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a cura del Gruppo Culturale PROSPETTIVE Giugno 1992 NUMERO UNICO di Ramona Baiardi Introduzione: en tornati, ecco- ci al secondo ap- puntamento con la fantasia! Restituire il racconto alla scrittura, porlo al riparo dalla labile tradizione orale è forse snaturare l’essenza stessa del- la leggenda, il tramandarsi di fiabe e racconti ascoltati dalla viva voce del narratore. Ma le “veglie” attorno al fuoco dopocena si fanno sem- pre più rare, sostituite dalle serate televisive. Ricordo i giochi con i com- pagni di borgata, alla ricerca di tesori fatiscenti, dove l’esplo- razione e l’avventura erano quotidianità. Il calarsi furtiva- mente nelle buie cantine della scuola, il rovistare in soffitta fra vecchie suppellettili... L’accaduto si caricava di volta in volta, di nuove senza- zioni di particolari suggestivi ed alla fine del racconto ciò che si era solamente immagi- nato diveniva realtà. Ecco, con la stessa tecnica, il racconto scaturito da un in- sieme di avvenimenti misteriosi acca- duti così vicino e lontano da noi! Montebello: la leggenda di Azzurrina. Aggrappato alla roccia , solido e massiccio come l’arte medievale ri- chiedeva, sta ancor oggi un castello. E par minacci con la sua ombra la sottostante vallata. Le sue solide mura, le segrete i trabocchetti sussurrano, nel- le sere tempestose impenetrabili miste- ri. Favolando: la leggenda di Azzurrina.

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Page 1: Favolando: la leggenda di Azzurrina. - prospettive.it · lungo la riva del fiume una fanciulla danzare e cadde in preda a un incan-tesimo, poichè affascinante era la ... ra si avvicinò

a cura delGruppo Culturale PROSPETTIVE Giugno 1992

NUMERO UNICO

di Ramona BaiardiIntroduzione:

en tornati, ecco-ci al secondo ap-

puntamento con la fantasia!Restituire il racconto alla

scrittura, porlo al riparo dallalabile tradizione orale è forsesnaturare l’essenza stessa del-la leggenda, il tramandarsi difiabe e racconti ascoltati dallaviva voce del narratore.

Ma le “veglie” attorno alfuoco dopocena si fanno sem-pre più rare, sostituite dalleserate televisive.

Ricordo i giochi con i com-pagni di borgata, alla ricerca ditesori fatiscenti, dove l’esplo-razione e l’avventura eranoquotidianità. Il calarsi furtiva-mente nelle buie cantine dellascuola, il rovistare in soffittafra vecchie suppellettili...

L’accaduto si caricava divolta in volta, di nuove senza-zioni di particolari suggestivied alla fine del racconto ciòche si era solamente immagi-nato diveniva realtà.

Ecco, con la stessa tecnica,il racconto scaturito da un in-

sieme di avvenimenti misteriosi acca-duti così vicino e lontano da noi!

Montebello:la leggenda di Azzurrina.Aggrappato alla roccia , solido e

massiccio come l’arte medievale ri-

chiedeva, sta ancor oggi un castello.E par minacci con la sua ombra la

sottostante vallata. Le sue solide mura,le segrete i trabocchetti sussurrano, nel-le sere tempestose impenetrabili miste-ri.

Favolando: la leggenda di Azzurrina.

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L'Angolopag. 2

Viveva un tempo nella rocca ungiovane Signore, il nobile Uguccio-ne da Montefeltro. Qui egli amavadimorare e non appena la sua aspravita d’uomo d’affari glielo consenti-va tornava tra le vecchie mura.

Accadde, una sera d’estate che,dimessa la pesante armatura, s’attar-dò a cavallo fra i boschi. Egli scorselungo la riva del fiume una fanciulladanzare e cadde in preda a un incan-tesimo, poichè affascinante era ladanza della figlia del crepuscolo.

Azzurro era il suo abito come ilcielo senza nubi, ma grigi i suoiocchi come la sera stellata e i capellierano scuri come le ombre della not-te.

L’immortale creatura incontrò gliocchi del giovane signore e il suocuore conobbe l’amore. Laurelin erail suo nome, essi parlarono senzaparole, percorsero distanze indicibi-li e alla fine giurarono di non volersilasciare mai più.

Laurelin condusse Uguccione al-la presenza del suo creatore e chiesedi poter divenire sua sposa. Grandefu la collera del padre nell’udire talerichiesta, ma determinata era Laure-lin così, allontanato Uguccione eglile impose questa promessa: Potraivivere con il tuo nuovo Signore, Lau-ra sarà il tuo nome e diverrai morta-le! Dalla vostra unione nascerà unabambina, essa sarà la nuova stelladella sera, al compimento del sestoanno verrà a me e tu non la rivedraimai più. Dimmi accetti questo? Sen-za indugi lei rispose si, io lo promet-to!

Laura e Uguccione furono sposi, enessuno nel feudo si spiegava doveegli avesse conosciuto una così bella

principessa straniera.Passò un anno e Laura diede alla

luce una bellissima bambina alla qua-le fu imposto il nome di Guendalina.

Dovete sapere, giunti a questo pun-to, che al confine con Montebello,guardando verso il mare, governavaa quei tempi una famiglia potente: iMalatesta, e che da anni si contrap-poneva ai Montefeltro.

Ma torniamo alla nostra Guenda-lina, essa cresceva e con lei anche ilbenessere nel piccolo feudo. Dallasua nascita pareva fossero cessate lecontinue scorrerie di frontiera cheprovavano duramente le genti deidue casati. Solo la madre sembravaogni giorno più triste e pensierosa.Solo ora capiva quale grande dolorele avrebbe provocato lasciare la suapiccina.

Guendalina, a dire il vero, avevaconquistato tutti quanti nella marca,piccina più bella non si era maivista! Il suo viso candido irradiavadolcezza, chiunque incontrava i suoigrandi occhi blu sentiva ogni malan-

no fuggire e la lasciava rinfrancato eben disposto. E i suoi capelli! Pare-van d’argento come è la luna in certelimpide notti d’inverno.

Oramai per tutti lei era Azzurrina,la piccola dama di Montebello!

Come era tiepida l’aria in quel

lontano giorno di primavera, buonenotizie erano giunte dagli ambascia-tori inviati alla corte dei Malatesta,all’indomani era fissato il convegnofra i nobili delle due potenti famiglieper stipulare la pace tanto agognata.

Laura ammirava il risveglio dellanatura, già gli alberi si rivestivanodel verde tenero delle foglioline ap-pena nate, e anche il vecchio castellole pareva meno arcigno quando Az-zurrina accanto a lei intonò una me-lodia .... le note conosciute, le rimebaciate portarono alla mente dellamadre l’inconfondibile madrigaleche suo padre stesso le aveva inse-gnato. Con l’angoscia nel cuore Lau-ra si avvicinò alla piccina e le chiesedove avesse udito un così dolce mo-tivo.

Guendalina sorrise e raccontò chesovente nelle notti precedenti un sim-patico uccello le parlava dalla suafinestrina, che con questo canto eglinarrava lo splendore della notte edelle sue creature. Laura tornò alcastello, tristi presentimenti l’accom-

pagnavano.L’indomani essa decise di recare

con sè Azzurrina, Uguccione in cuorsuo, non concordava con tali propo-siti per la tenera età della bimba manon si oppose, ahimè! Così, giunse-ro alla torre di Saiano, luogo conve-

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L'Angolo pag. 3

nuto e lì ad attenderli un nutrito drap-pello a capo del quale si ergeva fierosul proprio destriero il Signore dellamarca vicina.

