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RASSEGNA STAMPA di venerdì 24 aprile 2015 SOMMARIO “Giovanni Lo Porto è morto quattro volte - scrive Beppe Severgnini sulla prima pagina del Corriere di oggi -. Quando è stato rapito, quando è stato dimenticato, quando è stato colpito, quando la notizia della sua uccisione è stata nascosta. Per quattro mesi, non per quarantotto ore in attesa di verifiche. La pubblica ammissione del presidente Obama - straordinaria per il contenuto, irrituale per il tono - tempera, in parte, l’amarezza? Forse. Ma non cancella l’orrore né lo stupore. Guido Olimpio e Paolo Valentino, sul Corriere, spiegano cosa è probabilmente accaduto. L’operazione è stata condotta dai droni e si è basata sulle informazioni raccolte nell’area tribale pachistana. Secondo la ricostruzione ufficiale, l’intelligence Usa non ha mai saputo della presenza degli ostaggi nell’edificio usato dai qaedisti. Mancanza di informazioni: è accaduto altre volte in Afghanistan, in Yemen e in Pakistan. E così due innocenti sono stati spazzati via, insieme ai loro aguzzini. Lo sappiamo, ma è bene ricordarlo. In molte parti del mondo l’altruismo è diventato un rischio letale. Fare il proprio mestiere, una provocazione inaccettabile, per gli umanoidi del terrore. E quando la morte arriva, non siamo più capaci di ammetterla, di raccontarla, di onorarla. Ci sono voluti centoventi giorni per sapere che il 38enne italiano era stato ucciso dai droni, insieme a un ostaggio americano, Warren Weinstein. Ma questa è, davvero, solo una delle morti di un giovane siciliano generoso. Il suo rapimento è avvenuto tre anni fa. Se ne è parlato, certo, c’è stata una campagna per liberarlo. L’unità di crisi della Farnesina ha fatto il possibile ed è stata vicina alla famiglia. I giornali, compreso il Corriere, si sono occupati del caso. Ma diciamo la verità: quanti conoscevano il nome e la storia di Giovanni Lo Porto? Quanti hanno speso un pensiero, due parole in pubblico, una ricerca su Google? Volontari, cooperanti, anche giornalisti: fino all’avvento di Al Qaeda e Isis, tutti costoro hanno goduto di una condizione ufficiosa di neutralità, anche nei conflitti più cruenti. Oggi, dall’Afghanistan all’Atlantico, sono diventati bersagli. Perché l’orrore dei nuovi mostri islamisti è anche vigliacco: se la prende con chi non può - anzi, non vuole - difendersi. E diventa così un obiettivo: remunerativo, vulnerabile, facile. L’elenco è lungo e tocca molti Paesi. Alcuni tra i nostri connazionali sono tornati, come Domenico Quirico, Greta e Vanessa, Rossella Urru. Altri, come Giovanni Lo Porto, non torneranno. Smettiamola di dire - o di pensare, e non è meno grave - che queste persone «se la sono andata a cercare». Non è vero. Cercavano di vivere dignitosamente, non di morire malamente. Conoscevano i rischi, certo. Giovanni Lo Porto non aveva bisogno delle attenuanti dell’incoscienza o dell’entusiasmo, come le due ragazze lombarde liberate in gennaio. Era un professionista del settore: aveva alle spalle missioni in Centroafrica, Haiti, Pakistan. Un professionista che ha pagato per il suo servizio agli altri. Ed è stato ucciso. Ucciso - ripetiamolo - più volte: dalla ferocia disumana dei rapitori, dalla nostra distrazione, da una bomba dal cielo, dal segreto militare. Un’assurdità progressiva, un orrore a puntate. Il riassunto di anni forsennati che ancora non capiamo del tutto. Forse è meglio così: ci farebbero troppa paura” (a.p.) Sarà il cardinale Pietro Parolin - Segretario di Stato vaticano (e veneto di origine, precisamente della provincia di Vicenza) - a presiedere sabato 25 aprile p.v. il solenne pontificale in programma, alle ore 10.00, nella basilica cattedrale di S. Marco a Venezia, alla presenza dei fedeli e delle autorità civili e militari della comunità lagunare. Concelebrerà il Patriarca Francesco Moraglia. Sabato 25 aprile ricorre, infatti, la festa di san Marco - l’evangelista patrono di Venezia e delle genti venete i cui resti del corpo sono custoditi nella cripta della stessa basilica marciana - particolarmente sentita in città e nei territori vicini. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle ore 17.30 e sempre a S. Marco, ci saranno i Vespri solenni presieduti dal Patriarca Francesco.

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 24 aprile 2015

SOMMARIO

“Giovanni Lo Porto è morto quattro volte - scrive Beppe Severgnini sulla prima pagina del Corriere di oggi -. Quando è stato rapito, quando è stato dimenticato, quando è

stato colpito, quando la notizia della sua uccisione è stata nascosta. Per quattro mesi, non per quarantotto ore in attesa di verifiche. La pubblica ammissione del presidente

Obama - straordinaria per il contenuto, irrituale per il tono - tempera, in parte, l’amarezza? Forse. Ma non cancella l’orrore né lo stupore. Guido Olimpio e Paolo

Valentino, sul Corriere, spiegano cosa è probabilmente accaduto. L’operazione è stata condotta dai droni e si è basata sulle informazioni raccolte nell’area tribale

pachistana. Secondo la ricostruzione ufficiale, l’intelligence Usa non ha mai saputo della presenza degli ostaggi nell’edificio usato dai qaedisti. Mancanza di informazioni:

è accaduto altre volte in Afghanistan, in Yemen e in Pakistan. E così due innocenti sono stati spazzati via, insieme ai loro aguzzini. Lo sappiamo, ma è bene ricordarlo. In

molte parti del mondo l’altruismo è diventato un rischio letale. Fare il proprio mestiere, una provocazione inaccettabile, per gli umanoidi del terrore. E quando la

morte arriva, non siamo più capaci di ammetterla, di raccontarla, di onorarla. Ci sono voluti centoventi giorni per sapere che il 38enne italiano era stato ucciso dai droni, insieme a un ostaggio americano, Warren Weinstein. Ma questa è, davvero, solo una delle morti di un giovane siciliano generoso. Il suo rapimento è avvenuto tre anni fa.

Se ne è parlato, certo, c’è stata una campagna per liberarlo. L’unità di crisi della Farnesina ha fatto il possibile ed è stata vicina alla famiglia. I giornali, compreso il

Corriere, si sono occupati del caso. Ma diciamo la verità: quanti conoscevano il nome e la storia di Giovanni Lo Porto? Quanti hanno speso un pensiero, due parole in pubblico, una ricerca su Google? Volontari, cooperanti, anche giornalisti: fino

all’avvento di Al Qaeda e Isis, tutti costoro hanno goduto di una condizione ufficiosa di neutralità, anche nei conflitti più cruenti. Oggi, dall’Afghanistan all’Atlantico, sono diventati bersagli. Perché l’orrore dei nuovi mostri islamisti è anche vigliacco: se la prende con chi non può - anzi, non vuole - difendersi. E diventa così un obiettivo: remunerativo, vulnerabile, facile. L’elenco è lungo e tocca molti Paesi. Alcuni tra i nostri connazionali sono tornati, come Domenico Quirico, Greta e Vanessa, Rossella

Urru. Altri, come Giovanni Lo Porto, non torneranno. Smettiamola di dire - o di pensare, e non è meno grave - che queste persone «se la sono andata a cercare». Non è vero. Cercavano di vivere dignitosamente, non di morire malamente. Conoscevano i rischi, certo. Giovanni Lo Porto non aveva bisogno delle attenuanti dell’incoscienza o

dell’entusiasmo, come le due ragazze lombarde liberate in gennaio. Era un professionista del settore: aveva alle spalle missioni in Centroafrica, Haiti, Pakistan.

Un professionista che ha pagato per il suo servizio agli altri. Ed è stato ucciso. Ucciso - ripetiamolo - più volte: dalla ferocia disumana dei rapitori, dalla nostra distrazione, da una bomba dal cielo, dal segreto militare. Un’assurdità progressiva, un orrore a puntate. Il riassunto di anni forsennati che ancora non capiamo del tutto. Forse è

meglio così: ci farebbero troppa paura” (a.p.)

Sarà il cardinale Pietro Parolin - Segretario di Stato vaticano (e veneto di origine, precisamente della provincia di Vicenza) - a presiedere sabato 25 aprile p.v. il solenne pontificale in programma, alle ore 10.00, nella basilica cattedrale di S. Marco a Venezia, alla presenza dei fedeli e delle autorità civili e militari della

comunità lagunare. Concelebrerà il Patriarca Francesco Moraglia. Sabato 25 aprile ricorre, infatti, la festa di san Marco - l’evangelista patrono di Venezia e delle genti venete i cui resti del corpo sono custoditi nella cripta della stessa basilica marciana - particolarmente sentita in città e nei territori vicini. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle ore 17.30 e sempre a S. Marco, ci saranno i Vespri solenni presieduti dal

Patriarca Francesco.

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3 – VITA DELLA CHIESA WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Sinodo. Una lettera quasi dalla fine del mondo di Sandro Magister Questa volta dall'Australia e da Papua Nuova Guinea: "Padre Santo, non si limiti ad ascoltare ma dica anche lei cosa pensa, in aula e fuori. E poi decida" IL GAZZETTINO Pag 28 A tavola con la Bibbia e le ricette dei “Padri” di Claudio De Min Quattro piatti poveri da preparare per ritagliarsi “Un attimo di pace”. Un pasto completo 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Famiglia, quell’impegno ancora senza seguito di Francesco Riccardi Un anno fa la risposta del premier Renzi a un lettore CORRIERE DELLA SERA Pag 24 “Famiglia a pezzi”. “No, aiuta”. Cattolici divisi sul divorzio breve di Riccardo Bruno e Mauro Magatti La Cei: “E’ un incivile traguardo”. Il nodo delle tutele per i figli. Libertà di scelta e meno vincoli sociali (ma più solitudine) CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Paritarie, regole da cambiare di Piero Formica I fondi alle scuole non statali 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 22 La bimba triste di Gloria Bertasi La foto nei giorni della Liberazione a Venezia. Maria aveva 6 anni e per la prima volta racconta: “Piangevo per mio papà, ucciso perché partigiano” CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Prima offerta di case per i profughi. Ira Lega: intasa i centralini del prefetto di Alice D’Este e Mauro Zanutto Le storie di Faustin e Dominic Pag 13 Aquae, l’oasi verde dell’Expo si raggiunge tra sporco e caos di Francesco Bottazzo Il padiglione ospiterà concerti e sport, ma ora manca ancora il vaporetto IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV San Marco, Tesserin è il Primo procuratore di Paolo Navarro Dina Ieri il Patriarca ha incontrato i componenti dell’istituzione. La nomina del ministro Alfano. Procuratoria, ente antico dedicato alla gestione e alla tutela della Basilica Pag V Abusivo in fuga, anziana travolta di Gianpaolo Bonzio San Marco, ennesimo episodio in Piazza. Insegnante 80enne in pensione batte la testa Pag VI Venezia “cattura” la metà dei turisti di tutto il Veneto di Tomaso Borzomi Dal 2007 settore in crescita. E ora tocca all’Expo Pag XI Ex Umberto I, chiesa agli ortodossi Domenica la consegna 8 – VENETO / NORDEST

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CORRIERE DEL VENETO Pag 9 I turisti lasciano in Veneto cinque miliardi di Elisa Lorenzini Settore di nuovo in crescita 10 – GENTE VENETA Tutti gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 16 di Gente Veneta in uscita

sabato 25 aprile 2015:

Pag 1 Profughi, navi dei paesi Ue per salvarli e accoglierli di Serena Spinazzi Lucchesi Pagg 1, 4 – 5 La gioia dei 2500 invade Assisi Il pellegrinaggio delle medie nella città umbra, insieme al Patriarca: «Rischiate di vivere la fede». I ragazzi veneziani come un affresco vivente di Francesco Pag 3 Patriarca, rabbino e imam insieme per un’ecologia umana di Carlotta Venuda Lunedì scorso, presso la Scuola Grande di San Rocco, il “trialogo” promosso dall’associazione Venezia Pesce di Pace. Moraglia: «L’uomo ha ricevuto il Creato in prestito, lo deve custodire. Noi credenti possiamo offrire una realtà diversa dal pensiero funzionale e individualista» Pag 6 Paritarie, risorsa preziosa che si rischia di disperdere di Luigi Marcadella Il grido d’allarme al Convegno regionale promosso a Vicenza dalla Fism Veneto. La Regione sblocca 21 milioni di euro (ma ne mancano altrettanti) Pagg 8 - 9 Reni, killer silenziosi che colpiscono con l’età di Chiara Semenzato Scomparse alcune malattie, grazie al benessere, oggi è però in aumento l’insufficienza renale: ne soffre un paziente su 10. La dialisi è una condanna ma oggi si può fare a casa. Ottava Giornata della Salute, promossa da Ulss 12 e Gente Veneta: ancora una volta si punta sulla prevenzione, adottando uno stile di vita sano Pag 13 Missioni, Venezia resta in prima linea Il Patriarcato si è reso disponibile a rinnovare o aggiornare le convenzioni triennali già in atto con le diocesi del Kenya e del Brasile. Mons. Moraglia annuncia un viaggio a Ol Moran a luglio Pag 14 L’Opera di S. Dorotea compie 200 anni e festeggia: «Il carisma è ancora attuale: è “prendersi cura di”» di Giorgio Malavasi Sabato 18 aprile è stato festeggiato l’anniversario nella casa madre delle suore di S. Dorotea, a Cannaregio: «Vogliamo incendiare l’altro con l’amore» Pag 16 Profughi al Lido: «L’accoglienza ben fatta è la strategia migliore» di Giorgio Malavasi Gran parte dei 35 stranieri trasferiti dalla Colonia Morosini alla terraferma, gli ultimi li seguiranno a breve. Silvia Tonicello (coop. Il Lievito): «Seguirli con personale competente e la generosità di molti volontari significa anche capire chi ha davvero bisogno di protezione e aiuto e chi non ne ha diritto». La proposta: «Ogni parrocchia ospiti un profugo, è la soluzione adeguata» Pag 18 Voti perpetui per suor Asma: «In Gesù è la mia felicità» di Francesca Catalano Domenica, ai Ss. Giovanni e Paolo, la professione perpetua con il Patriarca Pagg 26 – 27 Erosione. Non c’è una ricetta ma più azioni di Pierpaolo Biral E’ una costante del nostro litorale: le mareggiate invernali si “mangiano” la spiaggia. E prima che inizi la stagione estiva occorre riversare quintali di sabbia per ripristinare

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l’arenile. Le cause sono molteplici, ma la soluzione definitiva non esiste. Ci sono più azioni da mettere in campo. Tenendo conto che gli equilibri sono molto delicati... … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Morire quattro volte di Beppe Severgnini Pag 1 Cent’anni dopo, il coraggio della memoria. E del dialogo di Andrea Riccardi Pag 1 Migranti, il segnale atteso che è arrivato a metà di Franco Venturini Pag 2 Quel raid una notte d’inverno, l’errore dell’intelligence Usa di Guido Olimpio e Paolo Valentino LA REPUBBLICA Pag 1 Mattarella: il 25 aprile patrimonio di tutto il Paese di Ezio Mauro LA STAMPA Bruxelles resta ostaggio dei nazionalismi di Stefano Lepri AVVENIRE Pag 1 Grazie Giancarlo di Marco Tarquinio La morte sbagliata di un uomo giusto Pag 3 Non profit e politica distinti. Così la lezione americana di Gian Paolo Barbetta La delega sul terzo settore e l’esempio delle regole Usa Pag 6 Il musulmano che ha scelto di morire con i cristiani di Giorgio Bernardelli IL FOGLIO Pag 1 Corano a catechismo di Matteo Matzuzzi “Basta girare attorno ai problemi. Ci perseguitano perché siamo cristiani”, dice un vescovo keniota IL GAZZETTINO Pag 1 Le risposte non date dall’alleato di Paolo Graldi LA NUOVA Pag 1 Prevalgono gli egoismi nazionali di Giancesare Flesca Pag 1 Due genocidi, il ricordo e il monito di Vincenzo Milanesi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Sinodo. Una lettera quasi dalla fine del mondo di Sandro Magister Questa volta dall'Australia e da Papua Nuova Guinea: "Padre Santo, non si limiti ad ascoltare ma dica anche lei cosa pensa, in aula e fuori. E poi decida" Le procedure e il loro controllo sono fattori chiave per indirizzare un sinodo. Lo si è visto nella prima delle due sessioni del sinodo sulla famiglia, lo scorso ottobre. Ad esempio, diversamente da come si era fatto nei sinodi precedenti, nell'assise dello scorso ottobre gli interventi dei padri in aula non furono resi pubblici. Ogni giorno venivano forniti dalla

