stefano lanuzza - storia della lingua italiana

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Stefano Lanuzza. Storia della lingua italiana. Collana IL SAPERE – Tascabili economici Newton – 1994 Premessa. 1. La libertà individuale nasce dall'esigenza di esprimere il pensiero e si manifesta con la parola, questa facoltà esclusivamente umana. Le parole nominano un agire rappresentato, una «sostanza» da cui scaturisce la lingua, cioè un sistema comune di funzioni fonosimboliche che eleggono, interpretano e organizzano la realtà. Parola e lingua avviano la propria storia nel momento in cui si combinano col segno grafico. L'uomo delle caverne, che traccia segni su una pietra per ricordare il numero di animali uccisi nella caccia, inizia la testimonianza della sua vicenda anche linguistica nel mondo. La scrittura ideografica o dei geroglifici produce la scrittura fonetica o dei suoni, che diviene sillabica e infine alfabetica. Scopo di questo libro è una rapida ricostruzione di alcune fasi essenziali della lingua italiana congiunte alla struttura delle parole, dalle origini ai nostri giorni. A differenza del suono non verbale, la parola è, al contempo, nelle sue tre classi (sostantivo verbo aggettivo), modulo fonetico e rappresentazione di significati. Se la storia della conoscenza è anche storia raccontata con parole e queste sono prerogativa umana, la storia delle parole, che sono sostanza della forma, è anche conoscenza dell'uomo. Come notava il barocco Baltazar Gracián nel suo Oraculo manual y arte de prudencia (1647), «i metalli si riconoscono dal suono, e gli uomini dalle parole». 2. Immagine concreta e vitale d'una società, la parola è la più evoluta forma di comunicazione fra individui e quanto presiede alle attività umane storicizzandole. Ogni azione dei soggetti si concreta, infatti, attraverso la produzione e la trasmissione di significati verbali: allo stesso modo, I'uomo s'ambienta nel mondo e nella storia mediante la lingua. Una storia linguistica è perciò strettamente legata a quella del sistema naturale e sociale in cui la parola si è evoluta. Allora, tracciare il profilo d'una lingua - tanto letteraria quanto d'uso - sarà identificare un aspetto rilevante delle vicissitudini della comunità che la parla e scrive. 3. Il movimento della nostra lingua è da inserire, con tutte le sue particolarità, in una vera e propria storia italiana. Storia sostanziata, altresì, dalle scienze della linguistica generale (dalla linguistica teorica a quella testuale, alla psicolinguistica, alla dialettologia, alla semiologia); e da specializzazioni quali la lessicologia, la fonologia, la morfosintassi. In base a ciò, si può preliminarmente affermare che un campo lessicale complesso come quello italiano fissa i propri temi ad altrettante problematiche storico-sociali e culturali. Problematiche non ristrette all'ipotesi d'una lingua «pura», perfetta o autosufficiente (nessuna lingua lo è), ma consapevoli che ogni lingua è, in realtà, un insieme di lingue: è, insomma, un polisistema fra le circa tremila lingue parlate nel mondo dall'umanità che è solo una. 1

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Stefano Lanuzza. Storia della lingua italiana.Collana IL SAPERE – Tascabili economici Newton – 1994

Premessa.

1. La libertà individuale nasce dall'esigenza di esprimere il pensiero e si manifesta con la parola, questa facoltà esclusivamente umana. Le parole nominano un agire rappresentato, una «sostanza» da cui scaturisce la lingua, cioè un sistema comune di funzioni fonosimboliche che eleggono, interpretano e organizzano la realtà. Parola e lingua avviano la propria storia nel momento in cui si combinano col segno grafico. L'uomo delle caverne, che traccia segni su una pietra per ricordare il numero di animali uccisi nella caccia, inizia la testimonianza della sua vicenda anche linguistica nel mondo. La scrittura ideografica o dei geroglifici produce la scrittura fonetica o dei suoni, che diviene sillabica e infine alfabetica. Scopo di questo libro è una rapida ricostruzione di alcune fasi essenziali della lingua italiana congiunte alla struttura delle parole, dalle origini ai nostri giorni. A differenza del suono non verbale, la parola è, al contempo, nelle sue tre classi (sostantivo verbo aggettivo), modulo fonetico e rappresentazione di significati. Se la storia della conoscenza è anche storia raccontata con parole e queste sono prerogativa umana, la storia delle parole, che sono sostanza della forma, è anche conoscenza dell'uomo. Come notava il barocco Baltazar Gracián nel suo Oraculo manual y arte de prudencia (1647), «i metalli si riconoscono dal suono, e gli uomini dalle parole».

2. Immagine concreta e vitale d'una società, la parola è la più evoluta forma di comunicazione fra individui e quanto presiede alle attività umane storicizzandole. Ogni azione dei soggetti si concreta, infatti, attraverso la produzione e la trasmissione di significati verbali: allo stesso modo, I'uomo s'ambienta nel mondo e nella storia mediante la lingua. Una storia linguistica è perciò strettamente legata a quella del sistema naturale e sociale in cui la parola si è evoluta. Allora, tracciare il profilo d'una lingua - tanto letteraria quanto d'uso - sarà identificare un aspetto rilevante delle vicissitudini della comunità che la parla e scrive.

3. Il movimento della nostra lingua è da inserire, con tutte le sue particolarità, in una vera e propria storia italiana. Storia sostanziata, altresì, dalle scienze della linguistica generale (dalla linguistica teorica a quella testuale, alla psicolinguistica, alla dialettologia, alla semiologia); e da specializzazioni quali la lessicologia, la fonologia, la morfosintassi. In base a ciò, si può preliminarmente affermare che un campo lessicale complesso come quello italiano fissa i propri temi ad altrettante problematiche storico-sociali e culturali. Problematiche non ristrette all'ipotesi d'una lingua «pura», perfetta o autosufficiente (nessuna lingua lo è), ma consapevoli che ogni lingua è, in realtà, un insieme di lingue: è, insomma, un polisistema fra le circa tremila lingue parlate nel mondo dall'umanità che è solo una.

4. Va tenuto conto che solo da pochi decenni lo studio della lingua italiana ha abbandonato un esclusivismo che, circoscrivendo la ricerca, riproduceva esercizi monografici votati a specializzazioni escludenti la condizione plurilinguistica dei parlanti. Una decisa svolta metodologica si ha con I ' interazione fra elemento linguistico e prospettive storiche, letterarie, sociali in cui si attuano connessioni comparative con la realtà contemporanea. Una realtà dove la lingua non è solo storiografia dell'uso verbale prevalente ma anche incontro con gli idiomi regionali e periferici, ossia con le tradizioni della cultura «orale».

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Sotto tale aspetto, la lingua parlata, al pari di quella scritta, in Italia diviene partecipe d'una sincronia storica che, attraverso la sociolinguistica e la stessa antropologia, include la dialettologia. Il che implica una riconosciuta esigenza di comprendere nella storia linguisticaquella dei sistemi di vita della comunità nazionale: di conoscere, in-terdisciplinariamente, i nessi della lingua normativa con la paroladel dialetto. In tali attinenze, la storia della lingua allarga il propriospazio conoscitivo al di là degli specialismi senza conoscenza fuoridi sé. Ne deriverà la constatazione che lingua e parola, scrittura e parla-to, pur nelle loro precipue attitudini, appartengono con pari dignità auna generale funzione espressiva e comunicativa. Funzione culturaleche, recuperando il dialetto, fa della lingua italiana il luogo per di-scemere una parte importante della nostra storia.

L'ltalia prelatina

Le scarse notizie sulla lingua prima dell'affermazione del latinosono fomite da testimonianze epigrafiche (iscrizioni su pietra, creta,cuoio, metallo) e da alcune «glosse» o spiegazioni pervenute dallatradizione letteraria antica. Troppo poco per individuare o anche soloimmaginare una qualche struttura dei linguaggi parlati all'epoca, ri-masti perciò sepolti in una pressoché indifferenziata preistoria. Malgrado ciò, non sono mancati studi su questo settore della lin-guistica riguardante il substrato delle lingue preindoeuropee nella pe-nisola. Fondati sulla toponomastica, ovvero sull'osservazione dei nomidi circoscrizioni dell'area mediterranea, essi hanno individuato resi-dui di antichissime scritture contrassegnanti zone geografiche, oggetti,utensili, animali, piante, ecc. Tali dati sono dedotti, su diversi territo-ri, da iscrizioni collocabili tra il VII e il v secolo a.C., quando Roma,che sarà il centro d'irradiazione del latino, è ancora un piccolo nucleourbano e la sua lingua è niente più d'un pigolìo tra i colli Albani e laparte a ovest del Tevere, nel ristretto Latium vetus (antico Lazio). Quando, all'inizio del IV secolo a.C., nell'anno 390, è invasa daiGalli di Brenno, Roma non ha nessun rilievo linguistico né una tradi-zione di testi scritti. La lingua dell'Italia del 390 può idealmente distinguersi in unaparte orientale, in cui sono preponderanti i frasari indoeuropei, e inuna occidentale, con prevalenza di idiomi non indoeuropei. Sono in-doeuropei, oltre all'umbro, il latino e il siculo, parlati nella zona ro-mana e nella Sicilia orientale; e poi l'osco, il volsco, il messapico, ilgallico e il veneto (o venetico). Sulle coste siciliane e in quelle delSud da Cuma a Rhegium, Croton, Tarentum si parla il greco dei colonizzatori. Lingue non indoeuropee sono la retica (in terra atesina, con influs-si etruschi), la ligure, I'etrusca (tratto dell'ltalia centrale tirrenica,esteso al Lazio e in diramazioni della Campania), il piceno settentrio-nale e meridionale (che nuovi studi accreditano, in parte, al gruppoindoeuropeo), il sardo e le favelle della Sicilia occidentale intema. Componendo un mosaico di lingue che, al pari dei parlanti, presentaenommi diversità, si può tentare un assetto di riferimento. Vl si distinguo-no l'idioma umbro, parlato nell'alta valle del Tevere e, nei centri abitatidell'Appennino e dal Lazio all'Abruzzo fino alla Campania e alla Ca-labria, I'osco: che, insieme all'umbro, ha molte somiglianze col lati-no. Il gallico, diffuso nella Pianura padana e nell'Italia del Nord, èparlato anche in Gallia, I'odiema Francia. Il veneto, proveniente daiBalcani e attinente all'illirico, è diffuso nell'Italia nord-orientale. Le lingue succitate, indoeuropee, hanno reciproche affinità e con-tatti col latino. Le lingue parlate in Liguria e in Sardegna, col sostratoetrusco in Toscana (la cui unica traccia rimane la trasfommazione del-le consonanti sorde intervocaliche in aspirate: es. Ia h aspirata della«gorgia toscana»), differiscono totalmente dal latino, dall'osco-um-

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bro, dal greco, dal gallico e dal veneto. Esse sono preindoeuropee,più antiche delle indoeuropee. Quando, tra il Ill e il I secolo a.C., Roma diviene, da piccola repub-blica, potenza imperiale, i vinti colonizzati accolgono spontanea-mente la lingua neolatina o romanza (appunto, la lingua discendenteda Roma: dalla locuzione romanice loqui parlare latino). Ed è allafine del I millennio a.C. che le parlate italiane completano il loro la-borioso processo di indoeuropeizzazione. L'apprendimento del latino è però differenziato in ciascuna zona ei dialetti locali prendono a latinizzarsi in modo difforme, producendovocaboli che, prevalentemente coniati sul latino, vanno distinti dal la-tino classico. L'avanzata civiltà etrusca, invece, estranea a quella romana, trova-tasi nella condizione di doversi esprimere nella lingua dei conquista-tori, assorbe il latino perfettamente, abolendo via via il suo codice ori-ginario. I popoli più distanti da Roma, che imparano il latino dai soldati edai mercanti romani, parlano non nella fomma pura professata daglietruschi ma con l'accento dei propri idiomi. Questa molteplice variazione del latino volgare orienterà la nasci-ta dei dialetti regionali.

Il latino

Anticamente prende il nome di Latium vetus o antiquum il territo-rio sulle rive a sud del Tevere e fino ad Anzio e Terracina, limitato aEst dai monti della zona dei Volsci, dai colli Comicolani, Prenestini eLepini. In seguito, esso viene detto Latium adiectum (Lazio aggiun-to) perché incluso tra l'Etruria a Nord, la Campania a Sud, la Sabinaa Est e il Sannio a Sud-Est. La parola Latium deriva da latus, stante per «largo», «pianeggian-te», chiaramente associabile al fatto che l'antico Lazio è situato nellapianura della valle a sud del Tevere. Latini sono i popoli del Latium elatina è la loro lingua: questa appartiene al nucleo linguistico com-prendente il greco, I'indiano, I'iranico, I'ittito (Asia minore), il toca-rico (Turkestan orientale), il celtico, I'albanese, I'armeno, le linguegemmaniche, baltiche e slave. Tale gruppo è detto indoeuropeo perchéesteso dall'India all'Europa e connotato da una comune genealogia,ossia da un'origine che non significa somiglianza ma, in senso lato,affinità. Un'affinità ancora più stretta, dovuta alla stessa origine latina, ri-scontriamo poi fra italiano, francese, spagnolo, portoghese, romeno.Così come sono affini tra loro, per l'appartenenza al protoslavo, lin-gue quali il russo, il polacco, lo slovacco, il cèco, il bulgaro, lo slove-no, il macedone e il serbo-croato. In base alla composizione dei vari lessici, oltre che per i ritrova-menti archeologici, si è finito per stabilire una gravitazione dell'in-doeuropeo nell'Europa centro-settentrionale. Quando le conquiste di Roma s'allargano oltre le Alpi e il mare,dalla Spagna- ad Occidente - alla Dacia - ad Oriente -, I'editto diCaracalla del 212 d.C. concede la cittadinanza romana agli abitantidell'Impero, comprendente tutti i territori del Mediterraneo. Allora illatino diviene la lingua della parte occidentale del Mediterraneo, men-tre in quella orientale permane, col suo cospicuo retaggio culturale,rispettato da Roma, la lingua greca. Si ha così un Impero che a Occi-dente è di lingua latina e a Oriente è di lingua greca. La romanizzazione non tocca le province gemmaniche e la partedella Britannia per qualche tempo dominata da Roma, né permanenell'Africa settentrionale che sarà occupata prima dalle tribù berberedell'entroterra africano e poi dagli Arabi.

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Se il latino è capito in tutto l'Impero, fuori del proprio territorio ilgreco è conosciuto solo dalle classi colte. A sua volta, il latino presen-ta due aspetti o «registri»: quello elegante, letterario, «testuale», «gre-cizzato», in uso nell'aristocrazia urbana (latino perpolitus, urbanus,togatus), e quello, più rozzo ma più vario, adoperato dal popolo (ru-sticus, plebeius, cotidianus, vulgaris) e dai soldati (sermo militaris ocastrensis). Caratteristiche del latino popolare sono una pronuncia imperfetta,le anomalie nei costrutti della frase e grammaticali, i cambiamentifonetici, le innovazioni lessicali, le variazioni e stilizzazioni espres-sive. E da tali novità, introdotte dal latino parlato nel latino classico,che iniziano le conversioni e i graduali assorbimenti linguistici.Dopo ciò, nelle parlate barbariche dell'Occidente latino finisce l'uni-tà linguistica e nascono le lingue neolatine o romanze. Queste sono, con l'italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, il ladino e il ro-meno. Da osservare che il latino, specialmente parlato, penetra maggior-mente dove minore è la resistenza dei sostrati idiomatici dei popoliconquistati da Roma e in minor misura dove non è riuscito a perrnea-re il sostrato preesistente. E inoltre naturale che, per le diverse resi-stenze di sostrato, il modulo latino usato in Italia non sia inteso inGallia e che quello qui adoperato non sia capito in Spagna o in Ro-mania.

Origini della lingua italiana

1. Dalla latinità classica a quella popolare

Decade l'Impero romano d'Occidente (475) mentre sorge il cri-stianesimo. Dopo la deposizione di Romolo Augustolo, il capo degliEruli, Odoacre, dà vita ai Regni barbarici e, nel 493, Teodorico fondail regno degli Ostrogoti sotto la sovranità dell'Impero d'Oriente. Nel568 i Longobardi di Alboino conquistano l'Italia centro-settentrio-nale, dopo avere sconfitto l'ultimo re dei Longobardi, Desiderio. Dalla dissoluzione della civiltà latina e delle sue istituzioni si salvala lingua, che per sopravvivere s'adatta, come ogni organismo vitale,alle mutate condizioni. Essa cambia col cambiare delle idee, del pen-siero, del comportamento dei parlanti. Non muore, ma si trasforma:modulandosi in un codice che, evolvendosi e innovando, diverrà neisecoli molto diverso dal latino. Tanto che questo, oggi, non può in-tendersi se non studiandolo al pari d'una vera e propria lingua stra-niera. Ciò che non accade con la lingua greca antica, comprensibilecon una certa facilità dai parlanti il greco moderno. Dire allora che la nostra lingua affondi le proprie radici in quellalatina è un'affermazione facile ma imprecisa. Più propriamente, do-vrebbe dirsi che l'italiano nasce non tanto dall'evoluzione, corTuzio-ne o storpiatura del latino ma da una trasformazione a partire dal so-nus del latino cosiddetto popolare, distinto da quello letterario. Unatrasformazione interagente coi dialetti e i modi di dire della penisola.impregnati di latinità ma con autonomi contrassegni lessicali. Più stabile, anche se popolarizzato nella grammatica e nella sintassi,è il latino della religione cattolica: questa, associandolo al greco, ne fauso per diffondere la dottrina cristiana. Così, è dal punto di vista del proprio pensiero che la Chiesa, erede dell'Impero, si fa promotrice dellaconservazione e della trasmissione nel tempo della cultura e della linguaclassico-latina. Ciò farà poi rilevare allo storico Curtius che «le basidella cultura occidentale sono l'antichità classica e il cristianesimo». Due riferimenti significativi delle tendenze linguistiche dell'altoMedioevo, epoca prima del Mille, distinta dalla successiva, dettabasso Medioevo, possono ravvisarsi in Boezio (480 ca.-526) e Cas-

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siodoro (490 ca.-575 ca.). Il primo, nel suo De consolatione philoso-phiae, opera perdurata nel culto scolastico medioevale, guarda allaclassicità rigidamente unitaria degli auctores. Il secondo, pur con quellostile letteratissimo che costituirà un modello per l'epistolografia el'eloquenza del Medioevo, nei Variarum libri Xll è più rivolto a unacomunicazione funzionale e pratica, adattata alle nuove artes umane. Il tentativo della scuola Capitolina e di Carlomagno di ripristinarela latinità col Capitolato del 789, che impone l'insegnamento dellagrammatica (intesa come studio del latino), se non riesce a sostituireil volgare ne ritarda, insieme alla Chiesa, I'evoluzione. Tale ritardo èaggravato dalla polarizzazione tra latino colto e popolare, apparente-mente estranei l'uno all'altro, che provoca alterazioni verbali e origi-na neologismi. Ne consegue quello che è stato chiamato un fenomeno di bilingui-smo: per il quale, mentre la comunicazione è quella rustica, la linguausata dal ceto colto punta ad accostarsi al latino classico, modellatosugli scrittori antichi (Cicerone, Cesare, Livio, ecc.). Esemplificando, si potrebbe osservare che il latino classico sta aquello rustico come l'italiano starà ai dialetti. E, quella classica, una lingua fatta di proposizioni lunghe, dipen-denti da una sola principale (costruzione ipotattica). Ma, dopo il se-colo x, è un fatto che le parole dei volgari latini, nati dalla fase inter-media fra il latino della romanità e il parlato (vocabula rustica, vul-garia, sordida), prendano il sopravvento. Si afferma perciò la paratas-si, con proposizioni brevi, unite parallelamente. Che poi il toscano e in particolare il fiorentino abbiano una preva-lenza sugli altri dialetti è per la loro posizione geografica, centralenella penisola, e perché essi hanno più di altri stretta attinenza con lalingua della cultura, rimasta latina al fondamento. Infatti, anche dopoil consolidamento del volgare italiano, sia in Italia sia in Europa, il la-tino resta la norma della cultura dominante, adoperato nelle scienze,nell'insegnamento e nella stessa letteratura.

2. Vicenda di parole

Accertata l'origine dell'italiano nel latino popolareggiante, elen-cando alcune parole passate nel vocabolario italiano si rilevano talu-ne concordanze o semiconcordanze. Dove il latino acredo dà acredi-ne, aditare andare,flamma fiamma, adjutare aiutare, adpertinere ap-partenere, tenere tenere, porta porta, terra terra, altus alto, amplareampliare, amare amare, batualia battaglia, belare belare, bucca bocca, locale locale, burgus borgo, cambiare cambiare, caput capo, com-binare combinare, cultellus coltello, deviare deviare,facere fare, rotaruota, vacca vacca, aqua acqua, niger nero, discursus discorso, ebria-cus ubriaco, metere mietere, exagium saggio, supra sopra, exradica-re sradicare,falco falco, vates vate,fictus fitto, genuculum ginocchio,jejunare digiunare, audire udire, lacte latte, mater madre, pater padre,filius figlio, manducare mangiare, manus mano, tu tu, mensurare ml-surare, ossum osso, pistare pestare, rancor rancore, palma palma, tec-tum tetto, testa testa, proba proba, dormire dormire, sedere sedere,mille mille, tarde tardi, quasi quasi. Un ruolo importante nella trasfommazione dei sostantivi in italianosvolgono i diminutivi latini, riferibili per lo più ad espressioni affet-tivo-eufemistiche. Così axilla, diminutivo di ala, dà ascella; botellus dàbudello, cerebellus/cerebrum cervello, auricola/auris orecchia, anu-lus/ano (nel senso di «cerchio») anello, glomulus/glomus gomitolo,spatula/spata spalla, testulus/testa teschio, merula/merus («mero», nelsignificato di «solo») merlo, piculus/picus picchio, avicellus/avis uc-cello, sororcula/soror sorella, terebella/terebra trivella, variolus/variusvaiuolo, cornicula/cornix comacchia, coronula/corona corolla, crancu-lus/cancer granchio (oppure cancellum, significante «granchiolino»,

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ma anche «sbarra», riferito all'aspetto delle pinze del granchio), grati-cula/cratis (grata) graticola, acucula/acus (ago) guglia, visculum/vi-scum vischio, nebula/nubis nebbia, fratellus/frater fratello, cultel-lus/culter coltello, ecc. Per gli accrescitivi, il latino rustico conserva il suffisso -one e pergli spregiativi i suffissi -aster e -aceus. Questi sono continuati dall'ita-liano in parole come omone ragazzone, poetastro giovinastro, omac-cio ragazzaccio. L'italiano formeràpoi anche altri suffissi in -otto (ra-gazzotto), in -occio (fantoccio), in -ozzo (predicozzo), in -ucolo (poe-tucolo), -àttolo (fiumiciattolo), -ònzolo (mediconzolo). Tali esempi, tra i tanti possibili, valgano a spiegare mimeticamen-te come non ci sia uno stacco netto fra le due lingue, ma una lentametamorfosi del latino in altre forme lessicali. Tale processo sarà dadefinirefonetico (relativo ai suoni), morfologico (concemente le for-me), lessicale (rapportato al senso e all'uso delle parole). I mutamenti fonetici sono dati dal cambiamento degli accenti vo-calici, che regolano il passaggio delle vocali del latino nella linguaromanza. Il sistema vocalico tonico romano (di dieci vocali: cinque«lunghe» e cinque «brevi») è il seguente: I (accento lungo: come direi+i: esso vuole il doppio del tempo che serve per pronunciare la i conaccento breve) e l, e, e, a, a, o, o, u, u. Nel latino popolare, la diffe-renza vocalica è abolita: le vocali lunghe sono chiuse, le brevi aperte.Vocali italiane: i, é, è, a, ò, ó, u. I ed e del latino mutuano la é in ita-liano;la~diventaè;aea=a;o=o;oeu=ó;u=u.

ORIGINI DELLA LINGUA ITALIANA

Oltre agli aspetti fonetici della dittongazione (mel mielé, pedempiede, homo uomo, vetat vieta, fo~cus fuoco, locus luogo, nurus nuo-ra, ecc.), si hanno cambiamenti dal latino vlta (si legga viita) all'ita-liano vita, dlcit dice, vllla villa, ml lle mille, rlga riga, ecc. E poi f 'defede, seta seta, dlctu detto, dlgitus dito, ecc. E nocte notte, voce voce,ecc. Con la trasformazione di u in o: bucca bocca, bulla bolla...Scompare la vocale greca y, che diviene i (lira, mirra, ecc.) o e (se-sto), oppure o (greco crypta, lat. crupta, it. grotta). Il latino au divienein italiano o (causa cosa, fraude frode, auca oca). Utili per l'osservazione della dinamica latino-italiano gli esiti fo-netici da solidus a solido e soldo, vitium vizio vezzo, augustus augu-sto agosto, nitidus nitido netto, cubitus cubito gomito, ecc. Più d'una semplice curiosità costituiscono parole che, passandodal latino parlato all'italiano, cambiano significato. Si prenda il casodi captivus («prigioniero»), che assumendo il senso di malus dà «cat-tivo»; di paganus («villico», «campagnolo» e poi «civile», «borghe-se») che accoglie il significato di «non cristiano», «ateo»; di virtus(«valore di guerriero») che diventa «virtù cristiana»; acer (acuto)agro; bucca (guancia) bocca, gradus (gradino) grado, insignare (in-cidere) insegnare, ecc. Tra i lemmi del parlato latino che hanno preso diverso significatonella nostra lingua: fanaticus (fanatico), che in latino significa «ap-partenente al tempio»; profanus (profano) «chi sta davanti al tem-pio»; egregius (egregio) «scelto dal gregge»; laetus (lieto) «cosparsodi letame»; pagina, stante in latino per «sezione di campo coltivato avigneto»; supplicare («piegare le ginocchia»); peccare, da pedlca(trappola) e pedicare («cadere in trappola»)... Altresì ha rilievo, negli spostamenti dal latino all'italiano, il siste-ma delle consonanti. Mentre sono molte le parole latine che termina-no in consonante, quelle italiane finiscono quasi tutte in vocale (fan-no eccezione i monosillabi al, del, il, ad, per, non). Brevemente, eccoalcuni passaggi di parole con finale consonantica che in italiano ter-minano in vocale: actus atto, manus mano, tempus tempo, lectus let-

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to, vallus vaglio, somnus sonno, diurnum giomo, hibernum invemo,arbor albero, basium bacio, proprium proprio, vitem vite, vulpem vol-pe, bovem bue, selvaticum selvatico, regnum regno, capillum capello,cibum cibo, ruptus rotto, robur rovere, iam già, ecc.

