tesi definitiva lore

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UNIVERSITA’ VITA-SALUTE SAN RAFFAELE FACOLTA’ DI FILOSOFIA Corso di Laurea in Filosofia Esperienze dell’uomo di natura Relatore: Andrea Tagliapietra Elaborato finale di: Lorenzo Messaggi Matricola: 000210 Anno Accademico 2006/2007

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Page 1: Tesi Definitiva Lore

UNIVERSITA’ VITA-SALUTE SAN RAFFAELE

FACOLTA’ DI FILOSOFIA Corso di Laurea in Filosofia

Esperienze dell’uomo di natura

Relatore: Andrea Tagliapietra

Elaborato finale di: Lorenzo Messaggi

Matricola: 000210

Anno Accademico 2006/2007

Page 2: Tesi Definitiva Lore

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Page 3: Tesi Definitiva Lore

CONSULTAZIONE ELABORATO FINALE

Il sottoscritto Lorenzo Messaggi n° matr. 000210, nato a Milano il 31 Luglio 1985,

autore della tesi dal titolo:

Esperienze dell’uomo di natura

AUTORIZZA

la consultazione della tesi stessa, fatto divieto di riprodurre, in tutto o in parte, quanto in

esso contenuto.

Data ...................... Firma ............................................

3

Page 4: Tesi Definitiva Lore

4

Page 5: Tesi Definitiva Lore

Indice 5

Avvertenza 7

I. Verso una definizione dell’uomo di natura 9

II. Esperienze dell’uomo di natura 44

I. Erodoto: l’esperimento del faraone Psammetico per determinare

la lingua madre dell’umanità 51

II. Arnobio: una variazione antiplatonica sul paragone della caverna 55

III. Calderón: la disconoscenza di Sigismondo 64

IV. Marivaux: la genesi dell’infedeltà in amore 74

V. Maupertuis: alcuni progetti per una scienza a venire 84

VI. Jauffret: l’“esperienza sull’uomo naturale” nei piani della nascente

antropologia 91

Bibliografia 103

5

Page 6: Tesi Definitiva Lore

6

Page 7: Tesi Definitiva Lore

Avvertenza

Il presente lavoro si propone di indagare la storia di un’idea, un’idea presente

probabilmente fin dalle origini nel pensiero occidentale, e che ancor’oggi, seppur

considerata ‘praticamente impossibile’ da realizzare, può essere utilizzata come ipotesi

euristica e si riverbera su alcune esperienze e alcuni studi del pensiero e della scienza

contemporanei. Si tratta, in estrema sintesi, dell’idea che esista la possibilità di isolare,

nell’uomo, la natura e la cultura, intese l’una, come quelle risposte di comportamento e

di pensiero agli stimoli ambientali che l’uomo deve a una propria dotazione innata,

l’altra, viceversa, come quelle risposte che l’uomo apprende attraverso la frequentazione

dei propri simili. L’idea presuppone che sia possibile distinguere questi due elementi, e

che sia possibile verificare questa distinzione attraverso la forzata separazione, dalla

nascita, di un uomo dal resto della società. Senza alcun possibilità di un apprendimento

culturale, l’uomo svilupperebbe solo quei caratteri che possiede da sé, che sono appunto

propri della sua costituzione essenziale, della sua natura. Osservandolo e facendone

esperienza, si dovrebbero poter determinare senza indugi queste caratteristiche.

Di quest’idea, per quanto a mio avviso importante, perchè connessa a quel problema

del che cosa è l’uomo che da sempre l’uomo investiga, e che essa investiga secondo un

metodo radicale e sperimentale, manca ancora una storia, che rintracci i testi in cui essa

compare, e tenti di spiegarne la genesi intellettuale e teorica, e il percorso che essa

conduce nei secoli. Perché se ne riveli, se esiste, uno sviluppo coerente, unitario e

progressivo, o quantomeno si riesca a individuarne una tradizione, e perché i singoli

testi in cui essa compare vengano restituiti alla dimensione di eventi che hanno una

certa causa, e non a meri episodi o aneddoti intellettuali, occorrerebbe una trattazione

più sistematica e più vasta, in grado di collegare e spiegare ciò che ad oggi appare

ancora frammentario. Finora non ho trovato tracce di uno studio di questo genere, né

questo ha la pretesa di esserlo. Qui si è trattato di mettere insieme alcune delle fonti in

cui di questa esperienza si trattava (quelle che più propriamente mi sembravano

evidenziare i caratteri della ‘naturalità’ dell’uomo e dell’utilizzo di un metodo

empirico), per come venivano ritrovate attraverso i rimandi diretti degli autori,

attraverso le preziose note di commento alle edizioni critiche dei testi e attraverso quegli

studi che si dedicavano a individuare le possibili influenze precedenti sulla genesi di un

7

Page 8: Tesi Definitiva Lore

singolo testo. Così, non conoscendo uno studio di insieme sull’argomento, è probabile

che molto sia sfuggito, sia per la mia volontaria selezione (anche se ho cercato di

inserire in nota quei testi di cui ero al corrente, ma che non mi è stato ancora possibile

recuperare o studiare adeguatamente), sia perché non si poteva pretendere esaustività da

lavori che non avevano questo scopo.

In definitiva, non si è ritenuto di dover trarre alla fine del testo alcuna conclusione,

nella speranza che questa decisione non venga compresa né come confessione di

un’insufficienza del lavoro, né come un’ipocrita falsa modestia, ma come coscienza che

bisognava operare una prima selezione e riconoscendo che conclusioni, anche negative,

potranno darsi solo al termine di una più ampia ricerca, che si ha intenzione di

intraprendere, e di cui questa tesi costituisce solo una prima ricognizione.

8

Page 9: Tesi Definitiva Lore

È probabile che non vi sia alcuna specie di selvaggi presso i quali non si trovi almeno qualche inizio

di società.

JOSEPH-MARIE DEGÉRANDO, Considerations Générales sur les Diverses Méthodes à suivre dans

l’Observation des Peuples Sauvages , 1800

I. Verso una definizione dell’uomo di natura

Nei primi decenni che seguirono la scoperta dell’America la percezione degli ‘altri’,

di tutti coloro che appartenessero a una civiltà differente da quella europea, fu piuttosto

rudimentale: per molti anni ‘gli Indiani’ tout court, la totalità dei popoli e delle culture

con cui per la prima volta si era entrati in contatto (o, nel caso dei popoli delle Indie

Orientali, già conosciuti, con cui ci si cominciò a confrontare), vennero chiamati

‘selvaggi’. Il termine ebbe dunque, in origine, lo stesso campo semantico che

nell’antichità aveva caratterizzato la parola ‘barbaro’. La stessa reazione intellettuale

che portò, a partire dal VI secolo a.C., all’epoca delle grandi colonizzazioni, delle

esplorazioni geografiche e della scoperta da parte dei Greci dei popoli che li

circondavano, a definire come βάρβαρος tutto ciò che era straniero, sembrò ripetersi

all’epoca della scoperta del Nuovo Mondo, e la nuova umanità con cui si cominciarono

ad avere relazioni fu fatta rientrare in toto nella categoria del ‘selvaggio’.

Dovettero passare decenni e si dovette a poco a poco prendere coscienza delle

differenze etnografiche tra le popolazioni scoperte nelle Indie perché avvenisse una

ridefinizione di questo termine, e perché la nozione di selvaggio potesse assumere i

tratti più precisi che la caratterizzeranno nella modernità. Nozione specifica rispetto al

complesso del ‘genere’ barbari, che denotava cioè solo alcuni dei popoli appena

incontrati nelle Indie occidentali, distinti dagli altri, che permanevano barbari, ma

quest’ultimi, ed essi soltanto, dotati di una vita sociale ben più organizzata e sviluppata,

in una certa misura assimilabile alle forme di vita e di associazione umana fino ad allora

conosciute. Si caratterizzeranno così, grazie alla nuova documentazione che negli anni

successivi la scoperta delle Americhe giunse abbondante in Europa, due tipi etnografici

distinti, il primo indicante gli homines sylvestres, i Cannibali e le culture più ‘primitive’

del Nuovo Mondo, il secondo indicante invece quelle popolazioni che avevano

intrapreso un percorso di ascesa nella ‘scala’ dell’umanità, ovverosia che

assomigliavano maggiormente alla civiltà classico-cristiana. Così che il termine

9

Page 10: Tesi Definitiva Lore

‘selvaggi’ verrà ad indicare progressivamente i membri di un insieme più ristretto e

selettivo di quello dei ‘barbari’, e si giungerà a prendere coscienza del fatto che, se tutti

i selvaggi sono barbari (nel senso più generale di stranieri), per contro non tutti i barbari

sono selvaggi1.

Tratto fondamentale della figura del selvaggio, per come viene a definirsi nella

cultura europea tra il XVI e il XVIII secolo, è infatti l’assenza di leggi, di poteri, di una

religione e di un insediamento stabile, insomma di un qualsiasi elemento che possa

rivelare agli occhi di un osservatore occidentale una organizzazione comunitaria e

politica. I selvaggi vengono identificati (e distinti) come “quelli che sono come fiere

silvestri, che vivono per i campi senza cittadi né case, senza politia, senza leggi, senza

riti né creanze” già dal sacerdote domenicano Bartolomé de Las Casas, che dedica gli

ultimi tre capitoli della sua Apologetica Historia2 alla definizione delle differenze

specifiche all’interno dei ‘barbari’. Questa caratterizzazione avrà successo, e trapasserà

nel senso comune della Repubblica delle Lettere3. Gli scrittori della prima modernità,

sulla scorta della definizione classica dell’uomo contenuta nella Politica aristotelica

(l’uomo come φύσει πολιτιχòν ζοῷν), giungono a stabilire l’equazione per cui selvaggi

sarebbero tutti coloro che non possono essere chiamati cives. Nel proemio al De 1 Cfr. la voce sauvage della seconda edizione del Dictionnaire de la Langue Française (1872-1877), più conosciuto

come Littré, dal nome del suo autore, Émile Littré (1801-1881). Egli presenta questa distinzione lessicale in modo

particolarmente chiaro: “Le nom des barbares a été donné par les anciens soit à des races qui, comme les Perses,

avaient une civilisation différente de la civilisation gréco-romaine, soit à des populations qui, comme les Gaulois, les

Germains, les Scythes, n’avaient qu’une société peu avancée, sans lettre et sans sciences. Les modernes donnent le

nom de sauvages, par comparaison aux animaux, à des populations qui vivent dans les forêts en une condition

inférieure à celle des barbares” (il dizionario è consultabile presso la University of Chicago, all’interno del progetto

di digitalizzazione del patrimonio letterario francese chiamato ARTFL, all’indirizzo

http://humanities.uchicago.edu/orgs/ARTFL/). 2 Bartolomé de Las Casas, Apologética Historia de las Indias (tr. it. parziale, a cura di Alberto Pincherle, La

Leggenda Nera, Milano, Feltrinelli, 1959) ; citato in Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi: 1580-1780, Bari,

Laterza, 1972, p. 94. 3 Su chi fossero propriamente i selvaggi, almeno fino al Settecento, sembra esserci una sostanziale unanimità nella

comunità intellettuale. A questo proposito è opportuno mostrare ancora le testimonianze dei dizionari; questa volta

per come si trovano alle voci sauvage del Dictionnaire de l’Académie Française (1° ed, 1694, ma la definizione

rimane quasi immutata almeno fino alla sesta edizione, del 1835) e dell’Encyclopédie (tomo XIV, 1765). Gli

Accademici scrivono: “Sauvage, se dit aussi des certains peuples qui vivent ordinairement dans les bois, sans

religion, sans loix, sans habitation fixe et plustost en bestes qu’en hommes.”, mentre il redattore della voce

enciclopedica, il cavaliere de Jaucourt, definisce i selvaggi “peuples barbares qui vivent sans lois, sans police, sans

religion et qui n’ont point d’habitation fixe”.

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Page 11: Tesi Definitiva Lore

procuranda salute indiorum (1589), testo destinato ad esercitare un’influenza notevole

in ragione dell’autorità di Joseph de Acosta, gesuita, missionario e naturalista spagnolo

del XVI secolo, l’autore propone una gerarchia dell’umanità che si fonda proprio su un

discrimine di tipo politico: al vertice di essa sta, ovviamente, la civiltà europea, in

mezzo stanno le civiltà delle Indie Orientali (Cinesi e Giapponesi) e Occidentali

(Peruviani, Messicani), comunque dotate di una “respublica”, di “leges” e di un

“magistratus” che le governano, e, al fondo, si trovano invece, come ultima specie:

Homines sylvestres, feris similes, vix quicquam humani sensus habentes,

sine lege, sine rege, sine foedere, sine certu magistratu et republica, sedes

identidem commutantes aut ita fixa habentes ut magis ferarum specus aut

pecudum caulas imitentur4.

Questi sono propriamente, nella nuova definizione, i sauvages: gli uomini senza una

πόλις e che somigliano più a bestie selvatiche che a uomini, come appunto aveva già

detto Aristotele5.

Se il contenuto di questa definizione non sembra cambiare nei decenni successivi,

nel corso del Sei-Settecento si va restringendo sempre più la sua estensione:

osservazioni e relazioni più accurate da parte dei viaggiatori di ritorno dalle Americhe,

sull’autorità delle quali (peraltro molto discussa e discutibile6) il mondo dei dotti 4 Anche i rimandi al De procuranda salute indiorum di Acosta sono tratti da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi:

1580-1780, Bari, Laterza, 1972, pp. 97-99. 5 Cfr. Aristotele, Politica, 1253 a 27-9. 6 A proposito dell’influenza sulla cultura europea (e dell’inattendibilità) delle testimonianze dei viaggiatori mette

conto leggere l’interessante saggio di Todorov, Viaggiatori e indigeni (in L’Uomo del Rinascimento, a cura di

Eugenio Garin, Bari, Laterza, 1988, pp. 329-57). Particolarmente emblematica appare l’interpretazione della fortuna

dei resoconti di Amerigo Vespucci, che Todorov ritiene dovuta probabilmente più che ad una fedele descrizione dei

suoi viaggi (incerti), alla loro “qualità letteraria”. “Amerigo fa della letteratura”, “le sue lettere mirano prima di tutto

a sbalordire gli amici di Firenze, a distrarli e a incantarli”, dice Todorov, e il risultato è che un’opera in forma di

epistola come il Mundus Novus di Vespucci (Mundus Novus, 1504, tr. it. di Cristiano Spila, Il Mondo Nuovo, Troina,

Città Aperta, 2007) piena di fantasie e di topoi dell’esotismo rinascimentale, diviene forse l’opera più popolare

dell’epoca, viene ripubblicata almeno cinquanta volte in più lingue nella prima metà del Cinquecento, e gli dona una

fama eterna. Ancora duecentocinquanta anni dopo l’inaffidabilità delle relazioni di viaggio era lamentata con forza da

Rousseau, in una sua celeberrima invettiva del secondo Discours (Note X): “Depuis trois ou quatre cens ans que les

habitans de l’Europe inondent les autres parties du monde et publient sans cesse de nouveaux recueils de voyages et

de rélations, je suis persuadé que nous ne connoissons d’hommes que les seuls Européens [...] Il n’y a guéres que

11

Page 12: Tesi Definitiva Lore

elaborava le sue posizioni teoriche, conducono a limitare sempre più il numero di coloro

che possono in effetti essere considerati propriamente selvaggi: “via via che le relazioni

si succedevano, la migliore conoscenza della vita dei diversi popoli, in particolare

l’individuazione dell’esistenza di capi militari e tribali, che prima o dopo non doveva

mancare, implicava puntualmente la dislocazione di un sempre maggior numero di

comunità indiane nella classe delle genti in qualche modo politiche”7. Accanto ai molti

resoconti di viaggio che presentavano il quadro di società prive di potere coattivo

interno, ve n’erano altrettanti che costituivano una obiezione nei confronti di coloro che

volessero considerarli meramente sans société. Il continente americano si popolò

sempre più di ‘regni’ e ‘repubbliche’, si pervenne a circoscrivere il pregiudizio sulla

‘bestialità’ e l’‘anarchia’ dei popoli scoperti e i selvaggi veri e propri si ridussero a

essere casi-limite, rari, malnoti e abitanti delle zone più remote e meno conosciute8.

quatre sortes d’homme qui fassent des voyages de long cours; les Marins, les Marchants, les Soldats et les

Missionaires; or on ne doit guéres s’attendre que les trois premiéres Classes fournissent des bons Observateurs, et

quant à ceux de la quatriéme, occupés de la vocation sublime qui les appelle, quand ils ne seroient pas sujet à des

préjugés d’état comme tous les autres, on doit croire qu’ils ne se livreroient pas volontiers à des recherches qui

paroissent de pure curiosité, et qui les dètourneroient des travaux plus importans auxquels ils se destinent”. E

continua: “On n’ouvre pas un livre de voyage où l’on ne trouve des descriptions de caractères et de moeurs; mais on

est tout étonné d’y voir que ces gens qui ont tant décrit de choses, n’ont dit que ce que chacun savoit déjà [...] et que

ces traits vrais qui distinguent les nations, et qui frapent les yeux faits pour voir, ont presque toujours échapé aux

leurs. Rousseau conclude affermando che: “ce seroit une grande simplicité de s’en rapporter là dessus à des

voyageurs grossiers” e si rammarica che “dans une Siécle où l’on se pique de belles connoissances, il ne se trouve pas

des hommes bien unis, riches, l’un en argent, l’autre en genie, tous deux aimant la gloire et aspirant à l’immortalité,

dont l’un sacrifie vingt mille écus de son bien et l’autre dix ans de sa vie à un célèbre voyage autour du monde; pour

y étudier, non toujours des pierres et des plantes, mais une fois les hommes et les moeurs”. Cfr. Jean Jacques

Rousseau, Discours sur l’Origine et les Fondements de l’Inégalité parmi les Hommes, Amsterdam, chez M.-M. Rey,

1755 (in Oeuvres Completès, tome IIIeme, Paris, Gallimard, 1964), pp. 212-13.

Solo a fine Settecento si farà un singolare tentativo di rigorizzazione della metodologia della spedizione scientifica e

geografica, attraverso l’elaborazione delle cosiddette Instructions de voyage, veri e propri vademecum per viaggiatori,

elaborati da studiosi e filosofi, che indicavano loro quali dati raccogliere e con quale metodo (sull’‘invenzione’ di

questo genere letterario, cfr. Moravia S., La Scienza dell’Uomo nel Settecento, Bari, Laterza, 1970, pp. 151-61. Il

volume riporta in appendice anche uno dei testi di maggior rilievo di questo tipo di scritti, ad opera dell’idéologue e

membro della Société des Observateurs de l’Homme Joseph-Marie Degérando (1772-1842) intitolato: Considerations

générales sur les diverses méthodes à suivre dans l’observation des peuples sauvages, ivi, pp. 277-308). 7 Cfr. Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 103. 8 Significativa appare la modifica apportata alla definizione di selvaggio tra la prima (1694) e la quarta (1762)

edizione del Dictionnaire de l’Académie Française; in quest’ultima si legge: “SAUVAGE se dit aussi de certains

peuples qui vivent ordinairement dans le bois, presque sans religion, sans lois, sans habitation fixe, et plutot en bêtes

12

Page 13: Tesi Definitiva Lore

All’ambiguità dei ‘fatti’ che venivano raccontati in Europa faceva eco una

corrispondente confusione nell’elaborazione di ‘quadri teorici’ che fossero in grado di

dare una spiegazione delle forme associative che si riscontravano nel Nuovo Mondo.

Da un lato infatti stavano tutti quei pensatori di cui abbiamo detto che, riprendendo la

definizione aristotelica (che si era trasformata attraverso la mediazione degli scolastici

nell’implicazione che ogni societas dovesse essere anche civitas9), tenevano fermo che

la natura dell’uomo fosse naturalmente politica e che dunque tutti gli uomini dovessero

di necessità vivere in una forma di aggregazione assimilabile alla πόλις greca (dotata di

leggi, di magistrati, di governo ecc.). Essi si spingevano polemicamente a sottolineare la

superficialità e l’inverosimiglianza di tutte quelle relazioni di viaggio che non potessero

essere inscritte all’interno del loro sistema: queste pericolose controfattualità, per coloro

che pedantemente giuravano sulla parola di Aristotele, venivano private di credibilità

per salvare i presupposti teorici che erano in contraddizione con esse10. Dall’altra parte

stavano i negatori della naturalità dell’organizzazione politica dell’umanità, i quali qu’en hommes” (corsivo mio). La quarta edizione (non mi è stato possibile consultare la seconda e la terza) sembra

aver recepito finalmente questo cambio di direzione: lo stato dei selvaggi non era di totale assenza di regole, ma

esistevano all’interno di questi gruppi forme di socialità organizzata, per quanto diverse da quelle europee. 9 Cfr. Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, ad Regem Cypri o De Regno,1267, Liber I, Capitulus 1: Quod

necesse est homines simul viventes ab aliquo diligenter regi : “Naturale autem est homini ut sit animal sociale et

politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat.

Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum, defensionem, ut dentes, cornua, ungues, vel

saltem velocitatem ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a natura praeparato, sed loco omnium data

est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non

sufficit. Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset. Est igitur homini naturale quod in societate

multorum vivat [...] Si ergo naturale est homini quod in societate multorum vivat, necesse est in hominibus esse per

quod multitudo regatur. Multis enim existentibus hominibus et unoquoque id, quod est sibi congruum, providente,

multitudo in diversa dispergeretur, nisi etiam esset aliquis de eo quod ad bonum multitudinis pertinet curam habens;

sicut et corpus hominis et cuiuslibet animalis deflueret, nisi esset aliqua vis regitiva communis in corpore, quae ad

bonum commune omnium membrorum intenderet”. 10 Un esempio di ‘deduzione’ teorica dell’impossibilità dell’esistenza di associazioni non-politiche mi sembra potersi

trovare in un brano che traggo da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 108, scritto dai Gesuiti francesi

(Mémoires pour l’Histoire des Sciences et des Beaux Arts, Trevoux, 1724): “C’est ici le point sur lequel on est le plus

prevenu contre ces habitants du Nouveau [...] Monde; car on n’a pas laissé de leur accorder quelques idées, quoique

fausses, de la Divinité et d’une Religion, mais du reste on les a fait vivre dans une indépendance parfaite et plus que

republiquaine. La raison eût pû cependant détromper de cette idée, en attendant que les faits mêmes en

démonstrassent la fausseté; car pour peu qu’on raisonne, on voit bien que vivre en communauté, en société, et n’avoir

point de gouvernement et d’oeconomie politique est une contradiction que l’humanité ne sçauroit comporter en

aucune sorte…” (corsivo mio).

13

Page 14: Tesi Definitiva Lore

potevano vantare come capostipite di questa linea di pensiero nella modernità Hobbes.

È questi, infatti, a pensare per primo l’esistenza di uno “stato di natura” che preceda,

logicamente e storicamente11, l’istituzione di uno Stato politico e a pensarlo però come

assolutamente opposto alla civilis societas, senza considerare figure intermedie che gli

consentirebbero (anche nel suo caso) di rendere coerente il suo pensiero con i fatti, e in

particolare di inserire in un quadro sistematico proprio quei selvaggi d’America il cui

influsso nell’elaborazione della sua antropologia e la cui presenza in numerosi passi dei

suoi testi è indiscutibile. Dal momento che egli pone come alternativa radicale quella tra

status naturalis (inteso, come noto, come stato di asocialità, di belligeranza senza sosta

tra gli uomini, di precarietà e miseria delle condizioni materiali12) e stato civile (inteso

come quello stato ‘inventato’ dagli uomini nel quale è garantita una pace ‘artificiale’, in

cui ci si emancipa dal metus violentae mortis et periculum perpetuum ed in cui è

concesso lo sviluppo delle arti e il conseguimento della leisure attraverso l’istituzione di

un potere coercitivo superiore ai singoli individui), non sembra esserci alcuno spazio

per considerare quegli embrioni di socialità che sono le tribù indigene, che infatti

Hobbes relega nel suo sistema ancora nello spazio della “nulla societas”. “È vero che,

guardando ai selvaggi, egli li ha pur trovati organizzati in tante tribù disperse, ma ben

tali raggruppamenti, così «piccoli», gli sono apparsi come i soggetti dell’isolamento

‘asociale’ naturale: molecole spontanee, per dir così, che scadono però ad un valore

atomico nel confronto con l’ipotesi di una loro aggregazione in civili Leviatani, quali

quelli che altrove, nel Vecchio Mondo, s’erano pur sviluppati”13. Se rifiuta decisamente

il πολιτιχòν ζοῷν aristotelico e la sua antropologia, Hobbes sta mantenendo però il

pregiudizio scolastico per cui non vi può essere alcuna società senza organizzazione

11 Sulla ‘storicità’, sull’esistenza reale dello “stato di natura” in Hobbes (di cui una prova sarebbero proprio le tribù

nordamericane), che non sarebbe uno stato puramente fittizio, una mera “logical hypothesis” come molti interpreti,

dal Seicento ad oggi, hanno voluto interpretarlo, si sofferma in maniera convincente proprio Sergio Landucci, I

Filosofi e i Selvaggi, op. cit., pp. 114-42. 12 Per la discussione seguente si confronti: Thomas Hobbes, Leviathan, London, printed for Andrew Crooke, 1651 (tr.

it di Gianni Micheli, Leviatano, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1976), Capitolo XIII, Della Condizione

Naturale dell’Umanità per quanto concerne la sua Felicità e la sua Miseria. 13 Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 139.

14

Page 15: Tesi Definitiva Lore

politica14. È così costretto a interpretare le famiglie, le gentes, e le tribù di cui ha notizia

dalle Americhe come eccezioni a questa derivazione civitas-societas15. In esse non vi è

infatti un potere centrale e costrittivo, eppure la guerra “of every man against every

man” viene in una certa misura evitata attraverso un sentimento naturale di “concordia”

che consente l’istituzione di isole di socialità. Ma è una concordia fondata sulla

“concupiscenza naturale” (natural lust), cioè sulla necessità di relazioni sessuali-

matrimoniali, che non può dare luogo che a piccoli gruppi umani e non è suscettibile di

ulteriori sviluppi. L’assoluta insocialità originaria, che sembra essere la conclusione di

un esperimento ideale fondato su quegli impulsi e passioni umane distruttive16

universalmente operanti presso gli uomini, si realizza ai suoi occhi però storicamente

sempre in maniera imperfetta, come gli risulta dalla letteratura sulle popolazioni del

Nuovo Mondo. In lui non emerge ancora l’istanza e la pretesa di ritrovare nella realtà,

seppur solo in un passato preistorico, un’epoca o un luogo in cui gli uomini vivano in

una situazione di assoluta singolarità e conflittualità17: lo stato di natura è sì realiter

existens, ma al modello teorico si aggiunge subito una precisazione dettata ab extra che

di fatto lo trasforma, perchè il dato empirico gli fa tradurre lo stato di natura ‘puro’ in

quello stato in cui si ritrovano i sauvages americani. Questo non si identifica con lo

“stato di natura”, ma vi è molto vicino, tant’è che egli ritrova una conferma empirica di

quello in questo e, paradossalmente, proprio questa condizione di eccezionalità

rappresentata da una società pre-politica, conferma la sua ipotesi: in essa infatti il

governo è una manifestazione tanto precaria e labile che non permette l’uscita dalla

condizione di lotta e incertezza permanenti, e l’organizzazione è ad un livello troppo

limitato per consentire agli uomini ciò che loro preme di più: la vita e, inoltre, una vita 14 “è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione,

essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”,

Hobbes, Leviatano, op. cit., p. 120. 15 “Infatti, in parecchi luoghi dell’America, i selvaggi, se si eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia

dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella maniera brutale

che ho detto prima” (corsivo mio), p. 121. 16: “nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la

diffidenza, in terzo luogo la gloria.”, ivi, p. 119. 17 “Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di guerra come questa, ed io

credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci sono parecchi luoghi ove attualmente si vive così” e

poco sotto ipotizza ancora “...anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui i particolari [i singoli individui] fossero

in condizione di guerra l’uno contro l’altro”, ivi, pp. 121-22.

15

Page 16: Tesi Definitiva Lore

in qualche misura “comoda”. Proprio il fatto che questi gruppi non riescano ad uscire da

una condizione di guerra permanente (e infiniti erano i resoconti che presentavano la

guerra come principale attività dei ‘selvaggi’) li mantiene all’interno di una peculiare

collocazione storica, che può ancora dirsi ‘di natura’, perché ancora precedente

l’istituzione di una civilis societas. Allo stesso tempo è proprio questa ubicazione al di

fuori della sfera politica che impedisce ad Hobbes di interpretare le famiglie selvagge

come forme vere e proprie di società e impedisce il riconoscimento della loro peculiarità

in quanto società totalmente eterogenee rispetto a qualsiasi delle forme di società

politiche alle quali si erano limitate le classificazioni tradizionali. Utilizzando la

distinzione presente alla voce État de nature18 dell’Encyclopédie, potremmo

riconoscere negli ‘uomini di natura’ hobbesiani, per come appaiono nel Capitolo XIII

del Leviatano, rappresentanti di uno ‘stato di natura’ inteso secondo il ‘significato

giuridico’ e non secondo il ‘significato etnologico’. Secondo il primo significato “ceux

que l’on dit vivre dans l’état de nature, ce sont ceux qui ne sont soûmis à l’empire l’un

de l’autre, ni dependans d’un maitre commun: ainsi l’état de nature est alors opposé à

l’état civil”. Del secondo significato invece il cavaliere de Jaucourt, autore della voce,

dice: “l’état de nature est la triste situation où l’on conçoit que feroit reduit l’homme,

s’il étoit abbandonné à lui meme en venant au monde: en ce sens l’état de nature est

opposé à la vie civilisée”. Quando più tardi ci si appunterà su questo significato

etnografico (lo stato di natura in quanto condizione di assenza della ‘cultura’) l’idea di

Hobbes apparirà così palesemente insufficiente, e i suoi ‘selvaggi’ non potranno più

apparire ‘uomini naturali’. Saranno meramente uomini che vivono all’infuori di un

regime politico.

Per comprendere meglio come questa linea di pensiero, che è stata giustamente

definita pan-politicista19 e che potremmo riassumere ancora una volta attraverso la

formula nulla societas sine civitas che accomuna sia gli ‘aristotelici’ sia gli

‘hobbesiani’, sia incapace di spiegare e descrivere le forme di socialità del Nuovo

Mondo, è necessario osservarne una delle formulazioni più radicali, ossia quella che si

ritrova nell’Histoire Naturelle di Buffon e che, a metà Settecento, appariva in aperto

18 Louis de Jaucourt, voce État de Nature (Droit nat.), in Encyclopédie, vol VI, 1756 (disponibile online all’indirizzo

http://portail.atilf.fr/encyclopedie/Formulaire-de-recherche.htm ). 19 Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 147.

16

Page 17: Tesi Definitiva Lore

contrasto con la consapevolezza ormai acquisita e non più posta in dubbio dell’esistenza

di forme di ‘cultura’ presso i selvaggi:

...l’on n’a trouvé dans toute cette partie de l’Amérique aucune nation civilisée

[...] car quoique ces nations sauvages eussent des espèces de moeurs ou de

coûtumes particuliéres à chacune, et que les unes sussent plus ou moins

farouches, plus ou moins cruelles, plus ou moins courageuses, elles étoient

toutes également stupides, également ignorantes, également dénuées d’arts et

d’industrie.

Je ne crois donc pas devoir m’étendre beaucoup sur ce qui à rapport aux

coûtumes de ces nations sauvages, tous les Auteurs qui en ont parlés n’ont pas

fait attention que ce qu’ils nous donnoient pour des usages constans et pour les

moeurs d’une société d’hommes, n’étoit que des actions particulières à quelques

individus souvent déterminez par les circonstances ou par le caprice;certaines

nations, nous dissent-ils, mangent leur ennemis, d’autres les brûlent, d’autres les

mutilent, les unes sont perpétuellement en guerre, d’autres cherchent à vivre en

paix; chez les unes on tue son père lorsqu’il a atteint un certain âge, chez les

autres les pères et mères mangent leurs enfans, toutes ces histoires sur lesquelles

les voyageurs se font étendus avec tant de complaisance se réduisent à des récits

de faits particuliers, et signifient seulement que tel sauvage a mangé son ennemi,

tel autre l’a brûlé ou motile, tel autre a tué ou mange son enfant, e tout cela peut

se trouver dans une seule nation de sauvages comme dans plusieurs nations, car

toute nation où il n’y a ni régle, ni loi,ni maître, ni société habituelle, est moins

une nation qu’un assemblage tumultueux d’hommes barbares et indépendans,

qui n’obeissent qu’à leurs passions particulières, et qui ne pouvant avoir un

intérêt commun, sont incapables de se diriger vers une même but et de se

soûmettre à des usages constans, qui tous supposent une suite de desseins

raisonnez et approuvez par le plus grand nombre20.

20 George-Louis Leclerc Buffon, Histoire Naturelle, tome III, Paris, de l’Imprimerie Royale, 1749 (disponibile online

all’indirizzo: http://www.buffon.cnrs.fr/index.php?lang=fr#hn), pp. 490-91.

17

Page 18: Tesi Definitiva Lore

Il brano di Buffon è molto chiaro e la sua conclusione è drastica. All’homme sauvage

non si può attribuire alcuna manifestazione di socialità e i racconti dei viaggiatori sono

totalmente fuorvianti: essi presentano come leggi, costumi e pratiche comunitarie

comportamenti che non sono che casuali, disordinati, mutevoli e individualistici. I

‘selvaggi’ non costituiscono né uno Stato né una nazione né tanto meno un agglomerato

coeso, ma si limitano a rapporti di prossimità precari e disorganizzati. Addirittura

fenomeni come la comunanza della lingua, la determinazione di uno stesso capo, la

conoscenza reciproca e le medesime abitudini non riescono a convincere Buffon

dell’esistenza presso di loro di un principio di società21. Già nella succitata lettera di

Vespucci22, prima vera presa di coscienza dell’esistenza di una terra e di un’umanità

differente23 nella modernità, tra i tratti che caratterizzavano il vivere secundum naturam

degli abitanti delle Americhe si poteva leggere che:

[...] vivunt simul sine rege, sine imperio e unusquisque sibipsi dominus est.

