accertamento capital gain

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CESSIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIALI, CAPITAL GAIN E RISCHI DI ACCERTAMENTO FISCALE - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Parlando di cessione di partecipazioni sociali da parte di privati, l’imponibile da assoggettare all’imposta sul capital gain viene determinato sulla base del corrispettivo di vendita effettivo e non del valore normale. Tuttavia, tale circostanza non esclude a priori l’eventualità che l’Amministrazione Finanziaria possa procedere ad accertamenti nel caso in cui riscontri un’ampia divergenza tra il prezzo dichiarato dalle parti ed il valore di mercato della quota, facendo eventualmente riferimento a prove induttive o alla normativa antielusione. - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - 1- PREMESSA La cessione di partecipazioni sociali da parte di persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa è suscettibile di generare redditi tassabili ai sensi dell’art. 67 del T.U.I.R.. Nel porre in essere tale tipo di operazione può sorgere il dubbio di quali siano i rischi di subire un accertamento fiscale da parte dell’Amministrazione Finanziaria; ci si può infatti domandare come vengano svolti i controlli e le selezioni, e quindi quali siano le probabilità di subire una contestazione, in quale misura possa essere rettificato il reddito dichiarato, ma anche e soprattutto su quali basi normative e giurisprudenziali il Fisco potrà sostenere eventuali provvedimenti emessi. A ben vedere, la rideterminazione dei redditi derivanti dalla cessione di titoli o partecipazioni è uno dei provvedimenti che meno di frequente si riscontra nell’ambito dell’attività di accertamento posta in essere dall’Amministrazione Finanziaria. Di conseguenza, l’argomento è stato poco trattato in dottrina e, salvo rare eccezioni, non è stato oggetto di discussione da parte della giurisprudenza tributaria. Tale circostanza non pregiudica tuttavia l’interesse per la questione, posto che sussiste comunque il rischio di subire rettifiche degli imponibili dichiarati, con conseguente necessità di considerare le possibili strategie difensive da opporre alle pretese dell’Ufficio, così come può essere in ogni caso utile, in via preventiva, individuare le ipotesi che destano una minore o maggiore attenzione da parte del Fisco. 1

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Rischi fiscali accertamento cessione quote

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Page 1: Accertamento Capital Gain

CESSIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIALI, CAPITAL GAIN E RISCHI DI ACCERTAMENTO FISCALE

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Parlando di cessione di partecipazioni sociali da parte di privati, l’imponibile da assoggettare

all’imposta sul capital gain viene determinato sulla base del corrispettivo di vendita effettivo e non del valore normale. Tuttavia, tale circostanza non esclude a priori l’eventualità che

l’Amministrazione Finanziaria possa procedere ad accertamenti nel caso in cui riscontri un’ampia divergenza tra il prezzo dichiarato dalle parti ed il valore di mercato della quota, facendo

eventualmente riferimento a prove induttive o alla normativa antielusione.- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

1- PREMESSA La cessione di partecipazioni sociali da parte di persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa è suscettibile di generare redditi tassabili ai sensi dell’art. 67 del T.U.I.R.. Nel porre in essere tale tipo di operazione può sorgere il dubbio di quali siano i rischi di subire un accertamento fiscale da parte dell’Amministrazione Finanziaria; ci si può infatti domandare come vengano svolti i controlli e le selezioni, e quindi quali siano le probabilità di subire una contestazione, in quale misura possa essere rettificato il reddito dichiarato, ma anche e soprattutto su quali basi normative e giurisprudenziali il Fisco potrà sostenere eventuali provvedimenti emessi.A ben vedere, la rideterminazione dei redditi derivanti dalla cessione di titoli o partecipazioni è uno dei provvedimenti che meno di frequente si riscontra nell’ambito dell’attività di accertamento posta in essere dall’Amministrazione Finanziaria. Di conseguenza, l’argomento è stato poco trattato in dottrina e, salvo rare eccezioni, non è stato oggetto di discussione da parte della giurisprudenza tributaria. Tale circostanza non pregiudica tuttavia l’interesse per la questione, posto che sussiste comunque il rischio di subire rettifiche degli imponibili dichiarati, con conseguente necessità di considerare le possibili strategie difensive da opporre alle pretese dell’Ufficio, così come può essere in ogni caso utile, in via preventiva, individuare le ipotesi che destano una minore o maggiore attenzione da parte del Fisco.Vale la pena quindi, dopo aver fatto un breve excursus sul quadro normativo di riferimento ed aver esaminato la prassi e la giurisprudenza in materia, tentare di analizzare quali siano i poteri in mano agli Uffici, nonché le fonti informative ed i criteri di selezione dagli stessi utilizzati per la propria attività di accertamento in materia di capital gain.Si esclude dalla presente indagine il caso in cui siano emerse prove dirette a dimostrazione di maggiori imponibili (ad esempio la dimostrazione da parte dell’Ufficio dell’effettivo incasso di un maggior prezzo da parte del venditore1), per concentrarsi invece sull’eventualità di provvedimenti basati su elementi presuntivi, cioè su circostanze che possono far indirettamente ipotizzare la presenza di fenomeni evasivi.

