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COMITATO DIFESA DUEMILA La pace asimmetrica Venezia, 19-20 novembre 2004

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COMITATO DIFESADUEMILA Venezia, 19-20 novembre 2004 Comitato Difesa Duemila Dott. Giovanni Gasparini (segretario). 11Il quadro europeo 9 Il contesto transatlantico Indice 12L’esperienza italiana 1. Un nuovo concetto di sicurezza 7 8 2. Il contesto transatlantico 9 10

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COMITATO DIFESA DUEMILA

La pace asimmetrica

Venezia, 19-20 novembre 2004

Comitato Difesa Duemila

Prof. Michele Nones (coordinatore)On. Ferdinando Adornato

Gen. Mario ArpinoGen. Vincenzo CamporiniDott. Massimo De Angelis

Gen. Carlo FinizioDott. Renzo FoaGen. Carlo Jean

Dr. Andrea NativiOn. Luigi Ramponi

Prof. Stefano SilvestriAmm. Guido Venturoni

Dott. Giovanni Gasparini (segretario).

Indice

7 Un nuovo concetto di sicurezza

9 Il contesto transatlantico

11 Il quadro europeo

12L’esperienza italiana

13Conclusioni

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1. Un nuovo concetto di sicurezza

L’evoluzione della minaccia nel corso degli ultimianni ha subito una forte accelerazione e ha avuto unimpatto dirompente sul sistema delle relazioni inter-nazionali, nonché sulla definizione stessa di sicurez-za.Essa è stata più rapida dell’adeguamento delle stra-tegie e della ristrutturazione delle forze occidentali.I principali aspetti innovativi riguardano la recrude-scenza del fenomeno del terrorismo internazionale,ripropostosi con particolare violenza su scala globa-le, e la proliferazione delle WMD, con una partico-lare preoccupazione per la dispersione di materialiradioattivi idonei alla costruzione di bombe radiolo-giche (“dirty bombs”).Il terrorismo come modalità di esercizio della forzaè sempre esistito ed è difficile ipotizzarne una suatotale scomparsa; lo stesso artificio retorico della“guerra al terrorismo”, se da un lato permette unafacile identificazione del “nemico”, dall’altra risultaquantomeno impreciso (il terrorismo è una tattica,una modalità operativa, non un’entità politica) e talo-ra fuorviante, poiché non permette di definire qualisiano gli obiettivi reali di tale “guerra”. Si sono cosìinizialmente suggerite strategie di intervento indif-ferenziate tipo “one size fits all”, inadeguate alla com-plessità del fenomeno, anche se attualmente si assi-ste ad un pragmatico adeguamento con un nuovo mixdi “hard” e ”soft power” e di intervento interno edesterno. Il nuovo terrorismo “apocalittico” e “messianico” èdifferente da quello politico del passato, quanto adobiettivi e livello di violenza.Ciò che differenzia il nuovo “iperterrorismo” dai feno-meni che hanno storicamente insanguinato diverseparti del mondo negli ultimi decenni è il suo livellodi pericolosità, dovuto ad un’assai maggiore capacitàoperativa, legata in parte alla dimensione internazio-nale che esso ha assunto, nonché alla disponibilità dirisorse finanziarie e potenzialmente di armamentianche non convenzionali, oltre al ricorso ad attacchisuicidi, difficilmente contrastabili se non con azionipreventive, data l’asimmetria esistente fra attacco edifesa.

Sebbene il terrorismo sia un fenomeno assai diffici-le da sradicare, rimane assolutamente necessario met-tere in atto tutte le strategie offensive e difensivenecessarie per ridurne la pericolosità. In definitiva,ciò che realmente deve preoccupare è la possibilitàche questa tattica abbia un successo tale da metterein discussione l’esistenza stessa della struttura dellesocietà occidentali; si deve quindi evitare che rag-giunga e colpisca i suoi legami e fondamenti vitali(economici, politici, sociali, giuridici). Essendo inter-connessa è più vulnerabile che non in passato, men-tre la tecnologia ha aumentato la capacità di distru-zione di piccoli gruppi o anche di singoli.Occorre, inoltre, minimizzare l’impatto psicologicosull’immaginario collettivo, in altre parole bisognasalvaguardare la dimensione della percezione di sicu-rezza, che, in linea di principio, costituisce uno degliobiettivi primari, ancorché strumentale, dell’azioneterroristica.A tal riguardo è il caso di domandarsi se la continuae ripetuta evocazione di possibili attacchi terroristi-ci, caratteristica della società dell’informazione, noncostituisca, di fatto, un’attività di rafforzamento del-l’impatto emotivo e sociale del terrorismo stesso. Così come è il caso di domandarsi se la rilevanzamediatica data ad alcune azioni con cui il terrorismosi manifesta (ad esempio il fenomeno degli ostaggi edelle corrispondenti richieste) non amplifichi i risul-tati conseguiti dai terroristi, il cui scopo ultimo è quel-lo di determinare uno “scontro di civiltà” che con-senta loro di compattare il supporto del mondo isla-mico