Tot uxores ducunt quot volunt et filius coit cum matre et frater cum sorore et

primus cum prima et obvius cum sibi obvia. Quotiens volunt matrimonia

dirimunt, et in hiis nullum servant ordine. Preterea nullum habent templum et

nullam tenent legem, neque sunt idolatre. Quid ultra dicam? Vivunt secundum

naturam, et epycuri potius dici possunt quam stoici24.

21 “La même nation, dira-t-on, est composée d’hommes qui se reconnoissent, qui parlent la même langue, qui se

réunissent, lorsqu’il le faut, sous un chef, qui s’harment de même, qui hurlent de la même façon, qui se barbouillent

de la même couleur; oui si ces usages étoient constans, s’ils ne se séparoient pas sans raion, si leur chef ne cessoit pas

de l’être par son caprice ou par le leur, si leur langue même n’étoit pas si simple qu’elle leur est presque commun à

tous”, ivi, p. 491. 22 Cfr. nota 5. 23 Si veda l’introduzione al Mundus Novus di Cristiano Spila, op. cit. : “La dimensione culturale della «scoperta» solo

con lui [Vespucci] assume la pienezza del suo significato, perché solo con lui l’Europa comprende che il problema

della via occidentale delle Indie – mero problema tecnico di convenienza mercantile – si trasforma in un gigantesco

impegno di esplorazione e colonizzazione” (pp. 10-11) e “È ben vero che Vespucci non scoprì per primo quelle terre,

ma ebbe il merito di descriverle e di averle fatte conoscere all’Europa, sostenendo la tesi che esse non appartenevano

all’Asia, ma rappresentavano la «quarta pars mundi», un nuovo continente.” (p. 24). Sebbene la “questione

vespucciana” rimanga tuttora aperta è pur vero che merito storico-culturale indiscusso del navigatore fiorentino

rimane quello, importantissimo, di aver riconosciuto l’esistenza del nuovo continente. 24 Mundus Novus, op. cit., p. 56, corsivo mio.

18

Page 19: Tesi Definitiva Lore

In questo testo l’autore individuava la ‘selvaggezza’ e la differenza dei selvaggi nel

loro presunto epicureismo, in una sorta di ‘solipsismo’ delle pratiche di vita, in una

sregolatezza intesa come mancanza sia di regole sia di istituti e figure adatte a farle

rispettare, che li riduceva a comportamenti animaleschi. Buffon, a due secoli e mezzo di

distanza, riprendeva lo stesso tema: i selvaggi si limitano ad “actions particulières à

quelques individus souvent déterminez par les circonstances ou par le caprice”25. Di

assenza di regole come criterio più sicuro per distinguere un processo culturale da un

processo naturale ha parlato anche Lévi-Strauss: “...la discussione che precede non ha

fruttato solo questo risultato negativo: con la presenza o l’assenza della regola nei

comportamenti sottratti alle determinazioni istintive, essa ci ha fornito il criterio più

valido per riconoscere gli atteggiamenti sociali. Ovunque si manifesti la regola, noi

sappiamo con certezza di essere sul piano della cultura”26. I modi di agire degli indigeni

di Buffon rassomigliano a quelli delle scimmie antropoidi di Lévi-Strauss:

La vita sociale delle scimmie [...] non si presta alla formulazione di alcuna

regola. In presenza del maschio o della femmina, dell’animale vivo o morto, del

soggetto giovane o vecchio, del parente o dell’estraneo, la scimmia si comporta

con sorprendente versatilità. Non solo non è costante il comportamento dello

stesso soggetto, ma neppure il comportamento collettivo consente di riconoscere

una qualsiasi regolarità. Gli stimoli esterni o interni e gli adattamenti

approssimativi provocati dagli scacchi e dai successi sembrano fornire tutti gli

elementi necessari alla soluzione dei problemi di interpretazione, così nel campo

della vita sessuale come in ciò che concerne le altre forme di attività [...] Tutto

sembra svolgersi come se le grandi scimmie, già capaci di dissociarsi dal

comportamento proprio della specie, non riuscissero tuttavia a ristabilire una

norma su un piano nuovo. La condotta istintiva perde la nettezza e la precisione

che si riscontra presso la maggior parte dei mammiferi; ma la differenza è

25 George-Louis Buffon, Histoire Naturelle, op. cit., p. 490. 26 Cfr. Claude Lévi-Strauss, Les Structures Elementaires de la Parenté, Paris, Presses Universitaires de France, 1947

(tr. It. di Alberto M. Cirese e Liliana Serafini, Le Strutture Elementari della Parentela, Milano, Feltrinelli, 1969), p.

46.

19

Page 20: Tesi Definitiva Lore

puramente negativa, e il campo abbandonato dalla natura resta territorio non

occupato27.

Come Lévi-Strauss cambierà strada nelle pagine successive per tentare di riconoscere

il punto di passaggio tra natura e cultura, perché appunto le scimmie non mostrano segni

di una ‘regola’ e quindi permangono in una situazione pre-culturale, così Buffon

dichiarerà l’inutilità di studiare i presunti costumi degli indigeni, che non sono che

risposte istintuali all’ambiente o capricci irragionevoli.

Presso di loro, se non sono dunque esaminabili usi e costumi condivisi, ma si rimane

a una condizione ‘naturale’, è però forse possibile venire a contatto e studiare “la nature

de l’individu”, ovverosia il carattere dell’uomo “avec les vraies couleurs et les seuls

traits naturels”, in cui sia possibile distinguere “ce que la Nature seule nous a donné de

ce que l’education, l’imitation, l’art et l’exemple nous ont communiqué”28. È il

medesimo fine, quello di sceverare la ‘natura’ dalla ‘cultura’, ciò che sarebbe innato e

universalmente presente in tutti gli uomini da quello che verrebbe invece appreso, cui

negli stessi anni tenderanno in molti. Ma la tesi già presente in quegli anni, e che si

sarebbe affermata nei decenni successivi, assegnava all’‘uomo di natura’ un referente

empirico ormai diverso: non certo i sauvages, tra i quali si riconoscevano tracce di una

cultura che veniva intesa in senso sempre più comprensivo, esteso e indefinito, ma,

come vedremo, gli enfants sauvages e gli ipotetici ragazzi cresciuti in condizioni

d’isolamento totale. Nonostante ciò l’interpretazione buffoniana, proprio perché porta

alle estreme conseguenze i presupposti politicisti, ci è servita per comprendere

l’importanza di questa corrente intellettuale: essa ha prospettato (dopo Hobbes) la

possibilità di una umanità apolitica e asociale, istintuale e bestiale, anche se non ha

saputo mostrarne l’esistenza fattuale. In questo quadro teorico, o ci si rifiuta di credere

nell’esistenza di figure di vita dell’uomo anteriori allo stato politico, o si crede che i

sauvages siano uomini separati da ogni relazione con i propri simili, bruti e in uno stato

che precede ogni forma di cultura in senso etnografico. Questa seconda via, inaugurata

da Hobbes ma esplicitata solo da Buffon, non sarà più, dopo il Discours sur l’Inegalité

di Rousseau, percorribile, perchè questi metterà definitivamente in luce la differenza

27 Ivi, pp. 44-46. 28George-Louis Buffon, Histoire Naturelle, op. cit., p., p. 492.

20

Page 21: Tesi Definitiva Lore

che intercorreva tra i ‘selvaggi’ e l’uomo naturale e rimprovererà esplicitamente a

Hobbes di non aver proceduto criticamente su questa questione, come vedremo in

seguito. Empiricamente sconfitta, sotto i colpi di quelle teorie che invece rivendicavano

la socialità e la culturalità pre-politiche dei selvaggi, di cui si parlerà tra poco, la

prospettiva politicista aveva comunque introdotto l’esigenza di cercare l’homme

naturel. Se, come ci si convincerà definitivamente nella seconda metà del XVIII secolo,

quest’uomo non si deve cercare presso i selvaggi, permarrà l’esigenza teorica di trovarlo

altrove. Indicativo è allora che nelle stesse pagine di Buffon sopra citate il naturalista

francese sembri essere consapevole del problema e si contraddica, così che, dopo aver

rintracciato poche righe sopra gli individui ‘di natura’ nei ‘selvaggi’, prospetti una

diversa soluzione e si rivolga per individuare il “sauvage absolutement sauvage” ai

ragazzi cresciuti al di fuori del consorzio umano29:

Un sauvage absolutement sauvage, tel que l’enfant élevé avec les ours, dont

parle Conor, le jeune homme trouvé dans les forêts d’Hanower, ou la petite fille

trouvée dans les bois en France, seroient un spectacle curieux pour un

philosophe, il pourroit en observant son sauvage, évaluer au juste la force des

appétits de la Nature, il y verroit l’ame à découvert, il en distingueroit tous les

mouvemens naturels…30

Parallelamente a questa linea interpretativa, nel Sei-Settecento se ne trova un’altra

basata sulla distinzione e la dissociazione teorica tra società e Stato, limpidamente

espressa dalla massima leibniziana per cui omnem civitatem esse societatem, sed non

contra31. Non sovrapponendo più le due categorie della societas e della civitas, e non

considerandole più come legate da un rapporto di reciproca implicazione, per il quale

l’una non poteva sussistere senza l’altra, si apriva la possibilità di rendere conto proprio

29 L’incoerenza di Buffon appare evidente, ma, a onor del vero, egli si era cautelato attraverso l’utilizzo del

condizionale e della locuzione “peut-être”; precisamente aveva scritto: “il feroit peut-être necessaire d’examiner la

nature de l’individu” nei selvaggi. 30 Ivi, p. 492. 31 Traggo le successive citazioni dei testi leibniziani da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., pp. 109-112.

La formula latina citata è contenuta nel testo intitolato In Severinum de Mozambano (1668-72 circa), mentre il testo

in francese è tratto dal Jugement sur les Oeuvres de Mr. le Comte de Shaftesbury (1712)..

21

Page 22: Tesi Definitiva Lore

di quelle forme ambigue di socialità delle Americhe che per i dotti e i filosofi europei

erano rimaste problematiche. Il ‘miracolo’, rispetto alla tradizione, è appunto

l’attestazione (di cui Leibniz è consapevole e alla novità della quale non si sottrae) di

società che non sono civitates: “peuples entiers” qui sine magistratu societatem colunt.

Leibniz scrive:

Les Iroquis et les Hurons, sauvages voisins de la Nouvelle France et de la

Nouvelle Angleterre, ont renversé les maximes politiques trop universelles

d’Aristote et de Hobbes; ils ont montré par une conduite surprenante que des

peuples entiers peuvent être sans Magistrats et sans querelles, et que par

consequent les hommes ne sont ny assés portés par leur bon naturel ny assés

forcés par leur mechancheté à se pourvoir d’un gouvernement et à renoncer à

leur liberté.

In questo passo Leibniz, nel momento stesso in cui getta le basi del suo superamento

teorico, dimostra di subire comunque l’influsso del ‘paradigma politicista’: la condotta

dei popoli interi che vivono senza leggi né magistrati in concordia è così in contrasto

con le “maximes politiques” dominanti nei secoli precedenti che gli appare come una

“conduite surprenante”. Si tratta, nei termini dell’interpretazione del progresso

scientifico di Thomas Kuhn, della presa di coscienza di Leibniz di una “anomalia”,

ossia del riconoscimento che “la natura ha in un certo modo violato le aspettative

suscitate dal paradigma”32. È probabile che la “novità teorica” del riconoscimento dello

stato civile come distinto da quello che segue l’istituzione dello Stato sia stata suggerita

a Leibniz proprio dalla documentazione etnografica di cui si serviva, e che,

contemporaneamente, le “novità di fatto” che erano questi popoli coesi pur senza potere

coercitivo, possano essere state riconosciute solo perché si era compresa la

dissociazione detta. Teoria ed esperienza sono troppo intimamente legate, e si

influenzano reciprocamente, per poter distinguere da quale lato abbia preso avvio la

nuova comprensione dello stato dei selvaggi: i ‘fatti’ (ovverosia i testi: le relazioni e i

racconti dei viaggiatori) erano comuni a tutti i savants dell’epoca, ma parlavano in

32 Thomas Samuel Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, The University of Chicago Press, 1960.

(tr. it. di Adriano Carugo, La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche, Torino, Einaudi, I ed. 1969), p. 76.

22

Page 23: Tesi Definitiva Lore

modo del tutto differente a seconda dei presupposti teorici di riferimento, dando origine

a ermeneutiche opposte. Leibniz non era stato l’unico pensatore ad occuparsi di questo

perfezionamento teorico, che anzi preoccupava anche molti altri pensatori nei decenni a

cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Il processo che ebbe inizio in questi anni sarebbe

stato molto lungo e contestato, tanto che “alla metà del Settecento era ancora aperto

tutto il ventaglio delle teorie sui selvaggi e le loro società”33 ed esse coesistevano l’una

accanto all’altra. Il riconoscimento della socialità dei popoli americani era in qualche

misura figlio di quel mito primitivistico e di quella idealizzazione dei selvaggi che, al di

là dei notissimi motivi di critica ideologica rivolta contro la civiltà e le società

dell’Europa cristiano-moderna, ebbero anche la funzione di anticipare letterariamente la

distruzione della necessità e dell’universalità dell’implicazione società-Stato. Il mito

dell’età dell’oro, accanto alle due tendenze di cui si è discorso sopra, quella che

riduceva i sauvages a uomini bestiali e isolati, perché privi di leggi e magistrati, e quella

che ritrovava re e governi anche fra di loro, fu il sostrato su cui poté crescere questa

tradizione filosofica (abbandonando le risonanze letterarie): esso ebbe la virtù

ermeneutica di permettere di fare esperienza, nel Nuovo Mondo, non più di uomini feri

similes, ma di ‘società’ tribali. Dal punto di vista dell’elaborazione più strettamente

filosofico-teorica, Landucci individua l’emergere di questa alternativa duplice, ad

Aristotele e ad Hobbes, nel De Jure Naturae et Gentium (1672) di Pufendorf, ove egli

sostiene che “status naturali et vita socialis sibi proprie non opponuntur, cum etiam illi

qui in statu naturali vivunt socialem invicem vitam agere possint debeantque et saepe

numero soleant”34. Allo stato naturale non è più opposto lo stato sociale, chè anzi anche

nello stato di natura vi possono essere società legittime (per esempio la società

coniugale, familiare, tribale ecc.), ma gli è invece propriamente contrapposto lo stato

civile, in quanto non nasce da una necessità naturale umana, ma è una creazione

artificiale. L’uomo, che pure anche per Pufendorf tende al vivere in comunità, non deve

essere però considerato πολιτιχòν ζοῷν ma più semplicemente animale sociabile,

perché le comunità in cui vive non è detto debbano raggiungere la consistenza di una

civitas. Il medesimo contenuto concettuale si trova espresso nel Treatise of Human

Nature (1739-40) di Hume:

33 Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 147. 34 Traggo la citazione da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 145 (De jure, II.II.5., corsivo mio).

23

Page 24: Tesi Definitiva Lore

Though government be an invention very advantageous, and even in some

circumstances absolutely necessary to mankind; it is not necessary in all

circumstances, nor is it impossible for men to preserve society for some time,

without having recourse to such an invention […] And so far am I from thinking

with some philosophers, that men are utterly incapable of society without

government, that I assert the first rudiments of government to arise from

quarrels, not among men of the same society, but among those of different

societies […] This we find verified in the American tribes, where men live in

concord and amity among themselves without any established government and

never pay submission to any of their fellows, except in time of war, when their

captain enjoys a shadow of authority, which he loses after their return from the

field, and the establishment of peace with the neighbouring tribes […] The state

of society without government is one of the most natural states of men, and must

submit with the conjunction of many families, and long after the first generation.

Nothing but an encrease of riches and possessions coued oblige men to quit it;

and so barbarous and uninstructed are all societies on their first formation, that

many years must elapse before these can encrease to such a degree, as to disturb

men in the enjoyment of peace and concord.35

La domanda sulla collocazione dal punto di vista giuridico dei ‘selvaggi’, seppure,

come già detto, accanto ad altre soluzioni che non avevano cessato di essere proposte,

aveva trovato una risposta soddisfacente: né membri di una civitas né individui atomici,

questi vivevano comunque in comunità stabili e capaci di mantenersi unite nel tempo.

Riconosciuta la possibilità, e addirittura la ‘naturalità’ della sussistenza di gruppi privi

di qualunque potere coattivo interno ma pur sempre organizzati e in grado di convivere

pacificamente (a meno che questa concordia non fosse perturbata da guerre intertribali),

era ora dunque possibile che si ravvisasse pure la presenza presso di loro di forme di

cultura. La ‘questione politica’ divenne ‘questione etnologica’. L’individuazione di una

società umana, laddove si credeva esistessero uomini senza relazioni di sorta, ebbe

35Cfr. David Hume, A Treatise of Human Nature, 1739-40 (disponibile online all’indirizzo:

http://www.gutenberg.org/etext/4705 ), III.II.8, Of the Source of Allegiance, corsivo mio.

24

Page 25: Tesi Definitiva Lore

come conseguenza anche una nuova attenzione per i moeurs, i coutumes, le tradizioni e

i sistemi di pensiero e di comportamento dei ‘selvaggi’. Non si trattava solo di non

riconoscere più nei selvaggi i membri di uno stato di natura nel suo ‘significato

giuridico’36, ma nel corso del Settecento si pervenne alla consapevolezza che essi non

erano neppure attestanti uno stato di natura secondo il ‘significato etnologico’. Entrambi

i significati (che d’altronde erano stati fino ad allora considerati come due elementi di

una medesima condizione, ed erano sempre stati descritti in parallelo e confusi37)

vennero abbandonati nella seconda metà del Settecento: non solo le tribù selvagge

mostravano un legame, una gerarchia e delle regole interne, ma si rivelava in esse anche

la presenza di realizzazioni prettamente ‘culturali’. Il problema in discussione stava

divenendo un altro: non più tanto quello giuridico-politico di una tassologia e una

genealogia delle modalità di vita sociale, ma quello più ambizioso di ritrovare la natura

dell’uomo al di là di tutte le circostanze, gli artifici e le ‘seconde nature’ che ne

alteravano la costituzione originaria. Sulla coppia état de nature-état civil si andò

imponendo quella di derivazione classica arte-natura, e alla domanda sullo status delle

comunità selvagge si cominciò a preferire quella sulla definizione dell’homme naturel,

che ci si rese conto essere altro rispetto al sauvage. La nozione di état de nature (se

includente lo stato sociale prepolitico) poteva mantenersi in contrapposizione allo ‘stato

politico’, ma quella di ‘selvaggio’, se includente lo stato sociale prepolitico, non poteva

più essere confusa con quella di ‘uomo di natura’. Anche il selvaggio che vivesse nella

zona più remota delle Americhe e allo stato più primitivo e nel più piccolo

raggruppamento umano, non era adatto al fine di “to point out the limits between nature

and art”38. In quegli anni, dunque, il τόπος che fino ad allora aveva caratterizzato il

36 Cfr. supra. 37 “Che il parametro specifico, per la definizione dei selvaggi, potesse essere ritrovato nell’opposizione ‘stato di

natura’-‘stato civile’, lo pensarono certo i giusnaturalisti; ma – fatto estremamente significativo – in genere i

giusnaturalisti non ebbero un concetto esclusivamente giuridico dello ‘stato di natura’. Hobbes stesso, nel momento

in cui propose una tale nozione, coll’implicarvi la «miseria» conseguente all’assenza delle arti utili e delle scienze,

procedette a quella caratteristica integrazione di significati, con relativa dilatazione di contenuto, che poi rimase tipica

[…] Dal significato giuridico, cioè, era spontaneo lo slittamento verso il più largo significato etnografico, appena si

parlava dei ‘selvaggi’ ”, Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 336. 38 Adam Ferguson, An Essay on the History of Civil Society, 1767 (disponibile online all’indirizzo:

http://www.gutenberg.org/etext/8646 ), Section I. Of the question Relating to the State of Nature. Tutte le citazioni

segeuenti sono tratte da questo luogo.

25

Page 26: Tesi Definitiva Lore

pensiero europeo tramontò, e quella scontata e stereotipata identificazione del selvaggio

con l’uomo di natura venne messa definitivamente da parte. Vale la pena forse

trascurare l’ordine cronologico (e rimandare a più tardi la discussione del secondo

Discours di Rousseau) per comprendere più precisamente in cosa consistesse la nuova

acquisizione concettuale cui ci siamo riferiti. Per farlo ci riferiremo ad alcuni passi tratti

dall’opera di Adam Ferguson, An Essay on the History of Civil Society (1767), e in

particolare al capitolo con cui si apre il testo, significativamente intitolato Of the

Question Relating to the State of Nature. Lo stato di natura è qui da subito presentato

come quell’“ancient time” cui poeti, storici e filosofi hanno spesso alluso volendo

esporre le loro congetture e le loro differenti opinioni su cosa l’uomo aveva dovuto

essere “in the first age of his being”. Un’età dell’oro o del ferro rispetto al presente, a

seconda che si considerino le degenerazioni della specie umana oppure i suoi progressi,

ma comunque un tempo il cui carattere essenziale è quello della diversità, tanto che di

esso si dice che non ha alcuna “resemblance to what men have exhibited in any

subsequent period”. Proprio questa caratteristica, che aveva fatto credere a molti

scrittori di poter distinguere in esso “the human character” e le sue “original qualities”

successivamente modificatesi, è però per Ferguson la ragione di tanti errori e di tanti

sforzi inutili39. Facendo propria un’istanza di tipo empiristico, egli imputa ai molti

filosofi che lo avevano preceduto di aver sempre trascurato dell’uomo “what he has

always appeared within the reach of our own observation, and in the records of history”

e di aver selezionato “one or few particulars on which to establish a theory”. In poche

righe egli ha voluto esprimere una duplice critica: da un lato, ha mostrato come le

ipotesi sullo stato di natura fossero precarie e infondate perché tenevano conto solo di

alcuni caratteri della costituzione umana al fine di poter costruire un sistema verosimile;

dall’altro, ha messo in dubbio la possibilità stessa di studiare l’uomo di natura, perchè

non se ne hanno testimonianze storiche. A differenza di Rousseau, come vedremo, e

adottando un empirismo piuttosto accentuato, Ferguson ha sottolineato l’incoerenza del

“natural historian” che in ogni altra sua indagine si sente in dovere di raccogliere

testimonianze fattuali e di non offrire supposizioni se non suffragate da osservazioni ed

39 Ivi, “The desire of laying the foundation of a favourite system, or a fond expectation, perhaps, that we may be able

to penetrate the secrets of nature, to the very source of existence, have, on this subject, led to many fruitless inquiries,

and given rise to many wild suppositions.”

26

Page 27: Tesi Definitiva Lore

esperimenti, mentre per quanto riguarda lo studio dell’uomo “he substitutes hypothesis

instead of reality, and confounds the provinces of imagination and reason, of poetry and

science”. La sua critica si appunta non solo contro le speculazioni deduttivistiche dei

filosofi, ma anche contro ogni forma di problema delle origini: quello che deve

interessare lo storico della natura è l’uomo come è oggi40, così come quando questi

studia gli animali suppone che “their presents dispositions and istincts are the same

which they originally had, and that their present manner of life is a continuance of their

first destination”. È improbabile pensare all’esistenza concreta di uno stato, quello di

natura, che non è mai stato possibile osservare, ed è inutile anche produrre ragionamenti

ipotetici e congetturali su di esso, à la Rousseau: saranno sempre ipotesi ‘infalsificabili’

perché al di fuori di ogni verifica fattuale. Inoltre, l’impostura dei teorici dello stato di

natura appare ancora più evidente se si considera che essi lo avevano immaginato come

uno stato brutale, privo di intelligenza e ragione, senza società e senza comunicazione

tra uomini, oppure di guerra tra di essi. Ora invece tutti i caratteri dell’uomo che

possono essere documentati (che si ritrovano ovunque e in ogni tempo conosciuto) sono

per Ferguson ben differenti:

If both the earliest and the latest accounts collected from every quarter of the

earth, represent mankind as assembled in troops and companies; and the

individual always joined by affection to one party, while he is possibly opposed

to another; employed in the exercise of recollection and foresight; inclined to

communicate his own sentiments, and to be made acquainted with those of

others; these facts must be admitted as the foundation of all our reasoning

relative to man. His mixed disposition to friendship or enmity, his reason, his

use of language and articulate sounds, like the shape and the erect position of his

body, are to be considered as so many attributes of his nature: they are to be

retained in his description, as the wing and the paw are in that of the eagle and

the lion, and as different degrees of fierceness, vigilance, timidity, or speed, have

a place in the natural history of different animals.

40 Ivi, “...it may be safely affirmed, that the character of man, as he now exists, that the laws of his animal and

intellectual system, on which his happiness now depends, deserve our principal study” (corsivo mio).

27

Page 28: Tesi Definitiva Lore

La condizione ‘naturale’ dell’uomo è infatti quella sociale e culturale: “the society

appears to be as old as the individual, and the use of the tongue as universal as that of

the hand or the foot”. Per paradosso, lo ‘stato di natura’ è ovunque:

If we are asked therefore, where the state of nature is to be found? we may

answer, it is here; and it matters not whether we are understood to speak in the

island of Great Britain, at the Cape of Good Hope, or the Straits of Magellan.

While this active being is in the train of employing his talents, and of operating

on the subjects around him, all situations are equally natural […] if nature is

only opposed to art, in what situation of the human race are the footsteps of art

unknown? In the condition of the savage, as well as in that of the citizen, are

many proofs of human invention; and in either is not any permanent station, but a

mere stage through which this' travelling being is destined to pass. If the palace

be unnatural, the cottage is so no less; and the highest refinements of political

and moral apprehension, are not more artificial in their kind, than the first

operations of sentiment and reason41.

Alla base della spiegazione di Ferguson sta una concezione dell’uomo come

interamente dalla parte della natura e una considerazione della cultura come un prodotto

naturale umano: produrre cultura è proprio della natura dell’uomo, così come è proprio

della natura della chiocciola costruire il suo proprio guscio. La natura non è più

considerata come opposta all’arte e come pietra di paragone, supposto stato originale,

dal quale gli uomini si sarebbero nel tempo allontanati attraverso le scienze e le

tecniche, ma è intesa come il progresso stesso cui l’uomo e destinato e non può

sottrarsi42. Se per natura si intende questa potenzialità che l’uomo mette da sempre in

atto43, allora si capisce come Ferguson possa argomentare che è improprio dire che

l’uomo abbia abbandonato lo stato di natura quando ha cominciato a perfezionarsi.

All’interno del suo impianto teorico egli è per l’appunto oggi come già da sempre nel

41 Ivi, corsivi miei. 42 “We speak of art as distinguished from nature; but art itself is natural to man. He is in some measure the artificer of

his own frame, as well as of his fortune, and is destined, from the first age of his being, to invent and contrive”, ivi. 43“...a progress, no doubt, in which the savage, as well as the philosopher, is engaged; in which they have made

different advances, but in which their ends are the same”, ivi.

28

Page 29: Tesi Definitiva Lore

suo stato naturale44, perché considera falsa l’opposizione natura-cultura e considera la

seconda come riducibile alla prima. Ma, da un punto di vista esterno alla sua proposta, e

che mantenga in essere tale distinzione, i passi citati di Ferguson rappresentano una

delle più manifeste e indubitabili testimonianze documentali della riconosciuta

culturalità di ogni popolazione selvaggia. Gli accostamenti tra il “selvaggio” e il

“filosofo”, tra il “palazzo”, il “cottage” e la “caverna”, tra il “governo” e il “corpo di

leggi” e lo spontaneo “affetto” per i propri compagni, possono considerarsi come

denunce dei pregiudizi etnocentrici e come individuazioni di sistemi di vita e di

pensiero molto diversi da quelli della tradizione greco-cristiana, ma non per questo non

suscettibili di alcun interesse.

Precisamente al Discours sur l’Origine et les fondemens de l’Inégalité parmi les

Hommes (1755) di Rousseau è da riportare la prima franca dissociazione tra selvaggi e

‘uomini di natura’, ovvero, data l’identificazione rousseauiana natura-origine, di

selvaggi e uomini primitivi45. La distinzione è espressa con una nitidezza e una

precisione tali che questa non può essere considerata come il risultato dell’utilizzo di

meri artifici retorici, di formule di circostanza o di previdenti riserve cautelative da parte

del filosofo, ma è invece di certo la conseguenza di una esigenza teorica di rigore. Tutti

gli autori che tratteranno l’argomento dopo la pubblicazione del testo, sia per accettarne

i contenuti, sia per criticarli aspramente, ne saranno influenzati, ed esso rimarrà decisivo

per la cultura della seconda metà del Settecento. Resta pur vero che la dissociazione

compiuta con tale evidenza venne riconosciuta solo raramente dai suoi contemporanei, e

che sul tema del ‘primitivismo’ e della concezione dell’uomo di natura rousseauiano si

sono diffusi nel tempo equivoci durevoli. Nonostante infatti la fermezza delle

affermazioni contenute nell’introduzione al secondo Discours, addentrandosi nel testo si

44 “The latest efforts of human invention are but a continuation of certain devices which were practised in the earliest

ages of the world, and in the rudest state of mankind”, ivi. 45 Cfr. Discours sur l’Inégalité, op. cit., p. 135, dove Rousseau sostiene che “pour bien jouger de l’état naturel de

l’Homme” è necessario “de l’éxaminer, pour ainsi dire, dans le premier Embryon de l’espéce [...] En dépouillant cet

Etre, ainsi constitué de tous les dons surnaturels qu’il a pu recevoir, et de toutes les facultés artificielles, qu’il na pu

acquerir que par des long progrès; En le considerant, en un mot, tel qu’il a dû sortir des mains de la Nature”. Tutta la

prima parte del discorso è dedicata a una ricostruzione e raffigurazione di questo stato, mentre la seconda parte si

preoccupa di scoprire e seguire “les routes oubliées et perdues qui de l’état Naturel ont dû mener l’homme à l’état

Civil”, tutte le “positions intermédiares” che riempiono “l’espace immense qui sépare ces deux états” (p. 191-92), in

una prospettiva evoluzionistica e storica di sviluppo dell’umanità.

29

Page 30: Tesi Definitiva Lore

ritrovano temi, elementi tipici e formule stereotipate dell’immagine dei ‘selvaggi’

americani che aveva corso l’Europa per due secoli, ora associate a una condizione che

era invece stata con esattezza definita da Rousseau stesso come totalmente congetturale

e priva di qualsiasi contenuto storicamente testimoniabile. L’opera si apre infatti con

una serie di passi che appaiono come inequivocabili: Rousseau si lamenta del fatto che

“les Philosophes qui ont examiné les fondemens de la société, ont tous senti la nécessité

de remonter jusqu’à l’état de la Nature, mais aucun d’eux n’y est arrivé”46 e che questo

presunto stato di natura (il bersaglio polemico è in particolare, come è notissimo,

Hobbes) di cui essi hanno parlato non è quello vero: gli uomini che essi hanno

presentato erano già uomini viventi in condizioni di ‘socialità’, e tutto ciò che di essi

veniva detto non poteva essere che una falsa immagine. La loro figura era già stata

alterata, si era già allontanata dalla condizione originaria, ed era impossibile dunque

pretendere di vedere, in queste descrizioni, la ‘natura’ dell’uomo. Si era sì proceduto in

alcuni casi secondo lo stesso metodo ipotetico che Rousseau stesso prometteva di voler

seguire, ma l’analisi di coloro che l’avevano preceduto non era stata abbastanza radicale

e non aveva saputo distanziarsi totalmente dall’immagine dell’uomo per come gli si

presentava sotto gli occhi (“Ils parloient de l’Homme Sauvage et il peignoent l’homme

Civil”47). La natura è qui intesa infatti come quell’ideale retrogrado della coscienza, la

quale “immagina e mette in scena una condizione di immediatezza e di semplicità che,

tuttavia, finisce sempre per precederla”48. Già in Rousseau essa è quella datità, sempre

più immaginata che reale, sempre più orientata a una definizione da parte dell’uomo di

se stesso che all’esigenza di trovarne una conferma empirica, dalla quale si deve partire

per comprendere le infinite manifestazioni del fenomeno umano. È quel dato cui l’uomo

si deve adeguare, con cui deve convivere e deve fare i conti; allo stesso tempo, nella

prospettiva rousseauiana, costituisce un fondo comune agli individui in ogni tempo e

luogo ancora rintracciabile, ma è pure l’elemento (contenendo in sé la dimensione della

possibilità di perfezionamento) sul quale l’artificiale (ovvero in Rousseau tutto ciò che

dipende dall’educazione, dall’abitudine o da eventuali doni sovrannaturali) si innesta

46 Ivi, p. 132. 47 Ibidem, si intenda con l’espressione di ‘homme sauvage’ proprio l’uomo di natura, il primitivo e non i ‘selvaggi’

del Nuovo Mondo, così come appare chiaramente dal testo. 48 Cfr. Andrea Tagliapietra, La Virtù Crudele, Einaudi, Torino, 2003, p. 28.

30

Page 31: Tesi Definitiva Lore

introducendo distinzioni sconosciute allo stato di natura49. La natura umana è già

compresa da Rousseau come dinamica e cangiante: i due tratti che la caratterizzano, e

che definiscono l’uomo nella distinzione da ogni altro animale, sono infatti,

significativamente, la libertà50 e quel tratto che egli chiama perfectibilité51. Essa gli

appare, ancor più che la libertà stessa52, una “qualité disctintive e presque illimitée”53,

che differenzia l’uomo non solo verso l’esterno, nei confronti delle altre specie, ma

anche all’interno, in quanto è la ragione dell’allontanamento dalla condizione originaria,

di ogni successivo sviluppo e di ogni successiva infelicità. “À l’aide des

circonstances”54, essa permette che si realizzino tutte le possibilità dell’uomo e che, nel

tempo, esso venga a differenziarsi da ogni altra specie; l’uomo, che si ipotizza uscito

dalle mani della natura simile ad ogni altro animale, si allontana necessariamente dalla

condizione di partenza:

L’Homme Sauvage, livré par la Nature au seul instinct, ou plûtôt

dédommagé de celui qui lui manque peut-être, par des facultés capables d’y

suppléer d’abord, et de l’êlever ensuite au-dessus de celle là, commencera donc

par les fonctions purement animales: appercevoir et sentir sera son premier état,

qui lui sera commun avec tous les animaux. Vouloir et ne pas vouloir, désiderer

et craindre, seront les premiéres, et presque les seules operations des son âme,

49 Cfr. ad es. Discours sur l’inegalité, op. cit., p. 133, “Combien tu as changé [l’uomo ‘civile’] de ce que tu étois!

C’est pour ainsi dire la vie de ton espéce que je te vais décrire d’après les qualités que tu as reçues, que ton education

et tes habitudes ont pu dépraver, mais qu’elle n’ont pu détruire.” 50 “Ce n’est donc pas tant l’entendement qui fait parmi les animaux la distinction spécifique de l’homme que sa

qualité d’agent libre...car la Physique explique en quelque manière le mécanisme des sens et la formation des idées;

mais dans la puissance de vouloir ou plûtôt de choisir, et dans le sentiment de cette puissance on ne trouve que des

actes purement spirituels, dont on n’explique rien par les loix de la Mécanique”, ivi, p. 141 (corsivo mio). 51 Il termine perfectibilité, spiega Starobinski nel suo commentario al Discours dell’edizione citata (pp. 1317-18), è

un neologismo che nasce nel mondo intellettuale francese proprio in coincidenza dell’uscita di questo testo. Esso

verrà utilizzato quasi sempre nell’accezione datagli da Rousseau, cui è molto probabile farne risalire l’origine.