2 - LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO: CENNI In materia di capital gain nel corso del tempo si sono susseguite varie normative; le più recenti in ordine temporale sono il D. Lgs. n. 461 del 21/11/1997 (in vigore dall’1/7/1998 e fino al 31/12/2003), nonché il D. Lgs. 344 del 12/12/2003 (riforma del T.U.I.R.), attualmente in vigore.Com’è noto, l’ art. 67, comma 1, lett. c), c-bis) e c-ter) del TUIR, annovera tra i redditi diversi le

1 E’ difficile che il Fisco possa disporre di una “prova diretta” documentale o basata su dichiarazioni a verbale, eccettuati i passi falsi di chi lascia in giro documenti compromettenti (ad esempio, movimenti bancari non coerenti con gli importi “ufficiali” oppure contratti preliminari di compravendita riportanti corrispettivi maggiori rispetto a quelli poi dichiarati davanti al notaio) o le denunce presentate da terzi mossi da inimicizia (come ex dipendenti, ex mogli, fornitori o parenti).

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plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di partecipazioni ed altri strumenti similari. Il successivo art. 68, comma 6, del TUIR, stabilisce che le suddette plusvalenze tassabili “sono costituite dalla differenza tra il corrispettivo percepito ... ed il costo od il valore di acquisto ...". Dalla lettura della norma si evince, pertanto, che la base imponibile per la tassazione del capital gain è rappresentata dalla plusvalenza realizzata, determinata sulla base dei corrispettivi percepiti, ossia in base al criterio di cassa. Mentre le ipotesi di tassazione e la definizione della base imponibile sono trattate da apposite norme, non esiste, in materia di tassazione sul capital gain, una disciplina specifica che regoli l’attività, e quindi i poteri, di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria. Infatti, l’articolo 5, comma 6, del D. Lgs. 461/97 (che definisce il regime tributario delle rendite finanziarie) fa un generico riferimento alla disciplina delle imposte sui redditi. Risulta pertanto applicabile l’articolo 38 del D.P.R. 600/73 (rettifica della dichiarazione delle persone fisiche), il quale al comma 3 recita “L'incompletezza, la falsità e l'inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione, salvo quanto stabilito nell'art. 39, possono essere desunte … anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”. Si tratta dell’accertamento c.d. analitico, possibile sia nel caso che emergano elementi diretti a riprova del maggior imponibile, sia nel caso di elementi indiretti (presunzioni c.d. qualificate).

3 – LA PRASSI E LA GIURISPRUDENZA IN MATERIA Con la nota n. 185903 del 5/11/1999, la divisione II del Ministero delle Finanze ha dettato le istruzioni agli uffici per la verifica delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni societarie realizzate al di fuori del reddito d’impresa. Le istruzioni sono relative ai redditi 1993, ma sono tuttora interessanti poiché forniscono alcune linee guida per le verifiche e sono quindi utili per individuare le situazioni che generano i maggiori rischi di accertamento per i contribuenti.In particolare, viene suggerito innanzitutto di escludere le posizioni che presentino costi d’acquisto inferiori ad una certa soglia minima (stabilita discrezionalmente dall’ufficio locale), per poi procedere a predisporre un elenco ordinato delle operazioni registrate formato sulla base del valore crescente del rapporto “plusvalenza / prezzi”. Tale elenco individua un ordine di “pericolosità”: le più rischiose sono le cessioni di quote in cui risultano minusvalenze (prime della lista), le meno rischiose sono quelle che hanno generato un buon rendimento, cioè una plusvalenza elevata rispetto al costo di acquisto2. Una volta stilata la classifica di “rischiosità”, il Ministero sposta l’attenzione sulla successiva fase di esecuzione dei controlli e sugli elementi specifici che possono aver influenzato le condizioni della cessione, elementi che possono essere di natura sia oggettiva (valore dell’azienda, redditività attesa, utili distribuiti), che soggettiva (realizzo “per necessità” in momenti ed a condizioni non ottimali)3.Particolare attenzione viene posta su quelle situazioni per le quali si parla di “rischio di distorsioni nella formazione del prezzo dichiarato”. Trattasi, in particolare, delle cessioni avvenute tra soggetti collegati da rapporto di parentela o compartecipazione nella società oggetto di transazione, per i quali, secondo la Nota, viene ridimensionato il naturale conflitto di interessi tra cedente ed acquirente in ordine alla determinazione del prezzo dichiarato. Secondo il Ministero in tali casi l’acquisto non è orientato ad una rapida dismissione, ma piuttosto alla volontà di prolungare nel tempo la proprietà ed il controllo della società. Ciò, sempre secondo la Nota, pone questo tipo di cessioni in condizioni di particolare “rischiosità”, essendo l’acquirente poco sensibile alla tassazione delle plusvalenze e, quindi, poco interessato ad avere un prezzo di acquisto “ufficiale” significativo.

2 La stessa Nota ministeriale ammette che tale classificazione ignora l’intervallo temporale intercorso tra acquisto e cessione delle partecipazioni e l’eventuale presenza di utili distribuiti (che invece dovrebbe essere considerata nella determinazione del risultato complessivo dell’investimento).3 La Nota pone l’attenzione anche sull’eventuale presenza di valutazioni peritali che influenzano il costo di acquisto, nonché sulla necessità di verificare eventuali minusvalenze riportate da anni precedenti portate in deduzione delle plusvalenze dichiarate.