Un aspetto particolare del fenomeno riguarda la suadimensione internazionale; la minaccia terroristica èsostanzialmente deterritorializzata, è a-specifica rispet-to ad un territorio, anzi si esprime per elezione pro-prio nel territorio stesso dei suoi “nemici”, ma anchein qualunque zona in cui vi siano cittadini o interes-si o simboli della loro presenza. Nonostante questa caratteristica, si possono comun-que individuare alcuni legami territoriali dei gruppiterroristici (soprattutto dal punto di vista del loro retro-terra logistico e reclutativo) con aree non stabilizza-te del mondo come la Cecenia e la Somalia e, anco-

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ra oggi in parte, Afghanistan e Iraq. Di conseguenza,permane la necessità di negare la disponibilità di “san-tuari” a questi gruppi, ripristinando un controllo poli-tico “responsabile” in questi territori.Operazioni di questo tipo, legate al controllo del ter-ritorio, consentono di abbassare il livello delle capa-cità operative dei gruppi terroristici, ma allo stessotempo ne incrementano la dispersione, con conse-guenti difficoltà di individuazione e contrasto da partedei servizi d’informazione.Il fenomeno terroristico è così diventato più com-plesso e, di conseguenza, richiede una strategia dirisposta più articolata e flessibile.Le caratteristiche della minaccia impongono unarisposta su più fronti. Sul fronte interno, si è affermata l’esigenza di raffor-zare la “Homeland Security”, le cui carenze sonostate evidenziate dalle tragedie del’11 Settembre 2001a New York e dell’11 Marzo 2004 a Madrid.Questi eventi hanno mostrato la debolezza dei siste-mi di sicurezza interni, dovuta a seri problemi strut-turali nella gestione delle informazioni, dalla lororaccolta all’analisi ed alla “fusione” di dati prove-nienti da diverse fonti, al fine di definire scenari ope-rativi realistici e coerenti che ne consentano un impie-go efficace..Queste carenze hanno reso evidente la necessità dipensare la sicurezza in modo diverso.Nel recente passato, infatti, vi era quasi una dicoto-mia fra i termini “difesa” e “sicurezza”, cui si asso-ciava una tendenza ad indicare la prevalenza dell’a-zione non militare (quindi di sicurezza) sull’uso realeo virtuale della forza (la difesa e dissuasione, intesacome campo di competenza delle forze armate). La prevenzione non militare dei problemi assumevaquindi caratteristiche di rottura, rispetto alla sfera del-l’amministrazione, del dilemma “guerra e pace” edella regolamentazione dell’uso della forza. Ciò comportava, inoltre, la presenza di una membranadifficilmente penetrabile fra dimensione esterna edimensione interna dell’agire, fra gli strumenti “soft”e quelli “hard”.Oggi i due termini – sicurezza e difesa – sono sem-pre più coincidenti. La dimensione militare non è piùesclusiva e sta emergendo una nuova definizione disicurezza che integra le due componenti, ponendo al

centro dell’attenzione non tanto gli strumenti dell’a-gire, quanto l’incolumità stessa dei cittadini, ovun-que essi siano, e delle strutture sociali ed economi-che.In sostanza si assiste ad una progressiva integrazio-ne degli strumenti legati alle aree della sicurezza edella difesa, coniugando in un nuovo modo la dimen-sione interna e quella esterna, nonché gli aspetti dipolitica nazionale con l’azione nella sfera interna-zionale.Mentre nella guerra fredda la difesa militare costi-tuiva l’essenza della sicurezza, oggi ne è diventatasolo una componente. Ne deriva la necessità di unastrategia veramente globale nelle sue dimensioni siaverticali sia orizzontali.La difesa diviene strumento della politica di sicurez-za e non più legata al territorio. Non vi è più il rischiodi occupazione del nostro territorio, quanto piuttostoda un lato l’esigenza di protezione e difesa controattacchi non limitati ad obiettivi posti sul territorionazionale e, dall’altro lato, la necessità di sviluppareuna presenza avanzata nelle aree di crisi per preve-nire azioni ostili. Paradossalmente, rimane però la possibilità di impie-go del territorio da parte di forze ostili che possonoutilizzare le stesse risorse del paese trasformandolein armi (ad esempio impianti nucleari, aziende chi-miche, dighe, strutture informatiche…)Nel complesso, la natura della minaccia richiede un’a-zione multidimensionale e la varietà dei rischi impo-ne una differenziazione delle risposte su tutto lo spet-tro. Diversi sono i “teatri di operazioni”. Uno dei prin-cipali è quello finanziario. Un altro è rappresentatodalla convergenza fra terrorismo e criminalità. Unterzo è costituito dalle infiltrazioni e supporto che ilterrorismo riceve dalle “diaspore”.Pertanto, gli strumenti pianificati dovranno goderedella necessaria adattabilità, essere cioè flessibili, edovranno incorporare un determinato fattore di ridon-danza, necessaria al fine di evitare una loro indispo-nibilità per qualunque motivo o per imprevedibili atticatastrofici che dovessero ridurne significativamen-te l’operatività. Ciò pone il problema del coordina-mento intergovernativo ed internazionale delle rispo-ste e delle risorse.Dal punto di vista della proiezione esterna, opera-