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sala stampa vaticana soltanto l'elenco degli intervenuti e un riassunto dei temi toccati, ma senza mai dire chi aveva detto cosa. Molti padri sinodali protestarono contro quella che ritenevano una censura. Ma inutilmente. Papa Francesco in persona aveva deciso così. E ha mantenuto ferma tale decisione anche per la prossima e conclusiva sessione del sinodo, spiegandone i motivi nell'intervista dello scorso 13 marzo alla vaticanista Valentina Alazraki, per la rete messicana Televisa: "Un sinodo senza libertà non è un sinodo. È una conferenza. Invece il sinodo è uno spazio protetto nel quale possa operare lo Spirito Santo. E per questo le persone devono essere libere. Per questo mi oppongo a che siano pubblicate le cose che ognuno dice con nome e cognome. No, non si sappia chi lo ha detto. Non ho problemi che si sappia quello che si è detto, ma non chi lo ha detto, in maniera che si senta libero di dire ciò che vuole". Ciò non toglie che la macchina del sinodo non è intoccabile e da qui a ottobre può essere ancora modificata. Lo stesso Francesco ne ha auspicato una migliore funzionalità, alla luce del principio della collegialità episcopale "cum Petro e sub Petro". Ed è ciò che suggerisce il teologo australiano Paul A. McGavin, in trasferta in Papua Nuova Guinea, nella lettera aperta al papa pubblicata qui di seguito. PENSIERI PER IL PROSSIMO SINODO ORDINARIO - Lettera aperta a papa Francesco di

Paul A. McGavin

Caro Santo Padre, sono stato turbato dalla modalità e dalla mentalità della resistenza che lei ha dovuto affrontare nel suo desiderio di dialogare sul cammino della Chiesa nella nostra epoca presente. Quali che siano le riserve su aspetti della sua maniera di governare, capisco che nella divina Provvidenza è lei il papa in questo frangente della storia sacra di cui Dio è l'autore. Questo mi induce a scriverle con franchezza riguardo al prossimo sinodo ordinario. Reattività psicologica - A mio avviso, un problema cruciale delle reazioni al sinodo straordinario è stata la psicologia di quelle persone che non accettano di leggere o ascoltare pacificamente ciò che è effettivamente detto o scritto. Quando vedo reazioni vendicative nella blogosfera e la veemenza dei pronunciamenti di alcune conferenze, mi rendo conto che abbiamo a che fare con una reattività psicologica che fa temere. Il solo parlare di "comunione ai divorziati risposati" diventa aprire le porte alle unioni omosessuali, aprire le porte alle ordinazioni femminili, aprire le porte a tutti i tipi di confusione e relativismo che pervadono la nostra epoca. Troppo spesso si nota una incapacità psicologica di impegnarsi in discussioni serene su tali questioni difficili, dimostrata in espressioni come “bisogna togliere questo dal tavolo di discussione”. Nel dispiegarsi delle questioni controverse, nel corso degli ultimi due anni, la sua tendenza è stata quella di asserire più che di spiegare, e tanto meno di dialogare. In modo particolare questo problema si è espresso nel sinodo straordinario. Le parole d'ordine di dialogo e sinodalità sono state utilizzate, ma lei, Santo Padre, ha più ascoltato che dialogato, e nel tirare le somme lei ha asserito e basta. Per quanto riguarda la questione intricata del divorzio, del nuovo matrimonio e della comunione sacramentale, per me è sensato dire che "non è sufficiente considerare il problema solo dal punto di vista e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione sacramentale”. A mio avviso, abbiamo bisogno di un pensiero e di un ragionamento globali, entro l'eredità complessiva e l'autorità della Chiesa. Evidentemente altri non pensano così, e vogliono chiudere ogni discussione. Ci sono molti – tra cui molti vescovi – che non capiscono il senso di questa sua conclusione: "Nessun intervento [sinodale] ha messo in discussione le verità fondamentali del sacramento del matrimonio". Forse lei, in maniera gesuitica e in forma magisteriale, pensa di dover soprattutto ascoltare, e poi decidere, e anche decidere in un modo ponderato ciò che altri potrebbero vedere come un "compromesso". Ma così andrebbe perduto ciò che lei, e forse lei solo, potrebbe contribuire a dare. La esorto, quindi, a dialogare e a ragionare di più con i suoi interlocutori, per tentare di spiegare come la Chiesa può rimanere fedele alla istituzione fondamentale del matrimonio e insieme rimanere fedele al ministero della riconciliazione ricevuto da Cristo. Un cambiamento nel processo sinodale - Per ottenere questo occorre ragionare e conversare, e ciò richiede un cambiamento radicale nei processi sinodali. In breve, discutere con i responsabili dell'organizzazione del prossimo sinodo ordinario su come il processo può essere sostanzialmente cambiato ai fini di un processo di dialogo e di

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apprendimento. Suggerisco che un cambiamento cruciale sarebbe quello di eliminare gli "interventi di 10 minuti" che inducono a fare dichiarazioni secche e combattive. Invece, i vescovi dovrebbero prima riunirsi in gruppi – e non in gruppi nazionali o linguistici. Si reclutino bravi interpreti, in modo che i vescovi possano sedersi in varie sale del Palazzo Apostolico e dialogare, in modo da effettivamente ascoltarsi l'un l'altro e cercare di trovare punti di incontro tra le diverse percezioni e i modi diversi di fedeltà a ciò che la Chiesa ha ricevuto e alle sfide del mondo a cui e in cui la Chiesa annuncia il Vangelo e serve con l'amore e la misericordia di Dio. Poi ogni gruppo elegga un vescovo che abbia il compito di rappresentare correttamente davanti a una sessione plenaria il consenso o la mancanza di consenso all'interno del suo gruppo, con forse una mezz'ora di tempo per parlare. All'interno di questo processo, lei dovrebbe aggirarsi senza preavviso tra i diversi gruppi, non solo ascoltando, ma anche contribuendo al dialogo. E anche nella seduta plenaria, nei momenti di dialogo, dovrebbe esplicitare quelle che lei pensa siano risposte motivate alle posizioni espresse – anche con la possibilità che si interloquisca direttamente con ciò che lei ritiene di dire. Naturalmente questo ha i suoi rischi, tra cui interessate "fughe" di stampa. Se non a un parlamento, questo può sembrare pericolosamente simile a un comitato di comando, piuttosto che all'autorità magisteriale. Ma ciò che può "sembrare" e ciò che "è" sono due cose diverse. Non mi piace “il voto a maggioranza" in materia di dottrina. Credo che nella Chiesa dovrebbe valere il "sembrava buono al Spirito Santo e a noi" di Atti 15, 28 e il papa nel guidare e nel confermare i fratelli dovrebbe immettere questi criteri nella sua esortazione post-sinodale. Ciò non garantisce che tutti saranno d'accordo con quella esortazione. Ma fa crescere notevolmente la probabilità che ciò che scriverà il papa troverà risonanza in più vescovi e fedeli, e offrirà uno strumento grazie al quale la Chiesa nel suo insieme potrà rimanere fedele all’affidamento ricevuto dal Signore e comunicare meglio la sua missione in un mondo disperato e confuso. Non credo che questo accada quando i vescovi parlano in “estratti di 10 minuti" e decidono con voto numerico. A me questo sembra non ecclesiale. Conversazioni teologiche - Mi sembra che il suo indirizzare a un modello più ecclesiale potrebbe essere agevolato da conversazioni – preferibilmente nel Palazzo Apostolico, e lontano dagli occhi di Casa Santa Marta – nelle quali lei potrebbe sedersi e anche pranzare con gruppi di teologi provenienti da ambienti adeguati e diversi. Intendo con ciò che tali conversazioni dovrebbero avere una modalità differente rispetto a quelle che si hanno con il prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Vostra Santità è abbastanza a suo agio con un discorso "compatto", ma potrebbe anche beneficiare di affinamenti e potature impegnandosi in un discorso teologico più specificamente intellettuale. Dicendo così, non sto proponendo una "teologia da scrivania”, poiché sono pienamente d'accordo con il suo istinto per una ben fondata teologia pratica. Io propongo che tali conversazioni consentano di affinare quello che lei dice in forma più nitida e precisa, nel quadro di una più ampia comunicazione come papa e dei suoi contatti con i padri sinodali. Conversazioni psicologiche - Ho una proposta di conversazioni ancora più sorprendenti per aiutare il suo impegno nelle conversazioni sinodali. Penso che si potrebbero anche invitare psicologi di ambienti adeguati e diversi alle conversazioni riservate e ai pranzi nel Palazzo Apostolico. Perché? Perché, come noto la resistenza al dialogo da lei proposto, noto anche delle prese di posizione che sono psicologiche e/o epistemologiche prima che teologiche. Noto questo nel modo di reagire che procede da una epistemologia ristretta, che comprende soltanto delle letture lineari e a senso unico delle parole del Signore e della loro accoglienza nella Chiesa. Le convinzioni che si esprimono in questo modo spesso ci dicono di più sulle preferenze psicologiche dei loro autori che su quello che la Chiesa ha ricevuto dal Signore. Non c'è dubbio che tali inquadramenti psicologici e umanistici suonerebbero offensivi per alcuni. Eppure c'è una tendenza umana costante a far sì che la religione si pieghi ai nostri bisogni. Sulla base di osservazioni che lei fa di tanto in tanto, penso di aver compreso che la religione dei farisei, come raffigurata nel Nuovo Testamento, non procede innanzitutto dal loro patrimonio religioso. I farisei sono una tipologia che si registra in tutte le religioni, e questa tipologia definisce la religione in base alle osservanze, e strettamente delimita tali osservanze, e legittima le osservanze come "giustizia". È difficile rinvenire la religione farisaica nella presentazione che i Vangeli fanno di Nostro Signore. Al contrario,

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Gesù si trova in conflitto e in contrasto con questo tipo di osservanza religiosa. E dalle Scritture è chiaro che la Chiesa primitiva si trovò in difficoltà e in conflitto nel lottare con questa tendenza umana. Approfondimenti psicologici in un contesto sinodale possono aiutare a parlare in un modo che permetta di essere "ascoltati" con apertura e a portare avanti conversazioni che altrimenti si chiuderebbero. Ricerca di un consenso teologico condiviso - Scrivendo così, semplifico notevolmente, perché le configurazioni psicologiche e teologiche nella presente discordia sono complesse. Per dirla senza mezzi termini, le personalità intuitive come la sua hanno difficoltà a comprendere le personalità non intuitive, e viceversa. Guardare i problemi in termini di: "Come pensa questa persona, o come pensano queste persone?" aiuta la comprensione delle epistemologie che vengono selezionate per sostenere le preferenze personali. Queste diverse preferenze nel modo di comprendere (epistemologie) portano anche a diversi modi di fare teologia (teologie). Lei, Santo Padre, non riuscirà ad attrarre i neo-neo-scolastici al suo modo di pensare. Né riuscirà ad attrarre i modernisti e relativisti agguerriti. Ma capire meglio i diversi modi altrui di pensare le permetterebbe di spiegare il modo di pensare che è suo, come è espresso nei suoi discorsi teologici e nei suoi impegni sinodali. In breve, l'osservazione psicologica profonda può contribuire a generare un dialogo che può portare a un consenso teologico condiviso durante il processo sinodale. Ho detto "può portare", non "porterà". Nostro Signore era molto acuto psicologicamente, ma i Vangeli non indicano sempre esiti non-conflittuali. I Vangeli mostrano anche che Gesù non riusciva a capire perché i suoi interlocutori non lo capissero: "Sei un maestro di Israele, e non capisci queste cose?” (Gv 3, 10); "Filippo, sono stato con te tutto questo tempo, e tu non mi hai conosciuto?" (Gv 14, 9). Io però credo che Vostra Santità acquisterebbe nuove conoscenze di ampio respiro grazie a degli incontri periodici, colloquiali e confidenziali, con un gruppo variegato di teologi e con un gruppo variegato di psicologi per esplorare i loro punti di vista sulle configurazioni teologiche e psicologiche già incontrate nel processo sinodale. IL GAZZETTINO Pag 28 A tavola con la Bibbia e le ricette dei “Padri” di Claudio De Min Quattro piatti poveri da preparare per ritagliarsi “Un attimo di pace”. Un pasto completo La cucina bella, buona, etica, persino povera eppure lo stesso gustosa, anche con pochi e semplici ingredienti, quelli che avevamo a disposizione quando non esistevano le primizie né la spasmodica ricerca del prodotto esotico o di nicchia, e Slow Food, con i suoi valorosi presidi, era di là da venire e certe mode anche. Ma anche l’occasione per approfondire il legame con le vicende bibliche che descrivono spesso il cibo come veicolo di altri e più profondi messaggi che non siano quelli, più scontati, del piacere e del nutrimento, e il legame fra l’uomo e la sfera del divino. Il progetto "Un attimo di pace", promosso dalla Pastorale della comunicazione della Diocesi di Padova, in collaborazione con Associazione provinciale pubblici esercizi di Padova, ha avuto come filo conduttore il nutrimento, sia in rapporto alla pratica del digiuno, sia in vista dell’ormai imminente Expo Milano 2015 che si (e ci) interrogherà sul rapporto della società contemporanea con il cibo in declinazioni che vanno dall’universale delle grandi scelte inerenti le politiche alimentari e ambientali al quotidiano di ognuno di noi. Su queste basi è nata l’idea di un laboratorio di cucina biblica in collaborazione con la Scuola di ristorazione Dieffe di Noventa Padovana e, a seguire, la diffusione di alcune ricette “dei Padri” grazie alla partecipazione di Appe Padova, che ha distribuito nei locali associati diverse migliaia di cartoline con le ricette. Per prepararle (in ogni stagione, o quasi, indipendentemente dal periodo pasquale che è servito da lancio per questo progetto) serve, appunto, “Un attimo di pace”, non solo per cucinare ma anche per approfondire l’origine del piatto. E per chi volesse riproporre le ricette in questione, su www.unattimodipace.it/bibbia-in-cucina sono disponibili le “videoricette” realizzate al Dieffe da don Andrea Ciucci, autore con Paolo Sartor del libro "A tavola con Abramo". Spiega don Ciucci, ad esempio, che “ci voleva un tipo astuto come Giacobbe per approfittare della fatica di Esaù e fargli apparire una semplice minestra di lenticchie come un piatto prelibato e che ci interroga su cosa saremmo disposti a sacrificare pur di soddisfare i nostri bisogni”. «L’idea di proporre un pasto con ricette tratte dalla Bibbia – dice don Marco Sanavio, responsabile di “Un attimo di pace” – è nato dalla constatazione che nel Libro dei libri il cibo è spesso

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collegato al rapporto che si ha con la sfera del divino. Ci siamo chiesti: cosa significa nutrirsi oggi? Non è solo questione di soddisfare lo stimolo della fame bensì di un processo che coinvolge lo stile di vita, i tempi della giornata, l’aspetto comunitario, la qualità dei cibi scelti e la Bibbia ci aiuta a recuperare essenzialità oltre che tempi e modi che favoriscono le relazioni». Quattro le ricette proposte e che riportano ingredienti e tecniche di preparazione: minestra di lenticchie di Esaù (nella foto) o “del desiderio e della fame”; spezzatino di vitello alla zucca o “dell’accoglienza generosa”; pane azzimo o “della libertà e della schiavitù”; macedonia di Gioele o “della pace e della guerra”. E, ognuna, ha il suo perché. Il Vitello (qui proposto in spezzatino con maggiorana e zucca) ricorda la vicenda di Abramo che riceve nella sua tenda tre personaggi misteriosi per i quali fa preparare un pranzo sovrabbondante, un intero vitello da consumare subito. Piatto che richiama un altro animale ucciso per festeggiare l’incontro e l’accoglienza: il vitello grasso nella parabola del padre misericordioso. Mentre il pane azzimo (da fare in fretta e non lievitato) ricorda la fuga ma anche la libertà da troppi orpelli. E poi, in chiusura, la Macedonia, ricca di frutti nominati nel libro di Gioele, è segno di pace e addolcisce la vita. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Famiglia, quell’impegno ancora senza seguito di Francesco Riccardi Un anno fa la risposta del premier Renzi a un lettore È passato un anno, ma alle parole non sono seguiti i fatti. Non quelli promessi. Non quelli attesi da tanto e da tanti su un più equo trattamento fiscale delle famiglie con figli. Giusto un anno fa, infatti, il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva preso carta e penna per rispondere a una lettera aperta, indirizzatagli da un lettore attraverso il nostro giornale. Stefano, «marito e padre di Roma», così si firmava, lamentava il fatto che non avrebbe incassato gli 80 euro di bonus fiscale perché il suo stipendio era troppo elevato (45mila euro lordi) e la moglie, laureata, svolgeva solo qualche lavoretto saltuario di pulizia e babysitteraggio 'in nero'. «Per arrivare a fine mese, con tre figli in una città cara come Roma». Al contrario, i suoi vicini di casa, senza prole e con due redditi da 20mila euro lordi l’uno, avrebbero ricevuto 160 euro in più al mese. «Le detrazioni e gli assegni famigliari sono somme irrisorie – spiegava –. Possibile che oggi in Italia chi ha scelto di contrastare la folle tendenza alla denatalità debba essere a sua volta contrastato e penalizzato in ogni modo? Per me, quindi, non sarà 'la svolta buona', caro Matteo», concludeva amaro Stefano. Il presidente del Consiglio aveva risposto con prontezza e sollecitudine. E, dopo aver rivendicato la bontà del bonus da 80 euro, aveva assunto impegni precisi. «Dedicheremo, puoi esserne certo, una attenzione particolare al tema del fisco per le famiglie. È urgente che si diano risposte da troppo tempo disattese», scriveva infatti Renzi. Precisando poi: «So che tu pensi al 'quoziente familiare' o, meglio, a quella sua versione italiana che va sotto il nome di 'fattore famiglia'. Io penso che una risposta vada individuata presto e finalmente, dopo anni di chiacchiere, attuata. Con necessaria gradualità ma con decisione. È una questione di giustizia. Un’idea di Italia, sì, un’idea di Italia. Che sa di buono, sa di chi ce la vuole fare, sa di chi battaglia tutti i giorni per rendere la vita sua e degli altri più degna». Una questione di giustizia, appunto, quella di un equo trattamento delle famiglie con figli, in particolare le monoreddito, le più penalizzate da un sistema fiscale che non riconosce il reale peso delle persone a carico e, nel tassare, non fa distinzioni tra un reddito che può essere sufficiente per uno o che invece deve bastare a quattro o cinque o più persone. Rispetto a un anno fa, però, su questo fronte nulla (o quasi) è cambiato. Il bonus fiscale da 80 euro, infatti, è stato confermato senza rivederne la formulazione né per farne beneficiare gli incapienti (coloro che per i redditi bassi non possono godere di tutte le detrazioni) né per riparametrarlo in base ai componenti il nucleo, come era stato suggerito dal Forum delle Associazioni familiari e da altri soggetti. Un diverso segnale di attenzione alla famiglia è venuto dalla creazione di un ulteriore «bonus bebè» di 80 euro al mese per tre anni, destinato ai bambini nati o adottati tra il 1° gennaio 2015 e il 31