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È da segnalare anche la Circolare del Comando Generale Guardia di Finanza 20-10-1998, n. 1/360000, nella quale si precisa che “nel caso di cessione della partecipazione, sia che essa dia luogo a plusvalenze, sia, soprattutto, nel caso in cui la vendita generi minusvalenze, deve essere esaminata l'intera operazione allo scopo di accertare se il prezzo praticato sia congruo”. Lo stesso documento precisa anche che “Ciò non significa, naturalmente, che i verbalizzanti possono sindacare il corrispettivo praticato dalle parti in regime di libera contrattazione ma soltanto che il prezzo fatturato e contabilizzato sia quello effettivamente pagato dall'acquirente. A tal riguardo, può essere appurato, ad esempio, se il compratore è in qualche modo collegato all'impresa verificata ovvero legato da vincoli di parentela o affettivi con la controparte, le modalità di pagamento, acquisendo, per quanto possibile, i relativi mezzi (copie di assegni, bonifici, ecc.) - salvo il ricorso agli accertamenti bancari in caso di elementi indiziari "di sospetto" - gli effetti sui rispettivi redditi imponibili … , i tempi della vendita, le motivazioni della stessa come risultanti dagli atti societari, il lasso di tempo intercorso tra l'originario acquisto e la vendita”.Come si vede, entrambi i documenti di prassi rivolgono particolare attenzione alle operazioni che producono minusvalenze o comunque scarse plusvalenze, nonché all’ipotesi in cui tra i contraenti vi siano legami di qualsiasi tipo (di parentela, affettivi, di partecipazione, ecc.). Pare quindi evidente che le vendite che destano maggiore attenzione da parte del Fisco sono da un lato sicuramente quelle con redditività negativa (o comunque bassa) e dall’altro quelle che avvengono tra persone tra cui per qualsiasi motivo è mitigato il naturale conflitto d’interessi che c’è tra acquirente e venditore4.Riguardo la giurisprudenza, si può fare riferimento alla Commissione Tributaria Centrale, sezione VIII, 29 aprile 1981, n. 3636 e 19 maggio 1981 n. 3638 che confermano l’esperibilità di un accertamento relativo all’imposta sul capital gain nei confronti di persone fisiche ai sensi dell’art. 38, comma 3, del DPR 600/73, nonché alla Cassazione, sezione I, sentenza 13 maggio 1983 n. 3306, invece contraria all’applicabilità di tale potere alla cessione di quote. Altri utili riferimenti verranno fatti nel corso della successiva esposizione.

4 - I POTERI DI ACCERTAMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA: CONDIZIONI E LIMITI I motivi della scarsa pratica dell’accertamento ai fini delle imposte dirette sulle cessioni di partecipazioni sono da ricercarsi nella stessa definizione della base imponibile dell’imposta sul capital gain. In effetti, come visto, la normativa fa esplicito riferimento al “corrispettivo percepito”, cioè a quanto effettivamente incassato dal contribuente, quale valore di riferimento da cui sottrarre il costo d’acquisto ai fini della determinazione dell’importo soggetto a tassazione.Posta tale definizione della base imponibile, è evidente l’inapplicabilità del concetto di “valore normale”, così come ad esempio previsto nell’ipotesi di conferimento. Giova ricordare che, per valore normale, si intende quello venale in comune commercio, nel senso che, generalmente, il valore corrisponde al corrispettivo che può essere ordinariamente conseguito con la cessione.Non è nemmeno previsto un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 52 del D.P.R. 131/86 ai fini dell’imposta di registro. In definitiva, dal punto di vista normativo, il valore venale delle partecipazioni cedute non assume rilevanza ai fini dell’imposta sul capital gain, con la conseguenza che il prezzo dichiarato dalle parti diventa un riferimento imprescindibile.Del resto, il legislatore, ove ha inteso attribuire al valore normale una posizione paritaria o

4 Vi è da osservare che la particolare attenzione posta alle cessioni tra parenti dalla prassi ministeriale fa riferimento ad un periodo in cui si ponevano problemi legati all’elusione dell’imposta di successione. Con le riforme susseguitesi nel tempo, tali problematiche si sono notevolmente mitigate. Tuttavia, hanno ripreso vigore dopo la reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni a seguito della Finanziaria 2007. Attualmente, la base imponibile di tale tributo comprende anche quote di partecipazione in società di capitali, con esclusione tuttavia del trasferimento a familiari delle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), c.c.. Nell’ipotesi in cui la partecipazione di controllo posseduta dal dante causa sia frazionata tra più discendenti, l’agevolazione in esame spetta esclusivamente per l’attribuzione che consenta l’acquisizione o integrazione del controllo. Spetta sempre, invece, l’agevolazione per il trasferimento della partecipazione di controllo a favore di più discendenti in comproprietà (articolo 2347 c.c.).