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zione che coinvolge sia lo strumento militare che ognialtro mezzo ritenuto adeguato (diplomatico, econo-mico, finanziario, amministrativo), permane la neces-sità di compiere missioni di stabilizzazione delle areedi crisi e di gestione della fase di post-conflitto.In sostanza, il raggiungimento di un certo livello disicurezza presenta un costo molto elevato in terminieconomici. La priorità delle scelte di allocazione disforzi e risorse diviene fattore critico di successo. Male scelte comportano sempre anche rinunce. Ci sideve, quindi, domandare fino a che punto la nostrasocietà sia consapevole del problema e disposta apagare il prezzo che comporta il raggiungimento diun ragionevole livello di sicurezza? Non può essercisicurezza, senza l’esistenza di una cultura della sicu-rezza.

2. Il contesto transatlantico

Nel corso del 2003, le diverse valutazioni circa l’op-portunità dell’impiego della forza contro il regime diSaddam Hussein, nonché a proposito del legame fradetto regime e i gruppi terroristici e la sua disponibi-lità di armi di distruzione di massa, tuttora rimastinon confermati, hanno provocato una forte spacca-tura fra e all’interno dei paesi occidentali.Quest’anno sembra essere iniziato un processo diriavvicinamento fra i paesi dell’Alleanza Atlantica,anche se faticoso e non privo di riserve, in parte lega-to proprio alle difficoltà incontrate dalla coalizione aguida americana nella gestione della crisi irachena ead una maggiore consapevolezza della comunanzadegli interessi e dei rischi.Si tratta di un percorso quanto mai necessario, datala natura della minaccia, comune a tutti, e alla coin-cidenza di valori ed interessi, in generale e specifi-camente nell’area mediorientale, nella quale è impor-tante vi sia un solo “Occidente”, anziché due, unoeuropeo e uno americano. Questo parziale e condizionato ritorno al multilate-ralismo lascia ben sperare che le ferite autoinflittesidagli alleati possano rimarginarsi e rilanciare la discus-sione sui problemi reali e sulle modalità con cuiaffrontarli, piuttosto che la sterile polemica del “connnoi o contro di noi” e sulla “vecchia e nuova

Europa”. E’, inoltre, possibile che la finestra di oppor-tunità aperta dalle elezioni presidenziali americane,che rappresentano un giro di boa potenzialmente forie-ro di cambiamenti, indipendentemente dal profilo delvincitore, non rimanga aperta per un lungo periodo.Appare qui opportuna una riflessione sul concetto dimultilateralismo, soggetto ed oggetto negli ultimi 18mesi di un infuocato dibattito: da una parte invocatocome panacea di tutti i mali e come fattore ineludi-bile di legittimazione e addirittura come fondamen-to della legalità stessa dell’azione internazionale, dal-l’altra parte additato come semplice orpello politi-co, idoneo solo a vanificare la tempestività e l’effi-cacia stessa di un qualsivoglia intervento, strumentodegli imbelli per condizionare, se non per ridurre all’i-nazione l’unica vera potenza globale rimasta.In questo dibattito ci si è apparentemente dimentica-ti che il multilateralismo non è un valore in sé, ma èsoltanto un metodo, sulla cui validità ed efficacia sipuò convenire o dissentire, ma che rimane un modusoperandi e non può prescindere dalla realtà politica,sociale, culturale, economica e militare nel cui qua-dro viene utilizzato e su cui vanno ad incidere i suoirisultati.C’è un requisito imprescindibile e fondamentale chepuò rendere efficace il multilateralismo in alternati-va all’unilateralismo, e questo requisito è la consa-pevolezza pienamente e capillarmente diffusa e con-divisa non solo a livello politico, ma a anche da partedell’opinione pubblica su entrambe le spondedell’Atlantico, dell’esistenza di una sostanziale comu-nalità di una Weltanschauung e di convergenza diinteressi.E’ in quest’ottica che i centri di formazione del pen-siero nel mondo occidentale devono indirizzare i lorosforzi ed è sempre in quest’ottica che i decisori poli-tici devono sforzarsi di far convergere gli interessilocali e particolari, orientando le scelte in tutti i set-tori, dall’energetico all’agricolo, dal formativo all’in-dustriale, da quello della ricerca a quello del welfa-re, in modo da non far divergere i sistemi, ma al con-trario da armonizzarli progressivamente.Con questo tipo di approccio, filosofico, prima anco-ra che culturale, che si ritiene indispensabile e per ilquale non sono consentiti indugi, sarà possibile dimo-strare come i fori multilaterali istituzionalizzati, in