Non vi fu neppure il tempo per iconsueti saluti, che questi, posatoche ebbe lo sguardo su Azzurrina,cominciò ad accusarli: “Con qualecoraggio venite accompagnati da unastrega albina! Forse all’interno dellefortificazioni del Montebello si na-scondono legami col maligno ...Guardate Signori, ed io dovrei tratta-re davanti a tali malvagità!”

Fulmineo spronò il suo destrieroed ordinò al suo seguito di riprende-re la via del ritorno, apostrofandoUguccione con queste parole: “Finoa che la piccola strega dimorerà allatua corte Montebello non conosceràla pace!”.

Così tristi e silenziosi recarono lanotizia al paese, tutti allora si rin-chiusero in casa, la gente dietro leporte sprangate piangeva e pregava,nella mente di ognuno cominciò adinsinuarsi il dubbio...

L’aspetto insolito, quegli occhiche pareva leggessero nell’animo equei chiari capelli, forse Azzurrinaera davvero albina segno palese distregoneria?

Come si sbagliavano, ma da quelgiorno la bimba non potè più lasciareil castello, Laura temeva per la suaincolumità tanto che ordinò ai fidiscudieri Ruggiero e Domenico disorvegliarla ogni momento, che nes-suno potesse avvicinarla senza per-messo.

Una tristezza senza fine si impa-dronì della piccina, il suo cuore cosìgiovane sapeva scrutare lontano, ed

essa sentiva tutto il peso della suapresenza, il danno che arrecava allapace la consumava.

I giorni passarono, giunse così ilsolstizio d’estate e la sera precedenteil compleanno di Azzurrina, la mam-ma nell’addormentarla le chiese qua-le dono avrebbe potuto renderla feli-ce.

Ella rimase immobile, amava igenitori teneramente, e disse final-mente: E’ giunta l’ora che io vi lasci,il regno degli uomini non mi appar-tiene. Partirò presto, dimmi mammache posso finalmente andare e ti pre-go sii felice perchè io sarò semprequi con voi ogni volta che la lunaapparirà all’orizzonte.

Finalmente Laura comprese chein nessun modo poteva opporsi, na-scondendo le lacrime rispose si.

Il giorno seguente, raccontano gliannali, mentre Azzurrina ridendo rin-correva una palla di pezza, scompar-

se alla vista di Domenico e Ruggiero,in fondo ad una buia scaletta.

Ma il suo corpo non fu mai ritro-vato, perchè essa non appartiene alletenebre, ma alla notte piena di stellee dei sogni degli uomini!

Spero di non averVi troppo an-noiato ricamando questa favola in-torno alla leggenda di Azzurrina, ilcui spirito pare abiti ancora le vec-chie mura di Montebello.

Questa è la mia versione del tuttofantastica e personale, ma consiglioa quanti di Voi non l’abbiano ancorafatto di passare una domenica all’in-terno di questo piccolo gioiello dellaRomagna, dove, attraverso una visi-ta guidata, potrete fare un salto nelpassato, e constatare come la vitafosse ben diversa da quella splendi-da che si narra nelle fiabe.

Sommario:- Favolando: La leggenda di Azzurrina;- Dal Paese di utopia, pag.4;- Prospettive Infanzia, pag.5;- Relatività: un tempo tutto personale e nuove frontiere, pag.6;- Transeunte postmaterico, pag.8;- Ecumenismo anni cinquanta, ovvero ricordi romani, pag.9;- Poesie , pag.10;- Recensioni, pag.10;- I bambini e la televisione, pag.11;- Quando la vendemmia era gran festa (seconda parte), pag.12;- Avventure nel Bucanone, pag.13;- L'isola che non c'è, pag.16.Questo numero completamente elaborato al computer è stato prodottoin n.1000 copie e viene distribuito gratuitamente a cura del GruppoCulturale Prospettive.Le immagini grafiche sono originali, liberamente ispirate dagli articolie disegnate al computer da Roberto Forlivesi.L’impaginazione elettronica finale è stata curata da Gabriele Galassi.

Ricordiamo per coloro che vogliono trasmetterci articoli, poesie,riflessioni personali e commenti, di spedirli all’indirizzo di via DonMinzoni n.3/C - Gambettola.la redazione:G.Valentini, V.Franciosi, G.Galassi, P.Faini e D.Zoffoli.

Sono aperte le iscrizioni al Gruppo Culturale Prospettiveper l'anno sociale 1992-1993, presso l'edicola Faini Pino,fino al 18 luglio 1992.

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L'Angolopag. 4

di Vincenzo Franciosi

Roulottes che bruciano alle peri-ferie delle nostre metropoli, giovanivenditori di collanine ed accendinifatti oggetto di insulti e, sempre piu’spesso, di assurde quanto efferateviolenze; squadracce di “naziskin”che assurgono al ruolo di giustizieridella notte, tutori di una nuo-va purezza della razza chesogna nuove Auschwitz,nuovi olocausti che liberinoil mondo “civile” dal cancrodegli extracomunitari, degliemarginati, dei poveri.

Dai microfoni di TGRE-GIONE, tocca sempre piu’spesso alla buona signoraPaola Rubbi, con quella suaaria da brava casalinga emi-liana tutta lasagne e tortelli-ni,render conto dell’ennesi-ma aggressione ai danni del-l’africano di turno: una vol-ta al Pilastro, la volta dopoin Via Toscana, al quartiereCorticella e oramai anchenel cuore della citta’: PiazzaMaggiore, Via Zamboni,Piazza Galvani. E alla Bolo-gna delle lasagne e dei tor-tellini, che resiste solo inqualche poco aggiornatapubblicita’, alla Bologna dicui si decantava l’ospitalita’e la cordialita’, si sostituisce l’im-magine di paure, diffidenze, pregiu-dizi e violenze che sembra ormaipatrimonio di tutte le citta’ italiane.

Se e’ cambiata Bologna, additatanegli anni ’70 come esempio di citta’a misura d’uomo, progressista etollerante, figuriamoci a che livellodi degrado sociale sono scese Mila-no, Roma, Torino......

Parallelamente si moltiplicano leiniziative ed i progetti che mirano adun approccio diverso al problemaimmigrazione, tentando forme di in-tegrazione e di convivenza che apro-no il cuore alla speranza. Certo itelegiornali ne parlano poco, i gior-nali ancor meno; al solito: il tunisinobruciato alla stazione “tira” di piu’,

fa notizia. Che volete che gliene fre-ghi alla gente se in un paesino dellapiu’ dimenticata provincia italianaun gruppo di albanesi o di egiziani e’riuscito ad inserirsi positivamentenel tessuto sociale e produttivo delluogo, aiutato dall’intera comunita’del luogo? Eppure questi esempi sistanno moltiplicando nonostante leinnumerevoli difficolta’ ed ostacoli

che il nostro “modernissimo” appa-rato politico-burocratico riesce acreare.

Cio’ che accomuna gran parte diqueste esperienze e’ il fatto di averecome teatro cittadine di provincia senon addirittura piccoli paesi, spessocon poche migliaia di abitanti. Qui sicrea spesso una vera e propria gara di

solidarieta’ che coinvol-ge la Parrocchia, le Asso-ciazioni, il Comune, la Ca-serma dei Carabinieri, isingoli cittadini: ognunoporta il suo contributo inuna vera e propria gara disolidarieta’.

