poveri, i malati, icarcerati, i bisognosi, i forestieri e se si è capaci di passare da unacultura dello scarto ad una cultura dell’incontro, dell’accoglien-za e della fratellanza”.

Sono parole che risuonano come una denuncia alla politi-ca e, più in generale, a una società sempre più asfittica, cheha perso completamente il senso del suo esistere e di ciò cheè veramente essenziale. Parole sante, anzi santissime, rivol-te ad orecchie che non hanno voglia di ascoltare, ad orecchie

a cui piace solo il tintinnio delle monete e ad occhi amantiunicamente del luccichio dell’oro, ma non certamente delbrillio delle lacrime di chi soffre.

È possibile, quindi, auspicare un rinnovamento, se si vivein un’economia basata sullo sfruttamento abnorme e su unacompetizione così spietata e implacabile? Fin dove arriva ve-ramente la nostra volontà a cambiare il destino del mondo?

L’uomo è nato per essere “libero e felice” e per vivere insintonia con la natura, senza mai alterarla o danneggiarla.Ogni modello che tende allo ‘sviluppo abnorme’, al fine diprodurre ricchezza, è quasi sempre portatore di saccheggio,sfruttamento, inquinamento e devastazione degli habitat na-turali. E se s’intacca l’ambiente, si compromette prima o poila stessa vita dell’uomo. Perciò, dovremmo adattarci alla na-tura ed accettare unicamente le sue regole e non quelle del“libero mercato”.

In quale modo potrà entrare nella testa, e soprattutto nelcuore, dei popoli “dominanti” un messaggio del genere?Queste genti sono abituate a vivere ad li là e al di sopra del-le condizioni di vita in cui vive il cittadino-medio del mon-do. Badate attentamente, amici lettori, che si sta parlando dicittadino-medio e non di colui che vive ai margini della so-cietà opulenta, di colui che ogni giorno riesce a nutrirsi solocon un pugno di riso, a bere un bicchiere d’acqua (per giun-ta malsana) e a lottare contro la sporcizia, le malattie, l’igno-ranza e l’indigenza più estrema. Vi sono uomini che percampare si alimentano di radici, tuberi, verdure, frutti selva-tici e percorrono diversi chilometri a piedi per raggiungereuna modesta sorgente di acqua (non potabile), intorno allaquale c’è sempre molta ressa e molta prepotenza. Vi sono,purtroppo, miliardi di persone distribuite nelle zone più po-vere del mondo e nelle fasce sociali più basse degli stessipaesi industrializzati. Rappresentano una consistente fettadella popolazione mondiale, stimata dagli studiosi nel 40-

42% del totale. Come dire cheoltre tre miliardi di personeversano in condizioni insoste-nibili, quasi bestiali.

Non sono pessimista quan-do affermo che l’umanità hadi fronte a sé un inferno ches’appressa senza scampo.

Ed allora, ci sono ancora vied’uscita? L’uomo fa ancora intempo ad invertire la direzio-ne al suo percorso insensato eautolesivo? Forse, sì… ma bi-sogna voltare pagina ed ini-

ziare a tutelare esclusivamente gli interessi di tutti e abandire gli egoismi dei pochi. Ma sarà difficile, molto diffi-cile far rinsavire chi da sempre specula sulle sventure del-l’umanità. D’altra parte, è illogico sperare che cani affamati,anzi lupi famelici, salvino la vita alle proprie prede.

Chi scrive è portato a ritenere che le sorti della Terra sianoormai segnate, a meno di grandi stravolgimenti politici e so-ciali.

“Spes ultima dea!” – sostenevano i nostri padri latini, quasi avolersi rassegnare di fronte all’ineluttabilità di un evento dan-noso. Asserivano anche “audaces fortuna iuvat”, esattamenteciò che manca agli uomini di oggi… cioè, il coraggio e la de-terminazione di cambiare le sorti dell’umanità.

Ma, intanto… buonanotte mondo! •

settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 7

Papa Francesco

Rino Duma

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8 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

MEDIOEVO SALENTINO

Questo breve scritto, che ne anticipa uno più com-plesso legato ai primi decenni dell'età orsiniana inTerra d'Otranto, nasce da alcune considerazioni (e

relative ricerche) che si possono riassumere così: la storiamedievale della Terra d' Otranto (che solo per approssi-mazione si può identificare con il Salento), ed ancora la

storia degli ultimi secoli di tal medioevo, è da noi cono-sciuta superficialmente, e spesso affidata a tradizioni falla-ci, per la impressionante penuria documentale che gravasul periodo.

C'è naturalmente chi - ormai uno sparuto numero - vege-ta su tal penuria per asservirsi alle tradizioni forgiate dallanostra infida antiquaria d'età barocca, e già in questo s'an-nida un che di fallace, perché la tradizione vive solo se so-pravvive al distacco critico e al dubbio metodico su di essa.

La penuria documentale, costituisce invece un gravameeffettivo, ma è anche un feticcio molto esagerato, perché,come ha dimostrato ad esempio Andreas Kiesewetter,nuovi documenti si trovano ancora, a condizione di saper-li cercare anche al di fuori dei confini tradizionali, e degliarchivi soliti.

Di più: se accettiamo di allargare, con ampliamento sto-ricamente consapevole, la geografia della ricerca, acqui-stiamo di sicuro nuovo sapere, e ad esempio chiedendosi

da dove mai venisse Tristano di Clermont, e cioè da qualeClermont di Francia egli provenisse, s'è potuto aprire unnuovo capitolo, e un nuovo contenuto, nella storia dei rap-porti tra la Terra d'Otranto e la Francia meridionale.

Ora è la volta di Corfù, l'isola che è ad un passo da noi,nel mare ad oriente. Un'isola ch'è stata dominio dei Re an-gioini di Napoli fino al 1386, e dunque una sponda insula-re, allora, del regno meridionale.

Se si ha la pazienza di leggere il libro che lo storico gre-co, ora defunto, Spiros Asonitis ha pubblicato nel 1999 suCorfù angioina, si resta sorpresi da quanta Terra d'Otran-to c'è in esso, e c'era a quei tempi, nell'isola.

Qui conta parlare della famiglia de Hugot, della quale siconoscevano solo frammenti. Tuttavia i documenti vene-ziani e anche corfioti che Asonitis indica, spesso ripren-dendoli dall'opera di Hopf, e l'aggiunta, ad opera ancoradi Asonitis, di altri documenti già editi ad esempio dal Sa-thas, ci consentono notizie sulla Terra d'Otranto, inaspet-tate. Devo però dire incidentalmente, ma ad onor del vero,e per rendere a ciascuno il suo, che pagine importanti, eformative, e in certa misura ancora necessarie sugli Hugot,aveva pubblicato nel 1848 Andrea Mustoxidi nella sua sto-ria di Corfù (pp.445-446, 694-696).

Gli Hugot, lo sapevamo, è una famiglia, o un gruppo pa-rentale che accompagna numeroso Carlo d'Angiò, alla con-quista del Regno meridionale nel 1266, e ne ottiene subitooffici e feudi; tra questi, nella Terra d'Otranto, segnano in

Otranto (LE) - La Cattedrale

La città di Otranto in una antica riproduzione

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settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 9

particolare la loro storia Martano, Cursi, Calimera e poiAndrano e Castiglione. Ripeto che questo lo sapevamo; mai nuovi o rinnovati documenti consentono di seguire la lo-ro complessa vicenda feudale suquesti nuclei abitati per oltre cen-to anni, restituendoci una attendi-bile genealogia che può ben inte-grare quanto sapevamo, costi-tuendo una storia anche del pote-re, se non altro, di queste località,e sottraendole a quel buio che ècondanna quasi comune, come hodetto sopra.

Rinvio ad altra occasione un piùarticolato intervento, e anche que-sto è stato detto, ma bisogna in-tanto notare che questo impor-tante ramo degli Hugot possiedenotevoli beni feudali, grazie allaconquista angioina, anche in Cor-fù, facendo del canale di Otrantoquasi un mare interno, e usando-lo in particolare negli ultimi de-cenni del Trecento, cioè in un periodo tra i più torbidi dellastoria del Regno, quando Re e pretendenti si scontravanocontinuamente e le alleanze feudali mutavano senza rego-la, e alla fine ciascuno, come gli Hugot, giocava in proprio.

Quel che però possiamo dire con sicurezza, è che questoramo della famiglia, riuscì a costruirsi un potentato terri-toriale ben superiore a quanto si potesse supporre, assu-mendo anche la signoria di Otranto, non saprei se a titolofeudale o meno, ma certo così acquistando un porto como-do e sicuro per le traversate, a volte anche fughe, a Corfù.

Signore di Otranto fu Rizzardo de Hugot a fine Trecen-to; ce lo dice Kiesewetter traendo forse la notizia dai docu-menti di Asonitis, o forse da altri documenti a me ignoti.In ogni caso la vicenda di Rizzardo può leggersi sullo sfon-do di quella di Giacomo del Balzo, che, pretendente al ti-tolo di principe di Taranto senza che la regina Giovannagli riconoscesse quella pretesa, fu anche bandito dal Re-gno e si rifugiò a Corfù, sulla quale, tra l'altro, egli vanta-va diritti, e dove, per certo gli Hugot erano i feudali piùpotenti.

La sconfitta, nell'agosto del 1381, dell'ultimo marito del-la regina, Ottone di Brunswickad opera di Carlo di Duraz-zo, già consacrato re da Papa Urbano VI, consente a

Giacomo di rientrare in Puglia, già nel settembre, e di al-learsi con il nuovo monarca. Anche Rizzardo de Hugot go-de di questa alleanza: sappiamo da K. Hopf, che Rizzardo

appunto allora occupò Butrinto innome dal re Carlo III di Durazzo.

Nel dicembre del 1382, però, alguastarsi dei rapporti tra il re e ildel Balzo, i suoi beni furono con-fiscati; forse in quel torno di tem-po, secondo un'incerta notizia of-ferta da Ferrante della Marra, mada usare con la più circospettaprudenza, Rizzardo ebbe, paredalla madre del pretendente Lui-gi II d'Angiò, "il criminale e il ca-stello di Otranto", che forse è daintendersi come la castellania sul-la città regia. Alla morte di delBalzo (1383) inizia forse a datarel'ambiguo rapporto degli Hugotcon gli Orsini, ma Corfù resta unpunto di appoggio e di rifugio perla frequente esigenza di riparare,

come al tempo di re Ladislao (ce lo conferma Cutolo), fuo-ri dal Regno. Tutto questo, e l'uso stesso fatto della spon-da corfiota, rivela la forza riottosa della feudalità, e i modianche geografici di assicurare questa riottosità, che i feuda-li provinciali, come gli Hugot, potevano opporre, ed op-posero ancora in seguito, anche ai principi Orsini, ed inparticolare nei primi cinque lustri del Quattrocento.

Da alcuni documenti del Sathas, sappiamo che Francescode Hugot (che fu anche, come suo padre Rizzardo, feuda-le di Poggiardo, e a Francesco poi successe forse un Leo-nardo di Tocco) era legato in avventure quasi brigantesche,nel 1415, con Loise Sanseverino, signore di Nardò, e i San-severino di Nardò furono, in quella oscura stagione, gran-di nemici di Gian Antonio Orsini, né si fa fatica a credereche lo fossero anche gli Hugot.

Del resto, Rizzardo ebbe legami certi, ad inizio secolo,con Nardò, e con quella famiglia de Epiphaniis, alla qualeappartenne probabilmente quell'omonimo vescovo di Nar-dò, che, all'indomani della conquista orsiniana della città,si dimise, o fu fatto dimettere, dal Principe per sostituirlocon due suoi fedelissimi galatinesi: prima Giovanni Barlà;poi il martire d'Otranto, Stefano Agricoli.

Mi sembra qui necessario un richiamo che forse aggiun-

Scudo della famiglia de Hugot

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ge una tessera a quel poco che sappiamo della cronotassi-medievale otrantina, e che rientra appunto nelle novità ri-cavate dai documenti editi da Asonitis, e che lo stessoAsonitis rileva, senza però constatarne l'importanza. Unfratello di Rizzardo de Hugot, Pietro, viene indicato nelfebbraio 1391 come "dominus Petrus archiepiscopus Terre Hy-drunti", e se anche la lettura dell'originale del documentopotrà fare giustizia di qualche imprecisione di trascrizione,e dell'incertezza che si cava dall'idea di un arcivescovo'Terre Hydrunti', va certamente notato che un Pietro arcive-scovo di Otranto dal 1382 (data tradizionale, ma non do-cumentata) al 1389 fu poi nel 1389 traslato alla cattedratarantina e vi rimase fino al 1391, quando morì, perché ilsuo successore fu incardinato al vertice della diocesi nellafine del giugno di quell'anno.

Di questo arcivescovo Pietro nessun documento ha tra-mandato il cognome, e anzi la cronotassi tarantina cono-

sceva (erroneamente) un soloarcivescovo Pietro in cattedrafin dal 1386, complicando lecose, ma poi le ricerche di Eu-bel hanno dimostrato trattarsid'un altro Pietro rispetto aquello che effettivamentegiunse a Taranto dalla catte-dra otrantina nel 1389, e chedunque potrebbe coinciderein tutto con il Pietro docu-mentato con il cognome deHugot, se solo si potessegiungere a scongiurare, comeho detto, alcuni dubbi che ap-punto nascono dalla letturadella carta importante editadal compianto storico greco.Certo il contesto politico dalquale emerge la notizia dellacattedra otrantina a questoPietro, è del tutto compatibilecon l'ipotesi ch'egli sia un Hu-got: il 18 settembre 1381 l'ar-civescovo otrantino Giacomod'Itri, scismatico, fu costretto

ad abiurare alla presenza di re Carlo di Durazzo, ed è dun-que ben possibile che in quel frangente di armonia (dura-ta circa un anno) tra papa Urbano e il re, e tra il re e il delBalzo, un fratello di Rizzardo di Hugot, fosse nominato daUrbano VI arcivescovo d'Otranto.

Se tutto questo è vero, come a me pare, bisognerà anchenotare che l'arcivesco Pietro salì agli onori della cattedraepiscopale in giovane età, e forse in ancor giovane età mo-rì, perché era ancora minorenne nel 1366.