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primis la NATO, possano effettivamente svolgere unafunzione importante nel processo di stabilizzazionee messa in sicurezza delle aree di crisi, fornendo quelvalore aggiunto che rende l’Alleanza attraente pertutti i suoi membri, ad iniziare dall’azionista di mag-gioranza relativa, che era, è e rimangono gli StatiUniti.La NATO è alla ricerca di una nuova strategia chene garantisca non solo la centralità all’interno deldibattito politico ed istituzionale fra le due spondedell’Atlantico in materia di sicurezza, ma anche lacontinua rilevanza in termini operativi, permanendonel ruolo di più forte e stabile alleanza militare dellastoria recente.Perché ciò avvenga deve esservi uno sforzo comunea tutti i membri per accrescere le capacità necessariea fronteggiare le diverse esigenze operative legate alcontrasto al fenomeno terroristico e più in generalealla ricerca della stabilità nelle aree di crisi ad iniziareda quelle situate nelle immediate periferie dell’Europa.L’esperienza recente sembra aver orientato l’Alleanzaverso una implicita forma di divisione del lavoro, incui gli Stati Uniti e alcuni alleati scelti in base al cri-terio “willing and able” ingaggiano in operazioni adalta intensità agendo al di fuori della NATO, mentregli altri membri sono chiamati ad intervenire in segui-to, su base bilaterale o talora richiamando in causal’Alleanza, a completare le operazioni nella pur dif-ficile, rischiosa ed impegnativa parte di stabilizza-zione e ricostruzione.Questo modello presenta notevoli pericoli intrinse-chi e risulta in ultima analisi divisivo, provocandolo scollamento fra due “categorie” di membri, peral-tro sempre esistente anche nella guerra fredda perchéalla “divisione del lavoro” finisce col corrisponder-ne una “dell’autorità”. Si tratta, in pratica, di accor-darsi, bilanciando responsabilità ed autorità, onerisostenuti ed influenza.Il summit di Istanbul del giugno 2004 ha tentato diporre rimedio ad alcune distorsioni, ma non ha com-piuto fino in fondo il processo di rifocalizzazionedella NATO verso il suo “core business” di elemen-to essenziale della convergenza e cooperazione poli-tica-strategica transatlantica.La NATO gode di alcuni vantaggi comparati rispet-to ad ogni altra forma di alleanza (sia essa bilaterale,

trilaterale, a geometria variabile,…): mantiene il dia-logo ed il rapporto transatlantico in materia di sicu-rezza e difesa, garantisce l’interoperabilità e offre unacapacità operativa e di comando e controllo per unampio spettro di missioni. Il primo vantaggio è chiaramente di natura politica epuò essere accresciuto solo a condizione che gliAlleati siano coscienti della sua importanza e colti-vino questo rapporto sapendo distinguere ciò che èessenziale, ovvero i valori di fondo e la compattez-za di fronte alla minaccia, dagli aspetti minori e varia-bili, legati alla specificità di talune politiche nazio-nali, destinate a mitigarsi o scomparire, e all’inutileretorica che troppo spesso in passato ha provocatotensioni fra i paesi.Il vantaggio operativo, invece, può essere conserva-to solo grazie ad un maggiore e migliore sviluppo ecoordinamento delle capacità militari da parte di tuttigli alleati, compresi quelli tecnologicamente più avan-zati, i quali devono farsi carico dei necessari inter-venti tesi a facilitare lo scambio di tecnologia e pro-muovere programmi realmente comuni.Tali capacità non vanno disperse in un ampio raggiod’intervento, piuttosto devono essere concentrate nellafascia alta delle operazioni; la NATO del futuro deveessere pronta per operazioni del tipo “EnduringFreedom” e contemporaneamente capace di suppor-tare forze di stabilizzazione tipo ISAF, in coopera-zione con le nascenti forze dell’UE, il cui collega-mento con strumenti non militari d’intervento le rendepiù adatte a tali missioni.I nuovi strumenti operativi previsti dalla NATOResponse Force (NRF) sembrano andare in questadirezione, ma, paradossalmente, ciò che talora vienea mancare è il supporto dell’alleato principale, soprat-tutto in tema di trasferimento di tecnologie e coope-razione industriale.Per quanto riguarda il ruolo delle forze di stabilizza-zione, pur essendo essenziale e non dovendo esseremisconosciuto come erroneamente accaduto in pas-sato, vanno studiate misure di cooperazione che evi-tino il pericolo che assorba interamente gli sforzidell’Alleanza, rendendola inutile nelle operazioni apiù alta intensità di contrasto alle nuove minacce.L’interoperabilità non è, infatti, possibile a 360°, men-tre lo è limitatamente a settori di nicchia che con-