Quest’idea è da considerarsi centrale per lo sviluppo del suo pensiero e ricorrerà anche in testi successivi. 52 “...quand les difficultés qui environnent toutes ces questions [sulla libertà], laisseront quelque lieu de disputer sur

cette différence de l’homme et de l’animal, il y a une autre qualité tres spécifique qui les distingue, et sur laquelle il

ne peut y avoir pas de contestation, c’est la faculté de se perfectionner...”, ivi, p. 142. 53 Ibidem. 54 Ibidem.

31

Page 32: Tesi Definitiva Lore

jusqu’à ce que de nouvelles circonstances y causent de nouveaux

développemens55.

Questo stato di natura, identificato con quello della prima età dell’uomo, è uno stato

dal quale, per la sua stessa essenza appunto perfettibile, l’uomo è destinato ad

allontanarsi. L’uomo, diversamente dall’animale, che è “au bout de quelques mois, ce

qu’il sera toute sa vie, et son espéce, au bout de mille ans, ce qu’elle étoit la premiere

année de ces mille ans”, è condotto, “à force des tems, de cette condition originaire,

dans laquelle il couleroit des jours tranquilles et innocens” ad uno sviluppo che fa

sbocciare nei secoli “ses lumières et ses erreurs”. E Rousseau appare ben conscio

dell’età della specie umana, ha il vantaggio di una chiara coscienza della ‘sterminata

antichità’ dell’uomo sulla sua terra, in confronto all’ordine di grandezza tradizionale a

questo proposito, della lunghezza dei tempi del suo sviluppo56. Si comprende allora

molto bene perché il filosofo arrivi a pensare che, trascorsi così tanti secoli e sotto

l’azione di una forza così potente e incessante com’è la perfettibilità, non sia più

possibile trovare in alcun luogo un homme naturel. “Gardons nous donc de confondre

l’homme Sauvage avec les hommes, que nous avons sous les yeux”57 è un potente

monito che può essere inteso in senso più o meno stretto: gli uomini che abbiamo sotto

gli occhi sono gli Europei, i cosiddetti ‘popoli civilizzati’, i nostri compatrioti e coloro

che condividono costumi simili ai nostri, e dunque sarebbe solo un invito a non

aggiungere caratteri artificiali all’uomo di natura, o non sono anche tutti quei popoli

‘selvaggi’ che le relazioni di viaggio avevano raccontato? In questo secondo caso

nemmeno la documentazione etnografica potrebbe venirci in aiuto e mostrarci la vera

natura umana. Queste testimonianze, seppur importanti ai fini di una descrizione più

precisa degli uomini58 “par leur conformités e leur differences”59 sono inutili per la

55 Ivi, p. 142-43 (corsivo mio). 56 “Combien de siècles se sont peut-être écoulés avant que...” (p. 144), “et l’on jugera combien il eût falu de milliers

de Siècles , pour developper successivement dans l’Esprit humain les opérations, dont il étoit capable (p. 146) e così

via, ivi. 57 Ivi, p. 139. 58 Cfr. tutta l’argomentazione contenuta nella Note X, pp. 208-14, già citata, che sottolinea l’importanza dell’indagine

etnografica sui popoli e i costumi della terra. I rilievi sull’interesse di questi studi non sono affatto incompatibili con

la dissociazione selvaggi-uomini di natura: è opportuno conoscere tutte le manifestazioni dell’uomo, nel presente e

nel passato, ai fini di una più precisa comprensione di come questo si è manifestato storicamente. Altro è però lo

32

Page 33: Tesi Definitiva Lore

ricostruzione dello stato di natura. Esso rimane inaccessibile allo sguardo empirico, per

quanto più allargato, comprensivo e privato di una prospettiva etnocentrica; esso può

essere ricostruito solamente attraverso ricerche non storiche, che scartino tutti i fatti, per

“raisonnemens hypothetiques et conditionnels”60 e formulando congetture su questo

stato “qui n’existe plus, qui n’a peut-être point existé, qui probabilement n’existera

jamais”61. Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici considera Rousseau (e in particolare

proprio il Rousseau del secondo Discours) come “il più etnologo di tutti i filosofi”62, un

“maestro” e un “fratello” per ogni etnologo, insomma alla stregua di un ‘padre

intellettuale’ della scienza etno-antropologica. Pur riconoscendo questa sua importanza

per la genesi storica e ideale della disciplina, l’interpretazione in senso ‘comparativista’

dell’argomento rousseauiano che egli nelle stesse pagine sostiene non sembra corretta.

Lèvi-Strauss riduce questo ragionamento a una sorta di presa di coscienza delle

differenze nell’umano (questa davvero presente nel testo) cui si accompagnerebbe la

pretesa di ricostruire la figura dell’uomo naturale attraverso l’individuazione dei tratti

comuni all’umanità di ogni luogo e di ogni tempo. Egli mirerebbe a riscoprire un

“modello teorico”, “un tipo che non è riprodotto fedelmente da nessuna [delle società

umane]” e che “non corrisponde ad alcuna realtà osservabile”, ma di cui si potrebbe

ritrovare la “forma immanente nello stato sociale” “sviluppando i caratteri comuni alla

maggior parte delle società umane”. L’homme naturel sarebbe dunque per Rousseau un

uomo sociale e dotato di linguaggio ab origine, ma spogliato di ogni carattere

contingente e ricostruito solo su quei tratti (empirici, si badi) che sono universali.

Un’ermeneutica che a mio avviso è insostenibile, per due motivi. Il primo sono le nette

affermazioni appena viste: l’esigenza di écarter tous les faits mal si concilia con il

riconoscimento dei caratteri universali dell’uomo intesi come quelli che è ovunque

possibile riscontrare. Il secondo è che se Rousseau considerasse i fatti, che gli attestano

studio dell’uomo di natura, che non può essere così condotto. Insomma le due materie, l’etnografia e la riflessione

sull’uomo di natura, entrambe bisognose di un importante sviluppo futuro per poter offrire risposte più credibili,

rimangono distinte, perché occupandosi di oggetti differenti devono utilizzare due metodi distinti. 59 Ibidem. 60 Ivi, p. 133. 61 Ivi, p. 123. 62Tutte le successive citazioni sono tratte da: Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Paris, Plon, 1955 (tr. it. di

Bianca Garuffi, Tristi Tropici, Milano, il Saggiatore, 1960), pp. 378-82.

33

Page 34: Tesi Definitiva Lore

proprio un uomo in ogni caso aggregato in società, non potrebbe descriverne con tanta

energia proprio l’assoluta insocievolezza originaria: perchè consciamente trascura i fatti

(o utilizza solo quei fatti che gli sembrano dare sostegno alle sue ipotesi) può risalire ad

una condizione originaria che è così differente da quella di alcun popolo che conosce. E

infatti, seppur con qualche incertezza63, è proprio il riconoscimento della distinzione tra

‘selvaggi’ e ‘uomini di natura’ l’intuizione rousseauiana forse più feconda. Ecco il

passo in cui essa è più chiaramente espressa:

Voilà precisement le degré où étoient parvenus la plûpart des Peuples

Sauvages qui nous sont connus; et c’est faute d’avoir suffisamment distingué les

idées, et remarqué combien ces Peuples étoient déjà loin du premier état de

Nature, que plusieurs se sont hâtés de conclure que l’homme est naturellement

cruel et qu’il a besoin de police pour l’adoucir, tandis que rien n’est si doux que

lui dans son état primitif, lorsque placé par la nature à des distances égales de la

stupidité des brutes et des lumières funestes de l’homme civil, et borné

également par l’istinct et par la raison à se garantir du mal que le menace, il est

retenu par la pitié Naturelle de faire lui-même du mal à persone, sans y être porté

par rien, même après en avoir reçû64.

63 Si veda, come esempio in cui questa indecisione è più visibile e che valga per tutte le affermazioni più ambigue, il

luogo in cui l’uomo di natura è così accomunato ad animali e selvaggi: “...tel est l’état animal en général, et c’est

aussi, selon le rapport des Voyageurs, celui de la plûpart des Peuples Sauvages”, Discours sur l’inegalité, op. cit., p.

141. Starobinski così lo commenta: “Ce passage peut laisser croire que Rousseau assimile son “homme sauvage”,

antérieur à toute société, aux populations sauvages décrites par les recits des voyageurs”. Ma in realtà il passo

dev’essere così interpretato: “si les récits decrivent des sociétés rudimentaires déjà sorties de l’état primitif, ils

fournissent néanmoins les elements qui pourront être utilises pour un portrait de l’état de nature. Les hommes que

dépeignent Du Tertre ou Kolbe sont encore assez proches de la sauvagerie originelle, ils en gardent certains traits

essentials. Par soustraction des elements acquis et factices – peu nombreux chez eux – il nous sera plus facile de

conjecturer l’image de l’homme au “degré zero” de la civilization”. I popoli delle Americhe hanno tratti in comune

con lo stato di natura, ma si sono già molto allontanati da esso e ne rimandano una immagine già decisamente falsata.

Anche la descrizione dei Caraibi (“...les Caraibes, celui de tous les Peuples existans, qui jusqu’ici s’est écarté le

moins de l’état de la Nature”, p. 158) dev’essere intesa come un esempio di prova indiretta, che fornisce solo una

traccia, un indizio su cui misurare e rendere più convincente la proposta teorica. La corrispondenza fattuale è cercata

da Rousseau, ma non sembra ritenuta vincolante. 64 Ivi, p. 170 (corsivo mio).

34

Page 35: Tesi Definitiva Lore

Al di là della questione della naturale ‘dolcezza’ e docilità dell’uomo nello stato di

natura, che naturalmente costituisce una delle obiezioni polemiche principali a Hobbes,

ciò che preme mostrare con questo passo è che Rousseau ritiene che il grado cui erano

giunti i popoli selvaggi che gli Europei conoscevano, anche i più ‘primitivi’, era già ben

lontano da quello originario. Ci si trova già in uno stato che Rousseau chiama di

“société commencée”, di “société naissante” o di “veritable jeunesse du Monde”65, uno

stadio, nella prospettiva evoluzionistica del Discours, che sta a metà tra lo stato politico

(perché l’armonia interna di queste società non è garantita “par des Réglemens et des

Loix” ma solo a causa dei “moeurs”, dei “caractéres”, dello stesso “genre de vie et

d’alimens” e dalla “influence commune du Climat”66) e quello di natura. Per arrivarvi

egli dice: “Je parcours comme un trait des multitudes de Siécles”67 e le relazioni

interumane che descrive sono già ben differenti da quelle primordiali, tanto da

richiedere agli uomini “des qualités différentes de celles qu’ils tenoient de leur

constitution primitive”68: i popoli selvaggi costituiscono vere e proprie società, e

dunque la volontà di Rousseau non è tanto quella di revocare in dubbio l’immagine

crudele dei selvaggi presente in Hobbes (che anch’egli aveva potuto leggere in quella

letteratura etnografica che ben conosceva), ma la questione filosofica, ermeneutica,

relativa alla naturalità o meno di questa crudeltà e allo status dei selvaggi. La risposta

nei termini della dissociazione stato di natura-stato degli indigeni nordamericani è

quella che sembra emergere da una lettura attenta del testo, e che però spesso è stata,

come abbiamo già detto69, travisata, anche a causa delle imprecisioni di Rousseau

stesso.

Da questo stesso testo è dunque necessario partire per comprendere come, nella

seconda metà del XVIII secolo, una certa idea avrebbe avvicinato pensatori anche

lontani tra di loro, ma accomunati dalla credenza che il vero uomo di natura potesse

essere studiato, sebbene non attraverso le indagini etnografiche: era necessario, come

Rousseau stesso aveva detto, trovare il modo di farne esperienza all’interno di quella

stato di società ormai riconosciuto come universale. Come liberare l’uomo delle

65 Ivi, p. 170-71. 66 Ivi, p. 169. 67 Ivi, p. 167. 68 Ivi, p. 170. 69 Cfr. supra.

35

Page 36: Tesi Definitiva Lore

‘sovrastrutture’ culturali, se ogni uomo nasceva all’interno di esse? Come ritrovare il

volto originario della natura umana sepolta sotto le incrostazioni culturali?70 Come

sceverare l’artificiale e il naturale nella natura presente dell’uomo?

Il faudroit même plus de Philosophie qu’on ne pense à celui qui

entreprendroit de déterminer exactement les précautions à prendre pour faire sur

ce sujet de solides observations; et une bonne solution du Problême suivant ne

me parôitre pas indigne des Aristotes et des Plines de nôtre siécle: Quelles

expériences seroient nécessaires pour parvenir à connoître l’homme naturel; et

quells sont les moyens de faire ces experiences au sein de la société? Loin

d’entreprendre de résoudre ce Problême, je crois en avoir assés medité le Sujet,

pour répondre d’avance que les plus grand Philosophes pas trop bons pour

diriger ces experiences, ni les plus puissans souverains pour le faire […] Ces

recherches si difficiles à faire, et auxquelles on a si peu songé jusqu’ici, sont

70 La metafora dei depositi e dei sedimenti che rappresentano l’elemento culturale e artificiale che si accumula

rendendo irriconoscibile il sostrato originario si trova, a poche pagine di distanza, ben due volte nella Préface del

Discours. Il primo luogo è il rimando alla Repubblica di Platone (Libro X, 611 c d) e all’immagine della statua di

Glauco (“comment l’homme viendra-t-il à bout de se voir tel que l’a formé la Nature, à travers tous les changemens

que la succession de tems et des choses a dû produire dans sa constitution originelle, et de démeler ce qu’il tient de

son propre fond d’avec ce que les circonstances et se progrès ont ajouté ou changé à son Etat primitif? semblable à la

statue de Glaucus, que le tems, la mer et les orages avoient tellement defigurée, qu’elle ressembloit moins à un dieu

qu’à une Bête féroce, l’ame humaine altérée au sein de la société par mille causes sans cesse renaissantes, par

l’aquisition d’une multitude de connaisssances et d’erreurs, par les changemens arrivés à la constitution des Corps, et

par le choc continuel des passions, a, pour ainsi dire, changé d’apparence au point d’être presque méconnaissable...”,

Discours sur l’inegalité, op. cit., p. 122). Il secondo luogo si riferisce alle istituzioni umane e dice: “les établissemens

humains paroissent au premier coup d’oeil fondés sur des monceaux de Sable mouvant: ce n’est qu’en les éxaminant

de près, ce n’est qu’après avoir écarté la poussiére et le sable qui environnent l’Edifice, qu’on apperçoit la base

inébranlable sur laquelle il est élevé, et qu’on apprend à en respecter les fondemens”. La metaforica del fango, dello

sporco e delle incrostazioni è in una certa misura assimilabile a quella che deriva dal termine greco classico a-phéleia

e che letteralmente significa “senza” (a-) “asperità” o “protuberanze” (dalla radice phel, phelleús), per indicare ciò

che è “liscio”, “piano”, “schietto”, per indicare la naturalità di un ente; ma essa vi aggiunge l’elemento temporale e, a

differenza di tante altre immagini che contengono questo elemento ma sottolineano l’azione del tempo in quanto

corruttrice dei caratteri dell’oggetto, essa si limita ad attestarne una modificazione esterna, di superficie. Questa

metaforica prevede che la natura dell’oggetto rimanga inalterata, ed esprime la fiducia che sia possibile riscoprirla,

seppure dopo un lavoro di ‘ripulitura’ (per altre figure della naturalità si veda Andrea Tagliapietra, La Virtù Crudele,

op. cit., pp. 18-29).

36

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pourtant les seuls moyens qui nous restent de lever une multitude de difficultés

qui nous dérobent la connaissance des fondemens réels de la société humaine71.

Rousseau ha con questo passo posto per la prima volta la questione della possibilità

stessa di uno studio (non più solo congetturale, ma confermato dall’esperienza)

dell’homme naturel (che egli con onestà intellettuale dichiara di non aver potuto

compiere), ne ha sottolineato tutte le difficoltà sia teoriche sia pratiche (si veda l’appello

alla liberalità e al concorso dei sovrani più potenti per permettere lo svolgersi concreto

dell’esperienza) e ha indirizzato tutti coloro che in quegli stessi anni elaboreranno delle

soluzioni a questo problema, tentando di individuare le condizioni di possibilità di

quella che chiameremo “esperienza dell’uomo di natura”.

I testi che abbiamo esaminato finora sono stati propedeutici alla comprensione di

quel rovesciamento completo della teoria precedente72 che si è verificato nel Settecento

e che avrebbe condotto nei decenni successivi, secondo quanto afferma Landucci,

all’“universalizzazione della nozione di civilisation, ovvero la sua trasformazione nella

nozione moderna di “cultura” come coestesa rispetto a tutta l’umanità” 73. La ricerca

dell’‘uomo di natura’ continuò per tutto il XVIII secolo, ma comportò una sempre 71 Cfr. Rousseau, Discours sur l’inegalité, op. cit., pp. 123-24. 72 Per comprendere la portata dell’influenza della dissociazione rousseauiana selvaggi-uomini di natura si confrontino

le posizioni di Buffon sulla questione nel volume III (1749) dell’Histoire naturelle (cfr. supra) e quelle espresse nel

volume VII (1758) (“Un Empire, un Monarque, une famille, un père, voilà les deux extrêmes de la société : ces

extrêmes sont aussi les limites de la Nature ; si elles s’étendoient au delà,n’auroit-on pas trouvé, en parcourant toutes

les solitudes du globe, des animaux humains privés de la parole, sourds à la voix comme aux signes, les mâles et les

femelles dispersés, les petits abandonnés, etc? Je dis même qu’à moins de prétendre que la constitution du corps

humain fût toute différente de ce qu’elle est aujourd’hui, et que son accroissement fût bien plus prompt, il n’est pas

possible de soûtenir que l’homme ait jamais existé sans former des familles...”, p. 28) e nel volume XIV (1766) (“si

l’enfant étoit né dans l’état de pure nature, s’il n’avoit pour instituteur que sa mère hottentote, et qu’à deux mois

d’âge il fût assez formé de corps pour se passer de ses soins et s’en séparer pour toujours, cet enfant ne seroit-il pas

au dessous de l’imbécille, et quant à l’extérieur tout-à-fait de pair avec les animaux? mais dans ce même état de

nature, la première éducation, l’éducation de nécessité exige autant de temps que dans l’état civil; parce que dans

tous deux, l’enfant est également foible, également lent à croître...”, p. 35), corsivi miei. Entrambi i passi mostrano

come la concezione del selvaggio di Buffon si sia modificata: egli ha riconosciuto l’esistenza di legami sociali tra di

essi e ha dunque dovuto, per poter continuare ad applicar loro la nozione di stato di natura, modificarne le

caratteristiche. Il suo stato di natura si è differenziato da quello di Rousseau, ed è divenuto uno stato in cui socialità

ed educazione sono presenti. L’asocialità originaria anche per Buffon non è più dunque riconosciuta nelle tribù

americane o africane. 73 Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 339.

37

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maggiore insoddisfazione di fronte all’individuazione di esso nel selvaggio americano o

africano. L’analisi di un testo di un celeberrimo medico-filosofo, Jean Itard, risalente al

primo anno del secolo XIX, ci permette di esaminare il momento storico in cui questa

inversione di tendenza si è definitivamente compiuta. Si tratta dell’introduzione al

Mémoire sur les Premiers Développements de Victor de l’Aveyron, ovverosia della

prima relazione che il giovane studioso presentò sui suoi iniziali tentativi di educare il

ragazzo ‘selvaggio’ Victor, ritrovato per la prima volta nell’estate del 1798 mentre

vagava nudo nei boschi del dipartimento dell’Aveyron74. Questo testo esprime con una

decisione e una sicurezza che sono il frutto della rottura teorica che s’era venuta

producendo da alcuni decenni, la necessità di cercare in altro luogo che non presso i

popoli selvaggi il vero ‘uomo di natura’. La sua chiarezza è tale che è d’uopo citarlo

diffusamente:

Gettato su questo globo senza forze fisiche e senza idee innate, incapace di

ubbidire da solo alle leggi costituzionali della sua natura organica che lo

chiamano al primo posto nel sistema degli esseri, l’uomo può trovare solo in

seno alla società quel grado eminente che gli fu assegnato nella natura, e senza la

civiltà sarebbe uno degli animali più deboli e meno intelligenti: verità senza

dubbio spesso ripetuta, ma che non è stata ancora dimostrata rigorosamente [...] I

filosofi che l’hanno formulata per primi, quelli che l’hanno poi sostenuta e

propagata, hanno esibito come prova lo stato fisico e morale di alcune

popolazioni erranti, che hanno considerato come non civili in quanto non lo

erano nel modo in cui lo siamo noi, e presso le quali essi sono andati ad

attingere i caratteri dell’uomo nel puro stato di natura. No, checché se ne dica,

non è davvero là che bisogna cercare o studiare l’uomo di natura. Nell’orda

selvaggia più vagabonda come nella nazione europea più civile, l’uomo è solo

ciò che lo si fa essere. Necessariamente allevato dai suoi simili, ne ha contratto

le abitudini e i bisogni; le sue idee non gli appartengono; egli ha goduto della più

bella prerogativa della sua specie, cioè della capacità di sviluppare il suo

74 Sull’importanza di questo ritrovamento nella cultura idéologique della fine del secolo XVIII, sull’estremo interesse

che il giovane sauvage de l’Aveyron suscitò sia sulla scienza e la cultura parigina che sugli ambienti mondani si legga

Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo nel Settecento, Bari, Laterza, 1970 (2° ed., 1978), pp. 107-12.

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Page 39: Tesi Definitiva Lore

intelletto mediante la forza dell’imitazione e l’influenza della società. Bisognava

dunque cercare altrove il tipo dell’uomo veramente selvaggio, di quello che non

deve nulla ai suoi simili. Bisognava dedurlo dalle storie particolari di quel

piccolo numero di individui, i quali nel corso del secolo XVII sono stati trovati,

in epoche diverse, mentre vivevano isolati nei boschi dove erano stati

abbandonati sin dalla più tenera età.

Ma tale era, in quei tempi remoti, l’imperfetto cammino della scienza,

abbandonata alla mania delle spiegazioni, all’incertezza delle ipotesi e al lavoro

esclusivo di gabinetto, che l’osservazione non era valutata per nulla e che quei

dati preziosi furono perduti per la storia naturale dell’uomo75.

Se con l’espressione “selvaggio”, spiegherà poco più avanti Itard in una nota, “si è

inteso fino ad oggi l’uomo poco civile, si converrà che colui il quale non lo è in alcun

modo merita a maggior ragione questa denominazione”76. Victor, all’occasione

rappresentante della categoria degli enfants sauvages e di tutti coloro i quali, per

circostanze straordinarie, siano vissuti senza alcun contatto con i propri simili, è un

esempio di ciò che possiamo considerare, almeno a detta di Itard, un ‘uomo di natura’.

Il valore del suo caso viene magistralmente spiegato dal medico nel momento in cui

passa a considerare quali siano le finalità di questa esperienza di osservazione e di

educazione che lo avrebbe tenuto impegnato, negli anni successivi, in una relazione

totale con il suo allievo, fatta di un’attenzione e di una dedizione costanti, e di un

legame che che sembra andare al di là di ogni interesse meramente scientifico. Gli scopi

che esplicitamente si propone sono due: il primo è di ordine filantropico e consiste nel

promuovere “lo sviluppo fisico e morale”77 del giovane Victor, il secondo, quello che

più qui ci interessa, è di ordine scientifico: Itard “avrebbe determinato ciò che è

[l’homme naturel] e avrebbe dedotto da ciò che gli manca la somma fino ad ora non

75 Jean-Marc Gaspard Itard, Mémoire sur les Premiers Développements de Victor de l’Aveyron, Paris, 1801. (tr. it. di

Sergio Moravia, Memoria sui Primi Progressi di Victor dell’Aveyron, in Sergio Moravia, Il Ragazzo Selvaggio

dell’Aveyron. Pedagogia e Psichiatria nei Testi di J. Itard, P. Pinel e dell’Anonimo della «Décade», Bari, Laterza,

1972, pp. 51-52). 76 Ivi, p. 55. 77 Cfr. Sergio Moravia, Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, Bari 1972, p. 53

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Page 40: Tesi Definitiva Lore

calcolata delle conoscenze e delle idee che l’uomo deve alla sua educazione”78. Il

problema è rimasto quello dei filosofi che lo avevano preceduto, individuare e dare una

prova fattuale dei caratteri dell’uomo allo stato di natura, ma il modo in cui egli poté

pensare di risolverlo è ben diverso: egli si rivolge a un altro oggetto (l’enfant sauvage) e

rivendica l’utilità di un metodo osservativo e durevole nel tempo. Se la proposta del

nuovo oggetto di studio non era certo originale, ed era anzi già stata discussa e

contestata nel Settecento79, il metodo empirico era stato lo scoglio su cui si erano

frantumate le speranze di tutti coloro che si erano occupati del problema. I casi di

analoghi ritrovamenti erano stati rari e comunque, prima di Itard, nessuno si era

preoccupato di promuoverne o intraprenderne uno studio adeguato: essi rimanevano mal

noti e la loro veridicità aveva sempre potuto essere messa in dubbio80. Ma la possibilità

e le modalità attraverso le quali una simile esperienza, quella sul “tipo dell’uomo

veramente selvaggio”, avrebbe potuto essere messa in atto erano già state pensate, sotto

forma di “ipotesi ingegnosa”81, da filosofi e intellettuali che lo avevano preceduto. Essi

avevano elaborato dei veri e propri ‘esperimenti mentali’ nei quali immaginavano di

avere sotto gli occhi quest’homme naturel, vissuto in una condizione di isolamento dalla

società umana. Nel testo l’Itard fa l’esempio di Condillac, “quando suppone due

78 Ibidem. 79 Cfr. ad esempio Rousseau, Discours sur l’inegalité, op. cit., Note III, p. 196-98. Egli contesta qui l’uso dei casi

degli enfants sauvages per provare che l’uomo sia per natura quadrupede; la postura bipede gli appare quella più

naturale e considera questi casi come semplici eccezioni: “L’exemple des Enfans étant pris dans un âge où les forces

naturelles ne sont point encore développées ni les membres raffermis, ne conclud rien du tout, et j’aimerois autant

dire que les chiens ne sont pas destinés à marcher parce qu’ils ne font que ramper quelques semaines après leur

naissance. Les faits particuliers ont ancore peu de force contre la pratique universelle de tous les hommes, même des

Nations qui n’ayant eu aucune communication avec les autres, n’avoient pû rien imiter d’elles. Un Enfant abbandoné

dans une forêt avant que de pouvoir marcher, et nourri par quelque bête, aura suivi l’exemple de sa Nourrice, en

s’exerçant à marcher comme elle. L’habitude lui aura pû donner des facilités qu’il ne tenoit point de la Nature; et

comme des Manchots parviennent à force d’exercis à faire avec leurs pieds tout ce que nous faisons de nos mains, il

sera parvenu enfin à employer ses mains à l’usage des pieds” 80 Lucien Malson evidenzia nel suo testo come proprio Itard sia il primo ricercatore che fornisca descrizioni molto

precise del suo caso e che non lasci dubbi sulla veridicità delle sue osservazioni scrupolosissime, cfr. Lucien Malson,

Les Enfants Sauvages, Paris, Union generale d’editions, 1964. (tr. it. di Pier Vittorio Molinario, I ragazzi selvaggi,

Milano, Rizzoli, 1971), pp. 60-63. 81 Cfr. Sergio Moravia, Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, Bari 1972, p. 52.

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Page 41: Tesi Definitiva Lore

fanciulli abbandonati in profonda solitudine”82 e ne studia lo sviluppo delle facoltà,

mostrando, attraverso il confronto con il caso reale di ritrovamento di una fanciulla

selvaggia cresciuta con una compagna della medesima età83, le capacità predittive della

congettura del filosofo. Proprio di questo genere di esperienze, solo pensate,

immaginate e auspicate e mai molto probabilmente messe in atto84, si parlerà nel

capitolo successivo.

A conclusione di questo primo capitolo, mi pare opportuno citare un testo poco

conosciuto85, ma che può aiutare a chiarire perché e in che unico senso i casi dei

fanciulli vissuti al di fuori della società umana possano dirsi ‘uomini di natura’. Sia che

si tratti di fanciulli rinchiusi (allevati in condizioni di totale isolamento), sia che si tratti

di fanciulli animalizzati (allevati da animali), sia infine che si tratti di fanciulli solitari

(liberi e sopravvissuti per autosostentamento senza l’aiuto di animali)86 le precisazioni

di questo testo sono preziose. Esso ben specifica cosa debba intendersi con la locuzione

82 Cfr. Etienne Bonnot de Condillac, Essai sur l’Origine des Connaissances Humaines, Amsterdam, chez Pierre

Mortier, 1746 (tr. it di Giorgia Viano, Saggio sull’Origine delle Conoscenze Umane, in Opere, Torino, Utet, 1976),

IIa parte, sez. I., pp. 207-15. 83 Il riferimento è alla fanciulla di Sogny, ritrovata nel settembre del 1731 all’età di 9-10 anni, nello Champagne, ed

educata in un convento di monache con il nome di Mademoiselle Leblanc. Quando potè parlare, raccontò di essere

vissuta nei boschi con una compagna e di averla uccisa accidentalmente con un violento colpo sulla testa. Itard spiega

la facilità relativa con cui questa sviluppò il linguaggio attraverso la pur minima socializzazione che essa aveva avuto

con la compagna, e che ne avrebbe promosso memoria, immaginazione e capacità di usare segni. Anna Ludovico

invece fa rientrare questo caso all’interno di quelli dei fanciulli sopravvissuti per autosostentamento (distinti da quelli

allevati da animali e da quelli imprigionati per molti anni), e spiega la loro maggiore predisposizione linguistica

attraverso il concetto di “autoimprinting”: “i fanciulli autoallevatisi non hanno ricevuto un imprinting da parte di

qualche animale socializzato; non hanno, cioè, fatta propria una serie di comportamenti tipici di una determinata

specie attraverso l’apprendimento alla sopravvivenza, apprendimento che resta fissato e rimane immutato per tutta la

durata dell’esistenza dell’animale; bensì essi, per così dire, non hanno avuto un “maestro di vita” all’infuori di se

stessi e quindi la percezione di se stessi è stato l’apprendimento-guida nei confronti dell’ambiente esterno. E ciò,

ovviamente, ha favorito i comportamenti della specie homo sapiens...”, cfr. Anna Ludovico, Anima e Corpo: i

Ragazzi Selvaggi alle Origini della Conoscenza, Roma, Aracne, 2006, p. 72. 84 A meno che non si creda alla testimonianza di Erodoto (cfr. Erodoto, Ἰστορἴαι, 440-429 a. C. circa, tr. it. di Augusta

Izzo d’Accinni, Storie, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1984, pp. 317-21). 85 Anonimo, Réflexions sur le Sauvage de l’Aveyron et sur ce qu’on appelle en général, par Rapport à l’Homme,

l’État de la Nature, «Décade Philosophique», 10 vend. an IX, vol. 27, pp.8-18. (tr. it. di Sergio Moravia, Riflessioni

sul Selvaggio dell’Aveyron, e su ciò che si chiama in generale, in Rapporto all’Uomo, lo Stato di Natura, in Sergio

Moravia, Il Ragazzo Selvaggio dell’Aveyron, op. cit., pp. 179-188). 86 Questa distinzione all’interno del genere degli enfants sauvages è utilizzata sia da Malson (I ragazzi selvaggi, op.

cit.) che da Ludovico (Anna Ludovico, Anima e Corpo, op. cit.).

41

Page 42: Tesi Definitiva Lore

‘uomini di natura’ e quali individui possano dirsi davvero tali. Si tratta di un breve

saggio anonimo che si inserisce nel dibattito sorto intorno al giovane Victor, pubblicato

sulla Décade Philosophique, l’organo degli idéologues. Tralasciando le valutazioni che

egli muove intorno al caso in questione, è la critica generale alle imprecisioni nella

definizione dei concetti di “natura” e di “uomo naturale” che ci interessano e che sono

applicabili anche al di fuori dell’occasione specifica. Solo dopo aver chiarito queste

nozioni sarà eventualmente possibile utilizzare con efficacia il caso sperimentale offerto

dal giovane Victor. L’Anonimo comincia con una discussione assai acuta sulle

accezioni del termine “natura” nel dibattito filosofico della sua epoca: essa è intesa

come “l’insieme delle qualità essenziali di un essere”, come “tutto ciò che non è stato

elaborato dall’industria umana”, come nome collettivo che indica “la fatalità degli esseri

esistenti”, come “le leggi e le cause” che governano tutta la realtà e come “le intenzioni

finali riconosciute o supposte nell’universo”.87 Da questi significati che si

sovrappongono derivano poi le tre accezioni, anch’esse spesso confuse, che egli

individua per la nozione di “uomo di natura”88: a) “l’individuo che non ha ricevuto

alcuna educazione, le cui facoltà si sono sviluppate solo per opera del principio intimo e

attivo della sua esistenza”89, e che non è stato mai “modificato da alcuna circostanza

esterna e accessoria”; b) “colui che è stato modificato dalle sole circostanze esterne

della nostra esistenza fisica, e non ha provato l’influenza delle cause esterne che

appartengono all’ordine morale”90; c) l’uomo che risponde esattamente alla

destinazione della Natura, che realizza le intenzioni ch’essa ha avuto relativamente alla

nostra specie”91. Se queste sono le tre fondamentali nozioni di “uomo di natura”, l’unica

che sarà utilizzabile per il caso di Victor e di tutti gli altri ragazzi selvaggi, è

manifestamente la seconda, ed è a questo senso che ci si riferirà in tutto il secondo

capitolo:

87 Anonimo, Réflexions sur le Sauvage de l’Aveyron, op. cit., p. 181-82. 88 “Dal momento che il termine natura è soggetto a tante diverse interpretazioni, come è possibile impedire che i

sistemi elaborati intorno all’uomo di natura, non diventino la sorgente di numerose dispute di parole e ragionamenti

sofistici? Basterà tuttavia portare un po’ di luce nelle definizioni, affinché i filosofi si intendano e i sistemi crollino.