Confesso di aver pen-sato a tutte queste coseleggendo l’articolo di pri-ma pagina dell’ultimo nu-mero de “L’Angolo”, do-ve un ipotetico viaggiato-re del futuro scopre unaGambettola fatta di quar-tieri africani e asiatici conun ruolo trainante nell’e-conomia e nella strutturasociale del paese. Certoche lo scenario ipotizzatonell’articolo, fatto di altetorri e di grandi comples-si architettonici ultramo-derni puo’ suscitare qual-che inquietudine. Siamoabituati ed anche affezio-

nati alla nostra Gambettola, dovel’unica costruzione che svetta sullealtre e’ quella del caro vecchio cam-panile (a parte il megacondominio diCorso Mazzini, forse un’anticipa-zione delle “torri del futuro”).

Senza dubbio questa Gambettolatentacolare e cosmopolita puo’ esse-re un paradosso, una forzatura, an-che una provocazione di chi si sforza

DAL PAESE DI UTOPIA(ma ne siamo proprio sicuri?)

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L'Angolo pag. 5

tranquille cittadine di provincia, do-ve i rapporti “umani” hanno ancoradiritto di cittadinanza, puo’ trovarsila risposta, o almeno una delle rispo-ste, al grande problema dei rapportitra Nord e Sud del mondo, sul qualesi sta giocando il futuro dell’umani-ta’ intera.

di pensare a cosa potrebbe riservarciil futuro; ma se teniamo presentequesta vocazione all’accoglienza eall’integrazione che i piccoli centristanno scoprendo e che li sta diffe-renziando in maniera senz’altro po-sitiva rispetto alle grandi citta’, cirendiamo conto che l’utopia puo’contenere i germi della realta’. Al-l’interno di queste nostre piccole e

di Isabella Boschetti

Tornando in treno da Bologna, misono seduta vicino ad una donna conun bambino, suo figlio. Questo bam-bino - Dario - piangeva e strillava esua madre urlava più di Lui per cal-marlo, alcuni signori incominciaro-no a sbottare e così chiesi a Dario, sevoleva disegnare, in un primo mo-mento fece un no con latesta, poi quando vide cheio presi carta e colori e co-minciai a disegnare mi dis-se che il suo cavallo era mol-to più bello di quello chestavo facendo io. In pochiminuti disegnava con i mieicolori e la mia carta, bè al-meno non piangeva più!Continuavo a guardare quelbambino e il suo disegno, lamadre annoiata dal giornaleche leggeva, buttò un oc-chio a Dario e ne uscì conuna cosa poco carina: “Chepastrocchio è?” Sbuffandoriprese il giornale. Dario miguardò, il suo viso era tuttorosso e gli occhioni grandi e lucidi,allora presi il disegno e gli dissi: saiDario questo è il fiore più bello ecolorato che io abbia mai visto! Bra-vo, me lo regali? Guardò la madreche mi fissava, esitò e mi sorrise: “Seti piace, ma sei sicura che non sia un

pastrocchio? - Certo, sono sicura esei molto bravo”.Bè, Dario e sua madre scesero daltreno. Lui con la mia carta e i mieicolori ed io rimasi con il suo disegnonelle mani e veramente era proprio ilfiore più bello e colorato che avessimai visto.Molte volte gli adulti frenano glientusiasmi dei bambini e questo nonè certo produttivo. I bambini hanno

un costante bisogno di essere stimo-lati e compresi. La frenesia e i pro-blemi della vita di tutti i giorni ciportano spesso a dimenticare le realiesigenze dei nostri figli: il dialogo, ilgioco, lo scoprire insieme, il com-prendersi e lo stimarsi.

Nel nostro paese questo problemasembra accentuarsi nel periodo esti-vo durante il quale molte madri sonoimpegnate nei lavori stagionali (ma-gazzini ortofrutticoli, attività al ma-re).Ho pensato ad un centro ricreativoestivo, qui a Gambettola, per bambi-ni. Sale a disposizione ce ne sono:quelle della parrocchia, dei due cir-coli oppure le stesse scuole elemen-

tari. I genitori non do-vranno sostenere speseperchè non ci saranno deiveri e propri insegnanti,ma ragazzi, ragazze e ge-nitori disponibili cheavranno il compito di sor-vegliare ed aiutare i bam-bini in quello che voglio-no fare, giocare all’aper-to, disegnare, cantare,scrivere, leggere e inven-tare favole. Gli educatorifaranno dei turni settima-nali così non sarannosempre impegnati. Que-sta proposta non vuole es-sere altro che un aiuto perle famiglie che lavorano

e un’alternativa ai campi estivi oall’asilo. Credo proprio che possaessere una bella esperienza per gli

educatori e utile ai bambini.

PROSPETTIVE INFANZIA

Occhio!

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L'Angolopag. 6

di Gabriele Galassi

Sul nostro pianeta, anterio-rmente al 1905, il tempo era conside-rato uguale per tutti, ad ogni secondovissuto da una persona X, ne trascor-reva uno vissuto da Y e così via. Era

un assoluto, un tiranno, che, aveva etuttora ha molti seguaci nei giovani,i quali, non sperando altro che diven-tare grandi, vengono poi traditi daquell’illusione quando gli anni co-minciano a trascorrere sempre più infretta.

Parlare oggi di tempo, comesuccessione di istanti, eventi e realtàè quanto mai complesso, non soloper i concetti, ma per il rischio con-tinuo di fossilizzarsi nel presente enella monotonia del nostro quotidia-no che non ci porta più a spaziare conla mente e con lo sguardo verso nuo-ve frontiere, verso quell’immagina-rio costruttivo che, ha portato l’uo-mo a dare risposte alle proprie do-mande.

Così, in un giorno come tanti,ci si ricorda, alzandosi, che qualchestrana teoria, oltre ad aver rivoluzio-nato la Fisica, ha lasciato un segno

nel modo comune di vedere la vita e,lo sguardo si perde nella giornataripensando a chi ha introdotto quelpensiero. Un uomo come tanti, nellasua infanzia non ha certamente bril-lato, eppure nel suo piccolo ufficiobrevetti di Berna ha saputo concre-

tizzare in parole e formule una diquelle idee che sta alla base dellastruttura filosofica e del modo dipensare del nostro vivere quotidia-

Relatività: un tempo tutto personale e nuove frontiere.

no. Chi è? una persona che tutti co-nosciamo: Albert Einstein.

Ai tempi del Liceo, leggevosuoi libri divulgativi con ammira-zione, e tutt’oggi, ripensando al suomodo di vedere il mondo, rimangoancora stupito per quell’universo cheha saputo disegnare inseguendo unraggio di luce. Ma che cos’è questoraggio di luce? scintilla e motore delgiovane Einstein nella definizionedella nuova grande teoria della rela-tività? Dei suoi scritti, il pensieroche lo ha portato avanti in questaricerca era il desiderio di capire co-me si vedeva il mondo cavalcandoun raggio di luce. Così, pensando eripensando è arrivato a formularequell’equazione spazio-tempo chesta alla base della nostra fisica mo-derna; una fisica che attualmente co-nosce il limite invalicabile della ve-locità della luce (300000 Km. al se-condo), poichè, anche viaggiando aquesta velocità per raggiungere lastella più vicina occorrerebbero cir-ca 4 anni. Quindi, il significato bru-tale e più immediato di questa sco-perta è che siamo condannati a vive-

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L'Angolo pag. 7

re, in questo piccolo angolo dell’uni-verso, senza possibilità di raggiun-gere in tempi accettabili, rispettoalla lunghezza della nostra vita il piùvicino sistema solare. Perchè que-sto? Per quel raggio di luce limite ditutte le velocità dell’universo da noiconosciuto.