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sentano una maggiore partecipazione europea. In definitiva, una forte Alleanza Atlantica richiede uncostante impegno da parte dei singoli paesi, ad ini-ziare dagli Stati Uniti, coniugata con un solido rap-porto di cooperazione con l’UE.

3. Il quadro europeo

L’Unione Europea, pur fra mille dubbi, ostacoli, per-plessità e intralci, spesso frutto di anacronistici egoi-smi nazionali, sta emergendo quale importante atto-re internazionale anche nel campo della sicurezza edifesa, colmando così una grave carenza legata a quel-l’erroneo concetto di divisione fra politiche “civili”e “militari” di cui si è già discusso. L’Europa non puòessere, infatti, una potenza solo “civile”, che non èmai esistita nella storia.Il suo potenziale di crescita nel settore è rilevante,pur essendo tuttora frenato dal permanere di concet-ti di sovranità nazionale degli stati membri .In particolare, l’approccio dell’UE, multilaterale emultidisciplinare per elezione, sembrerebbe ben adat-tarsi ad una situazione internazionale in cui propriola fusione di una molteplicità di elementi di risposta,forniti dai diversi membri della Comunità, rappre-sentano un necessario fattore di successo.Nell’ambito della sicurezza, l’Unione sta pertantodotandosi degli strumenti essenziali per poter svol-gere un ruolo importante in quanto tale, e non soloquale somma (o minimo comune denominatore) dellepolitiche espresse dai suoi membri.L’adozione del primo documento strategico europeo,“A secure Europe in a better world: a EuropeanSecurity Strategy”, avvenuta il 12 dicembre 2003, harappresentato un importante passo avanti , che va oltreun puro valore simbolico, anche se non si può tra-scurare il fatto che sia stato oggetto di un un dibatti-to più culturale che politico e strategico.E’ già storicamente noto il valore dell’UE come fat-tore di stabilizzazione per la sua periferia; si tratta oradi passare da un’azione locale ad una capacità di inter-vento su scala globale, già presente per alcuni versi,ad esempio tramite accordi commerciali e strumentidiplomatici, ma non supportata da un’adeguata poli-tica estera e di sicurezza che integri anche la compo-

nente militare.E’, al riguardo, da sottolineare con vigore la neces-sità che tale capacità di intervento si sviluppi in modoarmonico e soprattutto coerente: le politiche sul con-trollo dell’immigrazione, ad esempio, non possonoessere elaborate in isolamento rispetto alla necessa-ria, per quanto graduale, evoluzione della PoliticaAgricola Comunitaria, così come l’azione politico-militare non potrà, né ha mai voluto essere, una poli-tica di potenza, ma deve rimanere un elemento asso-lutamente integrato nel quadro della politica esternadell’Unione, inclusa la dimensione economica e finan-ziaria.Il Trattato Costituzionale approvato dalla ConferenzaIntergovernativa il 17 giugno 2004 interverrà ulte-riormente a modificare il quadro istituzionale di rife-rimento, una volta avvenuta la ratifica, resa per altroproblematica dalla decisione di alcuni stati di sotto-porla a referendum.Proprio il processo di ratifica, sottoposto in alcunipaesi chiave come la Gran Bretagna e la Francia aconsultazione referendaria, potrebbe rappresentareun serio ostacolo all’integrazione europea, condizio-ne necessaria per garantire l’effettiva capacitàdell’Unione di essere attore internazionale e proiet-tare stabilità al di fuori dei propri confini e della suaimmediata periferia. La Costituzione Europea ed alcune decisioni delConsiglio che hanno preceduto la sua adozione sem-brano procedere sulla buona strada verso lo sviluppodi importanti strumenti, necessari per dare concre-tezza alle dichiarazioni e alle scelte politichedell’Unione.Sul fronte delle capacità operative, lo sviluppo dellaEuropean Rapid Reaction Force (ERRF) sta evol-vendo sia nell’aspetto quantitativo, necessario perpoter procedere all’assunzione di maggiori respon-sabilità in più missioni contemporanee di stabilizza-zione, sia in quello qualitativo, grazie all’adozionedel concetto di “battle group”, ovvero l’impegno asviluppare un gruppo numericamente ridotto di forzeper operazioni ad alta intensità, potenzialmente adat-te ad operare anche in missioni di “forcible entry” eantiterrorismo.Il catalogo delle missioni assegnate alle forze euro-pee, inizialmente limitato ai compiti di Petersberg, è