Io credo che si possano ridurre a tre definizioni diverse tutte le idee che si possono formare intorno all’uomo di

natura”, ivi, p. 182. 89 Ivi, pp. 182-83. 90 Ivi, p. 184. 91 Ivi, pp. 186-87.

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Page 43: Tesi Definitiva Lore

Vogliamo intendere per uomo di natura quello che è stato modificato dalle

sole circostanze esterne della nostra esistenza fisica e che non ha provato

l’influenza delle cause esterne appartenenti all’ordine morale; che ha trovato

intorno a lui solo esseri inanimati o privi di intelligenza, i quali non potevano

entrare in alcun rapporto con lui; e che, non avendo mai incontrato i suoi simili,

non ha provato né i benefici effetti di uno scambio fondato sul linguaggio, né

quelli delle istituzioni sociali?

Se adottiamo questa definizione, il Selvaggio dell’Aveyron può

effettivamente realizzare tale ipotesi.

La prima accezione dell’espressione è infatti troppo restrittiva, volendo considerare

un uomo che “non sia mai stato modificato da alcuna circostanza esterna o accessoria”92

e non può adattarsi ad alcun individuo, perché presupporrebbe l’assenza di ogni

qualsivoglia influsso dell’ambiente esterno. Non solo di un ambiente umano, ma anche

dell’ambiente fisico stesso. Un uomo siffatto è ovviamente un’astrazione: “L’uomo non

esiste nel vuoto, ma si trova collocato al centro di una macchina immensa, i cui

molteplici meccanismi gli comunicano incessantemente nuovi impulsi”93. Dovunque

l’uomo sia posto, in qualsiasi circostanza lo si faccia vivere sarà il tale o il talaltro

uomo: sarà l’uomo di società, sarà l’uomo delle foreste, sarà l’uomo abbandonato in un

deserto, sarà l’uomo in catene, sarà un uomo che non può vedere la luce ecc ma il suo

essere localizzato in uno spazio fisico e il suo intrattenere relazioni con gli oggetti che

lo circondano sono elementi da cui in alcun modo si può pensarlo affrancato. Viceversa,

la seconda accezione, cioè la separazione dell’uomo da qualsiasi rapporto con i suoi

simili, è pensabile ed è stata storicamente pensata: in questo caso si tratterà di mettere in

atto situazioni in cui singoli si trovino in condizioni di totale mancanza di rapporti con

membri della nostra specie, oppure di aspettare che il caso ci fornisca individui di tal

genere. Anche la terza definizione non sarà da noi utilizzata, perché mentre qui ci si

occuperà di esperienze che vogliono determinare ciò che l’uomo è, essa vuole invece

significare e indicare ciò che l’uomo può o deve essere.

92 Ivi, p. 183. 93 Ibidem.

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Page 44: Tesi Definitiva Lore

Per una legge universale che trascuriamo, la versatilità dell’intelletto è il compenso ai mutamenti, ai

pericoli e alle difficoltà. Un animale in perfetta armonia con il suo ambiente è un perfetto meccanismo; la

natura non fa mai appello all’intelligenza fino a quando l’abitudine e l’istinto non diventano insufficienti.

Non v’è intelligenza là dove non vi sono mutamenti o necessità di mutamenti; hanno intelligenza solo

quegli animali che devono affrontare necessità di diverso genere e pericoli.

HERBERT GEORGE WELLS, The Time Machine, 1895.

II. Esperienze dell’uomo di natura

Nel capitolo precedente si è cercato di mostrare come, per quali motivi, e attraverso

quali testi si sia giunti in un certo momento storico e della storia del pensiero, attorno

alla seconda metà del Settecento, all’individuazione dell’uomo di natura con

quell’uomo che sia vissuto per un qualche periodo di tempo, dalla nascita in poi, al di

fuori di ogni forma di socialità che potesse trasfigurarne il vero volto. La scienza e la

filosofia, preso atto della potenza e della pervasività dell’influsso della società

sull’individuo94, che ne rendevano pressoché irriconoscibili i caratteri originali,

94 Già Pascal si era espresso, in alcuni famosi frammenti, sul potere dell’abitudine e sulla sua capacità di rendere

irriconoscibile la natura umana. La riflessione di Pascal è in realtà più complessa, e sembra giungere addirittura ad

una negazione dell’esistenza stessa della natura umana e ad una riduzione di essa all’abitudine. Per quanto qui ci

interessa, basti notare la consapevolezza nascente nel pensiero dell’importanza dell’abitudine nel determinare le

convinzioni, i sentimenti e i comportamenti dell’uomo. Cfr. Blaise Pascal, Pensées de M. Pascal sur la religion et sur

quelques autres sujets. Qui ont été trouvées après sa mort parmi ses papiers, 1670 (tr. it. di Adriano Bausola e Remo

Tapella, Pensieri, Milano, Bompiani, 2000), fr. 120: “I padri temono che l’amore naturale dei loro figli si dissolva.

Che cosa è dunque questa natura, soggetta a venir cancellata? La consuetudine è una seconda natura che distrugge la

prima [La coutume est une seconde nature, qui detruit la première]. Ma che cosa è la natura? Perché l’abitudine non è

naturale? Ho gran paura che questa natura non sia essa stessa altro che una prima consuetudine, come la consuetudine

è una seconda natura”. E ancora: “La natura dell’uomo è tutta naturale, omne animal. Non c’è nulla che non si possa

rendere naturale, e non v’è nulla di naturale che non si possa far scomparire [il n’y a naturel qu’on ne fasse perdre]”

(fr. 121). Viceversa Rousseau si mostra conscio, in un passo che abbiamo già citato, di quest’influenza, ma ritiene che

la natura umana possa ancora essere scoperta: “Combien tu as changé [l’uomo ‘civile’] de ce que tu étois! C’est pour

ainsi dire la vie de ton espéce que je te vais décrire d’après les qualités que tu as reçues, que ton education et tes

habitudes ont pu dépraver, mais qu’elle n’ont pu détruire.”, Discours sur l’inegalité, op. cit., p. 133, corsivi miei.

Anche in Locke, tra gli argomenti portati a sostegno della tesi che le idee innate non siano davvero tali nel Libro I

dell’Essay on Human Understanding, si sostiene che il “custom” è “a greater power than nature” e compare l’idea

che bisogni ricercare ciò che sia davvero innato nell’uomo in coloro che siano “…the least corrupted by custom, or

borrowed opinions; learning and education having not cast their native thoughts into new moulds; nor by

superinducing foreign and studied doctrines, confounded those fair characters nature had written there; one might

reasonably imagine that in THEIR minds these innate notions should lie fairly to every one’s view…” (John Locke,

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Page 45: Tesi Definitiva Lore

continuavano a credere nella possibilità di anestetizzare l’influsso delle “cause morali”

sullo sviluppo delle potenzialità naturali della persona, e si misero alla ricerca di

condizioni nelle quali esse potessero rivelarsi; nelle quali, parlando nei termini

dell’antropologia contemporanea, la natura potesse essere distinta dalla cultura, le radici

bio-fisiche dei comportamenti da quelle psico-sociali, gli ‘istinti’ dall’influenza di un

ambiente umano. Considerando ancora natura e cultura come due elementi distinguibili

e non come il risultato di una reazione chimica che è già dal principio avvenuta e in cui

non è possibile procedere a separare nuovamente i reagenti ormai divenuti una

An Essay Concerning Human Understanding, 1690, disponibile online all’indirizzo:

http://www.gutenberg.org/etext/10615, I.I.27). Se la natura (in questo caso nella forma di “innate speculative

principles” o di “innate practical principles”) può mostrarsi e, è bene specificarlo, per Locke ancora si può soprattutto

mostrare nei “children, idiots, savages and illiterate people” non ancora educati su certe questioni, lo può solo

laddove essa non sia “darkened, and at last quite worn out of the minds of men” “by education, and custom, and the

general opinion of those amongst whom we converse” (John Locke, An Essay, op. cit. I.II.20). Si può forse

rintracciare in passi come questi anche una eco di quella messa in discussione delle auctoritates con cui si apre la

modernità, dal Novum Organum di Bacone in poi. Lo spirito antidogmatico, la critica della tradizione e il nuovo

metodo scientifico avevano rivelato tutti i pregiudizi e le false credenze su cui gli uomini di lettere fondavano le loro

conoscenze: se prima “L’umanista che aveva svolto il programma delle arti liberali, per lungo tempo fondate su testi

classici, era un vero polyhistor e nessun argomento lo lasciava completamente disorientato: Aristotele forniva la

chiave delle arti e delle conoscenze, Giustiniano apriva l’accesso al diritto romano, Ippocrate alla medicina”, “Con la

cesura epistemologica intervenuta nella seconda metà del Seicento in nome della nuova filosofia della ragione e della

esperienza, gli studiosi europei presero piena coscienza dei limiti insiti nella filologia umanistica e nel sapere del

polyhistor. Il percorso intellettuale di Cartesio, a questo proposito, era emblematico: il filosofo aveva rifiutato la

soggezione ai precettori e lo studio delle lettere per ricercare solo la scienza che poteva trovare in se stesso e nel gran

libro del mondo; al sapere delle scuole sostituiva gli insegnamenti della sua ragione. Sulla scia delle riflessioni di

Cartesio si impose l’idea che convenisse essere meno sapienti e più ragionevoli, e sempre più spesso

l’enciclopedismo fu sentito come un esercizio deleterio” (Bots Hans, Waquet Françoise, La République des Lettres,

Paris, Belin, 1997 (tr. it. di Roberta Ferrara, La Repubblica delle Lettere, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 63-68). Un

esercizio fuorviante per l’intelletto, che ne appesantiva e limitava la mobilità, che confondeva e conduceva all’errore,

e che dunque doveva essere evitato. I libri e i pregiudizi dei maestri erano diventati capi d’accusa verso se stessi: i

savants dovevano liberarsene per accedere a un sapere più vero. Può darsi, sia detto en passant e come mera

congettura, che questi stessi sapienti che avevano riconosciuto come operanti su di sé le forze della tradizione, della

trasmissione ereditaria di idee e metodi da cui faticavano a liberarsi, fossero in seguito condotti ad estendere queste

considerazioni a tutto il resto dell’umanità. Resisi consapevoli della ‘artificialità’ di gran parte dei loro stessi

presupposti intellettuali, poterono in seguito ritrovare gli stessi pregiudizi anche nelle pur rozze idee dei contadini

d’Europa, dei bambini, dei selvaggi ecc. Il ruolo prepotente dell’educazione, a qualsiasi livello, da quello dei letterati

a quello del compatriota più rozzo e del selvaggio della tribù più distante, sarebbe stato in seguito riconosciuto: la

scoperta dell’influenza della tradizione e dei dogmi (classici e ecclesiastici), promosse forse la scoperta dell’influenza

di ogni tradizione sulla vita e il pensiero dell’individuo.

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Page 46: Tesi Definitiva Lore

soluzione95, si può pensare di osservare situazioni in cui si riveli la pura natura

dell’uomo: dalla sottrazione all’uomo sociale, i cui caratteri derivano dalla somma di

istanze naturali e culturali, dei caratteri dell’uomo naturale, si può dunque credere, come

faceva Itard, di poter dedurre “la somma fino ad ora non calcolata delle conoscenze e

delle idee che l’uomo deve alla sua educazione”96. Non solo l’osservazione dell’uomo

di natura, ma, per converso, anche l’individuazione del retaggio culturale è ciò che

interessa. Non è un caso che alcuni degli autori di cui ci si occuperà facciano parte di

una corrente di pensiero che ha alle sue spalle il sensualismo lockeano e una

prospettiva genetica e anti-innatistica di sviluppo delle conoscenze, e che comunque con

le loro ipotesi vogliano far comprendere come o il linguaggio, o alcune idee, o alcuni

sentimenti, o alcuni comportamenti, o alcune facoltà e capacità del singolo siano dovute

all’azione dell’educazione e non possano svilupparsi ‘spontaneamente’. Non

inverificabili semina celesti o una dotazione propria della sua specie ne segnano la

natura e il destino, bensì i rapporti che instaura fin dalla nascita con gli oggetti e gli

individui appartenenti alla sua stessa dimensione naturale. Il tentativo di studiare

l’homme naturel si accompagna sempre in questi testi a un ridimensionamento delle

pretese istanze naturali dell’uomo: accanto al mostrare la natura umana, il risultato cui

si vuole giungere è quello di definire in senso critico i suoi limiti. Più che dimostrare ciò

che l’uomo è, si tende a dimostrare ciò che l’uomo non è, a contestare e a limitare il

bagaglio e le predisposizioni alla vita che molti supponevano egli avesse. Le

“esperienze sull’uomo naturale”97, come sostiene Malson nell’Introduzione al suo

95 Cfr. l’interpretazione del rapporto natura-cultura in condizioni storiche in Lévi-Strauss: “...la distinzione non è

sempre così facile: spesso lo stimolo bio-fisico e quello psico-sociale provocano reazioni dello stesso tipo, e ci si può

chiedere, come già faceva Locke, se la paura del fanciullo al buio si spieghi come una manifestazione della sua natura

animale o come il risultato dei racconti della sua nutrice. C’è di più: nella maggioranza dei casi le cause non sono

neppure realmente distinte, e la risposta del soggetto costituisce una vera e propria integrazione delle radici

biologiche e di quelle sociali del suo comportamento [...] Il fatto è che la cultura non è né semplicemente giustapposta

né semplicemente sovrapposta alla vita. Per un verso essa si sostituisce alla vita, e per un altro la utilizza e la

trasforma per realizzare una sintesi di altro ordine”, Lévi-Strauss, Le Strutture Elementari, op. cit., p. 40. 96 Jean-Marc Gaspard Itard, Mémoire sur les Premiers Développements, op. cit., p. 53. 97 Probabilmente mai davvero tentate, ma con una certa approssimazione surrogate dai numerosi ritrovamenti e studi

sugli enfants sauvages dalla fine del Settecento in poi. Quest’espressione, qui spesso ripetuta, è mutuata da un testo

che in seguito analizzeremo meglio, ovvero L’Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori dell’Uomo

di Louis-François Jauffret, che fu il fondatore di questa società (cfr. Louis-François Jauffret, Introduction aux

Mémoires de la Société des Observateurs de l’Homme, 1803., tr. it. di Sergio Moravia, Introduzione alle Memorie

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studio sui ragazzi selvaggi, sembrano giungere a questa conclusione: nel fanciullo, un

isolamento stretto e prolungato rivela l’assenza di solidi ‘a priori’, di schemi di

adattamento specifici:

I fanciulli privati troppo presto di ogni rapporto sociale – quelli che vengono

chiamati ‘ragazzi selvaggi’ – si trovano completamente sprovvisti nella loro

solitudine, al punto da sembrare misere bestiole, quasi fossero animali infimi [...]

La verità è che il comportamento, nell’uomo, non deve all’eredità specifica

quanto le deve nell’animale [...] Alla vita costretta nei limiti, dominata e regolata

da una natura data, si sostituisce qui l’esistenza aperta, creatrice e ordinatrice di

una natura acquisita [...] Ciò che l’analisi stessa delle similitudini conferma

comune negli uomini, è una struttura di possibilità e insieme di probabilità, che

non può attuarsi al di fuori del contesto sociale, qualunque esso sia. Prima del

rapporto con gli altri, e con il gruppo, l’uomo non è che un insieme di

potenzialità leggere, quanto un vapore inconsistente. Non c’è condensazione se

non c’è l’ambiente, cioè il mondo degli altri98.

I passi che si affronteranno, se non rinunciano evidentemente alla nozione di natura

umana e alla credenza nell’esistenza di un uomo di natura, che anzi vanno ricercando,

inaugurano però uno studio dell’uomo spogliato delle influenze della società e

dell’ambiente che, nel tempo, condurranno a restringerne sempre più i caratteri ‘dati’,

per mostrare invece l’importanza di ciò che viene acquisito dalla nascita99 in poi.

“L’uomo in origine non è altro che un verme, le cui metamorfosi non hanno nulla di più

sorprendente di quelle di ogni altro insetto”, scriveva a metà Settecento un filosofo

ancor’oggi poco studiato, La Mettrie100. Le sue perfezioni sono spiegabili anche senza il

ricorso a un’idea di natura che le comprenda in sé come originarie, ma in base a un idea

della Società degli Osservatori dell’Uomo, in Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo nel Settecento, Bari, Laterza,

1970, pp. 265-75). 98 Lucien Malson, I Ragazzi Selvaggi, op. cit., pp. 10-11. 99 O addirittura dalla condizione fetale, dalle relazioni chel’individuo intrattiene con l’ambiente esterno già nella vita

intrauterina. 100 Julien Offroy de La Mettrie,, Histoire Naturelle de l’Âme, 1745 (tr. it. di Sergio Moravia, Storia Naturale

dell’Anima, in Opere Filosofiche, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 49-161), p. 52.

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di natura più povera di contenuti rispetto a quelli attribuitigli dalla tradizione, ma che

faccia proprio di questa carenza, di questo vuoto contenutistico, di questa tabula rasa,

di questa indeterminazione, la condizione di possibilità perché la forza

dell’apprendimento metta in atto tutto ciò che l’uomo è in potenza. Una potenza intesa

non in senso aristotelico, come se gli uomini avessero in sé la capacità di attingere le

loro perfezioni, come se fossero “vermi nati a formar l’angelica farfalla”101, ma una

potenza che si realizza in relazione all’ambiente, in particolare in ambiente umano.

Questa immagine dell’uomo può essere fatta risalire al dialogo platonico Protagora e in

particolare al mito di Epimeteo e Prometeo in esso contenuto102. In esso si racconta che

il semidio Epimeteo avrebbe ricevuto il compito di dotare gli animali di “competenze”

(nel testo greco: dynameis) e che quando questi arrivò alla specie uomo, avendo già

distribuito tutte le dotazioni che servono alla sopravvivenza, cioè quelle per procacciarsi

il cibo, per difendersi, per fuggire e così via, egli lasciò l’uomo ‘nudo’ e senza mezzi.

Nel mito è Prometeo, fratello di Epimeteo, a venirgli in aiuto, rubando agli dei Efesto e

Atena le loro arti, cioè il fuoco, la techne, nel senso di artigianato e arte, e la scienza. Le

competenze decisive per l’uomo non sono “per natura”. L’uomo è uomo proprio per il

fatto che la sua dotazione naturale è insufficiente per la sua vita e deve perciò produrre

da sé ciò che lo contraddistingue. Una simile prospettiva è stata ripresa nel XX secolo

da Arnold Gehlen che ha definito l’uomo come “animale carente”, debole e

insufficiente a se stesso rispetto a tutti gli altri animali, ma che interpreta la ‘mancanza’

nei termini di un vantaggio selettivo103: il fatto che l’uomo nasca prematuro e libero da

istinti predeterminati rende possibile l’apertura al mondo e la sua capacità di agire ed

adattarsi alle condizioni di vita più differenti. Messo da parte l’intervento divino,

l’uomo sviluppa le sue facoltà in relazione all’ambiente circostante, e, se può

sopravvivere (o almeno questo sembrano dirci i casi di enfants sauvages sopravvissuti

soli in boschi e foreste), attraverso un processo di autoformazione, è evidente che un

ambiente umano, nel quale egli possa apprendere attraverso l’imitazione e l’educazione

di altri uomini, è quello in cui egli è massimamente in grado di progredire. L’uomo è

101 Dante, Purgatorio, X, 124-5. 102 Platone, ΠΡΩΤΑΓΟΡΑΣ, dopo il 387 a.C. (tr. it. di Francesco Adorno, Protagora, in Opere Complete, Roma-Bari,

Laterza, 1966, vol. V, pp. 59-131), 320d-321c. 103 Cfr. Arnold Gehlen, Der Mensch Seine Natur und Seine Stellung in der Welt, Frankufurt am Main, 1967 (tr. it. di

Carlo Mainoldi, L’Uomo, la sua Natura e il suo Posto nel Mondo, Milano, Feltrinelli, 1983).

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Page 49: Tesi Definitiva Lore

inteso come una creatura in divenire, e che si determina, nei modi più diversi, solo a

seconda degli oggetti, delle persone e delle esperienze con cui si confronta. Ben poco

gli è innato, quasi tutto è appreso. Insomma le “esperienze sull’uomo di natura” mirano

a indovinare ciò che (siano essi idee, comportamenti, sentimenti e così via) sia davvero

innato nell’uomo o si sviluppi comunque, nelle circostanze più sfavorevoli, in un

secondo tempo, “per opera del principio intimo e attivo della sua esistenza”104. A

intendere ciò che l’uomo può da sé, lasciato a se stesso, senza alcun aiuto divino o

umano. Queste esperienze sono intese come una sorta di experimentum crucis, che dopo

secoli di dispute e polemiche, possa dare una prova empirica di cosa divenga un uomo

lasciato solo alle prese con il mondo fisico circostante. Che poi questa sia una

condizione veramente ‘umana’ o non sia altro che una astrazione destinata a generare un

mostro105, è un altro problema. Mi pare però che, coerentemente con quanto detto sopra,

si possa rubricare la condizione di assoluta asocialità, per quanto certo limitata a pochi

casi e piuttosto remota a verificarsi106, non come non umana, ma come uno dei

molteplici ambienti possibili in cui l’uomo può venire a trovarsi. Una possibilità, per

quanto improbabile, ripetiamolo ancora, tra le tante, in nulla qualitativamente diversa.

In termini quantitativi, quella che verosimilmente dà origine al minor numero di

perfezioni dell’uomo, quella più infeconda e più simile alla condizione animale, ma che

è sia pensabile sia storicamente verificatasi. Considerarla anormale, significa

104 Anonimo, Réflexions sur le Sauvage de l’Aveyron, op. cit., p. 183. 105 Cfr. Lucien Malson, I Ragazzi Selvaggi, op. cit., dove lo stato dei ragazzi selvaggi è considerato aberrante:

“Invece di uno stato di natura dove l’homo sapiens e l’homo faber si evidenziano, possiamo osservare soltanto una

condizione aberrante, a un livello a cui ogni psicologia lascia il posto alla teratologia” (p. 10). Non si comprende

esattamente se Malson rigetti in toto la nozione di ‘natura umana’ (“I ‘ragazzi selvaggi’...ci fornirebbero la prova

definitiva, se ce ne fosse bisogno, che l’espressione ‘natura umana’ è assolutamente priva di senso”, p. 41) o se egli

esclude che una condizione tanto degenerata, dal nostro punto di vista, o tanto poco progredita, possa ancora dirsi

umana. Se, cioè, la mancanza della comunanza con altri uomini precipiti chi vi sia vissuto in una condizione inferiore

a quella umana (“L’uomo, fuori della società degli uomini, non può essere che un mostro”, p. 40; “Mentre ogni cosa

oggigiorno ci invita a prendere coscienza del ruolo indiscutibile, fondamentale – senza limiti precisi – dell’ambiente

sociale nella formazione dell’uomo, bisogna dunque continuare a stupirsi se, venendo a mancare questo ambiente,

non ritroviamo davanti a noi che spettri?”, p. 41, corsivi miei). Più che a un rifiuto della ‘natura umana’, si

tratterebbe allora di un ennesimo tentativo di definire l’essere umano con il tratto della socialità, come se l’essere

membro di un gruppo fosse condizione indispensabile per poter dire di trovarsi di fronte ad un uomo. 106 Il numero dei ragazzi selvaggi conosciuto è nell’ordine di una cinquantina di casi, almeno a quanto riportano i

repertori del Malson (Lucien Malson, I Ragazzi Selvaggi, op. cit., pp. 72- 73, che raccoglie 53 casi) e della Ludovico

(Anna Ludovico, Anima e Corpo, op. cit., pp. 197-212).

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Page 50: Tesi Definitiva Lore

presupporre che normalità sia per l’uomo lo scambio sociale: e invece questa non è una

legge necessaria, ma solo una possibilità privilegiata, che si realizza quasi sempre. Se si

dà una definizione di natura umana ‘carente’ di contenuti, e dunque aperta e

onnicomprensiva (ovvero in grado di abbracciare tutte le svariate manifestazioni del

fenomeno uomo) il caso della insocievolezza diviene uno dei tanti luoghi da osservare

per poi eventualmente trarre dalla comparazione delle differenze delle conclusioni più

generali. In questo caso la ‘natura’ umana è sia culturale che non culturale, e si mostra

in ogni individuo della specie homo sapiens. Se si dà una definizione della ‘natura’

come contrapposta all’artificio, all’educazione, alla cultura e alla socialità e così via le

“esperienze sull’uomo di natura” che vedremo sono ancora le uniche in cui davvero si

possa così isolare l’elemento ‘natura’, le uniche in cui l’homme naturel si dia spogliato

dell’influenza sociale. Se si dà una definizione di ‘natura’ come sempre culturale, allora

ci si riduce, come fa Malson, a considerare una mera teratologia lo studio di questi casi

Invece, l’insocievolezza, se non è la condizione originale dell’umanità, è comunque una

delle sue condizioni. Si è potuta realizzare grazie al caso, e si potrebbe ricreare

artificialmente. Essa è tanto possibile quanto lo sono tutte le altre. È un’ altra situazione,

e alla pari con quelle più comuni, in cui vale la pena indagare cosa sia l’uomo. Dunque

la prima definizione, in virtù della sua fecondità e della sua apertura a tutte le forme di

vita umane, mi sembra quella più accettabile. E se il nostro régard si è voluto spingere

ad osservare e comparare, attraverso le discipline etno-antropologiche107, la totalità dei

gruppi umani, attraverso la psicologia dello sviluppo la condizione infantile, attraverso

gli studi delle psicologie speciali la vita di idioti, folli, disabili e malati, e in generale

ogni condizione in cui un membro della specie uomo possa venire a trovarsi, perché

arrestarsi di fronte a quest’ultimo stato che è quello della totale insocialità? In questo

senso forse, che non pretende più di astrarre l’uomo da alcuna delle circostanze

ambientali in cui può trovarsi, può ancora ritrovarsi l’utilità di una “esperienza

dell’uomo di natura”, che si metta accanto a tutte quelle esperienze sull’uomo vissuto in

società. Se l’uomo è davvero il prodotto di circostanze cui si conforma, allora tutte le

107 Si utilizza quest’espressione più comprensiva per evitare di dover meglio definire i confini tra discipline come

l’etnologia, l’etnografia, la paletnologia, l’antropologia fisica e culturale ecc., che hanno subito nel tempo

spostamenti di senso e che ancora oggi, a seconda dei vari indirizzi delle discipline seguiti in Francia, in Gran

Bretagna, negli Stati Uniti e negli altri paesi, e dei diversi metodi di interpretazione della realtà storica dei gruppi

umani ad essi connessi, sono piuttosto discutibili e confusi.

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Page 51: Tesi Definitiva Lore

circostanze ci devono interessare: non perché l’uomo in società non riveli la sua

‘natura’, ma perché questa stessa ‘natura’ si svela ovunque, attraverso l’adattamento

agli ambienti più disparati.

Da qui in avanti, si esamineranno, in ordine cronologico, alcune esperienze di

costruzione di questa condizione di assoluta insocialità di cui abbiamo finora parlato;

quelle che abbiamo già citato come “esperienze sull’uomo naturale”. Occorre subito

dire, per cautelarsi da possibili obiezioni critiche, che tutte le esperienze che seguiranno

sono solo un’approssimazione di una ricostruzione di uno stato di completa mancanza

di forme di socialità, di educazione e di interazione con altri esseri umani. Al vaglio di

un esame attento, esse rivelano sempre, in una misura più o meno accentuata, rapporti

con altri uomini, siano essi le nutrici, gli uomini incaricati di prendersi cura dei fanciulli

allevati, gli altri fanciulli allevati nelle stesse condizioni e così di seguito. Stranamente,

ciò che il caso è riuscito a fare con i ragazzi selvaggi, non sembra essere riuscito alle

fantasie e alle congetture della letteratura e della filosofia. Ragioni teoriche (insite nello

scopo stesso dell’esperimento, ad esempio la volontà di studiare la genesi del linguaggio

in più bambini isolati) e ragioni pratiche (ad esempio il voler rendere verosimile la

possibilità di tali esperimenti introducendo figure che accudiscano e facciano crescere i

bambini) non hanno consentito di andare oltre un avvicinamento alla condizione di

isolamento totale. Detto questo, rimane vero che la consapevolezza degli influssi di ogni

genere di contatto umano all’epoca in cui gli autori scrissero dovette essere meno

precisa della nostra, e che essi comunque si proposero di rendere quelle influenze che

potevano riconoscere quanto meno importanti, e, se non di raggiungere la completa

separazione, almeno di avvicinarsi asintoticamente ad una condizione di assenza di

educazione e di società.

II.I. Erodoto: l’esperimento del faraone Psammetico per determinare la lingua madre

dell’umanità

Il Libro II delle Storie di Erodoto è costituito da una lunga digressione sulla storia, i

costumi e le curiosità dell’Egitto, occasionata dal fatto che, alla morte di Ciro, sale al

trono di Persia il figlio Cambise, che organizza una spedizione militare contro l’Egitto.

Tra i racconti che lo storico dice di avere ascoltato presso i sacerdoti del tempio di

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Page 52: Tesi Definitiva Lore

Efesto (Ptah) a Menfi, ne racconta uno che si diceva avvenuto sotto il regno del re

egiziano Psammetico I108 e che ha avuto una discreta fortuna, essendo una delle

testimonianze più antiche, nella storia degli studi sulle origini del linguaggio109:

Psammetico, poiché, per quante indagini facesse, non riusciva trovare alcun

mezzo per sapere quali fossero stati i primi fra gli uomini, escogitò questo

espediente: diede due bimbi appena nati, figli di uomini presi a caso, ad un

pastore perché li allevasse presso le greggi, ordinandogli che nessuno parlasse

mai dinanzi ad essi, ma che stessero da soli in una capanna solitaria e che, al

momento opportuno, conducesse loro delle capre e, dopo averli saziati di latte,

attendesse a tutte le occupazioni. Psammetico fece questo e diede questi ordini,

volendo udire quale parola avrebbero pronunciata per prima i bambini, una volta

che avessero lasciato i balbettii indistinti. E ciò finalmente avvenne. Quando fu

trascorso un periodo di due anni da che il pastore faceva questo, mentre egli

apriva la porta e entrava, tutti e due i bimbi correndogli incontro dissero

108 Con questo nome Erodoto indica sempre il faraone egiziano Psammetico I, appartenente alla XXVI dinastia (664-

610 a.C.); altri due re della stessa dinastia portarono tale nome, ma l’identificazione è sicura perché egli li ricorda

sempre come Psammi (Psammetico II) e Psamminito (Psammetico III), cfr. Erodoto, Ἰστορἴαι, 440-429 a. C. circa, tr.

it. di Augusta Izzo d’Accinni, Storie, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1984, nota 4, p. 217. 109 Il passo viene ancor oggi menzionato nei testi che si propongono di studiare la storia delle teorie sull’origine del

linguaggio (cfr. ad es. Marcel Danesi, Vico, Metaphor and the Origin of Language, Indiana University Press, 1993, p.

5 e Lia Formigari, Il Linguaggio. Storia delle Teorie, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 81). Ma esso era certamente

conosciuto anche agli studiosi Settecenteschi: è ripreso esplicitamente dal de Brosses nel Traité de la Formation

Méchanique des Langages et des Principes Physiques de l'Étymologie, Paris, 1765 (tr. it. di Luca Nobile, Trattato

della Formazione Meccanica delle Lingue e dei Prinicipi Fisici dell'Etimologia, Roma, Università “La Sapienza”,

2005, pp. 146-48), e il curatore del testo lo considera uno dei luoghi preferiti della linguistica dell’epoca rimandando

a Mersenne, al tema del concorso vinto da Herder nel 1769 all'Accademia delle Scienze di Berlino ("Supponiamo che

gli uomini siano abbandonati alle loro facoltà naturali. Sono in condizione di inventare il linguaggio? E con quali

mezzi arriveranno da soli a questa invenzione?") e al Condillac dell’Essai sur l’Origine des Connaissances

Humaines, op. cit. Per informazioni più precise per il reperimento di quelli tra questi passi che non verranno in

seguito da noi considerati si veda: Trattato della Formazione Meccanica delle Lingue, op. cit., p. 147, nota 5.

Starobinski accenna nel suo commentario al Discours sur l’Inegalité, op. cit., p. 1296, a un altro testo di un

contraddittore di Rousseau che riferisce l’esperienza di Erodoto, Jean de Castillon. Un ulteriore testo in cui ho trovato

citata l’esperienza del faraone egiziano è quello del Jauffret, Introduzione alle Memorie della Società degli

Osservatori, op. cit., p. 272, dove si legge: “Psammetico, re d’Egitto, volle un giorno, secondo quanto riferisce

Erodoto, tentare una educazione di questo genere. Ackbar, imperatore del Mogol, cercò anche lui, alcuni secoli or

sono, di fare educare dei fanciulli lontano da qualsiasi società”.

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Page 53: Tesi Definitiva Lore

«bekos», tendendo le braccia. Dopo che li ebbe uditi una prima volta, il pastore

se ne stette silenzioso; ma, poiché spesso quando andava e si prendeva cura di

loro quella parola ritornava sovente, allora, datane notizia al padrone, per suo

ordine gli condusse i bambini. Uditigli anch’egli, Psammetico si informò su

quali uomini chiamassero qualche cosa «bekos», e trovò che i Frigi chiamavano

così il pane. In tal modo gli Egizi, servendosi di questo fatto come prova,

riconobbero che i Frigi sono più antichi di loro110.