Certo, non posso qui scrivereformule ed assiomi che necessitanodi uno studio più approfondito, pos-so però presentare uno di quei para-dossi temporali che ha reso più com-prensibile il concetto di relatività.

Considerando la velocità dellaluce una costante universale (c=ve-locità della luce: velocità massimaraggiungibile in tutto l’universo),pensiamo ad un astronauta su questaimmaginaria navicella, che viaggiaalla velocità della luce; si sta allonta-nando dalla terra di circa 300.000Km/s, la novità del pensiero, non stanell’immensa velocità che potremoraggiungere in un futuro non lonta-no, quanto nella deduzione che iltempo sull’astronave non è il mede-simo del pianeta da cui l’astronave èpartita.

In parole povere, il miticoastronauta, al ritorno dal suo viag-gio, troverebbe i suoi amici moltopiù anziani e vecchi di lui. Una mis-sione che per lui è durata una setti-mana, per chi è rimasto sulla terrapuò essere durata anche diversi anni.Oltremodo, se questo astronautaavesse un fratello gemello, al suoritorno, potrebbe trovare il fratellocon l’età del padre ed i nipoti con lasua stessa età. Sembra incredibile,ma la conclusione di Einstein è ine-quivocabile: tanto più uno viaggiaalla velocità della luce, tanto più iltempo per quest’ultimo trascorre len-tamente. Al paradosso, ogni nostromovimento che comporta una varia-zione di velocità, tramite biciclette,auto, treni e aerei, comporta una va-riazione del tempo trascorso che,anche se infinitesimale, elimina de-finitivamente il concetto di tempoassoluto.

Riflettendo su questo argo-

mento, mi stupisco ancora oggi, perquesta idea dell’universo che ci halasciato in eredità, come oltremodomi accorgo di vivere in uno spazio-tempo dove il relativo ci porta, ognigiorno, nel Nostro esistere, ad esserepersone con un mondo ed un tempoproprio, che solo superficialmentesi congiunge e sintonizza.

Einstein pensava e guardavaoltre gli orizzonti dell’Umanità, men-tre noi, oggi, continuiamo a vederele stelle lontane e cogliamo di questegrandiose scoperte il lato meno posi-tivo che una teoria offre: come l’e-quivalenza massa-energia E=mc2 cheha spiegato quanta energia è presen-te in un grammo di materia e, però,ha portato alla costruzione delle ato-miche. La scienza non è cattiva ma èil suo impiego che può mutarne gliintenti; comunque, anche se la teoriadi Einstein ci rende le stelle attual-mente irraggiungibili (a causa dellavelocità costante della luce), lo stu-

dio e la ricerca di ogni scienziato cipuò - un domani - far superare questolimite e, portarci a considerare, nes-sun luogo lontano, per una nuovavisione dell’universo.

Nei pensieri di Einstein c’erala convinzione che: “il più grandepiacere dello studio è capire!”. Co-sì, quest’uomo che guardava lonta-no: “come un santone indiano, a cuitutti portano doni e posano lo sguar-do, per essere partecipi dei suoi pen-sieri “ nella sua umiltà e umanità,oltre che fissare il cielo e guardare lestelle, ha cercato di indicarci la viaper raggiungerle.

Le sue formule, “semplici” alivello di formalismo matematico,che hanno trasformato il tempo daoggettivo a soggettivo, sono la baseper tutti coloro che cercano soluzio-ni a tante domande che anche noi,senza volerlo, nel nostro silenzio ciponiamo.

Occhio!

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TRANSEUNTE POSTMATERICO

di Forlivesi Roberto

La trascendentale obliterazionematerica, prototipo di corrosioneentropica, intesa come obsolescenzaproliferante di anòmala cacofonìaonomatopeica é l’ indeterminanteallitterazione di simbiotica omofonìa.La trasposizione di paradigmisimbologici eterei, lede laconglobante fissione ermeneuticadella etimologia. Considerando peròl’abnorme surrealismo elegìaco diimpronta ermetica del termine, éconcettualmente eufemistica larelazionalità endocrina, quindi sideve posporre l’ abrogazionismoesterofilo come transeunte indicati-vo del prototipo subcoscienteprotoprofetico. Decade perciò auto-maticamente la tesi di un traumatismoestetico quale albedo intrinseco almadrigalismo obiettivizzato di nettaimpronta pragmatica. In pratical’assolutismo pseudo sacrale in unprocesso di relazionalità proliferan-te nella progettualità non-simbiotica.Evidente é quindi l’effetto di simbiosietimologica, la quale é naturalmenteintersecante l’indeterminazioneentropica precedente. Il sincretismocontestuale dell’integrazioneantitetica, aggettiva la relazioneanastrofica comparativa, e lacoartazione macrofaga dell’iperbolemimetica quasi sedimentaria, trovacollusioni imperscrutabili nellapersonificazione incoercibiledell’assurto obnubilatorio. Si alludededuttivamente, é pleonastico, allemisure posizionali transitorie. Indu-giando nella relazionalità analisi-sin-tesi-antitesi, si ottiene un costruttoriesumativo definibile come collet-tivismo claudicante e, risulta ovvionella contestualizzazione oscuranti-sta di massificante ermetismocostruttivista. In codesta

formalizzazione aulica di psicologiatranspersonale, esiste una integra-zione di sincretismo transitivo nellametabolizzazione di quella arcaicaergonomia minimalista di così in-dubitabile coartazione che assurge aprecludere ogni ricusazione relazio-nabile all’esasperato parallelismoaleatorio e capzioso di derivazioneautoctona.L’allusione agnosticista éuna chiosa cogitativa. Si é portatiquindi a dissertare coerentemente

dello sperimentalismo nelle inciden-tali iussive, intese come potenzialisubordinate nell’eminenteagglomerazione apodittica dellacoagulazione coercitiva. Iltroncamento apoplettico della sostan-tivizzazione metaforica interpone,antivedendo la preterizione, unacircostanziata atarassia bucolica dimero astrattismo contingenziale non-

ché apotropaica allusività. Conside-razioni parallele di convergente fis-sione propongono l’ allitteratotipologico di obsolescenza program-mata e l’infima saturazionemagmatica della onomatopeapostmaterica, nonché trascendentalelogos. La stilizzazione estetizzantesi pone indissolubilmente come con-cezione proto-escatologica in unostillicidio di modelli irrazionali e pre-industriali. Avulso dalla totalità

assolutista ed accentratrice dell’in-formale dominante, si riflette all’in-terno della ricerca tridimensionalepiù raziocinante. Contorsionismiconcettuali a parte, l’estetismo er-metico, stante l’imperante standar-dizzazione formale, prescindetraduttivamente dal percorso soma-tico, relazionando così l’ermeneuticaisolazionista del logos.