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stato conseguentemente riveduto ed allargato perincludere quelle operazioni più strettamente collega-te alle nuove minacce, come per l’appunto il terrori-smo internazionale.Sempre in funzione delle lotta al terrorismo, è statoassunto un impegno di mutua solidarietà in caso diattacco ad un paese membro; tale clausola però nonè tanto forte quanto quella che impegnava alla dife-sa collettiva, prevista dal testo della Convenzione esuccessivamente “annacquata” in seguito alle pres-sioni di diversi governi , in quanto si è passati da unobbligo giuridico, contemplato nelle prime formula-zioni, ad un più sfumato impegno politico Con ciòevidenziando un limite del dibattito politico sul docu-mento strategico europeo e sulla sua reale ed effica-ce condivisione interpretativa da parte dei diversigoverni.Sempre in ambito delle capacità, la creazione pro-gressiva di un corpo di polizia militare europea (sulmodello dei Carabinieri e della Gendarmerie france-se) potrebbe soddisfare quei requisiti specifici di pre-senza in funzione di sicurezza e di mantenimento del-l’ordine pubblico durante la critica fase di ricostru-zione post-conflitto.Un contributo importante allo sviluppo delle capa-cità potrà essere dato dalla neo-costituita AgenziaEuropea di Difesa, luogo elettivo per la discussionee l’assunzione di decisioni comuni circa le capacitàmilitari, lo sviluppo di programmi di acquisizionecomuni e di una politica tecnologica ed industrialeper la difesa che garantisca l’equilibrio fra domandaed offerta.La Costituzione introduce, inoltre, un elemento diflessibilità nella gestione della PESD, grazie all’isti-tuzione delle cosiddette cooperazioni strutturate, tra-mite cui un gruppo più ristretto di paesi “willing andable” può procedere ad una più stretta integrazione,a condizione che il processo rimanga nei limiti delTrattato e pertanto la partecipazione sia aperta a tuttii membri dell’Unione che soddisfano dei criteri ogget-tivi di capacità definiti da un apposito Protocollo. Si raggiunge così un equilibrio fra il rispetto dellediversità in termini di capacità e di politiche dei paesimembri nell’area della difesa e la necessità di proce-dere comunque all’integrazione secondo un percor-so quanto più possibile comune e condiviso.

La lotta all’instabilità, al terrorismo internazionale ealla proliferazione WMD e l’estensione di una sem-pre maggiore garanzia di sicurezza dei cittadini euro-pei, indipendentemente dalla loro nazionalità, nondipende però solo dalla sola componente militare.Ad essa vanno associati gli sforzi di coordinamentoin aree quali la diplomazia, la politica giudiziaria edi polizia, l’immigrazione, le frontiere comuni, lacooperazione allo sviluppo.Dal punto di vista politico, inoltre, la solidità del rap-porto bilaterale fra Unione Europea e Stati Uniti con-ferma il suo carattere di indispensabilità. La realtà italiana deve poter prendere spunto dagliavanzamenti nell’ambito della NATO e dell’UE, i duepunti di riferimento dell’agire internazionale del nostropaese, per avviare e realizzare quelle riforme internenecessarie a conservare e sviluppare ulteriormente ilproprio contributo alla sicurezza internazionale.

4. L’esperienza italiana

La politica di sicurezza e difesa italiana soffre di unamolteplicità di problemi irrisolti.Il principale è probabilmente rappresentato dalla man-canza di coesione fra le diverse componenti che con-corrono alla definizione ed all’implementazione dellepolitiche. Ciò è legato sostanzialmente al sostanziale squilibriofra alcune aree d’eccellenza, rappresentate da setto-ri delle forze armate e di polizia, dell’industria, delladiplomazia, delle amministrazioni locali, della pro-tezione civile, e settori non ancora toccati delle neces-sarie riforme. E’ una situazione cui non si può pensare di porre rime-dio mediante il semplice ricorso alla buona volontàdei singoli protagonisti. Deve essere codificato e strut-turato il ruolo di superiore coordinamento dellaPresidenza del Consiglio, in una forma che venga per-cepita non solo come autorevole, ma anche formal-mente direttiva, da parte di tutti gli organismi coin-volti.Per di più vi è una radicata difficoltà a tradurre le purmeritevoli intenzioni e gli slanci retorici in azionipuntuali, concrete e sostenute nel tempo, supportatedalle necessarie risorse economiche, intellettuali e