Trascorrendo, con la debita rapidità, a qualche aspetto morfologi-co, si osservi, per la coniugazione dei verbi, che a differenza dell'ita-liano, ricorrente a parole composte, il latino presenta, per tutti i tempiattivi, voci semplici. Il verbo è la parte del discorso che, nella trasfor-mazione romanza, si modifica maggiommente: si veda lo spostamen-to dell'accento nei verbi ridere rìdere, mordere mordere, ardere àrdere, respondere rispóndere, ecc. A differenza del latino, per coniu-gare i tempi composti l'italiano adotta, nella coniugazione attiva, ilverbo avere: sì che l'infinito perfetto latino amavisse dà l'italiano ave-re amato. Nella coniugazione passiva, I'italiano ha il verbo ausiliare essere.Per esempio, I'indicativo presente, in latino amor, in italiano è «sonoamato»; I'imperfetto amabar ero amato; il futuro amabo sarò amato,ecc. Nel volgare, si creano quattro tempi: il passato prossimo, il trapas-sato remoto, il condizionale presente e il condizionale passaío. Formato dall'ausiliare habere con l'infinito, il condizionale, sco-nosciuto al latino, trae le sue forme utilizzando le persone del perfet-to di avere unite all'infinito dei verbi. Così, le diverse persone delperfetto sono: ebbi avesti ebbe avemmo aveste ebbero. La fommazione della prima e seconda persona singolare e pluralecondizionale deriva dal perfetto antico di avere (ei esti emn10 es~e: dacui, amerei ameresti ameremmo amereste). L'ausiliare a- ere, qualeaffisso all'infinito, fa poi emergere come il verbo futuro amer d sia com-posto da amare + ho; e così per le altre persone del futuro: flmel'ai =amore + hai, amerà = amore + ha, ame7 emo = amore + abbiamo, ecc. Alla proposizione oggettiva latina (con l'accusaíivo e l'infinito)succede in italiano la proposizione dichiarativa preceduía dalla con-giunzione che. Si ha perciò variazione sintattica: dove, poniamo, illatino dico te amatum diviene dico che tu sei amato. Circa i mutamenti lessicali, servano gli esempi dei íerrnini latiniclassici equus, divenuto c aballus nel latino parlato e infine, in italia-no, cavallo; vir homo uomo, osculum basium bacio... Per quanto concerne i nomi, gli aggettivi e i pronomi, questi hannoin latino una declinazione, ossia delle desinenze cui corrispondonoaltrettanti complementi. Mentre in italiano le desinenze sono, di so-lito, soltanto due: una al singolare e una al plurale. La parola ser v o,che in latino ha otto desinenze (servus sen i se~o servum see ser-vorum servis servos: il servo, del servo, al servo, il servo, oh servo,dei servi, ai servi, i servi), in italiano ne ha due (servo servi). Cadutele desinenze, I'italiano forma i complementi ricorrendo all'articolo ealla preposizione. L'articolo è una delle innovazioni che distinguono l'italiano e lelingue romanze dal latino letterario. Ma da quello letterario soltanto:perché, invece, nel latino parlato si usa, in funzione di articolo, il pro-nome dimostrativo. A tale proposito, si veda la strofa in ottonari ri-mati del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo): Dies irae,dies illa,l solvet seclum in favillal teste David cum Sybilla («Giornodell'ira, quel giomo,/ il mondo si dissolverà in cenere/ I'hanno pre-detto David e la Sibilla»). Dal significato latino di ille illa (quello quella), il passaggio in italiano degli articoli il e la. E interessantecome, nel dialetto sardo, invece del pronome ille abbia funzione diarticolo il pronome ipse. Da cui l'articolo il divenuto su: su patre, suprete, su pretore (il padre, il prete, il pretore). Delle preposizioni latine, spariscono nel volgare italiano ab ciserga ob prae propter. Rimangono ad a, ante anzi, circa circa, contra

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contro, cum con, de di, infra fra, iuxta giusto,perper,postpoi, secun-dum secondo, super su, ultra oltre, versus verso. Delle congiunzioni restano et e, nec ne, aut o, quam che, si se. Etsiè sostituito da benché sebbene, ecc.; tamen pure però tuttavia; namperché poiché giacché; igitur donde, ergo perciò, propterea quindi,ecc. Non sono pochi gli elementi lessicali che, a testimonianza dei con-tatti del mondo romano coi popoli del Mediterraneo, passano nel vol-gare italiano attraverso l'etrusco, il greco, gemmanico, gallico, arabo,spagnolo latinizzati; oltre a quelli di cui non si conosce appieno la ge-nealogia. Alcune centinaia sono le parole etrusche conosciute, tra cui histrioistrione, taberna tavema, persona persona: nel senso originario di«maschera», ecc. Dal gallico si registrino alauda allodola, betulla betulla, carruscarro, braca calzoni, lignage lignaggio, gonfanon gonfalone. Di de-rivazione gallica sono inoltre astore, pensiero, veltro, levriero. Di radice osco-umbra sono lemmi quali lingua lingua, bufalus bu-falo, bas bue, lacrima lacrima. Molte le parole dal greco: accidia at-timo borsa caravella olivo ostrica ampolla ciliegio mandorla dome-nica cattolico baco riso zio golfo piano faro bestemmla schegglazappare salma bilancia borgo scavare benedizione prete papa pepesenape ampolla seppia delfino carta pietra inchiostro cetra nervozampogna geloso colla borsa càntaro scheggia olio spada gesso po-lipo prezzemolo aria grotta garofano negromante cocchiere coppa; epoi chiesa basilica battesimo epifania monaco eremo eremlta chierl-co angelo parola martire anatema esorcismo catechismo eserciziodiacono aristocrazia apostolo presbiterio diavolo evangelo episco-pale. Dall'ebraico, attraverso il greco, derivano messia serafino che-rubino sabato amen aUeluia osanna, ecc. Dall'arabo abbiamo, anche attraverso la Spagna latinizzata: aran-cio albicocco alchimia alcool alcova ambra assassino gelsomino ri-camare scirocco sciroppo talismano zafferano cotone zenit libecciomagazzino limone arsenale taccuino melanzana ammiraglio zucche-ro alambicco giara zàgara cifra auge zibibbo, ecc. Il lessico gemmanico, importante per la sua influenza sulle lingueromanze, è presente nell'italiano con alcune centinaia di vocaboli.L'invasione teutonica (popoli Eruli, Ostrogoti, Longobardi) dei terri-tori romani nel v e VI secolo esercita in due secoli un'influenza rima-sta estema alle parlate italiche, da cui viene assimilata: per esempio,nel caso delle parole gotiche haban e arjan, divenute avere e arare. Del gemmanico non rimangono nella nostra lingua grandi tracce;tanto che la sua presenza in Italia è misurabile solo ricorrendo alla fo-netica del gotico o tedesco antico. Vi sono casi in cui la voce latina siconnette alla gemmanica dando luogo a parole come guastare e qua-drare, nate dalla fusione delle gotiche wastjan e watan con le latinevastare e vadare. Sul latino prevale il tedesco antico in parole qualitirare (dal gotico tairan, latino trahere), stormo (sturm, lat. turma),arrostire (rostjan, lat. perustare), ecc. Tra i vocaboli passati direttamente dal germanico all'italiano: he-riberga albergo, helm elmo, strala strale, haakbus archibugio, scaraschiera, bara bara, krapfo grappa, haf gufo, latta latta, mark marca,melm melma, shafe scaffale, triuwa tregua, scherzen scherzare, scran-na scranna, sparwari sparviero, zupfen zuffa...

3. Primi documenti del volgare

Gli elementi, pur frammentari, prima evidenziati spiegano la mo-bilità che caratterizza il farsi della lingua italiana e il disfarsi di quellalatina.

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Il lento distacco del neolatino dal latino si può considerare presso-ché completo nell 'vIII secolo, come testimoniato da alcuni documen-ti. I primi di essi sono rinvenuti in Francia, nel Canone del Conciliodi Tours dell'813 (che prescrive ai preti di usare nelle prediche nonpiù il latino ma la rustica romana lingua, cioè il volgare parlato dalpopolo: ciò non significa che l'unità latina non sia mantenuta per usoprivilegiato) e nei Giuramenti di Strasburgo (842). In questi, chesono forse il più antico scritto della letteratura francese, si mescolanofrancese, italiano e latino, per influsso del quale è assente l'articolo. In Italia, le prime parole in volgare si trovano in una serie di iscri-zioni. In una di queste, nel 392, si legge la parola pi~zinnina (piccini-na) per indicare una fanciulla. In un'altra, del 404, per la parola latinaaugustas, la colloquiale agustas. Tracce di parlato anche in diciture del523 e 551, dove va scomparendo la sintassi latina, e in una Carta pi-sana (730) che detta: De uno lato corre via publica... Il volgare, che si sviluppa in modi di dire trasferiti nel tessuto ver-bale latino, ha una sua cospicua espressione scritta in un codice oggiconservato nella biblioteca Capitolare di Verona. Si tratta d'un indo-vinello risalente all'inizio del Ix secolo: Se pareba boves, alba prata-lia araba,/ et albo versorio teneba,/ et negro semen seminaba («Spin-geva avanti i buoi, un campo bianco arava/ e un bianco aratro tene-vaJ e seme nero seminava»). I buoi significherebbero le dita delloscriba, il campo bianco è la pergamena, I'aratro è una bianca pennad'oca, il nero seme è l'inchiostro. La lingua di queste rime è stata letta come rustica e semipopolare,oppure già appartenente al volgare nuovo. In tale ipotesi, si notino leo (invece di um) alla finale delle parole albo versorio negro; la e (in-vece di i) in negro; la caduta della t nei verbi rimanti pareba (neolo-gismo, da parere: nel significato di «spingere», ancora oggi usato nelSettentrione d'Italia. Così come il termine versòr, in uso nella Vene-zia euganea), araba, teneba, nominaba. E inoltre assimilabile all'usovolgare l'iniziale se invece di sibi. Del principio del x secolo è il Glossario di Monza, 63 parole italia-ne settentrionali (Italia padana) tradotte in greco. Con la Carta capuana del marzo 960 si è in presenza, per la primavolta, di una frase italiana, una testimonianza di giuramento formula-ta da un giudice ai testimoni: Sao ko kelle terre per kellefini que kicontene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti («So che quelleterre, con quei confini che qui si contengono, le possedette per tren-t'anni la parte di San Benedetto»). Si tratta della prima di quattro sentenze giudiziarie, emesse in Cam-pania. Le altre tre sono sottoscritte, una a Sessa e due a Teano, nel 963.Esse, riguardanti i beni di tre monasteri dipendenti da quello di Mon-tecassino, prendono il nome di Placiti cassinesi (dal latino plàcitum,parere, opinione). La loro lingua può definirsi «volgare illustre» peri latinismifini (dafines confini), parte Sancti Benedicti e sao (formaidiomatica non capuana, che sarebbe stata saccio o sacce, ma più set-tentrionale). Ko è volgare campano, derivato da quod, così come kel-le e ki (invece dei toscani quelle e qui). Su tali basi, va osservato chealla frantumazione della latinità non corrispondono ancora spinteverso una generale uniformità linguistica. Nel 1030, i Normanni, originari della Scandinavia ma di linguafrancese, si stanziano nell'Italia meridionale (Aversa), prima d'ini-ziare, nel 1061, la conquista della Sicilia, cui sarebbe seguita l'occu-pazione della Calabria e della Puglia e l'incoronazione di Ruggero 11di Altavilla ( 1130). Dal 963 passerà più di un secolo prima di reperire altre fonti data-bili. Nel 1084, a Roma, vengono trovate nella basilica di San Cle-mente frasi, o contumelie, in un affresco di pittore ignoto dove un per-sonaggio dice ai propri servi: Fili de le pute, traite!/ Gosmari, Alber-tel, traite!/ Fàlite dereto co lo palo, Carvoncelle! («Figli di puttana,

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tirate!/ Gosmari, Albertello, tirate!/ Fagli dietro col bastone, Carbon-cello! »). Da registrare, poi, due Carte sarde nel 1086 ca., in cui si sente l'in-fluenza del toscano; la Formula di confessione, risalente al periododal 1040 al 1095, di un codice dell'abbazia di Sant'Eustizio vicinoNorcia, ora contenuta presso la Vallicelliana di Roma; le tre righe involgare (1087) della Postilla amiatina del notaio Rainerio su un attorogatorio scritto in latino per l'abbadia di San Salvatore (MonteAmiata); una scritta del 1135 nel duomo di Ferrara; tre iscrizioni(tra il secolo xl e il xII) in chiese di Vercelli e Ferrara; una Carta pi-sana (xsecolo), ora presso la Free Library di Filadelfia; una Perga-mena volterrana (1158) contenente due formule giudiziarie; la Cartafabrianese del 1186 e il Ritmo laurenziano (fine XII secolo). Questo,attribuito a un anonimo giullare e conservato in un codice della bi-blioteca Laurenziana di Firenze, è forse la più antica poesia in volga-re. Si tratta dell'elogio «cantilenato» a un vescovo cui si chiede il donod'un cavallo: Salva lo vescovo senato,/ lo mellior c'umque sia nato[...] («Salva [o Dio] il vescovo assennatoJ il miglior che mai sianato»).

Nel 1162, Federico Barbarossa invade e rade al suolo Milano. Col-locabile nel 1190 ca. è una poesia in dialetto genovese del provenzaleRaimbaut di Vaqueiras (italianizzato in Rambaldo), un poeta che inseguito utilizza un mistilinguismo virtuosistico in cui coesistono, ol-tre al provenzale, I'italiano settentrionale, il francese, il guascone e ilgalego-portoghese. Del 1193, scritta nell'abbazia di Fiastra, I'epigra-fe in volgare su un contratto notarile di vendita. Dello stesso anno è ilRitmo bellunese, che celebra una vittoria militare sui Trevigiani. Unapostilla in volgare del notaio Gerardo di Pistoia attesta, nel 1195, unarestituzione di usura fatta dal tal Gradalone. Della fine del xII secolo sono Ventidue sermoni in dialetto piemon-tese; tre versi in italiano meridionale a conclusione di un Lamento diMaria; un'Elegia in dialetto italiano centro-meridionale, scritta incaratteri ebraici; un elenco dei beni della chiesa di Fondi; il Ri~momarchigiano sulla vita di Sant'Alessio; scritte in volgare calabrese suuna carta di Rossano; il Ritmo cassinese, con parole quali micata (dallatino mica) briciola, manicate mangiate, bostra vostra, qualecum-qua qualunque, e quelle in perfetto volgare amorose saporose purga-ta preparata assimilate. Dell'inizio del xIII secolo, le 189 quartine antifemminili dei Pro-verbidefemenedianonimoveneto.Del 1211,1epartid'unregistrodibanchieri fiorentini, dove, tra l'altro, si legge: A mesere Kancillieriprestammo soldi IJ in sua mano: abiamo posto sotto sua rascione ovedie avire. A Manetto Passarimpetto prestammo soldi IJ in sua mano.Aldobran, item ci die soldi xx levammo di ssua rascione ove die avireper Bonaquida Forestani. La prevalenza del volgare, ormai palese, assume un suo punto diforza nel toscano e, particolarmente, nel fiorentino che, per la sua omo-geneità espressiva, è il più prossimo al latino.

Cos 'è allora una lingua? «Una lingua - ha scritto un grande studiosodi lingue romanze, A. Brun - è un dialetto che ha avuto successo.»Ma si ricerchino gli antefatti d'un tale successo...

Dal '200 al '300

1. Dal provenzale al Novellino

Il secolo Xlll segna in Italia, con ben due secoli di ritardo rispettoalla Francia, I'inizio dell'affermazione del volgare: non solo tra il po-

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polo ma anche nella letteratura. Il ritardo è dovuto, prima di tutto, alfrazionamento nazionale, alla mancanza nel nostro paese di un'unitàpolitica e, di conseguenza, d'una lingua comune. Una seconda e nonmeno rilevante ragione è il perdurare della tradizione letteraria clas-sico-latina, sostenuta dai dotti e soprattutto dal ceto ecclesiastico. Lloro il rigido monopolio d'ogni campo culturale, dalle scienze allascrittura letteraria. Mentre la lingua parlata segue la sua evoluzione naturale, quellaletteraria rimane privilegio di pochi. Un varco alla fruizione popola-re della poesia viene aperto dai trovatori che, sulla scia di Rambaldodi Vaqueiras, iniziano a operare sul territorio italiano, per lo più inrappresentazioni di piazza, scrivendo e recitando le loro composizio-ni in lingua d'oc. Insieme alla langue d'oi?, quella d'oc è la lingua della letteraturamedioevale francese. La lingua d'oil, detta anche oitanica, è parlatanella Francia centrosettentrionale; la lingua d'oc, o occitanica, pro-fondamente latinizzata, è usata nella Francia meridionale e special-mente in Provenza. I termini oi? e oc significano sì o, genericamente,risposta affermativa, e derivano dal latino: oi? da hoc hille e oc dahoc. Della lingua d'oi? fanno parte le opere classiche e quelle del ci-clo carolingio e bretone. Classiche sono le opere su fatti e personaggidell'antichità; al ciclo carolingio appartengono i poemi epici che nar-rano le imprese di Carlomagno e dei suoi paladini contro i Saraceni(Chanson de geste: cfr. Chanson de Roland, 1080 ca.); del ciclo bre-tone sono i poemi in versi e in prosa d' avventura, cavalleria e magia(leggende di Tristano e Isotta, di re Artù e dei Cavalieri della Tavolarotonda). La lingua d'oi? ha influenza in un settore ristretto della lin-gua italiana, che si mescola col francese producendo una letteraturadetta franco-italiana (oppure franco-veneta). Deriva da questa il poe-ma mistilingue Entrée d'Espagne di anonimo padovano, con l'ag-giunta di 131 versi ad opera del poeta in lingua franco-italiana Nicco-lò da Verona (XIV secolo). Un'influenza maggiore, attraverso i poeti provenzali stanziati in Italia, è invece esercitata sulla nostra letteratura (nonché sulla liricaitaliana dalla Scuola siciliana agli stilnovisti, a Petrarca), dalla secon-da metà del XII secolo ai primi decenni del successivo, dalla langued ' oc delle parlate sud-orientali della Francia, ora assorbite dai dialet-ti (patois). Tale influenza è attestata verso il 1240 da una grammaticadella lingua dei trovatori, Las razos de trobar del catalano Vidal, edalla grammatica, con rimario della lingua d'oc, Donats proensalsdel provenzale Uc Faidit. Questi due libri hanno meritato una nuovaattenzione da parte degli studiosi che, attraverso un approfondi-mento degli interscambi tra Andalusia arabizzata e Provenza, van-no individuando un possibile influsso arabo sulla poesia dei trova-tori. Del resto, non mancano nelle liriche arabe equivalenze metri-che con le composizioni dei trovatori. Così come sono presenti cor-rispondenze tra le teorie delfin'amor (amor cortese) trobadorico eil senhal degli arabi che sostituisce il nome dell'amata con altronome. Lo stesso Dante sembra ricorrervi quando, per non rivelare ilnome di Beatrice, inventa la «donna dello schermo». Usata nella poesia d'arnore e politico-satirica, la lingua d 'oc attuauna tecnica letteraria che s 'avvale di forme considerate talvolta oscu-re (trobar clus: dove trobar significa comporre). I trovatori italiani(tra cui il bolognese Buvalelli, i genovesi Cigala e Calvo, il mantova-no Sordello da Goito), poeti in lingua d'oc - distinti dai trovieri (inlingua d'oi?) -, che scrivono in provenzale, inventano i generi lettera-ri della canzone, del serventese e del contrasto. Spianano inoltre la stra-da a due testi in francese come il Trésor di Brunetto Latini, un poemaallegorico-didascalico-enciclopedico in oltre duemila settenari rima-ti a coppia, e il Milione (o Livre des merveilles du monde), libro diviaggi in Oriente scritto dal veneziano Marco Polo.

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Il fenomeno dell'espressione in lingua francese va visto come untentativo d'interrompere la sclerotizzata continuità della tradizionelatina scritta. Allo stesso modo, un'alternativa al latino convenziona-le va considerato il ricorso di Francesco d'Assisi al volgare umbronel Cantico delle creature (1225 ca.), salmo in prosa ritmica e rimelibere, con influenze toscane e latine. Uno stretto legame con la lingua di Francesco, in cui è già manife-sta la costruzione lessicale italiana, ha quella, linguisticamente piùcomplessa, di Iacopone da Todi. Nelle sue Laudi si ritrovano terminilatini acquisiti nell'italiano (angustiare appetire), latinismi (arboreludo transire), ibridismi latino-volgari (lengua renno), neologismi(derenzione morganato decetto), coniazioni provenzali (amanza ami-stanza dolzore fallanza piacenza), dialettismi toscani (entrasatto en-camato), sostantivi aggettivati. Minore risalto letterario e cospicuo valore innovativo nella nuovalingua ha il Novellino (fine XIII secolo). Rispondendo al principio della brevitas della retorica medioevale, esso nasce dal parlato, dallebiografie (vidas) e dalle novelle in versi (novas) dei trovatori proven-zali. Nella sua strutturazione ternaria del periodo (soggetto predicatocomplemento) costituisce una solida base della tradizione prosastica.Di esso si segnalano alcuni lemmi per evidenziare la mescolanza del-le fonti lessicali: allettare adescare, apputidata puzzolente, attoscatoavvelenato, badalucchi baruffe, bellore bellezza, berbìci pecore, bocevoce, catuno ciascuno, commendare elogiare, cornille cornacchie,donneare corteggiare, donno signore, dottanza paura,far lafica por-re il pollice fra l'indice e il medio (in gesto sconcio, fatto stendendoil braccio), feggia faccia, gabbo burla, giucolare giullare, pergamopulpito, putta meretrice"en niente, tortori torturatori, trescare balla-re, uguanno quest'anno, verno inverno, ecc. Nasconc in latino neologismi passati nel volgare: universitas uni-versità, facultas facoltà, realis reale, sensualis sensuale, rector ret-tore... Dal latino al volgare le parole apostulus apostolo, doctrinadottrina, aeternus eterno, zodiacus zodiaco, cibus cibo, liber li-bro, ecc. Penetrano nel volgare i gallicismi marciare assise vassal-lo oste ostaggio cuscino gioiello mestiere preghiera omaggio de-manio, ecc.

2. I Siciliani

Un'importanza considerevole nella formazione della nostra lin-gua riveste la cosiddetta Scuola siciliana, sorta a Palermo presso laMagna curia di Federico II di Svevia. Intanto Firenze, coi suoi mer-canti e banchieri, s'avvia ad uscire dal suo isolamento e a diventare,dopo la battaglia di Campaldino ( 1289), capitale economica europea. Subentrata alla monarchia normanna, quella sveva dà un forte con-tributo al distacco dal latino e alla nascita dell'italiano. La ragione diciò può in parte ricondursi alla politica, tenuto conto che Federico II,imperatore ghibellino avverso alla Chiesa, individua nel latino la lin-gua dei suoi avversari, che ne hanno fatto anche uno strumento di po-tere. Egli stesso poeta, è molto favorevole all'instaurarsi d'una «scuo-la» che, senza utilizzare la lingua d'oc, riprenda i contenuti proven-zali della poesia d'amore riversandoli nel volgare siciliano. Così, datolo scarso rilievo della letteratura didascalica dei trovatori dell'Italiasettentrionale, è in Sicilia, in un'atmosfera laica di libertà e aperturaai popoli e alle culture del mondo, che il volgare ha il suo primo cen-tro propulsivo. Ne sono protagonisti, oltre a Federico - ricordato daDante, nel Convivio, come «ultimo imperadore de li Romani» -, altifunzionari, taluni non siciliani, della corte sveva: Pier della Vigna,Guido e Odo delle Colonne, Giacomino Pugliese, Rinaldo d'Aquino,il figlio di Federico re Enzo e Iacopo da Lentini, cui è attribuita l'invenzione del sonetto (dal provenzale sonet, «piccolo suono»), com-

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posizione di quattordici versi endecasillabi variamente rimati, divisi indue quartine e due terzine. Tali autori sono i primi a elevare il volgare a valore d'arte. La pe-culiarità dei poeti siciliani è nella loro valorizzazione d'un costumeletterario nuovo, capace di conferire dignità culturale anche al dialet-to, «ripulendolo» da localismi e plebeismi. Il modello da loro proposto, che sta alla base dello Stilnovismo, hasubìto adattamenti all'uso toscano nei testi tramandati dai copisti.Questi, per esempio, hanno trasformato aviri in avere, sirviri servire,usu uso, amurusu amoroso, eu io, ca che. Nel caso di alcuni frammenti di re Enzo si ha, nella trascrizione to-scana, un completo stravolgimento lessicale. Come dimostra il cam-biamento dei seguenti versi: La virtuti ch'illi avi/ d'alcirm'e guariri/a la lingua dir nu l'auxu/ per gran timanza ch'azu nu li sdigni; chediventano: La vertute ch'il'ave/d'ancidere me e guerire/a lingua direnon l'auso/ per gran temenza ch'agio no la sdigni. Oppure i versi: Tut-ti li pinsaminti/ chi 'I spirtu meu divisa/ sunu pen'e duluri; così co-piati (e praticamente «tradotti»): Tutti quei pensamenti/ ca spirti meidivisa,/ sono pene e dolore. Per verificare la strutturale sicilianità degli scritti poetici della Ma-gna curia, è allora opportuno esaminare un testo che ha conservato ingran parte la sua coloritura originaria. Si tratta della canzone in anti-co siciliano Pir meu cori alligrari del messinese Stefano Protonaro:Pir meu cori alligrari,/ ki multu longiamenti/ senza alligranza e ioid'amuri è statu,/ mi ritornu in cantari/ ca forsi levimenti/ da dimu-ranza turniria in usatu/ di lu troppu taciri: pressoché tutto, anchenelle parti qui non riportate, di foggia siciliana. Vi si può riscontrare, conl'influsso trobadorico-provenzale (amistanza amistate drudo alli-granza dimuranza pascore dimustranza simblanza, ecc.), una selvadi forme siciliane: cori ritornu forsi troppu cantari mustrari sirìa(sarei) sempri pocu valuri cantau (cantò) diviria (dovrei) preju (gio-ia) jujusu (gioioso) billizzi pinari amari miraturi (specchio) suffru(soffro) unuri autru (altro), ecc. Si noti, nella finale delle parole, ladifferenza vocalica dall'italiano. Accanto al raffinato lessico dei poeti della corte federiciana, esistein Sicilia una poesia popolare che si esprime in ballate, cantàri e con-trasti. L'espressione più nota è quella di Cielo d'Alcamo, autore delcontrasto (nel caso, una «tenzone» a due voci fra amanti) Rosa frescaaulentissima, collocabile tra il 1231 e il 1250. Si tratta d'un gioco ver-bale, davvero mirabile nella sua autonomia anticonvenzionale, mi-mante la retorica persuasiva adoperata da un giullare per convincereuna ragazza a concederglisi (non mi difenno/ [...]/ a voi m'arrenno -lei dice, infine). La lingua utilizzata è riconoscibile, a parte alcuni adattamenti dei copisti, come dialetto di base messinese. Un dialettostilizzato e mescidato con quello di province dell'Italia meridionale,col francese (gueri, mon peri, ecc.), col provenzale e con taluni etimiarabo-ispanici. La Sicilia rimarrà isolata dall'Italia dopo la pace di Caltabellotta(1302), che sancirà un autonomo regno di Trinacria. Tale isolamento,che riporterebbe a una situazione linguistica prefedericiana, sarebbedimostrato dall'interesse per un vocabolario latino-siciliano (LiberDeclari, 1348) di Angelo Senisio se non ci fosse, a testimonianzad'una tradizione siciliana letteraria autonoma, unLibru de lu dialugude santi Gregoriu (XIV secolo).

3. Lingua della scuola toscana. Dolce stil novo. Prevalenza del fiorentino

Nel 1250 muore l'imperatore ghibellino Federico II e, nel 1266, aBenevento, suo figlio Manfredi cade in battaglia, sconfitto da Carlo

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d'Angiò chiamato in Italia da papa Clemente IV. Nel 1260 - anno della sconfitta a Montaperti dei guelfi a opera deighibellini e dell'uscita in dialetto romanesco del Miracole de Roma,rielaborato sui Mirabilia Urbis Romae -, era nato il movimento deiFlagellanti, cui si deve un insolito genere di canti religiosi. Dopo la caduta della Sicilia e del Meridione sotto il dominio an-gioino, il primato del volgare comincia a passare alla Toscana. Firen-ze è isolata ma non troppo lontana dal diventare, con Bologna, il cen-tro più insigne della cultura italiana: nel quale si riprodurrà, sotto al-tro segno, I'esempio additato da Federico II, che nel '400 avrà in Lo-renzo de' Medici un pur minore epigono. Dall'uso linguistico dei poeti siciliani giungono in continente, connuovi procedimenti stilistici e contenuti tematici, parole non più isti-tuzionalizzate in uno schema e l'esigenza d'un uso vivo della lingua. Nel prevalente bilinguismo, hanno entità le prove di Guido Faba dineutralizzare la polarizzazione linguistica nell'idea d'una grammati-ca del volgare, e di Guittone d'Arezzo. Sull'esempio dei Siciliani, dai quali riprende le forme liriche e me-triche, Guittone sperimenta un volgare riccamente ornato e attentoalla qualità estetica della parola. A una medesima tendenza sono as-similabili il lucchese Orbicciani, il senese Folcacchiero, i pisani Ab-bracciavacca e Dal Bagno, i fiorentini Dante da Maiano e Chiaro Da-vanzati. E Davanzati che marca il passaggio fra il volgare letterarioguittoniano e lo Stilnovismo. Il Dolce stil novo - così chiamato da Dante Alighieri nel Purgato-rio (c. xxlv, v. 57) - nasce alla scuola del bolognese Guido Guiniz-zelli, dapprima seguace di Guittone, e introduce il nuovo stile. Cavalcanti, Lapo Gianni, Frescobaldi, Cino da Pistoia e lo stessoDante determinano le caratteristiche del Dolce stil novo. Dove dolcesia inteso nel significato di gentile, delicato, melodico; stile nel sensodella peculiarità; novo perché diverso dalla poesia siciliana e guitto-niana. La concezione stilnovistica dell'amore ha un fondamento filosofi-co nel pensiero di Platone e Tommaso d'Aquino e lo Stilnovismo hail suo caposcuola in Guinizzelli, la cui scrittura ha saputo rendere su-perata quella dei predecessori. La sua canzone Al cor gentile rempai-ra sempre Amore, composta di sei strofe, ciascuna di dieci versi en-decasillabi e settenari, presenta emilianismi, francesismi, ispanismi,latinismi, ma all'interno di un volgare inedito: limpido e specchiante. In Cavalcanti, adepto - e perciò stilnovista anomalo - dell'aver-roismo negatore dell'immortalità dell'anima, la poesia è anche unarealistica, fine psicologia dell'irrazionalità distruttiva dell'amore.Persistono nei suoi testi provenzalismi, echi della rima siciliana, for-me non dittongate (vène sostene core dole fòre loco foco). Tipico degli stilnovisti è infine, oltre al teorizzare poetando e all'os-sessiva metaforizzazione amorosa, la persistenza di parole connotan-,i un sentimentalismo senza infingimenti: bella bellezza avenente ador-nezze gioia madonna adorna amorosa amante amore preziosa genti-le vertute diletto splendore pietate soffrire anima leggiadria piacerriso pianto desiderosa sospir' cortesia doglia disio 'nnamora, ecc. Durato dal 1280 al 1310 ca., lo Stimovismo si chiude con Dante, chesegna il mutamento di direzione della lingua italiana. Questa è oracaratterizzata dalla trasformazione e realizzazione in volgare lettera-rio dei dialetti, mancanti d'una tradizione culturale. E inoltre conce-pita in senso unitario e come uno strumento operativo non solo per lacomunicazione orale ma anche per la concreta realizzazione di ope-re. Così diventano echi sempre più lontani, relitti pressoché inutiliz-zabili dalla nuova lingua, le parlate isolate e le esperienze letterarieesterne al prevalente toscano. Pur non mancando, in ogni parte delterritorio italiano, realizzazioni che affermano ulteriormente il distac-c~o dal latino e la crescita d'interesse per le parlate regionali e locali.

