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RUSH – POLITICA E SOCIETA’ 1. CHE COS’E’ LA SOCIOLOGIA POLITICA La Sociologia è lo studio dei comportamenti umani all’interno di un contesto sociale. Dunque l’unità base d’analisi è una società. Una società può essere definita come un raggruppamento distinto e coerente di esseri umani che vivono entro certi margini di contiguità, il cui comportamento è caratterizzato dalla condivisione di pratiche, norme e valori che lo differenziano da altri raggruppamenti con pratiche, norme e valori diversi. Il termine “Sociologia” è stato coniato da Comte. Sia egli che Spencer hanno posto l’accento sulla società come unità di base dell’analisi sociologica. Per definizione la sociologia ricomprende la Scienza Politica. Dopo tutto la politica ha luogo all’interno di un contesto sociale, ma come disciplina accademica si è sviluppata con modalità quasi completamente distinte dalla sociologia. Le definizioni di “Politica” sono innumerevoli e nessuna è mai stata universalmente accettata. Essa è la risoluzione dei conflitti fra esseri umani; è il processo per mezzo del quale la società definisce in maniera autoritativa l’allocazione di risorse e valori; è il processo attraverso cui si prendono decisioni o si modificano i programmi politici e le strategie d’azione; è l’esercizio del potere e dell’influenza. La scienza politica è dunque lo studio della funzione del governo nella società. Sono stati due gli sviluppi, collegati fra loro, che hanno dato origine alla crescita della moderna sociologia politica. Il primo consiste nella nascita dell’ approccio behaviorista. Il behaviorismo si è sviluppato inizialmente in maniera decisa negli USA, e ha avuto origine dagli studi behavioristi in psicologia. Questi studi si sono concentrati sull’osservazione e l’analisi dei comportamenti individuali e di gruppo. La seconda tendenza, conseguente alla prima, è stata la particolare attenzione che gli scienziati politici americani hanno rivolto al problema dello studio della politica nel Terzo mondo, o dei paesi in via di sviluppo (sviluppo politico). Molti scienziati politici sono stati attratti dallo sviluppo delle teorie sistemiche, in modo particolare dalle idee di Parsons. Egli

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Riassunto manuale Sociologia dei Fenomeni Politici

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RUSH – POLITICA E SOCIETA’

1. CHE COS’E’ LA SOCIOLOGIA POLITICA

La Sociologia è lo studio dei comportamenti umani all’interno di un contesto sociale. Dunque l’unità base d’analisi è una società. Una società può essere definita come un raggruppamento distinto e coerente di esseri umani che vivono entro certi margini di contiguità, il cui comportamento è caratterizzato dalla condivisione di pratiche, norme e valori che lo differenziano da altri raggruppamenti con pratiche, norme e valori diversi. Il termine “Sociologia” è stato coniato da Comte. Sia egli che Spencer hanno posto l’accento sulla società come unità di base dell’analisi sociologica. Per definizione la sociologia ricomprende la Scienza Politica. Dopo tutto la politica ha luogo all’interno di un contesto sociale, ma come disciplina accademica si è sviluppata con modalità quasi completamente distinte dalla sociologia. Le definizioni di “Politica” sono innumerevoli e nessuna è mai stata universalmente accettata. Essa è la risoluzione dei conflitti fra esseri umani; è il processo per mezzo del quale la società definisce in maniera autoritativa l’allocazione di risorse e valori; è il processo attraverso cui si prendono decisioni o si modificano i programmi politici e le strategie d’azione; è l’esercizio del potere e dell’influenza. La scienza politica è dunque lo studio della funzione del governo nella società.

Sono stati due gli sviluppi, collegati fra loro, che hanno dato origine alla crescita della moderna sociologia politica. Il primo consiste nella nascita dell’ approccio behaviorista. Il behaviorismo si è sviluppato inizialmente in maniera decisa negli USA, e ha avuto origine dagli studi behavioristi in psicologia. Questi studi si sono concentrati sull’osservazione e l’analisi dei comportamenti individuali e di gruppo. La seconda tendenza, conseguente alla prima, è stata la particolare attenzione che gli scienziati politici americani hanno rivolto al problema dello studio della politica nel Terzo mondo, o dei paesi in via di sviluppo (sviluppo politico).

Molti scienziati politici sono stati attratti dallo sviluppo delle teorie sistemiche, in modo particolare dalle idee di Parsons. Egli sostiene che tutte le società sono dei sistemi sociali e che all’interno di ciascun sistema opera un certo numero di sottosistemi. Un sistema sociale si autoregola e procede ad aggiustamenti automatici, adattandosi al mutare delle circostanze. Il suo stato normale è l’equilibrio e, per rispondere alle domande che gli vengono indirizzate, ogni sistema si aggiusta in modo da ripristinare uno stato di equilibrio. Questo stato viene conseguito e mantenuto dall’adempimento di un certo numero di funzioni, ciascuna assunta da una differente parte del sistema. Tale teoria è nota col nome di struttural-funzionalismo, poiché le funzioni necessarie per la sopravvivenza del sistema sono assolte dalle strutture o dai modelli di comportamento che danno vita a ciascun sottosistema.

L’applicazione di teorie sistemiche alla scienza politica non è stata effettuata utilizzando in termini esclusivi il modello del sistema sociale di Parsons. Uno dei maggiori scienziati politici nel campo delle teorie sociali, Easton, ha proposto un modello di analisi del sistema politico in termini che non sono struttural-funzionalisti. Egli dà grande importanza alle relazioni tra sistema politico ed ambiente, sviluppando un’analisi da lui definita input-output. Secondo il suo schema l’ambiente indirizza degli input al sistema politico sotto forma di domande, di atteggiamenti e azioni da parte di individui e gruppi. Il sistema politico a sua volta elabora questi input, producendo output sotto forma di decisioni e di azioni

Almond ha adattato l’anali input-output di Easton allo struttural-funzionalismo, definendo un certo numero di funzioni come input e altre come output. Il proposito di Almond era quello di fornire una

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base per l’analisi politica comparata, in particolare dei paesi in via di sviluppo. Insieme a Verba ha sviluppato il concetto di cultura politica intesa come il complesso di idee e atteggiamenti che sono alla base di un dato sistema politico.

La teoria sistemica è stata criticata per la sua carenza di supporti empirici e perché non è in grado di fornire una spiegazione teoricamente adeguata dei più importanti cambiamenti della società. Anche lo struttural-funzionalismo ha avuto critiche simili in particolare con riferimento alle spiegazioni del mutamento sociale. Lo schema concettuale di Almond dei tipi di sistema politico nel quadro concettuale dello sviluppo è stato criticato perché ritenuto troppo etnocentrico e carico di valori per poter essere utilizzato al meglio.

La Sociologia Politica si preoccupa di esaminare i legami tra politica e società, di collocare la politica all’interno del suo contesto sociale analizzando le relazioni fra strutture sociali e strutture politiche e tra comportamenti sociali e comportamenti politici.

Marx sostiene che la natura di tutte le società è definita dal modo di produzione dominante che determina le relazioni tra gli individui e i gruppi, le idee e i valori dominanti: Ne consegue che i cambiamenti fondamentali in una società dipendono dai cambiamenti che si verificano nel modo di produzione. L’interpretazione marxiana della storia si basa su due principali pilastri: la teoria economica e la teoria sociologica. Marx elabora la teoria del valore-lavoro di Hume con le teorie del plusvalore e dello sfruttamento del lavoro, e ciò costituisce il fondamento della sua principale teoria sociologica: la lotta di classe. Inoltre sviluppa una teoria dell’alienazione, secondo la quale la classe o le classi subalterne nella società finiscono per rifiutare le idee ed i valori della classe dominante ed elaborano idee e valori alternativi che finiscono col diventare rivoluzionari, e che sono la base della lotta di classe. Tutto ciò dovrà essere preceduto dalla coscienza di classe, cioè la consapevolezza da parte delle classi subalterne della propria reale posizione all’interno dei mezzi di produzione e quindi nella società.

Le teorie di Marx sono state oggetto di molte critiche. Nonostante non ignori l’importanza delle idee come fattori sociologici, egli le considera come variabili dipendenti piuttosto che indipendenti, subordinandole alla sua interpretazione economica della storia.

Il secondo padre fondatore della sociologia politica, Weber, è stato uno dei maggiori critici di Marx. Egli ha cercato di dimostrare che i fattori non economici, in special modo le idee, sono importanti fattori sociologici. Ha inoltre richiamato l’attenzione sull’uso del potere come concetto politico e sull’esercizio autoritativo di esso o legittimazione. Con riferimento a quest’ultimo concetto egli definisce tre tipi fondamentali di legittimazione: tradizionale, carismatica e legale-razionale, che rappresentano i più famosi tra i suoi idealtipi. Importante è anche il concetto di comprensione simpatetica. Weber era convinto che il comportamento umano potesse essere compreso meglio se si fosse tenuto conto dei motivi e delle intenzioni di coloro che ne erano direttamente coinvolti.

Al lavoro di Weber sono state rivolte parecchie critiche, basate sul fatto che l’esame delle motivazioni umane implica un elemento interpretativo che non può mai essere completamente obiettivo.

Marx e Weber erano d’accordo nel ritenere che la politica può essere spiegata e compresa soltanto in un contesto sociale, un contesto profondamente caratterizzato dalla propria storia.