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morali.Nel lungo periodo questi problemi, se irrisolti, potreb-bero comportare un declino sostanziale della capa-cità d’azione del paese all’interno delle strutture inter-nazionali di sicurezza di cui è parte, mettendo in dub-bio anche quegli obiettivi di “rango” ed immagine (lacosiddetta “politica del sedere”) tanto cari alla reto-rica politica italiana.Il rango dipende sempre più dalla capacità di gioca-re un ruolo e di assumere responsabilità effettive.A fronte di questi aspetti negativi, vanno considera-te le importanti lezioni impartite dalle esperienzematurate negli ultimi anni, grazie ad un’attività sullascena internazionale che, pur avendo fatto di neces-sità virtù, ha saputo sinora difendere alcuni impor-tanti obiettivi. Su questo fronte le esperienze internazionali delleForze Armate sono state particolarmente rilevanti erappresentano, pur con alcune limitazioni, una soli-da base su cui costruire una politica propositiva effi-cace. In pratica le Forze Armate hanno rappresenta-to lo strumento più importante della nostra presenzainternazionale.Innanzi tutto, sembra necessario definire meglio e inmaniera politicamente più condivisa le linee guidadella politica e strategia di sicurezza del paese.L’impostazione bi-partisan della politica estera e disicurezza è irrinunciabile, anche per far fronte ai tempinecessariamente lunghi per poterla perseguire e datala fase di transizione in cui si trova il sistema politi-co italiano.Inoltre, vanno meglio definite e specificate le com-petenze nell’area sicurezza, eliminando sovrapposi-zioni costose e dannose e sviluppando un vero coor-dinamento unitario fra tutte le strutture coinvolte.La definizione di procedure, regole, requisiti e adde-stramento comuni a tutti gli operatori nel settore dellapolitica di sicurezza rappresenta un ulteriore fattorecritico di successo. In particolare, va sviluppato unmigliore coordinamento fra l’impiego delle forze disicurezza operanti all’estero e all’interno del paese econ quelle legate alla protezione civile, ponendo finead assurde gelosie legate alla definizione di ambiti dipotere a cui sembra sfuggire il concetto della centra-lità della sicurezza del cittadino.Agli operatori, inoltre, vanno garantiti mezzi e adde-

stramento adeguati al costante svolgimento delle lorofunzioni.In ultima analisi, rimane da superare un importantescoglio: quello delle risorse destinate alla sicurezzae alla difesa. Il finanziamento della politica estera, disicurezza e difesa non è un investimento improdutti-vo: rappresenta anzi la conditio sine qua non per losviluppo del paese all’interno della società interna-zionale sempre più interconnessa e globalizzata.I problemi legati all’equilibrio dei conti pubblici nonpossono costantemente sacrificare questaesigenza. E’giunto il momento di cercare la soluzione a livelloeuropeo: lo strumento dei programmi comuni all’in-terno dell’Agenzia di Difesa potrebbe essere utile perottenere quel riconoscimento di “particolarità” di talispese, garantendo loro qualche forma di esenzionedai criteri di equilibrio di bilancio previsti nel Pattodi Stabilità.

5. Conclusioni

Nel nuovo scenario determinato dall’11 settembreuno dei maggiori problemi che il mondo occiden-tale deve affrontare è legato alla gestione post-con-flitto. Se, infatti, sulla stabilizzazione delle aree dicrisi le differenti strategie sono state consolidatein termini di esperienza e approfondite in termi-ni concettuali, per quanto riguarda il post-con-flitto la capacità di gestione sembra scontare ancheun’inadeguatezza propositiva, oltre che un baga-glio di esperienze più limitate e negative.Emblematica, da questo punto di vista, la vicen-da irakena dove alla scontata vittoria militare nonha corrisposto, per lo meno per ora, una conse-guente vittoria sul piano della costruzione di unnuovo sistema politico e di un nuovo modello disviluppo basato sui valori della libertà e dellademocrazia.In questo contesto la Nato è riuscita a ricucire, perlo meno in superficie, la più grave frattura nellasua storia, anche se sullo sfondo restano alcuneincomprensioni e differenze di orientamento, non-ché la necessità di definire un nuovo ruolo e, inparticolare, una nuova impostazione della colla-borazione transatlantica. Le differenti aspettati-