D'altra parte si può aggiungere alla cronotassi otrantinaun'altra notizia, che si ricava dalla importante Storia dellaGrecia nel Medioevo di K. Hopf (p. 383): nel 1351 succedea Nikolaus nella signoria e nella baronia di Patras, l'alloravescovo di Otranto 'Reinaldo de Lauro'; si tratta d'un co-gnome o denominazione ignota anche alle liste di Eubel.Poco alla volta si fa buona strada. •

Otranto (LE) - Il rosone della Cattedrale

Giancarlo Vallone

10 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

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settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 11

VESTIGIA PERDUTE

La Storia è memoria. Siamo nell’anno del Signore1896. A Galatina, come d’altronde in tutto il Mez-zogiorno d’Italia, la mancanza di lavoro si fa assil-

lante.L’Unità d’Italia è stata compiuta.Bisogna urbanizzare, creare occasioni di lavoro. A Galati-

na, la Lega dei Muratori rivendica il diritto all’occupazione.È fiorente l’artigianato per la lavorazione delle pelli. Ol-

tre cento sono i conciatori. In merito si veda il Catasto On-ciario. Nasce inoltre la scuola di Arti e Mestieri, cheprivilegia in modo particolare il ferro battuto, il legno, lapietra. Ma sono struttureche non bastano. Bisognacreare le infrastrutture.Galatina è luogo dove iprodotti, soprattuttoagricoli, tendono verso imercati del nord, tramiteil porto di Gallipoli.

Porta Santa Caterina èquella che più d’ogni al-tra fa da cerniera fra ilcentro storico e le vieesterne. Via degli Uffici(oggi Via Umberto I) ècollegata, attraverso Por-ta Santa Caterina, con laparte meridionale dellaCittà. Questo ingresso,però, si presenta strettoper i mezzi di trasportoin entrata e in uscita. Pe-raltro, si rende necessariosistemare anche il terre-no adiacente (oggi Piaz-zetta Gioacchino Toma).Sicché l’amministrazionecivica in carica decide diabbattere la Porta, pri-vando, però, la città di una grande testimonianza storica.

Stessa sorte toccherà, poi, per la Porta “La Piazza” (Piaz-za San Pietro), chiamata anche Porta dei Beccai.

Comunque si decide di varare il progetto, il cui incaricoè affidato all’ing. Donato Colaci. Il sindaco, Mario Miche-

li, presenta la relativa delibera in consiglio.Noi, in ossequio alla storia cittadina, la riportiamo inte-

gralmente.Dobbiamo aggiungere che il materiale documentario è

depositato presso l’Archivio di Stato di Lecce, fondo Pre-fettura, Serie II, vers. IV, bu.34, fasc. 322.

Delibera del Consiglio comunale“L’anno milleottocentonovantasei il giorno ventinove del

mese di ottobre alle ore 6 pom. nella Casa Comunale diGalatina e nella solita sala delle adunanze consigliari. Con-

vocato il Consiglio Co-munale in 2^ convoca-zione ordinaria d’autun-no si è riunito sotto laPresidenza del SindacoDott. Mario Micheli nellapersona dei Signori: An-tonaci Pietro; AlbaneseSalvatore; Consenti Rug-giero; Contaldo Marino;De Vito Antonio; Gorgo-ni Giustiniano; MicheliMario; Palma Pier Dona-to; Sambati Antonio; Ton-di Carmine; TorricelliRaffaele; Tundo Antonio;Vallone Antonio; ValloneLuigi.

Assiste il SegretarioSig. Giovanni Mangara-no (molto probabilmenteManganaro - N.d.R.) laseduta pubblica.

A relazione e propostadel Presidente del Consi-glio veduta la circolareprefettizia 29 settembre1895 n° 15692, con cui, in

seguito all’ispezione del Medico Provinciale, si faceva ob-bligo al Comune di sistemare i canali estramurali per rego-lare il corso delle acque piovane che ristagnano nel-l’interno dell’abitato e sono causa di insalubrità; Veduto ilprogetto compilato dal Sig. Donato Colaci in data 10 otto-

Galatina (LE) - Museo civico Pietro CavotiPorta Santa Caterina in un disegno di Pietro Cavoti

Porta Santa CaterinaLa memoria dei galatinesi

di Salvatore Beccarisi

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bre col quale si provvede all’incanalamento delle acquepiovane affluenti fuori Porta Santa Caterina ed alla siste-mazione della piazzetta e delle vie adiacenti, con l’abbatti-mento della porta, di alcune case e del torrione donatidalla Sig.ra Delli Ponti per allargare uno dei due impor-tanti ingressi dell’abitato ed uno dei tratti stradali più an-gusti e pericolosi al pubblico transito; Veduto che colprogetto è prevista la spesa di £ 10.800, cioè £ 2.800 per leopere del muratore e £ 8.000 per quelle stradali da appal-tarsi separatamente; Veduto che all’uopo sono stanziate £10.000 alla Cat. 37 del bilancio suddetto e che la maggiorespesa di £ 800 può prelevarsi dal fondo di riserva del bilan-cio suddetto; Veduti i due capitolati d’oneri, generale especiale, ammessi al progetto; Ad unanimità di voti resiper alzata e seduta Delibera Approvare il progetto e gli an-nessi capitolati redatti dal Sig. Donato Colaci per le opered’incanalamento delle acque piovane scorrenti fuori PortaSanta Caterina e di sistemazione della piazzetta e delle vieadiacenti autorizzando l’appalto delle opere suddette e laprelevazione della spesa dal fondo della Cat. 37 del bilan-cio 1897 aumentato di £ 800 da desumersi dal fondo di ri-serva del bilancio stesso”.

Avviene così l’abbattimento della Porta con la sistema-zione della piazzetta antistante. Si riporta qui di seguito ilverbale di collaudo.

“Collaudo dei lavori eseguiti dall’ing. Pasquale Micheli,nominato con voti 12 nella tornata 6 luglio 1901. Spesa pre-vista 10.800,00 lire. Veduto che con verbale d’asta dell’8 e18 marzo 1897 vistati il 31 detto mese ed il 7 aprile sotto in. 4970 e 5439, coi quali Candido Vincenzo e D’Errico Sal-vatore si resero aggiudicatori l’uno dei lavori stradali e l’al-

tro di quelli in muratura. Veduto che, secondo le misurefinali deliberate con verbale 7 agosto 1899 reso esecutivocon visto prefettizio n° 14.727 del 12 settembre, l’importodei lavori eseguiti da Candido di £ 7.468, 45 e di £ 4.197, 60quello dei lavori eseguiti da D’Errico. Veduto l’atto di col-laudo, da cui risulta che i lavori suddetti sono stati esegui-ti regolarmente e che il loro ammontare corrispondeesattamente a quello delle misure finali, superando la pre-visione della somma di £ 866,05 già coverta coi fondi delbilancio 1899; Veduto che a garanzia del contratto il Can-dido versò £ 1.000,00 e il D’Errico £ 300,00 che queste som-me trovansi rispettivamente depositate alla Cassa postaledi risparmio l’una con libretto n° 91981 rilasciato il 21 Mar-zo 1898 e l’altra con libretto rilasciato il 5 gennaio detto an-no; Veduto che gli assuntori sono stati soddisfatti d’ogniloro credito, all’unanimità di voti resi per alzata e sedutadelibera:

1) approvare l’atto di collaudo dei lavori di risistemazio-ne fuori Porta Santa Caterina;

2) autorizzare l’amministrazione delle poste a restituirei depositi esistenti libretti sora mensionati (sic!).

Firmati: Dott. M. Micheli Sindaco; G. Mongiò; G. Manga-naro Segretario.

La presente delibera è stata pubblicata ed affissa all’Al-bo pretorio del Comune, il giorno 15 corrente mese dimaggio, giorno di mercato”.

Dobbiamo aggiungere che, oltre all’abbattimento dellaPorta Santa Caterina, furono abbattuti – come si legge - untorrione e una casa costituita da tramezzi e otto vani a pri-mo piano, situata in Via Pubblici Uffici (donata con attodel notaio Garrisi Pietrantonio di Galatina da GiuseppaDelli Ponti e Sigismondo Veris da Scorrano).

12 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

Galatina (LE) - Piazza Raimondello Orsini agli inizi del ‘900 oggi Piazza Gioacchino Toma

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settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 13

Viene da chiedersi. Come mai la strada, che da PiazzaRaimondello Orsini si dirige verso Piazzetta delle Anime,è oggi intitolata a tale Giuseppina Del Ponte? Sarà stato un

omaggio dell’amministrazione comunale dell’epoca alladonatrice oppure è semplicemente un caso di quasi omo-nimia? •

Salvatore Beccarisi

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Due cuori uniti per l’eternità

Francesco Castromediano SanseverinoBeatrice Acquaviva d’AragonaUn sigillo d’amore che da quasi quattro secoli sfida la morte e il tempo

di Giuseppe Pascali

14 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

STORIE D’AMORE

Due cuori uniti per l’eternità, sigillo di un amore cheda quasi quattro secoli sfida la morte e il tempo. Èun posto romantico l’antica chiesa del convento dei

Domenicani di Cavallino, il luogo dove trova il suo epilo-go la storia d’amore di Beatrice Acquaviva d’Aragona e delmarito Francesco Castromediano Sanseverino, primi mar-chesi di Cavallino.

In questo tempio fatto riedificare dalla bella marchesaBeatrice che un tempo fu la chiesa di famiglia dei Castro-mediano, nel monumento sepolcrale sormontato dalle sta-tue dei nobili coniugi potrebbero, infatti, riposare i lorocuori, custoditi in due urne, uniti per sempre. Una veritàconosciuta nei secoli solo per metà, che potrebbe incontra-re il tassello mancante se trovassero conferma le supposi-zioni degli architetti Giuseppe Fiorillo e Antonio No-vembre, i tecnici che hanno curato il restauro della chiesae che basano le loro ipotesi su quanto riportato nelle «Ora-zioni funerali» di frate Antonio da Bisceglie, un documen-to datato 1637 che l’architetto Novembre, quasi per caso,rinvenne circa venticinque anni addietro nella biblioteca«Bernardini» di Lecce.

«All’epoca stavo conducendo uno studio sugli altari barocchidel Salento – racconta Novembre – e trovai per caso questo an-tico documento. La vicenda era così toccante che pensai di tra-scriverla: fu quasi un presagio, visto cheoggi mi trovo a lavorare al cospetto di que-sto monumento».

Questa la storia: il 5 agosto del 1637,nel castello dei Castromediano a Ca-vallino, a soli ventotto anni, dopo die-ci anni di matrimonio, spossata dadieci gravidanze e dai travagliati par-ti, cessa di vivere la bella marchesaBeatrice Acquaviva d’Aragona, sposadi Francesco Castromediano. Il mar-chese, innamoratissimo della consor-te, non riesce a rassegnarsi alla suaperdita; preso da un dolore devastan-te giura di sigillare quell’amore unen-do i loro cuori per l’eternità. Quasisegretamente, don Francesco faespiantare il cuore di donna Beatrice,donna Bice come la chiamava il suopopolo cavallinese, lo fa riporre inuna cassetta di piombo, ricoperta dilastre di argento, a sua volta racchiu-

sa dentro un’altra cassadi cipresso ricoperta divelluto verde listata dioro e lo fa custodire nelConvento dei frati Do-menicani di Cavallino,fino al completamentodella chiesa annessa.Qui, un giorno, per suadisposizione, si sarebbericongiunto con quellodello sposo.

Nel 1663 Francescomuore a Venezia in cir-costanze misteriose, sidice pugnalato duranteun carnevale. Il figlioDomenico Ascanio erige un monumento funebre nellachiesa di famiglia, con le statue dei genitori ritratti nel fio-re degli anni, a grandezza naturale, sereni e dignitosi e ve-stiti alla moda spagnola. E con ogni probabilità al suointerno vi colloca anche i loro cuori, compiendo la volon-tà del padre.

Antonio da Bisceglie, frate lettore maggiore del conven-to di san Giovanni d’Ajmo di Lecce,dell’ordine dei Predicatori, nelle sue«Orazioni» stampate a Lecce nel 1637,scrive infatti così: «Lo stesso Santo Pa-triarca per divina disposizione pose nel-l’animo del suo Marchese, che del pudicoe Regio Cuore, si come fu sempre stanzaReale di quello, così, da odorosi balsamiprofumati e preservato in una cassa d’ar-gento, nella Chiesa di esso Santo e suoConvento in detta Terra si conservasseaggiungendovi anco, come per pubblicascritta appare che nella di lui morte debbariporsi il Cuor suo nell’istesso luogo, ac-ciò stiano congiunti quei due cuori nelmedesimo tempio in Terra, insegno che leloro due anime beate nel Tempio del Cel,sotto la bandiera di detto Santo starannoeternamente uniti».

C’è poi un particolare che potrebbeavvalorare questa ipotesi: le due sta-tue, che sembrano tenersi per mano,

Giuseppe Pascali

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in realtà stringono insieme un oggetto: è un cuore. Veritàstorica o solo una supposizione?

«Di certo c’è che è una storia bellissima – sottolinea l’archi-

tetto Fiorillo – che solo un’indagine radiografica sul monumen-to potrebbe avvicinarci; ma questo necessiterebbe di finan-ziamenti ad hoc».

E c’è una strana curiosità: sono tante le coppie di giova-ni fidanzati che, senza conoscere questa storia, scelgono lachiesa del convento, al cospetto delle statue di Beatrice eFrancesco poste dietro l’altare maggiore, per pronunciareil loro «sì». Una semplice combinazione? Chi scrive ha vo-luto rendere nota oltre i confini locali questa storia singo-lare, narrandola e affabulandola con il romanzo «Il sigillodel marchese», edito per i tipi di Lupo Editore in cui, conun giusto equilibrio traverità storica, leggendae fantasia, personaggireali e frutto di fantasiaprendono vita per nar-rare questa affascinantevicenda, sullo sfondo diuna Lecce martoriatadalla peste.