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dicembre 2017. Misura limitata però ai nuclei con meno di 25mila euro di reddito (nel caso l’Isee non superi i 7.000 euro l’importo è raddoppiato). Per capirci: se il nostro lettore avesse un quarto figlio non godrebbe neppure di questo incentivo alla natalità. Insomma, riguardo all’imposizione fiscale sulla famiglia in quanto tale non è stato compiuto alcun passo in avanti. Né sulla soglia limite per essere considerati a carico, scandalosamente ferma – da 19 anni! – a 2.840,51 euro. Né sulle detrazioni per i familiari. Né soprattutto riguardo al tema fondamentale dell’imposizione Irpef personale che non tiene conto del numero di persone a carico. Durante la discussione sulla legge di stabilità approvata a fine 2014 si è sentito ripetere il refrain che «non ci sono soldi per avviare una diversa politica», anche se tra bonus e Irap sono stati mobilitati ben 19 miliardi di euro. Silenzio sul tema pure nella legge delega di riforma del fisco, nonostante un ordine del giorno, accolto dal governo, preveda «l’introduzione di forme di esclusione dalla tassazione dei costi destinati obbligatoriamente per legge all’acquisto di beni e servizi a favore dei membri della famiglia e l’applicazione di coefficienti familiari per la determinazione del carico fiscale complessivo». Ancora, nel dibattito di questi giorni sul Documento di economia e finanza, la questione dell’equità fiscale per la famiglia non è stata neppure citata. E invece, «Io penso che una risposta vada individuata presto e finalmente, dopo anni di chiacchiere, attuata. Con necessaria gradualità ma con decisione. È una questione di giustizia. Un’idea di Italia, sì, un’idea di Italia». Non aggiungiamo altro. Le parole del presidente Renzi, sono perfette. Tanti italiani, tante famiglie (già formate o desiderose di farlo) aspettano ancora fatti alla stessa altezza. CORRIERE DELLA SERA Pag 24 “Famiglia a pezzi”. “No, aiuta”. Cattolici divisi sul divorzio breve di Riccardo Bruno e Mauro Magatti La Cei: “E’ un incivile traguardo”. Il nodo delle tutele per i figli. Libertà di scelta e meno vincoli sociali (ma più solitudine) Il divorzio breve è una ferita al matrimonio o, al contrario, un aiuto alle famiglie ormai irrimediabilmente in crisi? Che le idee (soprattutto in campo cattolico) siano contrapposte lo dimostra il pensiero spiazzante di monsignor Domenico Sigalini, arcivescovo di Palestrina. «Un matrimonio che finisce è sempre un fallimento, ma il divorzio breve può diventare una forma di giustizia. Se il fallimento è chiaro e irrevocabile, è ingiusto perdersi in lunghe battaglie giudiziarie che finiscono solo per aggiungere esasperazione ad una situazione già di per sé esasperata». Opinione personale e coraggiosa, perché i colleghi della Cei la pensano in tutt’altro modo. «Se nello stesso anno si potrà essere sposati a due persone differenti, allora il matrimonio viene privato di significato» ha sentenziato don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio pastorale della famiglia. Ancora più esplicito Avvenire, il quotidiano dei vescovi: «È un incivile traguardo». Costanza Marzotto, docente di psicologia, mette in campo l’esperienza di 15 anni come mediatrice familiare per il Servizio di psicologia clinica della coppia e famiglia dell’Università cattolica di Milano: «Quasi sempre la decisione di separarsi ha tempi lunghi. Per il cosiddetto iniziatore, prevalentemente una donna, che decide di rompere il legame è un momento drammatico, e lo fa in genere con molta serietà. Credo che abbia poco senso parlare di rapporti usa e getta e di consumismo degli affetti. Sono decisioni sofferte e a quel punto un ripensamento e una riconciliazione sono molto rare». Dunque, sei mesi o un anno possono essere un vantaggio. «Il nodo, dal mio punto di vista - prosegue - è un altro: che questo tempo venga utilizzato, con l’aiuto di figure come i mediatori, per portare in salvo la fiducia nei legami, contenere la dimensione distruttiva del conflitto, soprattutto a tutela dei figli». La professoressa Marzotto coordina anche gruppi di ascolto con minori di coppie separate: «Alla fine scrivono una lettera ai genitori. Ed è di questo tipo: anche se non vi volete più bene voi, vogliate bene a noi». Proprio le conseguenze sui figli spingono invece Paolo Moneta, docente di Diritto canonico e avvocato rotale, a esprimere dubbi sul divorzio breve: «Tempi più lunghi consentono di giungere più preparati, aiutano a metabolizzare meglio la situazione». Per Moneta la riforma introduce «una procedura affrettata che sminuisce l’importanza del matrimonio, un ulteriore colpo a un istituto già in difficoltà». Mentre Roberto Dante Cogliandro, presidente dell’Associazione notai cattolici, lamenta «una

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semplificazione eccessiva che creerà problemi quando verrà a mancare il filtro dei giudici». Cattolici pro e contro, come in Parlamento (anche se la legge è passata a stragrande maggioranza). La sottosegretaria pd Sesa Amici, prima firmataria della proposta, spiega che è stata «una scelta a favore della famiglia». E il Guardasigilli Andrea Orlando ha voluto rassicurare i critici: «La velocizzazione del percorso verso il divorzio non va intesa come una svalutazione del matrimonio». Maria Dossetti, già docente di diritto di Famiglia all’Università Milano-Bicocca, ha più di una perplessità. E non dal punto di vista cattolico, ma giuridico. «Il problema è che per velocizzazione i tempi e ridurre i costi sono stati modificati radicalmente i principi della disciplina senza una vera discussione. Anche se si parla di separazione consensuale, in realtà la palla sta in mano al più forte, a chi ha più soldi. E questa è una contraddizione fortissima rispetto al principio di indisponibilità dello status familiare. Finirà per creare dubbi di interpretazione ad avvocati e magistrati, vanificando la presunta semplificazione». Sarà forse un effetto generazionale: pare che il Parlamento in carica si sia innamorato della velocità. Dopo che, con il Jobs act, ha reso più flessibili i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ora, con il divorzio breve, ha accelerato i tempi di scioglimento del matrimonio. Come a dire: dato che facciamo sempre più fatica a stare insieme - lavoratori e imprese, mariti e mogli - rendiamo più facile dirsi addio. Sperando così di stare tutti meglio. Il tempo ci dirà se questa decisione ci farà davvero più felici. Sappiamo però che, nell’epoca in cui si celebrano la velocità e la flessibilità e nel quale si ama lo splendore dei ricominciamenti, il divorzio breve si conforma perfettamente allo spirito del tempo. Non a caso, il provvedimento ha raccolto consensi trasversali: nessuna forza politica ha esplicitamente preso una posizione contraria. Nell’epoca in cui tutto è ridotto al codice unico del rapporto contrattuale, la durata e la lentezza non sono più delle virtù. L’essere umano ha straordinarie capacità di adattamento. Si adatterà anche ad un modello sociale in cui dal matrimonio a vita si passa al rapporto a termine. In cui, cioè, cambia la natura del legame sociale tra persone e tra generazioni. Più libertà di scelta individuale, minori vincoli sociali. Dovremo tutti essere più capaci di sopravvivere a rapporti instabili, sforzandoci di essere sempre all’altezza. E saremo chiamati a pagare l’ebbrezza dell’autonomia con la moneta amara della solitudine. Acrobati del senso, dovremo sopportare molte cadute e combattere la futilità. Saremo forse più autonomi, ma ci risulterà più difficile avere la pazienza che richiede il prenderci cura l’uno dell’altro o comprendere le esigenze della sostenibilità. Tutto questo lo si vedrà poi. Per oggi, come dice il poeta, «chi vuol essere lieto sia, del doman non v’è certezza». CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Paritarie, regole da cambiare di Piero Formica I fondi alle scuole non statali La mano pubblica è intenzionata a cambiare verso alla politica educativa delle nuove generazioni, innovando l’offerta dei servizi per l’infanzia? Nel 2014 il governo veneto ha stanziato 42 milioni di euro da assegnare alle scuole dell’infanzia non statali e ai servizi per la prima infanzia (asili nido) riconosciuti dalla Regione Veneto. Con l’offerta privata che appare più competitiva di quella pubblica, la Regione ha contribuito ad allargare la piattaforma degli utenti sopportando costi più contenuti. Come dimostrano tante ricerche internazionali, per i servizi sussidiati, come gli asili nido, i beneficiari guardano con interesse a offerte di nidi che rispondano ai loro nuovi stili di vita e di lavoro. C’è allora da chiedersi se non sia giunto il tempo di dare voce alle famiglie con prole, assegnando loro un voucher da spendere nelle strutture che ritengono più rispondenti alle loro esigenze. Il voucher assegnato alla famiglia che ne fa domanda vedrebbe la mano pubblica sempre più impegnata nelle attività di definizione degli standard di qualità, di monitoraggio e valutazione, d’informazione. Nella funzione di arbitro assegnatale da una nuova popolazione di norme e comportamenti, la mano pubblica potrebbe agevolare la coltivazione di una nuova imprenditoria sociale che introduca innovazioni profonde nell’educazione dell’infanzia per meglio favorire l’equilibrato sviluppo fisico e psichico dei bambini. È così che il voucher alle famiglie si prefigura come un investimento di manutenzione preventiva e programmata del capitale umano di

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domani. Sotto l’impulso dei voucher, tra gli addetti agli asili si sprigionerebbero gli spiriti imprenditoriali pronti a cogliere gli stimoli che vengono dalle famiglie, così modellando l’offerta sui disegni tracciati dalla domanda. La competizione tra gli asili susciterebbe impulsi innovativi nel sistema, convogliandoli, per esempio, nella nuova corrente dell’economia dell’intrattenimento verso cui convergono tutti i servizi alle persone. La crescita della burocrazia urta contro un soffitto che non riesce a sfondare. Nel caso degli asili nido comunali le sofferenze dell’offerta, mostrate dall’ampiezza e persistenza dei disavanzi, e le proteste della domanda, vuoi per le modalità di assegnazione dei posti, vuoi ogniqualvolta l’autorità comunale interviene sulle tariffe, segnalano che si è toccato il soffitto. È giunto allora il tempo di cambiare regole, promuovendo, anche con i voucher, un’offerta ampia e innovativa di servizi per l’infanzia. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 22 La bimba triste di Gloria Bertasi La foto nei giorni della Liberazione a Venezia. Maria aveva 6 anni e per la prima volta racconta: “Piangevo per mio papà, ucciso perché partigiano” Venezia. La foto è stata scattata in piazza San Marco il 5 maggio del 1945. Ed è diventata negli anni a seguire l’immagine della Liberazione a Venezia, un simbolo della fine del fascismo e della ritrovata democrazia. Nell’immagine si vedono i partigiani con le pistole alla cintola, un tricolore che sventola, una donna che avanza felice e con passo spavaldo tenendo per mano una bambina. Che però ha una sguardo triste, il capo reclinato. Per decenni quella piccola non ha avuto un nome, poi nel 2007 l’Iveser (l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza) scoprì chi era: Maria Fornaro, classe 1939, in quei giorni aveva 6 anni. Nessuno l’aveva trovata prima perché semplicemente aveva traslocato, si era sposata e dalla Giudecca era andata a vivere a Mestre. E tutti si erano dimenticati di lei. Oggi, per la prima volta, Maria Fornaro spiega perché in quei giorni di festa, mentre tutta la Nazione scendeva in piazza riassaporando la libertà, lei aveva così poca voglia di sorridere. «Era il 5 maggio del 1945 - ricorda - e io non sapevo cosa stesse succedendo. C’erano sfilate ovunque ma io ero troppo piccola per capire». E poi aggiunge: «Mio padre era morto da una sola settimana...». La gioia della fine della guerra si scontra con il dolore personale. Il padre di Maria, Giovanni, pochi giorni prima era stato prelevato a casa sua insieme al fratello dalle Brigate nere sotto lo sguardo dei loro otto bimbi. «Papà era un partigiano, sapeva cosa l’aspettava - continua Maria e gli occhi azzurri si inumidiscono al ricordo -. Mentre si era allontanato un attimo, i fascisti aprirono una valigia e ci mostrarono gli attrezzi che usavano per la tortura e che avrebbero utilizzato anche su di lui». Giovanni viene portato via. Maria e la famiglia non lo rivedranno mai più vivo. Un paio di giorni dopo viene riportato a casa ormai cadavere. «Mamma fu costretta a firmare che era morto di influenza ma non era vero: aveva il viso così tumefatto da essere irriconoscibile». Giovanni Fornaro è stato ucciso il 27 aprile, due giorni dopo la data ufficiale della Liberazione, quando in quasi tutta Italia si inneggiava alla caduta del fascismo. Non però a Venezia, liberata solo il 28 dello stesso mese. A quel punto anche in Laguna iniziarono i festeggiamenti che durarono giorni e culminarono proprio quel 5 maggio. La donna che si vede in centro nella foto e che tiene per mano la piccola Maria era una partigiana, Maria Scarpa. «Passò da casa, mi mise una fascia nera e mi portò con lei - dice Maria Fornaro -. Io non ero in condizione di capire. Dalla foto non si vede, avevo un cappotto rosso e la fascia nera spiccava. La testa reclinata? Era il dolore per il mio papà». La famiglia di Maria abitava alla Giudecca, che settant’anni fa non era l’isola alla moda nella quale ha preso casa Elton John o dove un anno fa hanno festeggiato le nozze George Clooney e Amal Alamuddin. All’epoca era un lembo di terra povero e tra le casette piccole e umide si nascosero decine di partigiani. Come Maria Scarpa, nome di battaglia «Mimi», una delle organizzatrici degli «scioperi del sale» nella Manifattura tabacchi, oggi trasformata in lussuosi appartamenti con vista sulla laguna. Ed è merito di un semplice gesto di «Mimi», portare con sé la figlia del combattente morto per la libertà, che quel pezzo di storia, non solo veneziano,