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preminente rispetto a quella del corrispettivo stabilito dalle parti, lo ha fatto in modo esplicito. Si fa riferimento ad alcune ipotesi valide nell’ambito del reddito d’impresa (cessioni gratuite, assegnazioni ai soci, destinazione di beni a finalità estranee all’impresa o all’uso privato dell’imprenditore, compravendite immobiliari), nonché ai redditi fondiari, il cui presupposto prescinde dal conseguimento di un prezzo. Negli altri casi, vale la piena facoltà delle parti di esplicare la propria libertà contrattuale per la definizione del corrispettivo.Da ciò si evince chiaramente che qualora l’Amministrazione Finanziaria ponesse in essere un atto di rettifica fondato esclusivamente sulla stima di un maggior valore di mercato della partecipazione ceduta rispetto al prezzo dichiarato, giungerebbe alla tassazione di una plusvalenza sulla base del valore normale e non dell’importo effettivamente percepito, realizzando di fatto un’alterazione del dettato legislativo. Un tale comportamento sarebbe in conflitto, oltre che con la previsione specifica della norma in questione, anche con il principio generale secondo cui il reddito soggetto a tassazione ai fini delle imposte dirette è quello conseguito dal soggetto passivo nel periodo d’imposta, come indicato dall’art. 1 del T.U.I.R.. L’accertamento di questo tipo sarebbe pertanto totalmente privo di fondamento.Tale considerazione non può tuttavia significare che il valore commerciale delle partecipazioni cedute sia un elemento totalmente privo di rilevanza. Se così fosse, l’Amministrazione Finanziaria non avrebbe praticamente alcuna possibilità di procedere ad un accertamento, salvo il caso, ovviamente, di una prova diretta di un maggior corrispettivo incassato dal contribuente rispetto a quanto dichiarato5.In realtà, la discordanza tra il valore normale ed il prezzo assume rilevanza su due diversi piani. Da un lato perché questa potrebbe costituire un elemento idoneo a mettere in moto l’attività di controllo in ordine alla verità storica degli importi pattuiti. Si richiama a tale scopo quanto già detto in merito alla prassi ministeriale che tratta l’argomento ed alle fonti informative in mano all’Amministrazione Finanziaria. In pratica, la divergenza può essere un elemento discriminante per verificare il maggiore o minore rischio di un “interessamento” da parte degli Uffici all’operazione di cessione quote.Dall’altro lato, tale differenza costituisce uno strumento probatorio che, tra quelli previsti dalla normativa in materia di accertamento, può essere utilizzato per controlli di tipo indiziario e presuntivo.

4.1 - Le possibilità di rettifica su basi presuntiveRiguardo alla possibilità per l’Amministrazione Finanziaria di procedere ad una rettifica su basi presuntive, occorre fare riferimento alle previsioni del già citato art. 38, terzo comma, del D.P.R. 600/73. In effetti, si deve partire dal presupposto che l’accertamento ai fini del capital gain, essendo soggetto alla disciplina delle imposte sui redditi, risulta esperibile in base ai poteri di rettifica nei confronti delle persone fisiche e l’art. 38 citato, nell’ambito di un accertamento di tipo analitico, consente di desumere l’inesattezza dei dati della dichiarazione da presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti6. In questo ambito, l’Ufficio potrebbe sostenere l’esistenza di un maggior imponibile basandosi sulla considerazione che il valore di mercato della partecipazione ceduta è ritenuto più elevato del corrispettivo dichiarato dal contribuente. E’ interessante pertanto verificare in concreto quale potrebbe essere il possibile esito di un accertamento basato su tali presupposti7.A tal fine, non vale sicuramente la pena di addentrarsi nella complessa ed ampiamente discussa

5 Si può inoltre ipotizzare che, pur in presenza di un corrispettivo congruo, una dilazione del pagamento eccessiva possa configurare il caso di una possibile evasione d’imposta, stante la progressività delle imposte sui redditi delle persone fisiche. E’ evidente che con una elevata dilazione, valendo il principio di cassa nell’imposizione, si potrebbe dividere una “congrua” plusvalenza in molte piccole tranche, tali da evitare la sconveniente applicazione di aliquote marginali più alte. L’ipotesi può essere considerata quindi al pari di un prezzo di cessione particolarmente basso.6 Tuttavia, la giurisprudenza non è unanime sull’applicabilità di tale potere alla cessione di quote (a favore: Comm. Trib. Centrale, sezione VIII, 29 aprile 1981, n. 3636 e 19 maggio 1981, n. 3638; contraria: Cass., sezione I, sentenza 13 maggio 1983, n. 3306).

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questione dei requisiti che legittimano la validità delle presunzioni8. E’ tuttavia utile sottolineare che una macroscopica differenza tra corrispettivi dichiarati e valore di mercato può generare un accertamento da parte dell’Amministrazione Finanziaria e che tale accertamento sarà tanto più legittimato, quanto più sarà supportato da altre indicazioni documentali o presuntive gravi, precise e concordanti rispetto alla divergenza riscontrata. Qualora l’unico elemento fornito dall’Ufficio fosse invece la forte differenza tra prezzo e valore, sorgerebbero forti dubbi sulla effettiva possibilità di avvalersi delle previsioni di cui all’art. 38 citato. In effetti, una rettifica operata esclusivamente su tale base potrebbe essere considerata illegittima per due diverse ragioni. Prima di tutto significherebbe che la tassazione del capital gain viene fatta sulla base del valore normale, con conseguente superamento del dettato legislativo, che, come detto, fa invece riferimento al corrispettivo. E’ infatti ovvio che se, per poter giustificare l’accertamento, fosse sufficiente dimostrare un valore di mercato superiore al prezzo applicato, la definizione stessa di base imponibile ai fini del capital gain fornita dal T.U.I.R. verrebbe completamente stravolta.Inoltre, operare una rettifica solo su tale base, senza altri elementi di riscontro, vorrebbe dire che l’Amministrazione Finanziaria pone il proprio sindacato sulla congruità del prezzo di cessione delle quote; e questo equivale a dire che verrebbe intaccata, almeno nei confronti del Fisco, l’autonomia del contribuente circa la scelta delle condizioni di vendita. La questione della sindacabilità da parte degli Uffici delle scelte dei contribuenti in presenza di atti manifestamente antieconomici è già stata affrontata più volte in giurisprudenza, ma sempre relativamente al reddito di impresa. Varie pronunce hanno delineato un orientamento favorevole alla possibilità da parte dell’Amministrazione Finanziaria di disconoscere determinate scelte dell’imprenditore, visto che secondo la Suprema Corte “la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi è insita nei poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale può (...) procedere alla rettifica delle dichiarazioni anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, e negare, in particolare, la deducibilità di parte di un costo, ove questo superi il limite al di là del quale non possa essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno, all’oggetto dell’impresa”9. Trascurando ogni considerazione sulla condivisibilità o meno di tale interpretazione, il principio citato può essere un valido riferimento solo ed esclusivamente per ciò che riguarda i redditi da impresa; ogni estensione ai redditi dichiarati da non imprenditori sarebbe inevitabilmente una forzatura. Si può inoltre utilmente richiamare il principio citato dal Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive, il quale nel parere n. 6 del 10 aprile 2003 afferma che “l’intendimento dei soci di cedere le proprie partecipazioni ad un prezzo pari al costo fiscalmente riconosciuto di per sé non è sindacabile dall’Amministrazione finanziaria in quanto la determinazione del corrispettivo