L’esperimento tentato dal faraone si proponeva questo scopo: determinare quale

fosse il popolo più antico della terra attraverso l’analisi di quella lingua che i bambini

avessero parlato spontaneamente senza l’influsso di alcuna trasmissione esterna. La

teoria che l’esperimento presuppone è che esista un’unica lingua madre, la più antica,

cui tutte le altre possono essere fatte risalire in quanto si sarebbero da essa sviluppate

attraverso successive modificazioni. È quella che gli studiosi delle lingue chiamano

ipotesi monogenetica, un’ipotesi della cui esistenza nel mondo antico sarebbe una

testimonianza proprio questo passo erodoteo, e il cui percorso è poi possibile seguire

dall’età tardo-antica (si pensi all’influsso che dovette avere il paradigma vetero-

testamentario su questo tema, attraverso la figura di Adamo come impositore di nomi e

l’episodio della confusione babelica delle lingue, tanto da portare tutta una tradizione

teolinguistica all’individuazione della lingua madre nell’ebraico) fino a giungere

almeno ai primi anni dell’Ottocento111. Si tratta di una visione naturalistica della nascita

del linguaggio, che la descrive come sviluppo spontaneo di potenzialità naturali che si

realizzano all’infuori di qualsiasi educazione. Un ultimo presupposto implicito è che

nell’originarsi del linguaggio l’ontogenesi ripercorra le stesse tappe della filogenesi, e

che dunque questi bimbi non influenzati da fattori esterni ricreino il linguaggio proprio

degli uomini originari. Il faraone, probabilmente mosso dalla speranza di una conferma

dell’opinione diffusa all’epoca per cui gli egiziani dovessero essere il popolo più antico

(e dunque più nobile) della terra, intraprese l’esperienza e ne seppe accettare di buon

110 Erodoto, Storie, op. cit., p. 319. 111 “L’idea di monogenesi delle lingue era sempre stata nettamente maggioritaria, certo anche a causa del perdurante

influsso della descrizione biblica delle origini umane. Ancora nel Settecento pochissimi erano stati gli autori che

avevano avanzato, come Voltaire, ipotesi poligenetiche”, Lia Formigari, Il Linguaggio. Storia delle Teorie, op. cit., p.

195).

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Page 54: Tesi Definitiva Lore

grado anche i risultati negativi per la dignità sua e della sua gente. Si può dubitare sia

della veridicità globale del racconto, la questione è infatti storicamente ancora aperta,

sia dei particolari con cui esso è stato tramandato, spesso infatti essi si trovano

leggermente alterati e già Erodoto evidenziava come già alla sua epoca fossero state

diffuse “sciocche storie” e versioni differenti dell’episodio112, sia dell’esattezza delle

conclusioni cui il sovrano giunse. A questo proposito vale la pena di notare che già

alcuni scoliasti sottolineavano come il risultato che venne accolto dal faraone (ovvero

che la lingua più antica dovesse essere quella frigia, perché la prima parola

spontaneamente pronunciata dai bambini era stata simile al termine frigio “bekos” che

significava pane113) non fosse accettabile, e che probabilmente la prima parola non

doveva essere che l’imitazione onomatopeica del belato delle capre loro nutrici114.

Infine, un ulteriore elemento che mi pare degno di essere notato, è che la storia delle

“esperienze sull’uomo di natura” si apre con un testo in cui già compare un elemento

che si ritroverà in quasi tutte le riproposizioni successive: si tratta del fatto che

l’esperimento viene tentato per volontà o grazie all’interesse di un sovrano o di un

principe ‘illuminato’, che ha a disposizione sia i mezzi, sia la libertà e il potere per

effettuare una prova tanto straordinaria. Anche gli altri tentativi storici di realizzare

l’esperienza di cui si è tramandata, di cui ben poco si sa e la cui storicità è ben dubbia,

furono messi in atto da sovrani particolarmente interessati allo sviluppo dei saperi115. E

112 Cfr., “I greci, fra molte altre sciocche storie raccontano anche che Psammetico, fatta tagliare la lingua ad alcune

donne, fece poi allevare i bambini presso queste donne”, Erodoto, Storie, op. cit., p. 319. 113 Nonostante all’epoca i frigi fossero considerati un popolo recente, e nonostante il termine “bekos” esistesse in

frigio, ma fosse utilizzato per indicare il pane non presso questo popolo, ma a Cipro. 114 Lo stesso problema rileva il de Brosses: “I bambini che un vecchio re fece allattare da alcune capre, lontano da

ogni commercio umano, articolavano dei suoni, ed erano quelli che imitavano dal verso delle loro nutrici, che essi

coglievano con tanta più facilità in quanto questi suoni erano composti di lettere labiali e gutturali che si sviluppano

per prime negli organi dei bambini”, Trattato della Formazione Meccanica delle Lingue, op. cit., p. 147. 115 Nel XIII secolo l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II (1194-1250), anche conosciuto con

l’appellattivo di Stupor Mundi per la sua infinita curiosità intellettuale e per la grandiosa opera di mecenatismo delle

scienze e delle lettere, secondo quanto riporta Salimbene da Parma nella sua Chronica, avrebbe ordinato ad alcune

nutrici di crescere dei bambini senza mai parlare loro, per osservare se essi avessero iniziato a parlare in ebraico, in

greco, in latino o nella lingua dei loro genitori. Ma il tentativo si rivelò inutile, perché i bambini morirono tutti prima

di iniziare a parlare. Nel XVI secolo ad interessarsi di nuovo al problema fu Giacomo IV di Scozia (1473-1513), che

si dice affidò a una donna sorda e cieca due neonati per crescerli. Infine l’imperatore d’India Akbar il Grande (1542-

1605), illetterato ma di grande apertura intellettuale, credendo che il linguaggio nascesse dall’ascolto, si racconta

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a sovrani simili si rivolgeranno, nella seconda metà del secolo XVIII e all’inizio del

secolo XIX, pure i filosofi che riproporranno l’esigenza di una simile impresa.

II.II. Arnobio: una variazione antiplatonica sul paragone della caverna.

Il secondo brano che si passa ad esaminare è contenuto in un’opera di carattere

apologetico in sette libri, l’Adversus Nationes116, che si ritiene composta verso la fine

del III secolo e comunque prima del 311 d.C.117, e il cui autore è Arnobio di Sicca118

(metà del III sec. d.C.-327 d.C. circa), detto anche Arnobio il Vecchio o il Retore o

Maggiore o Afro per distinguerlo da Arnobio il Giovane, monaco del V secolo d.C.

Precisamente, esso si trova all’interno del Libro II, in cui si affrontano il problema della

natura dell’uomo e dell’anima, e si sostiene che essa, di per se stessa mortale, è

destinata alla morte se rifiuta la verità rivelata dall’unico Maestro, Cristo, ed è invece

premiata con la vita eterna se crede in lui. Il libro, il più densamente speculativo di

quelli presenti nell’apologia, è fondamentale all’interno della problematica intellettuale

ed esistenziale del filosofo: il motivo che sembra spingerlo ad abbracciare la religione

cristiana è infatti apparso a molti interpreti la volontà di trovare una risposta alla paura e

alle inquietudini per l’estinzione finale, e proprio in questo libro Arnobio propone

l’unica soluzione a suo dire vera sulla questione della vita oltremondana. Dopo aver

infatti riconosciuto l’impossibilità di una conoscenza certa di Dio, del mondo fisico e

abbia fatto crescere un bambino senza permettergli di ascoltare parola, esperienza al termine della quale ne verificò il

mutismo. 116 Tale titolo, che significa letteralmente Contro I Pagani, è il solo attestato nell’unico codice che ha trasmesso

l’opera di Arnobio (codex Parisinus 1661 del secolo IX, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi), ma in

passato l’opera è stata spesso conosciuta con il titolo Adversus (o Adversum) Gentes, sulla fede nella testimonianza di

San Girolamo, unica fonte antica sulla vita e sulle opere di quest’autore, di cui sappiamo molto poco. 117 Il 311 d.C. è infatti l’anno (con l’Editto di Nicomedia) in cui si concluse la grande e ultima persecuzione cristiana,

iniziata dall’imperatore Diocleziano nel 303 d.C.; l’anno è di poco precedente alla promulgazione dell’Editto di

Milano, con cui gli imperatori Costantino il Grande e Licinio posero ufficialmente fine a tutte le persecuzioni

religiose e proclamarono la neutralità dell’Impero nei confronti di ogni fede, equiparando la fede cristiana alle altre

religioni. 118 Di Arnobio sappiamo che operò tra la seconda metà del III secolo e la prima metà del IV secolo d.C. presso Sicca,

località dell’attuale Tunisia. Apprezzato retore e maestro di retorica negli anni 284-305 d.C., alla sua scuola si formò

Lattanzio. Si racconta che si sia convertito improvvisamente al cristianesimo in età avanzata (forse in seguito ad un

sogno), e che l’Adversus Nationes sia stato composto per convincere il suo vescovo della sincerità della sua fede.

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Page 56: Tesi Definitiva Lore

delle origini e della destinazione delle nostre anime, che condanna l’uomo a una scepsi

universale, essendogli consentito su questi argomenti solo di pervenire a una suspicio

che non può essere scambiata per verità, egli supererà il momento scettico attraverso un

entusiastico slancio verso la parola di Dio. Quest’affidarsi alla parola di Cristo gli

sembra senz’altro più ragionevole di quella perpetua inquisitio pagana, sia perché quella

è destinata a non raggiungere mai le conoscenze cui tende, sia perché questa fede gli

appare suffragata dall’autorità del Cristo e comunque portatrice di speranza. Tra le tante

proposte incerte, questa ha almeno il pregio di promettere la salvezza119. All’interno di

questa prospettiva, che propone la conversione e l’accettazione del cristianesimo

attraverso la dimostrazione della falsità e dell’irragionevolezza delle opinioni dei

pagani, si inseriscono le argomentazioni di cui parleremo, che sono volte a dimostrare

che l’anima non è stata creata immortale da alcun dio (nemmeno dal Dio dei cristiani) e

che riceve invece l’immortalità solo “per dono munifico del sommo Imperatore, purché

tentino e si sforzino con meditata riflessione di conoscerlo”120. Esse si svolgono

attraverso quella che è stata considerata una variazione sul paragone della caverna

platonico121, un’ esperimento congetturale che ha il fine di dimostrare come la dottrina

119 “Non è permesso alle vostre menti di impigliarsi in tali questioni e di preoccuparsi di cose così remote dalle vostre

capacità, prendendo a cuore, come se fossero utili, argomenti tanto peregrini. È la vostra situazione che è a rischio,

intando riferirmi alla salvezza delle vostre anime, perché se non vi mettete d’impegno a conoscere il Dio sovrano, una

volta sciolti dai vincoli del corpo, vi aspetta una morte tremenda...”, Arnobio, Adversus Nationes, prima del 311 d.C.,

(tr. it di Biagio Amata, Difesa della vera religione, Roma, Città Nuova, 2000), p. 202. 120 Ivi, p. 175. 121 Quest’interpretazione è stata sostenuta da Konrad Gaiser in due conferenze tenute a Napoli il 2 e 3 ottobre 1984

presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in seguito pubblicate con il titolo: Il Paragone della Caverna:

Variazioni da Platone ad Oggi, Napoli, Bibliopolis, 1985. In esso viene studiata la preistoria del paragone contenuto

nel Libro VII della Repubblica di Platone (514a-519b), attraverso le suggestioni della tradizione precedente che

potrebbero avere influenzato il filosofo, per passare poi alla descrizione delle rielaborazioni del mito in autori antichi

e moderni, tra cui Arnobio. Il tema è comune a entrambi (il problema gnoseologico ed educativo, che pure è solo uno

dei tanti aspetti del pensiero platonico estrapolabili dal paragone). A cambiare sono sia la forma in cui i contenuti

vengono espressi, da un lato una metafora e dall’altro un esperimento speculativo, sia i contenuti stessi: nella

metafora platonica il filosofo è l’uomo della caverna che riesce da solo a liberarsi dei ceppi, e ad uscire dalla caverna

per vedere la verità; egli è in grado con le sue sole forze di accedere alla visione delle idee soprasensibili e della

conoscenza vera, e può poi aiutare i suoi compagni a conoscere il vero mondo facendo compiere loro lo stesso

percorso di liberazione e ascesa. Questo percorso rimane però, si badi, uno sforzo che il singolo individuo deve

compiere da sé, in cui può essere diretto e aiutato, ma che richiede la partecipazione attiva di un soggetto che è

potenzialmente in grado di compierlo. Platone è fiducioso nelle possibilità dell’uomo di pervenire alla conoscenza del

vero. Viceversa il cavernicolo di Arnobio, come vedremo, quando esce dal suo rifugio è in una condizione di

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Page 57: Tesi Definitiva Lore

della reminescenza (usata da Platone come prova dell’immortalità delle anime122) sia

falsa. Se si riesce a mostrarne la falsità, si dimostrerà che anche l’immortalità delle

anime supposta dai pagani non è che un altro dei loro errori, e che dunque è necessario

convertirsi a Cristo se si vuole salvarsi dalla morte eterna. Arnobio aveva già portato

altre prove contro l’innatismo (se ci fossero davvero idee inscritte nell’anima umana

tutti dovrebbero conoscerle, o perlomeno, se si suppone che ognuno possa scoprirle in

se stesso attraverso il ricordo, esse dovrebbero essere le stesse in tutti gli uomini123), ma

“perché più manifestamente e apertamente vi mostriamo quanto valga l’uomo”124

ritiene opportuno costruire l’esperimento di cui stiamo per parlare, che dovrebbe

costituire l’argomento confutatorio definitivo.

L’esperienza di Arnobio è una esperienza che è proposta come puramente

congetturale, tanto che la descrizione si apre con la richiesta ai suoi lettori di “limitarsi a

immaginare nella vostra mente il quadro seguente”125, e di cercare di raffigurarsi la

situazione immaginata “ricorrendo a un modello”126. Un modello certo, ma un modello

che appare fin dall’inizio concretissimo e particolareggiato, trattandosi nelle righe che

seguono di un esperimento mentale che non si limita affatto a tratteggiare gli aspetti

salienti (funzionali alla comprensione dei presupposti e delle condizioni di partenza

dell’esperienza), che non si riduce a una semplificazione del concreto ai fini di renderne

più semplice l’intendimento, ma che vuole dare da subito un’evidenza del tutto reale a

completa incomprensione e non partecipa per niente di una conoscenza divina, è insufficiente a se stesso e non può

intraprendere alcun cammino verso la verità. L’uomo di Arnobio, lasciato a se stesso, senza il soccorso degli altri

uomini, è rozzo e bruto, totalmente privo di capacità intellettive, quasi fosse un oggetto inanimato. 122 Le due teorie, quella della reminescenza e quella dell’immortalità dell’anima, si sovrappongono nel testo di

Arnobio, ma perché la derivazione della seconda dalla prima (in quanto questa ne costituirebbe una delle prove) è

affermata più volte dallo stesso Platone. A questo proposito si confrontino il Menone (85b-86d) e il Fedone (72e-

73a). La formulazione più chiara e sintetica di questa implicazione si trova nel secondo dei due dialoghi: “...anche

secondo quell’argomentazione che sei solito [Socrate] ripetere spesso, vale a dire che l’apprendere, per noi, non è

altro che una specie di ricordare, ebbene, anche secondo questa dottrina, sarebbe necessario che noi, in qualche modo,

avessimo appreso prima ciò che ora ricordiamo. Tuttavia, ciò sarebbe impossibile, se la nostra anima non esistesse

già in qualche luogo prima di nascere in questa forma umana. Di conseguenza, anche per questo motivo l’anima

sembra essere qualcosa di immortale.”, ΦΑΙΔΩΝ, 370-360 a.C., tr. it. di Andrea Tagliapietra, Fedone o Sull’Anima,

Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 99-101, corsivo mio). 123 Arnobio, Adversus Nationes, op. cit., XIX, pp. 162-63. 124 Ivi, p. 163. 125 Ibidem. 126 Ibidem.

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Page 58: Tesi Definitiva Lore

ciò di cui si sta parlando, e che cerca di prendere in considerazione tutti quei minimi

dettagli che bisognerebbe considerare se volessimo condurre realmente l’esperienza,

volendo pensarla “proprio come se avessimo realizzato ciò che si potrebbe realizzare se

vi ponessimo mano”127. Non c’è in Arnobio appunto alcuna volontà di allontanarsi dalla

concretezza, e proprio questa decisione di rimanere ancorato alle condizioni materiali

dell’esperienza, fa sì che egli riesca a considerarla in maniera molto più radicale di tutti

coloro che lo seguiranno; il suo soffermarsi a pensare con esattezza e minuzia tutto ciò

che potrebbe in qualche misura interferire con il totale isolamento del suo neonato, non

rimane in questo caso un mero artificio retorico, volto a rendere credibile la possibilità

di questa esperienza attraverso la sua raffigurazione sensibile verosimile, ma è invece

un momento di straordinaria rilevanza teorica. La sua acribia e il suo ancoraggio alla

pratica quotidiana fanno infatti sì che egli prenda coscienza di un certo numero di

problemi che altri dimenticheranno o trascureranno, ma che renderanno allo stesso

tempo le loro proposte ben più ingenue ai nostri occhi più avvertiti. L’attenzione

arnobiana si appunta invece sul dettaglio senza rendere perciò la descrizione

semplicemente più plausibile, ma scovando alcuni accorgimenti pratici che

inficerebbero la rilevanza dei risultati, rendendoli suscettibili di opportune e giustificate

critiche. Qui davvero ci troviamo di fronte a una “esperienza dell’uomo naturale”

proposta in tutta la sua radicalità e in cui la prassi non si allontana dal presupposto

teorico di uno studio dello sviluppo di ciò che l’uomo diviene se tenuto lontano da ogni

influenza umana. La discussione si apre così:

Supponiamo, dunque, in una cavità della terra, un luogo abitabile, a forma di

cuccia, chiuso da un tetto e da pareti, non gelido d’inverno, non troppo caldo

durante la canicola, ma così temperato e moderato che non vi si soffra né il

morso del freddo né il forte calore dell’estate. In esso non si senta assolutamente

nessun tipo di suono, né canto d’uccello, né urlo di animale, né rumore di

tempesta, né voce di uomo, né insomma alcun fragore di tuono paurosamente

echeggiante nel cielo. Cerchiamo poi di trovare il modo per illuminarlo: non

portandovi dentro il fuoco, né esponendolo alla vista del sole, ma si crei un

chiarore artificiale che, alternato alle tenebre, finga una parvenza di luce. Non ci

127 Ibidem.

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Page 59: Tesi Definitiva Lore

sia neppure una porta, né un ingresso diretto: vi si acceda attraverso flessuosi

meandri, né mai si apra se non quando lo esiga un motivo di necessità128.

Lo “sfondo necessario al nostro quadro”129 è fin troppo restrittivo: non solo Arnobio

infatti si preoccupa di fare in modo che in nessuna maniera l’isolamento del suo

bambino, portato in questo rifugio “appena venuto alla luce”130, possa venire in meno,

specificando che deve essere in esso rinchiuso e che per nessuno debba essere concessa

la possibilità di fuggirne, ma considera anche l’ambiente ideale in cui egli debba vivere,

specificandone la temperatura, l’acustica e l’illuminazione. Questi particolari, come

detto, non sono del tutto ininfluenti: Arnobio tiene conto sia del fattore climatico131, sia

dell’isolamento acustico necessario perché l’ascolto passivo di voci umane o animali

non possa consentire lo sviluppo di una lingua attraverso un procedimento mimetico, sia

del fatto che la presenza di luce vada garantita senza la visione diretta del fuoco o del

sole132. Ultima indicazione sulle caratteristiche del rifugio è che (anche in questo caso

servirà affinché non possano svilupparsi idee delle cose e quindi per capire se egli le

possieda comunque perché innate) in esso “non ci sia assolutamente nulla e sia del tutto

privo e mancante di qualsiasi cosa”133. È ridotta dunque all’osso non solo l’influenza

‘morale’ del contatto con altri uomini, ma anche l’influenza ‘fisica’ dei semplici oggetti

inanimati che, con la loro presenza, possano permettere l’apprendimento di un certo

numero di idee e di relazioni di esse. Si comprende allora anche perché la nutrice non

debba solo attenersi alla ferrea regola del silenzio ed evitare ogni tipo di comunicazione

verbale, labiale o gestuale, ma anche perché le operazioni che essa compie di fronte ad

128 Ivi, pp. 163-64. 129 Ivi, p. 164. 130 Ibidem. 131 Si pensi al grande spazio dedicato alla possibile influenza del clima sulle costituzioni individuali e dei popoli nella

trattazione settecentesca; Landucci ne I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 446, nota 140, rimanda a un passo dei

Problemata (aristotelici o pseudoaristotelici) che testimonia l’esistenza di una riflessione similare anche nel pensiero

antico. 132 Anche queste cautele sono necessarie per poter verificare i risultati sperimentali: saprà il bimbo riconoscere forse,

in quanto idee innate, il sole, il fuoco e la loro natura? (Cfr. Arnobio, Adversus Nationes, op. cit.: “Potrà mostrare, se

glielo chiedi, che cos’è il sole, la terra, il mare, le stelle, le nuvole, la nebbia, le piogge, i tuoni, la neve, la grandine?”,

pp. 165-66; “Se accenderai un immenso fuoco, o gli porrai tutt’intorno bestie velenose, non andrà attraverso le

fiamme, le vipere, le tarantole, non sapendo che sono nocive, e ignorando addirittura che cosa sia la paura?”, p. 166). 133 Ivi, p. 164.

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Page 60: Tesi Definitiva Lore

egli debbano essere minimizzate, perché essa debba mostrarglisi completamente nuda e

perché la sua alimentazione debba consistere solo di acqua e di un unico tipo di cibo134.

È così ininfluente il peso delle doti naturali rispetto al peso dell’educazione all’interno

della concezione di Arnobio, che è del tutto indifferente che il neonato in questione sia

“un discendente di Platone o di Pitagora o di uno di coloro che si dice siano stati di

intelletto divino o chiamati sapientissimi dai responsi degli dei”135 o che lo si consideri

in istanti diversi del suo sviluppo fisico e intellettuale (“Cresca, dunque, nutrito per

quanti anni volete, in quella solitudine nascosta, volete per venti, volete per trenta, anzi

toccati i quaranta”136). Il risultato sarà comunque uno solo:

...sia condotto in mezzo alle assemblee con gli altri uomini, e se davvero egli

è parte di una natura superiore e vive quaggiù dopo essere disceso dalle sorgenti

di un’esistenza già beata, prima che acquisti nozione di alcuna cosa, o apprenda

l’umano linguaggio, lo si interroghi e risponda chi lui sia, chi sia suo padre, in

quali regioni sia nato, in che modo o in che maniera nutrito, tra quali opere o

affari sia stato immerso e abbia trascorso il periodo degli anni antecedenti. Non

rimarrà egli più ottuso ed ebete di tutte le bestie, di un pezzo di legno, di un

sasso? Posto davanti a cose nuove e mai antecedentemente conosciute, non

ignorerà prima di tutto chi sia lui stesso? Potrà mostrare, se glielo chiedi, che

cos’è il sole, la terra, il mare, le stelle, le nuvole, la nebbia, le piogge, i tuoni, la

neve, la grandine? Potrà sapere che cosa siano gli alberi, le erbe o le piante, il

toro, il cavallo o l’ariete, il cammello, l’elefante o il nibbio?137

Nelle pagine successive si moltiplicano, secondo un procedimento tipico di Arnobio

e della sua lingua letteraria, che utilizza enfasi e artifici ovunque al fine di rendere più

chiari e efficaci i concetti che vuole esprimere, attraverso la ripetitività di temi e

strutture sintattiche analoghe (in questo caso davvero ininfluenti ai fini di un progresso

teorico), domande retoriche simili a quelle appena viste, per giungere a dimostrare

l’assoluta infondatezza delle tesi di coloro che sostengono che le anime degli uomini 134 Ivi, pp. 164-65. 135 Ivi, p. 164. 136 Ivi, p. 165. 137 Ibidem.

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Page 61: Tesi Definitiva Lore

“sono volate quaggiù immortali e dotate di scienza”138. Questo modo di disputare

costituisce una delle novità, rispetto agli apologeti che lo avevano preceduto, del

metodo arnobiano ed è coerente con la sua antropologia pessimista e scettica sulla

possibilità gnoseologiche dell’uomo: il continuo ricorso all’interrogazione mette in serio

imbarazzo l’avversario e ben sottolinea la drammaticità e lo stato di penosa incertezza,

di dubbio e di generale miseria dell’uomo. Se, come sottolinea il curatore dell’edizione

italiana del testo nella sua Introduzione, “i molti riferimenti a Platone fanno supporre

che tutta la sua metodologia apologetica segue nelle linee generali la posizione di scepsi

del grande filosofo, che si poneva in ideale continuità con la maieutica socratica,

descritta, nel Menone, come momento della ricerca e via per attingere la verità”139,

rimane vero che, pur imitandone il metodo, come dicevamo, il bersaglio polemico qui

espressamente citato140 è proprio Platone141 e la sua teoria della conoscenza come

anamnesi espressa in forma dialettica, e non solo mitica, nello stesso Menone142.

L’incongruenza si risolve considerando la totale indipendenza dalle fonti e dalla cultura

del suo tempo di Arnobio, più preoccupato di confutare e ribattere tutte quelle tesi

pagane che non concordavano con il credo cristiano che non di rispettare l’autorità di

coloro che l’avevano preceduto143. Da buon retore e apologeta, utilizza alcuni di questi

materiali quando possono aiutarlo a sostenere il credo cristiano e ne rifiuta altri quando

lo contraddicono, e da buono scettico riporta tutte le opinioni tradizionali al solo scopo

di rivelarne la falsità contrapponendole e di mostrare l’infinita diversità delle tesi

sostenute su uno stesso argomento, per concludere che nessuna di esse è quella vera144.

138 Ivi, p. 167. 139 Cfr. Platone, Menone, 79ss. 140 Cfr. Arnobio, Adversus Nationes, op. cit., p. 167: “Come mai, o Platone, nel Menone, cerchi di sapere da un

fanciullino cose che hanno a che fare con il procedimento aritmetico, e dalle sue risposte tenti di dimostrare che non

apprendiamo quello che sappiamo, ma torniamo a ricordare quello che in tempi lontani avevamo imparato?”; si noti

che l’apostrofe continua anche nelle righe successive, in cui Arnobio continua ad argomentare utilizzando la seconda

persona singolare. 141 Cfr. ivi, p. 29. 142 Cfr. Platone, Menone, 80 e sgg. 143 Ivi, pp. 46-47. 144 È uno dei “modi” argomentativi, elaborati dalla tradizione scettica antica e codificati da Enesidemo attorno alla

metà del I sec. a.C. nel suo Schizzo Introduttivo alla Filosofia di Pirrone, come testimonia Diogene Laerzio. (Cfr.

Diogene Laerzio, ВІΩΝ ΚΑΙ ΓΝΩΜΩΝ ΤΩΝ ΕΝ ΦΙΛΟΣΟΦΙΑΙ ΕΥΔΟΚΙΜΗΣΑΝΤΩΝ, (tr. it. di Giovanni Reale, Vite

e Dottrine dei più Celebri Filosofi, Milano, Bompiani, 2005, pp. 1121-31). Enesidemo aveva elaborato una tavola dei

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Page 62: Tesi Definitiva Lore

Se accetta dunque alcune tesi e miti platonici, rifiuta decisamente la tesi della

reminescenza in quanto incompatibile con il suo pensiero sulla natura dell’anima. Infatti

lui stesso collega le due tesi esplicitando il significato che vuole dare all’intera

esperienza che ha descritto:

Dove vuole mirare dunque tutto ciò? Ecco: dato che si è creduto che le anime

sono divine e create immortali da Dio, e che quindi vengono nel corpo

dell’uomo fornite di ogni sapere, potremmo sperimentare su questo fanciullo,

che abbiamo voluto fosse allevato nella maniera descritta, se quella credenza

meriti fede oppure sia stata accettata con leggerezza e presunta vera in

conseguenza di vane aspettative145.

E ancora più sotto affianca la presenza delle idee innate all’immortalità (“l’anima

dotta di cui parlate, immortale, perfetta, divina”146), confermando la tesi per cui la

denuncia della hybris umana147 e il rilievo dell’insufficienza umana siano il vero scopo

di Arnobio.

Il fanciullo platonico del Menone è messo a confronto con quello rimasto chiuso per

quarant’anni nel rifugio, per mostrare come le conoscenze del primo, che mancano al

secondo, siano dovute al fatto di “essere stato posto nel consorzio civile”148: egli era

stato capace di risolvere il problema geometrico sottopostogli da Platone grazie a una

conoscenza per la “pratica quotidiana”149 del valore di alcuni numeri e grazie alla sua

intelligenza, facoltà che gli permetteva non già di scoprire qualcosa di conosciuto in

precedenza, ma di combinare le idee che già possedeva al fine di estendere le sue

conoscenze. L’uomo arnobiano dell’Adversus Nationes invece, cresciuto senza

“tropi”, ossia delle ragioni strutturali per cui si deve giungere alla scepsi su una determinata questione. Il quinto tropo

è quello attraverso il quale, dopo aver rilevato la differenza e la contraddittorietà delle opinioni degli uomini a

seconda della loro educazione, delle loro leggi, dei loro costumi e della loro appartenenza a sette filosofiche

differenti, si conclude sospendendo il giudizio riguardo al vero. 145Arnobio, Adversus Nationes, op. cit., p. 165, corsivo mio. 146 Ivi, p,. 168. 147 “Volete, o uomini, deporre l’innata vostra superbia e arroganza, voi che chiamate Dio padre e pretendete di avere

la sua immortalità?” (ivi, p. 159) 148 Ivi, p. 167. 149 Ivi, p. 168.

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Page 63: Tesi Definitiva Lore

apprendere previamente alcunché da altri uomini e limitato anche nella possibilità di

conoscere un ambiente composito, non sarà in grado di comprendere non solo un

quesito geometrico “astruso” e “involuto”, ma nemmeno “una cosa più a portata di

mano, qual è il risultato di un’operazione come due per due o due per tre”150. Rimarrà

invece muto, dice Arnobio, non sapendo né dare risposta, né capire la domanda, né

tanto meno capire che si stia parlando con egli e gli si stia rivolgendo una domanda.

Egli sarà la prova provata che l’uomo lasciato a se stesso non è migliore di alcun

animale, anzi questa condizione lo istupidisce a tal punto da renderlo simile a un legno e

a un sasso, inadeguato a fare qualsiasi cosa e senza scopi, seppure egli possa

sopravvivere in questo stato bestiale per molti anni e in salute. L’educazione è l’unico

strumento attraverso cui il singolo possa emanciparsi dalla completa stupidità:

“Frequentate poi le scuole e istruito dalle lezioni dei maestri, diventa saggio, dotto, e

depone l’ignoranza che fin allora l’accompagnava”151. Ma è un sapere questo ancora

tutto intramondano, che può certo servire all’uomo a migliorare le sue condizioni

materiali di esistenza, ma che lo mantiene dalla parte del mondo fisico e animale. Egli

apprende in maniera molto simile agli animali152, e ciò che apprende non è poi così

diverso da ciò che apprendono le altre creature153. In tutto o quasi simile ad esse,

entrambi sono animati e dotati di movimento vitale154, e le anime di entrambi non sono

però né divine né immortali.

150 Ibidem. 151 Ivi, p. 169. 152 “Ma anche l’asinello e il bue allo stesso modo con la pratica e l’abitudine della costrizione imparano ad arare e a

girare la mola, il cavallo a sopportare il giogo e ad avvertire i cambi di direzione quando è legato al carro, il

cammello ad abbassarsi sia quando prende sia quando depone il carico, la colomba, lasciata libera, a volare indietro

verso il tetto del padrone, il cane a contenere e a reprimere il latrato, quando ha scovato la preda, il pappagallo a

ripetere le parole e il corvo a pronunziare nomi.”, ibidem. 153 “Vorrei però sapere qual è questa ragione per cui noi valiamo di più di tutte le categorie di animali. Perché ci

siamo fatti domicili per poter sfuggire ai freddi dell’inverno e ai calori dell’estate? E che? Gli altri animali non

provvedono a ciò? Non vediamo che alcuni si costruiscono dimore di piccoli nidi nei posti più adatti, altri si

difendono e si fortificano su scogli e rupi scoscese, altri scavano il suolo della terra e si preparano ripari e tane sicure

nei cunicoli infossati? E se madre natura li avesse voluti dotare anche di mani capaci di assecondarli, non ci sarebbe

da dubitare che essi pure costruirebbero alti fastigi di mura e modellerebbero artistiche e originali creazioni”, ivi, p.

161. 154 Ivi, p. 160.

63

Page 64: Tesi Definitiva Lore

Eppure, e su questa aporia irrisolta chiuderemo la nostra trattazione, quest’uomo

così simile all’animale, così incapace, nonostante l’educazione, di giungere alla

conoscenza di una verità stabile e non solo verosimile, e la cui anima non è affatto

immortale in se stessa, è quello stesso uomo che è al centro del progetto di salvezza:

salvato dalla misericordia di Dio, egli può conquistare la vera scienza e giungere alla

verità. L’uomo è partecipe dell’infima qualitas delle altre creature, eppure è un essere di

media qualitas, perché attraverso la fede e la grazia può accedere all’eternità e farsi

simile alla summa qualitas divina.

II.III.Calderón: la disconoscenza di Sigismondo

L’opera che si suole considerare più rappresentativa di tutta la produzione di

Calderón de la Barca (1600-1681), poeta e drammaturgo spagnolo del secolo XVII, sia

per le vicende della sua ricezione, sia per la sua collocazione nella tradizione letteraria

del motivo della vita come sogno, sia per i suoi pregi intrinseci, è La Vida es Sueño155,

del 1635. Opera che, per eccellenza, può dirsi emblematica e polisemica di per se stessa,

è stata oggetto nel corso dei secoli delle più varie interpretazioni, in particolare in età

romantica, che ne hanno fatto esplodere tutte le potenzialità contenutistiche. La storia è

ben nota, ma vale la pena riassumerla in poche righe prima di procedere oltre.