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E questo, varcato l'anno 1300, dopo i Vespri siciliani del 1282, unmomento in cui il volgare ha un vocabolario assai esteso, forse noninferiore alle quindicimila parole. Sono parole che sorte e trasforma-te nel parlato e nella scrittura, infine pienamente significanti, contri-buiscono a formare un vocabolario di sostantivi, aggettivi, verbi eneoconiazioni che, anche coi numerosi latinismi, gallicismi, orientali-smi, germanismi, ecc. si presenta quanto mai ricco e vario. In mancanza di un'unità politica e sociale, è insomma lungo unversante principalmente letterario che l'italiano va affermandosi qualelingua comune. E certo non poteva essere altrimenti se, al pari di qualunque altra attività umana, la letteratura può considerarsi non privi-legio di pochi ma, con la lingua, uso di tutti. Se è vero, poi, che essanasce dalla prevalenza di un dialetto sugli altri, è anche vero che il fio-rentino viene comunemente assunto e, infine, parlato e scritto: nel Me-ridione perché sentito affine, nel Settentrione perché giudicato supe-riore per qualità letteraria. Qualità esaltata da Dante, che ancora pro-ietta la sua ombra su tutta la storia dell'italiano.

4. Dante Alighieri

Agli inizi del secolo XIV, il più importante per l'evoluzione dellanostra lingua, Dante svolge alcune tesi linguistiche che rimarranno ingran parte valide fino all' 800. E significativo che nel De vulgari elo-quentia ( 1308 ca.) egli prenda posizione a favore del volgare (locutiovulgaris) in quanto naturale (naturalis), variabile nel tempo e nel diredei parlanti. Esso - afferma il poeta - è più nobile (nobilior) del lati-no, da considerare lingua artificialis. Ciò anche se prima, nel Convi-vio (1307 ca.), identificava il latino con la grammatica giudi~andolo,per la sua stabilità espressiva, superiore al volgare. Il Convivio teorizza quattro sensi della scrittura: letterale, fissato alleparole, allegorico, che nasconde la verità con una «bella menzogna»;morale o pedagogico; anagogico o sovrasenso, cioè metafisico. Il capovolgimento del giudizio sul volgare non è da giudicare unagrave contraddizione quanto un esito degli approfondimenti di Dan-te, autore bilingue, sull'uso del latino e del volgare. Il De vulgari è scritto in latino per convincere i dotti delle qualitàdel volgare da loro spregiato. Salvo la fantasticheria su un volgareoriginario parlato da tutti e identificato nell'ebraico, Dante argomental'ipotesi che, dopo la punizione divina contro la torre di Babele, sisiano formate tre grandi lingue: la greca, la germanica e la lingua eu-ropea sud-occidentale. E da quest'ultima che nascono la lingua d 'oc,la lingua d'oil e la lingua del sì, assimilata all'italiano, privilegiatosul francese e sul provenzale. Egli passa poi alla divisione dei dialettiitaliani in quattordici gruppi distribuiti sui versanti tirrenico e adria-tico. Per Dante, che, da poeta, utilizza criteri esclusivamente estetici,nessuno di questi dialetti ha meriti di lingua letteraria. Sono pessimiil marchigiano, lo spoletino e il romanesco, peggiore di tutti; non sonobuoni il milanese e il bergamasco, il friulano e l'istriano, il casentine-se e il frattegiano, il genovese, il veneto e il sardo; né sono idonei idialetti meridionali, troppo barbari, il siciliano alla maniera di d'AI-camo e il toscano. Resta valorizzato solo il bolognese per le femmi-nee dolcezze attinte dalla favella di Imola e la garrulitatem derivatadal modenese e ferrarese. Dopodiché, classifica l'utilizzazione del volgare in tre figure: I'illustre, relativo alla canzone e alla tragedia; il mezzano, per la bal-lata e la commedia; I 'umile, adatto all'elegia. Poi si concentra solo sul-lo stile tragico, escludendo l'elegiaco e il comico classificabili in unvolgare umile e mediocre. L'attenzione di Dante converge sull'ideale letterario illustre, ricer-cato non in una lingua precisa né in qualche mescolanza di lingue ma

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immaginato a fondamento d'un volgare «cardinale», «curiale», «au-lico»: fatto per concentrare in sé i migliori esiti dei maggiori autori.Un ideale letterario e non derivato dal parlato basso, quello espressoda Dante. Un ideale fisso alla lirica, artisticamente alta, della Scuolasiciliana integrata dalla tradizione poetica duecentesca bolognese,toscana e fiorentina. Ma che fisso non è del tutto tenendo conto cheDante è per un volgare dulcius subtiliusque, per un uso illustre sia inprosa sia in versi (Latium vulgare illustre tam prosayce quam metricedecera proferri): per un'apertura ai vocabula nobilissima dominatidalla serie amore donna letitia defesa donare... Emerge la dantesca coscienza della funzione preminente degliscrittori nella formazione di una lingua, dunque. Che poi Dante riman-ga ligio alla teoresi contro la mescolanza degli stili è negato dalla suaopera maggiore, la Divina Commedia (1304-'20 ca.), dove stili, ge-neri e idiomi si mescolano incessantemente. Né Dante teme di con-traddirsi quando, nella Commedia, in nome delle superiori esigenzedell'opera utilizza parole in qualche caso deplorate nel De vulgari:manichiamo introcque mamma babbo salute disio greggia cetra ter-minommo corpo femmina... Nel ritmo delle sempre serrate ed essenziali terzine della Comme-dia, il codice è ora plebeo, ora sublime, filosofico, teologico, scienti-fico. Parole in disuso, toscane e fiorentine, si mescolano con proven-zalismi, coi dialetti e i gerghi i settentrionalismi e i meridionalismii latinismi (circa cinquecentoj, i gallicismi (alcune decine), i neologi-smi via via coniati. Il tono è ora solenne ora colloquiale dolce o bef-fardo e aspro, narrativo o didascalico, serio o grottesco, iirico o comi-co. L'insieme lessicale è plastico, puntuale, sempre aderente alle cose,nitido, quasi lapidario, con solide basi nel modello fiorentino. Neconsegue un vocabolario imponente quanto stabile, del quale si ri-portano qui alcune forme oscure, di antica derivazione o neologismi:accaffare arraffare, accarnare accertare, accattare ricevere, acquista-re, acceffare mordere, adduarsi accoppiarsi, adizzare incitare, ado-nare abbattere, aggueffarsi raggrupparsi, alleluiare cantare alleluia,arrostarsi dibattersi, avolterare adulterare, beninanza bontà, biscaz-zare giocare,festinare affrettarsi,fiata volta,flaillo flauto, gualdanascorreria, inluiarsi fondersi con lui: Dio, insuarsi elevarsi a Dio, lut-tare piangere: da lutto, mergere piegare, nosco con noi, oblivioneoblio, oltracotato tracotante, paro.,~a parrocchia"obbio rosso, sitireaver sete, tranare trasportare. E poi immiare intuare inleiarsi intre-iarsi immillarsi insemprarsi imparadisare; e ingigliare rinvagnareinurbarsi transumare appulcrare... Multilingue e multistilistico, il volgare dantesco è la prova che nonesiste grande innovazione letteraria, con quanto questa implica in ter-mini conoscitivi, senza un impegno sperimentale che sfrutti tutte lepossibilità linguistiche e pretenda il più ampio pubblico di lettori al-tresì «parlanti». E allora per questa sua capacità di fissare una genea-logia del linguaggio e di trasformare la tradizione in innovazione cheDante si legittima «padre» dèlla lingua italiana.

5. Petrarca e Boccaccio

Dopo il riconoscimento del toscano come la più intelligibile fra lelingue letterarie (Lingua tusca magis apta est ad literam sive litera-turam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibi-lis - fflerma Antonio da Tempo, padovano), è il fiorentino non mu-nicipale di Dante che conclude la sotterranea guerra tra dialetti. Irra-diante dal centro dell'Italia, il fiorentino ha assimilato il latino eistituito la tradizione scritta intermunicipale fino ai nostri tempi.Ferme restando le frammentazioni e differenze dialettofoniche frai parlanti. Dopo gli inizi letterari, il volgare entra nelle scritture pubbliche,

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negli atti notarili e cancellereschi, prima come traduzione dei docu-menti uff1ciali, redatti in latino, e più tardi a pieno diritto. Se può os-servarsi che la toscanizzazione e fiorentinizzazione è completa neitesti letterari, rimane tuttavia ne11a classe intellettuale l'incertezzad'una scelta fra latino e volgare. Questa condizione di ancora austero bilinguismo ha in FrancescoPetrarca il protagonista più tormentato. Al punto che, a differenza diDante che ha sentito l'urgenza d'una espressività nuova e calata nelreale, Petrarca giunge alla scrittura in italiano - peraltro elevata, for-se perfetta - quasi casualmente: magari per bisogno di emotiva co-municazione più che per ragioni letterarie. Si può dire perciò che ilsuo Canzoniere amoroso lo fa pervenire, attraverso il «cuore» - siapure saldamente controllato dalla ragione -, a un volgare che il suoumanesimo intellettualistico e intransigente rifiuta d'accettare. Lasua prosa, privata e pubblica, resta ferma a un latino tecnico, lavoratocon classicissima, ciceroniana e virgiliana accuratezza retorica. Un la-tino scolastico, senechiano e oraziano, riservato a pochi eletti, nemi-co dei barbarismi utilizzati da Dante pur convinto di scrivere nel la-tino delle scholae di morfologia classica. In tal senso, si ha con Pe-trarca un rovesciamento del rapporto fra italiano e latino, con la ri-proposizione del primato di quest'ultimo. Celebre e un po' sospetta la sua dichiarazione su Dante, definito poeta ragguardevole ma trop-po dedito al volgare e a un'opera che ha avuto - scrive Petrarca - solo«I'applauso e gli schiamazzi dei tintori, degli osti, dei cardatori, e d'al-tri la cui lode è un insulto [...,] poiché so quanto valga presso i dotti lalode degli ignoranti» (traduzione dalle Prose). Ma una cosa sono le teorie e.. .1' invidia, altro è la pratica. Di fatto,Petrarca, spregioso della lingua dantesca, talvolta «li'oera» e «lasciva»,rimane nella storia della lingua e della letteratura per il suo volgaresobrio e illustre, d'arduo costrutto ma trasparente nel lessico, conbasi stilnovistiche toscane. Volgare come arte melodica della parola,che ne esce unitaria e antisperimentale, più catafratta, se possibile, diquella dantesca, e per intero letteraria. Lo spigoloso, affemmativo, gotico Dante inventa le parole e il mol-le, introverso, irresoluto Petrarca le sceglie calcolatamente. I due mo-delli saranno poi posti in faziosa contrapposizione da non pochi po-steri, increduli che la lingua sia «una» e la poesia pure.

Tra la spinta progressiva di Dante e le resistenze puristiche di Pe-trarca si colloca Giovanni Boccaccio, tra quelli che hanno conosciutoe potuto raccontare la «mortifera pestilenza» che nel 1348 colpì Fi-renze e il suo contado. Adifferenza degli altri due, egli, autodidatta dicultura classica, amico di Petrarca e ammiratore di Dante, per lo piùcompone in una prosa che nel secolo XVI sarà esaltata dal conservato-re Bembo. Questa, scritta in volgare, presenta, soprattutto nell'operaminore, una pedissequa sintassi latina: decorativa, ridondante, invo-luta, alessandrina. Un parziale cambiamento avviene col Decamel one ( 1349-'51), pa-rola derivata dal greco, significante «di dieci giomate»: cento novel-le che, variando toni e stili, si rivolgono a un pubblico diverso daquello feudale configurato da Dante; un pubblico prossimo all'Uma-nesimo e identificabile nella classe nobiliare che cambia e nella nuo-va borghesia del «popolo grasso» dei mercanti. Il periodo altema analisi e sintesi, intonazione aristocratica e viva-cità realistica, dramma e farsa. La lingua s'approssima al «fiorentinvolgare», secondo le intenzioni dello stesso autore: che ricorre anchea latinismi, provenzalismi, fiorentinismi (bischero grifare troiate,ecc.), gerghi settentrionali (utèl bèrgoli) e meridionali (giucare mo-gliama mogliera moglieta menne gabbo guagnele), neologismi (ar-tagoticamente imbardirsi merendarsi misleale misvenire moscoleatopecoreccio picchiapetto pillincione scipapa strangugliare tututto).

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Caratteristiche le forme al plurale le veni, le spini, ecc. La collocazione, alla maniera siciliana, del verbo a fine frase è unaltro aspetto del volgare latineggiante con cui Boccaccio, inauguran-do e vincolando a sé i successivi modelli della prosa italiana, sancisce la mai sanata frattura fra lingua letteraria e parlate dialetta'li. Oltrea essere la misura di ciò, la prosa boccacciana, dal periodare spessointemminabile, pieno di minuzie analitiche, è un frutto dell'oratorialatina, la più illustre e prolissa, lenta e perifrastica, elaborata da Cice-rone nelle sue elocuzioni per incantare l'uditorio e fargli perdere divista l'oggetto in questione. Pur in un contesto medioevale, il trionfale antropocentrismo uma-nistico e rinascimentale non sono lontani.

6. Latino e volgare toscanizzato

Ricacciato dalla «gloria della lingua» dantesca nel ruolo di codiceteologico, filosofico e scientifico, il latino riprende quota grazie al-I' ancora insufficiente autonomia del volgare toscano, che pure, nelleLettere di Caterina da Siena, propone aspetti straordinariamente fre-schi, omologhi alla comunicazione orale. Di non minore interesse linguistico sono anche i sonetti ludici delsenese Cecco Angiolieri, che utilizza un volgare aspro e violento, gio-cato su parole incisive, di potente presa emozionale. La sua poeticasulla «donna, la tavema, e il dado» dà luogo ai primi versi davvero«maledetti» della poesia italiana: S'i' fosse foco arderei 'l mondo,/s' i' fosse vento, lo tempesterei... Si può definire, quello di Angiolieri, contemporaneo di Dante, unlessico «imprecativo», con metafore polemiche, che, mentre par-tecipano alla conoscenza degli schemi siciliani e stilnovistici, ne ri-baltano gli assunti. Così Becchina, I'anti-Beatrice angiolieriana, è ilreferente di una modemità che si esprime in modo teatrale, ossia conparole eloquenti, iperboliche, irritate, dove il connotato orale, dallefrequenti assonanze con quello siciliano, non esclude il volgare lette-rario. Eccone alcune: abento quiete, adizza stizza, affogone bocconedi traverso, aggio (come nel dial. campano) ho, alleggia (come neldial. siciliano) allevia, avrìa (come nel dial. sic.) avrei, bretto misero,cannamele (come nel sic.) canna da zucchero, chiù (dialetti mer.)più, corcato (dial. mer.) coricato, crederìa (dial. sic.) crederei, cui(dial. sic.) chi, dilicato (dial. sic.) delicato, dovrìa (dial. sic.) dovreidovrebbe, dunqua (dial. sic.) dunque,farìa (dial. sic.) farei farebbe,gavazzatore gozzovigliatore, ha ha' hal hol c'è hai lo ha l'ho, mac-cherella ruffiana, morditori pettegoli, morrìa (dial. sic.) morirei, nif-fa schifiltosa, porìa (dial. sic.) potrei, putta puttana, ragghio (dial.sic.) raglio, trasamo amo troppo, verrucolato tommentato, vorrìa (dial.sic.) vorrei vorrebbe...

Il toscano s'espande anche in città culturalmente attive come Ve-nezia, Padova, Ferrara e Milano. Nel Settentrione, aggiungono la vocale alla consonante finale parole quali did o dit dito, porcèl porcello,lus luce, chian can cane, cent cento, crèer creder credere, corp corpo,ecc. Estemi al processo di toscanizzazione restano Piemonte e Ligu-ria, chiusi all'interdialettalità. A Roma si ha, nel 1360 ca., unata di Cola di Rienzo, seconda par-te della Cronica. Nell'autore, prima supposto anonimo, recentemen-te si è identificato Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, chierico, me-dico e retore. Il lessico da lui utilizzato, un romanesco che stinge neltoscano, sposta il baricentro della lingua letteraria romana verso Fi-renze, staccandola dal romanesco medioevale. Del 1387 è un Trattato di metrica, scritto in volgare da Gidino diSommacampagna. Anche in Centro-Italia e nel Meridione il volgaretoscanizzato, e in antagonismo col toscano, s'esprime nella poesia

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religiosa (Umbria e Abruzzo), nella terminologia mercantile e legale(Marche), nella didattica e nelle scienze (regno di Napoli). Diffusa-mente, compaiono sul territorio italiano parole toscane latinizzate(inferno necessità ferire onorato) e neolatinismi (prolisso sofisti-co girovago eunuco decimo sinistro autentico spurio invitto vene-reo). Entrano nel volgare premeditare siccità frugale girovagoevaporare stirpe autentico atroce antropofago puerile, ecc. I sicilia-ni parlano quello che chiamano il vulgari nostro siculo, alquanto sta-bile anche se ghettizzato dall'incipiente restaurazione latina e classi-ca, di cui è segnale la fondazione a Firenze, nel 1396, dell'insegna-mento del greco.

Il «secolo senza poesia»

1. Lingua dell'Umanesimo

Alla fine del '300 e ancor più nel '400 (secolo xv) la situazionepolitica italiana è regolata, a Nord e al Centro, dalle Signorie e dagliStati regionali e, a Sud, prima dagli Angioini e poi dalla monarchiaaragonese che salda la Sicilia con Napoli. L'aristocrazia e la nuovaborghesia assumono il potere e, con questo, torna in auge il latino. A Firenze, grande centro commerciale, i letterati di corte disprez-zano Dante perché «vulgarmente scrisse». E la Commedia? Sia data«alli speziali per farne cartocci, o vero più tosto a li pizzicagnoli perporvi dentro il pesce salato». Sostenuta anche in questi modi grosso-lani, la problematica fra latino medioevale, latino umanistico-classi-co e lingua volgare si risolve, nella prima parte del secolo, col suc-cesso, in ambito letterario del latino classico, detto umanistico perdistinguerlo da quello scoiastico del Medioevo. Ne è autorevole ga-rante Lorenzo Valla, storico, filosofo e filologo, teorico del ripristino d'un latino storicamente stabilito e riattivato nell'arcaica humanitas.Il progetto sotteso è un cenacolo di dotti cui spetterebbe il compitod'interpretare la storia con la filologia e di esercitare la propria in-fluenza su tutta la società. Roma, Napoli e, di più, Firenze sono città ricche. Fattu~a, nell'ac-cezione commerciale, è la parola «magica» della nuova realtà econo-mica. Banchieri e mercanti, i «nuovi ricchi», nell'intento d'identifi-carsi con la nobiltà, coi signori e i dignitari di corte ed ecclesiali, sifanno anch'essi sostenitori dell'antica humanitas. In questa accolgo-no i presupposti d'un nuovo tipo umano, fanaticamente dedito al cul-to dei classici e contrapposto a quello «barbaro» del Medioevo. Vorrebbero sapere scrivere in latino ma, ignorandolo, s'acconten-tano di finanziare le accademie di dotti che lo scrivono (Accademiaromana di Pomponio Leto, Accademia pontaniana a Napoli del Pa-normita, Accademia platonica fiorentina di Marsilio Ficino). Per es-sere protagonisti nel recente fervore delle humanae litterae, s'impe-gnano a favorire la scoperta di antichi codici, il ripristino di vecchiebiblioteche e la nascita di nuove; a sovvenzionare le arti, le scienze,le tecniche e le ricerche archeologiche, epigrafiche, numismatiche.Sorge così il mecenatismo (dal nome di Mecenate, I secolo a.C., con-sigliere dell'imperatore Augusto, protettore degli artisti). S'affermano la filologia - dal greco phi/ología: da philo (amore;d a philéo amo) e logos (discorso) - e la moda del c lassicus e del c las-sicus scriptor, imitatore dei latini. Con l'avvento in Italia dei dotti greci dopo i concili di Costanza,Basilea, Ferrara, Firenze (dal 1414 al 1439) e la caduta di Costanti-nopoli (1453) in mano ai Turchi, ritornano, in traduzioni integrali,Aristotele e Platone, Lucrezio, Quintiliano e Cicerone. Ma la proposta di Valla, appoggiata dai filologi Barzizza e PoggioBracciolini, mette in evidenza l'insanabile contraddizione in cui si

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trovano gli intellettuali del tempo. Una contraddizione che li vedechiusi in ristrette oligarchie, perciò ininfluenti e senza veri rapporticon la gente rimasta estranea all'erudizione latineggiante e aperta,piuttosto, alla pratica del volgare. A impedire che l'Umanesimo si connoti in senso regressivo, nonmancano umanisti come Flavio Biondo nel 1435 e Leonardo Bruninel 1436. Questi si rivolgono ai dotti invitandoli a dare un contributoper conferire dignità letteraria al volgare, il quale può assolvere lapropria funzione, beninteso letteraria, al pari del greco e del latino.Anche un siciliano, Aurispa, dice d'avere scordato il proprio dialettoe il greco per la dolcezza del toscano e del latino: Inter tam dulcis qualesfert Tuscia linguas/ dedidici Graecam, dedidici Siculam ( 1420)... Per gli umanisti più aperti, la cultura classica non è alternativa alvolgare ma funge da impulso per potenziarne il vigore comunicativo.Sono in tal senso decisive le tesi di Leon Battista Alberti, riferite auna lingua fatta non per piacere a pochi ma per essere utile a molti. Negli spazi lasciati liberi da una polemica che per mezzo secoloammutolisce i poeti e fa del '400 quello che è stato detto un «secolosenza poesia» trascorrono, tra dialetto e volgare: una composizionedi Andrìa da Anfuso, catanese, sull'eruzione dell'Etna (1408); unpoema in dialetto piemontese, con francesismi, sulla presa di Panca-lieri (1410); un glossario latino-bergamasco (1420 ca.) di Barzizza;la raccolta di proverbi e parole fiorentine Pata~fio (1420 ca.); le pre-diche in toscano (1427) di Bernardino da Siena; la conversazioneDella vita civile (1431-'32) di Matteo Palmieri; i quattro libri Dellafamiglia (1433-'40 ca.) di Alberti. Nel 1484 ca., tra le parole di gergo sono attestate, dallo Speculumcerretanorum, le espressioni dei «cerretani» (vagabondi e mendican-ti originari di Cerreto): brancose mani, calcosa strada, fogliosa bor-sa, bazzano vino, fu~fa astuzia, ciospa nonna, beluarda pecora, scru-fulante maiale, morfosa bocca, farfuso naso, stantiare schiantare(morire), zana meretrice, bascire uccidere, ecc. Alla medesima epo-ca risalgono i Motti e le facezie del Piovano Arlotto in fiorentino po-polaresco.

2. Lingua e letteratura

La frattura fra un Umanesimo definibile classico, coi suoi canoniimitativi e perfezionistici, e uno volgare può ravvisarsi a metà seco-lo, quando letteratura e lingua toscana pervengono a una ineludibileidentificazione. Gli stessi principi e le classi ricche trovano infine un loro vantag-gio nel fatto che la lingua esca dalle corti e si diffonda nel popolo.Decadono l'ottimismo trionfalistico del primo Umanesimo e il cultodella «virtù» umana, lasciando il posto a una riflessione critica checoinvolge la vita, la realtà, la storia e perciò il linguaggio. L'esperien-za e la conoscenza prendono allora a costituirsi nella lingua. Tuttoquesto non semplifica ma rende più complesso il codice espressivoumano. Cambia la lingua, prima imbalsamata nella tradizione latina, invi-gorendosi nell'uso volgare letterario. Lo testimoniano, prima, il Cer-tame coronarico ( 1441), pubblico dibattito sulla poesia con letture diversi in volgare tenute a Firenze; poi, ai maggiori livelli, autori comeLorenzo de' Medici detto il Magnifico, Luigi Pulci, Matteo MariaBoiardo, Angelo Poliziano, Iacopo Sannazaro. Lorenzo è poeta realista e aristocratico, compositore di idilli rusti-cani e poemi mitologici, canzoni e pastorali; nonché dei noti versi, inperfetto volgare: «Quant'è bella giovinezza,/ che si fugge tuttavia!/Chi vuol esser lieto, sia:/ di doman non c'è certezza». Per Lorenzo, lalingua dev'essere versatile, «copiosa e abbondante», dolce e armoni-ca, atta a scrivere «cose sottili e gravi necessarie alla vita umana»: e

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perciò massimamente diffusa tra i lettori. Pulci è ispirato ai cantàri (dal verbo cantare) tratti dai cicli carolin-gio e bretone, ma per parodiarli. Il suo maggior poema, il Morgante(1478,1483), è ricco di plebeismi misti a forme classiche. Un ante-fatto di quest'opera è nei sonetti caudati di Burchiello: caudati per-ché al tradizionale sonetto di quattordici versi, con due quartine e dueterzine, è aggiunta una coda formata da una o più terzine, ciascunacomposta d'un settenario e due endecasillabi. Notevole è l'interessedi Pulci per le parole gergali. Una lista di queste, scritte dallo stessoautore, si trova nel codice Palatino 218 della biblioteca Nazionale diFirenze. Eccone un estratto: carcose scarpe, ventosa finestra, grimavecchia, prospere mutande, barleffo bocca, vergolosa lettera, penno-si uccelli... Boiardo, come Pulci, si collega all'epica medioevale. La sua operapiù importante, I'Orlando innamorato (1483-'95), fa riferimento alciclo bretone. La sua lingua è il volgare letterario settentrionale,un emiliano illustre e duttile, attraversato da gallicismi e rivolto al to-scano. Poliziano, dal nome del suo paese (Mons Politianus), poeta in gre-co, latino e in volgare, riecheggia Virgilio e Ovidio, Dante, gli stilno-visti e Petrarca. Scarsi, nella sua scrittura, i calchi popolari: spennec-chiare pecchia sfragella... Sannazaro, napoletano, è il massimo scrittore in volgare del '400.Ilsuoromanzo,Arcadia-compostodaunproemio,dodiciprose,do-dici ecloghe e un congedo -, è la prima opera in una lingua appresasui classici latini, su Petrarca e Boccaccio, e reinventata con sfuma-ture dialettali napoletane.