7 Se la cessione avvenisse nell’ambito dell’attività di impresa, l’Amministrazione Finanziaria potrebbe avvalersi dell’accertamento induttivo ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera c) del D.P.R. 600/73 (in tal senso la sentenza della Corte di Cassazione n. 14448 del 6 novembre 2000 e la n. 7680 del 25 maggio 2002) prospettando una presunzione di “falsità” di un elemento indicato dal contribuente (il corrispettivo). Tale norma prevede infatti, ma solo per i redditi d’impresa, la facoltà di rettificare l’importo dichiarato in ragione di “atti e documenti in possesso dell’Ufficio”, senza la necessità di ricorrere alle presunzioni legali, statuendo di fatto una inversione dell’onere della prova a carico del contribuente il quale verrebbe chiamato a fornire, in sede di giudizio di merito, la sussistenza di particolari condizioni che hanno determinato la cessione del bene o la prestazione del servizio a prezzi inferiori a quelli di mercato.8 In linea generale, la prova del fatto ignoto (in questo caso percezione di un corrispettivo più alto) dovrebbe rappresentare “lo sbocco necessitato e consequenziale, sul piano logico-giuridico, delle premesse indiziarie in fatto, con esclusione di ogni altra soluzione prospettabile, in termini di equivalenza o di alternatività, dovendo il giudizio conclusivo risultare come l’unico possibile alla stregua degli elementi disponibili”. Perché il fatto ignoto possa essere provato occorre che gli indizi siano gravi, nel senso di certi e consistenti, precisi, nel senso che non devono prestarsi a più induzioni possibili, ma devono al contrario essere non equivoci, e concordanti, cioè che puntino tutti nella stessa direzione di suffragare l’esistenza del fatto in questione. Riguardo a quest’ultimo requisito, si precisa che la concordanza non impone necessariamente l’utilizzo di almeno due o più presunzioni, ma piuttosto che se gli indizi sono diversi, questi non contrastino l’un con l’altro; cfr. A. Benazzi, L’utilizzo del modello presuntivo come strumento di prova, in “Corriere Tributario”, n. 42/2001, pag. 3161.9 Cass. 27 settembre 2000 n. 12813. In senso conforme le sentenze 24 luglio 2002 n. 10802 e 14 gennaio 2003 n. 398.

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nell’ambito della libera contrattazione tra le parti risponde ai principi di una piena libertà decisonale”10. Tale giudizio, pur essendo espresso al di fuori delle competenze proprie del Comitato, nega quindi ogni discrezionalità dell’Ufficio sulla congruità o meno del prezzo di vendita delle quote.L’impostazione appare corretta visto che, per principio, la rettifica del reddito dichiarato da un privato deve, salva l’ipotesi di comportamenti elusivi, essere sempre fatta dimostrando l’effettiva percezione di maggiori somme e quindi analiticamente, anche se eventualmente sulla base delle presunzioni di cui all’art. 38, comma 3, D.P.R. 600/73.In termini pratici, si può affermare che, al di là di quanto diremo infra con riferimento all’ipotesi di operazioni potenzialmente elusive e di operazioni gratuite, gli Uffici non hanno possibilità, in assenza di altri elementi di sostegno, di negare la veridicità del prezzo di vendita di partecipazioni per il semplice motivo che questo è incongruo. La macroscopica differenza tra prezzo e valore di mercato potrà valere solo ed esclusivamente quale presunzione; del resto, in presenza di un indizio simile, l’Amministrazione finanziaria ha tutti i poteri, comprese le indagini bancarie, per poter ricercare altri elementi di riscontro alla presunta evasione (eventualmente sotto forma di presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza) e non può esimersi dall’utilizzarli11.