Questa la trama delromanzo: Caballino, bor-go a pochi passi da Lecce,agosto 1637. La bella mar-chesa Beatrice Acquavivad’Aragona, donna pia edevota, stremata dal suonono parto muore a ven-totto anni, lasciando nellosconforto il marito, il marchese Francesco Castromediano, e i po-polani che l’avevano adorata per i privilegi che aveva concesso alpaese come feudataria. Innamorato fino alla follia della moglie econvinto che neanche la morte potesse porre fine alla loro unio-ne, in preda alla disperazione una notte il marchese pensa ad un

gesto che potrà immortalare il loro amore nelle pagine della sto-ria. Con la complicità di padre Bonaventura, priore del conven-to dei frati Domenicani, e di padre Bernardo, cugino di Beatrice,

il marchese mette in atto il suo piano, consegnando a suo figlioprimogenito di nove anni Domenico Ascanio il segreto di un ge-sto che conoscerà e dovrà svelare solo alla morte del padre. Nelfrattempo, le oscure mire di don Pietro Altomonte, signorottoleccese senza scrupoli, si abbattono sul feudo di Caballino perstrapparlo ai Castromediano, una sete di vendetta alimentatadall’essere venuto a conoscenza di un “segreto” del marchese. Inuna Lecce martoriata dall’epidemia di peste, tra colpi di scena,venature esoteriche ed essenze di vita monastica la storia riser-verà, ventisei anni dopo il suo prologo, un incredibile finale.

Ma chi erano i marchesi Castromediano? Francesco Ca-stromediano e BeatriceAcquaviva, ecco chi era-no i primi marchesi diCavallino. Appassiona-to di equitazione edesperto nell’uso dellearmi, don Francesco(1598 -1663) fu capitanonell’esercito di re Filip-po IV di Spagna. Giova-ne valoroso, orgogliosodelle prerogative feuda-tarie, segnò l’epoca piùsplendida del casato deiCastromediano del ra-mo cavallinese. Nel 1627sposò Beatrice, figlia di-ciottenne di don Gio-

vanni Acquaviva d’Aragona dei conti di Conversano educhi di Nardò: un matrimonio solenne i cui festeggia-menti durarono per un’intera settimana e interessaronol’intero paese. La giovane e bella Beatrice che aveva porta-to con sé da Napoli, dove era stata educanda al convento

settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 15

Cavallino (LE) - Chiesa dei Domenicani - Monumento di Francesco Castromediano e Beatrice Acquaviva d’Aragona

Cavallino (LE) - Chiesa dei Domenicani - Particolare del monumento

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di San Marcellino, una specia-le devozione per San Domeni-co di Guzman, convinse il ma-rito a includere nei progettiedilizi che avrebbero interes-sato Cavallino anche la realiz-zazione di un convento in cuiospitare i padri Domenicani(oggi sede dell’Università diLecce).

L’adiacente chiesa fu erettasullo stesso sito della vecchiacappella di San Nicolò e intito-lata allo stesso santo e a SanDomenico.

Contemporaneamente ilmarchese Francesco Castro-mediano portò a termine la co-struzione di un’altra ala delcastello e realizzò la splendidaGalleria (recentemente restau-rata dalla Provincia di Lecce e ultimamente, dopo esserestata concessa in comodato d’uso al Comune di Cavallino,è stata donata allo stesso da parte dell’Ente di Palazzo deiCelestini). Il marchese Castromediano poté assumere e af-frontare tali onerosi impegni finanziari tenendo conto cheil materiale da costruzione, la pietra leccese, gli provenivagratuitamente dalle sue cave del «Sediolo» e del «Pigno»;inoltre, i conci di ogni taglio e misura (pezzotti, parmi, uccet-ti, chianche) li faceva estrarre dai propri servi cavapietre e

li faceva trasportare ai cantieridai propri servitori carrettieriper mezzo dei propri carri e ca-valli. La costruzione del con-vento e della chiesaconventuale durò dall'anno1626 al 1635 (pochi anni primai Leccesi avevano costruito labarocca basilica di Santa Crocee l'attiguo convento dei Celesti-ni), e, a lavori ultimati, i dueedifici furono affidati ai PadriPredicatori dell'Ordine dei Do-menicani, ai quali, inoltre, co-me sostentamento il munificoMarchese concesse il privile-gium di riscuotere la decimasui cereali, olive, uve, legumi efichi raccolti nel feudo di Ca-ballino.

Il convento fu abitato per 180anni da una decina di monaci domenicani tra frati sacerdo-ti e frati conversi, fintantoché l'Ordine religioso con edittodi re Gioacchino nel 1808 non fu soppresso e il conventoconfiscato. La marchesa Beatrice infine, volle fornire i sud-diti cavallinesi di una fonte pubblica di acqua potabile, fa-cendo realizzare il pozzo circoscritto da quattro colonne esormontato dalla statua di San Domenico, che assunse apatrono del paese. •

16 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

Scudo della famiglia Castromediano

Giuseppe Pascali

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L’occasione di tornare a riflettere su Armando Mar-rocco (Galatina, 1939), l’ho avuta il 22 agosto 2014 aNardò, nella galleria “L’Osanna” dove, il gallerista

Riccardo Leuzzi e il critico d’arte leccese Toti Carpentieri,hanno inaugurato la sua personale SognoUtopiaIrrealtà/An-niSessantaSettantaOttanta. In mostra undici sue straordina-rie sculture, provenienti da collezione privata, «che benevidenziano – è scritto nell’invito all’evento – come l’arti-sta abbia esplorato il rapporto tra arte e scienza in tre de-cenni, durante i quali è stata particolarmente visibilel’instancabile ricerca dell’autore».

A memoria ricordo alcuni incontri con lo scultore. Neglianni ’80, sempre assieme ad Antonio L. Verri e SalvatoreMasciullo, in alcuni luoghi deputati al cibo, a Milano inve-ce, negli anni ’90 e 2000, assieme e grazie all’immancabilepittore Antonio Massari, che di Marrocco è amico di sem-pre. Non ho mai smesso però di interessarmi a lui come

artista e, soprattutto, quando ho potuto approfondire lamia conoscenza sulla sua arte, non mi sono vietato di leg-gere tutto quello che c’era da leggere e che veniva pubbli-cato. Una delle prime straordinarie letture, che feci a suotempo, fu quella dell’indimenticabile poeta-giornalista Al-do Bello, galatinese anche lui come Marrocco.

Nel 1991 Aldo Bello, direttore di «SudPuglia» (poi «Apu-lia»), Rivista della Banca Popolare Pugliese, pubblicò unlungo saggio-intervista, dal titolo Dal Salento al futuro.Quattro colori cardinali, dove analizzò la pittura e la scultu-ra di quattro artisti salentini, con dei sottotitoli per ognu-no di loro: Il colore dell’esilio per il matinese Luigi Gabrieli;Il colore del grico per lo sternatese Gigi Specchia: Il colore del-la rivolta per il supersanese Ezio Sanapo; Il colore del ritor-no per il suo compaesano trapiantato a Milano ArmandoMarrocco.

Quattro artisti, di cui tre pittori e uno scultore, appuntoMarrocco, che però artisticamente è anche altro, come eglistesso afferma nel saggio citato:

● Ho frequentato le scuole a Galatina, poi l'Artistico aLecce: qui, per tre anni, rimasi come insegnante di scultu-ra. Sono scultore, pittore, scenografo, mi interesso diarredo con gli architetti.

● Com’è nata, a Galatina, questa passione? – glidomanda Bello.

● Ero sui sette-otto anni, e mio padre, per non vedermiin giro per i vicoli, mi mandò presso uno scalpellino, unodei più importanti del paese. Di lì, la passione per la scul-tura, per la decorazione, per la pittura...

● E arriviamo a ventidue anni e mezzo. E in seguito? –domanda Bello.

● Presi il treno e andai a Milano [… dove aveva senso]l'arte astratta, l'astratto concreto, l'arte informale (quandoavevo vent'anni)... in pittura e in scultura; poi, col tempo,mi sono orientato sempre più verso un’arte totale, che ab-bracciava anche l’architettura. In seguito, la mia culturaesattamente “rupestre” e di tradizione popolare ha avutol'impatto con quella tecnologica. E con essa ho dovuto fa-re i conti. All'inizio si è coinvolti per la vita e per la morte,bisogna sopravvivere, affrontare le più disparate situazio-ni. E infatti: quando giunsi a Milano, iniziava l'arte optical;poi vennero quella cinetica, programmata, eccetera, finoalla fine degli anni ‘60; e poi ancora tutte le altre correnti,che era necessario percorrere ad una ad una, per farsi in-

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ARTISTI GALATINESI

A RMANDO

MARROCCOArtista galatinese-milanese

di Maurizio Nocera

Giovanni Paolo II nel Duomo di Lecce

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fine portavoce di ritorno ad altri tipi di tradizioni, ancorapiù antiche di quelle vissute, con l'aggancio a certe situa-zioni (e a certi miti) di matrice: Egitto, Oriente, India e viadicendo, in senso inverso rispetto al corso del sole. Tutte lecorrenti mi hanno sfiorato, e in alcuni casi mi hanno an-che graffiato. Mi sono passate sulla pelle e ho pagato dipersona. Io sono un artista, un operatore eclettico. Ho spo-sato l'eclettismo come fatto emblematico della mia vita. Lestrade mi piace percorrerle tutte e bene. Perché la veritànon ce l'ha nessuno in tasca.

Un lungo appassionato e amichevole sodalizio c’è sem-pre stato anche tra il critico d’arte leccese Toti Carpentierie lo scultore galatinese-milanese. Di fatto Carpentieri hascritto ed ha allestito mostre di Marrocco in tutta Italia. Ec-co perché, per conoscere adeguatamente la poliedricità ar-tistica del M.°, è necessario leggere la sua produzione dicritica d’arte. Quasi tutti i libri-cataloghi di Marrocco sonopreceduti da brillanti presentazioni di Carpentieri, comeappunto lo è anche l’ultimo catalogo, quello che si riferiscealla mostra di Nardò dell’estate 2014, appunto SognoUto-piaIrrealtà. Tra spostamenti e sospensioni, dove scrive: «Benquaranta anni or sono, nell’inventare per Guido Le Noci ele sue mitiche Edizioni Apollinaire, con la prefazione diPierre Restany, quella sorta di diario/testimonianza/narra-zione su Armando Marrocco che è “Calendario”, scrive-vamo di opera continua aperta, facendo porre l’attenzionesul personale e progressivo procedimento creativo dell’ar-tista […] sul fascino sottile dei suoi labirintici percorsi libe-ri di muoversi ben oltre ogni logico sviluppo, esull’affermazione di quella sua autonomia coraggiosa chedal fatto passava al fare. […] le sculture che Armando Mar-rocco propone in questa mostra salentina di mezza estatetestimoniano il costante equilibrio di arte e scienza alla ra-dice dei suoi lavori […] Arte e scienza, quindi, quali formedi conoscenza e di esercizio, modalità parallele intersecan-tisi al di là di ogni sicurezza possibile, in un dualismo con-trapposto che diviene pratica concettuale, idea e processodi pensiero, programmazione stessa dell’arte, ma ancheappropriazione della natura e delle origini, antropologia e

conoscenza tecnologica».Ecco, leggendo Toti Carpentieri, ci possiamo fare l’idea

esatta di quale sia stata e sia la dimensione concettuale diArmando Marrocco, il quale non ha mai nascosto il lungosacrificale percorso (Galatina-Salento-Milano) che ha do-vuto fare per far sì che la sua arte venisse degnamente ri-

conosciuta. Poteva forse avvenire diversamente? Oggi, Armando Marrocco è uno degli artisti più ap-

prezzati a Milano, e quando si dice la capitale lom-barda, si vuole significare l’Italia, l’Europa e il restodel mondo. Ed egli è apprezzato non solo per le suesculture, i suoi dipinti, gli allestimenti architettonici,le installazioni, insomma per l’intera sua opera d’ar-te, ma anche per la sua dolce umanità con la quale sipone nei confronti dell’altro.

Di se stesso, a proposito di una delle sue sculturedi maggior successo (I Cavalieri Ardenti/Ricordi dimen-ticati) ha scritto: «Dimenticando il tufo, sabbioni cal-carei cementati, mescolati alla terra rossa, quando èbagnata dalla pioggia l’odore è fortissimo. Non c’è ab-bandono dell’uomo e questo si avverte ovunque, suimuri lunghissimi da confine a confine, i sassi piùgrandi sotto e via via salendo sempre più piccoli conun sasso grande in cima, ben squadrato. Molto resi-stenti al vento, quando c’è, è molto forte secco dando luo-go al mio spettacolo totale coinvolgendo i sensi. Non cisono parole per descrivere la nascita del sole; il tra-monto, giù sino in fondo al mare. Gli ulivi gridano

18 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

I Martiri di Otranto

Graffiti

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tutta la loro disperazione per la mancanza d’acqua che inmolte regioni scarseggia, vicino alle case fatte di sassi e cal-ce. D’estate di notte si vede la carrara di San Martino [laVia Lattea]. Le strade sono di-pinte di calce bianca» (v. Arman-do Marrocco, Centro attivitàvisive. Palazzo dei Diamanti.Ferrara, 1977).

Il corsivo del testo citato è dichi qui scrive e vuole significarequanto profondo sia stato e siail legame di Armando Marroccocon la propria terra, il Salentoappunto, dove egli, ancora og-gi, continua a soggiornare inuno dei luoghi più magici e mi-tici del territorio: Finibusterrae. Eciò nonostante che egli, per lasua arte, come tanti altri, fu co-stretto, alla fine degli anni ’50,ad emigrare al Nord. QuelNord nel quale egli ha final-mente visto riconosciuta la suaarte, che difficilmente invece sa-rebbe potuto accadere qui alSud, almeno in questi nostritempi. Quegli anni Armandonon li ha dimenticati, come nondimentica chi, all’inizio del suopercorso artistico, lo incoraggiòe lo sostenne pubblicamente. Lodice egli stesso in un’intervista che Alberto Fiz gli fece inoccasione di una delle sue più importanti mostre milane-si alla Galleria “Antonio Battaglia”. Dice: «Arrivo a Mila-no per la prima volta nel 1959 quando avevo poco più di

vent’anni e il mio primo incontro è con Lucio Fontana, perme un punto di riferimento fondamentale. Lui era l’artistache sapeva andare oltre la superficie, che sapeva svilup-

pare la sua indagine sul pianocosmico. I suoi buchi rappresen-tavano per me il senso stellaredell’universo. Ricordo ancorache quando sono arrivato nelsuo studio di corso Monforte erapresente Ugo Mulas intento afotografarlo mentre realizzava isuoi celebri tagli entrati a farparte del suo linguaggio pro-prio quell’anno. Fontana vollevedere le mie opere informali em’incoraggiò a proseguire con-sigliandomi di lasciare Lecceper Milano. Mi chiese tre dise-gni per la sua collezione e me livoleva pagare. Ma non avreimai potuto accettare denaro. Lasua semplice richiesta era giàper me un onore» (v. Intrecci,stupendo libro-catalogo Milano2013, p. 9).