Sigismondo, erede al trono di Polonia, fin dalla nascita viene allontanato dalla reggia e

rinchiuso in una torre isolata fra le montagne a causa di una profezia nefasta segnata sul

suo capo e letta nel firmamento dal padre, il re Basilio, alla vigilia della sua nascita. La

profezia aveva rivelato che il figlio gli si sarebbe ribellato, che ne avrebbe usurpato il

regno e che si sarebbe trasformato nel più crudele e perverso dei tiranni. Per tentare di

arginare il destino, Basilio aveva finto la morte del figlio, e lo aveva imprigionato

affidandolo alle cure del ministro Clotaldo. Basilio, ormai vecchio, volendo tentare di

capire se il figlio fosse davvero così malvagio, come era stato predetto dagli astri e dai

presagi, escogita uno stratagemma per metterlo alla prova: lo stordirà con un narcotico,

e, trasportatolo a corte dal carcere dove fin allora è vissuto, lo trasformerà in re. Se

l’esperimento fallirà, e Sigismondo si comporterà da despota, verrà riportato alla sua

155 Pedro Caldéron de la Barca, La Vida es Sueño, 1635 (tr. it. Dario Puccini, La Vita è Sogno, Milano, Garzanti,

2003).

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Page 65: Tesi Definitiva Lore

torre, e penserà di aver soltanto sognato; se l’esperimento riuscirà a lui sarà invece

affidato il regno di Polonia. Sigismondo si abbandona a violente intemperanze, ed è

subito ricondotto alla torre, ma una rivolta popolare, che chiede che il regno non finisca

nelle mani di un sovrano di origini straniere (Astolfo), fa sì che egli sia subito liberato e

che, alla testa dei ribelli, vinca coloro che erano rimasti fedeli al sovrano. Sigismondo

però, maturato dall’esperienza di breve maestà precedente, non si vendica degli

sconfitti: divenuto pensoso e saggio, perdona il padre, che prima voleva umiliare, e, con

il potere riacquistato, restaura pace e giustizia nel regno. A questo filo narrativo, che è

quello principale e quello che ci serve per capire quanto si dirà sotto, si affiancano le

vicende, incentrate sul tema dell’amore e dell’onore, di Rosaura, Astolfo e Stella,

fondamentali per una corretta comprensione dei significati plurimi del testo, ma che qui

verranno toccate solo di sfuggita.

Tra i tanti problemi teorici che il teatro calderoniano in generale e quest’opera in

particolare sollevano, due sono quelli su cui qui ci si soffermerà: uno è quello del grado

di libertà e di condizionatezza dell’agire umano156, e l’altro, in strettissima relazione

con questo, è il tema della natura e della educazione come fattori determinanti

l’individuo, e dunque il suo agire157. Perchè il protagonista Sigismondo è fino all’ultimo

atto un individuo feroce e sanguinario? Questa ferinità è il prodotto delle condizioni in

cui è stato costretto o è frutto di un destino che le precede? Perché infine egli riesce a

mutare l’indole che fino ad allora l’aveva caratterizzato? Lo sviluppo teorico di questi

temi, la protratta condizione di solitudine cui Sigismondo è sottoposto nella sua torre, e

anche alcune straordinarie coincidenze tra la vicenda qui raccontata e quella realmente

156 Connesso in alcune sue opere anche con la problematica teologica del libero arbitrio e della grazia divina. 157 “... [La Vita è Sogno] è per eccellenza il dramma che dimostra come Calderón sia il poeta della libertà umana. Le

circostanze (nel caso specifico l’oroscopo e chi l’interpreta in un determinato modo; ma all’oroscopo possiamo,

modernamente, sostituire l’eredità biologica e psicologica, o i condizionamenti sociali, o qualsiasi altra forza

condizionante: il problema riguarda il rapporto tra l’uomo e ciò che è intorno all’uomo, in generale) possono

inclinare; ma l’uomo resta libero. La libertà è il suo diritto; dalla libertà deriva la sua responsabilità”, Franco

Meregalli, Calderón (in Storia della Civiltà Letteraria Spagnola, Torino, Utet, 1990, volume I, pp. 561-76), p. 567;

anche Angelo Monteverdi considera il protagonista Sigismondo “...l’uomo dello stato naturale scatenato d’un tratto

sulla società costituita” e affermando che “l’uomo della natura non era certo sconosciuto alla poesia drammatica

spagnola”, rimanda a due opere di Lope de Vega: Urson y Valentin (1605) e El Hijo de Reduán (anteriore al 1604)

(cfr. Le Fonti di “La Vida es Sueño”, in Studi di Filologia Moderna, Catania, 1913, pp. 177-210).

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vissuta da Kaspar Hauser di Norimberga158 (insieme a Victor il più famoso tra quegli

enfants sauvages che abbiamo detto poter essere considerati la casuale realizzazione

delle condizioni di osservazione dell’uomo naturale), mi sembrano poter giustificare

l’inserzione di questo testo all’interno delle “esperienze dell’uomo di natura” di cui si è

finora parlato.

Mi pare opportuno cominciare l’analisi del dramma attraverso una esposizione delle

condizioni in cui Sigismondo vive per tutti i primi anni della sua esistenza: la prigione

dove il principe appena nato è stato segregato e nascosto si trova presso alte montagne

158 Kaspar Hauser fu ritrovato il 26 maggio del 1628 in una piazza di Norimberga. All’epoca doveva avere circa 17-

18 anni, secondo le perizie mediche che in seguito furono eseguite, ed aveva trascorso tutta l’infanzia e l’adolescenza

in condizioni di segregazione. La sua storia, che ebbe una vastissima risonanza negli anni successivi per tutta

l’Europa (egli fu addirittura soprannominato con affetto das Kind von Europa), sia nel mondo intellettuale che nella

sensibilità popolare, è raccontata con precisione da uno degli uomini che per primi, dimostrando grande filantropia,

compassione e scrupolo per la verità, si occuparono di lui: si tratta del giurista tedesco Anselm von Feuerbach, padre

del ben più noto filosofo Ludwig. Questi ha lasciato un prezioso e affascinante resoconto sulla vicenda di Kaspar,

intitolato Un Delitto Esemplare contro l’Anima. (Paul Johann Anselm von Feuerbach, Kaspar Hauser: Beispiel eines

Verbrechens am Seelenleben des Menschen, Ansbach, J. M. Dollfuss, 1832, tr. it. di Rossana Sarchielli e Rosella

Carpinella Guarneri, Kaspar Hauser: un Delitto Esemplare contro l’Anima, Milano, Adelphi, 1996), in cui egli stesso

suggerisce un confronto tra la figura storica di Kaspar e quella letteraria di Sigismondo (cfr., ivi, p. 48). Le due storie

presentano in effetti alcune affinità sorprendenti, sia per quanto riguarda la vicenda nel suo insieme, sia per quanto

riguarda alcuni dettagli minori. In primis coincidono le ragioni dell’imprigionamento, perché in entrambi i casi si

tratta di neonati occultati per ragioni dinastiche, di principi ereditari che vengono tolti di mezzo facendoli scomparire

(Kaspar era probabilmente il principe ereditario del Baden). In entrambi i casi essi non vengono uccisi, ma vengono

segregati in un luogo piccolo e buio dove sono impossibilitati a muoversi e dove trascorrono tutta la loro gioventù

(per Kaspar si tratta di un locale piccolo e basso, un buco, dove era costretto a rimanere sempre in posizione seduta).

Tutti e due sono affidati alle cure di un unico uomo, che si preoccupa di fornire loro una qualche educazione (anche

se per Kaspar si limita all’apprendimento di poche parole e del suo nome, che sa pronunciare e scrivere

meccanicamente, ma senza capirne il senso). Infine, tra i particolari minori, vi sono l’utilizzo di un narcotico al

momento della liberazione, e l’identica consapevolezza del torto, del delitto, che nei loro confronti è stato compiuto

(cfr. infra il monologo di Sigismondo con questo commovente episodio raccontatoci da Feuerbach: “Era una limpida

sera d’agosto (1829), quando il suo insegnante gli mostrò per la prima volta il cielo stellato. Impossibile esprimere a

parole il rapimento che Kaspar ne provò. Non si stancava di guardarlo, individuando le varie costellazioni e notando

le stelle più lucenti con i loro diversi colori. «Questo,» esclamò, «è quanto di più bello abbia visto al mondo» [...]

Quando tornò in sé il rapimento aveva ceduto alla malinconia. Si accasciò tremante su una sedia e chiese perché mai

quell’uomo cattivo lo avesse tenuto rinchiuso senza fargli vedere tutte quelle belle cose; lui (Kaspar) non aveva fatto

niente di male. Poi scoppiò in un pianto inconsolabile e disse che l’uomo dal quale era sempre stato andava rinchiuso

anche lui per un paio di giorni, così avrebbe capito quant’era duro. Prima del grande spettacolo del cielo stellato,

Kaspar non aveva mai espresso del risentimento verso quell’uomo, e tantomeno ne aveva desiderato la punizione”,

ivi, pp. 82-83.

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Page 67: Tesi Definitiva Lore

dirupate e difficilmente accessibili; in un deserto fatto di “nude rocce” da cui è difficile

distinguerla, in quanto la “tozza” e “rustica” dimora è di “così rozza fattura” che la si

può scambiare per un “masso rotolato dalla cima”159. Calderón dalla prima scena

dell’opera, anche attraverso questa descrizione ambientale, esprime al contempo le due

idee della solitudine della vita di Sigismondo, e della sua selvatichezza: il paesaggio, e

la torre stessa, pur certo costruita da uomini, non recano che una minima traccia

dell’intervento umano. L’interno invece della torre non è descritto precisamente dal

drammaturgo: buia “prigione oscura” e come “tenebroso anfratto”160, simile ad un

sepolcro161 e più adatta ad un morto che a un vivo, tutto ciò che in essa si può scorgere

lo è attraverso la debole lanterna che il principe tiene nelle sue mani: veniamo così a

sapere che egli è “carico di catene” e “in abiti di belva”162. Sappiamo che l’unico uomo

che ha conosciuto è il ministro Clotaldo163, e che questi si è preoccupato, pur in queste

condizioni così impervie, di educarlo alle cose del mondo, alla morale, alla virtù e alle

scienze164. È così che si è potuto produrre un individuo anceps, sempre in bilico tra la

natura animale e le conoscenze umane che egli ha appreso, da sempre in catene, ma che

conosce il valore della libertà, consapevole di cosa un uomo possa divenire e dunque

disperato per la sua condizione, che lui stesso sa riconoscere bestiale. La tragedia di

Sigismondo nasce sì dalle condizioni materiali della sua esistenza, ma si acuisce e

diventa rabbia e rancore per la consapevolezza della possibilità di una libertà che gli

spetterebbe in quanto assegnata a tutti gli enti, ma che ancor più gli spetta in quanto

uomo. La percezione della sua dignità è splendidamente espressa da Sigismondo in un

soliloquio divenuto giustamente famoso:

Nasce l’uccello, coi doni

della suprema bellezza.

159 Calderón, La Vita è Sogno, op. cit., I.I, p. 9. 160 Ivi, I.II, p. 11. 161 “poiché culla e sepolcro | per me questa torre è stato”, ivi, I.II, p. 19 162 Ivi, I.II, pp. 11-13. 163 Cfr. “e anche se vedo e parlo | con un uomo solamente | che le mie sventure ascolta, | e le notizie mi reca | di cielo

e terra”, ivi, I.II, p. 19; “e là soltanto Clotaldo | può vederlo e frequentarlo”, ivi, I.VI, p. 53. 164 Cfr. “Lui gli ha insegnato le scienze; | lo ha educato nella fede | cattolica”, ivi, I.VI, p. 53; “Di nulla mi son

sorpreso | perché ogni fatto avevo già previsto [...] Lessi un giorno nei libri in mio possesso | che Dio impiegò la

massima saggezza | nel far dell’uomo un mondo in miniatura”, ivi, II.VII, p. 111.

67

Page 68: Tesi Definitiva Lore

appena è fiore di piume

o efflorescenza di ali,

già veloce esso fende

le distese dell’etere,

rifiutandosi al conforto

del nido rimasto vuoto;

ed io che ho più anima

perché ho minor libertà?

Nasce la bestia, e la pelle

ha con grazia maculata,

tanto che sembra degli astri

ben simulato disegno,

grazie al divino pennello,

e già i bisogni dell’uomo,

resi più audaci e crudeli,

la spingono alla ferocia, mostro nel suo labirinto:

ed io, con maggiore istinto

perché ho minor libertà?

Nasce il pesce, e non respira,

essere informe ed amorfo,

in alghe e fanghiglie avvolto,

e già vascello di squame,

sopra l’onda si rimira

mentre dovunque s’aggira,

percorrendo i grandi spazi

che nei punti più profondi

gli spalancano gli abissi;

ed io che ho maggior giudizio

perché ho minor libertà?

Nasce il ruscello, serpente

Che in mezzo ai fiori si snoda,

e appena, filo d’argento,

68

Page 69: Tesi Definitiva Lore

in mezzo ai fiori si fende,

già col suono innalza lodi

alla dolcezza dei fiori

che gli offrono lo sfarzo

della corsa in campo aperto;

ed io che ho ancora più vita

perché ho minor libertà?165

Detta e riconosciuta a questo punto la centralità della libertà come tratto

dell’esistenza umana nel testo, si può comprendere, al livello della narrazione, il perché

dell’atteggiamento distruttivo, violento e bestiale di Sigismondo quando viene liberato e

viene inserito nella vita di corte. Appare semplicistica l’opinione di Cesare Acutis, che

scrive: “Di fronte all’umana natura la filosofia di Calderón non fu meno pessimista di

quanto lo sarebbe stata, a tre secoli di distanza [...] la riflessione psicoanalitica di Freud:

guidato dai suoi impulsi naturali, l’uomo si abbandona all’aggressività e alla sensualità

fino a rischiare di tutto distruggere e autodistruggersi. Argine al sempre incombente

pericolo è la cultura, che, difendendo l’umanità dalla natura, regola i rapporti degli

uomini tra di loro”166. Se è vero infatti che “il conflitto natura/cultura, che è alla base

del testo, si traduce topologicamente nell’opposizione della torre al palazzo”167,

Calderón manifesta chiaramente la consapevolezza che le condizioni di Sigismondo non 165 Ivi, I.II, p. 13-15.La domanda di Sigismondo, che presuppone la libertà come carattere assegnato dalla natura a

tutti gli esseri e dunque anche all’uomo, porta a discutere un altro dei problemi di questi genere di esperimenti sulla

natura umana, ovverosia se siano esperienze di cattività e di segregazione quelle in cui, riprendendo la formulazione

di Rousseau, si possa davvero conoscere l’uomo naturale “au sein de la société”. L’homme naturel, per come l’aveva

appunto immaginato Rousseau, era una creatura libera e indipendente, non un individuo chiuso in una grotta, in una

stanza o in un ambiente comunque controllato. Al di là di possibili critiche dal punto di vista morale sulla liceità della

privazione della libertà ad un giovane, ci si può chiedere se abbia senso parlare di ‘naturalità’ per esperienze in cui

certo il contatto con altri uomini è minimo, ma in cui l’habitat che viene costruito si mostra sempre artificiale, se non

per altro, perché impedisce più o meno la libertà di movimento e dunque di azione del soggetto. 166 Cfr. il breve saggio sul testo calderoniano di Cesare Acutis, intitolato Un Eroe della Cultura, che fa da

introduzione all’edizione Einaudi de La Vita è Sogno (a cura di Cesare Acutis, La Vita è Sogno, Torino, Einaudi,

1980); si tenga presente che tutte le note precedenti e successive si riferiscono sempre invece alla già citata edizione

Garzanti. 167 Ibidem. Si vedano a questo proposito le parole di Astolfo nella Scena VI dell’Atto II, che paiono confermare in

pieno questa tesi: “Misurate con più calma | il vostro agire impetuoso; | lo scarto tra belva e uomo | è pari tra selva e

reggia.”, ivi, II.V, p. 103.

69

Page 70: Tesi Definitiva Lore

sono certo quelle che gli permetterebbero di sviluppare ciò che egli è di per se stesso,

ma sono invece costrittive e repressive, e sviluppano tratti che potrebbero non essergli

innati. Quando giunge a corte, viene considerato un ‘selvaggio’, ma Calderón sa bene

che non è solo tale, che qualcosa ha già influito su di lui. Egli è già stato inserito in un

contesto culturale-artificiale che lo ha preesistito e lo ha alterato. Ha già subito due

educazioni, che occorre distinguere: una educazione ‘morale’ condotta secondo la sua

dignità principesca, e una educazione ‘fisica’, condotta attraverso le circostanze in cui

egli si è trovato a vivere. Le due educazioni hanno interagito l’una con l’altra, la prima,

come abbiamo detto, facendogli percepire l’esistenza della seconda (la prigionia), e

delle alternative ad essa, e la seconda invece influenzando gli esiti della prima: le virtù e

i sentimenti umani di Sigismondo, che l’educazione di Clotaldo avrebbe dovuto

sviluppare, sono stati messi a dura prova dalla segregazione, e lo hanno trasformato in

una bestia. È la vita vissuta nelle condizioni solitarie e più che bestiali che abbiamo

descritto ad averlo fatto in una certa misura divenire quello che si rivela al momento

dell’iniziale incontro con la società degli uomini. “Dopo tanta vita grama, dopo un così

lungo contatto brutale con la natura arcigna, Sigismondo diventa selvatico”168, diventa

“un uomo | che d’umano ha solamente il nome: | temerario, arrogante, | aspro, superbo,

spietato e selvaggio, | spietato in mezzo alle belve”169. Nulla hanno potuto contro questa

deriva né gli inadeguati insegnamenti di un istitutore che non ha compreso la specificità

della condizione della persona che ha di fronte a sé, e nulla ha potuto la sua indole170.

Sigismondo lo fa presente con parole molto chiare:

Mio padre, ch’è qui presente,

per scansare i brutti guasti

del mio animo crudele,

fece di me una belva:

a tal punto che qualora,

168 Cfr. la Prefazione di Dario Puccini a La Vita è Sogno, op. cit., p. XXV. 169 Cfr. La Vita è Sogno, op. cit., II.VIII, p. 119. 170 Sebbene gli astri avessero predetto per Sigismondo un destino rovinoso di tiranno e di “arroganti furori” (ivi, I.IV,

p. 27), la risoluzione del dramma può essere interpretata a mio avviso sia come una vittoria della libertà umana su di

un fato avverso, che come una rivelazione della vera inclinazione naturale di Sigismondo, fraintesa dalle osservazioni

del cielo e dei presagi dalla falsa scienza del padre Basilio e corrotta dalla sua decisione di imprigionarlo.

70

Page 71: Tesi Definitiva Lore

per mia nobiltà ostinata,

per mio istinto generoso,

per mio spontaneo valore,

fossi nato mite e dolce,

sarebbe certo bastata

quel genere d’esistenza,

quella forma d’educarmi,

a darmi tempra spietata.

Che bel modo d’emendarmi!171

Il sovrano, anch’egli “illuminato”, Basilio, ha sbagliato nella pièce tutti i suoi calcoli

ed è il vero sconfitto (seppur perdonato e salvato dalla morte) della vicenda.

Presentatoci come un “saggio Talete” e un “dotto Euclide”172, che nel mondo ha

meritato reputazione di dotto e che stima sopra tutto le scienze divinatorie e astrologiche

che coltiva, i tentativi che mette in essere si rivelano completamente fallimentari. Il

primo (l’imprigionamento del figlio) era stato fatto sulla presunzione di conoscere il

destino e di poterlo domare173, e viene smentito in entrambi gli scopi: non vince il

destino, che infatti fa sì che gli venga infine sconfitto, né lo conosce, e infatti il suo

regno sarà, come preannuncia l’ultima scena dell’opera, ben governato. Il secondo

tentativo, che già in parte ritratta la fiducia del sovrano nelle possibilità di lettura degli

astri, consiste nel mettere alla prova il carattere di Sigismondo, portandolo narcotizzato

alla sua reggia e rivelandogli le sue nobili origini: se sì mostrerà assennato, smentendo i

segni celesti, potrà divenire il nuovo re, altrimenti sarà ricondotto alla sua torre, e

penserà sempre che la sua avventura a corte sia stata solo frutto di un lungo e realistico

sogno. Anche quest’esperimento fallirà e anche in questo caso non a causa della natura

di Sigismondo, ma a causa di un esperimento mal pensato e di quell’educazione che gli

171 Ivi, III.XIV, p. 231. 172 Ivi, I.VI, p. 43. 173 Cfr. “Io, nel corso dei miei studi, | scopersi in essi e dovunque | che Sigismondo sarebbe | stato l’uomo più

arrogante, | il principe più crudele | e il monarca più perverso, | sì da ridurre il suo regno | in fazioni contrapposte, | in

scuola di tradimenti, | e in accademia di vizi; e che da lui, dall’ira mosso, | tra orrori e delitti, avrebbe | finito per

calpestarmi”; “Ora, dando io credito | ai presagi che, puntuali, | m’annunciavano sciagure | in vaticini fatali, | decisi di

rinchiudere | la fiera che mi era nata, | per vedere se un sapiente | riesce a domare gli astri”, ivi, I.VI, p. 51.

71

Page 72: Tesi Definitiva Lore

ha fatto comprendere la tremenda ingiustizia perpetratagli per tutto il resto della sua

vita, e di cui egli cerca una vendetta. Solo il tempo, nella convenzionalità drammatica

necessariamente ristretto, attraverso un processo di adattamento al nuovo ambiente

sociale e di rieducazione ai sentimenti umani che prima aveva potuto conoscere, ma mai

sperimentare in prima persona, nel suo totale isolamento, consente a Sigismondo di

prendere coscienza dei doveri della sua nuova condizione e attuarli. “Sigismondo opera

su di sé prima che sugli altri la trasformazione del suo ruolo nel mondo”174, una

trasformazione che richiede tempo e lo svolgersi di nuove esperienze per apprendere

davvero chi può e deve essere. Sigismondo infatti riconosce e assume su di sé

quell’umanità che aveva “previsto”, ma che gli era stata negata, solo quando essa

diviene un fatto che lo riguarda personalmente. Jankélévitch ne Il Non-so-che e il

Quasi-niente175 ha ben individuato il salto di qualità tra i due generi di conoscenza di

cui si sta parlando: da un lato una falsa conoscenza, che in realtà è appunto

disconoscenza e misconoscimento della realtà delle cose, e dall’altro una conoscenza

“presa-sul-serio”. Discorrendo sul problema della morte così scrive ed esemplifica:

Ogni tipo di mito protettore, di eufemismo e di pietoso malinteso alimenta

attorno alla morte un’ambiguità eminentemente favorevole alla disconoscenza.

Si sa senza sapere! Sapere in generale che tutti gli uomini sono mortali,

semplicemente perché lo si è letto nel De viris: questa è una scienza astratta,

concettuale ed indeterminata, una scienza banalizzante nel suo rassicurarci; certo

gli uomini vorrebbero che la morte fosse un argomento da versione latina, e non

chiedono che di credervi, e fanno come se. La morte è il «segreto» universale, il

mistero di Pulcinella e la grande verità arci-nota: da che mondo e mondo, non

c’è niente da sapere sulla morte, tutto quello che c’è da sapere su di essa, lo si

sapeva già! lo si sapeva da sempre... E tuttavia lo si può imparare

inesauribilmente, benché già lo si sappia! Come può l’uomo apprendere ciò che

sa già? Ma lo si può!176

174 Cfr. La Vita è Sogno, op. cit., Prefazione, p. XXV. 175 Vladimir, Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, Presses Universitaires de France, Paris, 1957 (tr. it.

di Carlo Alberto Bonadies, Il Non-so-che e il Quasi-niente, Genova, Marietti, 1987).176 Ivi, pp. 110-15.

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Page 73: Tesi Definitiva Lore

La chiarezza di questo brano e l’evidenza straordinaria del paradosso che esso mette

in luce permettono di ben capire ciò che Sigismondo non poteva ‘prevedere’ e ciò a cui

non poteva essere, nel primo momento del contatto con gli uomini, adeguato. Poteva

ben conoscere la virtù, potevano ben essergli state insegnate le parole e i sentimenti

umani, gliene mancava la pratica. Come quegli atei di cui parla Montaigne, che per

spirito di distinzione si davano tono chiamando la fede superstizione, ma che “non

mancheranno di giungere le mani verso il cielo, se piantate loro un bel colpo di spada

nel petto”177, anche Sigismondo diviene coscienzioso178 e giunge a conoscere sul serio,

e quindi a rispettare, le leggi umane, solo quando divengono per lui un problema. La

vera conoscenza che non “scivola su di noi senza scuotere la sinecura”179 ha questi tre

caratteri, secondo Jankélévitch. Innanzitutto il “fatto-che-ci-riguarda-personalmente”:

si tratta di applicare a se stessi una verità generale, che finché rimane impersonale è del

tutto rassicurante, ma che solo quando è percepita su di sé si rivela nella sua importanza

per il soggetto. In secondo luogo l’“effettività”: la verità viene scoperta nei suoi

contrassegni sensibili, nei suoi risvolti per l’agire e il soffrire umano. In terzo luogo la

“prossimità”, che è la forma temporale dell’effettività: questa verità non più

anestetizzata e riguardante altri, ma che conta e conta proprio per sé, è una verità che ci

coinvolge proprio ora, di cui facciamo esperienza proprio (e solo) nel momento in cui

non si può più far finta che non ci riguardi. La verità che scopre Sigismondo, ma solo

quando è ricondotto al termine dell’esperimento del padre nella torre, e proprio nella

torre, è quella della transitorietà delle sorti umane e dell’importanza di agire con

giustizia e ragionevolezza nei confronti degli altri uomini per essere felici180. Ma la può

scoprire solo dopo averla esperita nella tragedia e nel dolore, dopo essere stato principe,

di rivedersi costretto in catene. Questo Basilio non aveva capito, e per questo aveva

sottoposto il figlio a una prova che non era in grado di superare. Solo in questo senso

può, a mio avviso, essere recuperata la ‘naturalità’ del Sigismondo che precede la 177 Cfr. Montaigne, Michel Eyquem de, Les Essais, Paris, Abel l’Angelier, 1595 (tr. it. di Fausta Garavini, Saggi,

Milano, Adelphi, 1992), Apologia di Raymond Sebond, pp. 574-75.178 Cfr. La Vita è Sogno, op. cit., III.XIV, p. 239. “La tua saggezza sorprende”, “Com’è cambiato il suo cuore!”,

“Com’è accorto ed assennato!”, ci viene detto di lui nelle ultime battute dell’opera dagli altri personaggi. 179 Jankélevitch, Il Non-so-che, op. cit. p. 113. 180 “È vero. Occorre domare | questa natura ribelle, | questa furia, quest’assillo, | se al sogno in caso torniamo. | E lo

faremo, avvertiti | da un mondo così bizzarro, dove vivere è sognare; | e l’esperienza mi insegna | che l’uomo che vive

sogna | quel che è, fino al risveglio”, La vita è Sogno, op. cit., II.XIX, p. 159.

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Page 74: Tesi Definitiva Lore

liberazione: non nel senso di una vera assenza di educazione, ma nel senso di quella

verginità che conosce sì astrattamente le cose del mondo, ma non le ha mai

sperimentate. Nel senso pieno di un riconoscimento di cose che sapeva già, ma che non

sapeva-sul-serio, attraverso un apprendistato esistenziale.

II.IV. Marivaux: la genesi dell’infedeltà in amore

La Dispute181 di Marivaux (1688-1763) fu sonoramente fischiata dal pubblico

parigino al suo debutto, il 19 ottobre 1744, quando i Comédiens Français decisero di

metterla in scena al calar del sipario sulla tragedia Manlius. Nonostante essa fosse stata

letta con grande entusiasmo dagli attori che avrebbero dovuto rappresentarla, ed essi

avessero deciso, all’unanimità, di inserirla nel loro cartellone, Marivaux stesso decise di

non proporne ulteriori repliche: a spingerlo a ciò dovettero essere il giudizio negativo

del pubblico e i costi non indifferenti per l’allestimento delle scene. Essa non fu

riproposta che agli inizi del XX secolo, nel 1938, dagli stessi Comédiens Français, e

ancora oggi si hanno poche speranze di poterla veder rappresentata. La sua scarsa

fortuna non pregiudica però l’interesse e la profondità teorica e filosofica di questa

piccola commedia composta di un unico atto e di venti scene. Se Marivaux è molto

spesso stato considerato dalla critica, sin dal XVIII secolo, come un autore piacevole e

divertente, ma superficiale, è in commedie minori come questa che possiamo riscoprire,

pur permanendo all’interno di quel tema dell’“éternelle surprise de l’amour”, che già

d’Alembert individuava come tratto caratterizzante l’intera sua opera, il valore e la

pregnanza del suo pensiero. Marivaux non è affatto estraneo al pensiero filosofico e ai

fermenti intellettuali della sua epoca, cui anzi partecipa attivamente182, e non solo fa

proprie queste idee e questi problemi, ma si può dire che egli abbia contribuito

fortemente a renderli popolari e accessibili ad un pubblico molto più vasto di quello dei

philosophes e dei savants, mettendo in scena idee che nessun drammaturgo prima di lui

181 Pierre Chamberlain de Marivaux, La Dispute, 1744, in Théâtre Complet: Edition Etablie par Henri Coulet et

Michel Gilot, Paris, Gallimard, 1994, pp. 543-570. 182 Egli creò addirittura due riviste per poter esprimere il suo pensiero filosofico e morale, L’Indigent Philosophe e Le

Cabinet du Philosophe; in più, a mo’ di ulteriore esemplificazione, si consideri lo stretto rapporto che ebbe per molti

anni con Rousseau, tanto che Marivaux lo aiutò a ritoccare il testo di una sua commedia, il Narcisse, come racconta

questi nel secondo libro delle Confessions.

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Page 75: Tesi Definitiva Lore

aveva presentato. Come ha scritto in un saggio che vuole rivelare la profondità

filosofica del breve testo marivaudiano William Trapnell, “One must look to scientific

literature to find greater similarity to Marivaux’s thought in the Dispute […] In fact,

critics tend to stress art at the expense of thought, which in the Dispute is certainly the

more original of the two”183, mentre “this obscure work illustrates two preoccupations

of 18th century France […] the desire to found scientific inquiry on experimental proof

and the search for ‘natural’ man or extra-social man”184. Se dal punto di vista stilistico

questa commedia infatti non è altro che un ennesimo esempio di quella sottile

schermaglia sentimentale, di quel gioco amoroso leggero e delicato che riesce, in

dialoghi serrati e in poche risposte incisive, a mostrare una psicologia del sentimento, di

quella préciosité e di quella galanteria che riproducono l’andamento della

conversazione mondana della sua epoca, e che proprio da lui ha preso il nome di

marivaudage, dal punto di vista contenutistico ci troviamo di fronte a un’opera che

sviluppa, come vedremo in maniera critica, alcune questioni ampiamente discusse nella

sua epoca185. Se ancora ci troviamo di fronte all’ennesima variazione sul tema della

genesi del sentimento amoroso e delle prove che i suoi personaggi devono sempre

sopportare per giungere, al di là delle apparenze, degli inganni, dei travestimenti e degli

stratagemmi, a verificare la sincerità dei loro amori, è vero che in questo caso si tratta di

una épreuve completamente sui generis, che non ha precedenti né nel suo teatro né nelle

trame tradizionali.

La disputa che spiega il significato del titolo dell’opera ha origine da un tema

dibattuto in una conversazione di società186: chi si sia macchiato della prima infedeltà

183 William H. Trapnell, The ‘Philosophical’ Implications of Marivaux’s Dispute, in Studies on Voltaire and the

Eighteenth Century, vol. LXIII, 1970, pp. 193-219, qui p. 196. 184 Ivi, p. 194. 185 Bisogna per correttezza accennare che anche da una prospettiva meramente formale quest’atto unico, insieme

all’altra commedia Les Acteurs de Bonne Foi (1747), sono importanti in quanto esempi di anticipazione di quella

problematica del teatro nel teatro cara a Pirandello. 186 Trapnell sottolinea che il tema della prima incostanza e infedeltà in amore, come vedremo subito oggetto della

contesa, era uno di quelli spesso dibattuti nei salotti secenteschi, e ipotizza che il dispendioso espediente messo in

atto per un oggetto così frivolo e il fallimento dell’esperimento possano considerarsi spie di un’ironia di Marivaux su

questo genere di questioni (Trapnell, The ‘Philosophical’ Implications, op. cit., p. 197-98). La domanda sulla prima

incostanza sembra inserirsi in quel filone, a metà tra il gioco di società e la letteratura, con cui ci si divertiva e si

faceva sfoggio di ésprit e di virtù mondane, di riflessioni sull’amore nel Seicento francese, per esempio attraverso le

cosiddettte questions e maximes d’amour.

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Page 76: Tesi Definitiva Lore

tra l’uomo e la donna. La questione, sollevata alla corte di un principe di un reame

indefinito, aveva visto contrapporsi il principe stesso e la sua amante Hermianne, che

sostenevano rispettivamente il proprio partito, l’uno pronunciandosi per la donna, l’altra

per l’uomo. Per trovare una risposta a questa domanda il Principe invita Hermianne ad

assistere a “un spectacle très curieux”187, che consisterà nel mostrarle il singolare

evento della nascita dei “premières amours”. Il padre del Principe aveva infatti fatto

crescere, in completo isolamento dal mondo, due ragazzi e due ragazze della medesima

età188; al raggiungimento dei diciott’anni di età, i quattro verranno messi per la prima

volta a contatto l’uno con l’altro, e il Principe ed Hermianne potranno finalmente,

spiando e ascoltando da una galleria che circonda l’edificio in cui vivono, verificare chi

abbia commesso la prima infedeltà. L’osservazione ‘sperimentale’ dei primi sentimenti

di questi giovani si rivelerà un completo insuccesso e non darà alcuna risposta

definitiva: da un lato entrambi i sessi appariranno inclini all’infedeltà, seppure per

moventi psicologici molto differenti, dall’altro interverrà nell’ultima scena una terza

coppia, fino ad allora tenuta nascosta ma allevata in identico modo, che, con il suo

rifiuto di sciogliersi, non permetterà di decidere nemmeno della naturale tendenza o

meno degli esseri umani, sia uomini che donne, al tradimento.