Nel 1470, dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili (1450ca.), esce il Canzoniere di Petrarca, I'opera per secoli più letta e imi-tata dai poeti, non solo in Italia. Seguono la stampa del Decamerone,della Commedia e di molti altri libri di genere diverso, anche tecnicie scientifici. Il nuovo volgare è letterario più che popolaresco, ben poco o perniente utilizzabile da strati di cittadini analfabeti, esclusi da ogni con-tatto con la parola scritta. E il momento nel quale si decidono, nell'ul-teriore disgregazione sociale, il distacco del popolo dal sapere e unghetto anche linguistico che permarrà fino all'800 inoltrato condan-nando la società italiana a una strana schizofrenia: quella di praticareuna lingua volgare in due modi diversi, scritto e parlato, ciascuno pres-soché ignorato dall'altro. Il «secolo senza poesia» è anche il tempo della predicazione reli-giosa in volgare, nelle chiese e nelle piazze, del pio Giovanni Domi-nici, dello sferzante Savonarola, che nel 1498 morirà sul rogo, e diBernardino da Siena che sostiene l'esigenza d'un parlare «chiarozzochiarozzo». Tempo di canterini da strada, che si rappresentano in vol-gare: segnalando, dalla loro relativa emarginazione, che la linguanon sta nel chiuso delle corti ma all'aperto. Del 1465 ca. è il Vocabolista di Pulci, raccolta di latinismi e paroleinusitate; del 1470 ca. sono le Facezie in ferrarese di Carbone e l'AI-gorismus, un trattato di aritmetica in volgare meridionale. Nel 1471escono a Venezia due edizioni della Bibbia in volgare, nel 1476 il No-vellino di Masuccio Salernitano, racconti mistilingui in toscano-na-poletano, e nel 1483 Le Porrettane, novelle in bolognese letterario diSabadino degli Arienti. Del 1490 ca. è La leggenda della beata Eu-stochia, in messinese illustre. Nel 1493 ca. escono il De maiestate innapoletano letterario di Giuniano Maio e le Rime fiorentine di Ber-nardo Bellincioni. Poi la Summa arithmeticae ( 1494) in latino-italia-no di Luca Pacioli; il curioso El secondo cantare dell'lndia (1494-'95), sorta di catalogo in versi di mostruosità del fiorentino GiulianoDati, che descrive «ermafroditi», «huomini [...] cholla testa di cane»

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e senza bocca o senza testa («musteros»), «sciopedi» dai grandi pie-di, «monoculi» con un occhio al centro della fronte, «cynocefali»dalla testa canina; il Nuovo Receptario ( 1499) dei medici e spezia-li fiorentini; I'edizione della prerinascimentale HypnerotomachiaPoliphili (1499, ma composta trent'anni prima) del veneziano Fran-cesco Colonna in volgare letterario padano con tracce latine e, in mi-sura minore, venete. E un libro dalla lingua sfarzosa e sensuale, ricer-catamente aggettivata (aureo solatiosa squammei lepida hlandulamorigerosa glauci leni niveo, ecc.) e sostantivata (pediculi spec ulopulchritudine membriculi capegli ocelli supercilii pettusculo corcu-lo, ecc.). Per la sua mescidata ricchezza verbale, quella di Colonna èl'opera maggiore fra le tante del filone goliardico e della scritturamaccheronica, realistica e satirica iniziata alla fine del secolo. Unascrittura asintattica, caratterizzata dal lessico ibrido, con storpiatureburlesche, caricaturali, insieme rustica e colta, che si fa gioco del par-lare in gramuffa (grammatica latina). Nell'Italia centrale si segnalano una Mesticanza in romanesco diPetrone, carcerato viterbese, e, in Abruzzo, i dialettali Cantari di Brac-cio. Nel Meridione i dialettali napoletani gliòmmeri (gomitoli, im-brogli, frottole); la farsa Lo Magico di Caracciolo, in toscano condialettalismi napoletani (saglie sale: dal verbo salire, denocchii gi-nocchi, capilli capelli, ecc.); il poema Istoria di li traslacioni di San-t'Agata, d'autore siciliano. Inoltre, nel prevalente uso toscano e fiorentino, si ha, con l'adozione di latinismi acquisiti nel vocabolario italiano (ameno anelanteapplaudire mutilo amatorio connubio insetto emolumento faceziamadido ilare obliterare trofeo...), quella degli idiomi gergali. E poil'apparizione di fenomeni minori come lui e lei soggettivati e deipronomi ella essa questa quella; il mi di conio dialettale settentriona-le al posto di me; il ti per te; I'uso di quale invece di che; più moltotanto in funzione intensiva prima d'un superlativo; il si aggiunto alverbo (dicesi vedesi, ecc.). Nascono ancora nuovi termini nominantiattività artistiche, musicali, tecniche, scientifiche, militari, marinare-sche... Si hanno i suoni pruova prova, stiena schiena, truova rispuosemimoria danaio sicondo, perdonalli perdonarli, pensalle pensarle; lagrafia gracia gratia grazia, solacevole socievole, longegno l'inge-gno, co llui con lui; le forme uccidrò ucciderò,farnosi farsi, andassi-mo andassono andassero, domestice domestica, frategli fratelli, agne-gli agnelli; le nuove parole: catasto colonnello carciofo caviale stoc-cafisso circonferenza diametro stampa informare, ecc. Il secolo è in metamorfosi storica, mentre l'Italia, culturalmenteavanzata ma imbelle, nei primi decenni del '500 diventa campo dibattaglia per le due maggiori potenze europee, Francia e Spagna.

La lingua della Rinascenza

1. Babele

L'Umanesimo rinascimentale va dalla fine del '400, che concludeil Medioevo, alla prima metà del secolo XVL I suoi campi spazianodalla letteratura alle arti figurative, all'architettura, alla filosofia, allescienze, alla politica, all'economia. In quest'epoca, la comunicazio-ne è una babelica miscela di latino in ogni sfumatura e di volgare la-tineggiante e popolare. Ai processi, giudici e legulei parlano in latinoe gli imputati in volgare. I filosofi, gli insegnanti e i medici adopera-no esclusivamente il latino, diversamente da molti matematici, geo-Iogi e mineralogisti. I pubblici oratori parlano quasi sempre l'italia-no, ma criticati dai pedanti difensori dell'antica favella. Frattanto, inun'Italia impoverita per la restrizione dei commerci, sempre più ri-

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dotti a causa della pressione dei Turchi che bloccano alle Repubbli-che marinare e ai mercanti le vie del Mediterraneo orientale, il domi-nio spagnolo fa sentire i suoi effetti anche sulla lingua. In Piemonte entrano i francesismi e a Venezia frammenti di parlateturche, arabe, slave. Il Meridione è un crogiolo di latino, volgare to-scano e idiomi regionali e provinciali. La maggior parte delle cittàitaliane registrano in latino i propri statuti. La Chiesa controriformi-sta proibisce l'uso del volgare nella liturgia, arrivando nel 1557 a divulgare il primo Indice dei libri proibiti e a vietare la lettura dellaBibbia in volgare. In un'Italia disgregata e asservita allo straniero, è di alcuni scritto-ri, ben prima che dei politici, I'intuizione, pur ancora vaga, che nonpotrà esserci uno Stato unitario senza, prima, una lingua unica per tuttigli italiani. Nella corporazione dei dotti, che però non può dirsi unitaria, emer-gono due correnti. La prima spinge per un ritorno all'indietro, al ras-sicurante vocabolario e allo stile perfetto di Petrarca e Boccaccio,escludendo Dante, la cui lingua continua ad essere giudicata priva di«decoro». La seconda corrente è invece aperta all'uso del volgare.Ne nasce un dibattito dai toni quanto mai accesi, che darà origine auna secolare «questione della lingua». Alla prima corrente appartiene una classe intellettuale esclusiva-mente preoccupata di esercitare la propria influenza, lontana da ogniimpegno verso la collettività e attestata su un'idea imitativa e regres-siva della lingua. Imitativa in quanto configura in Petrarca e Boccac-cio i campioni di riferimento, gli assoluti garanti rispettivamente del-la scrittura in poesia e di quella in prosa; regressiva perché postula unritorno all'inutilizzabile latino virgiliano e ciceroniano. Massimo sostenitore di tali indirizzi, riportabili a intenti unica-mente letterari e classici, platonici e intellettualistici, è il veneto Pie-tro Bembo, che ritiene Dante un autore inservibile per avere adopera-to parole «rozze», «immonde», «durissime». Nelle Prose della vol-gar lingua (1525) - uscite dopo le meno famose ma forse più accet-tabili Regoledellavolgarlingua( 1516)diGianfrancescoFortunio-,Bembo sostiene un uso della tradizione linguistica riservato alla let-teratura e da non mescolare col parlato. La sua teoria coinvolge, coldisdegno del volgare, un'idea di decoro che diviene precetto arcai-cizzante, imposizione d'un fiorentino trecentesco ormai solo «men-tale» e «scritto», curante della convenienza e dell'opportunità, piace-vole e suadente. In fondo, la proposta bembiana non è linguistica ma ideologica inquanto respinge ogni innovazione prefigurando un'egemonia deidotti che - prescrive - «del popolo non fanno caso». Le idee bembiane vengono spinte ad estreme conseguenze, nel se-condo '500, da Leonardo Salviati che, a capo dell'Accademia dellaCrusca nel 1583, s'adopera per l'affermazione d'un purismo che èstatica e incantata visione della parola. Vi è aprioristicamente stabili-to quanto è poetico e letterario e ciò che non lo è, senza prospettivediverse dalla compilazione e tesaurizzazione d'un lessico scelto,scartante ogni altra forma non preventivamente sancita. Ne risulterà,più tardi, quel Vocabolario della Crusca che, nel suo supponente equasi terroristico apriorismo esclusivistico, si farà deposito musealedi lemmi feticisticamente arrogati nella loro laconicità lapidaria, fran-tumata dalla Storia.

Altra è la concezione di Niccolò Machiavelli, che nel Discorso odialogo intorno alla lingua (1524 ca.) tratta l'assetto «politico» dellinguaggio, posto in rapporto col problema della formazione delloStato nazionale. Con acume precorritore di quella che sarebbe statala posizione di Manzoni nell'800, Machiavelli ipotizza una linguaitaliana unificata nel parlato di Firenze. Ciò è giustificato dalla perfe-

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zione strutturale conferita al fiorentino parlato dalle sue «Tre Coro-ne», Petrarca, Boccaccio e soprattutto Dante, cui riuscì l'impresa diassimilare ogni genere di parola al fiorentino, mobilitandolo e ren-dendolo vivo. Tali idee Machiavelli le applica nel Principe (1513),scritto in una prosa ricostruita sul parlato fiorentino anche gergale,con residui latini (iusto populo miraculo, ecc.). Nel costrutto latineg-giante, invece dell'italiano intransitivo utilizza il verbo riflessivo(es.: partendomi); e poi sendo essendo, ruina rovina, infra fra, maxi-me moltissimo, ecc. Nell'opera teatrale e in poesia (cfr. Andrìa, La Mandragola, Cli-zia, fino ai Decennali e ai Canti carnascialeschi), I'autore ricorre aun lessico connotante la parlata e il carattere dei personaggi: accoc-chiare danneggiare, aceggia beccaccia, adiacciare gelare, allotta al-lora, allumare illuminare, anguinaia ernia, baccanella taverna, ba-dalucco divertimento, berteggiare burlare, bezzicare piluccare, boc-co («e' mi faceva bocchi», cfr. Clizia) smorfia, bolso gonfio, caca-pensieri bighellone, cacastecchi ignorante, cicalare chiacchierare,codrione culo, cotto ubriaco, cruciare tormentare, diaccio freddo,far-netico concitazione, frappatore truffatore, ingrognare arrabbiarsi,maghero magro, mastio maschio, moccicone babbeo,pappatore scroc-cone, potta vagina, sbarbare sradicare, trecca fruttivendola, zancagamba, zugo sciocco... Il fiorentinismo machiavelliano, difeso da Lodovico Martelli, è inqualche modo contestato dal senese Claudio Tolomei, propenso al-I'ipotesi d'una lingua non strettamente fiorentina ma, più general-mente, toscana. Una tale posizione è comprensibile se si pensa che,prima del fiorentino, il primato toscano era dei dialetti pisano e luc-chese. Un isolato, ma unico nel suo magistero burlesco, è Francesco Ber-ni, che, senza ricercare programmaticamente una propria stilistica,utilizza tutta la materia verbale di cui può disporre. Ne consta unalingua mossa e iperbolica, minuziosa, polemica, aperta a ogni sugge-stione lessicale. Le parole da lui privilegiate sono da ricondursi a unapregressa «poetica della crudeltà», a un intento critico corrosivo. Sipensi all'insofferente Sonetto contra la moglie, un rovesciamento d'ogni stilnovismo, petrarchismo e «decoro» bembiano, e al ricorso,nelle Rime in sonetti caudati e terzine, a un coriaceo vocabolario: can-caro doglie, malfrancese, furfantaria trista puttane fwie mostri fot-tuta foia puttanesco cesso cazzo morbo versiera mota orinale cana-glia bordello boia scelerato sciagurato ipocrito disperato squartarorrendo pitali impiastro fracida marcia fame letame bardassonacci,ecc. Di spirito bernesco sono le Lodi della fu~fanteria, reperibili nellabiblioteca Ambrosiana di Milano e attribuite a Jacopo Bonfadio. Ildocumento, in volgare illustre, di possibile origine goliardica, è unapologo della storia umana come storia della furfanteria: che spiegacome «chi non è stato, chi non è, chi non sarà furfante, non fu, né è,né sarà, né possente, né ricco, né degno». Giangiorgio Trissino, vicentino, muove dal dantesco De vulgarieloquentia finendo con l'auspicare un volgare letterario costituitoprelevando il meglio dalle regioni della penisola. Ingenua o irreale laproposta di Trissino, su cui facilmente prevarrà Bembo, quanto ec-centrica quella di Vincenzo Colli, detto il Calmeta. Fatto salvo il prin-cipio dell'uso fiorentino dettato da Petrarca e Boccaccio, egli propo-ne la lingua della corte romana, quella dei papi Leone x e Clemen-te VII, chiamata per questo «lingua cortigiana»: lingua integrante tut-te le altre e che sia, essenzialmente, un florilegio di queste. Florilegioche, in nome d'un ideale nemico degli idiotismi, sia indipendente daltoscano. Tali argomenti vengono corretti e assumono spessore concettualegrazie al mantovano Baldesar Castiglione: infatti, nel Cortegiano

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(1527), giudicando le parole di Boccaccio «disusate dalli medesimitoscani», ipotizza una lingua che nasca non solo dal fiorentino madalla «consuetudine del parlare dell'altre nobili città d'Italia» e arric-chita da forestierismi. Fa da contralto all'estetismo di Bembo e dello stesso Castiglione illoro contemporaneo Pietro Aretino, la cui scrittura, assai variegata, èdi gran lunga inferiore al talento linguistico dell'autore, nemico d'o-gni potere, sia imperiale sia papale, e dotato di grandi capacità d'in-venzione satirica a effetto osceno o anche eversivo. La sua opera èforse il repertorio più variopinto del turpiloquio cinquecentesco. Persuasi che il modo migliore per individuare una lingua sia ve-derne le parole, si riportano alcuni versi aretineschi rivolti ai poetidell'epoca: «Questi vostri sonetti fatti a cazzi/ sergenti de li culi e dele potte,/ e che son fatti a culi a cazzi a potte,/ s'assomigliano a voi,visi de cazzi». Un'invettiva dov 'è evidente la paradossale intenzionemoralistica, forse la più vera attitudine della parola aretinesca, natain un laboratorio linguistico che è luogo di rivolta e di reinvenzionedel mondo. Si veda, tratto dai Ragionamenti (1534-'39), un glossariominimo delle coniazioni di Aretino: accasca succede, aggricciareraffreddare, alfane donne alte e magre, anfusaglia canaglia, aschioastio, bardassoni amanti, besso fesso, cacabaldole moine, chiottaferma, fecciosa sudicia, frapperie chiacchiere, indenaiato ricoperto,invetriato impassibile, mastuzzicare tormentare, pacchio pasto,pinchelloni sciocchi, pinco il pene, rincriccare spaurire, sbricca-relli bricconi, soiata beffa, spigolistrarie pettegolezzi, zazeone stu-pido... Alla perdurante confusione sui modi di concepire la lingua si con-trappone, con epicentro Venezia, l'esigenza d'ordine dei grammaticie lessicografi. Del 1529 sono la Grammatichetta e i Dubbi gramma-ticali di Trissino, cui seguono le Regole grammaticali (1545) di la-como Gabriele, i Fondamenti del parlar toscano (1549) di RinaldoCorso, le Osservazioni della volgar lingua ( 1550) di Lodovico Dolcee il De la lingua che si parla e scrive in Firenze (1552) del toscanoGiambullari. Nel 1562 esce a Venezia il vocabolario di sinonimi Lacopia delle parole di Marinello. Per contrastare la confusione dei linguaggi, si tende insomma astabilire autonome norme grammaticali, sintattiche, ortografiche e les-sicali; a una revisione, elettivamente conforme al toscano letterario,della lingua dalle origini. Rappresentativa di tale esigenza è l'opera maggiore, 1'0rlandoFurioso, del massimo poeta del '500, l'emiliano Lodovico Ariosto. Infarcito di padovano letterario e di latinismi nella prima edizione(1516), il Furioso viene emendato nel 1521 e profondamente rivistoin senso toscano nel 1532. Si ha la regolarizzazione di el il, li i, te ti,x s, in lo nello, in la nella, de li degli, alli agli, annonzio annunzio,mostrarò mostrerò, tràrro trassero, dreto dietro, avate avevate, intra-re entrare, battizzare battezzare, ecc.

Un'ulteriore prova del successo del modulo toscano è la sua diffu-sione in Europa. Al punto che, nel caso, non sono poche le parole ita-liane francesizzate: macarons macaronique parfum balcon nullecarton soldat mortadelle capucin piédestal artisan caporal coloneltramontane caresse valise bulletin banque... Per quanto concerne i suoni, sono sensibili le differenze fonetiche,mai rifuse, tra Settentrione, Toscana e Meridione. Fra le opere di fo-netica, da ricordare il De vocie di Leonardo da Vinci, uno studio di fi-siologia fonatoria di estrema chiarezza. Anche nei frammenti del suoTrattato di pittura, Leonardo riesce a foggiare una parola limpida edefficace, quasi precettistica nei suoi intenti tecnici e scientifici. Daisuoi scritti di geniale «omo sanza lettere», i lemmi arritrosito ritorto,bàlatri baratri, eclipsi eclissi, ene è, innorbito accecato, obsidione as-

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sedio, stracinate strascinate, stròlago astrologo. In volgare illustre è la prosa del nobile vicentino Francesco Sforzi-no da Carcano, falconiere autore di Tre libri de gli uccelli da rapina( 1547). Sulle orme di Federico Il e Lorenzo de' Medici, Sforzino fis-sa una terminologia descrittivavenatoria e veterinaria nonché il ger-go tecnico-scientifico della falconeria in Italia: terzuolo per indicareil maschio dell'astore, rapace di bosco, di un terzo più piccolo dellafemmina; nidaso nidiaceo,filagna filo per l'addestramento del falco,stramaccio posatoio, solutivi purghe, presa artiglio, strucciero falco-niere... Accanto all'affermazione dell'italiano aulico e restrittivo impostodal bembismo dominante, che ha un suo correttore nell'antipedanti-smo e nel fiorentino illustre del Galateo (1558) di Giovanni DellaCasa, si delinea una tendenza alternativa. Questa è dapprima identi-ficabile nell'uso vivo fiorentino del marchigiano-romano AnnibalCaro e nelle prove non grammaticalizzate di due autodidatti di genio.Si tratta del matematico Nicolò Tartaglia, autore di una Nova Scien-tia (1537), scritta in volgare, e dell'orafo e scultore, ma anche ladro eassassino, Benvenuto Cellini, la cui autobiografica Vita, redatta nellaforma stessa del parlato, resta fuori d'ogni regolare struttura sintatti-ca e d'ogni stabile grammatica.

2. Il dialetto

Conclusa l'opposizione fra latino e volgare e stabilito che la nuovalingua è alfine il toscano, per la sua tradizione letteraria il più presti-gioso d'Italia, restano, con la loro compressa esuberanza, le parlateregionali e, negli strati più poveri delle popolazioni, quelle dialettali.Queste, escluse dalla letteratura in lingua come il popolo da ogni purminimo benessere economico, si esprimono, in tutta la penisola e finoalla Sicilia, nelle rappresentazioni teatrali. La loro foggia è ora gergale, con l'uso di maschere prese dall'am-biente contadino e dal sottoproletariato urbano, ora dialettale ma for-malizzata e stilizzata su modelli letterari parodisticamente stravolti.Così in Angelo Beolco detto Ruzzante, erede del poeta maccheroni-co Tifi Odasi, padovano, autore della Macharonea (1490). Da maccarone - lo «gnocco» della terminologia gastronomica po-polare del Medioevo-, la letteratura maccheronica s'impone, allafine del '500, prima nella tradizione veneta. Essa attinge al latino e aldialetto per esercizi di stile presto imitati da tutte le letterature euro-pee. Ruzzante è scrittore in dialetto «pavano» di farse che calano leproprie radici nell'oralità giullaresca traducendosi in burla, drammae tragedia. Della stessa scuola è il mantovano Teofilo Folengo, che utilizza unlatino umanistico parodizzato, mestica di dialetto bresciano-lombardo-emiliano e lemmi gergali e italioti: berteggiare bertonare calefare trepare... Caratteristica della sua scrittura è l'elencazione sinoni-mica, tecnica dell'accumulo praticata in Francia da Rabelais: smaz-zolare tartassare tambussare bastonare tartufolare tracagnare...Pregevoli, ancorà, i suoi esametri per cantare l'estetica bassa dellacorporeità materialistica, l'invettiva erotica, il carnevale anarchico egaglioffo del suo dialetto latinizzato che conia, come nella Zanito-nella delle Maccheronee (1540 ca.), neologismi in volgare: boazzisboaccia (stallatico), spantegat spantegare (aprire), coconem cocòne(tappo), squaquarare squaccherare (sporcare con la diarrea), smer-golat smergolare (cantilenare), significagat significagare (rafforzati-vo furbesco di significare), sturlat sturlare (spingere). In volgare, con inserzione di due novelle in dialetto bergamasco epadovano, sono Le piacevoli notti (1550-'53) di Giovan FrancescoStraparola, lombardo. Se ne enuclea un breve glossario: accorocciarsicorrucciarsi, afforciarsi sforzarsi, apparare imparare, balcare vedere,

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bastagio facchino, cifolare zufolare, diglottito inghiottito, doi due,mancipio schiavo, ravogliamento (napoletanismo) aggrovigliaturaconfusione, saporetto sugo, sforciare violentare, vergelato rigato, zam-bra camera, zatta zampa. Una babelica mistura dialettale sostanzia infine la commedia diGiovan Battista Cini, La vedova (1569), con personaggi parlanti inbergamasco, veneziano, napoletano e siciliano. Prevalgono il dialet-to padano (angonia agonia, faglia covone, occato papero), il vene-ziano (galozza zoccolo, santolo padrino, coppo - anche nel Meridio-ne - tegola), il lombardo (sferlo ramo, arpice gancio), il marchigiano(sgomberello contenitore), l'umbro (cerqua pentola, vettina recipien-te), il napoletano (balice valigia, streppare strappare)... I dialetti - dal greco diàlektos conversazione -, vitali fin dal Me-dioevo, hanno raggiunto una loro forza espressiva e un'autonomiache li rende diversi dalla lingua ufficiale e l'uno dall'altro. All'inizio del xvl secolo, a Roma si parla un dialetto prossimoalle parlate meridionali, che si toscanizza per la successiva influenzafiorentina alla corte papale. I dialetti veneti, fino al '300 di conio lom-bardo, vengono trasformati dall'influsso veneziano. La parte setten-trionale, divisa da quella mediana dalla catena appenninica, compren-de i dialetti piemontesi, liguri, lombardi emiliani e romagnoli. Gene-ralmente, i dialetti settentrionali hanno in comune la caduta di alcunevocali in fine di parola (es.fil filo) e un'accentuazione delle vocali nel-la forma germanica (of oef uovo). Mentre il Centro Italia presenta unacerta uniformità col toscano, parte del Centro e il Meridione mostra-no tre aree dialettali: la marchigiana dei dialetti a nord di Ancona, si-mili ai romagnoli, e quella umbro-meridionale toscaneggiante, laziaie eabruzzese; la campano-molisano-pugliese a Nord, che coinvolge unaporzione della Lucania; la salentina, calabrese e siciliana. A parte,per il suo storico isolamento, è da considerare il sardo.

3. Verso il Barocco

Nella lingua del '500, si hanno le forme voi davi voi davate, equi-vochi equivoci; e, nella grafia, pronuntia, vulgo, summo, suggetto, fa-cultà; de di, dil del, el il, qualunche qualunque. Compaiono per la pri-ma volta democrazia luterano protestante gesuita indifeso concertobravura bravata... Il passaggio del volgare letterario dal '500 al '600 è marcato da Tor-quato Tasso e Giordano Bruno. Nella Gerusalemme liberata (1565-'75), Tasso si rifa agli ideali ca-valleresco-cristiani e alla tradizione classica, agli stili «magnifico»,«mediocre» e «umile» alternati agli stranierismi e all'intarsio delleneoconiazioni. Bruno, invece, esce dalla tradizione e inventa una filosofia dellalingua. Questa distingue fra «segni» e «verificazioni», «paroli» e «sen-timenti»; fra linguaggio «naturale» e «morale», fra «legge» e «filo-sofia», fra ciò che è «vero» e quanto è «metaforico». Suo scopo è fog-giare una lingua opposta a quella irrigidita dei «grammatisti»: linguaantipedantesca, non mistificante, partecipe del movimento della re-altà e votata a «sincerità, simplicità, verità». Perciò «riformata» nelsenso d'un cambiamento sociale etico: cambiamento per il quale lalingua e la verità, vista in tutte le sue sfaccettature e torsioni, coinci-dono. S 'innesta qui il motivo barocco, da interpretare non in un sensoesteriore o decorativo come in molti casi s'è voluto fare, ma in quellodella complessità e profondità. In esso hanno parte, con la lingua, an-che i dialetti, prima assunti col fine d'ironizzare in essi l'ignoranzadella plebe e ora resi parte vitale della stessa lingua. Si vedano le scel-te lessicali, foneticamente dialettizzate e con ricorso al gioco analogico-sinonirnico che Bruno esegue nel Candelaio (1582), commediapopola-re: musso (voce dial. napolet~na) labbro, menchia (dial. siciliano e nap.)

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pene, saginato ingrassato, pappolata sciocchezza, griffe (francese grif-fe) grinfie, bagassa (spagnolo bagarsa) bagascia, parpaglioni (fr. papil-lons) farfalloni, scasciato (nap.) scassato, berte beffe, schiassi fracassi,fanfalucco bugiardo, contubernio compagnia, obiurgazioni rimpro-veri, bozzole storte, coquinario (fr. coquine piccante) cuoco, amasiaamante, spunzonava spronava, bardascio invertito, scarrupato (nap.) di-roccato, morsello boccone, fornicario donnaiolo, spaccatornese (nap.)avaro, coteconaccio (nap.) villanzone, candelaio pederasta... E una tendenza alla proliferazione e centrifugazione della parolaall'ellissi, allo scarto dalla norma: all'invenzione e alla trasgressionebarocche.

La trasgressione linguistica

1. Il Barocco

Per le inquietudini e i fermenti storici e culturali che lo attraversa-no, il XVIIè certo un secolo ben lontano dai precetti che il Vocabola-rio degliAccademici della Crusca, stampato a Venezia nel 1612, pre-tenderebbe d'imporre. Il Vocabolario, che contiene anche proverbilatini, è ispirato da Salviati che restringe le stesse idee di Bembo inun severo trecentismo fiorentinista. Un'immediata reazione contro ogni ossequio alle regole dell'imi-tazione trecentesca si ha con L'Anticrusca (1612) di Paolo Beni, cherovescia il rapporto fra antichi e moderni affermando, col progressodella società e dell'evoluzione artistica, la priorità dei moderni. Lo stesso Alessandro Tassoni, accademico dellaCrusca, insorge con-tro l'operato di Salviati e, nel capitolo Ix del suo Varietà di pensieli( 1612), sostiene la superiorità della lingua moderna, la qualità dellascrittura di Tasso su quella di Boccaccio, la modernità delle parole«che si favellino e scrivono al presente». Il criterio adottato dal Vocabolario della Crusca è quello d'un con-servativo e soffocante arcaismo, che include le parole degli autoriconsiderati «de' più famosi» del trecentesco «secolo aureo» e di quellidel '500 rivolti a quel secolo. Vi sono aggiunte, in subordine, alcuneparole dell'uso illustre. Tasso è tra coloro che, dapprima esclusi perle loro propensioni sperimentali, entreranno in successive edizionidel Vocabolario (Venezia 1623, Firenze 1691). Il conto col latino si chiude comunque a favore del volgare, mal-grado le spinte cruscanti verso la codificazione e quelle, ancora piùarretrate, dell'immobilismo latineggiante che conserva il predo-minio nelle istituzioni ecclesiastiche ed universitarie ai vertici del sa-pere. La «guerra della lingua» combattuta fra scrittori è forse il fermen-to capitale in un paese umiliato, fino al 1714, dal secolare dominio diun'aristocrazia spagnola raffinata, prevaricatrice, abile nell'irretirenella propria sfera d'influenza la classe intellettuale italiana. Nel 1620 esce a Roma un dizionario italiano-spagnolo redatto daLorenzo Franciosini. Solo a partire dal 1648, dopo la pace di Vestfa-lia che ridimensiona la potenza degli spagnoli in Europa, la Spagnaallenterà la sua pressione politica in Italia, pur mantenendovi il do-minio. Si calcola che dal 1551 al 1700 ci siano state circa 1200 tradu-zioni dallo spagnolo all'italiano e più di 120 edizioni in lingua ispa-nica. La grafia dell'italiano mantiene, nel '600, la h in parole come homohuovo huopo; coniugando il verbo avere, si scrive ò e à invece di hoe ha. Si hanno inoltre theatro thesoro affetione gratia construttioneessercizio dimostrazzione incendij. Con le forme volsi volli, veddividi, vadia vada, vadino vadano, bisogneria bisognerebbe, bifolci bi-folchi, teologichi teologici; i superlativi da aggettivi: stessissimo ot-timissime; superlativi da nomi: elefantissimo padronissimo...