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ECUMENISMO ANNI CINQUANTA, OVVERO RICORDI ROMANI.

sera uno di noi disse ad Enzo: “Sealla prima ragazza che ci viene in-contro le dici che sei innamoratopazzo di lei ti paghiamo l’entrata alPrincipe”. Sapevamo di non rischia-re niente. Enzo era un ragazzo riser-vato e un pò timido che, per giunta,vestiva l’azzurra divisadell’Aereonautica. Non avrebbe maiavuto il coraggio di dire quella frasea una ragazza incontrata per la stra-da. Ma forse quella sera aveva bevu-to un bicchiere di troppo del buonis-simo vino dei Castelli del signorUgo e alla prima ragazza che ci ven-

ne incontro disse forte e chiaro, inmaniera che tutti sentissero: “Signo-rina, io sono pazzo di lei”, e fecel’atto di baciarla. La ragazza spalan-cò gli occhi e noi restammo a boccaaperta. Avevamo perso la scommes-sa ma fummo felici di pagare. Enzoquelle centocinquanta lire se le erastrameritate.

Della squadra del signor Ugo fa-ceva parte anche Adel. Adel era egi-ziano e ufficialmente era a Roma perstudiare da ingegnere ma in realtàagli esami di ingegneria preferiva leciumachelle romane. Era buonocome il pane e Gigi si divertiva a

di Rinaldo Ugolini

Erano gli anni in cui Anita Ekberg,non ancora messa a bagno nella fon-tana di Trevi da Fellini, passava leserate e le nottate a prendere a sberleil marito da Doney o al Cafè de Paris,e Scilla Gabellini, bella e tostaragazzotta di Santarcangelo, facevale prove generali per diventare ScillaGabel, futura attrice del cinema edella televisione. Sul trono di Pietrosedeva Pio XII e alla domenica laGuardia Nobile, in gran pompa, loportava in trionfo sulla sediagestatoria lungo le navate in festa diSan Pietro. Sulle poltrone delQuirinale stava seduto GiovanniGronchi del quale si dicevano grandicose come Latin Lover e Tombeurde Femmes. La voce popolare sus-surrava addirittura che fra le amantidel Toscano ci fosse anche una fa-mosissima stella del varietà.

In quegli anni Gigi ed io abitava-mo dal signor Ugo al numero civico44 di via Cola di Rienzo la quale eranel quartiere Prati e collegava diret-tamente piazza del Popolo, al di làdel Tevere, con piazza Risorgimen-to. A noi due piaceva moltissimoquella strada lunga e diritta, piena divita e di allegria. La gente in via Coladi Rienzo ci veniva anche da zonelontane, ci veniva per fare acquistinei suoi bellissimi e fornitissimi ne-gozi, o per fare una passeggiata, oper andare al cinema. A quei tempi,oltre al Cola di Rienzo e all’Eden,c’erano anche lo Smeraldo e il Prin-cipe. Al Principe, che si trovava infondo alla strada venendo da piazzadel Popolo, per centocinquanta lirefacevano film e rivista. Noi di solitoci andavamo al sabato sera dopocena. Eravamo sempre in quattro ocinque. Con me e con Gigi c’eranoquasi sempre Bruno ed Enzo. Una

prenderlo in giro. Gli diceva che seNasser aspettava i suoi ponti potevamettere il cuore in pace e aspettare diqui all’eternità. Adel era copto madelle questioni teologiche che divi-devano la Chiesa di Roma dalle Chie-se orientali se ne infischiava e alladomenica andava a messa nella chie-sa di S.Maria del Popolo. Quandoarrivavano le grandi feste della Cri-stianità (Natale, Pasqua, Corpus Do-mini, Ognissanti) la madre puntual-mente gli scriveva dal Cairo racco-mandandogli di andare a confessarsie di fare la comunione. Adel, da

bravo figliolo, obbediva e andava aconfessarsi nella chiesa dove alladomenica andava a messa. Quando amezzogiorno veniva a pranzo dicevasempre a Gigi, in perfetto romanesco:“Ah Ggi! Ammazza, li vostri pretisso peggio de li nostri. Vonno sapèproprio tutto. Con quante donne l’haifatto, quante volte l’hai fatto, am-mazza oh!” Gigi allora lo guardavadi traverso e poi: “E te al prete nondovevi dirgli niente - esclamava -dovevi negare tutto”. Adel alzava gliocchi dalle fetuccine del signor Ugoe fulminava Gigi conun’occhiataccia. Forse si chiedeva

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in quale parrocchia era stato battez-zato.

Gigi ed io eravamo ecumeniciquando ancora di ecumenismo nonparlava nessuno, e protestanti e orto-dossi non erano ancora fratelli sepa-rati ma semplicemente eretici escismatici. Noi due eravamoecumenici nel senso, che alla dome-nica, invece di andare a messa in unadelle tante chiese cattoliche di Roma,andavamo ad assistere al servizioreligioso nelle chiese cristiane noncattoliche. Ci sembrava di fare unacosa giusta. Andavamo a conoscerequelli che qualche anno dopo sareb-bero diventati nostri fratelli. Eviden-temente per noi lo erano già.

La preferita fra tutte le chiese noncattoliche della città era la chiesaanglicana di via del Babuino perchèera quella dove si stava più comodi equella che d’inverno era riscaladatameglio. E poi noi eravamo braviragazzi e a santificare la domenica citenevamo. La messa anglicana era intutto e per tutto simile alla nostra.L’unica differenza consisteva nelfatto che il sacerdote non officiava inlatino ma in inglese. Se ci fossimoturati le orecchie poteva sembrareperfino di essere nella nostra chiesadi Gambettola.

Ci piaceva andare anche nella chie-sa valdese di piazza Cavour. Nonperchè fosse la più bella ma perchèera a due passi da casa nostra e ci siarrivava in tre minuti. E poi i valdesici erano simpatici perchè cantavanosempre e quando smettevano di can-tare il Pastore diceva un numero ericominciavano a cantare. Una voltail Pastore ci venne incontro e “Sieteromani?” ci chiese sorridendo. “No -rispondemmo Gigi ed io all’unisono- viviamo a Roma ma non siamo

romani, siamo romagnoli”. Il pasto-re sorrise di nuovo: “Chiedevo sesiete cattolici”. “Ah, sì - rispondem-mo di nuovo all’unisono noi due -siamo cattolici ma la nostra messa laconosciamo a memoria, non ne per-diamo una da più di vent’anni, cosìalla domenica abbiamo deciso diandare a messa nelle chiese cristianenon cattoliche di Roma. Qui venia-mo più spesso perchè abitiamo a duepassi di qua, in via Cola di Rienzo”.Il Pastore sorrise di nuovo. La chiesaera immersa nella penombra. Dapiazza Cavour, come portato da unsoffio di vento, arrivava il suono dirumori lontani. Anche le viedell’Ecumenismo, come quelle del-la Provvidenza, erano infinite.

David Eddings: Il segno della profezia, Ed. NORDIl primo di una serie di cinque romanzi fantasy che rappresenta

la saga dei Belgariad, un tuffo nella fiaba e nell’avventura, un capola-voro di narrativa fantastica.

Isaac Asimov: Io Robot, Ed. Oscar MondadoriUn grande e rinomato scrittore per tutti i cultori di fantascienza;

questo romanzo è la pietra miliare dell’universo di Asimov.