 

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2. LO STATO E LA SOCIETA’

Per Weber lo stato moderno è caratterizzato da qualcosa che va al di là del potere e del suo uso legittimo: esso si distingue anche per avere un’organizzazione amministrativa tramite cui mantenere la propria esistenza quotidiana. L’accento che Weber e gli altri studiosi che hanno cercato di definire lo stato pongono sul monopolio dell’uso legittimo della forza fisica associa chiaramente il concetto di stato con quello di legittimità. Per i non marxisti lo stato è inestricabilmente legato alla legittimità per la sua esistenza e sopravvivenza (il collasso dei regimi dell’Europa dell’Est nel 1989 va interpretato come un’evidente perdita di legittimità). L’accettazione dello stato da parte dei cittadini può basarsi su fattori differenti dalla legittimità, e in ultima analisi sul fatto che l’individuo non voglia affrontare le conseguenze che derivano dalla disobbedienza alla legge e dalla non accettazione delle politiche promosse e attuate dallo stato.

Gli organismi come l’Unione Europea mettono in discussione la definizione tradizionale di stato in quanto possiedono molti degli attributi dello stato; sono una comunità umana delimitata da precisi confini territoriali, con un apparato politico e burocratico che definisce le politiche e ne promuove l’attuazione. Ma queste comunità non hanno il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica. Si tratta inoltre di un’associazione volontaria, mentre lo stato, come sottolinea Weber, è un’associazione alla quale non si appartiene per libera scelta.

I marxisti non negano la natura territoriale dello stato moderno, ma concepiscono il suo ruolo in modo molto differente. La teoria marxista infatti assegna allo stato il ruolo cruciale di rappresentare gli interessi della classe dominante di una società e di operare in senso conforme ad essi. Per cui, lungi dall’essere neutrale, lo stato è il prodotto della storia delle lotte di classe. Esso è destinato a cessare di esistere dal momento che una società senza classi come quella comunista potrà essere in grado di non produrre uno stato.

Secondo la Teoria del Conflitto gli stati sorgono come conseguenza di scontri tra individui e gruppi di individui o tra società. Questi conflitti hanno avuto il risultato di concentrare il potere nelle mani di un gruppo che ha poi consolidato la propria posizione istituendo strutture politiche ed amministrative. Questa teoria non è lontana dalla visione marxista secondo cui lo stato è il prodotto di una lotta di classe storica per il controllo dei mezzi di produzione. Secondo la teoria del conflitto tuttavia il potere è l’obiettivo della lotta, mentre per i marxisti è solo uno strumento.

Secondo la Teoria del Contratto lo stato è il prodotto del bisogno individuale di protezione dagli inevitabili conflitti che si verificano nella società. Questa opinione, che accomuna Hobbes e Locke si è manifestata storicamente nella maniera più chiara con lo sviluppo del feudalesimo, che regolarizzava in una serie di complessi rapporti contrattuali i diritti e i doveri dei sovrani e dei vassalli.

Un altro importante tipo di teorie dei conflitti tra individui si basa sul darwinismo sociale: gli individui più forti nella società prevalgono sugli altri e formano uno stato per rafforzare e mantenere il proprio dominio.

Forse il limite più ovvio della teoria del conflitto è l’apparente non volontà di riconoscere altra causa se non il conflitto.

Le teorie della formazione dello stato come processo di integrazione si muovono in una prospettiva diversa, senza escludere necessariamente il conflitto come fattore determinante. Queste teorie si dividono in due tipi: l’integrazione come risultato della delimitazione della società e l’integrazione come portatrice di benefici organizzativi. Le teorie della delimitazione sostengono

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che una società che non può liberarsi del suo surplus di popolazione mediante l’emigrazione a causa di barriere geografiche come montagne, mare e deserto, cercherà di organizzarsi in modo più efficiente in forma di stato. I benefici che possono derivare da una maggiore organizzazione portano alla costituzione dello stato.

Ci sono tre passaggi chiave nello sviluppo dello stato moderno: la nascita del capitalismo, l’avvento della rivoluzione industriale e lo sviluppo dello stato-nazione. Questi tre processi sono responsabili della divisione del mondo in stati, un fenomeno che caratterizza la società moderna.

Capitalismo. Braudel sostiene che il capitalismo è stato preceduto dallo sviluppo dell’economia di mercato (che si basa su un sistema regolare e diffuso di scambio, circolazione e distribuzione dei beni) e dall’economia monetaria (che è un’attività economica che si basa sullo scambio tra beni e denaro e non sul baratto). Lo sviluppo di un’economia monetaria ha facilitato l’accumulazione di ricchezze da profitto, in breve la creazione di capitale. Tuttavia Braudel non sostiene che lo sviluppo delle economie di mercato e monetarie porti inevitabilmente allo sviluppo del capitalismo, infatti tali economie si sono consolidate in diverse parti del mondo ma il capitalismo si è sviluppato solo in Europa mentre avrebbe potuto farlo anche in altre civiltà sviluppatesi molto prima di quella europea (es. società cinese, islamica). Hall giunge alla conclusione che queste civiltà hanno sviluppato un potere di stallo in cui differenti tipi di potere (politico, economico ed ideologico) configgono tra loro, ostacolando o frenando i mutamenti sociali. Braudel sostiene che sono necessari tre fattori per la crescita del capitalismo: la sopravvivenza di dinastie e di famiglie che permettano l’accumulazione della ricchezza per mezzo dell’eredità e del matrimonio; una società stratificata con un certo grado di mobilità sociale che permetta la ricostituzione degli strati superiori esistenti e stimoli gli strati più bassi della società; lo sviluppo del commercio mondiale per elevare i livelli di profitto.

Rivoluzione industriale. Si fondò sulla concomitanza di una serie di requisiti: oltre al capitale, le risorse, la manodopera, le materie prime, gli imprenditori, i mercati, un’elaborazione ideologica che assolse la funzione di supporto e la necessità di sviluppare ed espandere i mercati, sia interni che d’oltremare.

Stato-Nazione. Il nazionalismo come forza sociale e politica è diventato sempre più importante dalla fine del XVIII secolo in avanti (il 1848 fu l’anno delle grandi rivoluzioni). I più significativi esempi di nazionalismo europeo nel XIX secolo sono l’unificazione dell’Italia e della Germania, che manifestano con forza l’idea che la base più appropriata per lo stato sia la nazione, definita etnicamente, linguisticamente, culturalmente e storicamente. Quest’idea raggiunse l’apoteosi con il trattato di Versailles, che enfatizzava in modo estremo il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Il nazionalismo è stata una forza la cui esistenza e il cui ruolo sono stati ammessi, ma ampiamente sottovalutati da Marx. Egli era convinto che la coscienza di classe rappresentasse una forza più potente del nazionalismo.

Il concetto tipicamente europeo di stato-nazione è diventato il modello per lo stato moderno, cosicché dove non esiste una identità nazionale è necessario crearla. In nessun altro luogo ciò è avvenuto con maggior successo che negli USA. Lingua, cultura, storia ed ideologia sono state, e in molti casi sono ancora, simboli dell’identità nazionale, assieme alla bandiera e all’inno. Un ruolo chiave nel processo di costruzione di una nazione è inevitabilmente giocato dai leader politici che rivendicano il ruolo di rappresentanti della nazione. Il processo di costruzione della nazione implica anche altri strumenti: la socializzazione della popolazione mediante l’istruzione e i media; la necessità di difendere la nazione da una minaccia esterna, reale o immaginaria; l’uso della guerra come forza unificante; l’appartenenza ad organizzazioni; politiche di sviluppo economico.

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Il neo-marxista Milliband opera una distinzione tra il governo e lo stato, sostenendo che il governo è la parte più visibile, ma non necessariamente la più importante dello stato. Lo stato comprende anche la burocrazia, la polizia, la magistratura, le autorità regionali e locali. Lo stato ha un alto grado di autonomia che gli consente di operare negli interessi della classe dominante perché sembra neutrale.

Una volta che abbiano conseguito il potere, lo stato tuttavia si presenta come un problema per i marxisti. Una volta vinta la guerra civile, l’Unione Sovietica aveva tutte le caratteristiche di uno stato definito in termini non marxisti: un territorio chiaramente definito, un monopolio dell’uso legittimo della forza ed un apparato amministrativo per dare corso e attuare politiche dello stato. Il principio della non neutralità dello stato costituisce probabilmente il maggior contributo dei marxisti al dibattito sul ruolo e sulla natura dello stato. Le istituzioni politiche non operano nel vuoto: esse riflettono particolari valori, ma possono anche essere indirizzate verso obiettivi diversi dai differenti gruppi che di volta in volta le controllano.

 

3. POTERE, AUTORITA’ E LEGITTIMITA’

Secondo Russell il potere è la capacità di realizzare effetti desiderati. Si può quindi sostenere che gli effetti imprevisti possono essere importanti ma sono casuali nell’esercizio del potere. Gli effetti non intenzionali sono quindi una conseguenza dell’uso del potere, ma poiché essi non erano previsti o non facevano parte degli obiettivi originari, non pertengono all’esercizio del potere.

Weber dà la definizione più nota di potere: il potere designa la possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità.

Vi sono tre ampie categorie di risposta alla questione di chi detenga il potere: quella elitista, quella marxista e quella pluralista.

Per gli elitisti (Mosca, Pareto, Wright Mills) un gruppo coeso e socialmente identificabile all’interno di una determinata società detiene il potere e lo esercita basandosi sulla consapevole difesa dei proprio interessi.

Per i marxisti il potere è esercitato dalla classe sociale che controlla i mezzi di produzione.

Per i pluralisti (Dahl e Polsby) il potere non è detenuto né da una particolare èlite né da una classe sociale, ma viene esercitato da gruppi in competizione tra loro e varia da caso a caso.

Il potere viene di solito associato con la forza o con la coercizione fisica, ma può basarsi anche su altre risorse, come la ricchezza, lo status, la conoscenza, il carisma e l’autorità. Il potere può anche prendere diverse forme: la coercizione (comprende non solo l’uso o la minaccia della forza fisica, ma anche l’estorsione e il ricatto), l’influenza (include non solo la persuasione razionale, il rispetto e la deferenza ma anche la corruzione) e il controllo (implica l’accettazione del fatto che coloro che cercano di esercitare il potere hanno i mezzi per farlo).