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è diventato un simbolo. Grazie a un’immagine che per decenni ha avuto il volto triste di una bambina senza nome. E che oggi pomeriggio, riprodotta in una gigantografia di fronte al teatro Goldoni, sarà colorata da bambini della stessa età della piccola protagonista. «In settant’anni nessuno mi era venuta a cercare» conclude Maria che ancora oggi è schiva, non ama le macchine fotografiche né le parole di troppo. Per lei che la Liberazione è anche un giorno di ricordi dolorosi. CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Prima offerta di case per i profughi. Ira Lega: intasa i centralini del prefetto di Alice D’Este e Mauro Zanutto Le storie di Faustin e Dominic Venezia. Altri arrivi nella notte. Nuovi posti da trovare, un allarme che suona ogni giorno insieme alla sveglia, per chi lavora in Prefettura. Ma qualcosa ogni tanto si muove. La prima risposta all’appello rivolto anche ai privati dal prefetto Domenico Cuttaia è arrivata da Martellago, dove un cittadino avrebbe dato la disponibilità a verificare la proposta della prefettura per tre appartamenti, per un totale di 12 posti da destinare temporaneamente ai migranti. Della proposta non trapela nulla: di chi sono gli appartamenti, perché il proprietario ha deciso di metterli a disposizione e a quali condizioni. «Gli appartamenti dovranno essere gestiti dalle cooperative – spiegano dalla Prefettura – ma per chi ha case sfitte potrebbe far comodo ricevere qualche soldo». «I privati che vorranno rendersi disponibili ci contattino pure – dice Monica Barbiero, sindaco di Martellago che per ora non è stata coinvolta – noi comunicheremo le disponibilità alla Prefettura». L’appello del prefetto non ha provocato ieri mattina una pioggia di telefonate. Il centralino di Ca’ Corner, semmai, è stato subissato di chiamate di altra natura. «Buongiorno, sono sfrattato e disoccupato, so che voi date case e lavoro», dicevano le persone al telefono, frasi più o meno tutte uguali. A generare quel flusso di chiamate un post di Matteo Salvini sulla pagina facebook della Lega Nord nazionale: «La Prefettura di Venezia chiede ai cittadini di mettere a disposizione i loro appartamenti per ospitare gli immigrati ottenendo in cambio fino a 35 euro al giorno. Benvenuti all’albergo Italia di Renzi, Alfano e Moretti: c’è spazio per tutto il mondo, tranne che per gli italiani in difficoltà. P.s. Il telefono della Prefettura è 041 2703411, se siete sfrattati, esodati o disoccupati, chissà se trovano un posto anche a voi...» ha scritto. E così in molti hanno chiamato per sfottò e al centralino è stato un inferno. L’inferno vero, però, per la Prefettura è un altro. Gli sbarchi continuano e le soluzioni non si trovano. E anche su quelle ipotizzate le brusche frenate non mancano. Dopo l’annuncio del trasferimento alla Giudecca a villa Gardini dei 10 richiedenti asilo rimasti alla colonia Morosini del Lido, ad esempio, il comitato dei cittadini è andato dal commissario Vittorio Zappalorto. «Si tratta di una struttura abbandonata da 20 anni non sappiamo se ci siano le condizioni di sicurezza ed è troppo vicina al cantiere nautico – dice Luigi Giordani, segretario provinciale del Psi – non siamo contro queste persone però chiediamo delle condizioni di sicurezza». Risultato? Se ci sarà il trasferimento alla Giudecca la zona verrà recintata e il cantiere si farà un’assicurazione per furto e per danni. «Se lo spazio è vicino al parco non va bene, vicino alla scuola non va bene, vicini al cantiere nemmeno – sbotta il commissario Zappalorto – la realtà è un’altra: c’è paura e poca disponibilità ma la cosa va risolta. In ogni caso». E mentre in mattinata i ragazzi del Laboratorio Morion, del Collettivo LiSC e Sale docks hanno issato uno striscione in Comune «Welcome refugees, basta stragi nel Mediterraneo, canale umanitario subito» nella nottata di ieri ne sono arrivati altri 4 anche alla pensione autostrada e 16 nella sede della Croce Rossa di Jesolo. Sono somali, tutti minorenni, sbarcati in questi giorni in Sicilia. Si tratta del quarto arrivo da domenica per un totale di 49 profughi oltre a 48 dublinanti già ospitati da tempo nella struttura di via Levantina che ora è al completo. Per questo motivo il coordinamento locale della Croce Rossa avrebbe rifiutato l’invio di altri profughi da ospitare in questa sede. Vane nei giorni scorsi le posizioni dell’amministrazione comunale, sindaco Valerio Zoggia in primis, che da tempo si è detto contrario ad ospitare profughi in una località in procinto di aprire le porte alla nuova stagione estiva. «Jesolo ha la possibilità di dimostrarsi una città accogliente, non sprechi quest’occasione» ha ribattuto invece Francesco Esposito di Sinistra Ecologia e Libertà.

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Mira. «Ci sono i turni per pulire la cucina, per rifare i letti, per sistemare il prato. Ma a cucinare sono solo due di loro, i più bravi. E dalle 23 alle 7 c’è silenzio. Nessuno sgarra, se non chi è appena arrivato, ma le regole vanno rispettate». Faustin Ngabama è seduto nella stanzetta dell’accoglienza dell’ostello a Colori di Mira, abbassa gli occhiali, mostra il foglio delle «cose da fare» appeso al muro. «Il rispetto delle regole? – dice – è una cosa che si ottiene col tempo, con la fiducia e col rispetto». Faustin ha 53 anni e viene dal Gabon. E’ arrivato in Italia 33 anni fa e ora lavora come mediatore per la cooperativa città Solare. Lì tutti lo chiamano «uncle», ovvero «zio». «E’ un segno di stima – spiega – mi riconoscono come se fossi uno della loro famiglia, mi danno ascolto, anche quando litigano tra di loro, come si fa nella cultura africana con il più anziano». I ragazzi ospiti dell’ostello sono tutti giovanissimi, hanno 23 anni in media. Molti nel loro paese hanno perso tutta la famiglia. «Non basta dare loro un letto e da mangiare, per dire di aver fatto accoglienza – dice Faustin – bisogna sapersi rapportare, ascoltarli. Stare a sentire i loro problemi, ascoltarli come fossi un loro familiare. In fondo hanno appena 20 anni.. sanno che non possono fregarmi e che le regole vanno rispettate, ma sanno anche che possono parlarmi per ore di qualsiasi cosa». Come un padre, dice Harrison, 22 anni che il padre lo ha perso in Nigeria, ucciso da Boko Haram. «Le loro sono storie molto difficili – dice Faustin – spesso i primi mesi sono quelli più duri. I ragazzi che arrivano si chiudono in loro stessi, per farli aprire ci vuole tempo. Ma quando hanno ingranato va che è una meraviglia. Perfino i vicini ci vogliono bene, ci hanno offerto il loro campo per farne un piccolo orto per noi». Mira. «Eccomi, arrivo. Piacere Dominic». Esce di corsa dall’ostello a colori di Mira, pantaloni larghi e cappello a frontino bicolor, collanina con la croce al collo. Dominic Novio ha poco più di 20 anni e compie il suo anno di vita in Italia, in attesa dello status di rifugiato. Pochi giorni fa ha visto la commissione che deciderà della richiesta. «Ho aspettato un anno per incontrarli – dice – è tanto, ma la mia alternativa era essere morto». E’ scappato dalla Nigeria, Dominic, lasciando la sua casa in fiamme e i suoi familiari uccisi uno ad uno davanti a lui da una brigata di Boko Haram. «Sono l’unico sopravvissuto di casa mia – dice – l’attesa non importa, la vita è più importante. Le cose si ottengono un po’ alla volta. Io ora spero di avere i documenti, poi comincerò a lavorare qui, a farmi una vita vera. Se ce la farò potrò ricominciare a vivere altrimenti per me non ci sarà pace». Quando una settimana fa gli hanno detto che toccava a lui, gli è sembrato di sognare. «Mi hanno chiesto come sono venuto qui, cosa mi è successo in Nigeria e se ho ancora parenti vivi – dice – io gli ho detto tutto. Voglio restare. Studio italiano ogni settimana seguiamo i corsi a Dolo e a Piazza Vecchia, facciamo anche servizio in chiesa. Prego, sì. E anche tanto, di farcela davvero, di uscire da quell’incubo». E’ giovane, Dominic. E’ arrivato con un barcone a Lampedusa, prima attraverso il deserto senza cibo nè acqua. «Ho avuto paura – dice – se muori non importa a nessuno». Stare un anno in attesa è difficile. Ma Dominic ha tenuto duro e tra gli ospiti dell’ostello si sente anche fortunato. E’ l’unico chiamato. «Aspetto la risposta la prossima settimana – dice - poi se mi danno i documenti rinascerò. L’ho promesso a mio padre che mi sarei salvato. Dio deve aiutarmi». Pag 13 Aquae, l’oasi verde dell’Expo si raggiunge tra sporco e caos di Francesco Bottazzo Il padiglione ospiterà concerti e sport, ma ora manca ancora il vaporetto IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV San Marco, Tesserin è il Primo procuratore di Paolo Navarro Dina Ieri il Patriarca ha incontrato i componenti dell’istituzione. La nomina del ministro Alfano. Procuratoria, ente antico dedicato alla gestione e alla tutela della Basilica É Carlo Alberto Tesserin, consigliere regionale uscente per Ncd, il nuovo Primo procuratore di San Marco. Ora spetterà al ministero dell’Interno, Angelino Alfano, suo collega di partito, prenderne atto e ratificare la decisione. Così vogliono le norme che regolano il rapporto tra la Procuratoria di San Marco e il Viminale che ha competenza, per quota parte, dell’antico ente che sovraintende alla "fabbrica" di San Marco. É questo l’esito del primo incontro ieri in Palazzo Patriarcale tra i membri uscenti della

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Procuratoria di San Marco tra i quali l’ex sindaco Giorgio Orsoni, mons. Antonio Meneguolo, ormai orfano anche della delega di Delegato patriarcale della Basilica, Giovanni Candiani, Irene Favaretto, Dino Sesani (mancava Giovanni Mazzacurati che si era dimesso in passato) e i nuovi eletti (lo stesso Tesserin, Pierpaolo Campostrini, Amerigo Restucci, Giovanni Boldrin, Paolo Chiaruttini, mons. Antonio Senno e mons. Angelo Pagan). Tesserin, 77 anni, chioggiotto, noto per essere il "decano" dei consiglieri regionali, nei giorni scorsi aveva annunciato l’intenzione di abbandonare la politica regionale e di non ricandidarsi. Così, ieri pomeriggio nella sala del Tintoretto, è toccato al Patriarca, monsignor Francesco Moraglia, accogliere vecchi e nuovi Procuratori per un primo scambio di opinioni, ma anche per una reciproca conoscenza. Si è trattato di un passaggio di testimone tra il gruppo guidato dall’ex sindaco Orsoni coinvolto nella burrasca dello scandalo Mose e i "nuovi arrivati". Nella seduta, il Patriarca ha augurato buon lavoro e allo stesso tempo sottolineato le necessità e gli impegni della Chiesa veneziana nel prossimo futuro. Subito dopo il saluto del Patriarca, i procuratori hanno proceduto da par loro ad una riunione operativa vera e propria nella quale si è proceduto alla votazione dalla quale è scaturito il nome del Primo Procuratore, ora spetterà al ministero dell’Interno ratificare la decisione. Anticamente i Procuratori di San Marco erano la più prestigiosa carica vitalizia della Repubblica di Venezia dopo il Doge. I loro compiti, tramandati fino ai giorni nostri, sono quelli di curare la fabbrica e nel lontano passato anche l’amministrazione dei territori di San Marco in Oriente. Inizialmente vi era un unico Procuratore; passarono a quattro nel 1231 e successivamente a nove. Dal 1269, i loro compiti furono ampliati a tutela dei mentecatti, degli orfani e per l’esecuzione dei testamenti: i due Procuratori de supra si occupavano della Basilica; i due Procuratori de citra si occupavano di Castello, San Marco e Cannaregio; quelli de ultra, dei sestieri di Dorsoduro, Santa Croce e San Polo. Oggi la Procuratoria sono sette. Il Primo Procuratore, che è il presidente, nomina il Proto cioè l’ingegnere o architetto a cui è affidata la direzione tecnica della Basilica. Pag V Abusivo in fuga, anziana travolta di Gianpaolo Bonzio San Marco, ennesimo episodio in Piazza. Insegnante 80enne in pensione batte la testa L’ha travolta e fatta cadere pesantemente mentre scappava. Lei, la vittima, è un’insegnante 80enne in pensione, con la passione per l’arte, alla guida di una comitiva in visita ai mosaici di San Marco. Nella caduta ha battuto la testa su uno scalino, riportando un trauma cranico. Lui, un venditore di bastoncini per selfie abusivo, probabilmente del Bangladesh. Uno dei tanti, troppi che affollano piazza San Marco. L’ennesimo e grave episodio è accaduto ieri mattina, a pochi passi dalla Basilica. Era circa mezzogiorno quando alcuni commercianti, ancora una volta, hanno segnalato alla Polizia municipale la massiccia presenza di venditori ambulanti abusivi che stavano cercando di piazzare borse, bastoncini per selfie ed altro ancora con la solita insistenza. Gli agenti hanno così deciso di andare a dare un’occhiata nella zona segnalata, quella a ridosso della Basilica. Quando i vigili si sono avvicinati alla zona dei leoncini, un venditore abusivo, vedendo le divise ormai a pochi metri di distanza, è scappato rapidamente verso la zona del rio della Canonica. Nella sua fuga, però, ha letteralmente travolto l’80enne, tra la fontanella dei leoncini e il Patriarcato, facendola cadere violentemente. C’è anche chi ha tentato di bloccare per un braccio l’abusivo (che ha perso un bastoncino dei selfie), ma questi è riuscito comunque a divincolarsi e a far perdere le proprie tracce. La donna, Maria Lucia Sartor, guida dei mosaici di San Marco, in seguito alla caduta ha riportato un trauma cranico provocato dall’impatto su un gradino e per questo è stata fatta distendere a terra e le è stato portato del ghiaccio. I vigili urbani hanno provveduto a fornire i primi soccorsi ed hanno rapidamente chiamato un’ambulanza del 118. Quando i sanitari sono arrivati in piazza hanno caricato la ferita, che è sempre rimasta vigile, sull’idroambulanza e la hanno trasportata al pronto soccorso per una Tac che avrebbe fortunatamente escluso conseguenze gravi. In serata il figlio della donna, l’avvocato Renzo Fogliata, ha annunciato che presenterà immediatamente querela contro ignoti. «Ho già parlato con il comandante dei vigili e vedremo se le telecamere hanno ripreso qualcosa - attacca l’avvocato Fogliata -. Mia madre, insegnante in pensione, stava semplicemente accompagnando alcuni ragazzi di

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Gorizia a vedere i mosaici. Da troppo tempo questo problema degli abusivi in città non viene risolto. Massima solidarietà alle forze dell’ordine impegnate anche su questo fronte, ma qui manca del tutto la risposta dello Stato». Pag VI Venezia “cattura” la metà dei turisti di tutto il Veneto di Tomaso Borzomi Dal 2007 settore in crescita. E ora tocca all’Expo Cinesi spendaccioni a Venezia. La spesa che ogni turista cinese fa in laguna, per ogni giorno di permanenza, è di gran lunga la maggiore rispetto al resto d'Italia. A comunicarlo sono i dati del 2014 presentati ieri da Mara Manente, direttore del Ciset, il Centro Internazionale di Studi sull'Economia Turistica, nel corso della conferenza organizzata Banca d'Italia, Ciset e Università Ca’ Foscari all'Auditorium Santa Margherita. L’ORO DI CINA - Se infatti, la media pro-capite di spesa è di circa 100-130 euro al giorno in Italia, Venezia è in testa con una somma di circa 150-180 euro. Un risultato che aiuta il Veneto a classificarsi al terzo posto tra le regioni italiane, dietro solo a Lazio e Lombardia, per quanto riguarda la spesa dei turisti stranieri in Italia. VENEZIA LEADER - Anche se, come fa notare Emanuele Breda della Banca d'Italia, la spesa dei turisti in tutto il Veneto è scesa di un punto percentuale rispetto al 2007, quando iniziò la crisi. Nonostante questa tendenza negativa, a fare la parte del leone in questo contesto è Venezia, che dal 2007 continua inesorabilmente a crescere, raggiungendo, come dato provinciale, più della metà dei turisti totali in regione, con la quota del 56,5% nel 2014. Dato confermato anche dalla relazione di Simonetta Zappa, della Banca d'Italia, che ha notato come la provincia di Venezia abbia subito una variazione positiva delle entrate da turisti stranieri rispetto al 2013 dello 0,9%, per un totale di 2,7 miliardi di euro. LE SPIAGGE - E il sentore per cui i turisti tedeschi preferissero la Croazia alle spiagge del Nord-Est sembra non essere più sensato. Se infatti vi era il timore di una cannibalizzazione, questo non appare suffragato dai dati, che testimoniano come la qualità proposta da Caorle, Jesolo, Bibione e Lignano sia ancora migliore rispetto ai vicini croati. VACANZE ALTERNATIVE - La carta vincente da giocare per migliorarsi è quindi l’integrazione. Per Manente non ci si può né deve "sedere" sulla vacanza tradizionale come quella culturale, che in Italia impatta economicamente per il 58% delle tipologie di viaggio, ma investire nella valorizzazione di altre idee, come quelle che offrono esperienze dedicate. Ad esempio l'enogastronomico, la vacanza verde, la pesca o lo sport in generale, piuttosto che il cicloturismo o la vacanza alla scoperta dei distretti economici. Sì, perché puntare sul far conoscere il Made in Italy, con percorsi che valorizzino tali realtà, come ad esempio quello calzaturiero della Riviera del Brenta, potrebbero motivare un ulteriore interesse turistico. «Già oggi si evidenzia un ritorno positivo di questo atteggiamento su tutta la provincia di Venezia - afferma Manente - e la logica degli itinerari è senz'altro utile anche in congiunzione con il vicino Expo, che può segnare l'inizio di un percorso interessante a livello economico». EFFETTO EXPO - Altro capitolo: Expo 2015, che aprirà i battenti il prossimo venerdì. Le previsioni sugli arrivi a Venezia sono ben distanti da quelli paventati per la Lombardia. Se si parla di circa 18-22 milioni di turisti che andranno ad invadere Milano nel corso della manifestazione, sono diversi i dati che riguarderanno la laguna. Sono stimati in circa 800mila gli arrivi durante la manifestazione, poco più del 4% di quelli milanesi, ma non si tratta di un dato certo. Anzi, come conferma Armando Peres (ex assessore comunale a Venezia), presidente del Comitato Turismo dell'Ocse, dipenderà necessariamente dall'abbattimento delle barriere logistiche che caratterizzano la città: «Queste stime sono state diffuse dall'Expo, certo è che si dovrà trovare una soluzione per favorire la gestione dei flussi turistici, che al momento appaiono difficoltosi. Altrimenti si rischierebbe di non raggiungere nemmeno quell'obiettivo e sarebbe un peccato perdere questa opportunità». Pag XI Ex Umberto I, chiesa agli ortodossi Domenica la consegna