Luca Goldoni: Lei m’insegna, Ed. CDE su licenza MondadoriLuca Goldoni: Di che ti mando io, Ed. CDE su licenza Mondadori

L’ESSERE

Nel ......................il .............................................. fine.

di Giuseppe Valentini

UNA BREVE PIOGGIA

E’ già tornatoil sole.

di Ezio Lorenzini

RECENSIONI

POE

SIE

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I BAMBINI E LA TELEVISIONE

di Daniele Zoffoli

Numerosi sono gli interrogativi cheruotano attorno al rapporto bambi-no-televisione: “La TV aiuta o dan-neggia i nostri figli?”, “ Esistonoprogrammi per loro?”, “Per qualeragione i bambini stanno tanto tem-po davanti al televisore?”, “La tele-visione favorisce la violenza?”.Sono domande complesse che ci fan-no intuire come il rapporto bambino-

televisione debba essere analizzatoin modo completo e organico coin-volgendo anche il contesto in cuiquesto rapporto si sviluppa.Iniziamo con un dato statistico: piùdella metà dei bambini fra i 6 e i 10anni vede la TV per tre ore al giorno;il 18,7 % per cinque-sei ore; il 3,3 %per sette o più ore (accertamentoISTAT 1984).Sono quindi numerosi i programmitelevisivi che i nostri figli guardanoed io sono convinto che gran parte diquesti programmi non favoriscononei bambini la formazione di unamentalità critica e costruttiva. LaTV, infatti, offre tutta una serie diimmagini e di interpretazioni, manon un metodo, non un filo condut-tore; offre modelli di comportamen-to, ma non tutti in chiave positiva.

Le immagini impazzano sullo scher-mo, si inseguono senza mai dare unattimo per riflettere; i bambini sonoindifesi, non hanno grandi possibili-tà di decodificare i messaggi propo-sti.Quante volte ci è capitato di ascolta-re la frase: “E’ vero, l’ho visto intelevisione!”. Con tutto questo nonvoglio demonizzare la TV, ma sotto-lineare l’esigenza che il bambinodeve essere posto davanti allo scher-

mo con un mediatore: l’adulto. Unadulto capace di aiutarlo a leggere imessaggi televisivi, capace di aiu-tarlo a valutare anche criticamenteciò che vede, per permettergli didistinguere il “vero” dal “falso”.Non è solo importante pensare a co-sa i bambini guardano, ma anche conchi lo guardano.D’altra parte non è solo la televisio-ne che trasmette ai nostri figli imma-gini frettolose senza possibilità diriflessione, ma lo è anche la nostravita di tutti i giorni che è frenetica,regolata da ritmi che ci hanno fattoperdere “l’importanza delle cose im-portanti” e fra queste cose metto alprimo posto i bambini.Quando un bambino trascorre granparte del suo tempo davanti al televi-sore dubito che non abbia possibilità

di scelta e alternative valide: giocareal pallone con gli amici, correre inspazi verdi, andare al mare, arrampi-carsi sugli alberi, stare in compagniadi altri bambini. Forse è questo ilproblema reale: mancano alternati-ve. Ma la nostra è una società pensa-ta anche per i bambini?Quando ero bambino ricordo congrande piacere l’Oratorio che costi-tuiva un importante luogo di aggre-gazione, all’interno del quale si con-sumavano memorabili sfide calcisti-che.Nessun programma televisivo, nes-suna rete pubblica o privata avrebbedistolto la nostra attenzione dallasfida a pallone con gli amici.Pensare quindi che solo la televisio-ne abbia delle colpe sull’educazionee sulla formazione dei nostri figlisignifica limitare fortemente il pro-blema.Da più parti si afferma anche chegran parte della violenza giovanile èdeterminata dalla televisione. Que-sta affermazione mi trova solo inparte d’accordo, infatti la violenzaesisteva anche prima della televisio-ne e se la colpa fosse solo del televi-sore sarebbe sufficiente oscurarlo edavremmo come per incanto un mon-do di buoni sentimenti.La violenza non nasce solo dalla Tv,ma anche dai modelli di comporta-mento che noi ogni giorno offriamoai bambini, nasce alcune volte anchedalla nostra incapacità di capire iloro problemi e, di non saper accet-tare i nostri figli per quello che sonoe non per quello che vorremmo fos-sero.

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di Arturo Zani

(Continuo).Nel numero precedente eravamo ri-masti alla fermentazione del mosto eda lì riprendiamo il nostro discorso.

La fermentazione

Il mosto, una volta posto nei tini, silasciava fermentare: us faséiva buléi.Le uve bianche avevano dei tempi difermentazione che variavano dai 5agli 8 giorni; quelle rosse,come il sangiovese, dai 7 ai15 e più giorni, a seconda seerano uve di pianura o dicollina; l’albana rimaneva afermentare nel tino per 2 o 3giorni poi si filtrava. Il pri-mo e il secondo giorno difermentazione si dovevamescolare il mosto con unbastone o un forcale.Un tempo, quando le uve dipianura davano un vinomolto chiaro e leggero, perfargli acquistare maggiorcolore e maggior gradazio-ne, si mettevano dei legnisopra il cappello del mosto(é caplàz) e si puntavanocon dei pali alle travi delsoffitto in modo che il cap-pello del mosto rimanesseimmerso nel mosto stesso.Queste operazioni, a diffe-renza di quelle precedenti, erano unaesclusiva degli uomini: tutte le ope-razioni in cantina e di governo delvino spettavano agli uomini, le don-ne ne erano escluse.

La spillatura

In cantina o nella camera dei telai osotto il porticato, a seconda del luo-go in cui era collocato il tino, finita lafermentazione, il vino si spillava (us

svinéiva), senza tener conto dellefasi lunari che invece venivano tenu-te in gran considerazione per le ope-razioni di travaso del vino.Si inseriva nel tino la cannella (lacanèla o é dòus) e di lì si facevaspillare il vino in un mastello.Il vino finalmente veniva versatonelle botti (al bòti) della cantinatramite una povera? (la pidra): unasorta di grande imbuto una volta dilegno, poi di rame, oggi di plastica.

Era buona abitudine far passare ilvino sul rame prima di imbottarlo,perché correggeva il possibile odoresgradevole causato dall’ultimasolforatura prima della vendemmiaoppure, si pensava, correggesse altridifetti.Le botti avevano diverse capacità: 2,4, 6, 8 quintali ed erano, come glialtri vasi della vinificazione, in le-gno di rovere (l’aròura) o di gelso

(l’amòur) e di olmo (l’óium) o dicastagno (é castàgn).

Le vinacce

Dopo averlo spillato, il vino conti-nuava a bollire ancora alcuni giorninelle botti o nelle damigiane, perciòqueste andavano controllate e rim-boccate senza chiuderle ermetica-mente.Oggi le vinacce rimaste si pressanocon un torchio (é stranzdóur o é

tórc) e si fa il vino stretto (éstranzdóur). E’ il primo vinoche si beve, perché non simantiene per lungo tempo, èun vino un po’ legnoso e duro.Nei secoli scorsi invece e finoa pochi decenni fa, con levinacce si producevano imezzi vini e le bevande. Que-sta produzione era importan-te nell’economia mezzadrile,poiché permetteva al conta-dino di vendere parte del vinoprodotto ed avere così qual-che entrata monetaria.Durante tutto l’inverno i no-stri mezzadri bevevano que-sti mezzi vini e bevande; soloi giorni festivi si potevanopermettere di bere il vino,che veniva lasciato per la pri-mavera e l’estate. Anche ipadroni facevano spesso lebevande, ma la usavano per

dare da bere agli operai durante ilavori.Rimaste le vinacce (la vnaza) neltino, si toglieva la parte superiore (usscaplèva) che si era asciutta. Poi sibuttava dentro il tino tant’ acqua finoa coprire le vinacce. Si lasciava bol-lire per 2 o 3 giorni e infine si spilla-va, mettendo il mezzovino (é vinéino é mèz vòin) nelle damigiane onelle costellate (non si metteva nelle