Hall associa tipi di poteri e scopi, sostenendo che esistono tre tipi di potere: politico (consiste nella capacità di alcuni individui di organizzare e dominare i loro simili), economico (risiede nella

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capacità di organizzare e sviluppare risorse), ideologico (è la capacità di razionalizzare l’organizzazione sociale attraverso un sistema di credenze o di valori).

L’esercizio del potere implica costi e benefici, sia per coloro che lo esercitano che per coloro che ne vengono assoggettati. Costi e benefici che possono essere individuali o collettivi, o una loro combinazione e possono comportare la imposizione o la minaccia di sanzioni oppure il pagamento o la promessa di compensi.

Lukes ha descritto l’approccio pluralista come una concezione bidimensionale del potere. Egli sostiene che il ricorso al concetto di potere era servito per trattare istanze reali (cioè i conflitti manifesti e osservabili) e istanze potenziali (cioè i conflitti osservabili ma nascosti), ma che il potere opera anche in una terza dimensione che comprende quelli che definisce come conflitti latenti.

Il controllo delle idee, la mobilitazione dei pregiudizi e l’egemonia possono essere collegati alla teoria della socializzazione, secondo la quale i valori e le norme di comportamento si trasmettono di generazione in generazione tramite un processo di apprendimento sia consapevole che inconscio. I valori e le norme politiche sono dunque il prodotto della socializzazione politica e, come sostengono Almond e Verba, creano una specifica cultura politica in ogni società.

Hobbes vedeva nella sottomissione ad un sovrano con poteri assoluti, il Leviatano, l’unico modo per evitare lo stato di cose caotico e anarchico che gli avvenimenti da lui vissuti (la guerra civile inglese) avevano posto in risalto. Solo nel caso in cui il sovrano fallisca nel provvedere a quella protezione si potrà essere fedeli a qualcun altro. La teoria di Hobbes è perciò considerata come l’estrema giustificazione di uno stato assoluto o autoritario, che non comporta l’obbligo di perseguire i desideri dei sudditi.

Anche Locke considera il governo come un mezzo per fornire protezione all’individuo ma la sua libertà d’azione è limitata dal consenso. Quindi, mentre ci si aspetta che il governo mantenga l’ordine, ci si aspetta anche che protegga i diritti civili, la libertà e la proprietà degli individui, cosicché il fallimento in questi compiti legittima gli individui a rifiutare il consenso.

Gli studiosi operano una distinzione tra autorità de facto (esiste quando un individuo o un gruppo di individui accettano che un potere venga esercitato su di loro ed obbediscono agli ordini di coloro che detengono quel potere) e autorità de jure (esiste quando l’esercizio del potere è accettato come giusto e viene giustificato da coloro nei cui confronti viene esercitato).

L’analisi di Weber sul dominio riguarda principalmente il potere legittimo ed egli distingue tre idealtipi di legittimità: tradizionale (quando poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità), carismatico (quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e dagli ordinamenti da essa creati), legale-razionale (quando poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere, legale, in base ad essi).

Nella sua teoria dei sistemi sociali Parsons afferma che una delle sue principali funzioni è quella del mantenimento dei modelli, vale a dire la capacità del sistema di conservare la propria stabilità attraverso la socializzazione a valori condivisi e l’esistenza di norme culturali ampiamente diffuse.

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Easton, nello sviluppare la sua analisi input-output, parla di supporti al sistema, cioè di varie forme di partecipazione politica, in particolare il voto, e di reazioni positive agli output della politica, vale a dire di attività che sostengono il funzionamento del sistema politico.

Per la maggior parte dei teorici marxisti, tuttavia, la legittimità è stata in gran parte ignorata e considerata irrilevante, in quanto parte dell’ideologia della classe dominante.

 

4. LA DISTRIBUZIONE DEL POTERE

Lasciando da parte il punto di vista marxista, possiamo suddividere le moderne teorie sulla distribuzione del potere in quattro tipi fondamentali: la teoria delle èlite, il pluralismo, il totalitarismo e la democrazia.

La parola Elite è ampiamente diffusa nell’uso sociale per indicare un gruppo superiore in termini di capacità o privilegi. L’elemento centrale della teoria elitista è che in qualsiasi sistema politico è una minoranza della popolazione a prendere le decisioni fondamentali. I teorici delle èlite sono per lo più antimarxisti e in genere anche fortemente antidemocratici, poiché sostengono che la teoria democratica varia a seconda della realtà alla quale si applica e, in pratica, è una forma di governo con un’innata debolezza. E’ implicito nelle teorie elitiste che il gruppo dominante sia consapevole della propria esistenza, coeso nel proprio comportamento, e possieda un comune senso dei fini.

La minoranza organizzata sarà sempre capace di sopraffare la maggioranza della società che è meno organizzata o non organizzata. Mosca divide l’èlite in uno strato superiore (consistente in un piccolo gruppo di soggetti che prendono le decisioni politiche) e in uno strato inferiore (che svolge funzioni di leadership meno importanti, ad esempio i leader d’opinione e gli attivisti politici). Le relazioni tra l’èlite e il resto della società si misurano in termini di autorità e reclutamento delle èlite e mutano secondo due coppie di variabili. Il rapporto di autorità può basarsi o sul principio autocratico (l’autorità fluisce dalle èlite verso le masse) o liberale (dalle masse verso le èlite). Il reclutamento si basa su una dicotomia simile: c’è la tendenza aristocratica secondo cui il movimento è ristretto all’interno dell’èlite, con spostamenti dallo strato inferiore a quello superiore; e la tendenza democratica in cui i movimenti vanno dalle masse verso l’èlite. Mosca era fortemente antidemocratico ma i seguito ha cambiato posizione ed ha accettato l’idea che un governo rappresentativo è il sistema migliore per articolare gli interessi a cui le èlite dovrebbero rispondere, e per controllare l’autorità autocratica della burocrazia attraverso l’autorità liberale di un’assemblea rappresentativa. Di fatto Mosca avrebbe ristretto il diritto di voto alle classi medie e superiori.

Il principale lavoro di Michels si concentra sui partiti politici; tuttavia la sua ben nota legge ferrea dell’oligarchia ha implicazioni ed applicazioni più vaste. Michels ha cercato di comprovare la sua teoria dell’oligarchia (il dominio autoperpetuantesi da parte di poche persone) studiando l’organizzazione dei partiti socialisti europei, in particolare il Partito socialista tedesco. Infatti egli sosteneva che non poteva esserci prova migliore per dimostrare che la legge ferrea esiste realmente se non quella di scoprire chi realmente esercitava il potere in partiti che pretendevano di essere controllati dalle masse dei propri iscritti. Michels giunge alla conclusione che l’organizzazione è l’inevitabile conseguenza della portata e della complessità delle attività umane. Una volta costituita un’organizzazione, essa viene dominata dalla sua leadership. Sostenendo che i partiti sono essenzialmente macchine per conquistare e conservare il potere Michels sostiene che per conseguire

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questo scopo essi devono moderare le proprie ideologie e le proprie politiche per ottenere un consenso che vada oltre l’ambito dei militanti di partito. A questo proposito l’iniziativa sta in larga parte nelle mani della leadership del partito che ha un netto vantaggio organizzativo sui semplici militanti. Questo vantaggio è reso ancora più consistente da un fattore psicologico, l’apatia della maggioranza della popolazione che è ignorante e non si interessa della politica, tranne quando questa tocca direttamente i suoi interessi. Michels considera la manipolazione della non-èlite da parte dell’èlite come il normale stato di cose che si verifica in una società.

Pareto e Mosca erano contemporanei e rivali; e avevano differenti opinioni riguardo alla formazione dell’èlite, alle ragioni della sua esistenza, e al modo in cui avviene il suo reclutamento, cioè il problema della sua rigenerazione. Al pari di Mosca, Pareto sostiene che l’èlite è composta da due distinte parti: le èlite di governo (che influenzano direttamente o indirettamente le decisioni politiche) e le èlite non di governo (che detengono posizioni di leadership nella società, ma non influenzano le decisioni politiche). Pareto rifiuta l’idea marxista secondo la quale il gruppo dominante nella società è il risultato delle forze economiche o sociali, e sostiene che l’èlite ha origine dagli attributi umani, dalle capacità individuali e dagli istinti. Gli esseri umani non agiscono secondo logica ma cercano di giustificare le proprie azioni in modo logico attraverso ideologie o valori che Pareto chiama derivazioni. Esse producono istinti o stati della mente che Pareto chiama residui e sono questi a formare le basi dell’attività umana. Egli distingue i residui in due tipi: istinti di combinazione (comprendono l’uso delle idee e l’immaginazione, coloro che agiscono su queste basi sono le volpi) e persistenza degli aggregati (si pone l’accento su continuità, stabilità e ordine, coloro che agiscono su queste basi sono i leoni). In ciò Pareto richiama Machiavelli, il cui ideale è una combinazione tra saggezza e sregolatezza, così come per Pareto è una combinazione tra volpi e leoni. Pareto si distingue da Mosca e da altri teorici dell’èlite in quanto non condivide l’idea che vi siano fini comuni e coerenti fra l’èlite; viceversa sostiene che gli individui agiscono in quanto individui e per questo motivo spesso non sono in grado di prevedere le conseguenze né delle proprie azioni né di quelle degli altri.

Burnham ha un approccio economico. Condivide con Marx l’idea che il potere risiede nelle mani di coloro che controllano i mezzi di produzione e sostiene che, mentre all’indomani della rivoluzione industriale costoro erano i capitalisti, nelle società industriali avanzate il controllo dei mezzi di produzione è passato a coloro che hanno competenze manageriali e tecniche che costituiscono la nuova èlite.