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Gli ortodossi cercavano da tempo una sede, mentre in città si discuteva del "salvataggio" della chiesa dell’ex ospedale Umberto I dove nel 1985 pregò anche Papa Wojtyla in visita a Mestre. Soluzione trovata: il luogo sacro sarà consegnato all’Arcidiocesi ortodossa d’Italia. La cerimonia, informa il Comune, avverrà domenica alle 15 alla presenza del sub-commissario Natalino Manno e del metropolita Gennadios, arcivescovo ortodosso d’Italia che benedirà la chiesa. La concessione è a titolo gratuito: la comunità cristiana ortodossa avrà in uso l’edificio impegnandosi al restauro e alla sua manutenzione. Da tempo gli ortodossi (quelli provenienti da Romania e Moldavia sono 1.500 in provincia) chiedevano di poter costruire una chiesa in città. L’appartamento adibito al culto di via Monte Piana è ormai inadeguato, così si era è pensato di costruire un edificio ex novo a Zelarino, per il quale c’era stata alcune settimane fa la posa della prima pietra. La concessione della chiesa dell’ex ospedale ha risolto il problema. Sul caso era intervenuto, solo alcuni giorni fa, anche il Centro studi storici di Mestre sollecitando il recupero del luogo sacro. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 9 I turisti lasciano in Veneto cinque miliardi di Elisa Lorenzini Settore di nuovo in crescita Venezia. Il comparto turistico nel Veneto torna a crescere: dopo un 2013 da dimenticare, con la spesa dei vacanzieri scesa del 5,8 per cento, il 2014 è stato l’anno della ripresa, e la cifra è tornata a salire seppur in modo moderato dell’ 1,3 per cento, con una spesa complessiva di 4,8 miliardi di euro. Merito non certo dei viaggi di lavoro che anzi continuano a diminuire, ma dei vacanzieri. Gli introiti da vacanze infatti sono aumentati del 5,1 per cento, una netta inversione di marcia rispetto al -6,7 per cento del 2013. I più amati sono città d’arte (+3,6%) e lago (+9%). È il quadro tracciato dai dati Banca D’Italia presentati ieri in occasione della XV conferenza «L’Italia e il turismo internazionale» organizzata da Ciset, Ca’ Foscari in collaborazione con Banca D’Italia. Il recupero in Veneto è stato possibile anche grazie alla crescita della spesa da parte di russi, canadesi, brasiliani e polacchi, e grazie all’aumento di presenze nelle strutture extra-alberghiere (+4,0%). Dalla crescita di B&B affittacamere e agriturismo è derivata anche una leggera diminuzione della spesa media (-1,0%) che nel 2014 ammonta a 95 euro. Quanto agli introiti, a far la parte del leone è la provincia di Venezia (56,6%) seguita da Verona (25,3%) e da Padova (7,4%). Le prime cinque regioni italiane, tra cui il Veneto che occupa il terzo posto alle spalle di Lazio e Lombardia, conquistano da soli il 67,3 per cento della spesa. Il Veneto da solo ha il 14% del totale del mercato Italiano. Nella nostra regione si è osservato un ritorno importante dei mercati del Nord Europa grazie ai tassi di cambio favorevoli, e a differenza del dato nazionale dove per la prima volta si nota una battuta d’arresto del turismo cinese, Venezia agli orientali piace ancora, e piace anche ai turisti dai paesi Bric (+40 % con una spesa di 296 milioni di euro). In ripresa tedeschi (+5,4% di spesa), inglesi (+2,6%), mentre sono a segno negativo Giappone (-3,8%) e Francia (-7%). Sempre più importanti diventano i viaggi organizzati, che a livello nazionale sono il 12 per cento, in crescita alla media annua di 3,7 per cento. Sono soprattutto americani e giapponesi, che per spendere scelgono il Veneto solo per terzo (rispettivamente 15,8% e 16%), dopo Lazio (39,3% e 34,1%) e Toscana (22,8% e 27,7%). Solo i Brasiliani mettono la nostra regione al secondo posto (25,3%) dopo il Lazio (49%). «Nel 2014 vince l’integrazione tra per esempio cultura, enogastronomia, itinerari verdi – spiega Mara Manente del Ciset – è su questo infatti che si lavora con Regione Veneto e Unioncamere, su percorsi che valorizzano il territorio come pesca-turismo, ciclo-turismo, itinerari nei distretti produttivi». Quanto ad Expo in Veneto è difficile fare previsioni sugli arrivi, dice Manente. E lo conferma Armando Peres vicepresidente comitato turismo Ocse: «È realistica la stima di qualche centinaia di migliaia di visitatori in Veneto, mi par di capire però che c’è un problema logistico, non attivare un vaporetto vuol dire non volersi bene». Intanto, sul fronte delle politiche per il turismo, arriva la replica del presidente di

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Confturismo regionale, Marco Michielli, alla proposta del governatore Luca Zaia di tassare con un euro ogni turista che entra in Veneto. Replica netta: «Se si tratta di un preciso proposito esprimiamo tutta la nostra contrarietà». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Morire quattro volte di Beppe Severgnini Giovanni Lo Porto è morto quattro volte. Quando è stato rapito, quando è stato dimenticato, quando è stato colpito, quando la notizia della sua uccisione è stata nascosta. Per quattro mesi, non per quarantotto ore in attesa di verifiche. La pubblica ammissione del presidente Obama - straordinaria per il contenuto, irrituale per il tono - tempera, in parte, l’amarezza? Forse. Ma non cancella l’orrore né lo stupore. Guido Olimpio e Paolo Valentino, sul Corriere, spiegano cosa è probabilmente accaduto. L’operazione è stata condotta dai droni e si è basata sulle informazioni raccolte nell’area tribale pachistana. Secondo la ricostruzione ufficiale, l’intelligence Usa non ha mai saputo della presenza degli ostaggi nell’edificio usato dai qaedisti. Mancanza di informazioni: è accaduto altre volte in Afghanistan, in Yemen e in Pakistan. E così due innocenti sono stati spazzati via, insieme ai loro aguzzini. Lo sappiamo, ma è bene ricordarlo. In molte parti del mondo l’altruismo è diventato un rischio letale. Fare il proprio mestiere, una provocazione inaccettabile, per gli umanoidi del terrore. E quando la morte arriva, non siamo più capaci di ammetterla, di raccontarla, di onorarla. Ci sono voluti centoventi giorni per sapere che il 38enne italiano era stato ucciso dai droni, insieme a un ostaggio americano, Warren Weinstein. Ma questa è, davvero, solo una delle morti di un giovane siciliano generoso. Il suo rapimento è avvenuto tre anni fa. Se ne è parlato, certo, c’è stata una campagna per liberarlo. L’unità di crisi della Farnesina ha fatto il possibile ed è stata vicina alla famiglia. I giornali, compreso il Corriere, si sono occupati del caso. Ma diciamo la verità: quanti conoscevano il nome e la storia di Giovanni Lo Porto? Quanti hanno speso un pensiero, due parole in pubblico, una ricerca su Google? Volontari, cooperanti, anche giornalisti: fino all’avvento di Al Qaeda e Isis, tutti costoro hanno goduto di una condizione ufficiosa di neutralità, anche nei conflitti più cruenti. Oggi, dall’Afghanistan all’Atlantico, sono diventati bersagli. Perché l’orrore dei nuovi mostri islamisti è anche vigliacco: se la prende con chi non può - anzi, non vuole - difendersi. E diventa così un obiettivo: remunerativo, vulnerabile, facile. L’elenco è lungo e tocca molti Paesi. Alcuni tra i nostri connazionali sono tornati, come Domenico Quirico, Greta e Vanessa, Rossella Urru. Altri, come Giovanni Lo Porto, non torneranno. Smettiamola di dire - o di pensare, e non è meno grave - che queste persone «se la sono andata a cercare». Non è vero. Cercavano di vivere dignitosamente, non di morire malamente. Conoscevano i rischi, certo. Giovanni Lo Porto non aveva bisogno delle attenuanti dell’incoscienza o dell’entusiasmo, come le due ragazze lombarde liberate in gennaio. Era un professionista del settore: aveva alle spalle missioni in Centroafrica, Haiti, Pakistan. Un professionista che ha pagato per il suo servizio agli altri. Ed è stato ucciso. Ucciso - ripetiamolo - più volte: dalla ferocia disumana dei rapitori, dalla nostra distrazione, da una bomba dal cielo, dal segreto militare. Un’assurdità progressiva, un orrore a puntate. Il riassunto di anni forsennati che ancora non capiamo del tutto. Forse è meglio così: ci farebbero troppa paura. Pag 1 Cent’anni dopo, il coraggio della memoria. E del dialogo di Andrea Riccardi Sono trascorsi esattamente cent’anni dai massacri degli armeni nell’impero ottomano, iniziati il 24 aprile 1915 con la deportazione dei notabili della comunità di Istanbul. È una storia che non passa, stretta tra due memorie contrapposte: la turca e l’armena. Lo si è visto nelle dure risposte turche a papa Francesco, quando ha parlato del «primo genocidio del Novecento». La Turchia repubblicana, nonostante Kemal Atatürk non fosse coinvolto in quegli eventi, ha, dall’inizio, costruito la sua storia derubricando le stragi a episodi di violenza nel caos bellico o a reazioni alle insorgenze armene. All’atto della

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fondazione della Repubblica, nel 1923, il governo temeva rivendicazioni territoriali armene. Era poi rilevante l’appoggio di non pochi Giovani Turchi (al potere nel 1915), che avevano sostenuto i massacri e sottratto i beni cristiani. Si sono sviluppate così una storiografia ufficiale, negatrice del genocidio, e una politica giudiziaria contro chi parlava di massacri. Ancora nel 2005, il Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk fu incriminato per «vilipendio all’identità nazionale». Per gli armeni, tra il 1915 e il 1916, è avvenuto un genocidio di 1.500.000 correligionari. Restano il dolore e la memoria dei discendenti. Il romanzo dell’ebreo tedesco, Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh , dal 1933 ha fatto conoscere al mondo quella storia. L’attuale storiografia, con varietà di posizioni, ha mostrato una vicenda impressionante: la tragica fine di un mondo di convivenza tra cristiani e musulmani. Certo era una convivenza su basi disuguali, come l’aveva disegnata l’impero ottomano alla nascita (ma nell’Europa coeva era peggio, tanto che nel 1492 gli ebrei, scacciati dalla Spagna, trovarono rifugio tra gli ottomani). I Giovani Turchi, nel 1915, sconfitti nei Balcani dai Paesi «cristiani», colsero l’occasione della guerra mondiale per fare pulizia etnica degli armeni e costruire una nazione turca, assimilando le masse curde, arabe e d’altra etnia. Ma era impossibile turchizzare gli armeni dalla spiccata identità. Andavano eliminati. Per questa operazione scatenarono il fanatismo contro l’infedele. Così, con gli armeni, morirono tanti cristiani poi dimenticati: siriaci, caldei, assiri, protestanti. La nuova storiografia (anche di studiosi turchi), fondata su archivi ottomani, conferma i massacri. I cristiani sono quasi scomparsi dall’Anatolia durante la guerra: erano il 19% al censimento del 1914. Continuano però due memorie divaricate. Gli armeni ricordano oggi Metz Yeghern, il Grande Male, a Erevan, assieme a Putin, Hollande e tanti religiosi cristiani. Erdogan, in questi giorni, commemora la battaglia di Gallipoli del 1915, una vittoria ottomana che costò 250.000 morti a turchi e truppe dell’Intesa. Tutto resterà bloccato nella contrapposizione? Eppure gli armeni e i turchi di oggi non sono né le vittime o i massacratori di cent’anni fa. La storia va riconosciuta. Parte della storia è anche ricordare i musulmani che strapparono i cristiani ai massacratori. Tanti cristiani morirono in quelle stragi; tanti furono forzati (specie donne e bambini) a convertirsi all’Islam e inserirsi nella società musulmana. La loro memoria riaffiora oggi dai discendenti. E poi - fatto incredibile! - in Turchia, accanto ai 40.000 armeni «storici», ne sono giunti altri 100.000 immigrati dall’Armenia, quasi un ritorno. Hrant Dink, intellettuale turco-armeno, fu ucciso nel 2007 perché voleva rifondare il «vivere insieme», chiedendo con sensibilità e sincerità ai turchi di ricordare Metz Yeghern. Furono complici del suo assassinio alcuni funzionari di polizia (oggi indagati). Dopo la sua morte è stata avanzata una richiesta di perdono per le stragi che ha raccolto 30.000 firme turche. A gennaio scorso, il primo ministro turco Davutoglu ha rievocato Dink come simbolo di un «nuovo inizio» tra turchi e armeni. Davutoglu in questi giorni ha proposto di «affrontare onestamente il passato». Oggi la forza politica al potere in Turchia, nonostante i radicati settori nazionalisti, può imprimere una svolta. D’altra parte c’è un’Armenia indipendente. La storiografia internazionale è matura. Non si può indagare il passato, liberi dai fantasmi? La storia non deve utilizzare il passato per fomentare l’odio, ma per discutere insieme in modo documentato. In un Mediterraneo, inquinato da violenze e contrapposizioni, sarebbe un bel segnale proprio l’avvio di un processo, anche lento, che riavvicinasse turchi e armeni alla luce del realismo storico e dell’incontro. Qui non basta la politica, ma ci vogliono coraggio civile e cultura. Pag 1 Migranti, il segnale atteso che è arrivato a metà di Franco Venturini L’Europa non ha capito fino in fondo, ieri a Bruxelles, che il Mediterraneo trasformato in fossa comune metteva in gioco la sua legittimità morale e dunque politica. Non ha capito che la tragedia in corso, dopo tanta retorica, esigeva una risposta forte e solidale in armonia con i suoi valori. E così dal vertice straordinario è uscita una Europa ordinaria, capace sì di prendere alcune decisioni importanti («clamorose» le ha definite Renzi) ma già divisa sulla loro applicazione. Consapevole sì dell’enormità della posta in gioco ma egoista fino all’inverosimile nel difendere interessi nazionali, sensibilità delle opinioni pubbliche o elezioni prossime. Sappiamo bene che i flussi dei migranti, e dietro di loro la questione libica, pongono problemi di enorme complessità. Ma questo non può alleggerire la coscienza di una Europa chiamata a dar prova di sé davanti a una ecatombe che non finirà in assenza di iniziative sollecite e coraggiose. Ebbene l’Unione,