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Mentre cruscanti e anticruscanti s'attardano in polemiche lessico-grafiche magari risolvibili col buon senso, si diffondono gli spagno-lismi don signore signora signorino signorina. S'afferma definitiva-mente il Lei, nato nel '500 in rapporto a Signoria Eccellenza SantitàMagnificenza. Si divulgano gli ispanismi cortigiani grandioso ba-ciamano etichetta sfarzo brio complimento marsina mantiglia lindodisinvolto parata posata tabacco sigaro... E piccaro piccaresco re-cluta baccaM baule risacca lazzarone pastiglia caracollare sara-banda... E allora naturale che una filologia dello spirito barocco e della lin-gua che lo sostanzia debba basarsi sulla cultura e sulla lingua spagno-le. A partire dal significato della parola spagnola barrueco (porto-ghese barroco, francese baroque), utilizzata solo verso la fine del '700in senso negativo contro l'arte seicentesca, identificata con la crisipolitica e dei costumi del periodo che va dal tardo '500 all'ultimo'600. Barocco quale riflesso d'un modo di concepire l'arte e la parolanon nei termini rassicuranti e armonici voluti dal Rinascimento e dal-la classicità ma in maniera eccentrica, paradossale, ricca di trame erisonanze psicologiche, proliferante nuovi tipi di pensiero e perciò dilingua. Una lingua in movimento, policentrica, che infrange e mettecontinuamente in discussione l'ordine costituito; accumula, sovrap-pone, esaspera i particolari e le differenze. Lingua che sfugge alla pre-scrizione per affermare un edonismo proteso verso una conoscenzanon delimitabile ma anelante all'infinito. In tale prospettiva e a un elevato esito linguistico si colloca il fer-rarese Daniello Bartoli con la sua prosa perfetta, che sarà ammiratada Leopardi. Non c'è dubbio che, malgrado l'antiseicentismo del-I'autore, si tratti d'una prosa prettamente barocca, libera, estrosa,iperletteraria. Non è un caso che Bartoli, come fa nel suo Tratta-todell'ortografiaitaliana( 1670),mostrilasuainsofferenzaperildogmatismo della Crusca. Grammaticalmente tradizionale, la lin-gua di Bartoli, gesuita, si apre a un empirismo vocabolistico che èquello della maggiore oratoria sacra del secolo. Oratoria descrittiva,dove alla varietà lessicale s'accompagna il rigoglio di analogie, me-tafore, variazioni sinonimiche e suffissali, antitesi, ossimori e anto-nomasie. Leopardi giudicherà lo stile di Bartoli, «tutto a risalti e rilievi», sen-z'altro «un esempio dell'immensità e varietà della lingua italiana».

2. Galilei

L'«infinito» barocco è da Galileo Galilei scrutato e nominato noncol ristretto vocabolario della tradizione scientifica latina ma fog-giando un volgare che rende di colpo vecchio il latino degli scienziatifino al '600. La scelta galileiana dell'uso volgare nella scienza è in-nanzi tutto polemica nei confronti del potere, che non risparmieràallo scienziato tante persecuzioni. Obiettivi di Galilei sono la chiarezza, la precisione, la divulgazio-ne, il superamento delle pseudoverità e dell'equivoco pseudoscienti-fico ammantato di tesi o ragionamenti privi di fondamento e dogma-tici. Egli, riformatore della scienza e della lingua, s'adopera alla rico-struzione formale e alla funzionalità delle parole, nell'intento di sot-trarle alla pratica evasiva e antiscientifica che se ne fa. Per Galilei, leparole della scienza devono aderire alla realtà delle cose e al loro sen-so, mutando col divenire di ciò che nominano. C'è, in questo modo ditrattare la lingua, dove l'osservazione induce l'ipotesi e questa la spe-rimentazione, un presupposto essenziale per l'oltrepassamento dellavecchia divisione tra Umanesimo e scienze. Nel Saggiatore ( 1623), scritto in pregevole volgare, Galilei riescea mettere al centro del proprio discorso il problema del significato,tecnicizzando parole prima trattate in funzione letteraria e adattando-

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le alla comunicazione scientifica. Noti alcuni suoi neologismi (apo-geo parallasse sesquilatero) e il suo impiego di candore non più nelsenso metaforico ma in quello di «luce lunare»; di pendolo, trasfor-mato da aggettivo in nome indicante lo strumento per misurare iltempo; di cannocchiale, che compone cannone con occhiale; di mo-mento, usato in senso materiale; di ferragine per definire la limaturadi ferro; ecc. Per Galilei, il sole non è una sfera levigata: esso è pienodi macchie solari; la luna non è il globo bianco ispiratore dei poetima è piena di irregolarità montagnose, similmente alla Terra; la viaLattea non è fatta di astri luminosi ma di agglomerati stellari; Giovee gli altri corpi celesti non sono sagome lisce ruotanti nello spaziobensì materia... L'animus barocco di Galilei è appunto in questa suafebbrile ricerca di similitudini, analogie, corrispondenze che si per-dono e si ritrovano nell'euritmia cangiante della materia e della pa-rola.

3. Marino

Nello stesso anno del Saggiatore galileiano si pubblica a Parigil'Adone del napoletano Giambattista Marino, poema mitologico inventi canti che è anche un'enciclopedia e uno «spettacolo» della pa-rola barocca. Parola arguta, sfarzosa e virtuosistica, ma nello stessotempo, per la sua ricchezza e l'apertura, contrapposte alla selettivitàdel purismo, di straordinario interesse lessicale. Esaminato sotto taleaspetto, il «marinismo», condannato dall'Arcadia e dal Romantici-smo, è un fenomeno tra i più rilevanti della nostra lingua; che, conMarino, esprime tutte le sue possibilità: I'enumerazione, le associa-zioni e moltiplicazioni vocabolistiche, l'ossimoro (lascivamente one-sta), la metafora, I'allegoria, la similitudine, il congegno delle aggetti-vazioni, I'allitterazione, le endiadi sostantivali e aggettivali, la si-neddoche (una voce pennuta, una piuma canora), la fonosemantica(aspri-diaspri, voglio-invoglio), i giochi verbali, le antitesi, la visivi-tà, I'anagramma... Entrano nella scrittura marinista il bestiario, I'er-bario, il lapidario, un catalogo di meraviglie per affermare, con le termi-nologie oniriche, simboliche, biologiche, quella poetica della «mera-viglia» che è epifania della parola: «E del poeta il fin la meraviglia[...:] chi non sa stupir, vada a la striglia». Si vedano, coi ricorsi alle coppie avverbiali spagnolesche (parti-colarmente nondimeno, chiara e apertamente), alle inversioni sintat-tiche (nella suafilosofia, dell'uomo quando disse), al passato forte(d'uso meridionale: cose da te dimostre), alle simmetrie sintattiche(l'orofra'metalli, la porporafra'colori): gli usi di spagnolismi comeamariglia granadiglia colombeggiare porporeggiare; e di molce ad-dolcisce accarezza, egro affflitto, algente fredda, luci occhi, folce ap-poggia, inun nello stesso tempo, crome note musicali, inostra impor-pora, sconcacato sconciato,fusetto pugnale, sfigliatura aborto, ramuf-fola grammatica, dattoli datteri, impacchiucando imbrattando, gniffegnaffe sfregio, dilicatura eleganza,fuori del manico fuori luogo, me-nante gazzettiere, spagnolata fanfaronata, pittima seccatore, asteri-smi costellazioni, scarabombardone rumoroso, demogorgone demo-ne, tarantara tromba, caranfole cavità, sterquilini letamai, lineaturafisionomia disegno...

4. Basile e Tesauro

Nel 1630 esce, di Scaligeri della Fratta, un provinciale Discorsoqual prova che la favella naturale di Bologna precede ed eccede latoscana in prosa e in rima. Del 1644 è il Rimario dello «stile subli-me» di Fioretti e l 'Oracolo della lingua d'ltalia di Franzoni. Del 1647è la rivolta napoletana di Masaniello, al grido di «viva il re di Spagnae muoia il malgoverno»: ciò che conferma la popolarità della monar-

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chia spagnola anche presso il popolo. Due esiti importanti della lingua seicentesca sono, nella tradizioneletteraria dialettale e orale, Lu cunto de li cunti overo lo trattenemien-to de Peccerille (1634-'36), in napoletano, di Giambattista Basile e,per la teoria linguistica del Barocco, il Cannocchiale aristotelico ( 1654)del torinese Emanuele Tesauro, ideologo della parola «ingegnosa». In quello che è un capolavoro della prosa napoletana, Basile sele-ziona letterariamente la briosa terminologia del sottoproletariato, aeffetto comico e ironico: cunto racconto, tantillo tantino, ciernever-nacchie raccozzascorregge, vrecciola sassolino, abbesuogno neces-sità, peccerille bambini, pertuso buco, cecata cieca, cacciarrisse cac-ciasse, nennillo ragazzino, chiuppo pioppo, preta pietra, fauza falsa,chelleta quella, preiezza gioia, farfarello folletto, autra altra, chellaquella, tatanaro chiacchìerone... Tesauro dà la definizione della lingua «ingegnosa» in tre parole-chiave o figure retoriche, fra loro collegate: argutezza, metafora, me-raviglia. L'argutezza è la capacità di creare analogie da cui nasce lametafora che, per la sua qualità inventiva, è suscitatrice di meravi-glia. Il fine è l'arricchimento di un lessico già interamente contenuto,e mai del tutto espresso, dalla natura: biscolori bicolori, ignite infuo-cato, geminata duplice, trecciera treccia... Per Tesauro, la parola è in-somma «un emblema parlante e concettoso». Prossimo alle tesi tesauriane è il friulano-romano Ludovico Lepo-reo, inventore dei «leporeambi», strutture metriche con allitterazio-ni, rime al mezzo, deformazioni parodistiche: «Come aringa fiam-minga over saracca/ Amor mi sfuma e mi consuma e secca,/ e col dar-do d'un guardo il cor mi stecca,/ e con la freccia sua mi sbreccia espacca» (saracca sardina; cui seguono guarnello vestito, tarocca la-menta, mi sboricca mi rovina).

5. Dialetto e tradizione popolare

Va osservato che la stilistica barocca, che prevale nelle arti figura-tive e nella musica, non riesce a travalicare un circuito letterario ari-stocratico. Il suo autentico rapporto col parlato è stabilito piuttostonella letteratura per il popolo: che nel secolo ha, oltre a Basile, ancheimportanti riferimenti in Giulio Cesare Croce, fabbro di San Giovan-ni in Persiceto, scrittore e cantastorie in italiano e in bolognese; nelmilanese Carlo Maria Maggi e nell'aretino Francesco Redi, anticipa-tori della cultura illuministica. Croce è l'inventore di due personaggi tra i più incisivi della lette-ratura popolare, Bertoldo e Bertoldino, rappresentanti anche due modid'essere del linguaggio. Il primo è saggio, il secondo sciocco: entram-bi sono paradigmi di un'esistenza umana segnata dalla buffoneria,dalla fatuità, dalla scioccherìa e dal rituale carnevalesco della stol-tezza. Il padano con cui Croce contamina i propri testi non è illustre mafissato alla tradizione orale. Esso presenta negoci negozi, roverso rovescio, camiscia camicia, zeffo ceffo, ciufolare zufolare, strazzi strac-ci, carroccia carrozza, loco luogo, pagliarizzo pagliericcio; e potresse-ro potressimo farebbono saperete potiamo... Una vera opzione trasgressiva per il dialetto lombardo contro lalingua codificata è quella del teatro di Maggi, che dà l'avvio alla «li-nea lombarda» illuministico-romantica proseguita da Parini, Porta,Manzoni, Dossi e Gadda. La sua è una scelta di campo a favore d'unaben determinata comunità sociale corrispondente ai milanesi cheparlano in dialetto o in un italiano milanesizzato. Si vedano i tipi pa-der mader padre madre, legria allegria, pomm mela, scendera cene-re, asnln asino, pensemm pensiamo, parpoeur quattrini, mà male, càcasa, tavan sciocco, tribulerij pianto, reloeurij orologio... La comu-nità dialettofona di Maggi s'esprime appunto nel meneghino (dal per-

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sonaggio Meneghino creato dall'autore). Questo connota una classesociale rimasta estranea ai compromessi indotti dal dominio spagno-lo a Milano in un ceto borghese corrotto e ignorante, fatto di giudicicompiacenti, legulei famelici, sbirri complici dei delinquenti e com-mercianti disonesti. Un caso linguistico forse non abbastanza indagato è quello costi-tuito da Redi, medico, entomologo, poeta e lessicografo, autore d'unprezioso vocabolario del parlato di Arezzo. Vocabolario ricavato al-tresì dalle opere di scrittori aretini come Guittone, Guadagni, SciarraGeri, Nardi, Boccarini, Bandino, Pollastrino, ecc., oltre che dal notoBacco in Toscana ( 1685), ditirambo (greco dithyrambos, originarioeponimo di Dioniso) dello stesso Redi. La fonetica delle forme dialettali registrate dall'autore ha un siste-ma assai unitario: abadalillare temporeggiare, abalociare abborrac-ciare, abl usticare abbrustolire, adruzzolare ruzzolare, baccina vitel-la, balecenare balenare, baturlare tuonare, chiappola ingiuria, chia-l~ello cl1iodo, hieppa paura. Nel Bacco in Toscana si hanno tonfanibicchieri, -a/nl~el-lucc(7 pastrano, rematico minaccioso, ecc. Del 1679 e 11 sa,~g,i(7 e 'l sunto della Favellatoria un'opera gram-maticale dedicata a Redi. Dello stesso anno sono un iibro di Benedet-to Menzini su l la Cost1 M-ione irregolare della lingua toscana e un Vo-cabola) io fio1 e/1ti110-1 oma1lesco di anonimo. Del 1682 è la stampa aPalermo della Prosodia italiana di Placido Spadafora.

6. Lingue della fantasia

Contrariamente a quanto preteso, piuttosto che giocoso e festevo-le, il '600, secolo dello sviluppo del melodramma (gr. mélos, canto mu-sica, e drama azione), è cupo, ambiguo e contraddittorio. Vi si parlae scrive una lingua babelica, varia e molteplice come la stessa vita so-ciale, inquieta e disgregata: lingua oltremodo fantasiosa e ricca dipossibilità di rinnovamento, non rinserrabile in un modello unitarioperché, dopo la liquidazione dell'aristotelismo e petrarchismo rina-scimentale, adesso aperta a tutte le avventure culturali, compreso ilnascente giornalismo. In questo clima si esprime la satira dell'epica cavalleresca del mo-denese Tassoni e di Carlo de' Dottori, Ippolito Neri, BartolomeoCorsini, Lorenzo Lippi e Francesco Bracciolim. In Tassoni, antipetrarchista autore della Secchia rapita (1630),concentrato, in dodici canti in ottave, di fantasiosi gerghi, vernacoli eriboboli, i campioni: orsicciati bruciacchiati, terziopelo velluto, tuttoché benché,furno furono, serviziale clistere, ranno detersivo, orical-chi trombe, instrutta istruita, triaca contravveleno, ambracane am-bra grigia, sciorre sciogliere, gìan andavano, scalchi servi, butirroburro, digesto registro, speme speranza... In Neri: billère burle, sciarrate vanterie, covaccio covile, ver ver-so; in Corsini: piva zampogna, cetera cetra, bericuocolaio dolciere,bitocco bitorzolo; in Lippi: pina pigna, buffetto credenza, stidione schi-dione; in Bracciolini: incontanente immediatamente, preste svelte,filunguelli fringuelli. Tra i dialettali, hanno rilievo linguistico i veneziani Busenello (ve-doetta vedovella, gaveva aveva, sgrignetto sorrisino, osel uccello,feu fai, steu stai, credel credetelo); Boschini (gh'è gli è, femo faccia-mo, slonghè allungate); il precursore della poesia vernacola in roma-nesco Giovanni Camillo Peresio (venneroli rivendugholi, scopettolispazzolini, vennea vendeva, scuffiotti cuffiette, pannispalli scialli,pizzicarol pizzicagnolo, rescallar riscaldare); Giuseppe Bernen, ro-mano, autore del Meo Patacca (1695) (brusciorno bruciarono, scar-pinano camminano, cacafochi archibugi, tiritosto rissa, dereto die-tro, scotolava scuoteva, zompi salti, cianche gambe, cianchetta sgam-betto, gnucca testa, ciumachelli piccolini, foioselli rabbiosetti, busci

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buchi); i napoletani Giulio Cesare Cortese e il misterioso Sgruttendio. Cortese è l'autore della Vaiasseide (1615), poema delle serve (va-iasse): prena incinta, trasesse entrasse, ninno nennella bambmobambina, preiato felice,forfecella forbicette, maríteto tuo manto, al-lecordo ricordo, 'ncoppa su, tanno allora, porraie potrai, portaie por-tò, ontaie unse... Di Felippo Sgruttendio de Scafato non si sa niente. Qualcuno hacreduto di ravvisarvi lo stesso Cortese, ma l'ipotesi sembra impropo-nibile per motivi stilistici. Il nome di questo poeta della tradizioneorale è, chiaramente, un anagramma in senso osceno, rumoroso, fla-tulento: Felippe peto, gruttare ruttare, Scafati località vesuviana am-morbata da gas mefitici. La sua opera conosciuta è La tiorba a tacco-ne ( 1646), grotteschi versi d' amore dedicati, certo per meschina ven-detta d'amante deluso, a un'orribile Cecca che ha faccia tonna (tonda) e colore del premmone (polmone) giacente da più d'un mese nellavocciaria (macelleria). Alla bellezzetùdine di Cecca sono dedicati,oltre che versi ironici e ribaldi, Li trivole pe la morte... Tra altri, da citare il siciliano Paolo Maura: aceddu uccello, tràsirientrare, splinnenti splendente, lumiuna limoni, trunza torsoli; i fio-rentini Jacopo Soldani (hocci ho lì, smacca umilia) e Pier Salvetti(tratto colpo, stocco pugnale, mia miei). Nella prosa satirica e popolare del tempo, emergono il vernacoloerotico del calabrese Domenico Piro, detto Donnu Pantu, e la lingua diprotesta del napoletano Salvator Rosa, pittore e poeta che per le sueinvettive contro il potere sarà perseguitato dall'Inquisizione: turciman-na ruffiana, bardasse prostitute, relasse stracche, gàngani gangheri... Anima spagnolesca hanno i sette volumi, detti latrati, col titoloDel cane di Diogene ( 1687- ' 89) del genovese Francesco Fulvio Fru-goni, che ha compiuto gli studi in Spagna. Mescidatore e arabescato-re di stili e lingue, allievo e amico di Tesauro, Frugoni dispiega un les-sico d'intonazione dialettale su una base grammaticale classica, ric-co di accrescitivi, iperboli, neologismi e giochi verbali, sinonimico,antinormativo, dissacrante: misverrebbe svenirebbe, volaglie gruppodi volatili, letteratàsini letterati asini, pimmea pigmea, zizzolardonegrassone, tetrichezza tetraggine. Ricorrenti, in formulazioni allegori-che, gli zoologismi: scrofone alocco castrone caprio moflone gatto-naccio basilisco aspido dipsade cerasta idro anfisibena scorzonescarpione enidro volponcino sorco irco. O l'uso censorio di femmi-niere, che è, via via, rondone d'ogni buca, moccolo d'ogni lanterna,falcone d'ogni passera. E i vezzeggiativi derisori: morbidotto suc-chiosotto pubertotto morbinosello sbarbatello balzanello. Coi verbineologizzanti: bambineggiare buffoneggiare tambureggiare cal-deggiare grandeggiare lenonizzare gomor~izzare pedanteggiare. Gliaggettivi tratti da sostantivi: gufeschi coticagnuti grugnesco facchi-nesca zaffaranato capponesca pallorosi. E la neo-onomastica: Bam-balio Pellicciacciaccio Asiniano Borboglio Valdrappaccio Miccio-passero Gonnellastrio Furchinpalo Ciabattonio Sicomorone Tacca-gnazzo Pederast1 io Stramboinone... Tutti esiti d'una lessicalizzazioneeminentemente «visiva», tipica dell'inventività orale, fatta altresì di«arguzie figurate» secondo il dettato di Tesauro. E il carattere d'unacultura barocca per la quale le cose sono parole, strette insieme in ana-logie che fondono significato e significante.

7. La restaurazione arcadica

Non molto più di un'indignata protesta contro le trasgressioni lin-guistiche del secolo va considerata l'Arcadia, fondata a Roma nel 1690alla corte dell'ex regina Cristina di Svezia da un gruppo di letterati:bucolici cantori del bosco ombroso e del dolce mormorio (Rolli), delcocchio e dellefaci (Savioli), dei silvestri dumi e dell'usignoletto(Vittorelli).

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L'ideale linguistico dell'Accademia è di «esterminare il cattivo gu-sto [...,] perseguitandolo ovunque si annidi». Gli arcadi, quasi semprescrittori di scarso valore, assumono un'onomastica mitizzante ispira-ta alle pastorali greco-latine e imitano Virgilio e il poeta georgico gre-co Teocrito. Portano la parrucca, il ventaglio, la crinolina, la tabac-chiera, lo spadino, le scarpette con le fibbie luccicanti. Tutto questo,al pari del loro linguaggio languido, pieno d'affettazione e luoghi co-muni, fa parte di un costume definito Rococò. In esso c'è spazio perun recupero della stilistica trecentesca e per una poetica dell'imita-zione che si confonderanno, fino a sparire, nelle articolazioni lettera-rie settecentesche. L'Arcadia - che forse ha il suo unico poeta nel palermitano Gio-vanni Meli - rimane schiacciata tra le riformulazioni seicentiste dellalingua, prossima a Tasso e a Marino, di Metastasio, autore di melo-drammi, e il modello linguistico di Vico.

Il «secolo dei Lumi»

1. Nuove parole

L'inizio del '700 segna la fine del dominio spagnolo in Italia e l'av-vento a Milano degli Austriaci, che vi rimarranno perun secolo e mez-zo. I Borboni, di antica origine francese, dominano nel Meridione,mentre i principi di Asburgo-Lorena sostituiscono a Firenze i deca-duti Medici. In Sardegna, dove la lingua scritta è lo spagnolo, gover-nano i Savoia. L'italiano è stabilmente diffuso in tutte le attività cul-turali e amministrative del paese, ma parlato da ben pochi dei quasidiciassette milioni di abitanti. Crocevia della cultura europea, I'Italia subisce l'influenza anchelinguistica di Francia e Inghilterra. Dal francese, penetrano nel nostrovocabolario: moda flanella fermentazione ghette bignè gattò ragùraffinazione cotoletta zinco bretelle vanitoso bicicletta paesano ga-rage ciniglia picchetto analisi caffè bomboniera liquore portamentofricassea griglia comò toletta brillantina lillà montura cernierafi-nezza condiscendenza abbordare. Con locuzioni quali buon tono, manod'opera, bello spirito, materie prime, punto di vista, colpo d'occhio,colpo di mano, far la corte, dar le dimissioni, aver l'onore, ecc. Dall'inglese entrano le parole costituzione intervista opposizionemilordo e miledi (le ultime due, poi cadute). Mediante un filtro linguistico ora transnazionale passano, inoltre,lemmi trasfusi dal latino: solvere loculo corolla pistillo prognosi oscil-lare. E latinismi e grecismi attraverso il francese: coalizione duttileemozione epoca belligerante... Dall'inglese: colonia sessione legi-slatura esibizione imparziale, libero pensiero, senso comune, ecc. Compaiono le forme opinione pubblica, economia politica, enci-clopedico automaticofinanziario capitalista. Coi termini tecnico-scientifici ostetricia scarlattina inoculazione microcosmo oculistaanalisi magnetismo aeronautica. E, dalla seconda metà del secolo,risorgimento... La lingua italiana importa parole quali nickel e cobalto (dal tede-sco), vampiro (dallo slavo), nababbo (dall'Oriente). Esportafiorino(nome della moneta fiorentina, ora olandese) e, nel francese, inglesee tedesco, villa dilettante influenza pittoresco pianoforte mandolinovilleggiatura grissini Sport (da disporto o diporto) pizza gondolaspaghetti risotto laguna espresso, e banca bancarotta tariffa, ecc. Dal dialetto passano all'italiano malocchio e iettatura (dal napole-tano), birichino (bolognese), calli (veneziano), pupazzo (romane-sco); e, come neologismi o parole di nuovo significato: materialismofatalismofilantropo cosmopOlita patriottico despotismo editore sca-fandro letterato parolaio economista cambiale ecc.

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Il '700 è, per l'Italia, un secolo di femmenti e incertezze ove s'inse-risce la cultura d'oltralpe che già nel '600 aveva cominciato a eserci-tare la sua influenza con Comeille e Racine, Molière e Bossuet. Letraduzioni dal francese, mentre inducono l'esigenza d'una lingua chesia espressione di «idee chiare e distinte» (Cartesio), presentano fati-cosi calchi di parole (disabigliè regrettare delebrato mantò sucì ma-demosellafisciù brelocco visaggio trumò burò...) e costrutti manie-rati (malgrado di, con più diforza, vengo di dire, vengo difare, l'ope-ra la più eccellente, ecc.). Il mito purista dell'eleganza linguistica è così rivolto a un'esigen-za di chiarezza in gran parte teorica e ancora estranea alle ragionid'una consonanza fra lingua parlata e scritta. Questo, malgrado unasempre maggiore diffusione della cronaca giornalistica e dei linguaggidell'economia e della politica. L'italiano s'impone nella letteratura, nella giurisprudenza e nellamunicipalità; ma nella comunicazione quotidiana, anche presso la bor-ghesia, prevalgono i dialetti, sola fonte di vitalità linguistica. Il solcotra la lingua libresca e quella parlata s'approfondisce ulteriommente e,in conclusione, si può osservare che l'italiano è usato solo dai toscanie dalla classe colta. Una classe che s'avvale d'una lingua con radicitrecentesche, invariata, estranea a quell'uso parlato e in continuo motoche ha cambiato completamente la lingua francese arcaica. Il «secolo dei Lumi» vuole una lingua sostanziata dai fatti, dall'e-sperienza, dalla ragione: lingua metaforizzata da parole come luce il-luminazione illuminato illuminare, diffuse da giomali, opuscoli epubblicazioni d'ogni genere che avranno in Europa il loro massimocompendio nei trentaquattro volumi dell'Encyclopédie ou diction-naire raisonné des sciences, des arts et des métiers par une société degens des lettres (1751-'80) di D'Alembert e Diderot.