Wright Mills ha un approccio istituzionale. Sostiene che l’èlite americana è radicata nelle strutture della società e che il potere è dunque istituzionalizzato. Gli USA sono dominati da un complesso industriale-politico-militare di èlite che in parte si sovrappongono, con spostamenti da un’èlite all’altra. I membri più importanti di questo complesso costituiscono un’èlite del potere.

Uno dei maggiori sostenitori della teoria Pluralista è Dahl. Egli ha cercato di confutare le teorie elitiste esaminando determinate decisioni politiche e chiedendosi se in tutti i casi esaminati un’èlite definita fosse responsabile dei risultati del processo decisionale. Perché si possa sostenere che un’èlite esiste e domina il processo decisionale devono verificarsi le tre condizioni seguenti: l’ipotetica èlite è un gruppo ben definito; c’è un buon numero di casi che implicano decisioni politiche in cui le preferenze dell’èlite sono contrarie a quelle che qualsiasi altro gruppo potenzialmente esistente potrebbe suggerire; in questi casi le preferenze dell’èlite prevalgono regolarmente. Per dimostrare la sua tesi Dahl indaga i processi decisionali nella città di New Haven in tre ambiti politici: il riassetto urbano, l’istruzione pubblica e il processo di definizione delle cariche partitiche a livello locale. A conclusione delle sue analisi egli afferma che i risultati delle decisioni su queste tre aree di problemi erano determinati dall’attività di tre gruppi reciprocamente chiusi, e dunque che

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non esiste una singola èlite ma una pluralità di interessi. Essi tuttavia sono inuguali, in particolare nella disponibilità di risorse, e quindi nella capacità di influenzare le decisioni. Di fatto egli descrive un sistema di èlite in competizione reciproca. Dahl definisce tale sistema come una poliarchia, cioè un governo di molti. Il punto di vista pluralista ha avuto origine dal concetto di gruppo di pressione o di interesse, un’organizzazione che cerca di influenzare le decisioni politiche che riguardano le proprie posizioni o i propri interessi. E’ il pluralismo ad aver rappresentato la principale sfida non marxista ai teorici elitisti. La critica più ovvia che si potrebbe fare allo studio di Dahl su New Haven è che si tratta di un caso atipico. Tuttavia la più fondata critica al pluralismo fa riferimento a quella che Lukes ha definito come la seconda e terza dimensione del potere. Il pluralismo si preoccupa solo delle decisioni osservabili, istanze che di fatto sono nell’agenda politica e ignorano quelle che ne sono tenute fuori. QquestaQuesta è la seconda dimensione del potere, Lukes sostiene che c’è una terza dimensione, quella del conflitto latente, che deriva dagli interessi reali dei membri della società. La seconda dimensione costituisce una seria critica della posizione pluralista e non è difficile trovare argomenti per sostenerla, ma la terza dimensione, seppur logicamente impeccabile, è difficile da dimostrare, perché la verità, come la bellezza, è in ultima analisi negli occhi dello spettatore.

Il Totalitarismo e la democrazia vengono di solito considerati a ragione come concetti diametralmente opposti, ma hanno in comune il fatto di porre l’accento sulla partecipazione politica di massa, in contrasto con la teoria elitista, che tende per lo più a trascurare le masse considerandole subordinate e soggette a manipolazione da parte dell’èlite, e con la teoria pluralista, che considera le masse come una molteplicità di interessi in competizione. Sono stati proposti due tipi di definizioni, quella fenomenologica e quella essenzialista. Friedrich ha dato la più nota definizione fenomenologica, secondo cui uno stati totalitario ha le seguenti caratteristiche: un’ideologia totalizzante, un unico partito votato a quell’ideologia, un potere di polizia basato sul terrore, il monopolio della comunicazione, il monopolio degli armamenti, un’economia centralizzata e il controllo di tutte le organizzazioni. Il secondo tipo di definizione, quella essenzialista, cerca di isolare le essenze ovvero gli attributi chiave che spiegano il tipo di caratteristiche delineate da Friedrich. Arendt sostiene che il terrore è la vera essenza del regime totalitario. Ella spiega le origini del totalitarismo in termini storico-sociali. In Germania esso si è sviluppato come conseguenza di quattro fattori: le fratture nella comunità derivanti dalla rapida industrializzazione e dalla sconfitta militare; la rapida concessione del diritto di voto alle masse in assenza di un’adeguata cultura politica liberale, che le ha lasciate in balia di manipolazioni da parte di leader demagogici; la creazione di un movimento di massa, il Partito nazista, con cui gli individui potevano identificarsi; una popolazione sufficientemente numerosa e diffusa, gli ebrei, contro cui esistevano già dei pregiudizi e che potevano fungere da capro espiatorio per i mali della società. Il ruolo del leader è stato cruciale, ma cruciale è stato anche l’uso del potere una volta conseguito. Una volta al potere divenne estremamente difficile perdere quella conquista: gli oppositori furono rapidamente eliminati, i media posti sotto lo stretto controllo del partito e cominciò la penetrazione ideologica della società.

Tra i regimi non democratici non tutti appartengono alla categoria del totalitarismo. Una vasta gamma di questi può essere classificata come autoritaria seguendo la definizione di Linz. Non è sempre agevole tracciare confini precisi tra regimi totalitari e autoritari. Se da un lato la dimensione limitata del pluralismo distingue in modo netto tra i primi (nei quali ogni forma di pluralismo è negata) e i secondi (si pensi alla sopravvivenza della chiesa e della corona durante il fascismo), più difficile è stabilire la distinzione tra mentalità (relativamente flessibili) e ideologie (sistemi di credenze più rigidi e strutturati). Linz articola sei tipi di regimi autoritari: regimi autoritari burocratico-militari (la variante più diffusa, comprendono gran parte dell’America Latina); regimi a statalismo organico (maggior grado di controllo della partecipazione e mobilitazione della società

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attraverso strutture organiche); regimi autoritari di mobilitazione nelle società post-democratiche (fascismo italiano); regimi autoritari di mobilitazione dopo l’indipendenza (tipici dei paesi in lotta per l’indipendenza dal dominio coloniale); regimi di dominio personale (tipici dei nuovi stati africani); regimi autoritari post-totalitari (paesi ex-comunisti nei quali alcune strutture totalitarie rimangono parzialmente in vita dopo la caduta delle vecchie oligarchie di potere).

La Democrazia è definita da Lincoln come il governo del popolo, dal popolo per il popolo. Storicamente la democrazia può essere ricondotta ai greci. La democrazia presuppone il consenso dei governati. Lipset ha insistito sul fatto che esiste una relazione causale tra sviluppo economico e democrazia. Ha cercato di dimostrare che i regimi democratici si sono sviluppati e si sono alimentati in quelle società che hanno di fatto soddisfatto i bisogni materiali dei propri membri.

 

5. LA SOCIALIZZAZIONE POLITICA

La Socializzazione politica può essere definita come il processo per mezzo del quale gli individui in una data società familiarizzano con il sistema politico, e che determina in gran parte la loro percezione della politica e le loro reazioni ai fenomeni politici. La definizione ampia di sociologia politica ricomprende sia la socializzazione deliberata o aperta, sia la socializzazione inconscia o nascosta. Dunque questo concetto si avvicina molto, anche se non ne è sinonimo, a quello di cultura politica, definito da Almond e Verba come il sistema politico così come è stato interiorizzato nelle cognizioni, nei sentimenti e nelle valutazioni della popolazione. Almond e Verba hanno individuato tre tipi di cultura politica: parrocchiale (caratterizzata da una bassa consapevolezza e da basse aspettative nei confronti del governo e da una scarsa partecipazione politica. Es. Messico), di sudditanza (livelli più elevati di consapevolezza e aspettative ma basso livello di partecipazione. Es. Italia e Germania), di partecipazione (elevati livelli di consapevolezza, aspettative e partecipazione. Es. USA e Gran Bretagna). Non è corretto ritenere la socializzazione politica sinonimo di cultura politica, mentre invece quest’ultima va considerata come un prodotto della socializzazione politica.

In primo luogo vi è un certo numero di agenzie di socializzazione, come la famiglia, i gruppi di pari e i mass media attraverso cui si avvia il processo di socializzazione politica. Easton e Dennis individuano quattro stadi del processo di socializzazione: inizialmente i bambini cominciano col riconoscere l’esistenza di qualche autorità (qualcuno che ha il diritto di impartire ordini), successivamente essi diventano consapevoli di una distinzione tra autorità privata (genitori e insegnanti) e pubblica (poliziotti e Presidente), ne segue la percezione che esistono istituzioni politiche impersonali (Congresso), infine interviene la consapevolezza che le istituzioni sopravvivono agli individui e ne trascendono l’esistenza.

La socializzazione politica si verifica nel corso di tutta la vita ma di fatto l’infanzia e in misura minore l’adolescenza sono più importanti dell’età adulta. Volgyes fa riferimento ad una socializzazione generazionale, vale a dire la socializzazione cosciente o inconscia dei bambini da parte degli adulti, e alla risocializzazione distinta in due fasi: una fase rivoluzionaria e una fase in forma di continuum. Quando un regime con valori e ideologie che differiscono significativamente dal regime precedente conquista il potere, secondo Volgyes esso cercherà non solo di socializzare le giovani generazioni, ma di risocializzare le vecchie e di convertire i loro valori dalla vecchia alla nuova ideologia. Un quadro del genere è certamente tipico delle società totalitarie. Il punto di vista

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marxista sostiene che la socializzazione è di necessità un processo continuo, dal momento che la classe dominante deve assicurarsi che le proprie idee prevalgano nella società. Di conseguenza l’ideologia dominante è sostenuta tramite una socializzazione continua, inizialmente attraverso il sistema scolastico e in seguito tramite il modo dominante di produzione.