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allineando la solidarietà umanitaria con quella spesso centellinata nelle crisi finanziarie, ha fatto a metà. Ha triplicato la dotazione finanziaria dell’operazione Triton e di quella Poseidon, arrivando a quei nove milioni mensili che la sola Italia spendeva lo scorso anno con l’iniziativa Mare Nostrum. Ha moltiplicato le navi impegnate nel pattugliamento grazie agli impegni presi da Gran Bretagna (una portaelicotteri e due unità minori), Germania (tre fregate), Francia, Belgio, Irlanda. Ma ha lasciato alla discrezione di ogni comandante la possibilità di spingersi oltre le 30 miglia dalle coste italiane, che restano il limite della missione e riducono così la sua capacità di condurre operazioni di ricerca e salvataggio. Il premier britannico Cameron, a due settimane dalla prova delle urne, ha difeso una posizione che esemplifica bene il tenore del dibattito di ieri: diamo tre navi a Triton e speriamo di contribuire a salvare vite, ma le persone prese a bordo devono essere portate nel Paese più vicino cioè in Italia, non in Gran Bretagna. Il che oltretutto sembra contraddire gli accordi di Dublino, visto che una nave è territorio del Paese di cui batte bandiera. Renzi è parso soddisfatto perché l’Europa si è data per la prima volta una strategia in materia di migrazioni. In parte ha ragione, visto che ci saranno più soldi, più navi, più iniziative di cooperazione con l’Africa (si terrà un vertice euro-africano a Malta) e soprattutto, come ha assicurato la Merkel, è stato avviato un percorso per cambiare la distribuzione dei profughi. Ma è anche vero che nella confusione dei dati che esiste anche in Italia alcuni tra i 28 hanno potuto sostenere nuovamente una tesi smentita dalle cifre e cioè che Triton deve evitare di costituire, come avrebbe fatto lo scorso anno Mare Nostrum, un incoraggiamento alle migrazioni offrendo soccorsi solleciti e maggiori probabilità di salvare la pelle. La verità è che i movimenti dei disperati che fuggono dalle guerre, queste sì sempre più numerose e crudeli, sono invece cresciuti dopo la fine di Mare Nostrum e soprattutto si sono moltiplicate le perdite di vite (circa mille contro 17 nel 2014, negli stessi mesi) . Ambiguo è anche il programma su base volontaria per accogliere cinquemila profughi in Paesi che non ne ospitano o ne ospitano pochi. E Renzi si è trovato talvolta quasi isolato nelle sue battaglie, con l’appoggio soltanto di Malta e Grecia perché persino la Spagna non voleva che la Ue mettesse il naso nei suoi metodi e la Francia appariva troppo timida o troppo preoccupata dal terrorismo che le cresce in casa. L’Europa dei piccoli passi non poteva però non affrontare l’altra faccia del «che fare», quella che contempla a titolo di ipotesi la distruzione dei barconi degli scafisti con «azioni mirate», l’individuazione e la cattura dei loro capi grazie al supporto dell’intelligence e a possibili azioni lampo, in una parola la guerra al «business dei migranti». La responsabile della politica estera della Ue, Federica Mogherini, è stata incaricata di approfondire simili possibilità anche dal punto di vista legale: serve prima una risoluzione dell’Onu, si può agire in assenza di una richiesta libica (da Tripoli è invece giunta una minacciosa contrarietà), chi parteciperebbe e chi no tra gli europei e tra gli altri? Compito arduo e forse non breve. E lo stesso si può dire dell’idea di esaminare le credenziali per l’asilo in Stati amici e vicini: chi accetterebbe di creare campi di rifugiati sul proprio territorio in attesa della sentenza dei funzionari, e dove andrebbe chi avesse superato l’esame? Forse in Germania, che accoglie già un terzo di tutti i rifugiati? Altro tempo, molto tempo, mentre il tempo non c’è. L’Europa ha forse preso coscienza ieri di almeno una parte degli orrori mediterranei che esigono una sua risposta il più possibile unitaria, alta e decisa. Non basta, se vuole salvare quel tanto di identità che le resta. Il primo passo ne esige altri. Pag 2 Quel raid una notte d’inverno, l’errore dell’intelligence Usa di Guido Olimpio e Paolo Valentino Alla precisa domanda se lui e Matteo Renzi avessero discusso dei droni americani per la Libia, venerdì scorso alla Casa Bianca, Barack Obama ha risposto secco, ma abbassando gli occhi: «No, non ne abbiamo parlato». Risposta tecnicamente corretta, ma forse non completa. È probabile infatti che una discussione sui Reaper (mietitori) ci fosse stata, ma di tutt’altra natura. Fonti americane suggeriscono che già in quell’occasione Obama potrebbe avere informato il premier del tragico errore, ufficialmente commesso in gennaio, quando un drone della Cia ha colpito un «importante obiettivo» jihadista, causando però allo stesso tempo la morte dei due ostaggi, Lo Porto e Weinstein. Il dettaglio è interessante, ma non decisivo. Semmai testimonia dell’imbarazzo americano e della necessità di procedere per gradi, scusandosi in privato con gli alleati italiani,

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prima di rendere pubblica la drammatica notizia. Altra storia, ancora tutta da chiarire, è da quando l’Amministrazione americana abbia avuto certezza dei terribili effetti collaterali del raid. La caccia al bersaglio di un drone è un lavoro lento, paziente, che però non assicura mai il successo al 100 per 100. Può partire dalla dritta di un informatore sul terreno, che segnala una presenza interessante e fa scattare una ricerca che può andare avanti per settimane. I «mietitori» cercano l’obiettivo e, se lo trovano, iniziano a pedinarlo, registrano ore e ore di immagini, ricostruiscono la rete sociale del target, a volte senza neppure saperne il nome. È successo proprio questo con il terrorista del raid. L’intelligence Usa lo ha più tardi identificato come Ahmed Farouq, numero due di Al Qaeda per il subcontinente indiano. Ma all’inizio i servizi segreti americani avevano solo la vaga indicazione della fonte: un personaggio da tenere sotto osservazione. Così i droni lo hanno seguito, hanno individuato il suo compound, probabilmente nella regione di Datta Khel, nel Waziristan settentrionale. Hanno fotografato l’area, il villaggio, la presenza di civili nelle vicinanze. Poi gli analisti della Cia, lontani migliaia di chilometri, nei loro centri in Germania, in Gran Bretagna, negli Usa hanno riesaminato ore e ore di video, vagliato ogni indizio, fino a convincersi che dentro la palazzina ci fosse un qaedista e a chiedere a Washington il via all’operazione. Ma i sofisticatissimi sensori dei Predator non possono vedere tutto. La versione ufficiale ribadisce che gli occhi elettronici non hanno mai scorto la presenza di due ostaggi. Unica certezza: i missili Hellfire hanno incenerito il compound, un pericoloso capo terrorista è stato eliminato. Nessuno, nei comandi americani, è sembrato rendersi conto di cosa fosse veramente accaduto. Tanto più che a fine gennaio, la jihad aveva dato la sua conferma, annunciando il martirio di Farouk e di Qari Imran. È stato solo a febbraio che l’intelligence ha riferito di voci nell’area tribale, secondo cui due occidentali prigionieri dei talebani erano morti in un raid, che aveva anche devastato il vicino rifugio di un comandante uzbeko, alleato dei talebani cosiddetti «buoni» cioè non coinvolti negli scontri con il Pakistan. Ma nessuno collegava ancora la voce a Lo Porto e Weinstein. La Cia in quel momento non aveva risposte ai rumors. Poteva essersi trattato di un’altra operazione, lanciata dai pachistani. Forse i due cooperanti erano rimasti vittime del secondo attacco. Il sospetto che si trattasse proprio del raid americano era diventato certezza soltanto parecchie settimane dopo, una volta completata l’attenta valutazione degli attacchi, sempre grazie all’incrocio tra informazioni dal terreno e nuove immagini dei droni, alfa e omega di ogni operazione a distanza: oltre al terrorista e ai suoi complici, il «mietitore» si era portato via anche due innocenti. Una coincidenza strana: il 25 marzo, il Washington Post ha riportato che il capo del Centro per l’Antiterrorismo della Cia, conosciuto solo col nome di Roger, era stato improvvisamente esautorato e sostituito. Era considerato il vero architetto della lotta ad Al Qaeda con l’uso dei droni, braccio operativo del capo della centrale di Langley, John Brennan. Ha forse pagato per l’errore? Quando però esattamente la Casa Bianca abbia ricevuto la conferma che si trattasse di Lo Porto e Weinstein non è chiaro. Chi ha recuperato dai corpi il campione per l’analisi biologica, che ci dicono le fonti ha permesso alla Cia di stabilire la loro identità? Certo non le squadre speciali, visto che l’area tribale è impenetrabile. Forse un agente locale, mandato sul posto. E questo spiegherebbe plausibilmente la lunghezza dei tempi. In quale momento e come il povero cooperante siciliano fosse finito nelle mani del gruppo terrorista che ha segnato il suo destino, probabilmente non lo sapremo mai. Bernd Mühlenbeck, il collega tedesco rapito insieme a lui il 19 gennaio 2012 e liberato nel dicembre scorso, ha raccontato che Lo Porto da più di un anno non era più con lui. Ceduto ad altri jihadisti, forse più di una volta, trasportato in zone off limits, è stato impossibile non tanto seguirne, ma anche fiutarne con costanza le tracce per l’Unità di crisi della Farnesina, che ha coordinato il lavoro sul campo della nostra intelligence e dei diplomatici italiani impegnati nella regione. Spesso ci si è anche avvalsi dell’aiuto di altri servizi presenti nell’area, compresi quelli attivi al fianco dell’Isaf in Afghanistan. Eppure un’ombra di trattativa, anche se a sprazzi e con tante zone oscure, c’è stata. Contatti ritenuti credibili in un mondo pieno di ciarlatani e doppiogiochisti, sono stati a volte creati. Numerose esche sono state lanciate. Perfino indizi che Lo Porto fosse ancora in vita sono stati ottenuti. Ma in oltre tre anni ci sono state anche lunghissime interruzioni, spesso causate dall’estrema cautela con cui i terroristi si muovono nelle aree grigie, quelle instabili, sorvegliate dal cielo e a rischio droni. Sono terre di confine, dove la vita ha scarsissimo valore, non esiste alcuna autorità che non sia quella tribale e i jihadisti

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che vi trovano rifugio, tanto più se hanno con sé degli ostaggi, cercano di esporsi il meno possibile. L’ultimo contatto credibile delle autorità italiane con qualcuno che aveva un collegamento con i rapitori di Lo Porto risale all’autunno scorso, novembre probabilmente. Poi il buio, il silenzio più duro di un macigno, il lento scemare di ogni speranza. Fino all’annuncio drammatico della Casa Bianca. La lotta al terrorismo islamico deve anche pagare prezzi dolorosi. LA REPUBBLICA Pag 1 Mattarella: il 25 aprile patrimonio di tutto il Paese di Ezio Mauro Signor Presidente, lei ha attraversato la vita politica e istituzionale di questo Paese, ha vissuto la sfida delle Brigate Rosse alla democrazia, ha fronteggiato anche l'emergenza criminale più acuta. Che cosa legge nella data del 25 aprile, settant'anni dopo la Liberazione? "Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c'è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c'è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l'assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di "resistenti" va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città". Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell'Italia. Quell'esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente "octroyé" dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana? "Ricordo che Aldo Moro definiva il suo partito, oltre che popolare e democratico, come "antifascista": per lui si trattava di un elemento caratterizzante, appunto identitario, della politica italiana. Naturalmente nella nostra democrazia confluiscono anche altri elementi storici nazionali, ma quello dell'antifascismo ne costituisce elemento fondante. La Resistenza italiana mostrò al mondo la volontà di riscatto degli italiani, dopo anni di dittatura e di guerra di conquista. Non si può dimenticare il contributo che molte operazioni dei partigiani diedero all'accelerazione dell'avanzata alleata. Basti citare l'esempio di Genova, dove il comando tedesco trattò la resa direttamente con i partigiani. Il presidente Ciampi ha il merito di aver riportato all'attenzione dell'opinione pubblica il ruolo fondamentale che le forze armate italiane ebbero nella Liberazione. Cosa sarebbe successo se questi militari italiani avessero deciso in massa di arruolarsi nell'esercito della Repubblica Sociale? Quanto sarebbe stata più faticosa per gli Alleati l'avanzata sul territorio italiano e con quante perdite? La Resistenza, la cobelligeranza, pesarono sul tavolo delle trattative di pace". Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni? "Mio padre era antifascista. Diciannovenne, nell'anno del delitto Matteotti, aveva fondato nel suo comune la sezione del Partito popolare di Sturzo; e aveva subito percosse e olio di ricino. Il giornale che dirigeva come presidente dell'Azione Cattolica di Palermo prese una posizione molto dura contro le leggi razziali e fu sequestrato più volte. Lanciò, via radio, dalla Sicilia già libera, un appello agli italiani delle regioni ancora sotto l'occupazione nazista e di Salò: partecipava, così, idealmente alla lotta della Resistenza e faceva parte dei primi governi del Cln mentre il Nord Italia veniva via via liberato dagli alleati e dai partigiani. Sono cresciuto nel culto delle figure di don Minzoni, Giacomo Matteotti, don Morosini, Teresio Olivelli". È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine? "Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto

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impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L'abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell'odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell'uomo, del sistema democratico". Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana "molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo"? "Della Costituzione vanno sempre richiamati, anzitutto, l'affermazione dei diritti delle persone, che preesistono allo Stato, e il dovere della Repubblica di realizzare condizioni effettive di uguaglianza fra i cittadini. Si tratta di punti centrali con cui i Costituenti hanno caratterizzato la nostra convivenza e che hanno dato risposta al desiderio di libertà e di giustizia di chi si batteva per liberare l'Italia. Bobbio diceva bene: non vi è dubbio che la Costituzione, dopo la dittatura, la ribellione e la resistenza non poteva che essere molto diversa da quella prefascista, disegnando una democrazia molto più avanzata, una Repubblica con finalità più ambiziose e doveri più grandi verso la società, del resto in linea con gli apporti culturali della gran parte della forze politiche dell'Assemblea Costituente". Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla "Resistenza tradita", che ancora riemerge? "Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: "Vorrei dire che in realtà c'è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta "Resistenza tradita", che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell'ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall'impulso della Resistenza". Condivido dalla prima all'ultima parola". C'era in quella formula un sentimento che potremmo definire di "delusione rivoluzionaria", da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato? "Ogni movimento di liberazione porta con sé l'orizzonte e la ricerca di un ordine pienamente giusto e risolutivo dei temi della convivenza. Ma io credo che nessuno, oggi, guardando indietro possa ignorare che in Italia si è sviluppata una profonda e pacifica rivoluzione sociale: territori e fasce sociali, un tempo povere e del tutto escluse, hanno visto una radicale crescita. Il rammarico è che questo non sia avvenuto in maniera ben distribuita e ovunque e che il divario con il Mezzogiorno abbia ripreso ad aumentare. Ma chi ricorda le condizioni economiche e sociali dell'Italia negli anni Quaranta e Cinquanta può valutarne le trasformazioni intervenute nei decenni successivi. Va anche sottolineato che quel processo di crescita, difettoso per diversi profili, si è realizzato salvaguardando la democrazia, malgrado quel che è stato tentato per travolgerla, con insidie, come la loggia P2, aggressioni violente e stragi. Quelle trame a cui lei fa riferimento avevano un disegno e un obbiettivo comune. Quello di abbattere lo Stato democratico, di cancellare la Costituzione del 1948, di aprire la strada a un regime tendenzialmente autoritario. In questo senso, i terrorismi di qualsiasi colore - fatte salve tutte le diversità ideologiche, politiche e culturali - avevano un nemico in comune. Vi sono stati tradimenti della Costituzione ma va anche detto che le istituzioni e le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, hanno resistito. Il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro ne costituiscono prova evidente". Il terrorismo rosso che ha insanguinato l'Italia si è richiamato alla guerra partigiana: la sinistra operaia ha respinto quel progetto, e lo Stato democratico lo ha sconfitto. È stata

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questa la minaccia più forte per la democrazia repubblicana nata dalla Liberazione? Lei ha vissuto quegli anni, la tragedia Moro in particolare. Sente oggi come altrettanto grave la sfida del terrorismo jihadista? Non crede che oggi come allora, con tutte le differenze necessarie, lo Stato abbia il diritto di difendersi e di difendere i suoi cittadini che gli hanno concesso il monopolio della forza, ma insieme abbia anche il dovere di farlo rimanendo fedele alle regole democratiche e di legalità che la democrazia impone a se stessa? "La lotta al terrorismo fu condotta dallo Stato senza sospendere le libertà civili e democratiche. Fondamentale, per battere il terrorismo, è stata l'unità di popolo. I brigatisti rossi capirono ben presto che la loro sconfitta era avvenuta prima sul piano politico - nel rifiuto, cioè, delle masse operaie, di seguirli nella lotta armata - che sul piano militare o di polizia. Basti pensare al sacrificio di Guido Rossa. Nel caso del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta la minaccia proveniva dall'interno. Oggi abbiamo una o più entità esterne, presenti in Paesi diversi, che incitano su Internet alla guerra santa contro l'Occidente e che confidano in una rivolta spontanea dei musulmani presenti all'interno di quei Paesi che si vorrebbero sottomettere al Califfato. Non c'è dubbio che si tratti di una minaccia nuova e insidiosa. La risposta alla globalizzazione del terrore non può essere cercata che nella solidarietà internazionale (la stessa per cui molti cooperanti mettono a rischio la vita, come è successo a Giovanni Lo Porto) e nella collaborazione sempre più stretta tra i Paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza. La sfida è, oggi come ieri, molto impegnativa. Non c'è dubbio che la società aperta e accogliente abbia dei rischi in più in termini di sicurezza rispetto a uno Stato di polizia. Ma possiamo chiedere ai cittadini europei di sobbarcarsi qualche fastidio o controllo in più, non certo di vedersi limitare diritti e prerogative che ormai sono patrimonio comune e irrinunciabile. Tradiremmo la nostra storia e i nostri valori". Ma la Resistenza negli ultimi vent'anni è stata anche oggetto di una lettura revisionista che ha criticato la "mitologia" resistenziale e il suo uso politico da parte comunista, che pure c'è stato, attaccando il legame tra la ribellione partigiana al fascismo e la nascita delle istituzioni democratiche e repubblicane. Qual è il suo giudizio? Perché non c'è una memoria condivisa su una vicenda che dovrebbe rappresentare il valore fondante dell'Italia repubblicana? "Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, "dalla parte sbagliata" o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell'infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l'Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall'intero Paese". Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il "triangolo rosso" e le Foibe in quegli anni? Non c'è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant'anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto? "È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all'esodo degli Italiani dall'Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L'esposizione del corpo di