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ve, europea ed americana, devono ritrovare la sin-tesi di una strategia condivisa prima che l’esplo-dere di una nuova crisi internazionale rischi diripercuotersi anche sulla tenuta dell’Alleanza.Sarà, infatti, quello il momento della verità perverificare se l’attuale sofferto equilibrio ha carat-tere strategico o tattico.L’Unione Europea può svolgere, da questo puntodi vista, un ruolo fondamentale perché il primosegnale verso l’alleato nord-americano deve veni-re in termini di credibilità delle proposte.L’affidabilità si misura, infatti, sul piano politico,ma anche su quello operativo. Solo se l’Europariuscirà a rafforzare il suo impegno sul terrenodella sicurezza e della difesa, potrà giocare unruolo più importante non solo sullo scenario inter-nazionale, ma anche nell’Alleanza Atlantica. Purtroppo si continuano, però, a registrare segna-li contraddittori. Da una parte la costruzionedell’Agenzia Europea di Difesa e il nuovo Trattatocostituzionale rappresentano significativi passiavanti nel processo di integrazione e rafforza-mento. Dall’altra si sono verificati due passi indie-tro.Il primo, e più grave, è legato alla “rinazionaliz-zazione” delle politiche estere dei paesi europei.Dopo la frattura sulla questione irakena,l’Europa si è nuovamente spaccata sulla riformadel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Larichiesta tedesca di un seggio permanente, appog-giata da Francia e Regno Unito, accomunate nellavolontà di non favorire un ruolo dell’UnioneEuropea che tendenzialmente potrebbe compro-mettere il loro proprio ruolo, ha inferto un colpogravissimo alla PESC perché le ha tolto l’indi-spensabile prospettiva strategica. Peggio anco-ra, il non aver condiviso la proposta italiana che,anche se legata alla tutela del nostro ruolo, avreb-be lasciato aperta la strada europea (ed eviden-temente avrebbe offerto alla Germania la possi-bilità di essere la prima rappresentante del nostrocontinente) e l’avervi contrapposto una logicapuramente nazionale mina la credibilità del-l’impegno europeo del più importante membrodell’Unione. Dal punto di vista italiano il non aver

trovato sostegno alla sua proposta nemmeno daparte inglese, nonostante il forte riavvicinamen-to degli ultimi anni deve farci riflettere sullanecessità di consolidare una nostra politica inter-nazionale che non sia semplicemente determina-ta da una logica di schieramento.Il secondo passo indietro è nel mancato incre-mento, anzi nel decremento, delle spese europeeper la difesa. Anche qui gli attori principali sonoGermania e Italia che continuano a disinvestire,anche se il nostro paese ha l’aggravante che, nelcontempo, ha aumentato il livello del suo impegnointernazionale che ne fa il terzo paese al mondoper partecipazione ad operazioni di mantenimen-to della pace. La contraddizione con le scelte e leambizioni della nostra politica internazionale ètalmente palese da non poter essere ulteriormen-te esplicitata. Ma, già sul breve termine, il rischiosul piano delle capacità operative è talmente ele-vato da richiedere una scelta responsabile: aumen-tare gli investimenti a tutela della nostra sicurez-za e difesa o ridurre drasticamente impegni edobiettivi. Nessuna trovata di ingegneria finanzia-ria può esonerarci dal prendere una decisione per-ché i problemi di oggi non possono semplicemen-te essere rinviati a domani: prima o poi rischianodi esplodere con conseguenze facilmente immagi-nabili.L’Unione Europea può offrire un contributo fon-damentale alla costruzione di un quadro di sicu-rezza e di rinnovata concordia transatlantica. Lasua partecipazione alla gestione del post-conflit-to, come è avvenuto nei Balcani, potrebbe con-cretizzare il suo ruolo di elemento di stabilizza-zione delle aree di crisi. Un primo terreno sul qualemisurarsi è inevitabilmente quello irakeno perchéla contiguità e l’importanza del Medio Oriente nonconsentono all’Europa di rimanere indifferentealla prospettiva di una destabilizzazione dell’area. Anche di qui la necessità di perseguire un disegnostrategico attraverso piccoli passi che rafforzinola costruzione dell’Europa della difesa: addestra-mento ed equipaggiamento comune delle forze spe-ciali, guardia costiera europea, gestione integratadelle emergenze e delle situazioni post-attentati,

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sostegno comune nel campo della sicurezza ai paesipiù a rischio possono rappresentare altrettantitasselli nella costruzione di un credibile ruolo euro-peo. Allo sforzo dell’Occidente di prepararsi alla“guerra asimmetrica” in tutte le sue implicazionideve seguire un corrispondente sforzo per impa-rare a gestire una “pace” altrettanto “asimmetri-ca”. Le stesse considerazioni sul carattere inno-

vativo della prima possono essere riproposte perla seconda, con la differenza che in quest’ultimocaso sia l’elaborazione concettuale, sia l’esperien-za sul campo sono agli inizi. In questa direzioneEuropa e Stati Uniti devono concentrare i lorosforzi per contribuire alla costruzione di un qua-dro internazionale di sviluppo prima ancora chesostenibile, sicuro.