Quando la vendemmia era gran festa

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botti, perché si aveva timore che sirovinassero).Si versava ora altra acqua nel tino, edecco pronta la bevanda (la bevandao l’aquadéz), che si spillava col boc-

cale di man in mano che si beveva,aggiungendo ogni volta uguale quan-tità di acqua nel tino. Questo fino allefeste natalizie, cioè fino a quandoaveva una parvenza di colore e sapo-re. Alla fine il colore era quasi grigioe di sapore di vino aveva ben poco.Dopo Natale, alcuni lasciavano levinacce nel tino a disposizione deglioperai (i casìnt) che abitavano pocodistante e che vivevano in gran mi-seria.La bevanda ed il mezzovino veniva-no consumati molto nelle veglie in-vernali. Ci si radunava nelle stalle alcalore delle vacche a giocare a carte(bés-cia, malèt, bréscla, trisét), op-pure ad ascoltare le storie, mentre ledonne filavano.

Per finire

E a questo proposito voglio conclu-dere con il ricordo di un vecchiocontadino gambettolese: “Una vóltaa la smèna o dò vólti, sgònd, l’avnéi-va e Giuli di Fèbar a di al fóli, ma lòai preparèva una bucéina ad vòin,par chilt la bevanda. E pór Basòun evèc’ e géva ‘Par la madòna, a liimpèr ènca mè al fóli!’”.

P. S.

Tra parentesi e in grassetto sono ri-portati i termini dialettali raccoltinell’area di Gambettola e del sudcesenate, scritti nella forma sempli-ficata.

AVVENTURE NEL BUCANONE

a cura di Vincenzo Franciosi e dellaRedazione

In ogni citta’, in ogni paese, esistonodei luoghi che potremmo definire“mitici”, luoghi a cui sono legati iricordi di intere generazioni di per-sone che vi hanno vissuto una parteimportante della loro vita. Sono so-prattutto i luoghi dell’infanzia a ri-manere impressi, come un marchioindelebile, nella mente di ciascunodi noi.Anche Gambettola possiede, sparsiper il suo non certo vasto territorio,luoghi che hanno caratteristiche diquesto tipo: ad esempio la Rigossa,con la cascata, il ponte della ferro-via, meta delle scorribande di tantibambini gambettolesi, di cui gia’ sie’ parlato in un numero precedentedella rivista.

Altro luogo “mitico” di Gambettola,si puo’ considerare il “Bucanone”,cioe’ quell’area piuttosto vasta chesi trova alle spalle della Fornace La-terizi e che, fino a non molto tempo

fa, veniva utilizzato, tra l’altro, co-me cava d’argilla dalla Fornace stes-sa.

L’aspetto, rimasto pressoche’ inal-terato fino agli anni sessanta, nefaceva una sorta di parco con tantoverde e perfino un laghetto, neanchetanto piccolo, in cui si poteva pesca-re e, nel periodo estivo, fare addirit-tura il bagno. Era un vero eproprio paradiso per i bam-bini che abitavano nella zo-na, li’ si svolgevano i lorogiochi e le loro avventure.

Abbiamo intervistato dueprotagonisti di quelle avven-ture: Franco Ceccarelli(Paparello) e Quinto Guerri-no (Birillo) che, con passio-ne e “trasporto” ci hanno di-segnato un bellissimo qua-dro della loro vita di “bam-bini del Bucanone”. Ecco,di seguito, l’intervista:

Domanda: Cosa rappresen-

tava per voi che avete vissuto l’in-fanzia e la giovinezza negli anni ’40e ’50, il Bucanone?

Paparello: Era il nostro divertimen-to; noi non venivamo spesso in pae-se. A dir la verita’ ci venivamo soloquando sgraffignavamo qualcosanella fornace e la andavamo a vende-re da Nullo (noto rottamaio gambet-

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tolese, n.d.r.), per rimediare qualchesoldo.

Birillo: Ricordo che, dopo la guerra,i vari gruppi di bambini e ragazzi,erano divisi per bande: c’erano quel-li dello “Staggio”, quelli della Fer-rovia, quelli “de Bosch”, cioè cheabitavano la parte centrale del paese,e poi c’eravamo noi: la Banda dellaBranchisa.Quando si girava, si girava sempre inbranco per paura di venire aggreditidalle bande rivali, anche se si cerca-va di non sconfinare mai nel territo-rio di altre bande.

Paparello: i nostri piu’ grandi rivalierano quelli dello Staggio e ci siscontrava spesso facendo delle veree proprie battaglie a colpi di fionda.Una volta, fra le due bande, ci fuanche un “civile” incontro di calcio.Fu una partita interminabile: dal pri-mo pomeriggio continuammo a gio-care fino a notte.Noi avevamo in squadra un vero eproprio fuoriclasse, che faceva ladifferenza: “e Gigiaz”, al secolo Gob-bi Rino Sergio detto anche “Gabet-to” perche’ era pettinato come il fa-moso giocatore del Grande Torino.

D.: Quali giochi facevate nel Buca-

none?

Paparello: Il piu’ delle volte andava-mo a sgraffignare qualcosa, soprat-tutto quando ci veniva fame...

Birillo: Quando face-va molto caldo, ci but-tavamo nel laghettoper prendere il pesce,ce n’era infatti in ab-bondanza, e poi lo cuo-cevamo li’ per li’, allameglio.

Paparello: La dome-nica invece, quandonon c’erano gli operaidella fornace, gioca-vamo coi carrelli chetrasportavano l’argil-la cavata dal Bucano-ne e che andavano surotaie.Il “bello” era riuscire a saltare via dalcarrello prima che questo, lanciato atutta birra, deragliasse. Per poter fre-nare un po’ la corsa, si usava un assedi legno, anche se non serviva gran-che’ e bisognava comunque esseresvelti a saltar giu’ dal carrello perevitare danni.

Birillo: Un avvenimento importante

erano le “focarine”, per San Giusep-pe: andavamo a raccogliere nel Bu-canone tutto quello che si potevabruciare, ma poi la focarina si facevavicino alla strada, perche’ altrimentinel Bucanone la gente non sarebbe

potuta venire a vederla.Il momento di maggiore divertimen-to veniva quando il fuoco comincia-va a calare: allora facevamo il “saltodella focarina”...

Paparello:...che ogni tanto facevaqualche vittima; nel senso che, o persfortuna o per stanchezza, qualcunoci cadeva dentro procurandosi qual-

che bruciatura qua e la’.

D.: Torniamo al discorsodei furti ai danni dei conta-dini: vi andava sempre li-scia?

Paparello: Una volta ci pre-sero, eravamo in tre o quat-tro: era dapoco passatomezzogiorno e ci sentiva-mo tranquilli perche’ aquell’ora nei campi, in teo-ria, non doveva esserci nes-suno. Stavamo arraf-fandodei cocomeri quando vidi ilcontadino, che si era na-scosto vicino al cimitero edora avanzava minaccioso.

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Lasciai andare subito il cocomero escattai per mettermi in salvo, pero’lui fu piu’ veloce di me e riusci’ acolpirmi in pieno con la frusta nellegambe: non vi dico il male...non melo sono piu’ scordato!

D.: C’erano dei pericoli nel Bucano-ne?