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Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un'ideologia totalitaria e razzista". Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell'una e dell'altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. "Tutti uguali davanti alla morte - scrive Calvino - non davanti alla storia". Qual è la sua opinione? "Calvino mi sembra abbia centrato il tema. Non c'è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall'altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?". Vorrei chiudere con Bobbio. "Il rifiuto dell'antifascismo in nome dell'anticomunismo - ha scritto - ha finito spesso per condurre ad un'altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo". E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, "se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d'Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero". "Credo che quella dell'abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ". LA STAMPA Bruxelles resta ostaggio dei nazionalismi di Stefano Lepri La Germania è incapace di cambiare scelte economiche giuste ieri, inadeguate oggi; paralizza tutti l’instabilità politica della Francia. Ancora una volta, messa sotto pressione da un dramma, l’Europa concorda misure limitate, non risolutive. Senza l’orrore dei migranti annegati, i suoi governi non sarebbero riusciti a concordare nulla e avrebbero proseguito nel consueto scaricabarile reciproco. Le difficoltà dell’Unione oggi stanno tutte in questo oscillare tra l’inerzia e azioni tardive o carenti che a loro volta innescano nuove difficoltà. Così è stato per la crisi dell’euro, così per la crisi ucraina; così è di fronte ai barconi stracarichi che affondano nel Mediterraneo. Da una parte è chiaro che esistono problemi troppo grandi per essere affrontati da ciascuno Stato separatamente, come il rapporto con la Russia e la sorveglianza delle coste. Dall’altra la cattiva qualità delle decisioni collettive esaspera, spingendo alcuni a sognare ritorni all’indietro. Alcuni che oggi inveiscono contro l’Europa che non aiuta l’Italia contro gli scafisti sono gli stessi che ieri inneggiavano alla «sovranità monetaria» sognando un’uscita dall’euro. La contraddizione è evidente; peraltro occorre capirne le ragioni. Il corso della storia si è accelerato. Guardiamo all’euro: ancora all’inizio del 2009, quando se ne celebrò il decennale, poteva essere celebrato come un successo. La distanza fra Paesi ricchi e Paesi poveri si era ridotta, la piccola Islanda stremata dalle sue banche vi guardava come a un rifugio sicuro. Oggi invece il mondo rimprovera all’area euro di frenare la crescita economica di tutti. Di rinvio in rinvio siamo incapaci di risolvere la crisi greca; comunque vada a finire con il governo Tsipras ne seguirà una scia enorme di risentimenti. Quanto sia fragile l’edificio europeo lo mostra anche la facilità con cui

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Vladimir Putin riesce a eroderlo ai margini. Perfino i magri favori di una Russia oggi senza soldi - a causa del basso prezzo del petrolio - hanno già asservito il governo di destra dell’Ungheria, allettano ora il governo greco dominato dall’estrema sinistra. Si sente dire spesso che questa fragilità proviene dall’aver pensato solo a costruire un edificio economico, trascurando di alimentare con gesti concreti le ragioni politiche dello stare insieme, la solidarietà, lo spirito di una cittadinanza condivisa. Così alla gente sembra, e in parte è vero. Ma per un’altra parte è il meccanismo economico a risultare incompleto. Sono cospicui interessi economici nazionali a preferire, a istituzioni europee che potrebbero sovrastarli, governi nazionali su cui sono capaci di influire. Nella crisi dell’euro, gli «errori nella sequenza temporale delle misure» riconosciuti ora dalla Bce furono imposti da una omertosa protezione dei sistemi bancari nazionali più forti. Il «divide et impera» di Putin su gas e greggio funziona perché le lobby dell’energia nazionali dell’Europa sono rivali tra loro. Per converso, non sono i tecnicismi ad aver imposto nell’area euro politiche di bilancio troppo restrittive, quanto una maggioranza politica di Stati dai bilanci sani diffidente verso gli Stati deboli (se il tecnocrate capo, Mario Draghi, avesse potuto decidere da solo, avrebbe fatto scelte più equilibrate). La mancanza di fiducia reciproca tra i governi è dovuta al fatto che ciascuno vede l’altro troppo debole nei confronti delle forze economiche o politiche che la crisi ha sprigionato al suo interno. Parrebbe evidente che una misura liberale come l’abolizione dei controlli di frontiera nell’area Schengen richieda di portare sulla stessa scala europea quelle funzioni a cui anche i fautori di uno «Stato minimo» sono favorevoli: guardia dei confini comuni e accoglienza degli immigranti. La pressione sulle frontiere marine di Italia, Grecia, Spagna è rafforzata dall’esistenza di uno spazio comune europeo in altre parti del quale è più facile trovare lavoro. Dunque va regolata insieme; ma noi per primi dobbiamo mostrare di mettercela tutta, per ispirare fiducia. Non è tempo di ambiziosi progetti, lo sappiamo. Ma ci sono alcune parti dell’edificio europeo che vanno consolidate perché altrimenti ci crollano addosso; e per consolidarle bisogna rifarle meglio. Il pericolo più grave è che divergenze politiche normali in democrazia (sui migranti come sulle politiche economiche) vengano travestite da contrasti fra nazioni e vissute dalla gente come tali. AVVENIRE Pag 1 Grazie Giancarlo di Marco Tarquinio La morte sbagliata di un uomo giusto Grazie, Giancarlo. Grazie, grazie, grazie. Mentre, poco a poco, raccoglievamo brandelli di notizie sulla morte nascosta, violenta e atroce di Giovanni Lo Porto – Giancarlo, per quelli che lo conoscevano e gli volevano bene –, mentre dagli Usa e dall’Italia fioccavano dichiarazioni pensose o veementi sulla tragica, fallimentare conclusione 'dronica' del rapimento qaedista di questo cooperante italiano per nascita, pakistano per scelta, cittadino del mondo per vocazione, non siamo riusciti a pensare che questo: un grazie pieno di dolore, di convinzione e di luce. Giancarlo era uno di quelli, senza grande potere, ma generosi e colti, capaci e buoni, che ogni giorno in pezzi difficili di mondo fanno tenacemente la cosa giusta per costruire un altro mondo. Era uno di quelli che fanno 'dal basso', senza tante storie, con senso della storia e della giustizia, ciò che troppi politici dei Paesi più ricchi e in pace (ma non con la propria coscienza) e troppi governanti dei Paesi più poveri e in guerra (anche con la propria gente) sanno benissimo di dover fare eppure mai si decidono a fare. E ieri sera, a Bruxelles, tra i Ventotto, abbiamo avuto l’ennesima prova che si sono incrinati appena dure miopie e grevi egoismi. Giancarlo, invece, era uno di quelli che lavorano sul serio per smontare le fabbriche della disperazione, per fermare le catene di montaggio degli sradicamenti e delle fughe di milioni di uomini e di donne dalle proprie patrie, per interrompere i 'rifornimenti umani' alle fabbriche della morte (e della xenofobia) che i malpensanti e malcomizianti di mezzo mondo chiamano, con disgusto, i «flussi migratori clandestini». Ecco. In questo giorno di lutto e di domande inquietanti che reclamano risposta (perché l’«errore »? perché tre mesi di silenzio Usa?), in queste ore di tardive scuse, di emozionate condoglianze, di indignazioni impazienti, di inevitabili angosce e di trattenute grida, sarebbe importante riuscire a sentire e capire tutti insieme, da Barack Obama e Matteo Renzi a ogni cittadino semplice di qualunque Paese e soprattutto del nostro, che

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il mondo reale e giusto è quello di Giancarlo e non quello dei jihadisti sanguinari e ciechi e dei droni letali e, spesso, altrettanto ciechi. Serve capirlo, dirlo e ripeterlo proprio oggi, in cui il trionfo della logica della guerra appare totale. Proprio oggi che rivela la sua potenza ammazzagiusti l’ultima versione di una tenaglia antica e feroce: la lama elementare e spietata del fondamentalismo religioso e politico islamico e la spada tecnologica e inflessibile della reazione occidentale. Proprio così: bisogna saper vedere e riconoscere – e, con questa consapevolezza, decidere di essere conseguenti – che il mondo reale e giusto è quello di Giancarlo, e dei suoi fratelli, e delle sue sorelle. È il mondo di 'quelli che cooperano' alla dignità degli uomini e delle donne, ovunque siano nati, e soprattutto se sono nati nella parte sbagliata di una Terra che è diseguale solo perché gli esseri umani la rendono tale. È il mondo di 'quelli che cooperano' allo sviluppo integrale dell’umanità, e che non è reso meno reale e meno giusto neppure dai vermi che – come nella Roma di 'mafia capitale' – provano a divorarne il cuore. È il mondo dei giusti, che i fanatici di ogni risma (e gli sciocchi che s’intruppano nel campo d’odio che quei fanatici a tutti vogliono riuscire a imporre), non intendono veder crescere e che combattono, intimidendo, sequestrando, uccidendo. E il mondo dei giusti non è il mondo dei droni, di questi droni. Perché non basterà mai «bombardare» per «fermare» davvero il male, e per sanarlo. Chi non avesse ancora capito questa parola di papa Francesco, ora può forse comprenderne meglio la verità e la profondità. Grazie. Grazie a Giancarlo-Giovanni Lo Porto. Per la vita che ha accompagnato e reso migliore, e per la vita che ha dato. Grazie, persino per la sua morte sbagliata. Grazie, perché, comunque la pensasse, è stato un uomo che 'respirava cristiano' e che ha insegnato a uomini come lui a respirare liberamente e degnamente. C’è da sperare che nella sua Palermo, e non solo, gli intestino presto una scuola, non solo una via. Meglio un luogo dove s’impara il domani. Pag 3 Non profit e politica distinti. Così la lezione americana di Gian Paolo Barbetta La delega sul terzo settore e l’esempio delle regole Usa Dopo l’approvazione da parte della Camera dei Deputati, il disegno di legge delega sulla riforma del terzo settore è approdato al Senato. Dal momento in cui il Governo ha presentato il suo testo in Parlamento, nell’agosto dello scorso anno, sono accaduti fatti di cui la riforma dovrebbe tener conto, già nel testo della legge delega oltre che poi nei decreti delegati. Innanzitutto, nel dicembre del 2014, l’inchiesta Mafia Capitale ha svelato il coinvolgimento di una cooperativa sociale (la '29 giugno') nella gestione di attività illegali e nell’organizzazione di quello che appare come un vero e proprio sistema mafioso di spartizione degli appalti e della spesa sociale del comune di Roma. Si è trattato di un evento traumatico per il terzo settore, le cui organizzazioni – forse per la prima volta in forma tanto marcata – sono parse permeabili a logiche che poco hanno a che vedere con le finalità civiche e solidaristiche a cui fanno riferimento sia la legge che il 'senso comune' di molti cittadini, in primo luogo i volontari che in queste organizzazioni operano. Inoltre, nelle ultime settimane, lo scandalo legato agli appalti di Ischia ha portato in primo piano altre organizzazioni del terzo settore, quelle che potremmo chiamare 'fondazioni culturali vicine alla politica'. Si tratta di un insieme di organismi cresciuto molto di numero negli ultimi anni, la cui gestione non sempre è pienamente trasparente e la cui vicinanza al sistema dei partiti rischia di farle percepire come strumenti opachi che potrebbero favorire comportamenti illeciti. Anche in questo caso, le conseguenze negative sul terzo settore sono state massicce, vista la tendenza di certi commentatori ad accomunare tutte le fondazioni, indipendentemente dalla loro origine e funzione. Q uesti eventi gettano un’ombra di discredito sul terzo settore e ne minano la reputazione. Per questo vanno presi molto sul serio, tanto che le organizzazioni capofila del settore dovrebbero proporre contromisure che facilitino l’emersione e l’individuazione dei comportamenti scorretti e consentano di rigettarne le logiche. Allo stesso modo dovrebbero immaginare come poter 'segnalare' ai cittadini i soggetti virtuosi. Ma un contributo importante può venire anche dalla regolazione del settore e, da questo punto di vista, qualche insegnamento può essere tratto dalle regole che il legislatore statunitense ha adottato già da molto tempo, specie in due campi: l’attività politica e le responsabilità degli amministratori delle organizzazioni del terzo

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settore. Partiamo dall’attività politica. L’indagine 'Mafia capitale' ha fatto emergere il versamento, da parte della cooperativa sociale 29 giugno, di molti contributi a uomini e partiti politici. La legislazione statunitense, da questo punto di vista, è molto chiara: alle charities in senso proprio (le organizzazioni '501(c)3', il nocciolo di ciò che noi chiameremmo organizzazioni di terzo settore) è vietato il coinvolgimento in ogni attività a favore di un partito, di un candidato o di un uomo politico. Una charity può stimolare la partecipazione al voto o anche stimolare l’attenzione verso una causa particolare (ad esempio la condizione dei disabili) a patto che lo faccia in maniera 'non partigiana'. Ogni azione a favore di un singolo politico, incluso il versamento di contributi a uomini politici e amministratori, le è invece preclusa, pena la perdita completa dei benefici fiscali. Possono invece svolgere attività politica, anche a favore di singoli candidati, quelle organizzazioni nonprofit che sono classificate come '501(c)4', ma queste ultime non godono di benefici fiscali. Perché una cooperativa sociale (o una fondazione filantropica, o una associazione di promozione sociale) dovrebbe – legalmente – poter distribuire denaro a uomini e partiti politici, godendo poi di consistenti benefici fiscali? Non sarebbe meglio turare questa falla proibendo questi comportamenti? Passiamo poi alla responsabilità degli amministratori. Anche in questo campo la legislazione statunitense, nel corso degli anni, ha sviluppato regole di condotta a cui anche gli amministratori delle organizzazioni italiane dovrebbero attenersi. L’obiettivo di fondo della legislazione statunitense è quello di sostenere l’attività di amministrazione come «servizio a favore dell’organizzazione di terzo settore», vietando perciò quei comportamenti che, a causa del conflitto di interessi tra gli amministratori e l’organizzazione, possono danneggiare quest’ultima. In generale la legislazione statunitense stabilisce che nessun amministratore può, in virtù della propria influenza sull’organizzazione che dirige, trarre vantaggi di tipo personale dal rapporto con quest’ultima. Regole ben precise vietano perciò, ad esempio, lo scambio o la vendita di beni tra l’organizzazione e i suoi amministratori o dipendenti, così come impediscono che – a questi stessi soggetti – l’organizzazione conceda credito, ceda beni o paghi somme (incluse le retribuzioni) ritenute eccessive e tali da configurare un danno all’organizzazione stessa. Nel caso delle fondazioni – istituzioni particolarmente delicate per gli aspetti patrimoniali che le contraddistinguono e per i possibili risvolti elusivi della loro attività – queste regole sono intensificate e si applicano non solo a dipendenti e amministratori, ma anche, per esempio ai fondatori, ai donatori, ai loro familiari, alle loro imprese e a certe categorie di amministratori pubblici. La discussione italiana sulla riforma del terzo settore sta trascurando sistematicamente questi aspetti fondamentali della vita del terzo settore. Non sarebbe opportuno, prima di varare una riforma tanto attesa, comprendere meglio ciò che – in questo campo – hanno fatto altri Paesi con una tradizione più antica della nostra? Pag 6 Il musulmano che ha scelto di morire con i cristiani di Giorgio Bernardelli C’era anche un musulmano insieme ai 28 cristiani etiopi uccisi in Libia dallo Stato Islamico e mostrati nell’ultimo orrendo video diffuso domenica scorsa dai jihadisti. E sarebbe morto per non aver voluto abbandonare l’amico cristiano insieme al quale stava compiendo il viaggio verso le coste della Libia, con l’intenzione di raggiungere l’Europa. La notizia arriva direttamente dall’Etiopia ed è stata rilanciata ieri in Italia dal sito del Pime MissiOnLine. Da domenica ad Addis Abeba si sta cercando di dare un’identità alle vittime mostrate nel video; così – ad esempio – si è scoperto che alcuni dei cristiani uccisi in realtà sono di nazionalità eritrea. Ma la vera sorpresa è stata la scoperta all’interno del gruppo di un musulmano chiamato Jamal Rahman. A confermare la sua presenza è stata una fonte legata agli shabaab, i fondamentalisti islamici che combattono in Somalia, che a un giornale on line del Somaliland ha spiegato che si sarebbe «convertito» durante il viaggio. Un’altra fonte sempre legata all’universo jihadista sostiene invece un’altra tesi, più verosimile: con una scelta che questo testimone definisce «folle», Jamal si sarebbe offerto volontariamente come ostaggio per non abbandonare da solo nelle mani dei miliziani dello Stato islamico un suo compagno di viaggio cristiano. Forse sperava che la sua presenza avrebbe cambiato la sorte degli altri ostaggi. La notizia, in qualche modo, è filtrata. Con il risultato che proprio lo strumento della propaganda jihadista è divenuto il veicolo per raccontare la storia di un