2. Vico

Una reazione all'influsso francese e all'assolutismo razionalista,piuttosto che al barocco seicentesco, va ritenuto il fervore linguisticoche anima il napoletano Giambattista Vico. Egli teorizza una «linguamentale», cioè un modo d'immaginare, comune a tutti gli uomini. Ro-vesciando la tradizione grammaticale, affemma poi la storicità dina-mica della lingua e delinea i rapporti sociali da cui essa nasce edevolve. L'uomo, cui è preclusa la conoscenza completa del mondo natura-le, non può conoscere altro da quanto egli stesso ha fatto, ossia la pro-pria storia, suo unico verum-factum e sua vera scienza. Nella Scienzanuova ( 1725, 1730, 1744), VICO traccia tre frasi essenziali della storiadell'uomo, che sono quelle del rapporto con le «cose», poi con le «pas-sioni» e infine con la «lingua umana». Quest'ultima è, a sua volta, di-visibile in tre lingue, corrispondenti a tre momenti del divenire stori-co: «degli dèi, degli eroi, degli uomini». Dapprima, gli uomini «sen-tono senza avvertire, dipoi avvertono con animo perturbato e com-mosso, finalmente riflettono con mente pura». Hanno importanza nel linguaggio vichiano i «corsi» e «ricorsi». Ilcorso è quello della civiltà umana, ed è comune a tutte le «nazioni».Esso passa attraverso tre età: età del senso (degli dèi), della fantasia(degli eroi), della storia (degli uomini). Ma se dell'età della storia l'uo-mo fa un uso errato e antisociale, accade il ritomo all'indietro: alla«barbarie della riflessione» priva dell'antica generosità barbarica etuttavia in grado di ricostruirsi come ricorso, ovvero ritomo alle ori-gini e, dunque, ripetizione. Tra i corsi e i ricorsi, la dialettica del vero e del certo: dove lafilo-logia, che studia il certo, s'incontra con lafilosofia, che s'occupa delvero. Il certo interagisce con la storia, il vero con I ' insieme dei valoriche devono guidare la storia. La sintesi tra filologia e filosofia si ot-

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tiene attraverso l'arte critica della parola. Tra le parole-cardine di Vico: iconomica (per definire il govemofamiliare), imperi (i poteri govemativi), mercuriale (relativo alla me-dicina ermetica), subbietti (sono intesi i «fatti»: come la lingua, le na-zioni, I'organizzazione sociale, ecc.), diritto (civiltà), gesti, gerogli-fici (diversamente dalle parole, sono, in sé, cose o nozioni), parlarieroici (traslati, metonimie, metafore, ecc.: parlari accorciati, con-trapposti al parlare convenzionale), conato (inteso moto, opposto al-I'atarassia divina: esso è «proprio della libertà della mente» ed è gene-rato dalle necessità umane), topica (s 'esprime quale fatto sensibile le-gato alla fantasia e alla memoria). Quanto s'impone, nel triadico sistema vichiano, è infine un'idea fon-damentalmente estetica della lingua.

3. Polemiche linguistiche

Per una lingua non estetica ma funzionale è il filologo e storicomodenese Ludovico Antonio Muratori. Per ragioni di utilità, egli èfavorevole al travaso della temminologia francese nell'italiano ma an-che convinto che la lingua italiana non sia «inferiore alla franceseanzi può facilmente provarsi superiore». La sua attenzione è volta alleattinenze fra lingua e società, fra lingua istituita e sviluppo lessicale.Inoltre egli pensa a un uso temminologico esatto e al recupero di unatradizione toscana aperta alla modemità e al principio della «chiarez-za» cartesiana. Affiancato alle opinioni di Muratori è Lorenzo Magalotti, scien-ziato e letterato romano, giudicato, per la sua apertura ai francesismi,un «corruttore» della lingua italiana. Invece, I'intento di Magalotti èquello di teorizzare una lingua illuministica, comunicativa più cheespressiva, geometricamente delineata sulla corrispondenza fra idee,parole e cose.

Nel 1717 esce l'anticruschista Vocabolario cateriniano di Girola-mo Gigli e, dal 1729 al 1738, I'edizione completa in sei volumi delVocabolario degli Accademici della Crusca. Singolare è l'onomastica che i Cruscanti si sono scelti già dallafine del '500. Il rettore dell'Accademia è detto Arciconsole, l'acca-demico più anziano Castaldo, il più giovane Massaio. I soprannomidegli accademici vengono dedotti da quanto conceme, con la crusca,il grano e il pane. Ci sono il cruschista Gramolato, il Macerato e ilSollo, I 'lntriso, I'lnsaccato e l 'lnferigno, il Trito, I'lnfarinato e l 'Ari-do. Il contenitore dei libri in lettura è chiamato tramoggia, gli scaffalisono detti frulloni, le raccolte di giudizi sulle opere esaminate si di-conofiore, stiacciato, farina. Le sedie della sala di riunione hannofomna di cesta per il pane, con spalliere fatte a pala di fomo. La cat-tedra prende il nome di bugnola, I'uma per le votazioni tafferia; esono chiamati roste i ventagli usati dagli accademici durante le sedu-te estive. Sembrerebbe, quella cruschista, quasi una confratemita di buon-temponi, che però diviene arcigna quando si tratta di cernere il «piùbel fiore» della lingua italiana.

Al Vocabolario segue un compendio dello stesso nel 1739, pronta-mente doppiato dalla commedia satirica di Francesco Arizzi 11 To-scanismo e la Crusca o sia 11 Cruscante impazzito (1739) e dalla cri-tica La Crusca in esame (1740) di Carlo Antonio Donadoni. Fino,piùtardi,allapolemica RinunziaalVocabolariodellaCrusca( 1764)del milanese Alessandro Verri, tra i fondatori della celebre rivista 11Caffè. Il documento è interessante per il suo illuminismo integMIe, con-

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trario a una lingua per ceti privilegiati e a un fommalismo troppo stac-cato dai moti della cultura e della società. La critica di Verri investe,oltre al cruschismo, tutta la storia della lingua italiana, irrazionalmenteconservatrice e chiusa a quelle influenze culturali, quindi linguisti-che, che la ragione non può ignorare. «Nessuna legge - affemma Verri- ci obbliga a venerare gli oracoli della Crusca o parlare soltanto conquelle parole che si stimò bene di racchiudervi.» Perciò, «se analiz-zando le parole Francesi, Tedesche, Inglesi, Turche, Greche, Arabe,Sclavone, noi potremmo rendere meglio le nostre idee, non ci aster-remo di farlo». Anche perché «se il Mondo fosse sempre stato rego-lato dai Grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl'ingegni, ele scienze che non avremmo tuttora né case né morbide coltri, nécarrozze, né quant'altri beni mai ci procacciò i'industria, e le medita-zioni degli uomini». Così, «protestiamo che useremo ne' fogli nostridi quella lingua che s'intende degli uomini colti da Reggio di Cala-bria alle Alpi: tali sono i confini che vi fissiamo, con ampia facoltà divolar talora al di là del mare, e dai monti a prendere il buono in ognidove». Postulando che «le parole servono alle idee, ma non le idee alle pa-role», Verri tralascia ogni estetica della parola («la prima, la vera bel-lezza d'un temmine è la convenienza») e ne affemma la relatività («unvocabolo unico e proprio è sempre bello finché non se ne trova un al-tro più acconcio»). A Verri fa da contrappunto Giuseppe Baretti con la sua Frusta let-teraria, rivista veneziana tra le più importanti del '700. Ma, pur cri-ticando gli scrittori del Caffè accusati di favorire un gratuito imbar-barimento della lingua, non rispammia gli ambienti della Crusca, visticome centri di potere e di corrotto immobilismo. Vicino alla correntesensista dell'llluminismo, Baretti enuncia un ideale di lingua chiara,toscana ma non necessariamente fiorentineggiante, non distaccatadal parlato e rivolta a una ricerca di corrispondenze fra scritturae volgare. Una precisazione più convincente in tal senso si ha col veneto Mel-chiorre Cesarotti (cfr. Saggio sulla lingua italiana, 1785; poi Saggiosullafilosofia delle lingue, 1800). Sostenitore delle traduzioni dallelingue straniere, Cesarotti è per una conoscenza di tutti gli idiomi pos-sibili. Anche se imperfetti, essi hanno pari dignità e, confrontandosi,possono produrre cambiamenti e miglioramenti reciproci. La linguanon può essere imposta da un «tribunal dei grammatici» o da qualsi-voglia «privata o pubblica autorità» perché essa nasce dalla libertà edal consenso della maggioranza dei parlanti. Questi non si basano suprecetti, bensì su tre princìpi: I'uso parlato; I'esempio, provenientedagli scrittori, che comunque «non fanno legge»; la ragione, che perCesarotti rimane quella illuministica, la quale può «ben giudicare del-I'uso e dell'esempio». Su posizioni nazionalistiche, ma sintomatiche dell'idea indipen-dentista e risorgimentale propagata nella classe dirigente piemonteseche assurnerà il governo dell'Italia dopo l'Unità, è Gianfrancesco Ga-leani-Napione (cfr. Dell'uso e dei pregi della lingua italiana, 1791-'92). A differenza di Carlo e Gaspare Gozzi, isolati nell'Accademiaveneziana dei Granelleschi in difesa del purismo e nemici della «gal-lomania», Galeani-Napione è per un'integrità «politica» della lin-gua: da salvaguardare sopranutto difendendo il territorio italianodalle pressioni straniere. La sua ideologia di lingua «patria» va alloravista nell'ambito del nascente sentimento di liberazione serpeggian-te in Italia contro l'oppressore.

4. Da Goldoni a Parini e Alfieri

Estranea alla politica ma certo critica verso la decadente classe pa-trizia è la lingua teatrale in veneziano, lombardo, italiano e francese

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di Carlo Goldoni. Attento alle possibilità espressivo-comunicativo-spettacolari del dialetto, diversamente da altri autori che adattano ildialetto alla lingua, Goldoni opera al contrario, adeguando l'italianoalle esigenze del parlato comune. In ciò fedele al suo principio che ilteatro sia «una imitazione delle persone che parlano, più di quelle chescnvono». Il procedimento goldoniano, opposto, per esempio, a quello del poetaMeli che italianizza il dialetto siciliano, non differisce molto da quel-lo che sarà poi seguìto da Verga nella sua narrativa in italiano parlato,e perciò con struttura dialettale. Nel 1754 iniziano all'università di Napoli le prime lezioni di eco-nomia politica tenute in italiano da Antonio Genovesi. Nel 1759 Ono-frio Branca pubblica a Milano un Dialogo della lingua toscana, cuiseguono Dei delitti e delle pene ( 1764) di Cesare Beccaria, innovato-re della lingua giuridica; il glossario di anonimo Kaccolta di voci ro-mane e marchiane ( 1768); una Grammatica ragionata ( 1770) di Fran-cesco Soave; una Storia della letteratura italiana (1772-'82) di Ge-rolamo Tiraboschi; i dialoghi Della lingua toscana ( 1777) di Gerola-mo Rosasco; il trattato Del dialetto napoletano ( 1779) di FerdinandoGaliani.

Nel 1783, il granduca Pietro Leopoldo ordina la soppressione del-I'Accademia della Crusca, che viene fusa con l'Accademia Fioren-tina. Un suggello alla vicenda linguistica settecentesca è posto dall'o-pera di Giuseppe Parini, che chiude idealmente il secolo, e da Vitto-rio Alfieri, annunciante la sensibilità romantica ottocentesca. Parini,che dichiara la lingua italiana «della natura di quelle che chiamansimorte», scrive: non gisti non andasti, teme timori, piato litigio, veglivecchi, speglio specchio, zendado velo, mugon muggiscono, isti an-dasti, alt~ice produttrice, itene andate,paro coppia, patulo ampio, usciòuscì, scutica frusta... Alfieri, che nel 1766 decide di dedicarsi «a parlare, udire, pensaree sognare in toscano», è il più inventivo autore di neologismi del suotempo. Sono rimasti noti: disinventore odiosamata immilanarsi di-svallarsi disaccentati genuflessioncelle sesquiplebe repubblichinomisogallo vocaboliera spiemontizzarsi disferocire giovesco berli-nale cardinalume tragediabile, ecc.; e costrutti come uomo visi-tante riverenziante piaggiante in Roma o religion di ragion sreligio-nata...

Il secolo della prosa

1. La lingua del Romanticismo

L'Illuminismo che ha preparato la Rivoluzione francese (1789) èanche l'anima culturale della rivolta che porterà alla proclamazionedel Regno d'Italia (1861). L'epoca che precede il Risorgimento è trale più esaltanti della storia italiana, segnata da grandi fermenti politi-ci e culturali: in particolare, dal sentimento di un'unità linguistica nonseparabile da quello dell'unità politica per uno Stato nazionale e in-dipendente. L'800 conserva forme quali tenghiamo teniamo, sciorre scioglie-re, appo presso, contra contro,fuora fuori, vidimo vedemmo, ecc.; lagrafia publico diriggere aqqua catolico millione, franco bollo... Sistabilizzano federazione comunista socialista reduce rivoluzionariocivismo costituente emigrato cravatta locomotiva economizzare mo-no~olizzare traslocare postale mozione inesatto, ecc. E insieme all'idea risorgimentale che va considerato il Romantici-smo italiano, assai diverso da quello tedesco sorto alla fine del XVIII

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secolo. In Germania romantisch, dal sostantivo Romantik, si co-niuga con la fase storica romanza, cioè medioevale. In Inghilterra,nel xvIIsecolo, romantic (da romance) era sinonimo di stravagan-te, fantasioso, pittoresco: divenendo poi corrispettivo di medioevale ogotico, sempre in contrapposizione a classico. In Francia, nel seco-lo XVIII, romantique equivale a malinconico, appassionato, senti-mentale. Dal 1797 al 1805 esce il Dizionario universale critico, enciclope-dico di Francesco Alberti e, nel 1808, la difesa puristica Dissertazio-ne sopra lo stato presente della lingua italiana di Cesari. Nel 1811,Napoleone ripristina l'Accademia della Crusca. Nel 1816, circola unabizzarra Verbisesquipedaliomania di Tommaso Grossi. Degli anni 1817-'24 è la Proposta di alcune aggiunte e correzioni al Vocabolario del-la Crusca di Monti e del 1825, a Napoli, I'inizio della Scuola puristi-ca di Basilio Puoti. Degli anni 1830-'32 è il monumentale Dizionariodei sinonimi di Nicolò Tommaseo, cui seguono il Vocabolario dome-stico napoletano e toscano, ostile ai dialettismi, di Puoti; I'Analisi cri-tica dei verbi italiani ( 1843) di Vincenzo Nannucci; sette fascicoli del-la quinta edizione del Vocabolario della Crusca (1843-'52), I'innoFratelli d'ltalia (1847) di Goffredo Mameli...

L'eterna «questione della lingua» - con protagonisti attardati comeVincenzo Monti, fautore d'un italiano dotto escludente il parlato, eAntonio Cesari, purista nostalgico del '300 quando tutti «parlavano escrivevano bene» - sembra trovare una risoluzione con AlessandroManzoni. Risoluzione linguistica (Manzoni trasforma l'italiano dalingua di tradizione in lingua viva), non meno che storica e politica sesi considera che la proposta unificatrice dello scrittore è parallela alprocesso sociale verso lo Stato unitario. Uno Stato dove, al supera-mento delle differenze fra lingua scritta e lingua parlata, siano sottesinuovi rapporti fra civiltà e popolo-nazione. Questo tema ha a che ve-dere con la cultura romantica europea che, nell'800, consolida ilprincipio del legame fra lingua e Stato nazionale. Al centro della sua opera maggiore, I promessi sposi (edizione de-finitiva 1840-'42: che presenta diverse centinaia di variazioni, in les-sico fiorentino, delle stesure del 1823 e del 1 827), deliberatamente de-stinata a un vasto pubblico, Manzoni elegge a protagonista il ceto po-polare. Un ceto che, privo dell'unità linguistica, I'autore fa parlarenell'unico dialetto riconosciuto come letterariamente nazionale: ilfiorentino. Per Manzoni, la lingua italiana «è in Firenze, come la lingua latinaera in Roma, come la francese è in Parigi». Su tale ipotesi, egli deter-mina la sua ricerca d'una lingua per gli italiani: «Cercando la linguaitaliana - scrive - io mi propongo di cercar altro che il mezzo di in-tendersi italiani con italiani». Nel fiorentino, parlato allo stesso mododal popolo, dalla borghesia e dagli stessi letterati, Manzoni ravvisacon l'identità o equivalenza funzionale fra dialetto e lingua, un mo-dello adottabile da tutti gli Italiani.

C'è, alla base dell'idea dello scrittore, che illuministicamente noncrede all'autonomia della parola e tanto meno a una innata arbitrarie-tà del segno linguistico, la convinzione che le parole siano specchiodella realtà e veicoli di contenuti uguali per tutti. Supponendo, inol-tre, una sorta di sovrapponibilità fra scrittura e parlato, Manzoni cri-tica il ricorso ai sinonimi, alle connotazioni dialettali, alla pluriver-balità e alle variabili lessicali. Le sue proposte hanno successo, tanto che, nel 1868, il ministrodella Pubblica istruzione Broglio nomina una commissione, presiedu-ta dallo stesso Manzoni, che sceglierà come lingua nazionale il fio-rentino. Il primo atto della commissione è la stampa, nel 1870, del Nòvovocabolario della lingua italiana secondo l'uso di Firenze. L'accen-

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to sulla parola nòvo, eliminando il dittongo uò, è già un segnale del-l'intento di forrnalizzazione anche fonetica della lingua. Ma questarimarrà solo nell'uso fiorentino, al pari della pronuncia aspirata di h p t e di c e g tra vocali.

Non è tanto sull'idea di unità linguistica e sull'uso storico, ma suquello norrnativo del fiorentino che il glottologo lombardo GraziadioIsaia Ascoli (cfr. Lettere glottologiche, 1887) innesta la sua polemicacontro l'ideale di un'egemonia della lingua di Firenze. Ascoli ravvi-sa nell'ipotesi fiorentinista un rinnovato purismo imitativo e, se am-mette l'importanza di Firenze per una prima parte della storia lingui-stica italiana, ne contesta il primato nella contemporaneità. Firenzenon è più, da tempo, il centro culturale della nazione, e non è certo daparagonare - come fa Manzoni - a Parigi che è catalizzatrice dell'e-conomia, della politica e di tutta la cultura francese. Altre città italia-ne sono importanti almeno quanto Firenze e certo non più di Roma,capitale del Regno ( 1870). Né è sostenibile la tesi che il dialetto fio-rentino ottocentesco sia ancora quello dei grandi scrittori del '300.Del resto, già dal secolo XVI l'italiano era lingua stabile e sovraregio-nale, con una struttura lessicale definita. Non è allora proponibile inmodi tassativi, dopo secoli, la sostituzione del molteplice patrimoniolinguistico, che coinvolge storia e cultura, con un solo dialetto, siapure illustre. Una tale pratica contrasterebbe, inoltre, con le esigenzedei lessici delle scienze e con la stessa scienza linguistica, per la qua-le ogni lingua di cultura è degna di studio autonomo. Di Manzoni viene infine criticato un particolarismo che, se puòdare risultati letterari notevoli com'è avvenuto coi Promessi sposi,può creare la moda nefasta degli imitatori. Allora è con un atteggia-mento liberista, aperto ai parlanti di tutta la nazione, protagonisti enon eterodiretti, che può nascere una vera unità della lingua. Si trattadi un'unità nella molteplicità, utile a evitare il decadimento di un idio-ma verso formule stereotipate che impoveriscono e banalizzano illinguaggio. Risalta, qui, come il populismo anche cattolico di Man-zoni sia cosa diversa dal progressismo illuministico di Ascoli. Resta da osservare come, se è vero che l'italiano include molte vocinon fiorentine in grado d'arricchire la lingua comune, sia anche veroche la lingua italiana abbia una grammatica e una fonetica fioren-tine. Mediatore tra le posizioni di Manzoni e Ascoli è il filologo abruzzeseFrancesco D'Ovidio che, pur distinguendo le diversità tra il fiorentinodel '300 e l'italiano dell'800, ritiene che l'uso della lingua debba esserelibero senza per questo dovere rinunciare al prototipo fiorentino.

2. Manzoniani e antimanzoniani

Rilievo nel dibattito sulla questione linguistica hanno, nel corsodell'800, anche le posizioni di Giosue Carducci e Luigi Settembrini,antimanzoniani; di Edmondo De Amicis, dell'antiromantico Carlo Catta-neo, oltre che, all'inizio del secolo, di Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. L'antimanzonismo carducciano è rivolto a quel movimento epigo-nale liquidato come «manzonismo degli stenterelli» ed è altresì vin-colato al culto d'un classicismo aristocratico che nega l'esigenza del-I'istruzione per tutti. Convinto, al pari di Manzoni, che lo studio della lingua sia la «pri-ma manifestazione del sentimento nazionale», Settembrini diversifi-ca le sue posizioni quando, anticipando le idee di Ascoli, addita l'im-portanza d'una lingua civile parlata da tutti. Manzoniano è De Amicis, autore d'una narrazione come Cuore(1886) di cui, se non il facile contenuto, è valorizzabile la precisionedi scrittura conferrnata anche nel saggio L'idioma gentile (1906). Vicina a quella di De Amicis è la lingua «disaggettivata» del fio-

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rentino Carlo Collodi, autore di Pinocchio ( 1880), libro-contenitoredi enigmi e allegorie, bestiario morale attraversato da un lungo nasodi legno indicante le «menzogne» delle parole. Cattaneo, politico e storico, autore del Principio istorico delle lin-gue europee ( 1841), capo della rivolta delle Cinque giornate di Milano( 1848), elabora una tesi prettamen~e storicistica della lingua. Ponen-do l'accento sull'influenza delle parlate prelatine nei dialetti italianiegli precisa la teoria del sostrato, cioè delle influenze e connessionifra antichi e nuovi idiomi, basilare per gli studi linguistici e dialetto-logici. Per Foscolo, il sistema verbale è un fatto sociale e politico. Quellofiorentino, in particolare, nasce da una miracolosa arrnonia che traela sua linfa da un'epoca di grande libertà intellettuale, perciò capacedi foggiare una lingua libera. Tale lingua- scrive l'autore in un arti-colo pubblicato durante l'esilio inglese ( 1816-'27), Origin and vicis-situdes of the italian language - fu poi «ridotta entro le leggi che ve-nivano discusse e stabilite da cardinali grammatici, da università dipedanti e da principi che presiedevano ad accademie stipendiate -stipendiate a compilare un vocabolario che avesse da quindi in poi laforza e l'autorità di un codice di leggi». Leopardi, dopo una qualche concessione al purismo, si sofferma sulruolo della cultura e della lingua italiane dal '300 al '500, quando essepresiedevano a «tutte quasi le discipline che si conobbero in quei tem-pi». Conscio, poi, dei pericoli di anacronismo e provincialismo d'o-gni precettistica, sostiene l'esigenza d'una lingua che, senza troppo in-dulgere all'esotismo, sia comunque aperta e partecipe al progressoculturale, segnalato anche da parole «che tutto il mondo intende, tut-to il mondo adopera in una stessa e precisa significazione»: genio sen-timentale dispotismo analisi analizzare demagogo fanatismo origi-nalità... Per Leopardi, che ha in Vico un intelletto vicino e fraterno, «la sto-ria delle lingue è la storia della mente umana» e «una lingua non siforma né stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura». Sullaquestione se Firenze e la Toscana debbano, per antichi meriti lettera-ri, considerarsi ancora centro della lingua italiana, nota che «la lin-gua presente essendo moderna dev'essere determinata non dalla let-teratura antica, cioè da quella che la determinò, ma da una che attual-mente la determini, cioè da una letteratura moderna». Perché, crede-re l'antica lingua l'unica possibile «è lo stesso che dire che gl'italianidebbano scrivere in lingua antica e morta, (giacché la letteratura to-scana è morta)».

A un filone antifiorentinesco e perciò, salvo qualche eccezione,antimanzoniano sono riportabili, con le dinamiche dialettali del mi-lanese Carlo Porta e del romano Giuseppe Gioacchino Belli, il movi-mento anticonformista e irregolare di fine secolo della Scapigliaturamilanese, piemontese e genovese, cui è assimilabile il napoletano Vit-torio Imbriani. In Porta, il dialetto letterario nasce dalla convinzione romantica eanticlassicista che la poesia non può avere codici prefissati. La sua op-zione dialettale è, oltre che estetica, politica; e cerca interlocutori trale classi popolari ignorate dalla letteratura ufficiale. Peraltro, il ver-nacolo da lui adoperato s'avvale di presupposti colti modulati dallasatira e dall'ironia popolaresca. Si osservi l'interpretazione vemaco-lare del celebre «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:/ quel giomo piùnon vi leggemmo avante»: Ah liber porch,fioeul d'ona baltrocca!/Tira giò galiott che te see bravo:/ per tutt quell dì gh'emm miss elsegn, e s'ciavo! Allo stesso modo Belli, il cui sonetto dialettale spiega bene l'affi-nità fonologica del dialetto romanesco col fiorentino. E un'affinitàche non viene da molto lontano, pensando che, nel '300, il romane-

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sco era più simile ai dialetti meridionali. Il suo processo di toscaniz-zazione avverrà a partire dall'epoca dei Medici, vicini alla corte pon-tificia. Questa, per ragioni amministrative e per estendere il suo pote-re in Italia, adottò il fiorentino, presto diffuso negli strati popolari ro-mani. La posizione prevalente della Chiesa sulla lingua dello Stato uni-tario è selettiva, come adombrato nel 1858 da un fascicolo della Ci-viltà cattolica, rivista gesuita. Non si deve - vi si sostiene - «lavar latesta all'asino»; e non si può credere di poter portare a scuola, coi«giovinetti di civil condizione», anche «gli zotici contadinelli, i gar-zonetti di bottega, i monelli di strada»... Si hanno in Belli le voci furbesco-vemacolari zàntolo padrino,tata papà, mene me, daje dargli, inciciature amplessi, ritonno roton-do, agnede andai, zu' suo, bùcio buco, tonno tondognisuno nessuno,morze morì, ecchelo eccolo, tratanto frattanto, tomo furbo, gabbianosciocco, uccello organo genitale maschile, sorca organo genitale fem-minile,fregà far l'amore, ricama~a raffinata, callo caldo, cana cru-dele...

3. La lingua «scapigliata»

Tra i maggiori «scapigliati», che fanno da raccordo tra Romantici-smo e Decadentismo, particolare rilievo linguistico hanno le operedel piemontese Giovanni Faldella, del milanese Carlo Dossi e di Im-briani. I procedimenti dei tre scrittori, che adoperano una lingua me-scidata, attuano un completo stravolgimento dei dettami manzonianie dello stesso romanzo di consumo. In Faldella, un Folengo ottocentesco, prevalgono parodie della lin-gua colta eseguite mediante intrusioni dialettali piemontesi integrali(vergougnous grugn gargagnan vardè, fieul d' Cain, fratel d' Caif-fas); dialettalismi (baulo stagno, buschette pagliuzze, lurchi golosi);latinismi (centimane comburente eslege curule libito lucratici nu-benda omninamente sonito soperna); clausole latine (incredibile dic -tu, mutatis mutandis, perinde ac cadal~er, sine ictu); goliardismi lati-neggianti (si passus, passus; si non passus, andabo a spassus, piglia-bo u~-orem et coglionabo professorem); grecismi (apata misoneismoeclampsi); tecnicismi e lemmi scientifici (emiplegia monolito anti-settica eterizzata gangliiflebotomo specola cellulare); aperture alleneoformazioni (confusionismo misoneismo battifolli masticafavefem-minismo trasformismo f glicida occhialineggia baronificata scantuf-fiavano); onomatopee (gnaulati squacquerare, sciò! sciò!, pin panpun! plin! poun! tratatrac); dinamizzazioni assonanzate dei costrutti(bellezze insidiose insidiate, le spericolate e le pericolanti, fiso efuso, gioviali e badiali, socialismo dissocievole, foga di una fuga, la-crime d'amanti non sono diamanti). Con un'infinità quasi collezioni-stica di neoconiazioni: arroncigliato ascosaglie attrappare buccica-ta cocchiume cuticagna galloria ismorbarsi mutria niffolo pove-raglia rinvecchignita inorecchito sbiobbo sgoverno spettoracciatavagolato tralunata. L'individualismo linguaiolo di Faldella si ripete con Dossi che me-scola milanese e toscano popolare, aggiungendo alla ricerca e allascelta della parola un culto parossistico dell'ortografia. Si osservino,a tale proposito, pur all'intemo di figure e costruzioni di alta lettera-rietà, talune accentazioni sempre superflue: sèmplice fantasìa èbberosècolo uòmini scrìvere primìssime quà trè suòi òttima, ecc. ecc. L'a-nafora, l'enumerazione sinonimica, la ripetizione, le figure etimolo-giche govemano la scrittura di Dossi, un autore che fa del suo lavorìolinguistico lo specchio della crisi permanente d'ogni predetemminatoo prevedibile organismo romanzesco. Un rilievo particolare ha la ricerca verbale, iperespressiva e anti-classica, di Imbriani. Combinando piani linguistici colti e vernacola-

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ri, satira e tragedia, lo scrittore stravolge l'armonica linearità manzo-niana aprendo la lingua a un'avventura sperimentale che sarà ripresanel '900 da autori come Gadda e D'Arrigo. Ironico avversario del purismo, del monolinguismo e degli schiz-zinosi spregiatori dei neologismi (i neologismofobi), Imbriani attestala sua predilezione per i dialetti: «Fo buon viso a qualunque temminedei dialetti che importi una nuova distinzione e più minuta». Ma la sua - sostiene - è «una nuova lingua e mescidata», scritta inun «gergo qualunque, né napoletanesco, né toscano». Vl prevalgonoi verbi denominali (iconoclasteggiasse tantaleggiò taumaturgheggitorquemadeggiare minotaurizzato), le alterazioni (giornalucolo gior-nalucolaccio ineziucola trionfuccio traduzionacce pinzocheracciasonettucolo universitaducola letteratucolo romanzucoli contessuco-la drammonzolo versucciattoll~, i vemacoli (cazzica! acculattasse spa-paranzano), gli scioglilingua (Scaricabarilopoli, scaricabarilese, sca-ricabarilopolitani), le fantasie onomastiche (Pizzadargento Chiap-panuvole Fumincervello Sgrillo Impagliaccio Scaricabarili Bello-buono Lesina Gallifuoco Sennaccheribbo Cimadibue Demogorgone),gli stranierismi (crascià digiunè ponce azafatta); e moltissimi neolo-gismi da suffissi e prefissi. C ' è in Imbriani, con la coscienza della separazione fra lingua lettera-ria e popolare, fra letteratura e vita, il tentativo di fondere i piani, diconnettere lingua nazionale e dialetti. La storia della lingua si identi-fica allora con la storia della letteratura; che esiste in quanto è, innan-zitutto, lingua. Una lingua che Imbriani trasfomma profondamente pernon asservirla alla «grammaticolatria», per liberarla nel dialetto vistocome radice degli idiomi del popolo italiano tutto e come «prosa del-la vita». Quanto alla letteratura tradizionale, questa è per l'autoretroppo «sublime», troppo «su' trampoli», senza «grazia a barzelletta-re»: non ci si può esprimere bene «in una lingua che non è viva nel-I 'animo tuo, che devi imparacchiare nella pozzanghera d'un vocabo-lario».