4.2 - Cessioni tra parenti o in favore di una holdingUno dei casi sicuramente più frequenti è quello dell’esistenza di legami di parentela tra cedente e cessionario. Classico è il passaggio di padre in figlio dell’attività aziendale realizzato mediante il trasferimento della titolarietà delle quote di una società di famiglia. In un tale ipotesi, è facile constatare una compravendita a prezzi inferiori rispetto al valore venale delle quote; a volte la cessione può essere addirittura realizzata al valore nominale delle partecipazioni.Altra situazione similare è quella di una cessione di quote in favore di una holding, cioè di una società partecipata dalla stesso soggetto venditore (eventualmente congiuntamente ad altri familiari). La particolarità della fattispecie è rappresentata dall’assenza di un reale “conflitto d’interessi” tra cedente e cessionario, ipotesi questa che, al pari della compravendita tra familiari, condiziona in modo pregnante la formazione del corrispettivo di vendita. La Nota ministeriale sopra descritta osserva che la mancanza del “conflitto d’interessi” sorge dalla circostanza che l’acquirente non ha interesse ad attribuire un valore fiscale di “carico” elevato al bene acquisito, dal momento che l’intenzione non è quella di una rivendita a breve termine12. In realtà, a ben vedere, negli esempi appena fatti la mancanza del conflitto d’interessi dipende, più che dallo scarso interesse dell’acquirente ad avere un elevato valore di carico (circostanza questa che può verificarsi in ben altri casi, soprattutto dopo l’entrata in vigore del regime della partecipation exemption), dal fatto che il venditore non ha un obiettivo contrapposto a quello dell’acquirente, cioè non si propone lo scopo di realizzare un guadagno. Il “trattamento di favore” a vantaggio del compratore pare, almeno da questo punto di vista, giustificabile. Ed è appunto in casi come questi che è richiamabile il principio evocato dal parere 6 del 10 aprile 2003 e cioè la libertà contrattuale tra le parti.Ammesso che la cessione non abbia intenti elusivi e che non si realizzi di fatto una cessione gratuita, ipotesi queste che si analizzeranno in seguito, non sembrano che i rapporti esistenti tra le parti possano essere un elemento di supporto di un eventuale accertamento presuntivo. Semmai, saranno un valido spunto per ulteriori indagini volte ad accertare la presenza di ulteriori prove (anche presuntive) di sottrazione di imponibile, ovvero l’esistenza di intenti elusivi.Autorevole dottrina ha peraltro sottolineato che quando le cessioni apparentemente antieconomiche vengono poste in essere tra parti correlate, o comunque riconducibili a un medesimo centro di

10 Cfr. C.G. Scaldini, Cessione di partecipazioni sociali, rettifica del corrispettivo in “La Settimana Fiscale”, n. 12/2005, pag. 30; L. Gaiani, Cessione di partecipazioni effettuata da privati: sindacabilità del prezzo e normativa antielusione in “Forum Fiscale”, n. 7/8 del 2003, pag. 25.11 Per un’opinione favorevole all’applicazione del valore normale, cfr. articolo di www.fiscooggi.it del 6/2/2008 a firma M. Andriola (“Riassetti aziendali. Quando il fisco può metter bocca”).12 Ovviamente, se non c’è intenzione di rivendere, almeno nel breve, non c’è un interesse da parte dell’acquirente ad avere un valore di costo elevato da detrarre al corrispettivo della cessione.

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imputazione di interessi, la presunzione di occultamento del corrispettivo ne esce indebolita, posto che in questi casi nella fissazione dei prezzi di trasferimento le ordinarie logiche di mercato cedono il passo ad altre motivazioni13.