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musulmano coraggioso che non ha accettato di abbandonare gli amici cristiani al loro destino. Così adesso sui social network tanti musulmani etiopi condividono il fotogramma che lo ritrae, additandolo come il vero volto dell’islam, da contrapporre alla follia dello Stato Islamico. IL FOGLIO Pag 1 Corano a catechismo di Matteo Matzuzzi “Basta girare attorno ai problemi. Ci perseguitano perché siamo cristiani”, dice un vescovo keniota Roma. "Basta girare attorno alla questione delle persecuzioni cristiane. Stiamo assistendo a un'allarmante crescita dell' islamismo. Noi siamo minacciati in quanto cristiani, e le istituzioni non ci difendono". Il politicamente corretto non s'addice a mons. Anthony Muheria, vescovo di Kitui, diocesi di quel Kenya che ancora è sconvolto dalla mattanza del 2 aprile scorso, che se la prende con le coscienze addormentate incapaci di accorgersi di quel che avviene sotto i loro occhi, tra decapitazioni e roghi e persecuzioni, dal vicino e medio oriente all'Africa. Quel 2 aprile che segnerà la storia della città di Garissa, miliziani somali di al Shabaab eliminarono 150 studenti, chi a colpi di pistola, chi decollato, dopo averli salomonicamente divisi: cristiani da una parte, musulmani dall'altra. I primi da macellare, i secondi da salvare. Ecco perché oggi, i vescovi kenioti stanno meditando di spendere le ore del catechismo per inculcare nella testa dei fedeli alcuni elementi fondamentali del Corano, da saper ripetere a memoria nel caso un jihadista armato di coltellaccio chiedesse - in cambio della sopravvivenza - il nome della madre di Maometto. Ci vogliono chiarezza e coraggio, dice il monsignore secondo quanto riportato dal portale Crux nella ricostruzione di John Allen. Chiarezza e coraggio nell'ammettere che l'obiettivo di al Shabaab è quello di "fare dell' Africa un continente interamente musulmano". Con il beneplacito - dice - anche di certi "islamici moderati che provano simpatia per quegli intenti". E questo nonostante si ripetano gli appelli al dialogo, come dimostra la dichiarazione diffusa mercoledì dal Pontificio consiglio che si occupa di questioni interreligiose, guidato dal cardinale Jean-Louis Tauran. A essere distorta, sostiene il vescovo Muheria, è la prospettiva con cui dall'Europa si guarda ciò che accade nelle terre preda del jihad: non tutti i pesci che finiscono nella rete dei fondamentalisti sono, infatti, poveri e disperati. Si pensi, ad esempio, che uno dei terroristi attivi a Garissa era il figlio di un funzionario governativo, descritto come "un bravo studente di legge con un sicuro futuro professionale". Coraggio, ci vuole, anche nel sottolineare che la matrice dell' attentato a Garissa era solo e soltanto religiosa. Invece, dal governo di Nairobi s'è parlato genericamente, dice il presule, di "attacco contro tutti i kenioti". Sono tutte "cortine di fumo" alzate "per evitare di dire che a essere minacciati sono i cristiani. E' ora di smetterla di girarci attorno. Non sono le minoranze a essere trucidate. Sono i cristiani", quasi urla all'indirizzo dei tanti perbenisti che s'affollano nel precisare, minimizzare, differenziare e soppesare parole e verbi e aggettivi per non scontentare qualche potenziale interlocutore al di là del mare. C'è, nelle parole di mons. Muheria, anche la frustrazione di chi ha visto la sfilata di presidenti e primi ministri per le vie e le piazze di Parigi dopo la fusillade nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, mentre a Garissa, dinanzi a 150 corpi martoriati di studenti, ha assistito all' assenza di analoghi moti d' indignazione e orrore: "Non un solo capo di stato è venuto qui", ha osservato Muheria, aggiungendo che, probabilmente, non tutte le vite "hanno lo stesso valore". IL GAZZETTINO Pag 1 Le risposte non date dall’alleato di Paolo Graldi Va bene, il presidente Barack Obama, nel suo asciutto e anche sofferto annuncio della avvenuta uccisione di Giovanni Lo Porto (39) e Warren Weinstein (72) per effetto di un’azione antiterrorismo della Cia, ha detto con eloquente chiarezza di «assumersi ogni responsabilità» per l’accaduto. E l’accaduto, è già evidente, apre un ventaglio di interrogativi le cui risposte, è stato promesso dal presidente Usa, si dispiegheranno, ove possibile, nel tempo a venire. Vi diremo quanto potremo dirvi, salvo gli aspetti che dovranno restare segreti: questa la sostanza del discorso. L’operazione è stata condotta

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con droni, velivoli senza pilota, costruiti per azioni di chirurgia bellica: volano invisibili, sono silenziosi, difficili da individuare, sganciano ordigni ad altra precisione su bersagli anche molto circoscritti. Esattamente come è successo contro il compound che ospitava due gran capi di Al Qaeda, cittadini americani divenuti seguaci di Osama Bin Laden, al confine tra Pakistan e Afghanistan. Un colpo grosso per la Cia, visto dalla parte della Cia. Si sapeva dei ricercati da colpire, ma si ignorava la presenza degli ostaggi: le bombe, intelligenti ma cieche, non hanno fatto distinzioni. È probabile che le indicazioni raccolte da informatori locali fossero in deficit di dettagli e che sia stata “venduta” una notizia a forfait, un tanto al chilo. È tuttavia anche possibile, se non probabile, che la presenza di Lo Porto e Weinstein non sia stata volutamente segnalata, considerata piuttosto un intralcio trascurabile rispetto all’obiettivo principale. Può anche darsi che la banda di qaedisti d’alto rango, accanitamente ricercati da anni, tenesse i due cooperatori proprio in quel posto sperduto per farne degli scudi umani. Resta da capire meglio come colmare i vuoti temporali che avvolgono i fatti. Le bombe sono cadute a metà gennaio ma soltanto ieri si è saputo dell’uccisione dell’italiano e dell’americano. Lo stesso Obama, a quel che pare, non ne ha fatto alcun cenno durante la visita del premier italiano Renzi alla Casa Bianca nei giorni scorsi. Neppure Obama, tre giorni fa, sapeva? E la Cia quando esattamente ha capito come stavano le cose? Certezze poche, comunque a scoppio ritardato visto che ne parliamo solo adesso, che si aprono ad altre domande. Per esempio questa: l’Italia, attraverso una telefonata Obama-Renzi, ha saputo della morte di Lo Porto, dopo tre lunghi anni di silenzio sulla sorte dello stimatissimo professionista della cooperazione, esperto con vasta esperienza internazionale in zone difficilissime, da Haiti al Pakistan, dov’era infine approdato dopo un terremoto seguito da un’alluvione. Il suo compagno di sventura era riuscito a lanciare un video verso casa e contro il governo americano: «Mi avete abbandonato». Sul piano più strettamente diplomatico appare comunque singolare che Obama abbia voluto dare l’annuncio al mondo della tragedia di punto in bianco lasciando alle autorità italiane (governo) di apprenderne i pochi dettagli solo poche ore prima dell’accaduto, consentendo al premier di esprimere la propria costernazione e all’unità di crisi della Farnesina di avvertire la famiglia di Giovanni Lo Porto. Non è una questione di galateo internazionale: la rivendicata, radicata e profonda amicizia tra i due Paesi aveva forse bisogno anche di apparire tale nella dolorosa circostanza. Si è lasciato intendere che la lotta al terrorismo comprende purtroppo margini di errore, errori capaci di produrre feriti e lutti anche sugli stessi fronti alleati: si mette nel conto, con crudo realismo, un prezzo (sempre possibile) da pagare. Ma, quale prezzo? A quale prezzo? E a fronte di quali esigenze indefettibili? È viva la memoria dell’altro caso della cittadina americana, ostaggio dell’Isis, della quale è stata ammessa la morte via drone dopo reticenze e malcelati imbarazzi. Insomma, c’è l’esigenza di fugare i dubbi di chi nel Parlamento italiano paventa un ”trattamento da sudditi”. Per associazione di idee, mentre si mette in campo con determinazione l’uso di droni per contrastare i mercanti di carne umana colpendone i barconi, s’affaccia con evidenza la delicatezza di questa chirurgia che potrebbe rivelarsi assai più invasiva e dannosa rispetto agli affreschi che la rappresentano come una via facile ma ancora tutta da pensare per bene, ripensare e poi applicare. Scongiurando colpi di coda dall’esito tutt’affatto indesiderato. LA NUOVA Pag 1 Prevalgono gli egoismi nazionali di Giancesare Flesca Quanti speravano che la mattanza di migranti nel canale di Sicilia avrebbe convinto l'Europa a mostrare finalmente un'anima sono rimasti ancora una volta delusi. Sul vero nodo che il Consiglio di Bruxelles era chiamato a sciogliere, è venuta fuori la solita faccia, intessuta di ipocrisia e di gretta difesa degli interessi nazionali. Infatti sulla questione chiave, cioè quella dell'accoglienza ai diseredati che sbarcano sulle nostre coste, nessuno si è particolarmente commosso. Fin dall'inizio dei lavori la posizione di David Cameron, che pure nei giorni scorsi aveva fatto l'autocritica sulla propria politica mediterranea, è apparsa chiara e condivisa da tutto il fronte del nord: va bene altre navi a pattugliare quel braccio di mare, a condizione che l'Italia si tenga i profughi e non ne faccia arrivare «nemmeno uno» in Inghilterra. Questa scelta miope e crudele è stata mascherata con le abituali parole incoraggianti e lusinghiere per il nostro paese,con la

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futile accettazione della sua leadership, con il classico rinvio delle decisioni più importanti ad un altro vertice, un nuovo summit destinato non si sa bene a che cosa. D'altronde sono bastate poche ore,ieri, per fare giustizia di tante ipotesi formulate dallo sciocchezzaio continentale negli ultimi giorni. Bombardare gli scafisti con i droni? Sono stati i Predator della Cia ad uccidere il nostro cooperante Giovanni Lo Porto e il suo compagno di sventura americano nella prigione qaedista in Pakistan. Quegli stessi strumenti di morte che nel 2010 avevano compiuto 150 incursioni contro i talebani, ammazzando per la loro imprecisione centinaia di innocenti e suscitando tanta indignazione nel mondo da far ridurre quest'anno le missioni ridotte a cinque soltanto,una delle quali fatale per gli occidentali. L'episodio tuttora poco chiaro ha provocato un terremoto politico da cui è investito con asprezza il governo italiano,anche per i ritardi di Obama nell'informare gli alleati del disastro. E di quegli stessi aerei senza pilota, che peraltro sarebbero disponibili con le armi non prima di un anno, l'Europa dovrebbe servirsi per punire i “nuovi schiavisti”? Oppure si pensa a operazioni dal cielo o incursioni di terra, già respinte con forza dal governo di Tripoli,che pretende il suo riconoscimento internazionale per autorizzare iniziative militari? E la trattativa Onu per la riappacificazione fra le varie forze libiche, che fine farebbe? A queste domande non c'è risposta possibile. L’unico punto di accordo fra i 28 è stata la proclamazione di una sorta di jihad europea contro gli scafisti, spesso ultimo anello di una catena molto più strutturata. Per sconfiggere gli organizzatori del traffico,quelli che guadagnano milioni di dollari sulla pelle dei poveracci bisogna fare, dice la Ue, una «operazione di polizia»contro di loro. Allora servono campi di accoglienza nei paesi africani coinvolti dall'esodo di massa, presso i quali esaminare le richieste di asilo politico per poi trasferire chi ne ha diritto in maniera civile. Ma non risulta che la Francia abbia messo a disposizione dei fuggiaschi dal Sahel i suoi presidi militari nella regione, l'ultimo dei quali, denominato Barkhane, coinvolge appunto Mauritania, Mali, Burkhina Faso, Niger e Ciad. Né risulta che l'Onu, sotto la guida dell'improbabile Ban Ki Moon, si stia attrezzando per gestire quei check point di snodo indispensabili per governare davvero i flussi migratori. C’è poi l’operazione Triton. Si triplicano le spese ma non si delineano chiaramente nuove regole di ingaggio: le navi europee svolgeranno anche ricerca e soccorso come faceva meritoriamente Mare Nostrum, o si limiteranno come adesso a difendere le coste mediterranee dell'Unione? Pure su questo, malgrado le dichiarazioni della Merkel, non è stata detta una parola chiara e definitiva. Insomma, campa cavallo. Anche se aspettare significa assistere a tanto altro sangue nel Canale di Sicilia, teatro pure ieri di nuovi sbarchi di migranti,che si aggiungono ai 70 mila dei quali dobbiamo prenderci cura, nell’indifferenza colpevole di Bruxelles e del grande fratello di Washington. Pag 1 Due genocidi, il ricordo e il monito di Vincenzo Milanesi Due date una vicina all’altra. 24 e 25 aprile. Sono i giorni in cui, un secolo fa per la prima e settant’anni per la seconda, accaddero due fatti che non possono, e non devono, essere dimenticati. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915 comincia la tragedia del popolo armeno, il primo genocidio del “secolo breve”. Cui seguirà quello degli ebrei d’Europa, dopo un ventennio. Non saranno gli unici di quel secolo. Ma certo sono quelli più vicini a noi europei, che ci toccano più da vicino. E il 25 aprile per noi italiani segna la data della Liberazione da un regime che fece propria l’aberrante ideologia che portò alle leggi razziali, ai campi di sterminio, alla Shoah. La Shoah ha il comune con il Medz Yeghern, il Grande Male che si è abbattuto sul popolo armeno, il fatto di essere stata un’azione lucidamente, scientificamente, programmata per sterminare il popolo ebraico “colpevole” di non essere ariano, di essere una razza diversa da quella “pura”, di professare una religione cui si era mantenuto fedele nei secoli, dopo la diaspora, che ne marcava l’identità, e quindi la “diversità”. Così come il popolo armeno si connotava come “diverso” per la nuova Turchia dei Giovani Turchi, musulmani, che vedevano nella nazione armena, prima a dirsi cristiana nella storia, un ostacolo alla creazione di quell’unità politico-culturale cui miravano, fondata su un presupposto etnico-nazionalistico nel quale la religione faceva da collante rafforzativo in una prospettiva di carattere identitario. Così come gli ebrei d’Europa “inquinavano” irreparabilmente l’idea della creazione di un’Europa ariana. Sappiamo bene che la complessità che connota

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sempre l’accadere dei fenomeni storici nel loro divenire e nella loro struttura profonda, deve indurre a evitare di avvicinare fra loro vicende che hanno ciascuna, nella propria unicità, ragioni e cause peculiari che ne determinano le specificità. E così è certamente anche per quelle di cui qui si sta parlando. Così come del tutto casuale è la vicinanza di date tra quella che segna l’inizio dello sterminio degli armeni e quella che vede la fine del regime nazifascista in Italia. Ma resta innegabile il fatto che sia quello degli armeni di Anatolia che quello degli ebrei d’Europa sono stati due genocidi perpetrati entrambi sulla base di taluni, significativi comuni presupposti. E un particolare spesso trascurato merita forse oggi, alla vigilia della ricorrenza di quelle date, di essere ricordato. È noto infatti che Adolf Hitler, nel pieno delle operazioni di sistematico sterminio degli ebrei ormai avviata, a fronte del rischio di una reazione dell’opinione pubblica internazionale contro il Terzo Reich per quanto cominciava a trapelare fuori dalla Germania nazista, si richiamava proprio al genocidio degli armeni di appena un ventennio prima per sottolineare come quel crimine orrendo fosse già stato dimenticato, e come quindi vi fossero ragioni per ritenere che anche quello in atto nel Reich potesse essere facilmente archiviato e sepolto ben presto, rimuovendolo dalla propria memoria, da quella medesima opinione pubblica. E quindi, in definitiva, dalla storia, che l’avrebbe così “assolto” con il giudizio implicito della dimenticanza e dell’oblio. È chiarissimo in questo episodio, in sé apparentemente marginale, la potenza troppo spesso sottovalutata della memoria. Solo coltivando caparbiamente e indefettibilmente una documentata e robusta memoria collettiva degli orrori che hanno insanguinato la sua storia recente, l’Europa potrà evitare di commettere altri nuovi tragici errori. E mai come in questi nostri giorni l’Europa appare a rischio di rimuovere il passato tremendo del secolo da pochi anni conclusosi. Di un eccesso di Realpolitik si muore. Troppo contano i fattori economici intersecati con quelli geopolitici, che non vanno certo sottovalutati nella loro rilevanza ma che non possono essere considerati la “variabile indipendente” del sistema. Senza il riferimento a una salda costellazione di valori morali, che sono poi quelli che ne hanno definito l’identità lungo tutto il corso della sua storia millenaria, l’Europa non si salverà. A evitare questa deriva di spaesamento da se stessa serve all’Europa, e all’Italia in essa, il ricordo e il monito del 24 e del 25 aprile. Torna al sommario