Ecco, questo è Armando Mar-rocco, un monumento di arte eumanità, quella stessa umanitàcon la quale egli parla di un ar-tista (Lucio Fontana) alto comeuna montagna e, al contempo,

stringe la mano a persone che neanche conosce, come af-fettuosamente ha fatto l’altra sera con me all’inaugurazio-ne della mostra di Nardò. •

settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 19

Maurizio Nocera

Lottatori (collezione privata)

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Autunno foriero di ricordi. Di rimembranze, direbbe-ro i poeti. Abbiamo vissuto anni di felicità vera anchein questa stagione speciale, in un passato remoto ma

sempre prossimo al cuore.A scuola si andava a piedi. E senza zaini. I libri (di secon-

da, ma spesso anche di terza o quarta mano) - incellofanatio avvolti in cartapaglia perché si conservassero più a lungoe si potessero rivendere più volte a ogni fine anno - li tene-vamo raccolti con un elasticone a gancio, portandoli sotto-braccio. Avevamo un'apertura 'alare' che poteva contenereinteri corredi cartolibrari, comprendenti perfino il monu-mentale Campanini-Carboni, il mitico vocabolario italiano-la-tino di forse centomila pagine.

A vederci così carichi e sbilenchi, pendendo per contrap-peso il lato opposto della spalla, sembravamo strani esserianormali, facilmente scambiabili, volendo, per adepti di unaqualche improbabile congrega segreta (i "Martoriati"?) o gre-gari di quelle cooperative di facchinaggio che nel dopoguer-ra e per tutti gli anni Cinquanta andavano di gran voga,composte da manovalanza d'occasione, con tipetti solita-mente di bassa statura, barba lunga e mascella serrata, moz-zicone pendulo, piccoli e tracagnotti ma con muscolaturesorprendenti, capaci di sollevare enormi sacchi pieni di gra-

no o di olive, casse ricolme di legna, oppure decine di 'cara-telli' di vino dal peso proibitivo.

A scuola eravamo tutti bravi. C'era, in quegli anni, un'in-saziabile fame di sapere, di conoscenza, di scienza, un'attra-zione quasi rinascimentale. In quelle scuole, non a caso, sonoinfatti fiorite personalità di rilievo in ogni campo dello scibi-le: arte, cultura, politica, imprenditoria... Grazie anche, o so-prattutto, all'opera incisiva di Maestri con l'emme maiuscola,severi e indulgenti quando e quanto occorreva, incisivi e li-berali, stimolanti e prodighi d'insegnamenti che oltrepassa-vano la didattica per spaziare fino ed oltre la sociologia e laciviltà del bello, del giusto, dell'etico.

Educatori completi e indimenticabili - oggi forse un po'più rari ma sempre presenti -, che sono stati i nostri autenti-ci secondi padri. Una stirpe, ci auguriamo, solida e inestin-guibile, alla quale va costantemente il nostro grato pensiero.

58. Abbiamo tutti il nostro Santo protettore. E ce l'avevaanche mèsciu Totu Fraballà, calzolaio provetto di Montepa-

rano, piccolo ma viva-cissimo centro delleMurge tarantine.

Il santo protettore dimèsciu Totu era giu-stappunto il patronodel paese, san Gaeta-no, detto il Santo dellaProvvidenza. Il calzo-laio gli era tanto devo-to che, quando glicapitava di bestem-miare (e gli capitavaspesso), le bestemmieerano indirizzate sem-pre ed esclusivamentea lui, a san Gaetano.«Non posso tradirlo -si giustificava -. Lui losa che gli voglio be-ne». E giù un'altra be-stemmia... di confer-ma.

Anche per i calzolaiarriva fatalmente l'oradel commiato dalmondo. E benché nonvecchissimo (sulla set-tantina scarsa, cometestimoniano i più in-formati del paese),mesciu Totu dipartì.

La leggenda vuoleche il Giudice Supremo lo condannasse al-l'inferno, e che a tale gravissima punizio-ne si appellasse proprio san Gaetano,supplicando il Padreterno che salvasse l'anima del suo devo-to: «Non si può certo negare che la sua sia stata una devozio-ne piuttosto impropria, ma nel profondo dell'animo erasincera. Per cui, sono perfino disposto, mio Signore, a fareio stesso penitenza per lui, purché lo perdoniate della suaingenua leggerezza».

Il Signore misericordioso accolse ilcommovente appello, e dispose dimandare san Gaetano sulla terra, in unpaese lontano, senza arte né parte, ascontare tre anni di penitenza.

Il Santo non si perse d'animo. Dopoaver girato per vie e piazze, si fermòdi fronte a un grande palazzo, e colmassimo garbo chiese alla dama cheinnaffiava i fiori sul balcone, se inquella dimora ci fosse bisogno di unservitore. «Se sai cucinare, sei il ben-venuto», replicò la nobildonna. E al-l'assenso del Santo, lo fece salire, lopresentò al marito - che era il potentis-simo Granduca Onofrio di Belleville -e dopo una prima convincente provafu subito assunto.

Il neo-cuoco san Gaetano si fece na-turalmente onore. Per tre lunghi anni,giorno dopo giorno, preparò pietanze da far leccare i baffi,manicaretti succulenti e originali, dolci da strabiliare, pran-zi e cene memorabili. Tanto da essere fortemente ambito da

20 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

Quando muoiono le leggende �niscono i sogniQuando �niscono i sogni, �nisce ogni grandezza

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Ventesima puntata

di Antonio Mele ‘Melanton’

San Cristoforo (di Jan Mostaert)

Monteparano (TA) - Chiesa SS. Annunziata

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tutta la nobiltà dellaregione, e infine ri-chiesto a Palazzo Rea-le, proprio nell'ultimogiorno del periodo dipenitenza, per una fa-stosa cena di gala inonore della Regina.Nella qual cena coro-nò mirabilmente lasua fama di migliorcuoco del reame, ve-nendo per di più pre-miato con millemonete d'oro, che di-stribuì a tutti i poveridel paese e dei dintor-ni.

Dopodiché sparì, erientrò in Paradiso.

Qui, in compagniadi Angeli e Beati chegli facevano festa peril ritorno, trovò ancheil suo ineffabile e de-voto calzolaio mèsciuTotu. Il quale, appenavide il proprio santoprotettore, non potétrattenersi dal salutar-lo con il massimo en-tusiasmo... e con l'im-mancabile sonora be-

stemmia! Per fortuna che il Padreterno non sentì

nulla. O forse, per una volta, fece finta dinon sentire.

59. A proposito di Santi, avendo parlato in apertura deinostri... possenti muscoli da studenti, viene subito in men-te la leggenda del fortissimo e burbero gigante Reprobus,che faceva il traghettatore sulle rive di un fiume.

Una notte gli si presentò un fanciul-lo, che gli chiese di essere portato sul-la sponda opposta. L'enorme uomoacconsentì di buon grado, sollevò ilbambino come un fuscello, se lo caricòsulle spalle, e si mosse con lena. Eraappena partito, quando avvertì chequell'esile figura diventava, ad ognipasso, sempre più pesante, tanto da ri-chiedere il massimo sforzo per prose-guire, arrivando all'altra riva conenorme fatica.

Qui giunti, il fanciullo si rivelò comeGesù, battezzò il gigante col nome diCristoforo (che in greco significa "por-tatore di Cristo"), e gli spiegò che il pe-so che aveva avvertito durante latraversata era, ed è, il peso della re-sponsabilità del mondo intero, che - at-traverso Gesù - si trasferisce su ciascun

uomo, e quindi su tutta l'umanità. San Cristoforo è patrono di Giuggianello, e (insieme a san

Giovanni) compatrono di Maruggio. Proprio a Maruggio si

racconta che, non moltissimi anni fa, durante un furiosotemporale estivo che rischiava di sommergere il paese, sanCristoforo dovette intervenire da solo (essendo san Giovan-ni impegnato in vari altri miracoli), spostando con le suebraccia poderose le nubi cariche di pioggia verso le campa-gne del Leccese, che in quel momento soffrivano una fortesiccità e avevano quindi bisogno d'acqua. Rendendo così, inuna sola volta, un doppio benefico servizio. Ovvero: pren-dendo due piccioni con una fava o, come si dice dalle nostreparti, Cu ‘na botta do' facètule (letteralmente: [prendere] conuna sola botta [di fucile] due beccafichi (il nome facètula de-riva dal latino ficèdula, che per l'appunto significa mangiato-re di fichi).

60. Cronaca drammatica è il tremendo sisma che colpì ilSalento nel 1743 (noto come "Terremoto di Nardò"), sul qua-le evento, sono fiorite parallelamente innumerevoli leggende.

Erano le 6.30 del 20 febbraio quando tre forti scosse finoal IX grado della scala Mercalli (classificazione: distruttiva),con epicentro il Canale d'Otranto, fecero tremare la Greciasud-occidentale e tutto il "Tacco d'Italia" fin oltre Ostuni eTaranto.

Nella penisola salentina la città di Nardò subì i danni mag-giori, ma in rapporto alla violenza del sisma, le vittime furo-no "soltanto" 223 (altre fonti ne registrano addirittura la

metà: 112), grazie al provvido intervento del patrono SanGregorio Armeno, che segnalò preventivamente il pericoloalla cittadinanza, invitandola a lasciare la città e a rifugiarsinelle campagne.

Analogamente, altri miracoli avvennero in luoghi diversi,soprattutto a Francavilla Fontana (protetta da Santa Mariadella Fontana) e a Melendugno.

In quest'ultimo paese il terremoto si fece sentire quasi al-trettanto intensamente come a Nardò. Ma fin dal primo boa-to la gente era rimasta paralizzata dalla paura, e giacevadistesa per terra, tremando ad ogni pietra e calcinaccio cheveniva giù dalle case.

Una pia donna, che aveva raggiunto coraggiosamente lachiesa per pregare, scorse infine all'ingresso del paese un ca-valiere con la spada sguainata che faceva il segno della cro-ce: era il patrono san Niceta il Goto che invitava lapopolazione a lasciare in quel momento la città.

E così fu. Alla seconda e terza scossa, lontani dalle mace-rie che crollavano in paese, nessuno subì danni fisici, e tuttisi salvarono in grazia di Dio. •

settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 21

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

Quando muoiono le leggende �niscono i sogniQuando �niscono i sogni, �nisce ogni grandezza

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Ventesima puntata

di Antonio Mele ‘Melanton’

San Cristoforo (di Jan Mostaert)

Nardò (LE) - Il centro storico

(20. continua)

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22 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

EPISTOLARIO CITTADINO

Riprendiamo la pubblicazione di alcune epistole tra Cesi-ra Pozzolini Siciliani e Luigi Mezio e Rosario Siciliani.

Lettera di Cesira con aggiunta di Pietro Siciliania Luigi Mezio e a Rosario Siciliani

Bologna 19 marzo ‘70

Carissimo Don LuigiMa che cosa ci fa? Perché incomodarsi a questo modo per noi? Pie-ro è tutto mortificato; io sono confusa per tanta sua bontà e genti-lezza a nostro riguardo. Si figuri se non ci piace il suo vino, e se nongustiamo con infinito piacere gli ottimi torroncini! Ma non li meri-tiamo ella è troppo, troppo buono con noi. La cassettina e il caratel-lo ci giunsero all’improvviso: come di una di quelle grazie che siottengono senza sapere quale santo ringraziare. Ed infatti per più diun giorno siam rimasti incerti sulla provenienza di un dono tantogentile, finché, ricevuta ieri la sua lettera, ci persuademmo che il beldono era proprio suo. Ieri sera subito aprimmo il caratello, e assag-giammo l’eccellente vino in compagnia di due cari amici che passa-van la serata da noi. Oh a quanti vini stranieri il suo fu paragonato!Ma il biondo liquor della sua vigna fu a tutti preferito. E come rin-graziarla, come dimostrarle la nostra gratitudine. Caro Don Luigi?Quanto al vino sono avara, e lo conservo per le occasioni solenni; made’ torroncini ho dovuto far parte qui a qualche amico napoletano,e in questi giorni ne manderò anche una porzioncella alla mia fami-glia. Quand’ho qualche cosa da offrire a’ parenti e agli amici sonotutta contenta, sicché immagini come il suo dono per me e per gli al-tri m’è giunto gradito. Godo che la sua signora e le ragazze abbianbuona salute, nonostante l’incostanza della stagione che quest’annoè stata rigida anche costà. Noi che razza di freddo abbiam sofferto!Ora s’incomincia a respirare, ma non si può dire che sia finito l’in-verno. Come stanno a casa Siciliani? Domando a Lei se son vivi omorti, perché da un secolo non riceviamo lettere. Me li saluti tutticon grande affetto quei cari cognati, ed ella abbracci per me la con-sorte e le figlie teneramente. Grazie di nuovo, gentilissimo don Lui-gi, e se siam buoni a servirla faccia conto di noi Piero l’abbracciaaffettuosamente, io le stringo di cuore la mano e mi dichiaro ora esempre

Aff.ma Sua Cesira Siciliani

Carissimo D. LuigiIo sono molto dolente dell’incomodo presovi, e ve ne ringrazio infi-nitamente. Se posso servirvi in qualche cosa, eccomi qua pronto pervoi. I miei ossequi a tutti della vostra rispettabile famiglia, e al vo-

stro signor figlio quando gli scrivete: io son sicuro che in Napoli eglisi trovi bene a studi […] non a voi e al paese.Vi prego di far leggere le poche parole che scriverò a tergo di questofoglio a mio f.llo Arciprete.Vi stringo affettuosamente la mano e credetemi sempre

Tutto vostro aff.moPSiciliani

Arciprete Siciliani

Cariss.mo FratelloE’ un secolo che non abbiamo notizie di voi, e a due lettere di Cesi-ra nessuno ha risposto. Saranno forse andate smarrite?Il tuo compare Luigi ci ha fatto una sorpresa mandandoci una cas-settiera di torroni e un caratello del suo solito squisito vino colord’oro. Rendigliene grazie anche tu per parte nostra.Baffa, il soldato, partì senza che noi lo potessimo vedere, ma vennedue volte in casa, né ci trovò perché eravamo fuori. Ricordati per lasua venuta o con qualche altro mezzo, di mandarmi uno scatolino dipolvere per naso.Addio saluti a tutti i parenti ed amici.