Paparello: c’erano le sabbie mobili edovevamo stare molto attenti, so-prattutto d’estate, quando si faceva ilbagno nel lago.

Birillo: Il bagno lo facevamo spes-sissimo, e infatti tutti noi abbiamoimparato a nuotare, d’istinto, pro-prio nel Bucanone. Anche questoera un gioco pericoloso, perche’ inalcuni punti l’acqua raggiungeva an-che i 4 metri di profondita’.

Paparello: Infatti qualcuno fu salva-to per un pelo: RenatoSanulli fu addiritturapreso...per i capelli!Comunque il lago eradavvero bello; duran-te il passaggio delfronte, la famosa “ci-cogna”, aereo da rico-gnizione degli Allea-ti, rasentava sempre ilpelo dell’acqua.

D.: E i primi amori?

Paparello: A dir la ve-rita’ non c’erano tanteragazze, nella zona,che avessero la nostraeta’...

Birillo: Pero’ la do-menica c’erano parec-chie coppiette, ma parlo gia’ deglianni sessanta, quando noi eravamogia’ grandi e non andavamo piu’ agiocare nel Bucanone.

D.: E’ mai successo qualche inci-dente?

Paparello: Dopo la guerra, rimaseroferiti mio fratello, il fratello di Biril-lo e un’altro ragazzo loro amico:avevano raccolto la polvere da sparoche rimaneva nei bossoli, che si tro-vavano in gran quantita’ perche’,durante la guerra, la fornace era undeposito di armi e munizioni. In-somma, per farla breve, i tre riempi-rono un grosso tubo d’acciaio conquesta polvere, per fare il “carrarma-to”: purtroppo il tubo scoppio’ comeuna grossa bomba; sia mio fratelloche l’amico persero alcune dita diuna mano.

Birillo: Un’altro incidente capito’ ame: un giorno che facevamo le corsecon i carrelli della fornace, io erodavanti, mentre alcuni amici eranoseduti nella parte posteriore ed ave-vano l’asse che serviva da frenare,almeno in parte, la corsa del carrello.Fatto sta che l’asse si ruppe e loro,

senza avvisarmi, si lanciarono permettersi in salvo prima che il carrel-lo prendesse velocita’. Io non miaccorsi di nulla e cosi’, dopo pochiminuti, mi ritrovai solo sul carrello,lanciato a piena velocita’. Prima del-la “fine della corsa”, presi coraggio emi lanciai e, dopo un gran volo,

atterrai con grande fortuna su di unmucchio di sabbia...mi ando’ davve-ro bene!

D.: Qualche altro ricordo importan-te?

Paparello: Ho un ricordo particolareche riguarda i forni della Laterizi:questi forni erano molto lunghi e diforma circolare e venivano accesialternativamente in vari punti. Quan-do venivano spenti, in un determina-to punto, rimanevano caldi ancoraper parecchio tempo e noi bambinine approfittavamo per cuocerci lepatate o le mele.

L’incontro avrebbe potuto prosegui-re ancora per ore; i due amici, libera-to il flusso dei ricordi, avrebberovolentieri tirato mattina tanto era l’en-tusiasmo e l’allegria che il riandare aquelle avventure e a quei tempi pro-

curava. A distanza di anni, quei fatti,quelle birichinate, tornavano allamemoria come se fossero accadute ilgiorno prima e, per una sera, la “Ban-da del Bucanone” ha ripreso vita.

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Sede: SALA DI CESENATICO - Via Campone, 377 - Tel. 88101 - Fax 88444Filiale: CESENATICO - Via Mazzini - Ang. Via Armellini - Tel. 83959Filiale: GAMBETTOLA - Via Gramsci, 22 - Tel. 59390

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di Giuseppe Valentini

Sbattuto dalle onde, naufragoin una calda mattina di agosto su unisolotto del mar Egeo - e quale marepiù si addice ad un evento simile? Lafelicità per aver toccato terra si me-scola alla curiosità di conoscere illuogo e gli eventuali abitanti. Lesirene che mi avevano accompagna-to durante il viaggio, prean-nunciandomi chissà quali mi-steriosi incontri, non erano riu-scite, comunque, a descriverein maniera efficace la scenache mi si parava davanti agliocchi.

Superata una piccolabarriera vegetale, ogni pianta,fiore e animale si trasformavaper magica metamorfosi, inogni sorta di strumento musi-cale che un gruppo di giovani,come in un grande laborato-rio, utilizzava per comporre ecantare. Solo allora, dopo lostordimento iniziale, mi accorsi diessere naufragato su un isolotto, par-te di un piccolo arcipelago dispostoad orologio dove al centro troneg-giava una grande isola.

Dall’isolotto più vicino notemelodiose e voci suadenti mi rapiro-no: brani di musica classica accom-pagnavano libellule e cigni che, supiccoli laghetti, si cimentavano inmisurati passi di danza; versi e rimepoetiche provenienti da grotte pro-fonde completavano il quadro caricodi suggestione. Ancora estasiato, sen-to puntati sulla mia persona mille

occhi: dall’isolotto vicino una miria-de di uccelli di tutti i colori crea lecondizioni per il più grande scenariofotografico e cinematografico maivisto. E’ sera quando le luci di unaltro isolotto invitano a tuffarmi inacqua per raggiungerlo. La lussu-reggiante foresta era in realtà un gran-de laboratorio teatrale naturale. Lia-ne che, come funi, alzavano e abbas-

savano felci e altre piante tropicali:scene e quinte di uno spettacolo,spaccato di vita quotidiana, che al-cuni ragazzi rappresentavano congrande maestria e professionalità.Stanco mi addormentai riproponen-domi di visitare il giorno successivola grande isola centrale.

Era l’alba quando sulle ali del-l’entusiasmo per ciò che avevo am-mirato il giorno precedente, raggiun-go la riva dell’isola al centro dell’ar-cipelago. E’ strano, ma l’idea e lasperanza che avevo di trovarmi difronte a spazi ideali per poter acco-

gliere le varie espressioni artistiche eculturali emerse nei vari isolotti, dicolpo sfumava. Gli odori, i colori, iprofumi della foresta lasciavano ilposto ad un arida distesa di sabbiache, come il deserto tutto può acco-gliere ma niente può offrire. Ama-reggiato e deluso mi allontanai ritor-nando come le lancette di un orolo-gio su uno degli altri isolotti dell’ar-

cipelago, paradiso di pitto-ri e scultori. Appena in tem-po per ammirare le loroopere e per incoraggiarli aproseguire il loro lavoro,invitandoli a fare dell’iso-la centrale il punto di in-contro e di sintesi dei lorolaboratori culturali. Di lì apoco una nave di passag-gio mi riporta in Italia.

Tornato a casa la frene-sia di raccontare agli amicil’avventura capitatami mifa inforcare la bicicletta escendere velocemente dal

ponte della Rigossa verso il Comu-ne. D’un tratto mi ritrovo nell’arci-pelago e via Ravaldini, via Don Min-zoni, corso Mazzini, via Gramsci,via Garibaldi, via Roma, mi appaio-no come le isole della mia avventura,desiderose di fare, creare, esprimer-si. E non manca nemmeno l’isolacentrale che individuo nel nostro ca-ro vecchio teatrino comunale cheattende ormai, con troppa pazienza,di divenire il punto di incontro e diriferimento delle tante isole gambet-tolesi.

L’ISOLA CHE NON C’E’