4.3 - Cessione di quote sociali e norme antielusiveLa cessione di partecipazioni societarie rientra nella casistica delle operazioni potenzialmente elusive prevista dall’art. 37-bis del D.P.R. 600/73, il quale prevede che “sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti” 14.Si parte dal presupposto che la presenza di un corrispettivo basso non può determinare a priori necessariamente un intento elusivo del contribuente, visto che, almeno in linea teorica, l’acquirente, salvo l’applicazione del principio della partecipation exemption, verrebbe “penalizzato” ai fini fiscali da un valore di carico minore. Tuttavia, se la cessione di quote viene inquadrata nell’ambito di una più ampia serie di operazioni, può configurarsi un indebito risparmio fiscale, tale da giustificare una contestazione fatta ai sensi del citato art. 37-bis.La casistica delle operazioni possibili è molto ampia, tuttavia un utile riferimento può venire dalle pronunce del Comitato antielusivo su vari interpelli fatti da contribuenti ai sensi dell’art. 21 della Legge 30 dicembre 1991 n. 413.Si può richiamare il caso risolto con il parere n. 6 del 10 aprile 2003. In breve, due soci persone fisiche intendevano cedere partecipazioni di controllo ad una società da essi interamente posseduta verso un prezzo corrispondente al costo fiscalmente riconosciuto, superiore al valore nominale, ma inferiore sia alla attuale quota di patrimonio netto contabile corrispondente sia al relativo valore di mercato, e con dilazione di pagamento sine die, allo scopo dichiarato di fare acquisire alla società acquirente il controllo dell’altra. Il Comitato ha preliminarmente osservato che “l'intendimento dei soci di cedere le proprie partecipazioni ad un prezzo pari al costo fiscalmente riconosciuto di per sé non è sindacabile dall'Amministrazione Finanziaria in quanto la determinazione del corrispettivo nell'ambito della libera contrattazione tra le parti risponde ai principi di una piena libertà decisionale” e che “la cessione, perfezionabile ad un prezzo non congruo rispetto all'effettivo valore delle azioni, è resa di fatto possibile dalla circostanza che i soci intendono vendere a loro stessi”, così come “la decisione dei cedenti di garantire una dilazione di pagamento sine die alla società debitrice”. Tuttavia, lo stesso Comitato ha considerato l’operazione come elusiva, dal momento che “le ragioni economiche non appaiono del tutto apprezzabili da un punto di vista economico - gestionale poiché il raggiungimento del controllo della società partecipata poteva essere agevolmente conseguito anche tramite patti tra i soci senza procedere alla cessione delle quote” e dal momento che ”finalità ultima dei soci non è tanto quella di percepire un corrispettivo a fronte della consegna di beni, quanto quella di avvalersi della soluzione fiscalmente più vantaggiosa - la mancata emersione di plusvalenze tassabili - con cui conferire alla propria società gli strumenti (le quote di maggioranza) per esercitare a sua volta il controllo ai sensi dell'art. 2359 n. 1 c.c.”. In sostanza, i soci tramite una cessione a valori palesemente inferiori a quelli di mercato avrebbero di fatto realizzato un conferimento di beni in un società (camuffato sotto altra forma), sottraendosi così alla determinazione dell’imponibile sulla base del valore normale, come previsto per tale tipo di operazione. E’ evidente che si potrebbe realizzare un indebito vantaggio tributario identificabile nella mancata emersione di un imponibile tassabile pari alla differenza tra il valore normale ed il prezzo effettivamente praticato.Tale posizione è per taluni aspetti criticabile, dal momento che, sia per il cedente che per il cessionario, la vendita ha caratteristiche e conseguenze ben diverse dal conferimento, e dal 13 Cfr. G. Porcaro, D. Stevanato, Cessione d’azienda e partecipazioni rilevanti, in AA.VV. “La fiscalità delle operazioni straordinarie di impresa”, Milano, 2002, pag. 170.14 L’elusione fiscale si differenzia decisamente dal concetto di simulazione previsto dall’art. 1414, c.c.. Nella fattispecie elusiva le parti vogliono effettivamente porre in essere quella serie di operazioni e non altre, proprio per ottenere, in base a quel negozio o atto, il risparmio d’imposta.

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momento che si potrebbe anche parlare di un legittimo risparmio d’imposta da parte del contribuente. E’ indubbio tuttavia, che le valutazioni fatte dal Comitato sono tutt’altro che infondate e che in sede di contenzioso potrebbero essere accolte dalla commissione tributaria adita.Del resto, ad una conclusione simile la stessa Amministrazione Finanziaria perviene nella risoluzione ministeriale n. 116/E del 9 luglio 2001. Il documento, esaminando un’operazione piuttosto complessa, arriva ancora una volta a riqualificare una cessione di quote come un conferimento, precisando che nel conferimento devono emergere i valori reali, dal momento che non è consentito alle persone fisiche, che agiscono al di fuori del regime di impresa, effettuare conferimenti a valori di libro, in neutralità di imposta. Ne consegue, secondo l’Agenzia, l’assoggettamento a tassazione delle relative plusvalenze.Altri riferimenti importanti in materia di cessione di partecipazioni sociali e antielusione possono venire dal parere n. 25 del 7/12/1999, con la quale si riqualifica un trasferimento di quote in un trasferimento di azienda.In linea generale, occorre osservare che il presupposto di un’eventuale contestazione sulla base dell’art. 37-bis deve essere l’assenza di valide ragioni economiche. Una cessione delle quote a prezzi di mercato o comunque a prezzi ragionevoli rispetto al valore della società ben difficilmente potrebbe essere accusato di mancare di valide ragioni economiche. In questo caso infatti l’Ufficio non potrebbe sostenere che il motivo determinante dell’operazione è rappresentato semplicemente dal risparmio fiscale e non dal prezzo incassato.Ben diverso è invece il caso in cui il corrispettivo viene fissato ad un valore particolarmente basso, cioè ad esempio quando si vende al valore nominale una quota di una società che vanta notevoli plusvalori patrimoniali latenti e/o avviamento. E’ ovvio che una tale ipotesi rende sostenibile la tesi che il contribuente abbia utilizzato lo strumento della cessione di quote soltanto per questioni di convenienza tributaria.

4.4 – Cessione gratuita di partecipazioni socialiQualora la vendita fosse fatta ad un prezzo per così dire “simbolico”, potrebbe configurarsi l’ipotesi di considerare la cessione un semplice atto a titolo gratuito. Verrebbe infatti a mancare del tutto la corrispettività delle prestazioni15.Le conseguenze potrebbero essere di due tipi. Una prima, la principale, è legata all’imposta di donazione, reintrodotta dalla L. 286/2006. Secondariamente, il rischio che si corre nell’ipotizzare l’operazione come gratuita, è quello di incappare nella disposizione antielusiva prevista dall’art. 16, comma 1, della L. 383 del 18/10/2001, per la quale ogni trasferimento a titolo di donazione o altra liberalità tra vivi di beni o diritti assoggettati al pagamento dell’imposta sostitutiva sui capital gain (ex art. 5, D. Lgs. 21/11/1997 n. 416), se seguito da un ulteriore trasferimento degli stessi beni o diritti in un arco di tempo di cinque anni, comporta ai fini fiscali una riqualificazione dell’atto originario con la conseguenza che lo stesso si intende come non effettuato. Ne consegue che il beneficiario è tenuto al pagamento dell’imposta sostitutiva come se la donazione non fosse stata fatta, con diritto allo scomputo dell’imposta sostitutiva eventualmente versata ai sensi dell’art. 13, comma 2, L. 383 del 18/10/2001. La norma ha evidente carattere antielusivo, essendo finalizzata ad impedire che, attraverso donazioni strumentali al frazionamento tra più donatari di una partecipazione qualificata, sia successivamente possibile procedere alla cessione delle singole quote come partecipazioni non qualificate, assoggettandole all’imposta sostitutiva del 12,5%.In ogni caso, le ipotesi sopra descritte dovrebbero riguardare casi assolutamente eclatanti e comunque marginali, in cui l’Ufficio competente rileva un prezzo di cessione oggettivamente irrisorio16.