Tuo aff.mo Fllo

P. SicilianiDS Il padre Mariasco, che gentilmente viene a trovarci spesso, ha ri-sposto alla tua lettera. Egli era in casa venerdì quando giunse la cas-settina di D. Luigi, e la Cesira gli offrì dei torroni che egli accettòvolentieri perché leccesi. Addio.

●●●●●●●●●●

Bologna, 21 aprile 73

Gentiliss.mo Don LuigiIeri ricevemmo la cara sua e la cassetta de’ torroni e il caratello delsuo eccellentissimo vino. Povero Don Luigi, anche quest’anno s’èricordato di noi e ci ha favoriti de’ suoi ottimi doni! Come le siamoobbligati, se sapesse! Il suo vino è un tesoro anche gli amici di quigli fanno gran festa e il Mezio ormai è famoso. Ella dunque in mez-zo a’ suoi mali non ci ha dimenticato: prova evidente del suo affettosincero e della sua costante amicizia, della quale andiamo superbi,perché l’è rara a questo mondo. E quant’ha sofferto, povero Don Lui-gi! E che pericolo ha corso se la operazione non fosse stata fatta intempo. A pensarci mi si stringe il cuore perchè se seppi che la nonstava bene, non credeva mai che si trattava di tali sofferenze e di ma-lattia tanto pericolosa! Ma sia ringraziato Dio s’ella ha ricuperato

Seconda parte

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settembre/ottobre 2014 Il filo di Aracne 23

la sua gagliarda salute. M’immagino bene l’angustia della sua Si-gnora e delle care ragazze e de’ figlioli suoi! Ma quante pene a que-sto mondo! Ella, sa i miei, i nostriguai, per la tremenda malattia dellanostra povera Antonietta! Sapràch’io, gli ultimi giorni di Carnevale,andai con Vito a Firenze per assistereal matrimonio della mia sorellina, einvece la trovai in letto con una fieratubercolosi che lentamente la condu-ce al sepolcro! Essa ignora la sua tri-ste condizione, e lo sposo, e lamamma, e papà e tutti viviamo con ladisperazione nell’anima! Che strazioè questo, caro don Luigi! Saper chequella creatura, adorna di tutte le piùbelle virtù dovrà morir presto, saperche i giorni le son contati, è un mar-tirio!... morire il giorno delle nozze,il giorno in che dovean compiersi ivoti del suo cuore…Oh Dio, anche sudi Lei riverso la piena della mia ma-linconia! Mi scusi per carità, e micompatisca. Voleva scriverle una let-tera tutta lieta, quale la sua guarigio-ne, la sua letterina, i suoi donicarissimi sapevano bene ispirarmi:non m’è riuscito perché proprio inquesti giorni son profondamente ad-dolorata. Gli aiuti Iddio misericordio-so. Ieri subito a tavola assaggiammogli ottimi torroni e a Piero parve riconoscer la mano di Felice Asca-lone, celebre ormai pe’ suoi dolci squisiti. Il vino vogliamo farlo ri-posare del lungo viaggio, e poi lo infiascheranno ed imbottiglieranno,e beveremo di cuore alla salute sua e di tutta la sua cara famiglia, chesalutiamo affettuosamente. Piero dice a lei ed a tutti i suoi tante ca-re cose, e Vituccio si ricorda alla loro memoria. Saluti l’Arciprete egli dica che io sto ormai benino della mia costipazione; gli dica cheho spedito a Firenze alla cara malatina un agnellino e de’ suoi tor-roncini, che gradirà oh quanto! Grazie a lei di cuore e mi creda persempre

Aff.ma Sua Cesira Siciliani

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Bologna, 4 aprile 1876

Gentilissimo Don Luigiabbiamo ricevuto ogni cosa, e grazie di cuore. Dei torroncini possodirle subito che sono eccellenti perché appena arrivati gli abbiamo as-saggiati; e non dubiti che gliene faremo onore. Il vino è sigillato an-cora perché voglio lasciarlo riposare; ma lo beveremo tutto alla salutesua e di tutta la sua cara famiglia. Povero Don Luigi! Quanto inco-modo, quanto disturbo per noi! Riceviamo adesso anche la sua let-tera. Il foglio di spedizione non v’è accluso; se ella lo ritrova costì sulsuo tavolino, non se ne dia pensiero, perché abbiamo ricevuto giàtutto a domicilio. Come son buoni questi suoi torroni! E m’imma-gino che anche il vino sarà il suo solito nettare squisitissimo battez-zato ormai per Mezio, e dagli amici nostri riconosciuto per tale. Sesapesse quante volte a tavola mi dice Piero: “Cesira, metti fuori unpo’ di Mezio” oppure qualcuno de’ commensali ripete spesso: “iopreferisco il Mezio; desidero un altro bicchierino di Mezio”. Ma, di-ca la verità: non se le sente mai fischiare le orecchie? E sì che la ram-mentiamo tante volte! Piero loda sempre il suo cuore eccellente, la

delicatezza, la gentilezza dell’animo suo, la nobiltà del suo caratte-re tipo del vero gentiluomo. E a lei gli orecchi non fischiano mai? Si

dice da noi, e si crede volgarmente,che quando in un orecchio si sente uncerto ronzio, gli è segno che qualcunoci rammenta o pensa a noi. Fosse ve-ro! Son sicura ch’ella avrebbe finitocol credere di diventar sordo, che Dionon voglia! Dunque come sta lei?Che cosa fa Donna Antonia? Che no-tizie di quelle tre simpaticone dellesue figliole? E Michelino è a Napoli?Oh cara oh bella quella Napoli! Nonposso scordarmene che bei mesi vi hopassati quest’anno! Sperava che c’en-trasse anche una scappata a Galati-na, ma non ci è proprio riuscitoquesta volta. Desiderava tanto di ri-vedere tutti i parenti e tanti cari ami-ci! Mi riprometteva di passare ore edore in casa sua con le sue ottime fi-gliole, con le quali, sì signore, verràun giorno in che tornerò a lavoraresul vostro bel terrazzo. Intanto lo di-ca a loro, e le saluti per me affettuo-samente insieme alla gentilissimasua signora.Caro Don Luigi, ci conservi la suabenevolenza. Ci rammenti costì agliamici; voglia comandarci qualora va-lessimo a servirla; e s’abbia

Di bel nuovo i nostri più vivi ringraziamenti per il suo vino squisi-to […].lissimo. In fretta son sempre

Sua Aff.maCesira Siciliani

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Bologna, 19 Dicembre ‘76

Carissimo Don LuigiIn primis, buone feste, buon Natale e buon anno a lei e a tutta lasua ottima famiglia. Accompagno gli auguri con una sportina dighiottonerie bolognesi, ghiottonerie da affettarsi, no da cuocersi: unaMortadella, una soprassata e un Panspeziale specialità del paese. In[ques]ti giorni di solennità, festeggiando a tavola e il Santo Natalee l’Anno Nuovo, mangiando queste ghiottonerie avrete occasione diricordarvi di noi. Non le mando insaccati da cuocere, perché so checostì a Galatina non troppo si gustano. Il Panspeziale è un dolced’occasione, e una specialità di Bologna. Auguro a lei e a tutti i suoibuona salute e mille felicità. Quante volte ho parlato delle sue carefigliole con la Peppina Baldari a Napoli! Sperando anche quest’an-no di veder Michelino, ma noi forse partimmo prima ch’egli arri-vasse. Oh lei, caro Don Luigi, non si muove più da Galatina? Perchènella buona stagione, con un biglietto di circolazione non conduceun po’a giro le sue ragazze? Che bella cosa se venisse a Bologna! Iovi farei da Cicerone, staremmo sempre insieme. M’auguro di riveder-vi nel 1877!Saluto affettuosamente la sua Signora; abbraccio le ragazze, anchea nome di Piero rinnovo a Lei e a tutti i suoi mille auguri sinceri efelicitazioni. Voglia ricordarci in casa SicilianiE credermi sempre

Aff.ma Devotissima Cesira Siciliani

Galatina (LE) - Palazzo Galluccio-Mezio

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Da sempre i soletani hanno avuto fama di essere ma-càri, ossia maghi, stregoni, indovini, fattucchieri, eSoleto, da sempre, è stata considerata la terra del-

le pratiche magiche, delle arti divinatorie e delle praticheocculte. Nomea alimentata dal personaggio chiave, il ma-go e astrologo Matteo Tafuri (1492-1584) di Soleto, anche segià nel 1442, mezzo secolo prima che lui nascesse, in Ter-ra d’Otranto pullulavano gli eretici e i sortileghi. Questoprimato “magico” di Soleto è segnalato in una escussionetestimoniale del 1620, dalla quale si evince che le macarìe(magie) e le fattucchiarìe (fatture)se sogliano fare dentro della Gre-cia (la Grecìa salentina), come a di-re a Solito (Soleto) et in altri lochi diGreci (in altri paesi grecanici). Ma,come vedremo, interesserà anchela vicina Galatina, con pratichemagiche e stregoniche, alcunemalnote ed altre inedite, restituitedalle costituzioni sinodali, daglieditti e dalle visite pastorali. LaChiesa post-tridentina conside-rando le macarìe, gli incantesimi ei sortilegi come “veicolo di eresie”,aveva assunto l’impegno primariodi “liberare il cristianesimo dai re-sidui di una mentalità religiosa so-stanzialmente pagana e intrisa disuperstizione per restituire al mes-saggio evangelico la primitiva pu-rezza”. Comunque, le testimo-nianze archivistiche sull’universodella magia e della stregonerianell’ambito territoriale della Terrad’Otranto, emergono soprattuttodai processi intentati contro gli“eretici” salentini, di cui, tuttavia, ci sono pervenuti pochifascicoli processuali.

Per quanto riguarda Soleto, siamo in grado di segnalarecon certezza una macàra e un macàro. La macàra si chiama-va Leonarda Castellano e nel 1622 aveva praticato una fat-tura a Diego d’Ospina di Gallipoli, dove alcuni muratori,che stavano costruendo il palazzo del d’Ospina, trovarorosotto allo limitare della porta (la soglia) una statuetta di cera

ad imagine d’huomo trapassata da molti spilloni, avvolta inuna carta incogliata (attaccata, legata) con un filo o seta rossa.Siamo di fronte ad un evidente rituale di magia nera, inpratica una fattura a morte, volta ad uccidere Diegod’Ospina, che la macàra soletana intendeva far morire, tra-figgendolo simbolicamente con gli spilloni sulla statuettadi cera (benedetta) che lo rappresentava. Poi, accanto allastatuetta, venne rinvenuto un pezzo di canna con i fori ot-turati con due tamponi di stoffa (un cannulo otturato conuna pezza) in cui i muratori dissero di haverci trovato vermi

venenosi (velenosi) ciò è una forfeca,uno scorpione et un salamitro. Nelpezzo di canna erano quindi rin-chiusi un geco (il salamitro, in dia-letto salentino, piccolo rettiledell’area mediterranea dal movi-mento rapidissimo); una forficola(la fòrfeca salentina, insetto che pre-senta due code a forma di pinza) euno scorpione che, effettivamente,ha un aculeo velenifero. Possiamoipotizzare che il destino del malca-pitato destinatario della fattura sa-rebbe stato quello di morire av-velenato. Queste fatture erano con-siderate attioni piene di diaboliche(opera del diavolo). S’erano prefi-gurate, quindi, tutte le condizioni -fattura a morte, uso sacrilego di ce-ra benedetta, animali malefici vele-nosi e patto con il diavolo - peravviare, con giustificati motivi,un’indagine da parte del tribunaleepiscopale, che condannò la Ca-stellano rinchiudendola nelle car-ceri del vescovato di Gallipoli,

perché per fama pubblica s’intendeva essere maghara, strega etaltri malefici arti diaboliche. La maga soletana riuscirà poi afuggire dal carcere di Gallipoli, dopo aver confessato diaver fatto la fattura per haverne qualche carlino per campare.

Il macàro di Soleto si chiamava Leonardo Pinnella e nel1637, dai preti Francesco Antonio Nuzzaci, Leonardo Scol-lato e dal protognosta Giovanni Antonio Roncella, era sta-to accusato di essere superstitiosus, malefitiarus et magarus e

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STREGONERIE & SORTILEGI

Gallipoli (LE) - Casa di Diego d’Ospina

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per il possesso di libros prohibitos. L’indagine era stata av-viata dall’arcivescovo di Otranto, il teatino napoletanoGaetano Cosso, che aveva chiesto al clero soletano se a So-leto fuisset aliquis magarus et malefitiarus (se ci fosse qual-che macàro). Leonardo Pinnella era stato denunciato anche

dal chierico Ni-cola Tafuri, chefece il suo no-me alle orecchiedell’arcivescovo(manifestare adaures sue) e sot-to confessione(sub sigillo con-fessionis).

Galatina, co-me Soleto, ave-va “un rappor-to elettivo con ilmondo magi-co” e, nel 1567,le disposizionisinodali dell’ar-civescovo diOtranto PietroAntonio de Ca-pua, interessa-rono anche

l’area galatinese. La prima di queste rendeva noto che sa-rebbero stati scomunicati tutti gli heretici, scismatici, sacrile-gi et magàri, paventando così eventuali collusioni conforme ereticali. Le disposizioni, in questo campo, erano ca-tegoriche: Scomunicamo quelle persone che faranno incanti etgettaranno sorti, faranno magarie, ligature, sortilegi […] et ognialtra cosa simile proibita da i sacri canoni. Il clero galatinese,su disposizioni precise dell’arcivescovo di Otranto, tenevasotto stretto controllo la popolazione, ma anche a Galatinasono segnalate alcune donne (macàre), che, per le loro pra-tiche magiche e per i rituali psicoterapeutici, utilizzavanoerbe (magia verde), come la ruta. Nel 1607, l’arciprete diGalatina D. Angelo Papaleo comunicò all’arcivescovo dinon conoscere nessuno che facesse fattucchiarie et incanta-rie. Dello stesso parere era l’arcidiacono D. Angelo Foniatiil quale, però, aggiunse che solum in die S. Joannis Battistealiquae puellae sessurant aliqua sessuria, postea affunt in vicispublicis confines. Secondo la tradizione, il 24 giugno, gior-no della festa di S. Giovanni Battista, avvenivano “prodi-gi e meraviglie”. Qui, sessurant (sexurant) sta per faresesso, avere comunque condotte impudiche. E’ noto, infat-ti, che durante la vigilia della festa di S. Giovanni, alcunedonne (aliquae puellae), “molte volte con tamburelli”, si re-cavano in alcune chiese o luoghi di periferia (in vicis publi-cis confines) e qui danzavano e attiravano l’attenzione di“giovani indevoti otiosi”, i quali minacciavano la “pudicità dimolte donne”. La fonte ecclesiastica del 1607 segnala a Ga-latina, dunque, e per la prima volta, questa particolare con-dotta “deviante” delle donne, ma anche la raccolta di erbeche avevano un utilizzo magico. E’ risaputo, altresì, che lemacàre, alla vigilia della festa di S. Giovanni, raccoglievanola ruta, considerata nel mondo magico la più virtuosa del-le erbe, ma anche la menta, il timo e, appunto, la cosiddet-

ta erba di S. Giovanni. Si riteneva che erbe, battezzate dal-la rugiada di quella notte, venivano poi appese nella casa“per garantire protezione per l’anno successivo”.