Per quanto la famiglia e la scuola possano essere importanti nei primi stadi di socializzazione, altri agenti assumeranno maggiore importanza più avanti nel tempo. I mass media sono generalmente considerati come agenti importanti della socializzazione in generale e della socializzazione politica in particolare. Nelle società moderne i media sono la principale fonte di informazione su quanto sta accadendo nella società e nel mondo. Tutti i governi ne sono consapevoli e utilizzano i media per veicolare le proprie posizioni, cercano di influenzare i media e non pochi cercano di averne il controllo.

I meccanismi attraverso cui la socializzazione ha luogo si possono suddividere in tre parti: imitazione (consiste nel copiare il comportamento di altri ed è generalmente più importante nell’infanzia), istruzione (apprendimento intenzionale dei comportamenti appropriati attraverso il sistema scolastico in modo formale, e in modo più informale attraverso discussioni di gruppo ed altre attività, come l’apprendistato professionale, senza dubbio è più importante nell’infanzia e nell’adolescenza), motivazione (apprendimento di un comportamento appropriato attraverso l’esperienza, mediante un processo di prove ed errori, è presente per l’intero ciclo di vita).

La socializzazione politica viene inoltre solitamente considerata come una delle spiegazioni principali della legittimità, sia da parte dei marxisti che dei non marxisti. La questione della persistenza sociale è di fondamentale importanza per la teoria della socializzazione, dal momento che si può ritenere che un fattore che spiega la capacità di un sistema politico di sopravvivere tramite la sua diffusa accettazione nella società e di acquisire e mantenere la legittimità, consiste nel trasferimento di conoscenze, valori ed atteggiamenti da una generazione ad un’altra.

 

6. LA PARTECIPAZIONE POLITICA

Si definisce Partecipazione politica il coinvolgimento dell’individuo nel sistema politico a vari livelli di attività, dal disinteresse totale alla titolarità di una carica politica. La partecipazione politica è strettamente collegata alla socializzazione politica, ma non deve essere considerata semplicemente come una sua estensione o un suo prodotto. Essa è inoltre un punto essenziale delle teorie elitista e pluralista. Secondo la teoria delle èlite la partecipazione politica che ha realmente significato è limitata all’èlite, mentre le masse sono manipolate da essa o inattive. Per i pluralisti invece la partecipazione politica è la chiave del comportamento politico in quanto costituisce un fattore fondamentale per spiegare la distribuzione del potere e i processi decisionali. La partecipazione politica è fondamentale anche per i marxisti: la coscienza di classe spinge all’azione e alla partecipazione.

Parry sostiene che è necessario esaminare tre aspetti della partecipazione politica: modo di partecipazione (l’aspetto che essa assume, il modo varia in relazione ai livelli di opportunità e di interesse, all’ammontare di risorse a disposizione dell’individuo e ai principali atteggiamenti nei confronti della partecipazione in ogni società, in particolare se essa viene incoraggiata o scoraggiata), intensità (si cerca di misurare quanti individui partecipano a particolari attività

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politiche e quanto spesso lo fanno), qualità (il grado di efficacia conseguito dalla partecipazione, cioè il suo impatto su coloro che detengono il potere e sulla formulazione delle politiche).

Milbrath propone una gerarchia della partecipazione che va dal non-coinvolgimento alla titolarità di una carica pubblica, in cui il livello più basso di partecipazione attiva consiste nel voto. Egli divide la popolazione americana in tre gruppi: gladiatori (coloro che sono spesso attivi in politica. 5-7%), spettatori (coloro che sono impegnati in politica a livello minimo. 60%), apatici (che si disinteressano di politica. 33%).

Dal punto di vista del sistema politico i partiti politici e i gruppi di pressione possono essere definiti come agenti di mobilitazione politica. La differenza fondamentale tra essi consiste nella loro gamma di attività. I gruppi di pressione sono organizzazioni che cercano di promuovere, difendere o rappresentare posizioni limitate o specifiche, mentre i partiti cercano di promuovere, difendere o rappresentare un più ampio spettro di attività. La partecipazione ai partiti o ai gruppi di pressione può assumere una forma attiva o passiva, variando dalla titolarità di una carica in tale organizzazione al sostegno finanziario mediante il pagamento di sottoscrizioni o quote. Anche la discussione politica informale in famiglia, al lavoro o tra amici è considerata come una forma di partecipazione politica. La votazione può essere considerata come la forma meno attiva di partecipazione politica, in quanto richiede un impegno minimo che cessa una volta che si è votato.

Tutti i tipi di partecipazione politica variano secondo lo status economico- sociale, i livelli di istruzione, l’occupazione, il sesso, l’età, la religione, l’appartenenza etnica, l’area e il luogo di residenza, la personalità e l’ambiente o il contesto politico in cui ha luogo la partecipazione.

Milbrath sostiene che la partecipazione varia in relazione a quattro fattori fondamentali: stimoli politici (più l’individuo è esposto a stimoli politici sotto forma per esempio di discussioni politiche, facendo parte di un’organizzazione o avendo accesso a informazioni rilevanti riguardo la politica, più è probabile la sua partecipazione politica), posizione sociale, caratteristiche personali (personalità più socievoli, dominanti od estroverse hanno più probabilità di essere politicamente attive), ambiente politico (la cultura politica può favorire od ostacolare la partecipazione e la forma o le forme di partecipazione considerate come le più appropriate). E’ inoltre importante tener conto delle capacità e delle risorse possedute dall’individuo (abilità sociali, analitiche, organizzative, doti oratorie). Nella maggior parte dei casi l’individuo deve sentirsi anche motivato, essere impegnato per un ideale o una causa, ispirarsi a un leader o ad un’organizzazione.

Parry distingue due tipi di spiegazioni della partecipazione politica: quella strumentale e quella evolutiva. Le teorie strumentali considerano la partecipazione come un mezzo per conseguire un fine, per esempio la difesa o il progresso di un individuo o di un gruppo, e come baluardo contro la tirannia e il dispotismo. Di conseguenza coloro che sono oggetto di decisioni hanno il diritto di partecipare al processo decisionale e la legittimità del governo si fonda sulla partecipazione. Secondo le teorie evolutive il cittadino ideale è colui che partecipa e di conseguenza la partecipazione viene considerata come un esercizio della responsabilità sociale. Si tratta di un’esperienza di apprendimento che produce un cittadino consapevole non solo dei diritti, ma anche dei doveri e delle responsabilità.

Un altro tipo di motivazione è di natura economica. Il suo maggiore esponente è Downs che ipotizza che gli individui siano esseri razionali e calcolatori che cercano di minimizzare i costi e massimizzare i benefici e che operano in un sistema in cui i partiti cercano di massimizzare i voti e i cittadini agiscono razionalmente. E’ possibile illustrare una sua modalità di funzionamento esaminando la partecipazione elettorale. Un elettorato ampio, elezioni frequenti e votazioni lunghe che implicano molte decisioni da parte di chi vota producono di solito una bassa affluenza alle urne.

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La spiegazione di Downs è che in simili circostanze gli individui trovano più difficile percepire i propri reali interessi perché il risultato è più difficile da prevedere. Viceversa elezioni più combattute, più importanti, o dove le questioni in gioco sono chiaramente identificate di solito producono un’affluenza più elevata.

Weber elabora quattro idealtipi per spiegare azioni e comportamenti sociali, e quindi politici (come la partecipazione). Due sono di tipo razionale: razionale rispetto allo scopo (l’individuo valuta un’azione in termini di costi e benefici dei mezzi e dei fini), razionale rispetto al valore (non mette in discussione i fini ma valuta i costi e i benefici di determinati mezzi). Gli altri due non sono razionali: azione affettiva (governata dalle emozioni), azione tradizionale (dagli usi e dai costumi).

 

7. IL RECLUTAMENTO POLITICO 

Il Reclutamento politico è il processo attraverso il quale gli individui vengono arruolati come titolari di cariche proprie del sistema politico, in particolare incarichi politici e amministrativi, ma in certi casi anche in uffici di altro tipo, nella magistratura, nella polizia e nell’esercito. Di fatto si pone particolarmente l’accento sull’elettività della carica. Si tratta di un orientamento comprensibile ma inopportuno perché in primo luogo alcune delle cariche più importanti non sono elettive. In secondo luogo nonostante le cariche politiche e amministrative siano sempre separate sotto il profilo istituzionale, i livelli più elevati degli uffici amministrativi sono di un’importanza cruciale. Il ruolo della burocrazia, consistente nel fornire pareri e consulenze circa le politiche e nel rendere possibili la loro attuazione, è importante almeno quanto quello dei politici. Le stesse affermazioni si possono fare per i titolari di incarichi nel sistema giudiziario, nelle forze di polizia e nell’esercito.

Coloro che aspirano ad un incarico devono essere eleggibili agli uffici ai quali aspirano, non solo nel possedere i requisiti formali (cittadinanza, residenza e istruzione) ma anche quelli informali (età, genere e esperienza). Devono inoltre essere motivati e possedere adeguate risorse (professionalità, tempo e sostegno finanziario). Anche il meccanismo del reclutamento è un fattore importante e può assumere una varietà di forme e di combinazioni tra esse. Storicamente l’aspetto più importante è quello della semplice ereditarietà, in particolare nelle forme costituzionali di tipo monarchico ed oggigiorno nel caso di istituzioni come la Camera dei Lord inglese. Altri metodi tradizionali sono il sorteggio e la rotazione. Le purghe sono un esempio dl ruolo che può avere la forza nel reclutamento politico (es. la notte dei lunghi coltelli). Tuttavia l’uso più comune della forza nel reclutamento politico si verifica sotto forma di intervento militare interno (frequente in molti paesi del terzo mondo). Il processo di reclutamento politico di gran lunga più comune è quello che si verifica tramite le elezioni che sono uno strumento per scegliere soggetti che ricoprono incarichi politici, come membri del governo e del parlamento, ma possono essere utilizzati anche per occupare altri uffici, come le cariche del sistema giudiziario o di altri ambiti legali negli USA. Anche il sistema elettorale è di fondamentale importanza e riguarda il metodo di conteggio dei voti, di distribuzione dei seggi e di delimitazione dei collegi elettorali.