15 Cfr. R. Lupi, Il passaggio generazionale dell’impresa tra imposte sui redditi e imposte sui trasferimenti in “Il Fisco”, n. 11/1995, pag. 1759.16 Cfr. N. Lanteri, Cessioni di partecipazioni sociali ed elusioni fiscali in “Il Fisco”, n. 34/1987, pag. 5334.

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4.5 – Elementi probatori a favore del contribuenteVale la pena considerare la necessità per il contribuente di fornire giustificazioni in merito alla correttezza del prezzo di vendita per difendersi da un accertamento ai sensi dell’art. 38, per aver l’Ufficio fornito più prove indiziarie dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richieste. Qui la casistica è ampissima ed è ovviamente legata al caso reale; in linea generale, considerando piccole realtà sociali, non è difficile verificare che il prezzo di vendita può essere condizionato, in senso negativo, dalla rigidità del vincolo societario o dalla “soggettività” dell’avviamento, spesso legato alla presenza ed all’opera di uno più soci. In effetti, spesso l’opera e le capacità dei soci uscenti rappresentano di fatto il vero avviamento che, così rappresentato, non può ovviamente essere trasmesso ai subentranti. Tale circostanza fa sì che il “goodwill” entri solo in parte nella determinazione del prezzo di vendita.Non di meno devono essere considerati eventuali “sconti” per la cessione di quote di minoranza, tenendo così conto della posizione di preminenza di altri soggetti. Allo stesso modo possono assumere rilievo dissidi personali tra i soci, di entità tale da indurre uno o più di loro a svendere le quote pur di uscire dalla compagine sociale.Può assumere rilevanza anche la volontà della parte cedente di disfarsi di una partecipazione a qualsiasi prezzo per questioni di tipo strettamente personale (età avanzata, situazione finanziaria difficile, etc.). Come si vede, le giustificazioni possono essere le più disparate. Ovviamente per poter assumere rilievo in un eventuale contenzioso dovranno essere adeguatamente supportate da elementi di riprova che siano di sostegno a quanto affermato.

5 - CONCLUSIONI In definitiva, da quanto sopra detto, risulta evidente che l’Amministrazione Finanziaria è dotata di ben scarsi poteri per accertare, in assenza di prove dirette, un maggior reddito da capital gain; ne è del resto conferma la scarsa pratica di tale forma di accertamento. Il semplice scostamento tra prezzo praticato e valore normale non può costituire l’unica giustificazione di un provvedimento del Fisco, dal momento che verrebbe altrimenti intaccato il dettato letterale del TUIR che determina la plusvalenza sulla base degli importi percepiti e non del valore corrente di mercato. Del resto gli uffici non hanno il potere di “intervenire” sull’autonomia negozionale delle parti, contestando la non economicità di un comportamento del contribuente.Tuttavia, tali circostanze non determinano in assoluto l’assenza di rischi di subire una rettifica per chi intende porre in essere un’operazione di cessione di partecipazioni sociali. In effetti:- non bisogna sottovalutare le fonti informative a disposizione degli uffici, le quali possono

evidenziare situazioni di particolare rischiosità e mettere in moto l’attività accertativa del Fisco;- un eccessivo scostamento tra valore della partecipazione e corrispettivo praticato, se da un lato

non è motivo di per sé di un accertamento, può tuttavia rendere quantomeno plausibile il ricorso alla normativa antielusiva. Un prezzo basso può far venire meno le “valide ragioni economiche” indicate nell’art. 37-bis del DPR 600/73;

- c’è il rischio, sia pur in casi marginali, di una riqualificazione dell’operazione come una donazione, con ricadute in termini di imposta di successione.

In conclusione, ben difficilmente eventuali contestazioni potrebbero essere sostenibili nel caso in cui il prezzo di vendita fosse congruo o, se ridotto rispetto ai prezzo di mercato, comunque giustificabile nella sua entità da elementi oggettivamente riscontrabili. Ben diversa sarebbe invece la situazione in cui si evidenziasse un corrispettivo ingiustificatamente basso. In tale caso, la discordanza tra prezzo e valore potrebbe essere associata ad altre prove indiziarie raccolte dall’Ufficio, giustificando così un accertamento ex art. 38 DPR 600/73. E l’Amministrazione Finanziaria avrebbe del resto ampi poteri per raccogliere informazioni, anche alla luce dell’ampliamento di poteri di indagine a cui si è assistito di recente. Inoltre, la stessa discordanza potrebbe essere inserito in un contesto più ampio, consentendo un accertamento basato

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sull’applicazione della norma antielusiva.

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