Sempre per quanto riguarda Galatina, risulta ampia-mente documentato il processo celebrato nel 1620 per ildecesso inspiegato di Vasco d’Acugna, bambino di sei an-ni, figlio di Elisabetta Venneri dei baroni di Tuglie e dellospagnolo don Giuseppe Vaques d’Acugna, residenti a Gal-lipoli. Il piccolo Vasco, che a detta delle donne del vicina-to “al mattino steva benissimo”, morì improvvisamente e,subito dopo, sotto il limitare della porta del loro palazzo,venne trovata una fattura costituita da una statuetta di ceracon un figliolo in braccio attraversata con una spingola (unospillone) ben forte. Si trattava, anche in questo caso, di unafattura a morte. Il padre del bimbo si recò immediatamen-te ad Aradeo per catturare Jaco Antonio Meleca, ritenutol’artefice della fattura, ma il Meleca, scagionandosi, rivelònon solo l’identità del committente della fattura, cioè il fa-bricatore Orazio Mollone, suo zio, galatinese, qualificato co-me magaro e mezzano di magarie, ma soprattutto il nome delvero macàro che aveva ordito il maleficio, ossia il notaio diGalatina Donato Maria Vernaleone, considerato uno stre-gone, dotato di poteri diabolici, che non gli servirono co-munque a nulla, perché venne immediatamente rinchiusonelle carceri del castello di Galatina.

Ritornando a Soleto, riteniamo che tra la cultura elitaria

e la magia “dotta” di Matteo Tafuri e la cultura “bassa” deimacàri e delle fattucchiere non ci siano state interazioni. Ilmago di Soleto, dall’alto della sua scienza medica e astro-logica, nel Pronostico del Tufo del 1571, considerò “ciance”le macarìe, soprattutto quando proponevano talismani epietre magiche e quando avevano la pretesa di curare lapeste. Ma forse, prudentemente, aveva preso le distanzeda quel mondo magico che pochi anni prima gli aveva pro-curato tanti guai con il Sant’Uffizio, incarcerato e tortura-to per quindici mesi a Roma nelle galere dell’Inquisizione.

NOTE:L. MANNI, La guglia l’astrologo la macàra, Galatina 2004; M. R. TAM-BLE’, Sortilegi e magia tra Galatina e Gallipoli nel primo Seicento, in“Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 1-1991; ADO, Visite pastorali,1607, 1637; ADO, Registro delle obbedienze, 1567; ACAG, Processi civi-li, n° 33 del 1622.

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Tipico aspetto della macàra

Piante per fatture

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Qualcosa di inquietante invade il visitatore che vali-ca la porta di questa piccola cappella settecentescadedicata a San Paolo. Ubica-

ta nelle vicinanze della grande piaz-za San Pietro, dove troneggia soprat-tutto la maestosa chiesa Madre dedi-cata ai protettori di Galatina San Pie-tro e appunto San Paolo. Per questacappella non ci passò mai il diavolo,ma diavolesse sì.

Ogni galatinese che viaggia suisessant'anni ha in mente un giornofatidico: il 29 giugno, la grande festapatronale dedicata ai SS. Pietro ePaolo.

Oltre le luminarie, la banda, lebancarelle, c’era qualcosa di oscuroche eccitava la folla che fin dall’albasi raccoglieva intorno alla cappella diSan Paolo. Ecco un mormorio, unondeggiare della folla che inquietama eccitata, si apriva al passaggiodelle “tarantate”.

Queste, rigorosamente vestite consottane di cotone bianco, come una tunica mistica, protet-te dai familiari, ma già stravolte, guadagnavano l’entratadella chiesetta mantenuta semichiusa dagli stessi parentiche, sconsolati e nella vergogna, cercavano di difendere laprivacy delle loro malate.

Iniziava poi il rituale mistico fatto di urla e di lamenti edi antichissime nenie, quasi formule magiche, ad invoca-

zione di “Santu Paolu meu de Gala-tina”, perché le guarisse dal maleoscuro. Alcune ripetevano le mo-venze del ragno assassino sempretra urla e preghiere rotolandosi perterra, altre, le più assatanate salta-vano sull’altare cercando di toccareo graffiare la tela (fortunatamenteora restaurata) che riproduceva SanPaolo che schiaccia un serpe e la ta-ranta.

Infine al culmine del pathos emoti-vo, si apriva la porta della chiesa ele povere donne si catapultano fuo-ri tra la folla urlando e rotolandosiper terra su lenzuola bianche stesedai parenti. In alcuni casi si avven-tavano anche contro qualche curio-so reo di indossare una camicia acolori forti, attratte dal rosso o dalgiallo.

Nelle vicinanze della chiesa ven-ditori di santini offrivano per poche lire ventagli di car-tone a bandiera con l’immagine accoppiata di San Pietroe San Paolo. Legate all’asta della banderuola, spiccavanonastri di seta dai colori diversi ma vivaci chiamate “zaga-reddhre”.

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TARANTISMO E...

Galatina (LE) - Cappella di San Paolo

Il fenomeno del tarantismo a Galatina

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Avevano il compito, portate a casa e disposte sul murovicino al lettone matrimoniale, di difendere la famiglia dal-la disgrazia e dal malocchio del ragno e dalla malattia.(Ancora oggi , il giorno 29 e 30 giugno, in occasione dellafesta patronale e della devozione a San Paolo è possibile

trovarle come souvenir). Inoltre secondo la tradizione viera un legame simbolico con i colori perché non vi era ununico ragno, ma tanti tipi di taranta con propri “tempera-menti”, così vi era la pizzicata attratta dal rosso che era sta-ta morsa dalla taranta rossa, quella ipnotizzata dal verdeaveva dentro la taranta verde e così via.

Per capire “quale” ragno avesse pizzicato la tarantata, al-l’inizio della “terapia” le venivano mostrati vari nastrini co-lorati tra cui sceglieva quello corrispondente al colore dellataranta che l’aveva avvelenata e in base a questo colore si

eseguivano anche le musiche corrispondenti. Le tarantateinfatti non ballavano con ogni tipo di sonorità ma solo sen-tendo una determinata musica che “scazzicava” una deter-minata taranta.

È stata esclusa ormai da molto tempo l’ipotesi medica

della semplice pazzia e degli attacchi epilettici, in quantoil Tarantismo è un fenomeno complesso in cui, accanto asintomi di malessere fisico, troviamo sintomi psicologiciintrecciati ad aspetti sociali.

Esso presenta infatti vari aspetti che lo allontanano dauna spiegazione medica o psichiatrica, come, per esempio,il fatto che non vi siano mai stati casi di Tarantismo a Ga-latina, gli abitanti della città di San Paolo ne erano immu-ni, oppure che quasi tutte le “pizzicate” erano di origineumile. Il fenomeno, inoltre, si ripeteva periodicamente ad

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ogni ritorno dell’estate e vi era un legame simbolico con icolori perché non vi era un unico ragno ma tanti tipi di ta-ranta con propri “temperamenti”.

La terapia contro il morso del ragno finiva lì. Le disgra-ziate dopo aver bevuto alcuni sorsi d’acqua - presa dalpozzo miracoloso dedicato a San Paolo (alle spalle dellachiesetta) -, e vomitandola in alcuni casi, cadevano in unostato di semi coscienza o di stress psichico. La grazia avve-

niva così.Ritornavano nelle loro campagne guarite, ma solo per

un anno, l’attesa era per il 29 giugno dell’anno successivo.Il dramma della donna contadina continuava sempre.Ma chi erano le “Tarantate”?Donne, contadine e analfabete che in un mixer di isteria

depressiva e manifestazioni epilettiche, chiedevano la gra-zia a San Paolo per liberare il proprio corpo e cervello dalveleno del morso del ragno.

Ancora negli anni '60, era vivo il retaggio di queste cre-denze popolari ampiamente diffuse nell’antichità nell'areamediterranea, dove cristianesimo e paganesimo dionisia-co ancora convivevano: non per niente il Salento fu terragreca. Inoltre in queste terre non si conoscono ragni dalmorso pericoloso, ne mai scientificamente la clinica medi-ca ha sottolineato casi di avvelenamento da morso di ra-gno cosi eclatanti.

La tarantola (lycosa tarentula), dall’aspetto vistoso e dalmorso doloroso è praticamente innocua.

Il fenomeno del tarantismo seguiva comunque dei ritua-li: colpiva generalmente giovani donne nel periodo estivo,quando cioè i lavori nei campi diventavano particolarmen-te pesanti (mietitura e trebbiatura) e la donna subiva inmaniera esasperata la sua posizione subalterna al marito ea tutta la comunità di appartenenza.

Quando si manifestavano i sintomi del tarantismo, (fre-nesia, crisi nevrasteniche, irritazione), la famiglia dellasfortunata, chiamava dei suonatori che tentavano la gua-rigione con una musica ritmica ed ossessiva a base di tam-burello e violino: la pìzzica.

La musica che poteva andare avanti per ore ed ore conritmo sempre più ossessivo, spingeva la donna a ballare(una primordiale musicoterapia) fino allo sfinimento, toglien-

do così l’energia negativa fino alla presunta guarigione.Ciclicamente ogni anno, all'inizio dell'estate e per molti

anni di seguito, il soggetto venendo colpito da questo ma-lessere interiore ed esteriore, poteva essere curato, median-te un rito purificatorio che doveva essere svolto solo aGalatina nella cappella dedicata a San Paolo nel giornodella sua ricorrenza.

Quindi il 29 giugno da tutto il Salento e dal Brindisino siconvogliavano a Galatina decine e decine di donne colpi-te da questo male. Addirittura i nostri nonni raccontano didecine di “traini” (carretti) cariche di queste povere donneche già nella notte della vigilia arrivavano pernottando sulsagrato della Chiesa Madre, in attesa dell’alba del 29 giu-gno per entrare nella cappella di San Paolo.

Curiosa però la tradizione che voleva tutta la comunitàdi Galatina immune da questo male perché protetta da SanPaolo, per cui i galatinesi (già imborghesiti) hanno guar-

dato sempre con molta sufficienza queste manifestazioni.Nello studio sistematico del tarantismo confluiscono di-

verse discipline come: etnologia, psicologia, storia delle reli-gioni, mitologia, estetica, medicina, antropologia culturale,etnomusicologia, zoologia, psichiatria. Il fenomeno è apparsosempre molto complesso per poterlo classificare comesemplice frutto di ignoranza e credulità popolare delle po-polazioni più arretrate del sud.

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Il termine tarantismo, come sostie-ne Baglivi, medico dalmata del ’700,potrebbe derivare dal nome della cit-tà di Taranto perché essa era una cit-tà importante ai tempi dei Greci e deiRomani e quindi vi si recavano gliammalati dalle regioni vicine per es-sere curati o perché, come sostengo-no altri autori, i primi casi di taran-tismo sono stati osservati nei dintornidi questa città

Le origini del tarantismo sembranoperdersi nella notte dei tempi. Carie-ri colloca l’apparizione del fenomenonel periodo dell’impero romano espiega l’esistenza della terapia musi-cale come retaggio dei culti greci aTaranto, città pugliese della MagnaGrecia.

Successivamente De Martino ripor-ta testimonianze medioevali della suaesistenza. L’analisi degli antecedenti classici del tarantismofa emergere un collegamento con i riti catartici in cui lamusica veniva usata in modo terapeutico, per liberare dadisturbi fisici e psichici chi si credeva posseduto da demo-ni, spiriti di morti ed eroi.

Il Lanternari, cui si rimanda per ulteriori approfondi-menti, ha invece svolto un importante lavoro di ricerca incui emerge come il fenomeno del tarantismo possa richia-mare gli stati di possessione rituali delle società tribali afri-cane, afro-brasiliane, afro-cubane e afro-haitiane, ad esempiola Macumba e il Voodoo.

Questo autore sottolinea la funzione che tutti questi fe-nomeni hanno a livello sociale: permettere agli individuipoveri ed emarginati di essere al centro dell’attenzione e difar defluire i conflitti derivati dalle precarie condizioni esi-stenziali.

Una svolta decisiva ed innovativa nell’analisi antropolo-gica del tarantismo è stata offerta da De Martino. Egli ipo-tizza che il tarantismo si sviluppi in un contesto socialepeculiare, in cui la vita delle persone, in particolare delledonne, si svolgeva tra gli stenti e le rinunce. Il tarantismooffriva una volta l’anno la possibilità di riscattarsi sul pia-no sociale, di essere qualcuno, di dimenticare le preoccu-pazioni, di sfogare la rabbia repressa, di superare i traumisubiti. Proprio la donna, infatti, era sottomessa a rigide re-strizioni in campo affettivo e sessuale: essere tarantata per-metteva una sorta di catarsi all’eros precluso, ai conflitti e aidolori. La crisi, ritenuta causata dal morso, insorgeva inmomenti critici dell’esistenza, quali la fatica del raccolto,la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, unamore infelice o un matrimonio sfortunato.

Il tarantismo, dunque, viene considerato da questo auto-re non come un disordine psichico, nel quale trovava solu-zione una crisi nevrotica, ma un meccanismo per fardefluire i conflitti psichici irrisolti e latenti dell’inconscio,sommati a quelli di ordine sociale (povertà e sudditanzaalla famiglia).