4. Giusti e Verga

Un accademico della Crusca, alla quale non ha mai dato la sua colla-borazione attiva, è il toscano Giuseppe Giusti, contrario al «gergo fur-besco», considerato «lingua bara». Tuttavia la sua lingua è quanto dipiù congeniale al vernacolo toscano antilibresco possa immaginarsi.«Quei pochi versi che ho scritto - ricorda - me li ha insegnati più lapratica degli uomini che lo studio: i miei veri maestri di rettorica nongli ho trovati a scuola, ma qua e là per via, per i caffè, per le conver-sazioni.» I suoi versi, rivoluzionari e libertari, prorompentemente po-litici e morali, sono attacchi sferzanti contro i vizi della borghesia deltempo, la boria degli arricchiti e la corruzione del clero e dei politici.La sua lingua, semplice, chiara e «parlata» pur nel suo laborioso vir-tuosismo, farà dire a De Sanctis che, con Giusti, paragonato a un «Pa-rini tradotto dal popolino [...], Firenze riacquistava il suo posto nellaletteratura italiana». Nel lessico giustiano, i toscanismi e fiorentinismi: barellare tenten-nare, barlacchio uovo marcio, brodaio ghiottone, birba birbone, cia-no uomo di basso ceto, corbello sciocco,frugnolo lanterna, grullo sce-mo, miccino avaro, passeraio gruppo di donne pettegole, quattrinaioriccone, rigiro imbroglio, ristacciare ridiscutere, sbirbarsela diver-tirsi, sbrancicato cincischiato, sbrendolo strappo, sbricio povero, sce-da smorfia... Il lungo dibattito sulla lingua, che ha prodotto una messe di gram-matiche e dizionari, compresi quelli domestici, economici, botanici,militari, delle arti e dei mestieri, ecc., ha il suo suggello nel Nuovo Di-zionario della lingua italiana (1861) a cura di Tommaseo. Seguonola promulgazione del Codice civile ( 1865), la Storia della letteratura

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italiana (1868-'71) di Francesco De Sanctis, il famoso Vocabolario del-la lingua parlata (1875) di Rigutini e Fanfani, il Codice penale (1889). Nel 1881,GiovanniVergapubblica IMalavoglia, checoronailsu-peramento del manzonismo, e, nel 1891, esce Myricae di GiovanniPascoli, che conclude e trasvaluta il vecchio schema aulico della lin-gua poetica. Grandissima è l'innovazione linguistica di Verga, superiore a quelladi Manzoni se si pensa che, mentre il milanese usa una lingua e unasintassi già «fatte» e collaudate, lo scrittore siciliano inventa, oltre aun'epica sconosciuta alla prosa italiana, una sintassi altrettanto ine-dita. La pagina scritta non è più, per Verga, il luogo di distanziamentodall'oralità e di fruizione isolata del pensiero. La lingua non è «lin-gua d'autore» bensì dei personaggi, che l'adattano alla propria sin-tassi; e la narTazione non ha il punto di vista dell'uno che scrive madei molti che parlano. Perciò il parlato non è strettamente siciliano,facilmente assimilabile al folclore, all'etnologia e alla sociologia: maitaliano. Un italiano colorato non tanto da una specificità dialettale (isicilianismi sono in Verga rarissimi), ma proprio dalla parola dei par-lanti: parola oggettiva e sliricizzata, il cui assunto non è retorico mapuntualmente linguistico, insieme umile, popolare, colto, mai inte-riorizzato. Con Verga, inizia uno «scrivere parlato» e sulla base del vero(da cui la corrente del Verismo, di cui lo scrittore è un protagonista),dove l'opera resta impersonale, autonoma dalla soggettività di chiscrive. Non si può leggere il Verga delle opere maggiori se non per-cependone la viva attenzione al discorso orale e l'assoluta libertà dapregiudizi aulici.

L' Unità d'Italia e i dialetti

1. Italiani e analfabetismo

Nel 1861 I'Italia è libera e con circa 1'80% della popolazione anal-fabeta. Nella restante percentuale, molti non analfabeti non sannoleggere o scrivere se non poco più della propria firma. Nel 1870, il60% degli individui in età scolare rifugge dall'obbligo scolastico. Delresto, lo stesso insegnamento elementare è impartito prevalentemen-te in dialetto, specie nelle campagne, da maestri poco alfabetizzati eprovvisti di scarsi rudimenti grammaticali. L'italiano è così riserva dei pochi che possono proseguire gli studi,ovvero meno del nove per mille dei soggetti tra gli undici e i diciottoanni. Insomma, escludendo i toscani, i romani e gli alfabetizzati, sicalcola che al tempo dell'Unità parlino l'italiano non più di 700.000persone: a fronte di circa venticinque milioni di abitanti. Tale condi-zione migliora anche per il servizio militare obbligatorio, che causa iltrasferimento dei giovani di leva in tutto il territorio italiano, e per lemigrazioni interne dovute allo sviluppo dell'industria e della buro-crazia statale. Nel primo decennio del '900, la percentuale degli analfabeti è ri-dotta al 38% circa. Nel passaggio tra i due secoli, per i parlanti solo ildialetto, comunicare tra città e paesi di una stessa regione è ancoradifficile a causa delle varietà vernacolari. Succede che i torinesi noncapiscano gli abitanti dei centri del Gran Paradiso e che i milanesi nonintendano i bergamaschi. Comunicare fra italiani di regioni lontane èallora, in mancanza d'una lingua nazionale, impossibile.

2. Mappa dei dialetti italiani

L'Italia è la nazione che, tenuto conto della sua superficie, ha piùdialetti. Questa varietà è quella stessa della storia italiana. I sistemidialettali italiani sono così riassumibili:franco-provenzale (in Val

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d'Aosta e Piemonte); provenzale (Piemonte occidentale); gallo-ita-lico: ligure, alto e basso piemontese, lombardo (occidentale, orienta-le, alpino, novarese, trentino occ., Iadino) ed emiliano (occ., or., man-tovano, vogherese-pavese, lunigiano, romagnolo, marchigiano sett.);veneto (lagunare, meridionale, centro-sett., veronese, triestino-giu-liano, trentino or., ladino-veneto); ladino (atesino, cadorino);friula-no (centro-or., sudtirolese occ. e or., pustero); sloveno (zegliano diVal Canale, resiano, Valle della Torre e del Natisone, carsico); tosca-no (fiorentino, senese, occidentale: pisano-livornese-elbano, pistoie-se, lucchese; aretino, grossetano-amiatino, apuano); mediano (mar-chigiano centrale: anconitano, maceratese; umbro: sett., mer. occ. e vi-terbese, mer. or.; laziale: centro sett., romanesco; cicolano-reatino-aqui-lano); meridionale intermedio (marchigiano mer.-abruzzese: mer.,teramano, abruzzese or. adriatico e occ.; molisano; pugliese: dauno-appenninico, garganico, apulo barese; laziale mer. e campano: lazia-le mer., napoletano, irpino, cilentano; lucano-calabrese sett.: lucanonord occ., nord or., centrale, lucano, calabrese, calabrese sett.); meri-dionale estremo (salentino, calabrese centro mer., siciliano: occ.,centr., sud or., messinese, eoliano, isola di Pantelleria); lugudorese(nuorese, lugudorese sett., barbaricino); campidanese; sassarese-gal-lurese. «Isole» linguistiche di dialetti allogeni si hanno al confine con laJugoslavia (dialetto sloveno); in minoranze serbo-croate del Molise,greche nella Calabria mer. (Bova, Gallicianò, Amendolea, Condofu-ri, Roghudi, Roccaforte) e nel Salento (Castrignano, Corigliano, Cali-mera, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Stematia, Zollino);albanesi in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria(Spezzano, Vaccar~zzo) e Sicilia (Piana degli Albanesi). Idiomi non romanzi si parlano ad Alghero (catalano); in provinciadi Foggia, a Faeto e Celle (franco-provenzale); in provincia di Co-senza, a Guardia Piemontese (provenzale); in alcune zone dell'Italiasettentrionale (tedesco). In Sicilia, permangono le colonie gallo-italiche di San Fratello, No-vara, Sperlinga, Randazzo, Nicosia, Francavilla; e, in Basilicata, quel-le di Tito, Picerno, Pignola e un settore di Potenza.

A tali minoranze s'aggiungono quelle di più recente acquisizione,stimabili in oltre mezzo milione di individui residenti sul territorioitaliano: arabi, somali, marocchini, tunisini, slavi... La salvaguardia delle minoranze è stabilita dall'articolo 6 della Co-stituzione italiana e una legge approvata dal governo italiano nel 1992disciplina la tutela degli idiomi di origine straniera.

3. Dal dialetto alla lingua al dialetto

In generale, fra i grandi gruppi dialettali del settentrione d'Italia equelli centrali e meridionali non esistono elementi in comune e la li-nea ideale che li attraversa si separa, per così dire, in due segmenti di-stinti. In Friuli, accendere si dice inlpià e in Sicilia addumàri; in Piemon-te bilancia è ascandàgl e in Sardegna, che per il suo distacco geopo-litico conserva una base latina, si dice stadea (romano stadera); inEmilia Romagna, avaro è intiriscè e in Puglia e Calabria pírchiu, inPiemonte varùn e nel Lazio sèneco; in Lombardia, moglie è dóna e inBasilicata migghièra; in Trentino, nebbia si dice mòza e in Campanianèglia; in Lombardia, paura è fuffa, in Sicilia scàntu, in Val d'Aostapuéra e in Abruzzo pahùre; in Liguria padre è pòe e in Molise attàna;in Toscana pigro è bighellone, in Lombardiafanigutùn, in Umbria pì-r ido e in Sardegna assesuiàdu; in Emilia Romagna ragazzo è burdèl,in Sicilia carùsu, ecc. Nel 1870, Vittorio Emanuele II, re d'Italia, visita il paese ma non

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ne conosce la lingua: egli sa parlare solo il francese e il dialetto pie-montese. Per converso, la maggioranza del popolo non comprende lalingua delle autorità, non sa scrivere né leggere. Perciò non capisce itesti delle leggi, le sentenze dei tribunali, gli atti amministrativi. Ca-pita allora che la lingua venga utilizzata da tanti Azzeccagarbugli dimanzoniana memoria per confondere i poveri e gli umili che, per ilfatto stesso di parlare solo il dialetto, sono considerati degli inferiori.Questi, a loro volta, ricorrono alle parlate gergali per non farsi capiredalle classi colte. Nel complesso, non si capisce che sia la lingua sia i dialetti hannouguale importanza facendo parte, entrambi, d'una società che nonpuò prescinderne senza rimuovere o soffocare la propria origine cul-turale. Lingua è l'italiano e lingua sono i dialetti: il primo serve per lacomunicazione «culturale», i secondi per quella «naturale». Entram-bi, si fondono nel processo comunicativo che accompagna la storiadel popolo italiano.

Nel 1910, la metà dei lavoratori italiani è formata da contadini cheparlano l'idioma delle loro campagne ma hanno in comune la stessacultura agricola. Durante la guerra del 1915-' 18, nelle trincee, il gio-vane bracciante siciliano impara le parole del giovane contadino pie-montese e questi del pugliese, e il veneto del lucano, e questi del ligu-re, e viceversa; e tutti, per intendersi, si sforzano di parlare anche lacomune lingua italiana. Esempi di un italiano ancora informe si trovano nelle lettere deisoldati ai farniliari. La loro fatica di scrivere non è diversa da quelladi chi, nel Medioevo, tentava di dare forma scritta a una lingua nuo-va e non ancora grammaticalizzata: Quele giorno fui il mio desdinoCafui ferito ale Campe alpeto ala mana sinistra efui fato prigionieropercio io nonti fece larisposta madonna mia salvati esperiamo idiouna santa pace...; lo vengo ascrive questa mia lettera perfarti Saperelottemo stato del mia buona Salute che io e gli mio Compagno stannomolto bene e acosi io spero anche di voi... Così invece scrive il giovane ufficiale, tale perché appartenente alceto colto: Quanto a me di salute sto bene: riguardo al morale, pensaun po' tu come possa essere il morale di un povero esiliato lontano datutti e da tutto, nulla sapendo mai della patria, dei parenti, degli amici. . . In tempi più recenti, maturata una coscienza dell'italiano impli-cante un'idea di promozione sociale, si assiste a una fuga dai dialetti,sempre più ghettizzati e subalterni. Tanto che, ben più che nei secolipassati, il dialetto, sempre meno parlato dalle masse, paradossalmen-te assume un'impronta in gran parte letteraria.

Lingua italiana del '900

1. Lessico del fascismo

All'inizio del secolo e tra le due guerre, la controversia linguisticaha tra i suoi orientamenti l'«individualismo» linguistico di GabrieleD'Annunzio e Benedetto Croce, la lingua «nazional-popolare» teo-rizzata da Antonio Gramsci, il Futurismo e il lessico del fascismo dal-la nascita della dittatura (1925) alla fucilazione di Mussolini (1945). Escono ll Fuoco (1900) di D'Annunzio, I'Estetica come scienzadell'espressione e linguistica generale (1902) di Croce, che nel 1903fonda la rivista La Critica, e il Manifesto futurista ( 1909) di FilippoTommaso Marinetti: «Bisogna distruggere la sintassi disponendo isostantivi a caso, come nascono. Si deve usare il verbo all'infinito[...]. Si deve abolire l'aggettivo [...,] I'avverbio [...,] anche la punteg-giatura [...] . Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzio-

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ni si impiegheranno i segni della matematica [...]. Facciamo corag-giosamente il brutto in letteratura, e uccidiamo dovunque la solenni-tà [...]. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà!».

Il Futurismo ha influenza sulla pittura, meno sulla letteratura e benpoco sul parlato. Ma tocca il linguaggio del fascismo, col quale s'identi-fica nel 1926 e a cui presta lo slogan Marciare non marcire. Nei primi decenni del secolo, la condizione dell'Italia è delle piùdrammatiche: la produzione alimentare è insufficiente, I'industria èin crisi, la disoccupazione dilaga, la democrazia vacilla. Nel 1922, anno della marcia su Roma, viene stampato il Vocabola-rio della lingua italiana di Zingarelli. Il 1923 vede la sospensionedell'attività dell'Accademia della Crusca e la Riforma scolastica diGentile, che ridimensiona il ruolo della grammatica nei programmi sco-lastici e, contro le stesse opinioni fasciste, afferma il ruolo positivo deidialetti. Nello stesso anno, un decreto ordina la tassazione per le scrittein lingua straniera sulle insegne e le vetrine dei negozi, finché un altrodecreto, nel 1926, ne vieta l'uso. Quanto ai dialetti, il fascismo li escludedalla scuola: almeno per legge, perché, data la manchevole italianizza-zione del paese, essi continuano a essere utilizzati da maestri e alunni. Assunto il potere nel 1925, in breve il fascismo scioglie con la vio-lenza ogni organismo democratico e, in omaggio a un'autarchiaanche neopuristico-classica, impone la sua retorica verbosa. Unaretorica che fa leva sull'impressionabilità delle masse e s'impone neicomportamenti sociali. Nei rapporti interpersonali, s'abolisce l'usodel Lei a favore del Voi; poi, riprendendo parole della romanità, leformazioni squadriste e militari sono chiamate milizie centurie le-gioni coorti manipoli: comandate da centurioni, seniori e consoli. Nel 1940, viene proibito con decreti-legge, circolari e disposizioniministeriali - pena «I'arresto fino a sei mesi o ammenda fino a lire5000» - I'uso dei forestierismi. Così si pretende di italianizzare paro-le come bar in barro, bidet in bidetto, champagne sciampagnia,cognac arzente, cocktail zozza, alcool àlcole, cabaret taverna, lunapark parco delle meraviglie. Si impone l'italofonia in Alto Adige, si manipolano i dizionari, sitracciano sui muri delle case le frasi assertorie e perentorie del duce:al cui eloquio sono innanzi tutto cari gli epiteti. Chi è l'avversario delfascismo? Il microcefalo, il microcerebrale, ilfesso; e il riformaioloantiguerraiolo schedaiolo tendenzaiolo antipatriota e borghesoide.Le parole del duce? Sono sempre vibrate e vibranti. Così i discorsi. Ela vibrazione? Formidabile. I gagliardetti? Gloriosi. Il sangue puris-simo, le frontiere sacre, il popolo nobile, il destino immenso, la devo-zione assoluta, il dovere religioso, la base granitica, il bastone no-doso, la vita vissuta, il fascistafervente. Tutto questo, sempre neces-sariamente e irriducibilmente, inflessibilmente e inesorabilmente; edeliberatamente altamente fortemente enormemente marzialmenteenergicamente fermissimamente. Perché? Non c'è un perché quandociò che conta è credere, obbedire, combattere...Riflettendo sul fatto che, durante il fascismo e fino alla costituzio-ne della Repubblica ( 1947), per più di quattro quinti della popolazio-ne italiana il dialetto è la lingua d'uso, si può credere che la funzionelinguistica del regime abbia una presa solo «suggestiva». Una presache non stabilisce vere attinenze tra significanti e significati ed è fattasolo per suscitare un consenso acritico, emotivo e bellicista.

2. D'Annunzio, Croce, Gramsci

Pur ponendosi ad alti livelli estetici, non estranea alla grandilo-quenza fascista è la lingua di D'Annunzio: evocante, sovradetermi-nata, preziosistica, individualistica. Spregiatore della lingua usuale,

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D'Annunzio, che ha già decantato l'interventismo e i massacri dellaGrande guerra del '15-'18, si vanta d'usare ben quarantamila parolecontro le appena diciassettemila adoperate da Dante. Il suo lessico,che pure risente di orpelli e cattivo gusto, è tuttavia, per la sua musi-calità e per le attitudini sperimentali, retaggio di tanta parte della let-teratura italiana novecentesca. Lessico che, in nome dell'autonomia,causa una rottura ancora insanata tra parola e fruizione di questa.Una fruizione che si riduce al dato ornamentale, a effetti di lontanan-za dalla realtà, a fughe in un sublime seducente dove la parola vuolenominare soprattutto se stessa. Non si dà così invenzione e conoscen-za delle cose ma una loro tornita verbalizzazione: livellata pur nellasua irrequietezza, traslata in un'intercambiabilità per cui il reale restainerte pretesto, occasione perché la parola si manifesti in una cristal-lizzata autosufficienza. Un'autosufficienza di oggetto che non espri-me se non se stesso, di simbolo feticista e presto archeologico, di ve-getale lussureggiante e immobile: gualchiera alido monne scempielevame dolco corimbi barzoi giaggiuoli asfodeli cànove fondimestrame pirrica sovattolo robbia peoti béveri anadiomene serpillofla-gioletto labe bacìo mislèa palischermo callipigie callaia pacciamenembo bùccina lizza alloro falasco fanni mirti agresto prata erbidanenùfara venusto, ecc. ecc.

Ben diverso è l'atteggiamento di Croce, teorico dell'identità fracontenuto e forma, che, dichiarando la libertà creativa della parola,vera fonte della fantasia e della poesia, nega qualunque poterenormativo della lingua. Per il più influente intellettuale italianodel secolo, «il linguaggio è perfetta creazione. Le sempre nuoveimpressioni danno luoga mutamenti continui di suoni e signifi-cati, e quindi a sempre nuove espressioni. Cercare la lingua modello,dunque, è cercare la immobilità del moto». L'aristocratico Croce, il cui individualismo estetico esclude gli aspetti sociali del linguag-gio, non disdegna così d'opporsi a qualunque programma di linguaillustre imposto ai parlanti, cui riconosce ogni libertà espressiva e co-municativa. C'è, almeno in questo, un'anticipazione dei temi gram-sclani. La riflessione gramsciana riguarda la lingua vista nel suo svolgi-mento storico e nelle sue trasformazioni, parallele ai mutamenti dellasocietà. Gramsci muove dalle considerazioni di Ascoli relative allatesi monolinguistica di Manzoni e, d'accordo col primo, consideral'impossibilità d'imporre artificialmente una lingua nazionale nonscaturente dallo scambio «tra le varie parti della nazione». Per Gram-sci - che nella questiOne della lingua vede un tentativo di lotta politi-ca dei gruppi dirigenti per organizzare di volta in volta la propria ege-monia culturale sulle masse -, il linguaggio non si esaurisce in un in-sieme di segni ma nasce dall'attività individuale dei parlanti: «Il fatto"linguaggio" è in realtà una molteplicità di fatti più o meno organica-mente coerenti e coordinati: al limite si può dire che ogni essere par-lante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo dipensare e di sentire». La salvaguardia dell'individualità è in Gramsci supportata dall'a-nalisi dei rapporti di classe e delle implicazioni politiche ed egemo-niche che attraversano la lingua. Ma, per Gramsci, la difesa dei parlanti non è necessariamente col-legata a quella del dialetto. Questo è, infatti, in una società divisa inclassi e in un mondo da cambiare, visto come un ghetto nel quale glianalfabeti sono costretti a esaurire la loro vita di relazione. Egli èinoltre dell'avviso che la lingua unica sia «una preoccupazione CO-smopolitica, non internazionale, di borghesi che viaggiano per affario per divertimento». Costoro vogliono soltanto «suscitare artificial-mente una lingua irrigidita», pensando che questa sia «in sé e per séespressione di bellezza più che strumento di comunicazione». Preoc-

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cupazione di chi vede la lingua «posta nel tempo e nello spazio» qua-si fosse un oggetto puramente estetico da contemplare. Ma non la lin-gua, in sé, è «bella»: essa può esserlo nei «capolavori poetici, e la bel-lezza loro consiste nell'esprimere adeguatamente il mondo interioredello scrittore». L'evoluzione d'una lingua avviene «solo dal bassoin alto; i libri poco influiscono sui cambiamenti delle parlate: i librifanno opera di regolarizzazione, di conservazione delle forme lingui-stiche». La lingua sorge allora dai popoli che entrano nella storia immetten-dovi i loro usi, costumi e bisogni, così invisi ai grammatici che, per lapreservazione dei loro privilegi anche culturali, hanno creduto di po-ter fissare delle forme chiuse. Per tali ragioni, I'Umanesimo e il Ri-nascimento furono «essenzialmente reazionari dal punto di vista na-zionale popolare e progressivi come espressione dello sviluppo cul-turale dei gruppi intellettuali italiani e europei». Similmente, la que-stione linguistica del '700 e dell'800 risorgimentale è vista come unmodo di «conservare e anzi di rafforzare un ceto intellettuale unita-rio», identificato con quello dirigente.

3. Interdialetto e bilinguismo

La fine della guerra porta alla rinascita economica del paese e alprogresso industriale nell'Italia del Nord, realizzato in massima par-te col lavoro dei milioni di immigrati dalle campagne e dai paesi delSud, ora concentrati nei centri industriali. In breve, le grandi città triplicano la loro popolazione: avviene, pri-ma, un mescolamento dei dialetti con fenomeni di «interdialetto» e poil'abbandono graduale di questo per la lingua nazionale, sia pure pra-ticata con inflessioni e storpiature regionali e provinciali. I figli natidalle unioni fra soggetti di varie regioni non parlano il dialetto deiloro genitori. Gli individui dei ceti più poveri ed emarginati, rimastinella propria terra, sentono, con la propria subalternità sociale, la di-scriminazione che li coinvolge insieme al loro dialetto. Si produce unnuovo bilinguismo che, tra italofonia e dialettalità, permette ai par-lanti di esprimersi in contesti diversi e in una lingua non ancora stan-dardizzata come sarebbe avvenuto in seguito per l'influenza dellecomunicazioni di massa: giornali, radio, spettacoli, cinema, televisio-ne (dagli anni '50). Negli anni '60, dopo l'estensione dell'obbligo alla scuola media( 1963), gli analfabeti in Italia sono al di sotto del 10. Essi rappresen-tano una fascia della popolazione esclusivamente .~ialettofona, chevive con gravi problemi sociali e umani il dramma dell'isolamento. Iparlanti bilingui hanno una pratica insieme attiva e passiva della lin-gua; i parlanti solo italofoni sono una minima parte e hanno col dia-letto una consuetudine per lo più passiva. Se le opposizioni lessicali si riducono, portando a termine il corsounificatore del lessico, permangono quelle fonologiche: le differenzetraeedolarghe(è,ò)etraeedostrette(é,ó),sezsordeedsezso-nore. Tali differenze, percepite in Toscana, lo sono assai meno nel-le altre regioni. Così non c'è, nella lingua italiana, una norma fono-logica. Nella grafia permangono le variabilifigliolo e figliuolo, adùlo àdu-lo, infocato infuocato, zaffìro zàff1ro, gioco giuoco, sarcofaghi sarco-fagi, strascichi strascici, ha e è piovuto, uténsile utensìle, rocce roc-cie, effige effigie, spagnolo spagnuolo, chirurghi chirurgi, stomaci sto-machi, intero intiero, diede dette, parroci parrochi, alchimìa alchì-mia, problematizzare problematicizzare problemizzare... Dai dialetti,Smigrano» nell'italiano parole siciliane (zagara pic-ciotto mafia faraglione), piemontesi (ramazza gianduiotto arran-giarsi bocciare), lombarde (balera barbone spumone lavello panet-tone guardina), venete (baita bragozzo), romanesche (abbuffarsi bu-

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rino iella caciara borgata pizzardone pignolo abbacchio spaghetta-ta fasullo sbafo lagna fattacci), napoletane (vongole mozzarella ca-morra pizza fesso basso guaglione scugnizzo scocciare rettifilo), sar-de (orbace nuraghi).