Passando ad un’analisi più minuziosa dell’opera, bisogna subito mettere in evidenza

che le prime scene presentano una descrizione dell’esperienza che non è dettagliata, sia

per suggerire l’elemento fantastico, sia perchè secondo la consuetudine di molti autori

drammatici della prima metà del XVIII secolo, Marivaux si limita a dare poche

indicazioni di scena, e nemmeno possediamo informazioni su come debba essere stato

l’allestimento dell’unica rappresentazione del 1744: nonostante la povertà delle

informazioni però, tutti i caratteri essenziali alla comprensione delle condizioni

dell’esperienza sono presenti nel testo.

È opportuno proporre per esteso il modo in cui l’esperimento in questione ci viene

presentato, e che in poche righe condensa molti elementi degni di essere analizzati:

187 Marivaux, La Dispute, op. cit., I, p. 545. 188 In realtà al termine della commedia si svelerà l’esistenza di una terza coppia, la cui comparsa in scena scioglierà il

dramma e concluderà l’esperimento.

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Page 77: Tesi Definitiva Lore

Voici le fait, il y a dix-huit ou dix-neuf ans que la dispute d’aujourd’hui

s’éléva à la cour de mon père, s’échauffa beaucoup et dura très longtemps. Mon

père naturellement assez philosophe, et qui n’était pas de votre sentiment [di

Hermianne], résolut de savoir à quoi s’en tenir, par une épreuve qui ne laissait

rien a désiderer. Quatre enfants au berceau, deux de votre sexe et deux du nôtre

furent portés, dans la fôret où il avait fait bâtir cette maison exprès pour eux, où

chacun d’eux fut logé à part, et où actuellement même il occupe un terrain dont

il n’est jamais sorti, de sorte qu’ils ne se sont jamais vus. Il ne connaissent

encore que Mesrou et sa soeur qui les ont éléves, qui ont toujours eu soin d’eux,

et qui furent choisis de la couleur dont ils sont, afin que leur élèves en fussent

plus étonnés quand ils verraient d’autres hommes, on va donc par la première

fois leur laisser la liberté de sortir de leur enceinte et de se connaitre; on leur a

appris la langue que nous parlons, on peut regarder le commerce qu’ils vont

avoir ensemble, comme le premier âge du monde; les premières amours vont

recommencer, nous verrons ce qui en arrivera189.

Questa si svolgerà in un luogo solitario e lontano da ogni possibilità di interferenza

umana esterna190, all’interno di un edificio che il re ha fatto appositamente costruire per

rinchiudere i fanciulli oggetto dell’esperimento, che è totalmente separato e

inaccessibile dal mondo esterno191, che è al suo interno suddiviso in uno spazio comune

e in spazi in cui sono stati, fino al momento dell’esperimento separatamente allevati i

quattro giovani, e dove, si dice poche righe più in là, è stata preparata una galleria dalla

quale è possibile osservare ogni punto dell’edificio192. Altri elementi che concorrono a

completare lo sfondo all’interno del quale la prova prende luogo sono la presenza di un

servo e di una serva nera (Mesrou e Carise), che hanno avuto il compito di prendersi

cura delle ‘cavie’ in tutti gli anni della loro segregazione, e il cui ruolo è piuttosto

controverso: se il compito dell’esperienza è, infatti, come abbiamo già cominciato a

dire, di cogliere la genesi del sentimento amoroso (e dell’immediata infedeltà che ne

189 Ivi, II, p. 547. 190 Cfr. anche: “...voici le lieu du monde le plus sauvage, et le plus solitaire”, Dispute, op. cit., I, p. 545. 191 Cfr. anche: “...qu’est-ce que c’est cette maison, où vous me fait entrer, et qui forme un édifice si singulier, que

signifie la hauteur prodigieuse des différents murs qui l’environnent: où me menez-vous?”, ibidem, corsivo mio. 192 “...voici une galerie qui règne tout le long de l’edifice”, ivi, II, p. 547.

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Page 78: Tesi Definitiva Lore

deriva) in anime originarie, incorrotte dalla società, e che possano agire secondo il

proprio istinto, come se si fosse “au commencement du monde et de la société”193, la

loro presenza rischia di falsificare sensibilmente la prova. Questi infatti non si sono

limitati ad accudire i giovani nelle loro esigenze primarie, ma si sono preoccupati di

fornire loro una educazione, che ricorda in tutto e per tutto quella appresa dai

contemporanei di Marivaux per prepararli alla vita mondana194. In più, quando

finalmente i quattro giovani vengono liberati per la prima volta, il loro ruolo non appare

affatto neutrale: essi intervengono e li influenzano in più situazioni, sia dando loro

avvertimenti che si riveleranno inutili e cercando di metterli in guardia dal rischio

dell’infedeltà, sia, al contrario, provocando in più occasioni i ragazzi alla colpa195.

Mesrou e Carise, più che a semplici osservatori esterni alla vicenda come il principe e

Hermianne, assomigliano davvero a sperimentatori che interrogano, saggiano e mettono

alla prova la natura degli oggetti sperimentali (in questo caso i giovani) sotto esame. In

che modo è possibile recuperare la ‘naturalità’ di un’esperienza che sembra falsata sin

dall’inizio dalla presenza di queste due figure? Forse lo si può fare tenendo presente

l’ingenua sensibilità di un’epoca che porta a far sì che nessuno dei personaggi sulla

scena consideri i due servi, in quanto neri, interamente umani196, e comprendendo che,

essendo appunto la finalità dell’esperimento quella di mostrare i primi moti del cuore,

perché questi si potessero manifestare era necessario dotare i fanciulli di una capacità di

relazione, e dunque la finalità teorica ha imposta un’attenuazione del rigore 193 Ivi, p. 546. 194 “Les enfants de La Dispute ne sont pas des sauvages. Ils ont appris la musique, et par consequent aussi, il faut le

supposer, tout ce qui entrait dans l’éducation d’une jeune personne bien élevée au XVIII° siècle: la danse, les belles

manières et, pourquoi pas, les reverences [...] Il y a de la puérilité dans leur langage, quand ils parlent de choses dont

ils ignorent encore les noms ou de sentiments qu’ils n’avaient jamais éprouvés, mais quelle attention il portent à ces

sentiments mêmes, quelle délicate justesse ils mettent à les exprimer!”, ivi, Notice, p. 1068. 195 Su tutti gli interventi che si susseguono nel testo, il più evidente è quello dell’ultima scena, quando Carise,

rivolgendosi ai due nuovi sopravvenuti Meslis e Dina, li induce apertamente, ma senza ottenere successo, al

tradimento: dapprima rivolgendosi a Meslis (“...voyez, Meslis, si parmi les femmes vous n’en verriez pas quelqu’une

qui vous plairait encore plus que Dina, on vous la donnerait”) e poi a Dina (“Et vous, Dina, examinez”), ivi, XX, pp.

569-70. 196 Cfr. il passo appena citato su Carise e Mesrou: “...furent choisis de la couleur dont ils sont, afin que leur élèves en

fussent plus étonnés quand ils verraient d’autres hommes” e quest’affermazione di Églé che, alla vista di Azor, si

spaventa come se vedesse per la prima volta in vita sua un uomo: “...qu’est-ce que c’est cela, un persone comme

moi...” (ivi, IV, p. 549). I due schiavi sono dunque considerati nel testo alla stregua di ‘non persone’, e per questo si

può affidare loro la cura e l’apprendimento dei giovani senza invalidare la ‘naturalità’ della situazione.

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dell’isolamento. Anche in questo caso, essi possono essere considerati hommes naturels

solo nel senso che l’autore ha voluto “épargner à des sensibilités raffinées, à des

intelligences en alerte, les tristes connaissances dont est pourvu très tôt l’enfant du

monde civilisé”197, presentando così sulla scena degli individui perfettamente in grado

di sviluppare, e manifestare nei modi consueti, i meccanismi dell’eros, senza però

averne alcuna previa conoscenza. Essi, a differenza di qualsiasi fanciullo cresciuto in

società, non hanno nemmeno idea della possibilità dell’esistenza di esseri simili a loro,

né dell’esistenza dell’amore, emozione a loro totalmente sconosciuta; privi di una

prescienza di questo sentimento, privi di aspettative e di paure, privi della coscienza dei

doveri e delle regole che la società impone, incoscienti dei rischi e delle possibilità cui

vanno incontro, da questo punto di vista sono in grado di comportarsi in modo naturale,

spontaneo e ingenuo. Essi sono originali, a differenza di Sigismondo, perché, almeno

limitatamente al loro essere sociali e al sentimento dell’amore, non hanno né notizie né

pregiudizi. In questo ambito circoscritto, essi rappresentano davvero una tabula rasa, e

tutto ciò che viceversa hanno già appreso costituisce la base attraverso cui essi possono

approciarsi ad un nuovo mondo, quello del commercio con gli altri uomini: Marivaux

immagina dei ragazzi perfettamente formati e perfettamente preparati ad affrontare e a

provare situazioni e emozioni ancora altrettanto, e senza che questo sia un paradosso,

perfettamente sconosciute. Quel che importa è che l’anima dei giovani sia del tutto

originaria rispetto all’amore, e ad esso soltanto.

Data questa interpretazione del significato del testo marivaudiano, che riesce in

qualche modo a salvare la plausibilità dell’esperienza del re “naturellement assez

philosophe”, bisogna pur mettere in evidenza che forse nemmeno Marivaux credeva

nella plausibilità e nelle possibilità euristiche dell’esperienza che faceva mettere in atto

ai suoi personaggi, e che invece stesse esercitando verso di essa una sottile ironia

scettica. Le convinzioni e gli scopi dei personaggi sarebbero dunque messi alla berlina,

e con essi quella tendenza generale del XVIII secolo a ricostruire geneticamente e

temporalmente i processi di apprendimento umano, quell’idea di “recommencer à zéro

l’odyssée de la coscience” che Georges Gusdorf considera caratteristica del pensiero

contemporaneo a Marivaux, e di cui rintraccia le origini intellettuali nel metodo

197 Ivi, Notice, p. 1069.

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Page 80: Tesi Definitiva Lore

empirico lockeano198. Il problema delle origini è una costante del pensiero

Settecentesco (sia esso declinato come problema dell’origine dell’uomo, della società,

dell’ineguaglianza, della proprietà, della conoscenza, del linguaggio, della religione, del

sentimento del bello ecc)199 e Marivaux, influenzatone, si inserisce all’interno di queste

discussioni per mostrarne i limiti. Anch’egli finge di farci assistere “au commencement

du monde et de la société”, di cogliere sul fatto “les hommes et les femmes de ce temps-

là”200 e di mostrarcene i loro caratteri e le loro avventure, ma solo per poi mostrarci

come questa pretesa sia del tutto priva della possibilità di essere soddisfatta. In questo

senso allora la pièce non sarebbe altro che una riproduzione di quelle “esperienze

dell’uomo di natura” che altri filosofi stavano progettando, di una creazione

immaginaria, ma in linea con le convinzioni del tempo, che dapprima doveva apparire a

un osservatore ingenuo verosimile e utile, ma che poi doveva rivelargli, attraverso un

coup de théâtre finale (peraltro preannunciato da quegli elementi ‘culturali’ di cui si è

detto) la vanità di un simile tentativo201. Il re “assez philosophe” è ancora una volta un

assai cattivo filosofo, che ha costruito un esperimento speculativo nuovamente inadatto

agli scopi che si proponeva. Si tratterebbe dunque di una sorta di satira, come

dimostrerebbe il fulmen in clausola dell’ultima scena, ovvero l’apparizione di Meslis e

Dina. Per tutti coloro che avessero creduto che l’esperienza poteva, se non giungere a

determinare chi per primo tra uomo e donna avesse tradito, almeno la naturale infedeltà

dei cuori di entrambi i sessi, giunge improvvisa la smentita. Meslis e Dina

198 Georges Gusdorf, Les Sciences Humaines et la Pensée Occidentale, tome IV, Les Principes de la Pensée au

Siècle des Lumieres, Paris, Payot, 1971, pp. 232-249. 199 “Le XVIII° siècle s’est passionnément posé le problème des origines: quelle est l’origine de l’individu humain,

est-il né de l’oeuf ou de l’animalcule? Quelle est l’origine de la société? l’origine de l’inegalité? l’origine de la

proprieté? l’origine de la perception de la profondeur? l’origine de la connaissance? l’origine du sentiment du beau?

l’origine de la religion? l’origine du langage? Marivaux fit recevoir La Dispute aux Comédiens Français le 22

septembre 1744, alors ni Condillac, ni Diderot, ni Rousseau, ni Buffon n’avaient encore publié leur traites, ma ceux-

ci étaient en gestation, et l’Essai sur l’Entendement Humain de Locke était traduit depuis longtemps. Marivaux fait

donc bien référence aux idées de son temps quand, dans La Dispute il pretend nous faire assister «au commencement

du monde et de la société»”, La Dispute, op. cit., p. 1065. 200 Ibidem, I, pp. 546-47. 201 “On voit maintenant combien est subtil le jeu de Marivaux dans La Dispute: il fait semblant de poser un de ces

problèmes de genèse dont son siècle est si occupé, et il fausse les conditions de l’expérience en faisant agir des

personnages dont les facultés intellectives et affectives sont développées, puis il brouille ses données propres en

amenant au dernier moment d’autres personnages don’t il n’avait jamais été question”, ibidem, pp. 1072-73.

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Page 81: Tesi Definitiva Lore

contraddicono le coppie precedentemente considerate, pur essendo stati posti nelle

stesse condizioni. La conclusione scettica (può essere, e può non essere, che l’indole

umana sia così incostante) è dunque obbligatoria, e può interpretarsi sia come un

riconoscimento della variabilità dei sentimenti e degli intrecci umani, sia come

l’improvvisa smentita di tutto quanto era stato osservato in precedenza. Il carattere

fittizio e scarsamente credibile di esperienze che pretendano di conoscere la natura

umana ricostruendo un ambiente e degli individui originali sarebbe allora ciò che

Marivaux ci vuole rivelare, anticipando nella letteratura molte questioni che scienza e

filosofia si porranno solo più tardi.

Un ultimo elemento del testo che si vuole prendere in considerazione è relativo al

problema dello sguardo: come ha sottolineato Trapnell, “one must look to scientific

litterature to find greater similarity to Marivaux’s thought in the Dispute”202. Se, come

si è detto, non è certo solo alla letteratura scientifica, bensì anche alla problematica

filosofica della sua epoca, che bisogna riandare, è però evidente in Marivaux la ripresa

di alcuni metodi della scienza che si andava affermando e che egli, ancora una volta

precorrendo una riflessione successiva, applica all’uomo, già trasformato in oggetto di

un sapere in tutto simile a quello delle scienze della natura. Rimandando all’esperienza

dello scienziato contemporaneo Charles Bonnet203 sulla fisiologia animale, e in

particolare sulla sua esperienza per determinare le modalità di riproduzione degli afidi,

consistente in una osservazione sotto vetro di uno di questi, prolungatasi senza sosta per

ben trentacinque giorni, Trapnell individua la medesima istanza empirico-documentaria

nel drammaturgo, seppur spostatasi dalla fisiologia animale alla psicologia umana: “He

and Bonnet both assemble an apparatus specifically designed for the purpose of

isolating, raising and observing animal subjects. Marivaux assure continuity to his

nineteen-year project by assigning responsibility to a prince and his father, execution to

a black and his sister”204. Il dispositivo costruito da Marivaux è tale da poter permettere

una osservazione totale, sistematica e continuativa per un tempo notevole, sia quando i

202 Trapnell, The Philosophical Implications, op. cit., p.196. 203 Charles Bonnet (1720-1793), naturalista e filosofo svizzero, fu un osservatore appassionato della natura e compì

numerose ricerche sugli insetti, scoprendo, nel 1740, la partenogenesi (tipo di riproduzione di alcune piante e di

alcuni invertebrati, in cui la cellula uovo si sviluppa, spontaneamente o per l’induzione artificiale di stimoli fisici,

chimici o meccanici, senza essere stata fecondata) degli afidi.204 Trapnell, The Philosophical Implications, op. cit., p. 204.

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Page 82: Tesi Definitiva Lore

soggetti vivono nei propri ‘mondi’ (le loro stanze), sia quando poi vengono inseriti in

quel mondo comune nel quale, attraverso quella galleria di cui abbiamo parlato, il

principe e la sua amante potranno vederli e controllarli in ogni luogo. Trapnell ancora

riporta in una nota il seguente giudizio, che ritiene perfettamente applicabile alla

Dispute, di Jacques Roger: “Jamais écrivain n’a ressemblé plus que [Marivaux] à une

naturaliste, n’a été plus que lui soumis à son objet...Il est toujours resté...l’observateur

de ces animaux étranges que sont les hommes...Nul romancier ne méritait mieux d’être

le contemporain de Reaumur”205. Marivaux insomma appare in qualche modo

precursore delle scienze umane che nei decenni successivi si sarebbero così fortemente

sviluppate. E ancora l’architettura costruita da Marivaux consente quello che potremmo

chiamare, con le dovute cautele, un régard panottico ante-litteram. Le camere dei

giovani assomigliano tanto alle celle del del Panopticon benthamiano206 cui Foucault ci

ha familiarizzato: esse appunto possono essere descritte come quelle, come “tante

gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo e perfettamente visibile”207. Lo

spazio marivaudiano è uno spazio che assicura “la disimmetria, lo squilibrio, la

differenza”208 tra le parti in causa e che fonda un potere basato sul principio del vedere

senza essere visti: da un lato i quattro giovani, che non sanno di essere guardati, e

dall’altro il principe e Hermianne, che li osservano senza poter essere visti, proprio

come accade nel progetto carcerario di Bentham e in ogni dispositivo panottico ad esso

ispirato. Ancora, le immagini che Foucault usa per descrivere il funzionamento di questi

dispositivi209 si adattano perfettamente anche alla Dispute: da un lato l’edificio nascosto

nella foresta è un vero e proprio “serraglio del re” in cui l’osservazione non si dirige più

su degli animali e sui loro comportamenti, ma su degli uomini verso i quali gli 205 Ivi, p. 204, nota 22. Il testo di Roger è tratto dal suo studio Sciences de la Vie dans le Pensée Français du XVIII°

Siècle. 206 “Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si

aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo

spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra,

verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella

torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un condannato, un operaio o uno scolaro”, Michel Foucault,

Surveiller et Punir. Naissance de la Prison, Paris, Gallimard, 1975 (tr. it. di Alcesti Tarchetti, Sorvegliare e Punire.

Nascita della Prigione, Torino, Einaudi, I° ed. 1976), p. 218.207 Ivi, p. 218. 208 Ivi, p. 220. 209 Ivi, pp. 221-22.

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osservatori possono concedersi di dirigere uno sguardo di naturalisti e placare una

curiosità disinteressata, da improvvisati filosofi; dall’altro, come lo stesso Panopticon,

questa costruzione è utilizzata per compiere una esperienza, come se fosse un

“laboratorio”, in cui si è ricreato un ambiente artificiale e isolato che permetta di

compiere sui giovani esperimenti indisturbati e senza il timore delle interferenze della

cultura, per così dire ricreando, paradossalmente, una condizione naturale in vitro. Non

è un caso che nelle stesse pagine di Sorvegliare e Punire Foucault affidi al principio

panottico, questa geniale forma architettonica che può essere applicata ai più svariati

ambiti della vita sociale, proprio la possibilità di contribuire allo studio dell’uomo

attraverso l’educazione in reclusione:

Il Panopticon può essere utilizzato come macchina per fare esperienze [...]

Tentare esperienze pedagogiche – e in particolare riprendere il famoso problema

dell’educazione in reclusione, utilizzando trovatelli; si potrebbe vedere ciò che

accade quando, nel sedicesimo o diciottesimo anno di età, si mettono in presenza

ragazzi e ragazze; si potrebbe verificare se, come pensa Helvetius, chiunque può

apprendere qualunque cosa; si potrebbe seguire «la genealogia di ogni idea

osservabile»; si potrebbero allevare diversi bambini in diversi sistemi di

pensiero, far credere ad alcuni che due più due non fanno quattro o che la luna è

un formaggio, poi metterli tutti insieme quando avessero venti o venticinque

anni; si avrebbero allora discussioni violente che varrebbero assai più delle

conferenze e dei sermoni per i quali si spende tanto denaro; si avrebbe almeno la

possibilità di fare qualche scoperta nel campo della metafisica. Il Panopticon è

un luogo privilegiato, per rendere possibile la sperimentazione sugli uomini e

per analizzare con tutta certezza le trasformazioni che si possono operare su di

loro.210

Il Panopticon, minimizzando i costi materiali di tali esperienze, e massimizzando

invece le capacità osservative e di intervento degli sperimentatori, appare qui come la

soluzione spaziale ottimale per uno studio sperimentale dell’uomo. Pur non essendo

così perfezionata dal punto di vista di una razionalità strumentale, l’architettura

210 Ivi, p. 222.

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Page 84: Tesi Definitiva Lore

proposta da Marivaux tende comunque alle stesse finalità, quella di poter scrutare e

rendere trasparente ogni aspetto, anche minimo, della vita delle ‘cavie’ in essa

contenute, e quella di poter intervenire in ogni momento per saggiare e verificare le loro

risposte; proprio per questo obiettivo comune e grazie all’ingegno del drammaturgo

nella Dispute troviamo soluzioni analoghe a quelle foucaultiane: anch’egli ha infatti

voluto creare un luogo totalmente penetrabile allo sguardo di alcuni osservatori, qui

interessati a risolvere la loro querelle galante sull’amore naturale.

II.V. Maupertuis: alcuni progetti per una scienza a venire

La Lettera per il Progresso delle Scienze211 costituisce un altro testo di fondamentale

importanza per la storia di questa pur minuscola idea che è quella del pensare

un’esperienza dell’homme naturel. È la prima volta infatti, siamo nel 1752, che un

filosofo la pensa come concretamente realizzabile, ed è la prima volta che essa viene

considerata non solo come una “ricerca utile per il genere umano” e “curiosa per gli

scienziati” che dovrebbero metterla in essere, ma anche come un’esperienza inserita in

un elenco di quelle nelle quali “al punto in cui sono giunte attualmente le Scienze, ci

sentiamo in grado di ottenere un successo”212. La Lettera è stata pubblicata per la prima

volta a Berlino nel 1752. Maupertuis (1698-1759), che ne è l’autore, si rivolgeva a

Federico II213 per indicargli i punti sui quali la ricerca dei savants doveva impegnarsi, e

come il re avrebbe potuto favorire i loro lavori. Si tratta di un certo numero di lavori da

intraprendere sugli argomenti più disparati, dalle esplorazioni geografiche alle

211 Pierre Louis Moureau de Maupertuis, Lettre sur le Progrès des Sciences, 1752. (tr. it. di Maria Luisa Serena,

Lettera per il Progresso delle Scienze, in AA. VV., Filosofia Scienza Politica nel Settecento Francese: Saggi,

Ricerche, Testi, Firenze, CLUSF , 1978, a cura di Paolo Rossi), pp. 237-258. 212 Ivi, p. 237. 213 In mancanza di una evidenza testuale precisa, si possono fare varie ipotesi sul sovrano destinatario dell’opera.

Émile Callot ritiene che sia indirizzata al re di Francia Luigi XV (cfr. Émile Callot, Maupertuis, le Savant et le

Philosophe, Paris, Rivière, 1964, p. 129). La curatrice italiana della traduzione della lettera, Maria Luisa Serena,

sostiene invece sia dedicata a Federico II di Prussia, presso il quale effettivamente Maupertuis era impegnato in

quegli anni e da cui stava ricevendo sostegno nell’aspra querelle con Koenig e Voltaire (cfr. Lettera per il Progresso,

op. cit. p. 237, nota 1), ma scrive di non ritenere errato pensare “che questo scritto sia indirizzato a tutti i Sovrani e a

tutti gli uomini autorevoli nell’ambito della cultura europea” (ibidem). Non possedendo altre testimonianze, non

avendo motivi per considerare inattendibile una delle due fonti, considerando le ragioni storiche di sopra e infine la

fama di Roi-philosophe che Federico II seppe guadagnarsi, lo si è qui preferito.

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Page 85: Tesi Definitiva Lore

esperienze sull’elettricità, passando attraverso le osservazioni astronomiche e la

sperimentazione in campo biologico e medico. Figura tra le più attraenti e spirito tra i

più curiosi di tutto il siècle philosophique, Maupertuis era dotato di una conoscenza

davvero enciclopedica, in grado di muoversi criticamente e con proprietà nei vasti

domini delle scienze esatte, della biologia, della filosofia della Natura e della scienza e

della filosofia morale. Il suo lavoro nella Repubblica delle Lettere non si limitò però a

una serie di studi pur così vari e approfonditi, perché egli non fu mai una personalità per

così dire solipsistica e dedita al lavoro di gabinetto, ma rivelò il suo amore per le

scienze e la filosofia anche attraverso un desiderio di intraprendere, di organizzare, di

promuovere e di dirigere le ricerche e le scoperte che altri avrebbero potuto compiere al

suo posto. Animatore della vita intellettuale europea di quegli anni, fu tra coloro che

permisero la penetrazione della filosofia inglese nella cultura illuminista214, fece

conoscere il pensiero francese attraverso le sue lettere, le sue amicizie e la sua attività

alla corte di Federico II di Prussia215, frequentò i salotti e strinse legami con i circoli

intellettuali più importanti d’Europa. È questo il medesimo spirito, quello di promotore,

in proprio e attraverso la sollecitazione delle energie altrui, del sapere settecentesco, che

anima la sua Lettera. Essa non va confusa con una vera epistola: come tutti i suoi

contemporanei, anche Maupertuis ci ha lasciato delle lettere reali, delle quali però non è

ancora stata intrapresa la stesura di un inventario o una loro pubblicazione. Si tratta

quindi ovviamente di una lettera fittizia, non certo di una lettera privata, ma destinata

alla lettura di un pubblico quanto più vasto possibile. Lo stesso stile, infatti, mostra, con

la sua precisa semplicità, che il testo è mosso dal desiderio di essere quanto più

possibile ascoltato e compreso, nell’intento di ‘volgarizzare’ problemi e questioni che

agitavano il mondo intellettuale e di suscitare una ricerca scientifica sempre più ampia.

Acquisito per Maupertuis che la conoscenza in generale, e quindi anche la conoscenza

scientifica, deriva dall’esperienza fenomenica e che, in una prospettiva sensista, tutte le 214 “Les courants essentiels du siècle traversent son esprit et prennent forme dans l’oeuvre: Bacon, Locke, Berkeley,

Newton, voilà ses inspirateurs direct, et par lui ils entrent dans la tradition philosophique et scientifique française;

cette influence qu’il eut sur ses contemporains reste aujourd’hui encore fort mal connue”, Émile Callot, Maupertuis,

le Savant et le Philosophe, op. cit., p. 12. 215 Fu infatti chiamato a Berlino dallo stesso re per riorganizzare e dirigere l’Accademia delle Scienze di Berlino, di

cui fu nominato Presidente nel 1746, e presso la quale lavorerà fin quasi alla morte; vero è che la sua attività si riduce

dopo il 1753 quando, spossato moralmente e intellettualmente da una serie di polemiche intellettuali e dalla

tubercolosi, cerca pace e serenità con alcuni viaggi in Francia, dove muore nel 1759.

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Page 86: Tesi Definitiva Lore

idee nascono attraverso un processo di rielaborazione e di combinazione di sensazioni

provenienti dall’esterno, egli abbandona ogni ipotesi metafisica per costruire una

scienza che si cura di comprendere solo le qualità e i rapporti tra gli enti osservati

nell’esperienza. Il progresso delle conoscenze umane diviene così un percorso di

illuminazione di ciò che fino ad ora è rimasto oscuro attraverso uno sguardo empirico

sulla natura. Uno sguardo che deve rivolgersi dappertutto, tanto che egli arriva ad

affermare che, nel caso di un ambito di ricerca allora allo stato nascente, cioè gli

esperimenti sull’elettricità, varrebbe la pena, pur non sapendo quale strada seguire, “di

accumulare quante più esperienze possibili. Venissero fatte a caso, potrebbero far luce

su questo tipo di Fisica”216. In mancanza di un metodo e di un percorso di ricerca

migliore, che non si può ancora delineare, la fiducia nelle esperienze scientifiche rimane

tale da permettergli di affermare che un semplice accumulo e catalogo di esse possa

servire da materiale utile ad un’elaborazione futura. Questo perché in questi domini

niente di certo può ancora essere affermato: sono ancora in uno stadio embrionale e

nonostante si intuisca che da essi si può attendere molto, non si sa ancora come

muoversi. Viceversa, la riflessione e la progettazione appaiono un momento preliminare

all’osservazione empirica: per colui che aveva combattuto per vedersi riconosciuta la

paternità del principio della “moindre action”217, per un’utilitarista ante-litteram

disposto a lasciare da parte ogni scrupolo e ogni “sapore di crudeltà” per fare dei

criminali delle carceri ‘cavie’ per esperimenti medici sull’uomo, sulla base del principio

che “un uomo non è niente paragonato alla specie umana; un criminale meno di

niente”218, era necessario che anche il lavoro scientifico fosse sottoposto al principio di

utilità, e che si tentassero in primis quelle esperienze che avevano la maggior speranza

di dare risultati, e di dare i risultati più importanti per il miglioramento delle condizioni

dell’umanità219. Maupertuis pensa una scienza che si dedichi sì a tutto, convinto che il

216 Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., pp. 255-56. 217 Si tratta di una legge fisica, assimilabile al principio d’economia e universalmente estendibile ad ogni corpo e

sempre in atto, per cui ogni volta che avviene qualche cambiamento nella Natura, la quantità d’azione impiegata per

questo cambiamento è sempre la minore possibile. La Natura non spreca, e agisce sempre secondo una razionalità

economica. 218 Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., pp. 249-52. 219 In questo modo si comprende bene anche perché l’ultimo paragrafo della Lettera sia dedicato alle “ricerche da

vietare”, cioè quelle sulla pietra filosofale, sulla quadratura del cerchio e sul moto perpetuo: “Le Accademie sanno

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Page 87: Tesi Definitiva Lore

suo ambito sia inesauribile e in toto degno d’indagine, ma che istituisca delle gerarchie

interne. Il ragionamento e il pensiero dovevano precedere l’esperienza per distoglierla

da operazioni inutili e permettere allo scienziato di applicarsi ai fenomeni decisivi,

come lo spirito dell’illuminato sovrano cui egli si rivolge, che “si dedica a tutto, e si

dedica ad ogni cosa in relazione al grado di utilità che questa presenta”220. Ecco allora

perché la lettera viene scritta: quest’accademico, ben avvertito della necessità di un

lavoro scientifico che sempre più deve farsi collettivo (ma anche coordinato) per essere

efficiente, invia al re delle “riflessioni sui progressi di cui mi sembra che le Scienze

abbiano il maggior bisogno; affinché se voi avete la mia stessa opinione sulle cose che

vi sottopongo, possiate dare l’avvio a qualcuna”221 e perché è consapevole che ci sono

alcune scienze che non possono svilupparsi se non con la benevolenza di un’autorità

regale: “sono tutte quelle che esigono enormi spese che i privati non possono

permettersi, o esperimenti che non sarebbero normalmente praticabili”222. Fatte queste

premesse introduttive, il testo procede a enumerare una serie di esperienze, come

abbiamo deto relative ad ogni campo del sapere, che rispondono a questi due caratteri,

di priorità e impellenza intellettuale e di straordinarietà dei mezzi da mettere a

disposizione per poterle realizzare, che le rendono degne di essere prese sotto l’ala

protettiva di un sovrano.

Come ha scritto Pierre Brunet, la Lettera “malgré tant des critiques acerbe set en

dépit des sarcasmes, contenait tant d’idées neuves et intéressantes”223, tra le quali, oltre

al progetto di uno studio dell’uomo di natura, si trovano, ad esempio, proposte

all’avanguardia come quella di istituire un Collegio di Scienze Straniere per permettere

scambi culturali tra le grandi civiltà del mondo (ma forse, dice Maupertuis, “non si

dovrebbero escludere nemmeno le nazioni più selvagge”224) o quella (che avrebbe

trovato attuazione solo pochi anni dopo con la spedizione del capitano Cook del 1768-

1771) di andare alla ricerca di quel “Mondo a parte”, di quella terra australis incognita bene il tempo che perdono ad esaminare le pretese scoperte di questi disgraziati ma questo non è niente se si pensa al

prezzo che pagano loro stessi, alla spesa che sostengono, e alle pene che si danno”, ivi, p. 258. 220 Ivi, p. 238. 221 Ibidem. 222 Ibidem. 223 Pierre Brunet, Maupertuis. L’Oeuvre et sa Place dans la Pensée Scientifique et Philosophique du XVIII° Siecle,

Paris, Blanchard, 1929, p. 371. 224 Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., p. 246.

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già congetturata dagli antichi dove, secondo Maupertuis, si troverebbero varietà

naturalistiche del tutto sconosciute, perché evolutesi in luoghi completamente separati

dal resto della terraferma225. È tra le “esperienze metafisiche”, ovvero tra quegli

esperimenti che non riguardano i corpi ma gli spiriti, e che sono “ancora più curiosi e

interessanti”226, che troviamo i passi che hanno attinenza con la nostra trattazione:

Come si siano formate le lingue, lo comprendiamo piuttosto in generale.

Reciproci bisogni di uomini che possedevano gli stessi organi, hanno prodotto segni

comuni per farsi capire. Ma le estreme differenze che oggi si riscontrano nei modi di

esprimersi provengono forse dalle alterazioni, che ogni padre di famiglia ha

introdotto in una lingua dapprima comune a tutti? oppure questi modi d’esprimersi

sono stati diversi fin dalle origini? Due o tre bambini allevati insieme fin dalla più

piccola età, senza alcun contatto con altri uomini, si formerebbero certamente una

lingua, seppur limitata. Questa sarebbe una cosa adatta a far molta luce sul

precedente problema, osservare cioè se questa nuova lingua, abbia una qualche

somiglianza con le lingue che si parlano oggi; e vedere con quale lingua abbia

maggiore uniformità. Affinché l’esperimento sia completo, bisognerebbe formare

molti gruppi di questo tipo, formarli con bambini di diverse nazioni, e i cui genitori

parlassero le lingue più diverse; la nascita è già infatti una specie di educazione;

vedere poi se le lingue di questi diversi gruppi abbiano qualcosa in comune, e fino a

qual punto si somigliano. Bisognerebbe evitare soprattutto che questi piccoli popoli

apprendessero qualche altra lingua; e fare in modo che gli studiosi addetti a questa

ricerca apprendessero la loro.