Georges Lapassade, antropologo, considera il tarantismoun culto di possessione, una forma di esorcismo e contem-poraneamente di adorcismo, fenomeno in cui lo spirito

che possiede la persona diventa unsuo alleato. Egli associa il rituale delladanza della tarantata alla macumbabrasiliana ed alle cerimonie che sisvolgono nelle case in Marocco, ipo-tizzando che tali riti terapeutici sianotutti "dispositivi ipnotizzatori", in gradodi provocare uno stato di trance. Que-st’ultimo si otterrebbe attraverso i rit-mi musicali, come comproverebbe ilfatto che la tarantata, durante la dan-za, indugia vicino ai suonatori, comefascinata o "ipnotizzata" dagli strumen-ti, in particolare dal tamburello e dalviolino.

Secondo questo studioso, nella si-tuazione di trance, il ritmo ossessivo,ripetitivo, apparentemente monotono,ma in realtà estremamente complesso,dei tamburi, in un primo tempo accol-to come un fatto esterno, viene poi

percepito come un prodotto all’interno della scatola crani-ca. Per Lapassade è il ritmo a provocare "l’esplosione" dellacoscienza, alterandone lo stato e portando alla trance. Egliinoltre sottolinea che in Puglia, come in Brasile e in Africa,la comunità diventa "gruppo terapeutico", sostiene l’amma-lato e collabora alla sua guarigione. •

NOTE:Nelle foto d’archivio vari momenti delle “tarantate”

Gianfranco Conese

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Nella Terra.Al suo interno.Nel grembo materno.Dove tutto nasce e si rigenera.Nella Terra.Dove torneremo.

L’ipogeo di Torre Pinta rappresenta tutto ciò. Origine.Guarigione. Transito.

Un antico camminamento scavato nella roccia che con-duce verso un vano la cui superficie, man mano che ci siavvicina appare non significativa, di modeste proporzioni.

Ma è al suo interno che inizia la magia.Ponendomi al centro e mirando le pareti che si alzano

verso il cielo, girando su me stesso seguendo lo sviluppodelle tante cellette scavate nella roccia, le dimensioni e leproporzioni d’incanto perdono significato.

La sensazione è quella di trovarsi nel cuore di una catte-drale. Una cattedrale scavata nella roccia.

Essendo crollata in tempi non certi l’originaria volta èuna sorta di Pantheon nel cuore della nostra Madre Terra.

Cosa rappresenta l’ipogeo di Torre Pinta? Quando fu co-struito e da chi? Quali erano le sue funzioni?

Le domande sono tante a cui occorrerebbe dare risposta.Ma a tutte queste si può rispondere con quanto ebbe adaffermare nell’agosto del 1976 l’architetto milanese Anto-nio Susini, a cui è attribuita la scoperta del sito:

“Avessimo trovato un vaso, una moneta, un’incisione. Invecenulla. Un fatto incredibile…”.

In queste parole è racchiusa la storia e il mistero di que-sto sito situato all’interno della Valle delle Memorie neipressi di Otranto. Un luogo caratterizzato dalla presenzadi numerose grotte; alcune, di modeste dimensioni, natu-rali, altre, la maggior parte di esse, scavate dall’uomo. An-tichi luoghi di culto e semplici ripari, forse un tempoabitazioni.

Un luogo che reca traccia di antiche comunità prove-nienti dall’odierna Terra Santa e l’antica cripta basiliana diSan Nicola. Un luogo che doveva essere abitato e frequen-tato da epoche imprecisate.

L’ipogeo presenta una pianta a croce latina (ma non de-ve le sue origini e la sua forma alla croce cristiana). Dal-l’esterno si accede al corridoio lungo 33 metri che conducenel vano principale. Presso l’imbocco del corridoio, all’in-gresso, sulla destra si apre un piccolo vano circolare conuno stretto camino comunicante con l’esterno.

Giunti in fondo, dopo aver percorso tutto il corridoio, siapre il vano principale la cui volta dovrebbe essere crolla-ta nel 1700. Dinanzi e ai due lati delle rientranze scavatenella roccia, quasi fossero tre “absidi”. Anch’esse, al lorointerno, con numerose celle scavate nella roccia.

Sopra l’ambiente ipogeo si erge una torre colombaia for-se costruita in seguito al crollo della volta. O fu la costru-zione della torre a causare il crollo della volta?

Tra le diverse ipotesi di studio che ruotano attorno a que-sto luogo vi è anche quella di un’origine messapica. Unluogo destinato, forse, a funzioni funerarie delle quali pe-rò non rimane alcuna traccia, nessun reperto.

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SU E GIÙ PER IL SALENTO

Otranto (LE) - Santuario ellenistico

Otranto (LE) - Santuario ellenistico - Cellette votive

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Secondo alcune ipotesi il piccolo vano postonelle vicinanze dell’ingresso aveva funzioni diforno crematorio. Le ceneri del defunto veni-vano racchiuse in urne di terracotta e poste al-l’interno di una delle numerose cellette scavatenella roccia.

Altri ancora suppongono una funzione mi-traica del sito.

Nessuna certezza.C’è inoltre un altro filone di ipotesi nell’ambi-

to delle quali si attribuisce al sito una funzione

guaritrice. Un luogo da cui si sprigiona energia po-sitiva in grado di guarire dalla depressione, dallacervicale e più in generale da dolori alle ossa.

Un luogo di rigenerazione e di rinascita. Il vanoil grembo materno e il corridoio l’utero da cuiuscire a “nuova vita”.

Nei pressi dell’ingresso vi è un’altra cavità il cuiaccesso è impedito da materiale da riporto.

E a pochi metri di distanza uno strano scavonella roccia di forma circolare.

Tante ipotesi. Nessuna certezza.Se non quella che il luogo e la valle in cui si tro-

va sono di incredibile bellezza! •

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Torre PintaInterno della torre

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Un'opera scultorea in grado di comunicare leenormi potenzialità artistiche affidate all'ar-gilla, materiale facilmente lavorabile e che ben

si presta al racconto di quanto è nella mente di chiusa le mani come strumento di ricerca e di espressio-ne artistica.

Questa è l'arte di Vincenzo Congedo, scultore diorigini galatinesi, raccontata con un linguaggio deltutto personale, frutto di sapienti e continue indagi-ni sui fenomeni e sulle conquiste della scultura con-temporanea.

Declinata in un'apparente essenzialità, la sculturadi Congedo si connota di una forza espressiva pro-pria della tradizione artigianale, in grado di reinven-tare una cifra stilistica dai toni lirico-evocativi,lasciando intravedere un'osservazione acuta e distac-cata dalla materia, da cui l'autore stesso riesce adestrapolare tutte le componenti poetiche.

Alla terracotta, questa volta, l'artista salentino affi-da un tema molto caro alla sensibilità religiosa dellanostra terra: "il sacrificio dei Martiri di Otranto in difesadella fede", soggetto iconografico raccontato in un pan-nello in terracotta (cm. 180 x 90), donato al MuseoDiocesano di Otranto, ove è già stato collocato, con-siderata la fase di avanzato allestimento.

L'opera è stata presentata il 16 Maggio 2013 in oc-casione della giornata inaugurale della mostra, alle-stita nei locali della Chiesa dei Battenti in Galatina,in seno ad un'iniziativa culturale dedicata alla figuradel vescovo Pendinelli, organizzata in occasione del-la proclamazione dei Martiri di Otranto Santi dellaChiesa.

La scultura è per Congedo il risultato di una lentae silenziosa ricerca spirituale, prima ancora che arti-stica, tale da conferirle un potenziale espressivo de-gno di ammirazione. Ciò che più colpisce l'attenzioneè la doviziosa cura dei particolari che, evocando un

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ARTE SACRA

da Eco Idruntina

IL MARTIRIODI UNPOPOLO

di Candida Stifanelli

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classicismo radicato, sconfina nella modernità di sagomesolo abbozzate.

I tratti delicati e i profili espressivi dei personaggi, chesi inquadrano in uno spazio ben circoscritto e definito, de-notano un attento lavoro introspettivo, ove ogni figura è,al tempo stesso, individuale e universale nella dimensione

della fede e delle emozioni.La poetica di Congedo è da ricercarsi nell'effetto "mate-

rico" dei volti, dei gesti e delle movenze nello spazio: sitratta di piccole immagini, in cui il "gesto" è sintetizzatonell'articolazione di un movimento enigmatico all'internodello spazio occupato, in grado di conferire ad ognuna del-le figure un senso di monumentalità, che va ben oltre lasua piccola dimensione e che offre ad un attento osserva-tore la possibilità di cogliere un intenso messaggio di fede.

La lettura dell'opera è offerta dalla precisa direzione im-pressa verso sinistra dal rapido e, quasi, inesorabile assal-to turco, interrotto dalla centralità della figura del VescovoPendinelli, che definisce una divisione verticale della sce-na compositiva, opponendosi, peraltro, alle linee obliquedel tetto posto alle sue spalle e quasi orizzontali delle im-barcazioni turche; la composizione si completa con la sce-na posta a sinistra, che coglie l'aggressore turco nel decisoatto di brandire la scimitarra e quasi incredulo dell'atteg-giamento dell'otrantino che sembra serenamente conse-gnarsi all'imminente decapitazione. Gli Otrantini sonoraccontati non nel cruento momento del martirio, ma inquello che immediatamente lo precede, quello in cui rifiu-tando di abiurare alla loro fede, associandosi coralmentead Antonio Primaldo, scelgono con fermezza di testimo-niare anch'essi con la vita la propria fedeltà a Cristo. Par-tecipa della stessa carica emozionale lo scorciopaesaggistico di Otranto, con i suoi monumenti ed il suomare, luogo di incontro e crocevia di culture.

La pregevole esecuzione che informa l'intero pannellopermette, dunque, allo sguardo dell'osservatore di inda-gare tra le complesse trame e i fitti dettagli, inducendo al-la riflessione e richiamando alla finalità divulgativa di unmessaggio di fede universale, raccontato mediante mo-menti di intensa umanità e soggetti che diventano espres-sione di un universo emozionale consistente. •

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L'Una e Due’, titolo ambivalente, forte, enigmatico, in-cisivo, versatile, con il quale lo scrittore Paolo Vin-centi ci presenta il suo ultimo lavoro.

Un'opera composita, che raccoglie alcuni brani già pre-senti nella sua pubblicazione “Danze moderne” e che nelnuovo scenario letterario divengono “note” debordanti divita, che animano e ritmano le Disco(r)Danze, sottotitoloaltrettanto poliedrico da cui si possono estrapolare svaria-te chiavi di lettura:

“Guarda questo ritmo come saleSenti questa musica da amareguarda questo ritmo che ti prende...” […]

Un libretto a tiratura limitata, edito da La fornace, desti-nato a pochi e fortunati eletti, che, mi auguro in un pros-simo futuro, possa raggiungere il maggior numero di

lettori possibile.“Parole reali parole immaginate parole che camminano nel

mondo parole di dolore parole di allegria parole di tristezza pa-role parole che rincorrono altre parole...” […]

Un “groviglio di parole”, dunque, di cui L'Una e Due necostituiscono i rispettivi bandoli.

Si può decidere di tendere il filo iniziando da L'Una o, vi-ceversa, da Due.

Si può anche decidere, però, di lasciarsi imbrigliare nel“composismo lirico”, quel ludico ingranaggio letterario dacui nasce, come Venere dalla spuma del mare, la bellezzadistica e multiforme del verso e della prosa dello scrittoreVincenti, abbandonandosi fideisticamente ai suoi giochi di“Luna”.

“Cantami o Diva” potrei citare, in un riverbero evocati-

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AUTORI & EDITORI

PAOLO VINCENTI

“L’Una e Due - Disco(r)Danze”Dicotomie d’Autore

di Claudia Petracca

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vo, pensando all'autore che, come un navigante, molla gliormeggi per solcare il procelloso mare d'inchiostro, la-sciandosi guidare dal canto e dall'incanto di una moltitu-dine di voci diacroniche che soffiano, sulla vela della suanave, aliti di ispirazione (divinus afflatus), indicandogli, divolta in volta, l'attracco su terre lussureggianti o brulle.

E su queste terre, dall' humus così variegato, brulicantedi policromie letterarie, è possibile incontrare mentori emuse, di oggi e di ieri, del tempo andato, nel tempo corren-te e al tempo futuro... perché no!

Sì perché, il filo teso da un capo all'altro de L'Una e Due,vibra scandendo proprio il tempo che, come conferma lostesso autore nella sua nota personale, rappresenta il leitmotiv che lega e muove tutta l'opera.

In tutti i suoi scritti, il tema del tempo è sempre presente,“Del tempo zavorrato” “Di tanto tempo” “Del tempo liberato”...

Con L'Una e Due si realizza, a mio avviso, una sorta dicompimento dell' “opus nigrum”, (colore che, tra l'altro,caratterizza la sua ultima pubblicazione, la romanza NeroNotte) in cui lo scrittore si spoglia forse ancora inconsa-pevolmente, “E non sarò più vita...”, del tempo e di quel-l'ombra soggiogante che ha caratterizzato gran parte dellasua produzione letteraria, alleggerendola, rendendola lie-ve e quasi innocua, realizzando così il passaggio ad unadimensione superiore, al di sopra del tempo e della mortestessa, dopo tanto peregrinare; dal nero, dunque, transitaverso il rosso e il bianco, colori di suggestione alchemica,di agonia e al contempo di liberazione che, credo, abbiascelto non a caso, per rappresentare l'immagine in coper-tina che si fregia anche della pregiata opera del maestroLuigi Latino (Finestre 4-5).

L'amore è l'altro tema che ricorre nei suoi testi e che ri-troviamo tra le pagine de L'Una e Due a ricalcare l'impron-ta dicotomica che è incisa tra le righe di questa raccolta eriflette, in contro luce, i bagliori del desiderio d'amore e dipoesia in contrapposizione al senso d'oppressione, cagio-nato dalla consapevolezza di un'esistenza terrena effime-ra, destinata alla morte, “La ragazza con la valigia” oppure“Walzer notte”...

L'Una e Due dunque, a delineare quel tratto, dai contor-ni femminili, che segna una sottile, impalpabile, indefini-bile linea di confine tra sogno e realtà.

Linea che separa ma, al contempo, lega, attraverso il se-sto senso o “estranei incanti”, come li definisce Rousseau,quel fili invisibili che raccordano la scrittura creativa inprosa e poesia al mondo tangibile, rielaborandolo.

Poesia dunque, che incarna le sembianze di una donnaora eterea, delicata e spirituale, ora materiale, terrena epassionale.