Il metodo più comune di reclutamento delle cariche politiche è rappresentato dalle elezioni. Nella maggior parte degli stati moderni la copertura dei posti nell’amministrazione è invece regolamentata da strumenti predisposti a scopi di reclutamento (concorsi pubblici, test pratici, test psicologici ed interviste). Per quanto riguarda i giudici e il personale di polizia e dell’esercito, essi vengono reclutati sulla base di appropriati requisiti professionali o di addestramento.

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Sistemi politici differenti sono caratterizzati da differenti modelli di reclutamento, soprattutto se il reclutamento è soggetto a controllo. I sistemi liberal-democratici tendono ad essere più aperti mentre gli altri, in particolare quelli totalitari sono più chiusi.

La tendenza a concentrarsi sul modello americano ha comportato accuse di etnocentrismo. Più in generale la teoria del reclutamento tende a trascurare gli altri tipi di cariche ed uffici, in particolare quelli amministrativi. Infine, un numero eccessivo di ricerche si ferma al reclutamento e non procede all’analisi dei titolari degli uffici una volta entrati in carriera, si dovrebbe viceversa condurre questa analisi fino alla sua logica conclusione, i de reclutamento.

 

8. LA COMUNICAZIONE POLITICA

La Comunicazione politica consiste nella trasmissione di informazioni politicamente rilevanti da una parte del sistema politico ad un’altra, e tra i sistemi politico e sociale. Tuttavia essa non è strutturalmente parte del sistema politico, ma parte integrante del sistema di comunicazione nella società.

La formula di Lasswell è semplice e lineare. Essa identifica quattro dei cinque elementi che si trovano in qualsiasi modello di comunicazione: la fonte (es. un candidato), il messaggio (es. proposte politiche), il canale (es. un’intervista televisiva), i riceventi (es. gli elettori che compongono l’audience). A questi va aggiunto un quinto elemento, il feedback ovvero la reazione o la risposta di coloro che hanno ricevuto il messaggio.

Naturalmente la comunicazione può manifestarsi in modi differenti. Fiske divide i media in tre categorie: presentazionali (ricomprendono la voce dell’individuo, la faccia e il corpo nell’uso della parola e dei gesti, e il comunicatore è il medium), rappresentazionali (ricomprendono tutti i testi scritti e stampati, fotografie e quadri, insegne e graffiti, che hanno una loro esistenza indipendentemente dal comunicatore), meccanici (comprendono telefono, fax, radio, televisione e film).

Shannon e Weaver sottolineano che il processo di comunicazione è soggetto a quello che definiscono rumore, cioè un’interferenza nel processo di comunicazione che influenza o distorce il messaggio. Il rumore può essere meccanico (ha solitamente un’origine fisica e non è intenzionalmente emesso dalla fonte con lo scopo di influenzare il messaggio. Es. la ricezione debole dei segnali radio e televisivi) o semantico (si riferisce a problemi della lingua, agli accenti). In entrambi i casi il messaggio non è ricevuto esattamente nella forma in cui è stato inviato e può dunque essere travisato.

Katz e Lazarsfeld hanno introdotto la teoria del flusso a due fasi. I messaggi inviati tramite i mass media nella maggior parte dei casi non hanno un impatto diretto, bensì mediato attraverso gli opinion leaders al cui giudizio gli individui si affidano in quanto appartengono a gruppi socio-economici simili. In questo modo viene stabilito un legame tra comunicazione di massa e comunicazione interpersonale. Uno sviluppo logico di questa teoria è il modello multi-fase, secondo il quale esiste una serie complessa di relazioni tra i media, gli individui e i gruppi. L’importanza di entrambi i modelli sta nel fatto che essi pongono l’accento sul contesto sociale della comunicazione e non considerano l’audience come un destinatario passivo e indifferenziato destinato solo a ricevere i messaggi dai media.

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Per ciò che riguarda la diffusione di un evento internazionale i gatekeepers sono i corrispondenti che decidono autonomamente di trasmettere una notizia, il telefono, il fax o il sistema dei satelliti per trasmettere l’edizione, la possibilità di censura alla fonte, l’esistenza di limiti di tempo o scadenze e le decisioni editoriali.

La comunicazione politica, come gli altri tipi di comunicazione, agisce sia verticalmente che orizzontalmente cioè, per usare una terminologia elitista, in modo gerarchico tra governati e governati, e sempre secondo un flusso a due fasi, lateralmente tra individui e gruppi. Ne consegue che individui e gruppi diversi avranno network e modelli di comunicazione distinguibili e differenziati.

La comunicazione politica utilizza tre canali principali: i mass media (sono particolarmente importanti per la diffusione capillare dell’informazione politica e nella maggior parte dei paesi costituiscono la fonte più importante di tale informazione, in modo prevalente con la televisione; i media giocano un ruolo importante anche nella formazione dell’opinione pubblica, portando a conoscenza del pubblico i punti di vista di individui e gruppi), i gruppi di pressione e i partiti politici (entrambi rivestono particolare importanza nei mutui rapporti tra politici e burocrati, tra tipi diversi di attivisti politici e tra questi ultimi e settori specializzati dell’opinione pubblica). Anche i contatti tra individui e gruppi sono importanti, specialmente se si applica la teoria del flusso a due fasi, secondo cui gli opinion leaders agiscono come canali di informazione, come fonti di pressione sociale per favorire l’adesione a determinate norme, e come fonti di sostegno per la coesione di gruppo nei comportamenti sociali e politici.

La comunicazione politica, come la comunicazione in generale, viene influenzata da una serie di fattori: fisici, tecnologici, economici, socio-culturali e politici. Le barriere fisiche alla comunicazione sono sempre state significative (montagne, mari, deserti), lo sviluppo tecnologico ha ridotto molti di questi problemi tanto che McLuhan ha descritto il mondo come un villaggio globale. I modelli di comunicazione sono influenzati anche dallo sviluppo economico. Società meno sviluppate tendono ad avere network di comunicazione più frammentati e di natura localistica, ma la crescita economica comporta uno sviluppo più esteso dei mass media e una maggiore importanza viene a loro assegnata sia dai politici che dalla gente. Infine la comunicazione politica è influenzata da diversi fattori politici, in particolare dal grado in cui il network di comunicazione è soggetto a controllo politico da parte del governo (si pensi alla censura).

 

9. OPINIONE PUBBLICA E SOCIETA’

Sarebbe troppo facile affermare che l’opinione pubblica è semplicemente la somma dell’opinione dei singoli. C’è una tendenza a considerare l’opinione pubblica come un’entità unica, quasi fosse un singolo essere umano; ma se l’opinione su particolari argomenti può essere unanime o quasi, nella maggior parte dei casi non lo è. C’è anche la tendenza a dare per scontato che tutti hanno un’opinione su qualsiasi cosa, ma si può dimostrare viceversa che su parecchie questioni, e probabilmente sulla maggior parte di esse, alcune persone non hanno nessuna opinione. L’affermazione di Pollock secondo cui l’opinione può essere o non essere vera è molto importante. L’ignoranza relativa o la disinformazione non sono necessariamente un ostacolo alla formazione di un’opinione su qualcosa, e un’opinione può essere basata su ciò che un individuo pensa su un particolare caso, non su ciò che effettivamente è. Vi sono ricerche che dimostrano anche che l’opinione cambia quando agli intervistati vengono forniti ulteriori e più accurate informazioni.

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L’opinione può essere distinta nei suoi aspetti a breve e lungo termine, tracciando una demarcazione tra valori, o opinioni più ampie, e atteggiamenti, o opinioni specifiche. L’opinione pubblica può essere suddivisa in quattro categorie: opinione specializzata (di coloro che sono considerati come specialisti nella materia cui l’opinione si riferisce), opinione informata (di coloro che hanno sufficiente conoscenza con la materia cui l’opinione si riferisce), opinione influenzata (di coloro che sono direttamente influenzati dall’argomento cui si riferisce l’opinione), opinione pubblica in senso lato (di tutti coloro che non rientrano in nessuna delle categorie precedenti).

Lane e Sears sostengono che l’opinione pubblica ha quattro caratteristiche fondamentali: la direzione (il fatto che l’opinione pubblica è normalmente divisa secondo due o più punti di vista), l’intensità (alcuni individui fanno valere più di altri la propria opinione, con la conseguenza che i primi saranno più portati ad agire sulla base di quell’opinione), la rilevanza (simile all’intensità, in quanto anch’essa misura la forza con cui viene portata avanti un’opinione, ma si riferisce all’importanza relativa delle opinioni di un individuo o di un gruppo), la coerenza (si riferisce ai rapporti tra opinioni, ma riguarda la relazione di corrispondenza tra un’opinione e un’altra).