4. Dialetto letterario

Il passaggio dal dialetto alla lingua, oltre a determinare la promo-zione delle parlate regionali, favorisce il sorgere d'una lingua lettera-ria a coloritura dialettale oppure integralmente vernacola e letteraria-mente designata. E una condizione in cui il dialetto assume un presti-gio di lingua elitaria e iniziatica, venendo paradossalmente a ripro-durre, quasi, nei confronti della lingua italiana, le discriminazioni primaoperate da questa verso i vernacoli. Passa insomma l'idea che l'ita-liano, ormai fatto per la prosa comunicativa, non sia più consono allapoesia, che può conservare uno sbocco solo nel dialetto. Sbocco nelquale la nuova poesia dialettale non è di necessità poesia popolare.Così il dialetto, prima «parola della bocca», diviene raffinata «paroladella penna». E il caso, fin dal primo '900, della poesia in napoletano di Salvato-re Di Giacomo, funzionario della biblioteca Nazionale di Napoli, au-tore di testi dove il dialetto è in perfetta simmetria con la lingua, cheattinge non alla tradizione popolare ma a quella letteraria europea del-1'800 (Verismo e Simbolismo). Di Giacomo è anche l'esempio di unpoeta in dialetto che, a differenza dei dialettali del passato legati aivernacoli della tradizione regionale e locale, si propone in stretta ana-logia con la letterarietà. Ciò vale anche per il triestino Virgilio Giotti, che dopo avere esor-dito in lingua passa al dialetto; per il milanese Delio Tessa, il romanoTrilussa, I'aostana Eugenia Martinet e Giacomo Noventa, veneto,autore di poesie in dialetto veneziano composte oralmente, trascritteda amici e familiari e tradotte in lingua dallo stesso autore; per GinoPiva, nato a Milano e poeta in dialetto del basso Veneto; per BiagioMarin, di Grado, nel cui gradese medioevale è presente l'influsso dellapoesia tedesca. Sempre più allora, il dialetto abbandona la sua tipicità per eleg-gersi a nuova lingua letteraria. Ciò è accentuato dal piemontese PininPacòt, che chiama il proprio dialetto «lingua piemontese», dotata asua volta di «un dialetto corrispondente, e tanti sottodialetti». Siamoin pieno elitarismo dialettale, prefigurato da ulteriori gerarchizzazionidella lingua che prevederebbero perfino un «dialetto del dialetto». Più prossimi all'idioma popolareggiante sono il campano RaffaeleViviani, il romagnolo Aldo Spallicci, il calabrese Michele Pane, i si-ciliani Vann'Antò e Nino Pino, che tentano una riproposizione di mottidel sottoproletariato. Escono il Dizionario etimologico italiano (1950-'57) di Battisti-Alessio e, negli anni 1966- '69, la traduzione della Grammatica stori-ca della lingua italiana e dei suoi dialetti (edizione tedesca 1949-'54)di Rohlfs. Nel 1964 si ha una ripresa dell 'attività dell'Accademia dellaCrusca e, nel 1965, nella liturgia ecclesiastica, la definitiva sostitu-zione del latino con l'italiano. L'idea del dialetto come «lingua della poesia» continua nel secon-do '900 ma interagendo sempre più con l'italiano, tanto che vernaco-lo e lingua diventano, nel movimento della letterarietà, due forme par-tecipi della stessa condizione storica. A un idioma senza tipicità dialettale ma pertinente a quello ampia-mente letterario appartengono i testi friulani di Pier Paolo Pasolini,quelli romagnoli di Tonino Guerra e Raffaele Baldini, dei sicilianiCalì, Buttitta, Andrea Genovese e Nino De Vita, del milanese Calza-vara e del milanese immigrato Loi, del calabrese Maffia, del triestinoCergoly, del marchigiano Scataglini, dei sardi Delogu e Masala, del

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campano A. Serrao, dell'abruzzese Civitareale, del veneto Ruffato,del pugliese Angiuli, ecc. Casi a parte costituiscono il dialetto lucano di Tursi adoperato daAlbino Pierro e il dialetto della Sicilia orientale di Mario Grasso. In Pier-ro c'è un uso rigoroso della grafia vemacolare che conserva la s e lat del latino: chiangese piangi, sèntese senti, ' nfòllete infittisce, sciòl-lete crollate. In Grasso, autore di un Vocabolario siciliano (1989) che coniuganel «canzoniere» una serie di vocaboli - da abbagnu lubrificazione azzurru ruvido -, c'è l'intento di stabilizzare l'ortografia del suo dia-letto. Un dialetto ricco di aff1nità e corrispondenze sonore costanti,non lontano dalle musicalità della Scuola siciliana medioevale e daCielo d'Alcamo. Di suo il poeta opera una scelta lessicale «forte»,degna d'un rapsodo tragico: accupari soffocare, sorti sorte, mortimorte,fami fame, focu fuoco, sangu sangue, accavàlliti àrmati, ac-cùra attento, l ilenu veleno, 'mpazzutu impazzito, astìma maledizio-ne, auru agro, trìulu singhiozzo, ddànnificu nocivo, picciu malaugu-rio, salafizzio scorpione, zotta frusta... Anche nella Lingua delle ma-d7 i ( 1994) c'è il tentativo di Grasso, che nel 1990 ha anche tradotto insiciliano il Pinocchio di Collodi, di rivisitare, attraverso i proverbi,I'antica lingua critica del popolo siciliano: Si vasunu mani ca si miri-tirassiru tagghiati «Si baciano mani che meriterebbero essere taglia-te»; 'U sangu si mastica ma non s'agghiutti «Il sangue viene masti-cato ma non inghiottito»; Santa libbirtà e mangiàri ariddi «Santa li-bertà e cibarsi di grilli».

Il fatto più nuovo della lingua letteraria dal secondo '800 al '900 èl'affermazione dei dialetti divenuti essi stessi lingua. Si ripetono al-lora nel nostro secolo le stesse condizioni che, alla fine del '500, pre-paravano la nascita della nuova lingua italiana scritta? A questo fa eccezione Italo Svevo, autore d'una prosa spoglia e di-messa, senza coloriture vernacolari. Una sorta di dialetto «mimeti-co» è invece ravvisabile in tante opere di scrittori quali, per citarnealcuni, Deledda, Silone, Alvaro, Pavese, Bemari, Pratolini,1ttorini,Brancati, Morante, Moravia, Rea, La Capria, V1ani, Bianciardi, Zoi. Sihanno intrusioni vernacolari in Pirandello (borbogliare granfie smo-bicare quaglio grufare); nel senese Tozzi (desinare scricchiare esci-re strenfiando impippiato leticare racchettò cirindello lezzone stro-sciando gorate barellando); nel calabrese Strati (manicole racinabùmbula tambuto bicchierijare imprezisata stutare gnagnero paffiazirripiare carnizzaro 'ndrina indrangheta mustazzo stratioi cotrarocatrica cuccuvaia vaiazza); nel siciliano Denti di Pirajno (allurdàriannacàri armàli ascùta babbalùci babbiàri cràsta fàuzufitùsu fùn-cia jimmurutu mussu parrìnu sticchiu vastàsu vorria); nel toscanoBilenchi (strusciandole rawolte); nel veneto di Malo, Meneghello(basavéjo incatéjo branchinèla potàcio ba~òcio spuàcio pastròciosimiòto sgnicaménto marugolotto sgaritolo lumèga càmare spissastravissio bòcia); in Carmine Abate, di Carfizzi, centro di lingua al-banese in Calabria, il quale inserisce nei suoi testi italiani una serie ditermini in arberesh albanese (pra poi, duako bisaccia, shkreti occhi,,ciòt stupido, bushtra feroce)...

5. Dialetto e italiano

Dopo gli anni '50, avviene una progressiva spezzettazione lingui-stica: da una parte c'è l'antiparlato (che è anche l'antiscrittura e l'an-tiletteratura), ossia l'istituto normativo, municipalistico e convenzio-nale dei codici burocratici, commerciali e scientifici che cerca unapseudounificazione tutta sovrastrutturale e angustamente dimensio-nata; all'opposto, permane una «superlingua» puristica, fatua e deco-

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rativa, chiusa nelle istituzioni culturali e incongruamente libresca, incui la parola si reifica senza riuscire ad assumere identità. Nel mezzo,la terra di tutti e di nessuno dei dialetti divenuti lingua. Il dialetto si fa lingua di cultura in un frangente storico che vede lafine della civiltà rurale, I'afferrnazione dell'industrialismo neocapi-talista (che ha i suoi maggiori riferimenti linguistico-letterari e con-testativi in Volponi e Balestrini) e, dopo gli anni '60, dell'inurbazio-ne e dell'esplosione consumistica. E in tale corso che si collocano i libri in romanesco sottoproletariodi Pasolini Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) e le tesidella Lettera a una professoressa (1967) del priore di Barbiana Lo-renzo Milani. Milani propugna una rinnovata questione linguistica denuncian-do il carattere selettivo della scuola che s'avvale della lingua coltaper allontanare i poveri e impedire la realizzazione d'una vera demo-crazia. «Le lingue - osserva Milani - le creano i poveri e poi seguita-no a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano» con la gramma-tica. Occorre allora, poiché «è la lingua che fa uguali» gli individui,un insegnamento non strumentale ma reale, in cui predomini non lapedagogia grammaticale ma l'educazione a «esprimersi e a intenderel'espressione altrui». Per questo «non basta certo l'italiano, che nelmondo non conta nulla. Gli uomini hanno bisogno d'amarsi anche aldi là delle frontiere. Dunque bisogna studiare molte lingue e tuttevive». Per Pasolini, I'italiano è «una lingua non, o imperfettamente, na-zionale, che copre un corpo storico-sociale frammentario». Tale co-pertura linguistica serve a celare «una realtà frammentaria e quindinon nazionale». Lingua letteraria e lingua pratica sono, a loro volta,non espressione del reale autentico ma applicazioni su questo. Se espri-mono una realtà, questa è solo storica, coincidente con quella dellaborghesia italiana che dall'unità d'Italia «non ha saputo identificarsicon l'intera società italiana» ma ha dato nome solo ai propri privile-gi, abitudini e mistificazioni. Pasolini, che scrive nel romanesco dei «borgatari» riflettendo inquesti le devastazioni della capitale burocratica, sceglie una linguapopolare e schietta, alternativa a quella della borghesia. E una linguaestranea alle norme d'una civiltà tecnologica aridamente monolin-guistica che, mentre distrugge la natura, impoverisce anche le espres-sioni vitali del popolo. A Pasolini - che ritiene la lingua nazionale sloganistica e tecniciz-zata, fatta solo per comunicare dati, incanalare i bisogni e omologaregli individui in un chiuso circuito consumistico -, Vittorini fa consi-derare l'esistenza del nuovo linguaggio operaio sorto dalla civiltà in-dustriale. Linguaggio chiaro, attinente alle cose, acconcio a nuoviorientamenti politici e culturali e, in definitiva, a «giudicare il mon-do». Il «quadro linguistico mondiale» è, appunto, ciò cui fa riferimentoanche uno scrittore come Italo Calvino che, nella sua carriera, ha spe-rimentato diversi stili, dal neorealistico al metafisico. Posto che nonsi dà una «lingua che non possa dirsi perfettamente funzionale rispet-to alle esigenze della civiltà moderna», Calvino rilancia il problemadel rapporto fra scrittori e lettori, fra i linguaggi della scienza e dellapolitica con la vita sociale. Importante è altresì la traduzione di libristranieri, giudicato che la «grande duttilità dell'italiano [...] perrnettedi tradurre dalle altre lingue un pochino meglio di quanto non sia pos-sibile in nessun'altra lingua». Alieno alla discussione politica sul linguaggio rimane Carlo Emi-lio Gadda, che sulla lingua ha però idee molto precise: «E supersti-zione romantica [...] il darci a credere che la lingua nasca o debba na-scere soltanto dal popolo. Nasce dal popolo come nasce anche dai ca-valli, che col loro verso ci hanno suggerito il nitrire, e i cani guaiolare

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e uggiolare». Egli non si pone quesiti puristici né comunicativi, maesclusivamente espressivi, per i quali trova lecita la massima libertàplurilinguistica: «I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e percupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni [...] etutti i sinonimi [...]. Non esistono il troppo né il vano, per una lingua». In Gadda s'annulla perciò ogni precettistica della lingua. In un ro-manzo come Quer pasticciaccio brutto de l~a Merulana ( 1957), comein tutti i suoi libri, egli mescola ogni risorsa verbale, ogni lingua. Ger-galità mirabolanti, cultismi, tecnicismi, latinismi, stranierismi, ono-matopee espressionistiche e lo stesso italiano aulico a partire dalleorigini si mescolano in un fiammeggiante caleidoscopio di dialet-ti: il milanese nell'Adalgisa (1944), il milanese fiorentineggiante, ilnapoletano e lo spagnolo nella Cognizione del dolore (1963), il ro-manesco-molisano, il veneto e il napoletano nel Pasticciaccio, il ver-nacolo fiorentino in Eros e Priapo ( 1967). Ciò che farà notare a un fi-lologo come Contini che la nostra è «I'unica grande letteratura nazio-nale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibil-mente corpo col restante patrimonio». Lingua di un'epica atemporale, senza storia né geografia fisse, quel-la gaddiana: nomadica, irrispettosa, aggressiva, ipersensibilizzata,deformante, polemica verso la società costituita; e sempre arbitraria,immaginaria, a più registri, angosciata e senza certezze né verità. Di-versa da quella dei Fenoglio, Testori o Mastronardi, il cui dialettalismoè stabilizzato, come in Porta e Belli, su un'identificabile realtà sociale. Fuori degli aperti contesti rivendicati da Gadda, la lingua italiana è«prosa d'arte» (Cecchi, Barilli, Antonio Baldini), Crepuscolarismo(Gozzano, Govoni, Moretti, Corazzini), Simbolismo e Metafisica(Campana, Bontempelli, Savinio, Paola Masino, Landolfi), Ermeti-smo (Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi), Neoavanguardia (Pizzu-to, Manganelli, Sanguineti, Arbasino, Giuliani, Edoardo Cacciatore)...

6. Postgaddiani

Sulla scia di quella che Contini ha chiamato l'«etema funzione Gad-da», perdurano la satira gergale di Silvano Ambrogi, la combinatorialudica di Gianni Toti, la ricerca di fusione fra dialetto e racconto sto-rico di Vincenzo Consolo e di Stefano D'Arrigo. Di Ambrogi è particolare la lingua del romanzo Pottapia (1970)che, celebrando ironicamente il Centenario della presa di Porta PiaRoma capitale e la Patria unita, coglie 1' occasione, satireggiando leconvenzioni storiche e linguistiche, per dissacrare una classe dirigentefallimentare. E degno d'attenzione, nell'autore, il superamento degliaspetti normativi per una soluzione di «scrittura parlata», armonizzatanell'idioma toscaneggiante e romaneggiante, tutta esclamativa e im-precativa con variazioni minime: ziolaio ziolibero ziolupo gaglioffolitiè ziorospo zioladro ziofalco ziopadella bischeracciofiataccina sbur-gliocchera ziozappa topardine ziogrillo zeppata tentennone ziopaio-lo gigliolo... Di Toti è preminente una lingua giocata su neologismi destrutturantigenerati da commistioni e scilinguagnoli: bismarkxeggiando phal-lopsophiologie misumanizzato coeccitazione etotilizzarsi erotìdidieendoguerriglieri sinusias~ica farfallàntropa caosàgrafo antautolo-gìa poeteoremi ignotizia manoscrivibile illettura agilitazione para-bulìa rialtruirmi epigramméma misteresiarcagogicamente tachita-natotismo tricavandominopropene... Quello di Consolo è un lessico che esprime lo scopo di svolgereletterariamente la dialettica dei rapporti fra lingua e Storia vista come«una scrittura continua di privilegiati». E proprio in siffatta connes-sione della lingua con la Storia, presente anche in D'Arrigo ed estra-nea a Gadda, che la «funzione Gadda» cessa la sua influenza. Nel Sorriso dell' ignoto marinaio ( 1976), Consolo mescida il dia-

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letto siciliano con schegge di gallo-romanzo e con un italiano illustre.Si conserva così un sapore lessicale antiquario che richiama costruttilatini e ritmi arcaici: anciove acciughe, baglio cortile, birritta berret-to, abbanniò bandì, crozze teschi, garruso omosessuale, gistre ceste,sipàla siepe, vanella vicolo, viòlo viottolo, panari panieri, làstime la-menti, potìa bottega, rizze reti, santiare bestemmiare. In un altro libro di Consolo, Retablo (1987), si hanno i lemmi: casciacassa, dìa dea, arrere indietro, latrona ladroni, matrazza matrigna,cianciàne campane, luponario lupo mannaro, lasciasse lasci, lippomuschio, tinta malvagia. Un lessico dove la «funzione Gadda» viene assorbita da un perfet-to equilibrio fra storia e dialetto è quello di Horcynus Orca ( 1975) diD'Arrigo. Si tratta d'un vasto romanzo dove il parlato dell'area delloScilla e Cariddi (quella che, dalla Sicilia, s'estende attraverso lo Stret-to di Messina nella Calabria meridionale) si concerta con l'italiano. Il siciliano attivato dall'autore - che ricorre alla trascrizione ver-nacolare solo di fronte a esigenze espressive insoddisfatte dalla lin-gua - ha una dinamica assai prossima a quella italiana non toscaniz-zata. Per questo codice siciliano si può ipotizzare, vista la sua ricchez-za di elementi latini, ellenofoni, bizantini, arabi, spagnoli, gallo-itali-ci e gallo-romanzi, una completezza semantica che già dal periodoposteriore ai Vespri l'ha sottratto alla toscanizzazione completa. Sene ricava che, in ambito diverso, la dialettalità darrighiana è ciò chei volgarismi e l'invenzione della sintassi da parte di Dante hanno rap-presentato per la Commedia: e che, in generale, usare compiutamen-te un idioma significa scriverlo anche nei suoi molteplici registri dia-cronici. In particolare, D'Arrigo fa vedere, al pari di Gadda, che una lingua«assoluta» non esiste e che l'eterna polemica fra cruscai e anticruscainon ha molte ragioni d'essere. Un glossario darrighiano, che richiederebbe un cospicuo volume,non è qui possibile. In esso dovrebbero accogliersi voci desuete e dinuovo conio, con dialettalismi ambientali, ampliamenti suff1ssali, neo-formazioni popolaresche e colte, metaforizzazioni, cromatismi, tec-nicismi marinari: tutte quelle figure di parola che concorrono alla na-scita d'una lingua.

7. Lingua contemporanea

La lingua italiana, passata - non indenne - attraverso il «burocra-tese», il «sindacalese», il «sinistrese», il «destrese», e che concentrausi, modi, gerghi, dialetti, stranierismi e neologismi, è oggi assuntacome qualcosa di scontato e acritico. Essa è anche il riflesso di rime-scolamenti storici e socioculturali che, lenti fino ad alcuni anni fa, sifanno sempre più veloci e convulsi. Vi è la tendenza all'affermazione dei linguaggi omologativi deimedia, degli slogan e dei luoghi comuni; a una costante diminuzionedelle parlate dialettali, che fino a trent'anni fa erano anche dei non dia-lettofoni, alfine immobilizzate nella letterarietà; all'interferenza schiac-ciante dell'inglese (tra i termini usuali: cast sketch slip trench jazzhobby shorts nylon barman camping lift look wafer beauty-case blue-jeans montgomery topless, fair play, show strip-tease night guar-drail leasing test partner baby-sitter killer playboy austerity sponso1remainde/ self-service supermal*et part-time boiler pop-art sit-inracket leadership relax stress holding trust backg1l)und establishment¨ esca/ation, ecc.). S'aggiungano i linguaggi cosiddetti «settoriali»: quello sportivo,tutto aggettivi e sostantivi aggettivanti, che ha avuto il suo massimocreatore di neologismi in Gianni Brera (abatino omarino difensivistalungagnone frillo margniffone bipallici ciolla uccellano traccheggia-no sgrugnano), attinge all'inglese (assist antidoping cross bomber

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liftato stopper derby goleador jolly forcing sprint corner goal takleplay-maker dribbling slalom drive) e utilizza iperboli quali favolosomicidiale sensazionale fenomenale miracoloso prodigioso strepito-so); quello politico (coalizione ammucchiata governo-ombra emen-damento spoglio ineleggibilità preambolo ballottaggio aperturisti in-sabbiare garantismo ingovernabilità centrismo proporzionale mag-gioritaria quorum trasparenza massimalismo stabilità partitocraziasfascista leghista); radiotelevisivo (cameraman teleromanzo canalemixer monitor telefilm telenovela applausometro); pubblicitario (super-concentrato supersgrassante mangiasporco amarevole uvamaro bio-degradabile rubachili extralungo sottovuoto pienaroma grappuvadigestimola purgamaro); tecnico-scientifico (timer computer pace-maker virus hi-fi elettrocardiogramma elettrotreno by-pass metal-lizzare prostaglandina ciclotrone sincrotrone tecnotronica laser); gior-nalistico, che registra una lingua media e di «corrispondenza»: un«parlato scritto» che riprende e stilizza tutti gli altri linguaggi (multi-mediale, mani pulite, avviso di garanzia, pentitismo riciclaggio celo-durismo craxismo berlusconismo addizionale antimafia partitissimapattista piovra sottogoverno postmoderno finalissima, fondi neri,monoreddito, ecc.).

8. Gerghi

Tra le parole «interdette», non più extralinguistiche e certo psico-linguistiche, quelle del turpiloquio, varietà gergale non disdegnatanemmeno dal papa Benedetto XIV, che, rimproverato di ripetere trop-po spesso una parola «sporca», sbraitava: «Cazzo! Cazzo! Lo ripete-rò finché non sarà più sporca!». Si citino, con l'interiezione vaffanculo esprimente sdegno, disprez-zo e distacco, i ricorrenti cazzata stronzata coglione coglionare put-tana puttanata ricchionefinocchio, ecc., termini adoperati come in-solenze. La storia d'una lingua è anche storia di gerghi (antico italiano: ger-gone; poi detto anche baccaglio amaro giammuffa; francese jargon,spagnolo girgonz, portoghese girigonza) che, adoperati nella quoti-dianità, possono passare nella scrittura fino a entrare in certi generiletterari. Si pensi all'uso che lo scrittore francese Céline ha fatto del-I'argot, da lui dichiarato «lingua dell'odio». In Italia, dove sono pre-senti fenomeni di letteratura gergale «sommersa», si ricordino il ger-go «sessuale» di Porci con le ali (1976) di Marco Lombardo Radicee Lidia Ravera e la sceneggiatura del film in gergo punk, La ragazzadi via Millelire (1981) di Gianni Serra e Tomaso Sherman: cacabic-chieri carabinieri, cacciare rubare, cago paura, cicamelo succhiame-lo, dioffa (concentrazione del dialettale piemontese diu fauss) diofalso, gaggio tonto, imbarcarsi innamorarsi, picci soldi, purpo inver-tito, ricottaro protettore, ruscare sfacchinare... I gerghi, di cui l'italiano è ricco quanto lo spagnolo e il francese,sono linguaggi fortemente espressivi, fatti per comunicare oralmen-te. Essi non si elaborano nella tradizione colta ma nella precaria «artedell'arrangiarsi», al pari dei proverbi popolari e delle formule arguterispecchianti la diff1cile vita dei poveri. Il gergo, che originariamente è stato un codice di comunicazioneesclusivo di ristretti gruppi, percorre le varie fasi del parlato prima dipervenire alla scrittura. Esso serve all'arricchimento dell'immaginefonica che la lingua di cultura non sempre può soddisfare: ed anche aesprimere, in un codice a volte effimero, le trasformazioni e le conta-minazioni che la lingua predominante subisce nel tempo. Emerso come tipo «espressivistico» avulso dal comunicare usualeed emblematizzato in una dimensione spaziale ristretta, il gergo puòavere una sua pur fragile formalizzazione. Portato nella lingua, essoestende la comunicazione e il pensiero discorsivo contribuendo a quel-

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la creatività linguistica da Vico chiamata «logica poetica». La lingua gergale è sempre «parlata» e, in un primo momento, li-bera dall'argomentazione scritta. Ne fanno parte parole che, invise aipuristi, possono stabilizzarsi o meno nella comunicazione prima soloverbale e poi anche scritta. Se ne citano alcune, prese dal linguaggiogiovanile: gufare ridere, lecchino adulatore, truzzo cafone, tosto for-te, pompato megalomane,figo togo bello, ciula sciocco, ingrifato ec-citato, alluzzare arrapare eccitare, banfare parlare, criccare morire,figata piacevolezza, fattòne tossico fricchettone drogato, imbranatoimpacciato, lumare guardare, ciospo brutto, pocce zugli seni, sputta-nare svergognare, sfiga sfortuna...

Più ermetici i gerghi «separati», cioè appartenenti a speciali grup-pi di parlanti. Anche in riferimento alla diffusione nel nostro paesedel fenomeno mafioso, è interessante vedere quale ne sia il gergo inquesta fine di millennio. La parola uccidere, per esempio, ha un'im-pressionante varietà di espressioni: astutàri spegnere, attumuliàri sep-pellire, 'ncasciàri chiudere nella cassa da morto, addummìsciri ad-dormentare, aggiuccàri piegare, asciucà)i asciugare. Il capo cosca è detto boss e, salendo di grado, papa e mammasan-tissima (nel senso di venerabile come la madonna). Il comitato deicapi è chiamato cupola, il poliziotto brìgghiu birillo, I' arma da fuococannìla candela, il giudice prisintùsu presuntuoso, il carcere simina-riu, la carcerazione villiggiatura, il coltello zaccagnu, I'avvocatoparrassài chiacchierone. Sfregiare è detto sfruzzunàri, brutto stréu-su, informatore basante, denaro pìcciuli, I'uomo da poco quacqua-racquà... Al gergo della malavita sono poi attribuibili talune parole di variaestrazione regionale: puncicare accoltellare, iscrompidu assassinato,scapuzzador assassino, bacaiador avvocato, ruffante borsaiolo, ca-schè borseggio, caramba carabiniere, buiosa cella, nuffia cocaina,'nnucenti condannato, spaccamerde coraggioso, lubinare derubare,babelino dialetto, streppa droga, vitella ergastolo, beccapappa furto,balaustrista ladro, camusa morte, paperagian pene, berta pistola,pula polizia, portaloch portafoglio, bardascia prostituta, ciffàda re-furtiva, cuccare rubare, cravattaro usuraio...

Alla fine del millennio

Duemila sono gli anni di storia della lingua italiana. Storia: dal greco historía, ricerca; lingua: dal latino lingua, rumeno limba, provenzale lengua lenga, francese langue, spagnolo lengua, portoghese lingua lingoa; italiana: dal latino italicus e italus. Da Vitlo, nome di una tribù della Calabria preistorica, adoratrice di un vitello. Il termine, diffuso poi verso il Nord, ha infine connotato tutta l'Italia. L'interme diazione del greco nella parola Vitlo, assorbita dal latino, ha abolito la lettera V iniziale.

Al termine dell'impero romano, nasceva, sulla base del latino popolare, la nuova lingua romanza. Ciò, mentre a Roma subentravano nuovi centri culturali e linguistici che, anche per l'influsso del sostrato prelatino, tendevano a incrinare la tradizione latina. Alle spinte disgregatrici s 'oppose, a partire dal '200, un volgare illustre, individuato nel fiorentino, che divenne il lessico uff1ciale di base: dapprima scritto e, attraverso i secoli, anche parlato.

Alla fine del secondo millennio, oggi, non esiste una lingua-modello ma una sorta di italiano «collettivo», composto di parole riflettenti una realtà ricavata per intero dalla cronaca. Si dice tangentopoli a esprimere l'illegalità diffusa nelle attività economiche svolte anche ricorrendo al

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versamento di una tangente per ottenere un vantaggio; si chiama vu' cumprà il venditore ambulante africano che spaccia la sua merce. Ammanicato è il raccomandato di ferro, bancomat il servizio bancario di cassa continua cui s'accede con una tessera magnetica; immunodeficienza è l'incapacità dell'organismo umano di difendersi dall'Aids, «peste del 2000»; jeanserìa è il negozio di jeans; paninotèca è il locale di vendita di panini imbottiti, tramezzini e «pizza a taglio»; scazzo è il diverbio... E chi si meraviglia esclama ops! Nemmeno esiste, fuori della migliore letterarietà e delle resistenze critiche a un lessico sempre più appiattito, una lingua ricreata individualmente. Prevale, con la nota caduta del congiuntivo e il dilagante indicativo, un frasario formulaico e pratico che s'avvale di parole massificate e di una sintassi spesso distorta, carica di termini preconfezionati e monotonamente ripetitivi. Ciò evidenzia una perdita di contatto coi testi letterari, sostituiti dalle comunicazioni di massa, dai linguaggi di settore e dagli automatismi da importazione (deregulation auditing audience,fiscal drag, management lobby trend, free lance, spot...). Lo scambio fra lingua e dialetto, entrambi imbastarditi dalla reciproca influenza, produce, nell'uso medio, anacoluti, desemantizzazioni e pleonasmi privi di varietà linguistica e di elaborazione cognitiva. Né l'istruzione scolastica sembra produrre effetti contrari a simile tendenza. Eppure, su circa 60 milioni di italiani, 45 milioni sanno l'italiano e 25 milioni anche un dialetto. Dopo secoli di dibattito liguistico, non è un risultato consolante quello che sembra portare verso un'italofonia dispersa in una Babele iperinformata di esperanti e sottolingue governati dalla pubblicità televisiva e dal consumo commerciale, senza reali strutture di lingua e stile. Preoccuparsi di tutto questo? Ci si consoli con l'inglese no problem non c'è problema, formula d'un troppo profuso ottimismo italico. E anche a causa di ciò che la lingua letteraria italiana s'avvia a diventare reperto per filologi, lingua morta? L'anglicizzazione, sovrapposta all'italiano, sembra allora dare ragione a quel sociologo convinto che la nostra possa ormai ridursi a lingua per pochi: perché, tanto, per buone ragioni «pratiche», presto tutti quanti parleremo e leggeremo solo in inglese. Ma, al di fuori d'ogni aulica e romantica idea d'autarchia linguistica, non si era premesso che una lingua è anche libertà? Un populu/diventa poviru e servu/ quannu ci arrobbanu a lingua (I. Buttitta).«Un popolo/ diventa povero e servo/ quando gli rubano la lingua.»

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