Un tale esperimento non si limiterebbe ad istruirci sull’origine delle lingue;

potrebbe farci apprendere altre cose sull’origine delle idee stesse, e sulle nozioni

fondamentali dello spirito umano.227

Avevamo già accennato parlando di Marivaux all’interpretazione di Georges Gusdorf

di quest’idea di “recommencer à zéro l’odyssée de la conscience”228 presente in molti 225 Ivi, pp. 238-41. 226 Ivi, p. 256. 227 Ivi, p. 257. 228 Gusdorf, Les Sciences Humaines, op. cit., p. 244.

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pensatori dell’età dei Lumi, che egli considera come un vero e proprio “lieu commun”,

un “même espace mentale” e una “identique orientation de pensée”229, e che

consisterebbe in un rigetto e in un disprezzo verso una metafisica che pretendeva di

spiegare la conoscenza umana attraverso una spiegazione deduttiva, che possiamo far

risalire a Locke e al suo Essay concerning Human Understanding. Gusdorf ritiene e

mostra che a questa ricusazione di una metafisica tradizionale e razionalistica non

corrisponde un totale abbandono delle ipotesi metafisiche, ma l’introduzione in molti

testi del pensiero illuminista di un nuovo genere di metafisica ‘genealogica’. La

metafisica assume qui, nella nuova organizzazione della conoscenza, un’accezione

molto differente da quella che aveva avuto in passato: essa diviene una conoscenza

dell’intelletto, uno studio critico sulle possibilità e i limiti della conoscenza umana, una

conoscenza della conoscenza, che è preliminare ad ogni possibilità di sapere in quanto

determina cosa sia possibile conoscere e con quale grado di certezza. Trasformata la

metafisica in quella che noi oggi chiameremmo un’epistemologia, ciò che fanno molti

filosofi illuministi è di intendere la questione epistemologica come una questione che

debba essere studiata in maniera ‘storica’: “Alors que l’epistémologie du rationalisme

classique présentait un caractère contemplatif, les idées innées constituant en chaque

homme une dotation invariabile de vérité, le XVIII° siècle, mobilisant la vérité dans les

temps, se préoccupe de retrouver le sillage de la connaissance dans le devenir de

l’homme et du monde. L’analyse de l’espace mental intègre la dimension temporelle,

car l’espace mental est compris comme l’espace-temps du developpement”230. Anche in

questo senso la filosofia settecentesca non sta facendo altro che seguire il percorso

tracciato da Locke quando, rifiutando di credere nell’esistenza di idee innate

nell’intelletto umano, aveva cominciato a studiare come esse potessero formarsi in

questo, “à partir du point d’origine où l’homme vient au monde par l’intermédiare de la

connaissance sensible”231. Ma questi tentativi di ricostruzione della genesi del pensiero

umano, sottolinea Gusdorf, si erano caratterizzati non attraverso uno studio empirico: si

trattò di proporre una “histoire conjecturale”, di carattere transempirico, di una pseudo-

genesi che non faceva altro che applicare ad un presunto uomo originario le sue ipotesi

229 Ivi, p. 238-242. 230 Ivi, p. 237. 231 Ivi, p. 238.

89

Page 90: Tesi Definitiva Lore

sulla formazione delle idee nello spirito umano, oltretutto, come tipico di quest’epoca,

facendo confusione, o mostrando coscientemente, di considerare equivalenti la

filogenesi e l’ontogenesi. In definitiva il ricorso all’uomo di natura (che è poi di volta in

volta quest’Adamo originario o un neonato allevato separato dalla società) serve alla

filosofia dell’epoca per proporre un racconto epistemologico fittizio e immaginario, in

cui si mostra il sorgere temporale delle idee e delle facoltà dell’uomo (perché appunto si

sono rifiutate le teorie innatiste)232. E queste esperienze, che sono puramente ipotetiche,

per il fatto stesso di essere caratterizzate dalla rappresentazione di un soggetto concreto,

che agisce e si relaziona con oggetti concreti, finiscono per sembrare verosimili, seppur

non suffragate da alcuna esperienza reale. L’innovazione e l’importanza del testo di

Maupertuis consistono nel fatto che in lui non si tratta di concepire visivamente e in

concreto ciò che è solo un modello teorico e astratto, ma di proporre per la prima volta

che l’esperienza venga realizzata empiricamente. È difficile in questo caso pensare che

essa sia stata davvero messa in atto perché, come vedremo nel prossimo capitolo,

l’idéologue Jauffret mostrerà di ben conoscere questo progetto di Maupertuis, eppure di

trovarsi nella necessità di doverlo riproporre nuovamente, proprio perché sicuramente

232 Cfr. a questo proposito alcuni testi che sono rimasti fuori dalla seguente trattazione (e che verranno eventualmente

analizzati in maniera più diffusa in futuro); essi sono apparsi proprio intorno alla metà del secolo XVIII e vi sono

contenuti riferimenti all’“esperienza sull’uomo di natura”. Il primo, in ordine di tempo, è la Storia Naturale

dell’Anima (1745) di La Mettrie: in esso compare un riassunto della “bella congettura di Arnobio” che serve

all’autore come suggello alla sua opera, per arrivare a dimostrare la sintetica tesi anti-innatista che “Senza sensi,

niente idee” (Julien Offroy de La Mettrie, Histoire Naturelle de l’Âme, 1745, tr. it. di Sergio Moravia, Storia

Naturale dell’Anima, in Opere Filosofiche, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 49-162), pp. 160-62. Il secondo

riferimento è al Condillac del Saggio sull’Origine delle Conoscenze Umane (1746), op. cit., pp. 207-215, dove

all’inizio della sezione dedicata al problema dell’origine e dei progressi del linguaggio, il filosofo suppone che due

bambini siano abbandonati in un deserto prima di conoscere qualsiasi segno, e segue l’ipotetica nascita dei loro mezzi

comunicativi. A distanza di circa vent’anni escono invece due opere, che abbiamo giò avuto occasione di citare, che

sono qui pertinenti. Una è il Trattato sulla Formazione Meccanica delle Lingue (1765) del De Brosses dove, in un

luogo molto simile a quello di Condillac, si crede di poter dimostrare che bambini allevati in una condizione naturale

svilupperanno senza aiuti esterni un linguaggio. (De Brosses, Trattato sulla Formazione Meccanica, op. cit., pp. 146-

48). L’altra è l’Essay on the History of Civil Society (1767), op. cit., di Ferguson dove nella Part I, Section I (Of the

question relating to the State of Nature) si immagina che siffatti bambini isolati formeranno una loro società in tutto e

per tutto simile a quella del resto degli esseri umani. Di datazione incerta sono alcuni frammenti pubblicati postumi di

Montesquieu ed esclusi volontariamente dall’autore dalle sue opere perché semplici suggestioni non approfondite, in

cui si ipotizza l’opportunità di una esperienza molto simile a quella del faraone Psammetico raccontata da Erodoto

(Charles Louis de Montesquieu, Mes Pensées, in Oeuvres completes: texte presenté et annoté par Roger Callois,

Paris, Gallimard, 1949, pensiero 775).

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Page 91: Tesi Definitiva Lore

era rimasto fino ad allora solo sulla carta233. Rimane vero che, pur rimanendo identici a

quelli dei suoi contemporanei gli scopi per cui Maupertuis ritiene di estremo interesse lo

studio degli uomini di natura (che sono i problemi della genesi del linguaggio e la

formazione delle idee nello spirito), a differenza di questi egli intende davvero fondarsi

sui fatti. Non elabora alcuna teoria di “epistemologia archeologica”234, non mette

insieme osservazioni e ipotesi particolari sul linguaggio e la psicologia per costruire una

esperienza che tenti di rispondere alle domande su questi, ma mostra solamente la strada

attraverso cui crede che quelle questioni possano trovare una risposta. Così si capisce

dove sta la differenza con i suoi contemporanei, e perché Jauffret citerà proprio lui

quando vorrà far sua e approfondire la medesima istanza di un sapere che sia finalmente

fondato nei fatti:

È da molto tempo ormai che ascoltiamo Filosofi, la cui scienza è diventata

un’abitudine e un vizio dello spirito, senza che noi ne abbiamo tratto maggiore

abilità: Scienziati e Filosofi della natura ci potrebbero informare forse meglio;

almeno ci porgerebbero le loro conoscenze senza averle sofisticate.

Dopo tanti secoli trascorsi, durante i quali, malgrado gli sforzi dei più grandi

uomini, le nostre conoscenze metafisiche non hanno fatto il minimo progresso,

c’è da credere che se è nella Natura che ne possano raggiungere qualcuno, ciò

potrebbe avvenire solo con mezzi nuovi e straordinari come quelli descritti.235

II.VI. Jauffret: l’“esperienza sull’uomo naturale” nei piani della nascente

antropologia

Nel 1800 Jauffret era già tutt’altro che uno sconosciuto. Ribelle come tanti altri

intellettuali del tempo a qualsiasi forma di impegno settoriale, Jauffret non doveva la

sua notorietà solo agli studi di “storia naturale dell’uomo”, ma anche alle opinioni

espresse nei campi più disparati, dalla politica alla pedagogia, nei quali era sempre

riuscito a distinguersi. Intellettuale brillante e talentuoso, Louis-François Jauffret era

233 Cfr. infra. 234 Gusdorf, Les Sciences Humaines, op. cit., p. 238. 235 Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., p. 257.

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Page 92: Tesi Definitiva Lore

nato in un villaggio della Provenza nel 1770, e, trasferitosi giovanissimo nella vivace

Parigi fin de siècle, cominciò presto ad entrare in contatto con i vari ambienti scientifici

e filosofici della capitale. La prima attività di Jauffret era stata, come accadeva alla

maggior parte dei giovani istruiti provenienti dalla provincia, di tipo letterario. Scrisse

dunque dapprima qualche poesia e alcuni idilli, che non passarono del tutto inosservati,

ma la lettura di alcuni volumi di storia naturale, da quelli dell’abate Pluche a quelli di

Charles Bonnet, fece sì che i suoi interessi virassero verso lo studio delle scienze, e in

particolare si dedicasse soprattutto al problema dell’educazione dell’infanzia. Legato al

gruppo dei borghesi moderati, dovette, in seguito alla Rivoluzione, allontanarsi da

Parigi a causa delle sue posizioni politiche, e vi fece ritorno solo dopo la reazione

termidoriana. Fu in questo periodo che strinse i primi stretti legami con i più eminenti

studiosi del suo tempo, da Lacépède a Lamarck, da Jussieu a Cuvier, da Cabanis a Pinel.

Questi molteplici contatti si riveleranno negli anni immediatamente successivi di grande

importanza per la fondazione della Société des Observateurs de l’Homme, e gli

permetteranno nel frattempo di discutere e approfondire i suoi studi naturalistici. Fino

ad allora nulla lasciava presagire l’indirizzo antropologico che stavano per prendere i

suoi studi, ma alla base di questo interesse doveva stare la vivacità con cui all’epoca

erano dibattuti i problemi di science de l’homme e dalla curiosità per i libri di viaggio e

per le relazioni sugli usi e i costumi di popoli esotici della cultura francese coeva. Non

appare allora incomprensibile perché egli rivolse i suoi studi naturalistici verso indagini

che proprio in quell’epoca cominciarono ad essere definite antropologiche236. Già

divenuto professore di storia naturale all’École Centrale di Versailles, volse i propri

interessi e le proprie capacità organizzative alla fondazione, nel 1799, della Société des

Observateurs de l’Homme, salutata con vivissimo entusiasmo dagli ambienti filosofici e

scientifici della capitale. Essa svolge i suoi lavori in continuità (seppur spesso espressa

in termini aspramente critici) con la travagliata analisi dell’uomo sviluppatasi nel corso

del Settecento, mantenendone l’obiettivo di uno studio finalmente scientifico e positif

dell’essere umano, che concepisca l’uomo come complesso di fenomeni e di dati

suscettibile di un’indagine rigorosa. A questo fine vengono mobilitate tutte le migliori

energie intellettuali della Parigi dell’epoca: Jauffret fu infatti in grado di raccogliere

236 Per una discussione critica sulla storia dei significati nel tempo assunti dal termine ‘antropologia’, dall’Ethica

Nicomachea alla fine del Settecento, cfr. Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., pp. 66-69.

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Page 93: Tesi Definitiva Lore

attorno a sé naturalisti (come Cuvier, Duméril e Jussieu), filosofi-psicologi (come

Destutt de Tracy, Laromiguière, Garat...), medici (come Cabanis, Hallé, Moreau de la

Sarthe...), studiosi dei segni e del linguaggio (Degérando, Sylvertre de Sacy, Sicari,

Itard...), geografi-esploratori (Baudin, Bougainville, Levaillant...), storici-archeologi

(Volney, Millin, Pastoret...), insieme a molti altri studiosi. Occorreva reclutare

rappresentanti delle più diverse branche del sapere relativo all’uomo, se si voleva

raggiungere l’ambizioso obiettivo di conoscere integralmente l’uomo; il carattere

interdisciplinare era indissociabile da una volontà di studiare tutta la natura dell’uomo,

fisica e morale, isolata e sociale. La grandezza del progetto si basava sulla fiducia

condivisa da questi studiosi di poter, attraverso l’observation, la comparaison e

l’analyse, giungere a fondare una conoscenza integrale e fondata sui fatti dell’uomo, e

di poterla liberare dalle ipoteche metafisiche in cui era fino ad allora rimasta

imprigionata. In tutti i testi di quest’ambiente emerge la coscienza di trovarsi di fronte

ad una disciplina inedita, i cui metodi, i cui obiettivi e il cui ethos sono rivendicati e

distinti orgogliosamente, ma anche presi sul serio e problematizzati: la novità non è

rivendicata per orgoglioso spirito di distinzione, ma per sottolineare le difficoltà cui si

andrà incontro e la vastità dello sforzo che dovrà essere affrontato, e

contemporaneamente la sua utilità e necessità per il progresso delle scienze. Questi temi

appaiono con una limpidezza straordinaria che dimostra come i tempi per la nascita di

una antropologia fossero ormai maturi, nel manifesto programmatico della Société des

Observateurs de l’Homme237, la cui stesura fu affidata proprio all’intelligente e ancor

giovane Jauffret, che l’aveva fondata. Emerge qui l’istanza definitoria nei confronti

delle altre scienze con cui comunque l’antropologia avrebbe dovuto lavorare in stretta

interdipendenza, dunque la comprensione di una specificità che si combina con

l’interdisciplinarietà, che sfrutta indagini e materiali raccolti da altre discipline per

perfezionare l’analisi di un oggetto di studio proprio238, che è, ovviamente, l’uomo. 237 È la già ricordata Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori dell’Uomo del 1803. 238 “La Società degli Osservatori dell’uomo ha dovuto occuparsi prima di tutto di misurare attentamente il cammino

che doveva percorrere e determinare con precisione il genere di lavori al quale doveva consacrarsi [...] Essa si

propone di osservare l’uomo sotto i suoi diversi aspetti fisici, intellettuali e morali, avendo cura tuttavia di contenersi

entro limiti determinati. Per esempio, l’osservazione dell’uomo fisico abbraccia l’anatomia e la fisiologia, la

medicina e l’igiene: ma a questo proposito la società non perderà mai di vista che il suo scopo è di non approfondire

queste diverse scienze se non in ciò che riguarda la storia naturale dell’uomo propriamente detta”. (Jauffret,

Introduzione alle Memorie, op. cit., p. 265, corsivi miei).

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Page 94: Tesi Definitiva Lore

Emerge lo spirito osservativo e antisistematico239, e la volontà di raccogliere e

catalogare i materiali più disparati sull’uomo, al fine di confrontarli e di comprenderli

meglio attraverso la loro varietà, le loro differenze e le loro somiglianze240. Emerge,

infine, la consapevolezza della rottura con il passato241 e della proiezione verso un

futuro (si noti, anche da un punto di vista stilistico, il frequentissimo utilizzo di questo

tempo) in cui si mostrerà quanto “la sua [della Società degli Osservatori] esistenza può

essere utile al progresso di una scienza che è stata sempre la più nobile di tutte, anche se

è stata sempre la meno coltivata [quella dell’uomo]”242 e quanto “la sua fondazione fu

utile nello stesso tempo alla fondazione della scienza e alla felicità degli uomini”243.

239 “Fin dal suo stesso nome la società mostra in qual modo essa crede di poter arrivare ad una conoscenza più

approfondita dell’uomo. Il suo proposito è soprattutto quello di raccogliere molti fatti, di estendere e moltiplicare le

osservazioni, lasciando da parte tutte quelle vane teorie, tutte quelle speculazioni arrischiate le quali non servirebbero

che ad avviluppare di nuove tenebre uno studio già di per sé tanto oscuro”, ibidem. 240 Il metodo comparativo è da Jauffret esteso a tutti gli oggetti di studio dell’antropologia: dall’anatomia (“Non sarà

che attraverso la riunione successiva di questi numerosi dati, e grazie ad un lavoro completo sull’anatomia comparata

dei popoli, che si potranno un giorno caratterizzare in modo esatto le varietà della specie umana”, ivi, p. 266), alla

fisiognomica (“Se esistono differenze notevoli fra popolo e popolo, ed anche tra famiglia e famiglia, ne esistono di

meno sensibili senza dubbio, ma tuttavia non meno reali, fra individuo e individuo; ed è lo studio approfondito di

queste differenze che costituisce la fisiognomica”, ivi, p. 267), alla storia (“Indagini sistematiche e numerosi studi

particolari presso i popoli antichi [...] getteranno una grande luce sull’Antropologia comparata”, ivi, p. 268), alle

relazioni di viaggio, all’antropografia, agli studi di psicologia e ideologia a quelli sul linguaggio (Jauffret si propone

già di “cominciare a gettare le basi di un Dizionario comparato di tutte le lingue conosciute”, ivi, p. 274; un’opera

titanica e forse utopica, ma che certo dimostra l’ambizione e la visionarietà di questi studiosi). Egli sostiene appunto:

“...che è solo raccogliendo una massa enorme di fatti, e circondandosi di una gran quantità di oggetti da paragonare

tra loro che la società vuole procedere alla conoscenza dell’uomo” (ivi, pp. 270-71), e in questo modo si

comprendono le ragioni di un altro progetto di lunga veduta, e cioè quello di un proto-Musée de l’Homme, “...di

riunire a poco a poco, in un museo speciale, diversi oggetti relativi ai lavori di cui si occupa la società, e soprattutto

tutti i prodotti dell’operosità dei selvaggi, tutti gli oggetti che possono servire a far conoscere la varietà della specie

umana, come pure i costumi e le usanze dei popoli antichi e moderni”, ivi, p. 270. 241 Non solo con le ipotesi metafisiche dei filosofi ‘sistematici’, ma anche nei confronti degli scienziati e degli

sperimentatori del passato, richiamati a un maggior rigore metodologico. Si vedano, a mo’ d’esempio, i rimproveri

nei confronti dei viaggiatori (e il rimando a quelle instructions de voyage dell’anthropologiste Dégerando di cui

abbiamo già parlato nel primo capitolo) o la critica ad una fisiognomica, in alcuni suoi esponenti, troppo sicura di sé e

dei suoi risultati: “...pur biasimando l’imprudente desiderio di voler decifrare ciascuno di questi tratti [i lineamenti], e

la temerità di pretendere di generalizzare mere induzioni, la società non respingerà le osservazioni condotte su un

oggetto così nuovo e interessante...”, ivi, p. 267. 242 Ivi, p. 265. 243 Ivi, p. 275.

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È sempre qui che troviamo l’ultima proposta che vedremo di compiere una

“esperienza sull’uomo naturale”, ed è proprio da questo testo che la locuzione è stata

tratta, come abbiamo già anticipato. Jauffret, tra le tante proposte contenute in questo

testo e che vanno a comporre il quadro organico degli studi che l’antropologia nascente

decide di darsi, individua le coordinate di come questa esperienza dovrebbe a suo modo

svolgersi, per quali fini e con quali mezzi:

Un giorno la società dovrà forse esaminare se, per seguire in modo tanto

nuovo quanto esteso lo sviluppo progressivo delle forze fisiche, intellettuali e

morali dell’uomo, non sarebbe opportuno tentare, con l’autorizzazione del

governo, un’esperienza sull’uomo naturale, consistente nel fare osservare con

cura, durante dodici o quindici mesi, quattro o sei fanciulli, metà di un sesso e

metà dell’altro, posti fin dalla nascita in uno stesso ambiente, lontano da

qualsiasi istituzione sociale, e abbandonati per lo sviluppo delle idee e del

linguaggio al solo istinto della natura. Non è dubbio che un mezzo sicuro per

ottenere una serie di osservazioni in grado di concorrere efficacemente a

illuminarci sullo sviluppo delle nostre facoltà sarebbe quello di collocare così,

fin dalla loro nascita, sotto gli sguardi della filosofia, dei fanciulli i quali, isolati

dai nostri costumi, dalle nostre istituzioni, dai nostri pregiudizi ed anche dal

nostro linguaggio, non potessero agire ed esprimersi se non secondo l’istinto e lo

stato che la natura fornisce a tutti gli uomini.244

Nonostante gli elementi che Jauffret introduce in questa descrizione (piuttosto

sommaria, ma la quale, vedremo tra poco, egli seppe pensare altrove con maggior

precisione) siano quelli tradizionali, ossia l’idea di una separazione di uno o più neonati

dal resto del mondo al fine di conoscere quali delle loro capacità si manifestino senza un

intervento esterno, egli sottolinea anche in questa occasione la ‘novità’ dell’esperienza

che la Società, o studiosi futuri, dovranno saper tentare: non è una differenza di

contenuti rispetto alle esperienze simili del passato che sono già state tentate o proposte,

244 Ivi, p. 272.

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Page 96: Tesi Definitiva Lore

e alcune delle quali Jauffret mostra di conoscere245, ma la differenza sta nel metodo che

dovrà essere seguito per trarre tutti i possibili benefici da un’esperienza così inconsueta.

Se gli esperimenti del passato sono considerati da questo solo dei “rozzi tentativi, di cui

la storia non assicura nemmeno l’autenticità”246, ciò dipende dal fatto che essi non

furono condotti “in un secolo illuminato come il nostro”247, ovvero non furono condotti

con la dovuta cautela e precisione nello svolgimento dell’esperienza e nella

registrazione dei suoi risultati, e così non poterono certo determinare su basi positives

cos’è realmente l’uomo nello stato pre-sociale. Egli riconosce tutte le difficoltà che

assediano un simile tentativo, anche nel suo secolo, e che “hanno potuto finora

spaventare coloro stessi che ne hanno potuto meglio apprezzare i vantaggi”248:

Infatti, una simile esperienza implicherebbe il sacrificio di una vita intera.

Bisognerebbe, dedicandosi a questa impresa, essere abbastanza giovani per

sperare ragionevolmente di poterla condurre a termine, abbastanza filosofi per

fare a meno, durante tutta la durata di essa, di quelli che si chiamano i piaceri

della società, abbastanza disinteressati per immolare la propria fortuna alla

propria gloria, abbastanza benestanti da non essere a carico di nessuno,

abbastanza diffidenti verso i sistemi verso i sistemi da poter osservare senza

prevenzione, e infine abbastanza amici della verità per dire tutto e non omettere

nulla.249

Insomma una esperienza che richiederebbe di saper trovare un osservatore, sia

‘filosofo’ che disposto a sacrificare un lungo periodo della propria vita per eseguirla

scrupolosamente, un individuo che assommi la piena capacità di guardare scevro dai

245 Cfr. i seguenti passi, che dimostrano la conoscenza di Jauffret della letteratura sull’argomento: “Psammetico, re

d’Egitto, volle un giorno, secondo quanto riferisce Erodoto, tentare un a educazione di questo genere. Ackbar,

imperatore del Mogol, cercò anche lui, alcuni secoli or sono, di fare educare dei fanciulli lontano da qualsiasi

società.”, ivi, p. 272, e, poco più sotto: “Già molti filosofi ne hanno presentito i vantaggi, e hanno auspicato che un

osservatore coraggioso fosse autorizzato a tentarla”, cui segue l’immediata citazione della Lettera sui progressi delle

scienze di Maupertuis, ivi, p. 273. 246 Ivi, p. 272. 247 Ibidem. 248 Ibidem. 249 Ibidem.

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pregiudizi i fatti, di saperli ragionare, e che abbia una tale passione per la verità da

metterla prima di qualsiasi altra cosa; un’esperienza che richiederebbe un tale dispendio

di energie (intellettuali, esistenziali ed economiche) che la rende anche in quel tempo

difficile da attuarsi. Eppure un’esperienza di una tale “utilità reale”, perché essa

potrebbe contribuire a risolvere difficili problemi sia sull’origine del linguaggio che

sull’origine delle idee e delle nozioni fondamentali dell’animo umano, che la

renderebbero senza dubbio degna della protezione di un governo illuminato, e “così

nuova e così interessante” che non si capisce come non si riescano a trovare uomini

dotati del “coraggio di un Commerson” che della “pazienza di un Réaumur”250 pronti a

metterla in pratica. Lo stile retorico del testo è tutto mosso dal desiderio di veder presto

messo in atto questa prova, di esortare e spronare giovani ricercatori a dare la propria

disponibilità, tanto che la discussione del problema si conclude sostenendo che:

Quali che fossero i risultati di una esperienza sull’uomo naturale, essi non

potrebbero essere indifferenti. La stessa mancanza di risultati sarebbe utile a

ottenersi, poiché illuminandoci sull’infruttuosità di una educazione

esclusivamente naturale ci insegnerebbe ad apprezzare maggiormente il

beneficio delle istituzioni sociali alle quali l’uomo sarebbe debitore di ciò che è

oggi.251

Non si può fare a meno di pensare, leggendo queste parole, al giovane Itard, che

proprio negli stessi anni stava conducendo su Victor, l’enfant sauvage di cui abbiamo

parlato in precedenza, una esperienza educativa che lo avrebbe impegnato

completamente per oltre cinque anni della sua vita, che Jauffret doveva conoscere molto

bene252, e che si sarebbe conclusa solo alcuni dopo.

“Non sappiamo”, scrive Moravia, “se l’esperimento fu davvero tentato”253. Molti dei

lavori che la Société si era prefissa infatti non furono mai portati a termine da essa:

nonostante il favore con cui fu da subito accolta, molti problemi la funestarono negli

250 Ivi, p. 273. 251 Ibidem. 252 Per l’interessamento degli Observateurs alla vicenda di Victor dell’Aveyron si veda Moravia, La Scienza

dell’Uomo, op. cit., pp. 110-12. 253 Ivi, p. 102.

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anni a venire e in breve tempo quest’esperienza ebbe fine. Le ristrettezze finanziarie

dell’associazione, i troppi impegni dei membri di maggior rilievo, le difficoltà inerenti

alla difficoltà del progetto, e la situazione politica interna di quegli anni fecero sì che

l’entusiasmo di molti ben presto si fiaccasse, e che già nel 1805 essa non esistesse più.

Sul piano scientifico, la cosa più grave è che i suoi Mémoires non furono mai pubblicati,

e che anche i suoi archivi, passati nella seconda metà dell’Ottocento in quelli della

Société d’Anthropologie, sono andati perduti254. Nonostante ciò, dalle cronache di

alcuni giornali dell’epoca, possiamo attingere alcune notizie molto interessanti sulla

attività degli Observateurs, e, per quanto qui ci interessa più precisamente, di un

concorso bandito nel 1801:

Determinare, attraverso l’osservazione giornaliera d’uno o più bambini in

culla, l’ordine nel quale si sviluppano le facoltà fisiche, intellettuali e morali, e

fino a che punto questo sviluppo è secondato o contrariato dall’influenza degli

oggetti da cui il bambino è circondato e da quella, più grande ancora, delle

persone che comunicano con lui.255

Analogo concorso, cui Jauffret accenna anche nell’Introduzione alle Memorie della

Società, fu presentato nel 1803, perché anch’esso doveva mostrare “quanta importanza

[la Società] attribuisce alla raccolta di una serie di osservazioni ben condotte sopra i

primi sviluppi dell’uomo appena nato”, e si proponeva di “considerare con occhio

attento la prima alba dello spirito che si sviluppa”, di “tenere un diario particolareggiato

dei progressi dell’intelligenza in un bambino”, di “veder nascere le sue facoltà l’una

dall’altra”256. La questione dello sviluppo delle facoltà e delle idee dell’uomo, dei

meccanismi psicologici attraverso cui idee e risposte complesse avevano origine, non

suona certo estranea a questi studiosi di matrice ideologica, e all’evoluzione filosofico-

254 Sulla rapida estinzione della Société e sulle vicende relative ai suoi documenti si rimanda a Moravia, La Scienza

dell’Uomo, op. cit., pp. 94-101. 255 Traggo la citazione da Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 100. Il tema del concorso è contenuto nella

«Décade Philosophique», 30 therm. an VIII, vol. 26, pp. 368-69. La «Décade Philosophique» era l’organo ufficiale

degli idéologues, il mezzo attraverso cui diffondevano le idee e le iniziative del movimento. Esso uscì

ininterrottamente tra il 1794 e il 1807. 256 Jauffret, Introduzione alle Memorie, op. cit., p. 271.

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antropologica avvenuta nel Settecento, che aveva portato a considerare l’uomo come

studiabile tutto entro il contesto mondano-ambientale e a farlo oggetto senza residui

dell’observation empirico-sperimentale. L’“esperienza sull’uomo naturale” è allora solo

una delle derivazioni di un problema più grande: ridotto l’uomo alla sua dimensione

materiale e compresolo come un ente facente parte di un ambiente con cui aveva

rapporti fin dalla nascita (Cabanis si spinse fino a considerare lo stadio fetale) e che lo

influenzava, l’uomo naturale era semplicemente quello modificato solo da cause fisiche

e non dai rapporti con gli altri uomini. Un caso particolare, e un ambiente particolare,

che aveva in più il merito di poter contribuire alla secolare controversia sull’uomo di

natura, e per questo ancora più degno di essere studiato. Per questo Jauffret era tanto

interessato a svolgerla concretamente, tanto da scrivere una lista di istruzioni, di note e

di memento sotto il titolo Sur l’étude de l’homme, scoperta e pubblicata da Robert

Reboul257:

perché la natura dell’uomo è così poco nota?; 2. per conoscere l’uomo

bisogna risalire alla sua origine e natura; 3. il selvaggio non è l’uomo di natura;

4. a che cosa sono giunti tutti i tentativi fatti finora per conoscere l’uomo di

natura; 5. un’esperienza sull’uomo di natura è possibile; 6. numerosi filosofi ce

ne hanno presentato i vantaggi; 7. qualità che occorre possedere per condurre

con successo un’esperienza sull’uomo di natura; 8. a quale età i bambini che ci

si propone di osservare debbono essere separati dalla società?; i bambini di

natura si formeranno un linguaggio? osservazioni da fare sull’origine del

linguaggio; 10. fino a che punto l’uomo nasce buono o cattivo?; 11.

osservazioni da fare sull’origine delle idee; 12. risposta ad alcune obiezioni.

Diversità degli spiriti e dei caratteri; 13. i bambini di natura sentiranno qualche

volta delle grida; 14. in che modo saranno nutriti e vestiti i bambini di natura?;

15. in che misura si deve temere la prevenzione dell’osservatore?; 16. i bambini

di natura possono ammalarsi: possono morire; 17. su un passo di Rousseau

relativo all’esperienza sull’uomo di natura; 18. un esperimento sull’uomo di

257 R. M. Reboul, Louis-François Jauffret. Sa Vie et ses Oeuvres, Paris-Aix-Marseille, 1869, pp. 118-19. Il testo, che

traggo ancora una volta da Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 102, è raccolto da Reboul insieme ad altri

materiali relativi alla Société des Observateurs e soprattutto al suo fondatore.

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natura è degno di essere protetto da un governo illuminato; 19. i risultati di un

esperimento di questo genere non possono essere indifferenti; 20. anche arrivare

ad un’assenza di risultati riuscirebbe utile; 21. la sorte dei bambini di natura non

sarà compromessa da questo esperimento: sarà semmai migliorata; 22. gli

uomini illuminati devono incoraggiare l’osservatore e tenersi in contatto con

lui.

Queste indicazioni telegrafiche, che in parte riprendono temi già presenti

nell’Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori dell’Uomo, aggiungendo

solo alcune precisazioni, sia di ordine teorico sia di ordine pratico, mostrano una volta

di più come Jauffret volesse realizzare davvero l’esperienza che aveva proposto, e che

non si trattasse assolutamente di una proposta congetturale, come era stato per alcuni

suoi predecessori in passato.

Se è vero che l’Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori

dell’Uomo è un testo “di importanza storica capitale”258; se è vero che “la moderna

antropologia generale non si è sostanzialmente discostata da questa concezione

istituzionale-programmatica della scienza dell’uomo delineata da Jauffret”259, come

scrive Moravia, che essa, come la filosofia, secondo l’adagio heideggeriano, è nata già

grande; se è vero che all’interno di questo testo l’“esperienza sull’uomo di natura” è

presentata come una delle più importanti e ambiziose; se è vero che probabilmente essa

non fu mai tentata, saranno da studiare le ragioni per cui essa fu messa nel cassetto, o se

invece essa è stata riformulata e ripresa da esperimenti di epoche successive. Ma

sappiamo anche che già negli stessi anni, e poi nei secoli successivi, il caso mise gli

studiosi dell’uomo nell’insperata condizione di poter eseguire un’indagine in apparenza

non troppo dissimile da quella auspicata da Jauffret. Forse la fine di questa fantasia è

coincisa con la sua realizzazione, o con qualcosa che vi assomigliava

sorprendentemente, ovvero con il ritrovamento e lo studio scientifico di numerosi casi

di enfants sauvages.

258 Cfr. G. Hervé, Le premier Programme de l’Anthropologie, «Revue Scientifique», XII, 1909, pp. 502-508 (citato in

Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 72). 259 Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 75.

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