I valori vengono definiti come le credenze di base, ovvero come la gamma dei punti di vista dell’individuo su argomenti come la libertà, il liberismo, il socialismo ecc. e possono dunque essere strettamente connessi con l’ideologia. Gli atteggiamenti possono essere definiti come opinioni su specifici argomenti, come una particolare proposta politica o un candidato. Socializzazione, personalità ed esperienza creano un ambiente che fa sì che l’individuo sia in grado di formarsi atteggiamenti e opinioni. Tuttavia la reazione dipende da tre fattori: se la questione viene portata all’attenzione dell’individuo (l’agenda politica, i suoi principali attori sono i partiti politici, attraverso i loro programmi elettorali e sollevando le questioni di fronte al pubblico cercando di trarne beneficio), se l’individuo ne è interessato, e di quanta informazione è in possesso. Il ruolo dei media nella determinazione dell’agenda politica non può essere messo in discussione.

Il più importante problema da affrontare è l’assenza di un modello adeguato. Non è inoltre chiaro a livello teorico né tanto meno empirico, in che misura gli atteggiamenti politici si combinano con gli altri atteggiamenti. Così come è un errore separare il comportamento politico da quello sociale, allo stesso modo è sbagliato isolare gli atteggiamenti politici dalla sfera più ampia degli atteggiamenti sociali.

 

10. IDEOLOGIA E SOCIETA’

Il termine ideologia significa “scienza delle idee”. Secondo Marx è una “falsa coscienza”, cioè una deformazione della realtà: e poiché la realtà è lotta di classe, la deformazione consiste nella prevalenza delle idee della classe dominante.

Parsons considera l’ideologia come il sistema di credenze condiviso dai membri di una collettività e come schema interpretativo utilizzato dai gruppi sociali per rendere intellegibile il mondo. Per quanto riguarda l’ideologia si contrappongono dunque una visione marxista e una non marxista. Secondo la prima si tratta delle idee prevalenti della classe dominante, per la seconda di una gamma, potenzialmente infinita, di concezioni del mondo o di parte del mondo. In questo secondo caso tuttavia non deve essere considerata come sinonimo di filosofia in quanto se ne differenzia in primo luogo perché la filosofia è più generale, in quanto si occupa delle riflessioni sul pensiero, in

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secondo luogo perché l’ideologia è più strettamente connessa all’azione, in quanto costituisce una base o una giustificazione dell’azione o del desiderio di azione.

L’ideologia ha quattro importanti caratteristiche tra loro correlate. In primo luogo l’avere particolari idee o credenze è correlato con l’avere altre idee e credenze associate alle prime (es. il credere alla libertà di parola di solito si accompagna al credere alla libertà di associazione), in secondo luogo tali credenze hanno chiarezza, armonia e coerenza interna, in terzo luogo queste idee e credenze riflettono probabilmente le valutazioni sul genere umano (considerato ad esempio egoista, cooperativo ecc.), infine queste credenze sono di solito associate ad una particolare situazione sociale o a un ordinamento per cui lottare, da raggiungere o da mantenere.

L’ideologia serve a realizzare una serie di funzioni tra loro collegate: mette a disposizione dell’individuo una visione del mondo (si tratta del modo in cui l’individuo vede il mondo), fornisce all’individuo la sua visione preferita (si tratta del mondo in cui l’individuo vorrebbe che il mondo fosse o diventasse), costituisce uno strumento di identità per l’individuo nei confronti del mondo (permette all’individuo di avere una propria collocazione all’interno della società), dà all’individuo i mezzi necessari per reagire ai fenomeni (consente all’individuo di rispondere a quanto avviene e a quanto viene affermato), fornisce all’individuo una guida all’azione (in particolare per mantenere il mondo nel suo stato preferito o per cambiarlo secondo le sue preferenze).

Marx sostiene che le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti. Di fatto la differenza tra la concezione marxista e quella non marxista dell’ideologia non è così grande come potrebbero apparire a prima vista, dal momento che viene generalmente riconosciuto che l’ideologia è una visione limitata o distorta della società. Il conflitto fra le due concezioni si riferisce al ruolo da essa giocato: costituisce un fattore fondamentale per il mantenimento del potere da parte della classe dominante, come ha sostenuto Marx o si tratta piuttosto, come sostiene la maggior parte dei non marxisti, di un insieme coerente di idee sul mondo, caratterizzato da differenti livelli di deformazione della realtà?

La cultura politica non può essere considerata come sinonimo di ideologia, da cui si differenzia in primo luogo perché viene considerata come qualcosa di più ampio dell’ideologia, in secondo luogo la cultura politica non è caratterizzata da un maggiore o minore grado di chiarezza e coerenza interne, ma può avere al proprio interno elementi contraddittori e conflittuali.

Alcune delle idee che hanno condotto allo sviluppo della teoria della cultura politica hanno anche contribuito in modo significativo alla tesi della fine dell’ideologia. Ciò che Bell affermava è che nei fatti tutte le ideologie sopravvivono alle ragioni per le quali si sono costituite. Si è così sostenuto che nelle società industriali avanzate la tecnologia e la modernizzazione avevano rese obsolete le idee vecchie e tradizionali, che di conseguenza avevano perso la loro efficacia e il loro potere di persuasione. In queste società si sarebbe sviluppato il consenso democratico, caratterizzato da un sostanziale accordo sulle mete accompagnato da una certa dose di disaccordo sui mezzi da usare per raggiungere quelle mete condivise. Secondo Lipset ad esempio questo significa che nelle società occidentali sono stati risolti i problemi fondamentali della rivoluzione industriale. Egli propende per l’idea che sotto la spinta della modernizzazione i paesi in via di sviluppo andranno via via uniformandosi ad un simile modello ideologico. Tuttavia Bell è di un’opinione in un certo senso differente in quanto prevede la fine dell’ideologia, ma non la fine delle idee e degli ideali come forze politiche e sociali. Himmelstrand sostiene che il vero contenuto della tesi sulla fine dell’ideologia non è in realtà che l’ideologia è morta, ma che non costituisce più la base dell’azione politica e dei conflitti.

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Esistono due principali punti di vista a proposito del ruolo dell’ideologia: quello minimalista (in base al quale si sostiene che gli individui sono caratterizzati da bassi livelli di conoscenza politica, che non usano e talvolta neppure capiscono le idee politiche, che hanno preferenze politiche instabili, spesso incoerenti l’una con l’altra), quello massimalista (secondo cui gli individui hanno insieme coerenti di opinioni, e uno o più di questi insiemi costituiscono un’ideologia).

Il rapporto tra ideologia e società e complesso. La ragione più importante è che raramente l’ideologia e la realtà sono totalmente in accordo tra loro.

 

11. LA RIVOLUZIONE 

La Rivoluzione è caratterizzata dai seguenti sei punti: l’alterazione di valori o miti della società, l’alterazione della struttura sociale, l’alterazione delle istituzioni, cambiamenti nella formazione della leadership, passaggio di poteri non legale o illegale, presenza o predominanza di comportamenti violenti.

Marx sostiene che la rivoluzione è l’inevitabile conseguenza del conflitto tra differenti modi di produzione e le classi che ne sono il risultato. In ogni società esistono due classi: una classe dominante e una classe sfruttata. Il modo di produzione cambia sotto la spinta dello sviluppo tecnologico o della crescente divisione del lavoro, ma lo sfruttamento messo in atto dalla classe dominante conduce la classe sfruttata all’alienazione da quel modo di produzione. L’alienazione fa sì che la classe subalterna prenda coscienza del proprio sfruttamento e dunque della propria posizione di classe, il che porta inevitabilmente alla rivoluzione da parte della classe sfruttata. La rivoluzione fa parte dell’ordine naturale delle cose. Marx sostiene che la rivoluzione avrà luogo solo quando si saranno raggiunte le condizioni materiali, quando la classe sfruttata sarà cosciente del suo sfruttamento e la classe dominante sarà incapace di mantenere la sua posizione dominante. Dunque ci sarà una rivoluzione comunista solo quando la massa del proletariato sarà pronta per affrontarla. Il “Manifesto del Partito Comunista” uscì nel 1848 a metà dell’anno delle rivoluzioni, ma quegli eventi costituirono una delusione per gli autori del Manifesto. Le previsioni di Marx non si sono avverate ma i marxisti che sono venuti dopo, in particolare Lenin, ne hanno dato una spiegazione sostenendo che l’imperialismo, con la conquista e lo sfruttamento dei territori coloniali da parte delle società industrializzate, aveva ritardato la rivoluzione che però restava inevitabile. Lenin mise in pratica in Russia la sua teoria dell’avanguardia del proletariato, cioè di un’èlite con coscienza di classe che avrebbe condotto la classe operaia alla rivoluzione.

Il concetto non marxista di rivoluzione è più variegato ma tutti concordano sul fatto che la rivoluzione è una radicale trasformazione della società che comporta un cambiamento di ideologia, di regime politico e di strutture economiche. Viene condiviso anche il concetto marxista secondo cui il conflitto è naturalmente insito nella società, ma c’è dissenso sul fatto che la rivoluzione sia inevitabile. Krejčí ha elaborato diversi stadi della rivoluzione: l’avvio (un periodo prolungato di scelte innovative e riformiste all’interno di una parte dell’èlite culturale della società che porta alla defezione di un certo numero di intellettuali), l’istituzionalizzazione (comporta l’appropriazione di alcune delle strutture politiche e sociali esistenti per avere la base di potere necessaria a realizzare le riforme), se in questa fase prevale la via riformista e si mette in atto un mutamento sociale, il processo rivoluzionario si può anche interrompere, se invece il regime cerca di frenare i tentativi riformisti si entra nella compressione (che può trasformare la via riformista in un processo apertamente rivoluzionario), la compressione porta all’esplosione (la sollevazione violenta

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accompagnata da una rivoluzione), una volta che l’esplosione è avvenuta e ha comportato la caduta del regime, inizia una nuova fase di oscillazione, in cui diversi gruppi ideologici ingaggiano un’ulteriore lotta per il potere. Nel caso che uno dei gruppi rivali conquisti il potere si ha un’interruzione seguita da un rafforzamento (che consente un’ulteriore stretta, di solito attraverso una dittatura rivoluzionaria), i nemici della rivoluzione vengono eliminati attraverso il ricorso al terrore e il regime può tentare di difendersi mediante l’espansione del governo rivoluzionario all’estero. L’espansione determina delle tensioni che si riflettono sulle risorse disponibili per il regime rivoluzionario, col risultato che in parte ci si allontana dagli ideali rivoluzionari, si ha cioè un’inversione. Questa inversione può poi trasformarsi nel compromesso di restaurazione (in cui si assiste ad una parziale restaurazione del regime pre-rivoluzionario). Il culmine del processo rivoluzionario è definito consolidamento, in cui i cambiamenti portati avanti dalla rivoluzione vengono confermati e si sono verificate nette modifiche nell’ideologia, nel regime politico e nelle strutture socio-economiche.