Poesia e prosa che, come le pagine di un libro, si sovrap-pongono, l'una sull'altra, al sentimento d'amore da cui, loscrittore Vincenti, non può prescindere:

“... non mi ritiro, ma rilancioe delle tue rose # faccio poesie...” [...]

Poesia e prosa, in cui sono presenti gli elementi contrap-posti Amore e Morte, Eros e Tanatos, che imprimono unaspiccata connotazione dualistica al profilo umano e artisti-co dell'autore: come non pensare alla sezione de “La botte-ga del rigattiere” dal titolo “Fra Jekill e Hyde!”

Il profilo versatile ed eclettico di Paolo Vincenti arricchi-sce, inoltre, le pagine di questo pregevole volumetto con

brevi componimenti concepiti in seno a riflessioni, come“Cosa muove l'umanità”, in cui l'individualismo sembraquasi frammentarsi in un crogiolo di valori e simboli chemigrano dalla soggettività all'oggettività delle cause. Nelrapportarsi con l'ambiente circostante e, soprattutto, conla sua terra, il magico e meraviglioso Salento, l'autore in-fatti sperimenta le suggestioni del sé soggetto/oggetto cal-candone una traccia trasversale della storia, dell'arte, delmito e della religione, come, ad esempio, nel suo “Salentoieri e oggi”...

Lo scrittore Vincenti usa la penna come una spada nongià per attaccare piuttosto per difendere se stesso dall'ipo-crisia dilagante che lo circonda e lo fa con rabbia e scanzo-natezza, perdendosi di tanto in tanto nei pertugidell'anima, nell'oblio, in cui regnano parole, dal profumoinebriante, della letteratura aulica, l'ambrosia degli dei, chegusta nella coppa di Bacco insieme al poeta Alceo.

Il ritorno però dai canti, dalle danze e dalle libagioni dio-nisiache, nella sua dimensione reale di uomo, lo rende ap-parentemente fragile, anche se non credo si spogli mai deltutto di quel velato senso d'ironia che lo contraddistingue,tanto da invocare la compagnia e il sostegno del lettore:

“Amici, non lasciatemi la mano *** ho freddo e paura perchésono lontano *** sto facendo un viaggio intorno all'uomo...” […]

Così, l'“Uno in due” [...], ci invita a non lasciarlo solo nel-lo “scempio del mondo”[...], e noi ben volentieri lo seguiamoin questo viaggio interminabile, per capire quanto sia dolcee quanto sia amaro, perché a lui piace così:

“...scassata, confusa, stravolta, stressatami piace cosìingolfata, stralunata, imbrogliata, smarritaè che mi piace ancoramaledetta maledetta maledetta vita...” [...]

e così:“...per allontanare i miei guai /ci vorrebbe un'altra vita ormai /spossatezza... /ci vuole molta prudenza /fingere? no...scacciare la malinconia non si puòrimani tunon andar viarimani tuanima mia” [...]

nella consapevolezza che rimanga solo “Lei” a confortarlo,L'Una e Due. •

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Apparecchiata la tavola e poste al centro le pietanze fu-manti, la madre di Chicco foderava il pianale di legnodelle sedie della cucina con un asciugamano ripiega-

to su se stesso per attutire il dolore alle ginocchia dei più pic-coli.

A loro erano riservati quatthru gnòcculi de pasta de mercante,ccattata de la putìa de lu Ttaffitta.

Non mangiavano verdura, o ortaggi dellassati. Nu’ lloru‘ndurgiàvanu.

La pasta si scodellava con un residuo di acqua di cottura,colorita con il sugo, preparato cu ‘na pallina de sthrattu e insa-porita cu ‘na pizzacata de furmaggiu crattatu.

Così il piatto, chinu de sciotta fino all’orlo, nella quale si in-travedeva quarche gnòcculu, dava l’impressione (ma solo l’im-pressione) che il pranzo era abbondante.

Con i pochi che galleggiavano nel brodo e che sparivano adogni affondo del cucchiaio, mangiando e rrufandu, si ‘nchìanula panza de sciotta, ma puru d’aria e… di illusioni!

‘Na cosa era certa. Alla fine se sentìanu cchiù bbinchiati.Poi in un attimo, cu ‘na pupuneddrha a manu, o cu ‘na feddhra

de sarginiscu, dopo un sorso d’acqua frizzante, come un bale-no schizzavano fuori dalla stanza della cucina e si rincorreva-no saltellando come caprioli impazziti.

Correvano a folate. Sembravano ‘na mandra de casaluri.Roteavano e ritornavano su se stessi, schiamazzando e ri-

dendo, comu se l’ia pizzacati la taranta.Il loro gioco preferito era quello di arrampicarsi sul tronco

dell’albero di noce e fare a gara a chi arrivava per primo, por-tandosi più in alto possibile, scalando i rami sino alla cima.

Allora non esisteva alcuna diavoleria informatica; non c’era-no le chat, non c’era facebook, non c’era internet con la quale,solitari e immobili, si poteva navigare nell’ignoto fra i perico-li e fra i sogni artificiali.

Nella casa colonica di Chicco non c’era nemmeno la corren-te elettrica, ma solo lumi a petrolio, lanterne, candele e lumi-ni pe’ lli morti e pe’ llu Core de Gesù.

Si giocava moltissimo insieme, si rideva insieme e si litiga-va, si scambiavano le proprie speranze e si confidavano i pro-pri desideri.

Con le chiacchierate dal vivo (non con le chat) si socializzavae si interagiva, guardandosi in faccia, parlando e sorridendoa breve distanza, chiarendo subito le incomprensioni e diri-mendo i dissidi, senza lasciare traccia alcuna di acredini o ri-sentimenti.

E, quando per uno sgarbo se scumpagnavanu e ppendìanu limusi (succedeva di rado), si tiravanu ‘u pilu de cielu, come per

mettere un marchio divino di indissolubilità sull’avvenimen-to.

Ma li musi ‘mpisi duravano poco, perché, essenzialmente, sivolevano bene.

I cellulari, o meglio quelle scatolette infernali, perennemen-te incollate all’orecchio, che hanno creato solo isolamento psi-cologico, solitudine umana, sociale e culturale, non eranoancora stati inventati.

C’era sempre la buona, sana abitudine di parlare diretta-mente col prossimo a pochi passi di distanza, leggendo negliocchi i suoi pensieri e scrutando nell’animo i suoi sentimenti.

E quando gli eventi della vita li costringeva a stare lontaniper lungo tempo, si scambiavano brevi lettere, magari sgram-maticate, ma autentiche e vere, perché scritte col cuore.

Si praticavano anche i giochi tradizionali più conosciuti (lucuruddhru, la campana, mazza e mazzarieddhru, a cavaddhru baro-ne, a scundarieddhri, a tuddhri, a tirassegnu cu lli nuci per citarealcuni fra i preferiti), ma soprattutto se ne inventavano dinuovi e di propri.

In questo vi suppliva la fantasia, ma essenzialmente il de-siderio di fare comunità, che significava solidarietà e amicizia.

Nel gioco dell’arrampicata sull’albero vinceva, ma in modosimbolico, perché non c‘erano premi in palio, chi riusciva, pri-ma d’ogni altro, a sporgere la testa oltre la parte più alta del-la chioma con i capelli arruffati, che trattenevano a stento radipezzi di corteccia o qualche foglia secca.

Così si confezionavano, durante la scalata, la loro persona-le, pur se artificiale, aureola da vincitore.

L’imprudenza, ma di più l’incoscienza, non consentiva lo-ro di rendersi conto del pericolo che correvano.

L’albero era alto più di tre metri e, man mano che si saliva,i rami diventavano sempre più sottili e più fragili.

Il rischio di scivolare giù per i piedi scalzi e sudati, o chequalche ramo cedesse, era più che probabile.

E cadere da quella altezza non era affatto piacevole.A quella età si voleva dare prova del proprio coraggio e del-

la propria sbruffoneria.A volte Chicco si appartava per giocare da solo nella rame-

sa, dove erano accatastate, fin sotto il soffitto, le casce vuote,che sarebbero servite a novembre per ’ncasciare il tabacco sec-cato.

Si intrufolava, attraverso i riquadri di legno, e con movi-menti da contorsionista si inerpicava di cassa in cassa fino asedersi all’interno di quella posta più in alto.

Lì, stringeva con le mani le due asticelle verticali dei riqua-dri attigui, che nella fantasia del gioco diventavano le leve di

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SUL FILO DELLA MEMORIA

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comando della sua personale astronave.Volava, fantasticando, quanto più in alto possibile, navigan-

do fra tempeste meteorologiche e nugoli vorticosi di meteo-riti impazziti.

Sciami di pianeti giravano lentamente attorno al sole fra nu-vole nere e improvvisi bagliori.

Giulio Verne aveva lasciato il segno, da quando Chicco ave-va letto il romanzo “Dalla terra alla luna“ (il primo in assolu-to), avuto in regalo dopo aver superato l’esame di ammissionedalla quinta Elementare alla Scuola Media.

Ma, quando giocavano insieme, dai giochi pericolosi non lidistoglieva nessuno.

L’atteggiamento da sbafanti era una espressione naturaledella loro aitante giovinezza.

Non sortivano alcun effetto i richiami robusti e coloriti delpadre di Chicco, seduto ancora a tavola.

Non riuscivano a ri-portarli alla ragione, no-nostante si librassero involo più veloci e più inalto dei loro giochi.

E non faceva effettonemmeno l’avvertimen-to, poco amichevole: “sevu zzaccu, vu fazzu comu‘n’ora de notte“ o la mi-naccia, che diventavaquasi certezza: “se caditi,vu llusciu lu pilu”.

Ma invano! Anche sua madre li os-

servava più preoccupatache divertita, ma, a diffe-renza di suo marito, sa-peva che era inutilesbraitare e, saggiamente,cercava di rabbonirlo.

“Tantu, mo ca cridi e castimi, cacci sulu li pili a lla lingua”, gliripeteva, mentre velocemente sparecchiava tavola, comincian-do dal lato opposto della matthra.

Alla fine, più stanco che rassegnato, finiva il pranzo con unbicchiere di vino, più propriamente un vinello leggero e sba-razzino di appena 8/9 gradi, quasi acqua colorata.

Era un prodotto rigorosamente casareccio . Si ricavava, torchiando una seconda volta cu lla furàta (il

torchio) lu rinazzu (l’impasto residuo de raspe e scarciòppulid’ua), ammorbidito con l’acqua di cisterna.

Ma non usava cartelle de zzùccaru, nonostante nella vicinaCutrofiano fossero alquanto apprezzate in qualche cantina stra-vagante.

Questo metodo era talmente noto e familiare, che uno stu-dente di scuola media pare avesse scritto, su un compito inclasse, che “nel suo paese il vino si produceva principalmente cu llecartelle e, a bbote, puru cu ll’ua“.

Il vino della prima spremitura, quello rosso più robusto eprezioso di circa 13 gradi, era destinato alla vendita.

Gli altri componenti della famiglia, invece, ma in particola-re i più piccoli, bevevano a tavola, ma solo a pranzo, acquafrizzante, quella preparata dalla mamma con le cartelle dellamitica Idrolitina.

Le scioglieva in una bottiglia di vetro, riempita per oltre trequarti d’acqua, per evitare che il gas sprigionato la facessescoppiare.

La agitava poi in modo energico, chiusa ermeticamente conun tappo a pressione e guarnizione di gomma rosso-porpora,sostenuto sul collo da un gancio di ferro.

La bottiglia, rigorosamente tappata, veniva immersa nellacisterna con un secchio di rame insieme ad una bottiglia divino, dove rimaneva al fresco fino all’ora di pranzo.

Per farle stare dritte nell’acqua, in fondo alla cisterna, il sec-chio veniva zavorrato cu nnu zuccarinu, oppure riempito d’ac-qua fino all’orlo.

Le cartelle si compravano sfuse, e poche alla settimana pe’llu sparagnu, dalla putìa de li “Coloniali” su llu largu de la scisade lu Cazzasajette, o da quella de l’Astarita sulla via de l’Orulog-giu, o de lu Farloccu sulla via de lu Municipiu.

Il prezzo di vendita era uguale e livellato nei loro esercizi.Poiché erano gli unici in paese, vendevano la loro merce in

rigoroso regime di monopolio.“‘Sti pathrefòndaci,

commentava il padre diChicco, s’hanu, certu, mi-su d’accordu!“.

Per controllare i prez-zi, forse avevano costi-tuito un Cartello, de scusufra ‘na zzicchinetta e ‘nascupa scijata, inthru ‘lluCìrculu de li Commercian-ti, già Circulu Massimuallora all’àngulu de Ca-stieddhru fra lla Pupa e llaFuntana.

“Nel chiuso di quellestanze, sussurravano ma-liziosamente i bene in-formati, giravanu cchiùcambiali e cravattari, ccacastime“.

Qualche giovane praticante, agli albori della sua professio-ne forense, da lì ha attinto (pare) la materia prima per le sueprime citazioni (al Giudice Conciliatore per l’esiguità de li dèb-bati), o per i decreti ingiuntivi, o per gli atti di precetto, ai qua-li allegava i corrispondenti spàrgani protestati.

Ora è cambiata la materia prima, perchè le farfalle non sonopiù di moda, anche se lu dèbbatu è rrumastu tale e quale.

O, forse, de cchiùi!Come la difficoltà di trovare lavoro.Certo, rompere le catene della schiavitù del bisogno e, quin-

di, riacquistare la dignità di persone libere, oggi, più che mai,diventa ancora più difficile.

E lo è ancor di più, proprio perché è aumentata la fame di“bisogno”, rispetto alla morigeratezza e alla semplicità dello“stile di vita” dei tempi andati.

‘Nu vuccone, prima, ti ‘nchia de veru la panza e te sentivi bbin-chiatu, puru cu’ pocu (anche se non era vero), perché si posse-deva la capacità (o la virtù) di saper trasformare le illusioni incertezze!

Ora non più.Oggi, con qualche centesimu de cchiùi ca ti gira ‘n posciu, si

consumano merendine, rustici, calzoni, pizzette, arancini edaltre simili diavolerie gastronomiche, annacquate con cocaco-le e toniche, ca cònfianu d’aria la panza e lu cervellu, lasciando ilsegno e condizionando le nostre (già pessime) abitudini ali-mentari.

Peccato. •

38 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2014

pippi onesimo

Ragazzi che giocano a cavaddhru barone

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