E’ possibile tracciare un elenco di cause generali, o di lungo periodo, e di cause specifiche, o immediate, della rivoluzione. Le cause fondamentali sono sociali più che politiche in quanto le fondamenta di una determinata società sono minacciate simultaneamente su più fronti. E’ probabile inoltre che esista una diffusa serie di rilevanti insoddisfazioni economiche e socio-culturali. Alcuni gruppi sociali si considerano talmente svantaggiati sotto un profilo economico e sociale da sentirsi discriminati. Dietro questi fenomeni spesso vi è un sostanziale cambiamento nel potere economico. L’ideologia o i valori dominanti che sono i pilastri della società vengono messi alla prova. Tutto ciò tende a minacciare la capacità del regime o dell’èlite dominante di continuare a governare in modo efficace, e in particolare di mantenere l’ordine e far rispettare la legge. E’ a questo punto che entrano in gioco delle cause specifiche di rivoluzione. Richieste persistenti da parte di settori ben organizzati della società che si sentono nettamente svantaggiati.

I funzionalisti considerano la rivoluzione come l’eccezione alla regola generale secondo la quale il mutamento sociale è regolato da meccanismi di auto-aggiustamento della società.

Altri autori hanno adottato un punto di vista sostanzialmente psicologico, sostenendo che una causa primaria delle rivoluzioni è costituita dal rapporto tra le aspettative della gente, specialmente quelle di tipo economico, e la realtà. SI tratta della teoria delle aspettative crescenti, avanzata per la prima volta da Tocqueville nel suo studio sulla rivoluzione francese, in cui sostiene che la rivoluzione si è verificata quando la situazione economica stava migliorando, ma non abbastanza da soddisfare le aspettative della popolazione. Un concetto analogo è quello della privazione relativa, ma in questo caso gli individui o i gruppi misurano la propria condizione confrontandola con quella di altri individui o gruppi nella società. Questo concetto è importante per la teoria marxista della rivoluzione proletaria in quanto una privazione crescente è un fattore determinante affinché la classe lavoratrice prenda coscienza della sua subalternità e del suo sfruttamento da parte della classe dominante. Queste due teorie sono stato oggetto di varie critiche. La prima è di tipo metodologico: i dati aggregati e macro vengono usati per spiegare il comportamento individuale. Ma ancor più importante è la critica secondo cui questa teoria non riesce ad identificare in modo chiaro il momento in cui la gente ne ha avuto abbastanza e ricorre alla violenza, né perché questo momento varia da società a società. Viene infine ignorato il fattore della leadership.

 

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12. LE TEORIE DELLO SVILUPPO E DELLA MODERNIZZAZIONE

Dopo la seconda guerra mondiale si sono sviluppate importanti teorie del mutamento sociale, in larga misura a seguito dell’interesse per le conseguenze della decolonizzazione e per la nascita di nuovi stati.

Il principio chiave della scuola dello sviluppo politico è che tutte le società attraversano una serie di stadi in cui le società primitive e tradizionali finiscono col diventare moderne società industriali. Un particolare accento viene posto su una serie di fattori: la crescente specializzazione dei ruoli sociali, cioè la divisione del lavoro e il cambiamento da lealtà e identificazioni locali o tribali di tipo particolaristico, all’identificazione con la nazione di tipo universalistico. Le teorie dello sviluppo politico sono state fortemente criticate in quanto influenzate da un pregiudizio favorevole ai valori liberal-democratici, nel senso che lo sviluppo politico dovrebbe condurre inesorabilmente in direzione di società liberal-democratiche, non spiegando nemmeno perché avvengono le trasformazioni.

Le teorie sulla costruzione della nazione sono importanti in quanto prendono in considerazione i valori all’interno dell’analisi sullo sviluppo politico, in particolare tentandone un’applicazione ai paesi del terzo mondo. Nel XIX secolo il nazionalismo europeo, che poneva l’accento sui legami etnici, linguistici, culturali e religiosi e su una comune tradizione storica, è stato una forza importante nello sviluppo degli stati europei (basti pensare all’unificazione italiana sotto Cavour e a quella tedesca sotto Bismarck). Il nazionalismo europeo ha costituito la base del concetto di stato-nazione, cioè l’idea che la nazione è il fondamento base appropriato per la società e dunque per lo stato. Gran parte del mondo si è vista imporre questo concetto europeo ma per molti stati ciò ha comportato la crescita di un senso di identità nazionale all’interno di confini in gran parte artificiali. Questo processo è stato definito come la costruzione della nazione. Sono stati adottati simboli di identità nazionale (bandiera, inno) come parte del processo di mobilitazione. Tuttavia la teoria della costruzione della nazione non dà una spiegazione convincente delle trasformazioni sociali. E’ difficile dimostrare che dove preesisteva o si era già sviluppato un forte senso di identità nazionale si sono verificate maggiori trasformazioni della società.

Le teorie della modernizzazione, come quelle sullo sviluppo politico, sono basate sul principio che il mutamento sociale sia un processo lineare che implica la trasformazione delle società tradizionali agrarie in moderne società industriali. Rostow sostiene che lo sviluppo o modernizzazione consistono in una serie di stadi. Una crescita economica significativa non avviene senza che ci sia stato un periodo di trasformazioni o prima che esso si sia verificato. Sono queste le precondizioni per il take-off. Queste trasformazioni comprendono cambiamenti nei valori (specialmente la convinzione che la crescita economica è non solo possibile, ma desiderabile), nelle istituzioni economiche (inducendo a maggiori investimenti), nello sfruttamento delle materie prime, nello sviluppo di infrastrutture di trasporto e comunicazione e di un’autorità politica efficiente e centralizzata. Organski propone quattro stadi di modernizzazione: l’unificazione primitiva (che implica la costituzione e il mantenimento di un governo politico centrale che favorisce l’unificazione economica portando al take-off), l’industrializzazione (che trasforma l’economia, conduce ad una rapida urbanizzazione, alla formazione di una nuova èlite economica e politica e al consolidamento di un’identità nazionale), il welfare e l’abbondanza (in cui ci potrebbe essere un’enorme concentrazione di potere economico e politico che minaccia l’esistenza dello stato-nazione e che può avere come risultato la sua sostituzione con blocchi di regioni o di continenti come principali forme di organizzazione politica. Huntigton ha definito lo sviluppo come la capacità di un paese di far fronte alle trasformazioni causate dalla modernizzazione, sostenendo che è necessario creare delle istituzioni capaci di controllare il processo di modernizzazione, e che in determinate circostanze tali istituzioni possono assumere la forma di regimi autoritari o

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totalitari. Apter ha adottato un approccio struttural-funzionalista cercando di inglobare i sistemi comunisti in uno dei due modelli di modernizzazione. La modernizzazione richiede tre condizioni: un sistema sociale in grado di adattarsi ai cambiamenti, strutture sociali flessibili caratterizzate da un’ampia divisione del lavoro, infine un contesto sociale capace di fornire le specializzazioni e le competenze necessarie per far fronte al progresso tecnologico. Quando vengono proposte in forma universalistica le teorie dello sviluppo e della modernizzazione peccano di etnocentrismo, basandosi in maniera eccessiva sull’esperienza degli USA e guardando al resto del mondo da un punto di vista americano.

Il principio fondamentale su cui si basa la teoria del sottosviluppo e che non si tratta di uno stadio nel processo in direzione di una società capitalistica, bensì di una condizione o di un sintomo del dominio capitalistico. Wallerstein sostiene che il mondo intero costituisce un’economia capitalistica nel senso marxista del termine e dunque si svilupperà secondo quanto previsto dalla teoria marxista. Il mondo dal suo punto di vista è diviso in tre parti, secondo una divisione mondiale del lavoro: un nucleo di società industrializzate, le società periferiche (le cui economie si basano sui prodotti del settore primario) e le società parzialmente industrializzate semi-periferiche (che sono sia sfruttatrici che sfruttate). Uno dei principali artefici della teoria della dipendenza, Dos Santos definisce la dipendenza come una situazione in cui le economie di alcuni paesi sono condizionate dallo sviluppo e dall’espansione di altre aree alle quali le prime sono soggette. Dos Santos ritiene che ci sono tre livelli di dipendenza: la dipendenza coloniale (consiste nel monopolio commerciale, della terra e della forza lavoro da parte del potere coloniale), la dipendenza finanziario-industriale (le società capitalistiche investono in materie prime e in agricoltura nelle società sottosviluppate per sostenere il proprio sviluppo industriale), la nuova dipendenza (le società sottosviluppate diventano mercati per le società capitalistiche). Tali teorie però non spiegano i rapporti economici tra paesi avanzati o metropolitani (es. USA e Canada) o tra membri più ricchi e più poveri dell’Unione Europea. La teoria della dipendenza in particolare implica un rapporto a senso unico ma non c’è dubbio che i rapporti sono più complessi.